Il pianto di Achille
Giacomo Maria Prati

Achille scoppiando in pianto sedette lontano
dai compagni, da solo, in riva al mare
Iliade, I, 349

Quando Achille ed Agamennone contendono per Briseide noi contemporanei non comprendiamo. Abituati allo scambio e all’intercambiabilità, residenti nel villaggio mondiale del commercio totale, l’ira del Pelide ci sembra isterica, esagerata, infantile. Achille che piange perché il re gli ha tolto la bella schiava ci sembra un bambino che fa i capricci per un giocattolo rotto. E perché piange lui che non piange mai di fronte alla morte e ai numerosi annunci della sua propria morte? Ma sbagliamo noi e il pianto di Achille ne rivela l’intima spiritualità e ci apre le profondità del mito e del destino. Achille è l’eroe perfetto, l’ultimo eroe in senso greco, cioè l’eroe più completo e più glorioso. Perché? In primo luogo Euripide nella sua tragedia dedicata alla sposa di Menelao (Elena, 41) ci ricorda che è il più valoroso dell’Ellade. Non “dei Greci”, ma “dell’Ellade” stessa, di cui è epifanìa. Se Heracle appare il primo eroe pan-ellenico, che vaga per tutta la Grecia e l’Asia e vince ogni prova tra le città greche e fonda i Giochi di Olimpia, l’altro eroe che riassume tutta la Grecia è certo Achille, non altri. Heracle esprime l’autocoscienza della Grecia, la sua genesi, l’aurora della grecità. Achille manifesta la maturazione dell’Ellade. Ogni identità si coglie in pienezza solo nello scontro con l’“altro”, qui con l’asiatica Troia. Heracle deve soffrire lunghe prove e peregrinazioni per conquistare una divinizzazione in cui già nasce immerso Achille, l’eroe della velocità e della facilità. Nel Pelìde eroismo e vita non si distinguono, per la prima volta. Capire Achille corrisponde a capire la Grecia. Due misteri che si rispecchiano. Achille inoltre appare il primo eroe che non abbia scissioni fra l’arte di Apollo e la danza di Dioniso. In questo Achille splende in un carisma perfettamente delfico. Irradia Apollo e Dioniso in un medesimo inaudito tempo. Se a Delfi Apollo e Dioniso non potevano coesistere ma si alternavano nella breve via meteorica del Pelìde i mondi dei due giovani dei si sovrappongono e confondono continuamente. Achille vive nei boschi tra gli animali e i centauri come Dioniso e con il tirso danza a Sciro. Achille possiede il carisma della velocità e dell’invincibilità agonica come Apollo e come il Delfico si mostra con la cetra in mano davanti alla caverna di Chirone e davanti al mare greco, sulla spiaggia di Ilio. Qual è il dio di Achille? Tutti sembra compendiarli e implicarli. Certo il marino e imperscrutabile Poseidone, il primo Zeus, che con la madre Teti condivide gli abissi liquidi. Certo Zeus nella cui luce diurna sfolgorano le armi dell’uranico e solare Achille. Ma il Pelìde reca in sé sensi anche dell’altro grande cacciatore: l’abissale e invisibile Ade. Alati i piedi del nostro guerriero e dello sposo di Persefone. Così veloce e solitario appare Achille che sembra quasi invisibile. Quando non infuria nella mischia polverosa delle battaglie si cela nella sua tenda davanti all’immenso mare. Chi lo conosce veramente? Chi lo vede veramente tanto è veloce il suo apparire? E allora ci avviciniamo al senso del pianto di Achille. Sì perché all’origine del cosmo greco nel suo ultimo racconto mitografico compare una disputa fra tre fratelli: Zeus, Poseidone e Ade. Disputa sul dominio e sulla disposizione del cosmo stesso che avviene come in un tempo ancestrale in cui la natura stava ancora stabilizzandosi, era ancora in pieno movimento. La lite viene sedata da una scelta affidata all’alea dei dadi, delle tessere, estratte a sorte dentro un elmo. Si trattò dell’elmo di Ade, che conferiva l’invisibilità? Ade estrasse il dominio degli inferi, con il suo retromondo e le ricchezze sotterranee. A Poseidone capitò il regno dei liquidi, delle acque, degli abissi marini, delle spaccature dove la terra apre all’umidità profonda. Zeus estrasse la luce diurna e il cielo. (Iliade, XV, 187-193; Apollodoro, Biblioteca Storica, I,2) A nessuno veramente toccò in sorte il dominio della terra, luogo di razzìa per tutti e tre gli dei. La terra: luogo ambiguo e intermedio dove solo riti, misteri ed eroi potevano provare a mediare fra i tre nuovi re cosmici e l’umanità. La terra: possesso fluido e fragile di sileni e ninfe, di mostri e semidei. Latente resisteva la potenza di Gea, matrice dell’orbe, e solo Nemesi, chiamata anche Ananke, sembrava poter condurre ad unità cielo e terra nel senso unitivo del Fato. Ecco la terza unicità di Achille, unicità che è duplice: eroe in quanto di madre divina ed eroe in quanto comprende il suo destino, in forma di bivio, e lo sceglie, lo accetta, lo assume. Ecco la suprema grecità che torna nell’abilità di Achille nel tagliare le carni. Ecco il gesto greco supremo: fare le parti giuste. Nemein, da cui nomos, che significa “distribuire” e da cui viene anche il senso del cantare, della sovranità, del pascolare il gregge nei campi. E’ il gesto del destino. Il gesto che Agamennone-Zeus fallisce. Nella contesa fra Agamennone, Apollo e Zeus ritorna la prima contesa fra i titani superstiti, tra i tre più forti figli di Cronos che pescano con la mano nell’unico elmo. Ma qui il gesto del Fato di “fare le parti”, e Moira significa “parte”, cade per errore di tracotanza. Ogni sacrificio chiede una sostituzione. Ma già Achille aveva ricevuto la sua parte di destino: Briseide. I gesti del Fato sono irrevocabili. Non è un caso che l’immagine associata alla divisione del mondo in tre sia quella dell’elmo, attributo di Ade, copricapo che ha un nome e che viene confezionato dai Ciclopi con pelle di cane. Attributo che Ade concederà anche a Perseo e ad Hermes, quanto il tridente di Poseidone e i fulmini di Zeus. L’elmo che cela il volto, che vale il Fato. Nel segno dell’invisibile e della morte i tre dei ordinano il cosmo quali custodi di Necessità. Non è un caso che Achille combatte sempre con l’elmo e con il suo elmo Patroclo tornerà nella mischia, scelta per tutti fatale. Non ha bisogno di elmo Achille. Ma lo indossa, come a non voler concedere agli altri il suo volto, la conoscenza del suo destino. Il Fato è donna: Nemesi, Ananke, Briseide. Il discorso si rivela molto più profondo e decisivo. Achille non piange perché gli è stato fatto un torto o perché si è innamorato di Briseide. La fanciulla è segno del suo Fato, della sua gloria. Agamennone togliendo Briseide altera il Fato, mette a rischio l’ordine sacrificale del cosmo. Alla furia di Apollo segue la simile furia di Achille. Identica l’origine: il non fare parti giuste, non seguire il gesto necessario delle Moire, che tagliano e distribuiscono. Agamennone ha ricevuto oro da Crise per Criseide, e nei nomi torna la luce accecante dell’oro. Ma non si ferma, spezza il limite, accecato dall’unicità di una fanciulla. Agamennone applica ad Achille lo stesso metro del riscatto dei prigionieri: lo scambio. Ma tutti siamo prigionieri del Fato. Rimette la mano nell’elmo, riprende la carne già tagliata, spezza l’ordine del sacrificio, che non è reversibile. La pretesa reversibilità del gesto rapace di Agamennone offende Ananke, si pone empiamente sopra il livello di Necessità, che pure Zeus deve seguire. Alla privazione del Destino scelto da Achille, per opera dell’interferenza tracotante di Agamennone, segue la privazione della recita fatale da parte di Achille. La ruota di Nemesi si ferma. La Storia si ferma in una sospensione insostenibile, tragica, funesta. Tutto sembra implodere, autodissolversi, perdere di senso in un annichilimento che non si ferma. Achille si cela nella sua tenda. In quel momento appare più potente di Zeus, simile ad Eros nella sua imprevedibilità. Sembra tornato fanciullo, nella caverna del centauro Chirone. Non c’è storia né polis in una caverna montana e in una tenda di spiaggia marina. L’eccessivamente fisso e l’eccessivamente mobile non permettono un vivere sociale, civile. Achille l’eroe selvaggio. L’eroe delle selve, dei mari, delle spiagge. Negatogli il destino scelto si sottrae alla storia e il palcoscenico vacilla e crolla. Achille il primo eroe concluso nell’esperienza del vivere il ciclo, restando in vita. Guerriero già postumo e inattuale al suo tempo. Primo guerriero odiato dai suoi e ammirato dai nemici. Per questo già universale, traboccante oltre la grecità. Non sarà il suo sepolcro ai confini dell’Asia, nell’Isola Bianca nel Mar Nero? Il pianto di Achille non è il pianto di chi soffre per aver subito un’ingiustizia. E’un pianto più profondo. E’ il pianto di chi soffre per l’incertezza di avere un destino. Senza il fato non è dato l’eroe, né la gloria. Nulla ha più gusto né profumo. L’unicità è un dono, non si sceglie. Così l’unicità di Achille nel poter scegliere, primo e unico caso, fra due destini. La colpa di Agamennone è volersi vendicare su Achille, figlio del Fato, della perdita di Criseide. Eppure ha avuto oro in cambio della fanciulla dal nome aureo, già destinata ad Apollo. Agamennone accecato dall’unicità, oltre il rito sacrificale dello scambio. Ma l’unicità non si sceglie, è data, è gioco di Nemesi. Achille che esce dalla guerra è il primo uomo che esce dalla storia, che la guarda da fuori e dall’alto, come una divinità. Il primo guerriero che sceglie di non vivere, restando in vita. Un eroismo nuovo, ignoto, quello del ritorno all’infanzia, dell’immergersi nell’ozio musico di Apollo e di Sileno. Bello quell’inno di Pindaro dove la madre Teti ottiene per il figlio il vivere eterno nell’Isola di Crono, dimora beata, insieme ad Ettore, Cadmo e Peleo (Pindaro, Olimpica II). Anche questa è Grecia: il superamento del distacco dall’avversario nel rinnovarsi del cosmo.














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