« “Un giudice, caro amico, governa l’anima con l’anima. E non è ammissibile che la sua anima sia stata educata sin dalla giovinezza tra anime malvagie e le abbia frequentate, né che sia passata attraverso ogni sorta di ingiustizia, così da arguire con acutezza le colpe altrui dalle proprie, come accade per le malattie del corpo; ma durante la sua giovinezza dev’essere rimasta inesperta e immune dalle cattive abitudini, se deve distinguere il giusto in base alla propria onestà. Per questo i giovani onesti appaiono sempliciotti e facilmente ingannabili dagli ingiusti, perché non hanno dentro di sé esempi di passioni analoghe a quelle che agitano i malvagi”.
“In effetti”, disse, “a loro capita proprio questo”.
“Ecco perché”, continuai, “il buon giudice non dev’essere un giovane, ma un vecchio che ha imparato tardi che cos’è l’ingiustizia, senza averla sentita presente nell’anima come un qualcosa di proprio, e che solo dopo un lungo periodo di tempo arriva a comprendere la sua natura di male per averla studiata negli altri come un vizio a lui estraneo, grazie alla scienza acquisita e non per esperienza personale”. »

Platone, “Repubblica”

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