Il PNRR ha, nel suo acronimo, la R di resilienza. Ma che cos’è davvero la resilienza? Perché è diventata tanto importante, nell’ordine del discorso dominante, questa parola che fino a non molti anni fa era letteralmente sconosciuta in un ambito diverso da quello suo proprio, legato ai metalli e alla loro capacità di assorbire gli urti? La resilienza in effetti occupa un ruolo centralissimo nell’ordine del discorso neoliberale: se there is no alternative e la realtà deve essere solo sopportata, senza mai poterla trasformare in nome di desideri di migliori libertà e di ulteriorità nobilitanti, ecco che l’atteggiamento richiesto al suddito ideale del nuovo ordine mondiale coincide con la supina accettazione di ciò che c’è. Non potendo mutare un ordine dichiarato intrasformabile, egli deve cambiare se stesso per rendersi conforme allo stato delle cose: detto altrimenti, se il mondo ti fa soffrire, non puoi e non devi cambiare il mondo, ma te stesso, acciocché tu possa acquisire la virtù stoica della sopportazione dell’insopportabile. Questo nell’essenziale dice la resilienza. E così si spiega anche l’alto indice di gradimento che essa incontra presso il polo dominante, che non vede l’ora di poter disporre di servi docili e resilienti: di servi cioè che, anziché intraprendere la via della rivolta e della indocilità ragionata, lavorino su se stessi per farsi adattivi, per rendersi più conformi all’esistente. Il paradigma ideale della resilienza che tanto piace al potere è quello di Paperino, che prende botte dalla mattina alla sera e che, non di meno, si rialza sempre di nuovo, con ebete euforia, senza mai mettere in discussione ciò che lo fa ininterrottamente cadere a terra. Se questo è nell’essenziale il significato della resilienza, chiaro è allora che dobbiamo respingerla per riscoprire i valori antiattivi della rivolta e delle insurrezione, della rivoluzione e della ribellione. Non Paperino, ma Spartaco deve essere il nostro modello.
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