Il paradosso, che fa da sfondo costante all’epoca del capitale liquido-finanziario, è che lo Stato non può intervenire nell’ambito bancario, ma il sistema bancario può, per parte sua, farlo nella dimensione statale, utilizzandola a proprio vantaggio e violando apertamente il monito del Contratto sociale di Rousseau: “nulla è più pericoloso rispetto all’influenza degli interessi privati negli affari pubblici” (III, 4). Tra i molteplici vizi tradizionali che il capitalismo come religione della vita quotidiana ha mutato in virtù figura anche, in posizione non marginale, l’usura, che già Marx indica come “la più antica delle forme antidiluviane del capitale”1. Così leggiamo nel terzo libro di Das Kapital, in un passaggio che sembra attagliarsi perfettamente alla condizione dell’odierno turbocapitalismo usurocratico:
“La tesaurizzazione soltanto ora diventa reale e realizza il suo sogno solo nell’usura. Ciò che al tesaurizzatore si richiede non è capitale, ma denaro in quanto denaro (Geld als Geld); ma tramite l’interesse egli trasforma questo tesoro monetario in capitale per uso suo — in un mezzo che gli permette di impadronirsi di tutto o di una parte del pluslavoro ed anche di una parte delle stesse condizioni della produzione, anche se nominalmente continuino a sussistere di fronte a lui come proprietà altrui. L’usura sembra vivere nei pori della produzione come gli dei di Epicuro vivevano negli intermundia. È tanto più difficile procurarsi denaro quanto meno la merce è la forma generale del prodotto. L’usuraio non conosce quindi nessun limite (keine Schranke) che non sia la capacità o il potere di resistenza di coloro che hanno bisogno del denaro”2.
A compiere questa mutazione dell’usura in nuova normalità del modo della produzione, nel consenso generale reso possibile dallo zelante operato degli oratores intellettuali, non sono più solo gli agenti del crimine organizzato, ma anche, in forma legale, le istituzioni finanziarie internazionali e gli Stati dei Paesi sviluppati.