Agostino di Ippona, Verbo cristiano e Logos platonico
9.13 [Nei libri dei platonici] vi trovai scritto, se non con le stesse parole, con senso assolutamente uguale e col sostegno di molte e svariate ragioni, che al principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio; egli era al principio presso Dio; tutto fu fatto per mezzo suo e senza di lui nulla fu fatto; ciò che fu fatto è vita in lui, e la vita era la luce degli uomini, e la luce riluce nelle tenebre, e le tenebre non la compresero. Poi [vi trovai scritto] che l’anima dell’uomo, sebbene renda testimonianza del lume, non è tuttavia essa il lume, ma il Verbo di Dio è il lume vero, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo; e che era in questo mondo, e il mondo fu fatto per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Che però egli venne a casa sua senza che i suoi l’accogliessero, ma a quanti lo accolsero diede il potere di divenire figli di Dio poiché credettero nel suo nome [cfr. Gv 1,1-12] , non trovai scritto in quei libri.
9.14 Così trovai scritto in quei libri che il Verbo di Dio non da carne, non da sangue, non da volontà di uomo né da volontà di carne, ma da Dio è nato; che però il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi [cfr. Gv 1-13-14] , non lo trovai scritto in quei libri. Vi scoprii, certo, sotto espressioni diverse e molteplici, che il Figlio per la conformità col Padre non giudicò un’usurpazione la sua uguaglianza con Dio, propria a lui di natura, ma il fatto che si annientò da sé, assumendo la condizione servile, rendendosi simile agli uomini e mostrandosi uomo all’aspetto; si umiliò prestando ubbidienza fino a morire, e a morire in croce, onde Dio lo innalzò dai morti e gli donò un nome che sovrasta ogni nome, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra, agli inferi, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù sta nella gloria di Dio Padre [cfr. Fil 2,6-11], non è contenuto in quei libri . Vi si trova che il tuo Figlio unigenito esiste immutabile fin da prima di ogni tempo e oltre ogni tempo, eterno con te; che le anime attingono la felicità dalla sua pienezza [cfr. Gv 1,16] e acquistano la sapienza rinnovandosi grazie alla partecipazione della sapienza in se stessa stabile; ma il fatto che morì nel tempo per i peccatori [cfr. Rm 5,6], e invece di risparmiare il tuo unico Figlio, lo hai consegnato per noi tutti [cfr. Rm 8,32], non si trova in quei libri. Infatti celasti queste verità ai sapienti e le rivelasti ai piccoli [cfr. Mt 11,25], per attrarre quanti soffrono e sono oppressi a lui, che li ristori, poiché è mite e umile di cuore [cfr. Mt 11,28] e guiderà i miti nella giustizia, insegna ai mansueti le sue vie [cfr. Sal 24,39], osservando la nostra umiltà e la nostra sofferenza, rimettendoci tutti i nostri peccati [cfr. Sal 24,18]. Ma quanti, innalzandosi sul coturno di una scienza a loro dire più sublime, non ne odono le parole: Imparate da me, poiché sono mite e umile di cuore, e troverete il riposo per le vostre anime [cfr. Mt 11,29], sebbene conoscano Dio, non lo glorificano né ringraziano come Dio, bensì si disperdono nei loro vani pensieri, e il loro cuore insipiente si ottenebra. Proclamandosi saggi, si resero stolti [cfr. Rm 1,21ss].
9.15. Perciò trovavo in quei libri anche la gloria della tua incorruttibilità, trasformata in idoli e simulacri di ogni genere foggiati a immagine dell’uomo corruttibile e degli uccelli e dei quadrupedi e dei serpenti [cfr. Rm 1,23]. Vi si può vedere il piatto egiziano, per cui Esaù perdette i privilegi della primogenitura: il popolo primogenito onorò in tua vece la testa di un quadrupede, col cuore rivolto in Egitto e la tua immagine, la sua anima, curva innanzi all’immagine di un vitello che si ciba di fieno. Trovai queste cose in quei libri, e non me ne cibai. Ti piacque, Signore, di togliere a Giacobbe l’onta della sua inferiorità, affinché il maggiore servisse al minore; chiamasti le genti alla tua eredità. Quindi io, venuto a te dalle genti, fissai il mio sguardo sull’oro che per tuo volere il popolo prediletto asportò dall’Egitto, poiché, dovunque era, era cosa tua. Dicesti agli ateniesi per bocca del tuo Apostolo che noi in te viviamo e ci muoviamo e stiamo, come dissero anche certuni fra i loro autori [cfr. At 17,28], e senza dubbio quei libri provenivano di là. Così non prestai attenzione agli idoli degli egiziani, cui sacrificavano col tuo oro coloro che trasformarono la verità di Dio in menzogna, adorarono e servirono la creatura anziché il creatore [cfr.Rm 1,25].
Confessiones, Libro VII, cap. IX, nn. 13-15, tr. it. di Carlo Carena, in “Opere di sant’Agostino”, vol. I, Citta Nuova, Roma 19936, pp. 195-199.
Agostino di Ippona, Dalle creature a Dio
VI. Che ti amo, Signore, non ho alcun dubbio; anzi ne sono certo. Con la tua parola hai toccato il mio cuore, ed io ho cominciato ad amarti; ecco che cielo, terra e tutto ciò che è in essi mi invitano dovunque ad amarti e ininterrottamente invitano tutti, affinché non abbiano scuse [cfr. Rm 1,21]. Tu sarai più largamente misericordioso verso colui del quale fosti misericordioso, userai misericordia a colui del quale avesti misericordia [cfr. Rm 9,15]: se non fosse così cielo e terra pronuncerebbero le tue lodi dinanzi ai sordi.
Ma che cosa amo amandoti? Non una bellezza corporea, né una grazia transitoria; non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi; non dolci melodie di svariate cantilene; non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi; non manna né miele; non membra invitanti ad amplessi carnali. Amando il mio Dio non amo queste cose. E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo, un amplesso, che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun luogo può ospitare, dove suona una voce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo quando amo il mio Dio. E che cos’è? L’ho chiesto alla terra, ed essa mi ha risposto: «non sono io»; e ogni cosa che si trova su di essa ha ripetuto la medesima confessione. L’ho chiesto al mare, agli abissi e ai rettili con anime viventi [cfr.Gen 1,20] e mi hanno risposto: «non siamo il tuo Dio; cerca al di sopra di noi». L’ho chiesto ai venti che soffiano, e tutta l’atmosfera con i suoi abitanti mi ha risposto: «Anassimene si inganna: io non sono Dio». L’ho chiesto al cielo, al sole, alla luna, alle stelle: «Neanche noi siamo il Dio che tu cerchi», rispondono. L’ho chiesto a tutti questi esseri che stanno attorno al mio corpo: «Parlatemi del mio Dio; poiché voi non lo siete, ditemi qualche cosa di lui». Ed essi acclamarono a gran voce: È lui che ha fatto noi [cfr. Sal 100,3]. La mia richiesta era la mia riflessione, la loro risposta era la loro bellezza. Mi rivolsi poi a me stesso e mi chiesi: «Tu chi sei?». E mi risposi: «Un uomo». Ed ecco che ho a disposizione un corpo e un’anima: esteriore l’uno interiore l’altra; a quale dei due dovrei chiedere del mio Dio? Con il corpo lo avevo già cercato in terra e in cielo, dovunque potei inviare come messaggeri i miei occhi. Meglio, dunque, con l’anima. A lei come a chi presiede e giudica riferivano tutti i messaggeri del corpo le risposte del cielo, della terra e di tutto ciò che è in essi: «Noi non siamo Dio», e: È lui che ci ha fatti. L’uomo interiore ha conosciuto queste cose grazie a quello esteriore; io le ho conosciute, io spirito, grazie ai sensi corporali. Ho chiesto del mio Dio alla massa dell’universo, ed esso mi ha risposto: «Io non sono Dio, ma è lui che mi ha fatto». Questa bellezza non appare chiara a chiunque, per quanto dotato di sensi. Perché essa non parla a tutti con la medesima forza? Gli animali, siano piccoli che grandi, la vedono, ma non possono farle domande: in essi non c’è infatti una ragione capace di giudicare i messaggi dei sensi. Gli uomini invece possono porre domande al fine di vedere l’invisibile Iddio attraverso la comprensione delle cose create [cfr. Rm 1,20], però essi vengono resi schiavi dall’amore per il creato: gli esseri schiavi non possono ergersi a giudici. Queste cose, d’altronde, rispondono solo a chi è capace di giudicare, e non cambiano la loro voce, cioè la loro bellezza, se uno vede soltanto, e l’altro vede e interroga: non appaiono, insomma, diversamente all’uno e all’altro, ma allo stesso modo; salvo però che per l’uno sono mute, per l’altro eloquenti. Sarebbe meglio dire che esse parlano a tutti, ma le comprendono solo coloro che confrontano tale voce ricevuta dall’esterno con la verità che è nel loro intimo. la verità, infatti, mi dice così: «Non è il tuo Dio la terra, il cielo e qualunque altro essere corporeo». Dice questo la natura delle cose, e ognuno può vederlo, perché si tratta di una massa che è minore nelle sue parti che nel tutto. Tu, anima, sei certo più importante del tuo corpo, te lo dico io, poiché sei tu a dare a lui la vita, e nessun corpo può fare altrettanto verso un altro corpo. Il tuo Dio, poi, è la vita della tua vita.
VII. Che cosa amo, dunque amando il mio Dio? Chi è questi che sta al di sopra della mia anima? Salirò a lui proprio mediante la mia anima, andrò oltre la forza che mi lega al corpo e mi permea di vita. Non raggiungerò il mio Dio per mezzo di essa: se così fosse lo raggiungerebbero anche il cavallo e il mulo che sono senza intelligenza [cfr. Sal 32,9] e i cui corpi vivono grazie a quella medesima forza. C’è un’altra forza, quella che da al mio corpo non solo la vita, ma anche la sensibilità, e che mi ha dato il Signore, comandando all’occhio di non udire ma di vedere, e all’orecchio di non vedere ma di udire, e così ad ognuno degli altri sensi l’attività risponde alle rispettive loro sedi e le loro mansioni: tutte queste diverse attività le compio, per mezzo loro, io, unico spirito. Ebbene, supererò anche quest’altra forza: anch’essa infatti è posseduta pure dal cavallo e dal mulo, perché anch’essi hanno i sensi corporali.
VIII. Andrò dunque oltre queste mie energie naturali, salendo passo passo fino a colui che mi ha creato, e raggiungerò così il vasto campo di azione della memoria, dove si sono gli innumerevoli tesori d’immagini d’ogni genere portate lì dalle sensazioni. Ivi è riposta pure tutta l’attività della nostra mente che aumenta, diminuisce, o comunque trasforma quanto percepiscono i sensi, e qualunque altra cosa è stata messa da parte e non è ancora stata sepolta nell’oblio. Quando mi trovo là dentro, posso chiedere che ne escano le immagini che voglio: alcune si presentano subito, altre si fanno desiderare più a lungo e pare si debbano strappare via da angoli più nascosti; alcune prorompono a frotte e, mentre ne vorrei altre e continuo a cercare, balzano in mezzo come per dire: «Non siamo forse noi che tu cerchi?». Io le scaccio dalla memoria, e allora emerge quello che volevo e si fa avanti uscendo dal buio; altre si aggiungono snodandosi facili e nell’ordine in cui le vado cercando, l’una dopo l’altra per ritirarsi poi là dove stanno nascoste e da dove riappariranno appena io lo vorrò. Tutto ciò accade quando racconto qualche cosa a memoria.
Là si trovano conservate ciascuna secondo il proprio genere, tutte le cose che vi furono immesse attraverso le varie vie di accesso: così la luce e tutti i colori e le forme dei corpi, che vi entrarono attraverso gli occhi; i diversi tipi di suoni attraverso gli orecchi, i vari odori per la via delle nari, i sapori attraverso la bocca, e, mediante la sensibilità di tutto il corpo, ciò che, sia fuori che dentro il corpo stesso, vi è di duro, di molle, di caldo, di freddo, di liscio, di aspro, di pesante, di leggero. La memoria immagazzina tutte queste cose nei suoi ampi recessi e nelle sue nascoste, misteriose sinuosità, per ripensarle e richiamarle al momento opportuno. Vi entrano tutte passando ognuna per il proprio accesso e vengono messe in serbo: in realtà non sono le cose in se stesse ad entrare, ma le immagini delle cose colte coi sensi. E se ne stanno lì a disposizione del pensiero che voglia richiamarle, Chi mai sa spiegare com’esse si siano formate, anche se è chiaro da quali sensi vengono colte e riposte? Anche mentre io sono al buio e nel silenzio, traggo dalla memoria, se voglio, i colori, e distinguo tra bianco e nero e ogni altro colore che mi pare; e non accade che le immagini a cui penso e che ho attinto per mezzo degli occhi vengano ad essere disturbate da suoni, quantunque anch’essi presenti e come riposti in un luogo appartato. Se mi garba di chiamare pure loro, si fanno subito avanti, mentre io, senza aprire bocca, canto in silenzio finché voglio: e le immagini dei colori presenti anch’esse nella memoria, non interferiscono né mi disturbano mentre sto adoperando quest’altro tesoro penetrato dalle orecchie. Così tutte le altre cose che vengono introdotte e messe da parte attraverso i sensi, le posso ricordare quanto mi piace: distinguo il profumo dei gigli da quello delle viole senza odorare nulla, e, senza nulla gustare né toccare, ma soltanto ricordando, preferisco il miele al mosto cotto, il dolce all’aspro. Compio queste azioni al mio interno, nella grande stanza dove abita la memoria. Ivi sono a mia disposizione cielo, terra e mare con tutto ciò che ho dimenticato. Ivi ritrovo anche me stesso e ricordo quello che ho fatto, quando, dove e con quali sentimenti l’ho fatto. Ivi è ogni cosa che io ricordo o perché sperimentata personalmente o perché creduta dal racconto di altri. Sempre da questa ricchezza di oggetti deriva la possibilità di confrontare molte altre realtà, o sperimentare direttamente o credute sulla base dell’esperienza, e posso ricollegarle con eventi passati per immaginare da qui azioni, fatti e speranze future: su tutto ciò rifletto sempre come a cose presenti. «Farò questo, farò quello», dico fra me, nell’immenso vano del mio animo pieno di così tante immagini di cose: e di fatto segue ciò che dico: «Oh, se avvenisse questo, oppure quello! Dio ci guardi da questo o da quello!», e mentre dico così fra me, ecco uscire dal medesimo scrigno della memoria le immagini di tutto ciò che nomino: se esse non fossero là, non potrei nominarne neanche una.
Grande, veramente grande è questa facoltà della memoria, o mio Dio: è un ampio, sterminato sacrario. Chi può toccarne il fondo? E questa forza appartiene al mio animo, alla mia natura. Il fatto è che neppur io comprendo a pieno ciò che sono. Ma allora l’animo è forse incapace di comprendere se stesso, dove si trova e che cosa è suo? È dunque fuori e non dentro di sé? Come mai non comprende? Sono molto meravigliato di questo, mi prende un grande stupore. Gli uomini vanno ad ammirare le cime dei monti, le onde del mare, l’ampio scorrere dei fiumi, l’oceano, i moti degli astri e poi passano inosservati a se stessi. Non si meravigliano del fatto che, mentre parlo di queste cose, non le vedo con gli occhi; ma non potrei parlarne se non vedessi nella mia memoria in tutta la loro immensità come se li avessi dinanzi nella realtà i monti, le onde, i fiumi, gli astri che ho visto personalmente e l’oceano a cui credo per sentito dire. Eppure quando li ho visti con gli occhi non è che li abbia fatti entrare in me sostanzialmente, ma solo per immagini; e so attraverso quale dei sensi corporali ciascuna mi fu impressa dentro. […]
XXIV. Quanto ho spaziato nella mia memoria per cercarti, o mio Signore, non ti ho trovato fuori di essa. Infatti non ho trovato nulla di te che non ricordassi, da quando ti ho conosciuto; poiché da quando ti ho conosciuto non ti ho più dimenticato. Dove ho trovato la verità, lì ho trovato il mio Dio, la Verità stessa, di cui non mi sono dimenticato dal giorno in cui l’ho conosciuta. Da allora tu dimori nella mia memoria, e lì io ti trovo quando ti ricordo e gioisco in te. Questa è la santa gioia che tu mi hai misericordiosamente donato volgendo il tuo sguardo alla mia povertà.
XXV. Ma dove dimori tu nella mia memoria, Signore, dove? Quale stanza ti sei costruito, quale santuario ti sei eretto? hai fatto alla mia memoria l’onore di abitare in essa, ma in quale sua parte? Questo sto cercando. Nel ricordarmi di te ho superato quelle parti della mia memoria che anche le bestie posseggono, perché lì, tra le immagini delle cose corporee, non ti trovano. Sono giunto a quelle parti dove ho riposto i sentimenti dell’animo, e nemmeno lì ti ho trovato; sono entrato proprio dove nella memoria ha sede l’anima mia (essa infatti si ricorda anche di sé), ma tu non c’eri: come non sei immagine corporea, né uno di quei sentimenti che i viventi provano quando gioiscono, si rattristano, desiderano, temono, ricordano, dimenticano, ecc., così non sei nemmeno l’anima perché sei il Dio dell’anima. E mentre tutte queste cose sono mutevoli, tu resti immutabile al di sopra di tutto; e ti sei degnato di abitare nella mia memoria, da quando ti ho conosciuto. Ma perché cercare in quale parte di essa tu abiti, quasi che vi fossero varie parti? È certo che tu vi abiti, poiché mi ricordo di te dal giorno in cui ti conobbi; ed è lì che io ti ritrovo quando mi ricordo di te.
XXVI. Ma dove ti ho trovato, per poterti conoscere? Tu non eri nella mia memoria già prima che ti conoscessi; e allora dove ti ho trovato per conoscerti, se non in te, al di sopra di me? Tu non hai un luogo: ci allontaniamo, torniamo e non hai un luogo. Tu, Verità, siedi alto su tutti coloro che ti consultano, e rispondi contemporaneamente a tutti, anche se le domande sono diverse. Tu rispondi chiaramente, ma non tutti capiscono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre si sente rispondere come vorrebbe. Servo fedele non è tanto chi bada a sentirsi dire da te ciò che vorrebbe, ma piuttosto chi si sforza di volere quello che da te si è sentito dire.
XXVII. Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e tanto nuova; tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me, e io stavo fuori, ti cercavo qui, gettandomi deforme, sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le creature che, se non esistessero in te, non esisterebbero per niente. Tu mi hai chiamato, il tuo grido ha vinto la mia sordità; hai brillato e la tua luce ha vinto la mia cecità; hai diffuso il tuo profumo, e io l’ho respirato, ed ora anelo a te; ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te; mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace.
Confessiones, Libro X, capp. VI-VIII e XXIV-XXVII, tr. it. di A. Landi, Paoline, Milano 1987, pp. 282-288 e 304-306.
Agostino di Ippona, Il bene del prossimo e lo studio
Non importa certamente nulla alla città celeste con quale contegno e tenore di vita, se non è contro i divini comandamenti, si professi la fede con cui si giunge a Dio; quindi neanche ai filosofi, quando diventano cristiani, impone di mutare il contegno e modo di vivere, se non ostacolano la religione, ma di mutare solamente le false dottrine. Quindi non si preoccupa affatto di quella caratteristica che Varrone ha desunto dai cinici, se non induce a un comportamento contro la decenza e la temperanza.
Riguardo poi ai tre tipi di vita: dedito agli studi, attivo e misto, sebbene, salva la fede, si possa in ognuno di essi trascorrere la vita e giungere al premio eterno, importa tuttavia che cosa si raggiunga nella ricerca della verità e che cosa s’impegni per dovere di carità. Così non si deve essere dediti allo studio al punto che non si pensi al bene del prossimo, né così attivi che non si attui la conoscenza metafisica di Dio.
Nello studio non deve allettare l’inetta assenza d’impegni, ma la ricerca e il raggiungimento della verità, in maniera che si abbia un progresso e non si rifiuti all’altro quel che si è raggiunto.
Nella vita attiva non si devono amare le dignità in questa vita o il potere, poiché tutto è vanità sotto il sole, ma l’attività stessa che si esercita con la dignità o potere, se si esercita con onestà e vantaggio, cioè affinché contribuisca a quel benessere dei sudditi che è secondo Dio. […]
Ha detto perciò l’Apostolo: Chi aspira all’episcopato aspira a un nobile lavoro. Volle spiegare che cos’è l’episcopato perché è denominazione di un lavoro e non di una dignità. La parola è greca e se ne ha etimologicamente il significato.
Infatti chi è preposto sovrintende a coloro ai quali è preposto perché ne ha la cura. Σχοπος appunto significa essere intento, quindi, se si vuole, επισχοπειν si può tradurre “soprintendere”, affinché capisca che non è vescovo chi si illude di avere il comando senza giovare.
Perciò non ci si distoglie dall’attitudine di conoscere la verità perché è attitudine pertinente a un lodevole impegno nello studio. Al contrario, non conviene aspirare a una carica superiore senza la quale non può essere governato uno Stato, sebbene in termini di amministrazione sia governato come conviene. Pertanto l’amore della verità cerca un religioso disimpegno, l’obbligo della carità accetta un onesto impegno.
E se questo fardello non viene imposto, si deve attendere e ricercare e intuire la verità, e se viene imposto, si deve accettarlo per obbligo di carità, ma anche in questo caso non si deve abbandonare del tutto il diletto della verità, affinché non venga a cessare quell’attrattiva e non opprima questa obbligazione.
Agostino, “La città di Dio”
Agostino di Ippona, Dalle Scritture la vera luce
A paragone degli infedeli, noi cristiani siamo ormai luce. Perciò dice l’Apostolo: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore; comportatevi perciò come i figli della luce” (Ef 5, 8). E altrove disse: “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno” (Rm 13, 12-13). Ma poiché, in confronto di quella luce alla quale stiamo per giungere, anche il giorno in cui ci troviamo è quasi notte, ascoltiamo l’apostolo Pietro. Egli ci dice che a Cristo Signore dalla divina maestà fu rivolta questa parola: “Tu sei il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Questa voce, prosegue, noi l’abbiamo udita scendere dal cielo, mentre eravamo con lui sul santo monte” (2 Pt 1, 17-18). Noi però non c’eravamo sul monte e non abbiamo udito questa voce scendere dal cielo e perciò lo stesso Pietro soggiunge: Noi abbiamo una conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino non si levi nei vostri cuori (cfr. 2 Pt 1, 19). Quando dunque verrà nostro Signore Gesù Cristo e, come dice l’apostolo Paolo, “metterà in luce i segreti delle tenebre, e manifesterà le intenzioni dei cuori: allora ciascuno avrà la sua lode da Dio” (1 Cor 4, 5). Allora, essendo un tal giorno così luminoso, non saranno più necessarie le lucerne. Non ci verrà più letto il profeta, non si aprirà più il libro dell’Apostolo; non andremo più a cercare la testimonianza di Giovanni, non avremo più bisogno del vangelo stesso. Saranno perciò eliminate tutte le Scritture, che nella notte di questo secolo venivano accese per noi come lucerne, perché non restassimo nelle tenebre. Eliminate tutte queste cose, giacché non avremo più bisogno della loro luce, e venuti meno anche gli stessi uomini di Dio, che ne furono i ministri, perché anch’essi vedranno con noi quella luce di verità in tutta la sua chiarezza, messi da parte insomma tutti questi mezzi sussidiari, che cosa vedremo? Di che cosa si pascerà la nostra mente? Di che cosa si delizierà la nostra vista? Da dove verrà quella gioia, che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo? (cfr. 1 Cor 2, 9). Che cosa vedremo? Vi scongiuro, amate con me, correte con me saldi nella fede: aneliamo alla patria del cielo, sospiriamo alla patria di lassù; consideriamoci quali semplici pellegrini quaggiù. Che vedremo allora? Ce lo dica ora il vangelo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1, 1). Verrai alla sorgente, da cui ti sono giunte poche stille di rugiada. Vedrai palesemente quella luce, di cui solo un raggio, per vie indirette e oblique, ha raggiunto il tuo cuore, ancora avvolto dalle tenebre e che ha ancora bisogno di purificazione. Allora potrai vederla quella luce e sostenere il fulgore. “Carissimi, dice lo stesso san Giovanni, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è ” (1 Gv 3, 2). Mi accorgo che i vostri affetti si levano con me verso l’alto; ma “un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri” (Sap. 9, 15). Ecco che io sto per deporre questo libro e voi per tornarvene ciascuno a casa sua. Ci siamo trovati assai bene sotto questa luce comune, ne abbiamo davvero gioito, ne abbiamo davvero esultato: ma, mentre ci separiamo gli uni dagli altri, badiamo bene a non allontanarci da lui.
Agostino di Ippona, Cristo non ti proibì di fare il soldato
Non credere che non possa piacere a Dio nessuno il quale faccia il soldato tra le armi destinate alla guerra. Era soldato anche quel centurione di cui il Signore disse: “In verità vi dico che non ho trovato tanta fede in Israele” (Mt 8,8-10). Era soldato anche quel Cornelio al quale l’angelo rivolse le seguenti parole: “Cornelio, gradite sono state le tue elemosine ed esaudite le tue preghiere” (At 10,1). Erano soldati anche quelli ch’erano andati a ricevere il battesimo da Giovanni (cf. Lc 3,12). Quei soldati gli avevano chiesto che cosa dovessero fare ed egli rispose: “Non fate vessazioni ad alcuno, non fate false denunce ed accontentatevi della vostra paga” (Lc 3,14). Egli dunque non proibì loro di fare il soldato sotto le armi, dal momento che raccomandò loro di accontentarsi della loro paga.
Quando perciò indossi le armi per combattere, pensa anzitutto che la tua stessa vigoria fisica è un dono di Dio; così facendo non ti passerà neppure per la mente di abusare d’un dono di Dio contro di lui. La parola data, infatti, si deve mantenere anche verso il nemico contro il quale si fa guerra; quanto più dev’essere mantenuta verso l’amico per il quale si combatte! La pace deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace! Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi. “Beati i pacificatori” – dice il Signore – “perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Ora, se la pace umana è tanto dolce a causa della salvezza temporale dei mortali, quanto più dolce è la pace divina, a causa dell’eterna salvezza degli angeli! Sia pertanto la necessità e non la volontà il motivo per togliere di mezzo il nemico che combatte. Allo stesso modo che si usa la violenza con chi si ribella e resiste, così deve usarsi misericordia con chi è ormai vinto o prigioniero, soprattutto se non c’è da temere, nei suoi riguardi, che turbi la pace.
Agostino di Ippona, In Paradiso non ci saranno più i Vangeli
A paragone degli infedeli, noi cristiani siamo ormai luce. Perciò dice l’Apostolo: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore; comportatevi perciò come i figli della luce” (Ef 5, 8). E altrove disse: “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno” (Rm 13, 12-13). Ma poiché, in confronto di quella luce alla quale stiamo per giungere, anche il giorno in cui ci troviamo è quasi notte, ascoltiamo l’apostolo Pietro. Egli ci dice che a Cristo Signore dalla divina maestà fu rivolta questa parola: “Tu sei il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Questa voce, prosegue, noi l’abbiamo udita scendere dal cielo, mentre eravamo con lui sul santo monte” (2 Pt 1, 17-18). Noi però non c’eravamo sul monte e non abbiamo udito questa voce scendere dal cielo e perciò lo stesso Pietro soggiunge: Noi abbiamo una conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino non si levi nei vostri cuori (cfr. 2 Pt 1, 19). Quando dunque verrà nostro Signore Gesù Cristo e, come dice l’apostolo Paolo, “metterà in luce i segreti delle tenebre, e manifesterà le intenzioni dei cuori: allora ciascuno avrà la sua lode da Dio” (1 Cor 4, 5). Allora, essendo un tal giorno così luminoso, non saranno più necessarie le lucerne. Non ci verrà più letto il profeta, non si aprirà più il libro dell’Apostolo; non andremo più a cercare la testimonianza di Giovanni, non avremo più bisogno del vangelo stesso. Saranno perciò eliminate tutte le Scritture, che nella notte di questo secolo venivano accese per noi come lucerne, perché non restassimo nelle tenebre. Eliminate tutte queste cose, giacché non avremo più bisogno della loro luce, e venuti meno anche gli stessi uomini di Dio, che ne furono i ministri, perché anch’essi vedranno con noi quella luce di verità in tutta la sua chiarezza, messi da parte insomma tutti questi mezzi sussidiari, che cosa vedremo? Di che cosa si pascerà la nostra mente? Di che cosa si delizierà la nostra vista? Da dove verrà quella gioia, che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo? (cfr. 1 Cor 2, 9). Che cosa vedremo? Vi scongiuro, amate con me, correte con me saldi nella fede: aneliamo alla patria del cielo, sospiriamo alla patria di lassù; consideriamoci quali semplici pellegrini quaggiù. Che vedremo allora? Ce lo dica ora il vangelo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1, 1). Verrai alla sorgente, da cui ti sono giunte poche stille di rugiada. Vedrai palesemente quella luce, di cui solo un raggio, per vie indirette e oblique, ha raggiunto il tuo cuore, ancora avvolto dalle tenebre e che ha ancora bisogno di purificazione. Allora potrai vederla quella luce e sostenere il fulgore. “Carissimi, dice lo stesso san Giovanni, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3, 2). Mi accorgo che i vostri affetti si levano con me verso l’alto; ma “un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri” (Sap. 9, 15). Ecco che io sto per deporre questo libro e voi per tornarvene ciascuno a casa sua. Ci siamo trovati assai bene sotto questa luce comune, ne abbiamo davvero gioito, ne abbiamo davvero esultato: ma, mentre ci separiamo gli uni dagli altri, badiamo bene a non allontanarci da lui.
Agostino di Ippona, Amare il prossimo
Il Signore Gesù afferma che dà un nuovo comandamento ai suoi discepoli, cioè che si amino reciprocamente: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Ma questo comandamento non esisteva già nell’antica legge del Signore, che prescrive: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”? (Lv 19, 18). Perché allora il Signore dice nuovo un comandamento che sembra essere tanto antico? E’ forse un comandamento nuovo perché ci spoglia dell’uomo vecchio per rivestirci del nuovo? Certo. Rende nuovo chi gli dà ascolto o meglio chi gli si mostra obbediente. Ma l’amore che rigenera non è quello puramente umano. E’ quello che il Signore contraddistingue e qualifica con le parole: “Come io vi ho amati” (Gv 13, 34). Questo è l’amore che ci rinnova, perché diventiamo uomini nuovi, eredi della nuova alleanza, cantori di un nuovo cantico. Quest’amore, fratelli carissimi, ha rinnovato gli antichi giusti, i patriarchi e i profeti, come in seguito ha rinnovato gli apostoli. Quest’amore ora rinnova anche tutti i popoli, e di tutto il genere umano, sparso sulla terra, forma un popolo nuovo, corpo della nuova Sposa dell’unigenito Figlio di Dio, della quale si parla nel Cantico dei cantici: Chi è colei che si alza splendente di candore? (cfr. Ct 8, 5). Certo splendente di candore perché è rinnovata. Da chi se non dal nuovo comandamento? Per questo i membri sono solleciti a vicenda; e se un membro soffre, con lui tutti soffrono, e se uno è onorato, tutti gioiscono con lui (cfr. 1 Cor 12, 25-26). Ascoltano e mettono in pratica quanto insegna il Signore: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13, 34), ma non come si amano coloro che seducono, né come si amano gli uomini per il solo fatto che sono uomini. Ma come si amano coloro che sono dei e figli dell’Altissimo, per essere fratelli dell’unico Figlio suo. Amandosi a vicenda di quell’amore con il quale egli stesso ha amato gli uomini, suoi fratelli, per poterli guidare là dove il desiderio sarà saziato di beni (cfr. Salmo 102, 5). Il desiderio sarà pienamente appagato, quando Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 28). Questo è l’amore che ci dona colui che ha raccomandato: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). A questo fine quindi ci ha amati, perché anche noi ci amiamo a vicenda. Ci amava e perciò ha voluto ci trovassimo legati di reciproco amore, perché fossimo il Corpo del supremo Capo e membra strette da un così dolce vincolo.
Agostino di Ippona, Siamo tutti fratelli
Fratelli, vi esortiamo ardentemente a questa carità, non soltanto verso i vostri compagni di fede, ma anche verso quelli che si trovano al di fuori, siano essi pagani che ancora non credono in Cristo, oppure siano divisi da noi, perché, mentre riconoscono con noi lo stesso capo, sono però separati dal corpo.
Fratelli, proviamo dolore per essi, come per nostri fratelli. Cesseranno di essere nostri fratelli, quando non diranno più “Padre nostro” (Mt 6, 9). Il Profeta ha detto ad alcuni: “A coloro che vi dicono: Non siete nostri fratelli, rispondete: Siete nostri fratelli” (Is 66, 5 secondo i LXX). Riflettete di chi abbia potuto usare questa espressione: forse dei pagani? No, perché secondo il linguaggio scritturistico ed ecclesiastico non li chiamiamo fratelli. Forse dei giudei che non hanno creduto in Cristo?
Leggete l’Apostolo e noterete che quando egli dice “fratelli” senza alcuna aggiunta, vuol intendere i cristiani: “Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello?” (Rm 14, 10). E in un altro passo scrive: “Siete voi che commettete ingiustizia e rubate, e questo ai fratelli!” (1 Cor 6, 8). Perciò costoro, che dicono: “Non siete nostri fratelli”, ci chiamano pagani. Ecco perché ci vogliono ribattezzare, affermando che noi non possediamo ciò che essi danno. Ne viene di conseguenza il loro errore, di negare cioè che noi siamo loro fratelli.
Ma per qual motivo il profeta ci ha detto: “Voi dite loro: siete nostri fratelli”, se non perché riconosciamo in essi ciò che da loro non viene riconosciuto in noi? Essi quindi, non riconoscendo il nostro battesimo, dicono che noi non siamo loro fratelli; noi invece, non esigendo di nuovo in loro il battesimo, ma riconoscendo il nostro, diciamo loro: “Siete nostri fratelli”. Dicano pure essi: “Perché ci cercate, perché ci volete?”. Noi risponderemo: “Siete nostri fratelli”.
Ci dicano: “Andatevene da noi, non abbiamo niente a che fare con voi”. Ebbene, noi invece abbiamo assolutamente parte con voi: confessiamo l’unico Cristo, dobbiamo essere in un solo corpo, sotto un unico Capo.
Perciò vi scongiuriamo, fratelli, per le stesse viscere della carità, dal cui latte siamo nutriti, dal cui pane ci fortificheremo, per Cristo nostro Signore, per la sua mansuetudine vi scongiuriamo. È tempo che usiamo una grande carità verso di loro, una infinita misericordia nel supplicare Dio per loro perché conceda finalmente ad essi idee e sentimenti di saggezza per ravvedersi e capire che non hanno assolutamente nessun argomento da opporre alla verità.
Ad essi è rimasta solo la debolezza dell’animosità, la quale tanto più è inferma quanto più crede di abbondare in forze. Vi scongiuriamo, dicevo, per i deboli, per i sapienti secondo la carne, per gli uomini rozzi e materiali, per i nostri fratelli che celebrano gli stessi sacramenti anche se non con noi, ma tuttavia gli stessi; per i nostri fratelli che rispondono un unico Amen come noi, anche se non con noi. Esprimete a Dio la vostra profonda carità per loro.
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