Nature

ALTRI BRANI DI ARISTOTELE

Aristotele, Il bene come scopo supremo
Si ammette generalmente che ogni tecnica praticata metodicamente, e, ugualmente, ogni azione realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è «ciò cui ogni cosa tende». Ma tra i fini c’è un’evidente differenza: alcuni infatti sono attività, altri sono opere che da esse derivano. Quando ci sono dei fini al di là delle azioni, le opere sono per natura di maggior valore delle attività. E poiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche i fini: infatti, mentre della medicina il fine è la salute, dell’arte di costruire navi il fine è la nave, della strategia la vittoria, dell’economia la ricchezza. Tutte le attività di questo tipo sono subordinate ad un’unica, determinata capacità: come la fabbricazione delle briglie e di tutti gli altri strumenti che servono per i cavalli è subordinata all’equitazione, e quest’ultima e ogni azione militare sono subordinate alla strategia, così allo stesso modo, altre attività sono subordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività architettoniche sono da anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di queste ultime infatti sono perseguiti in vista di quei primi. E non c’è alcuna differenza se i fini delle azioni sono le attività in sé, oppure qualche altra cosa al di là di esse, come nel caso delle scienze suddette.
Aristotele, “Etica a Nicomaco”

Aristotele, Il bene per l’uomo come scopo della politica
Orbene, se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per sé stesso, mentre vogliamo tutti gli altri in funzione di quello, e se noi non scegliamo ogni cosa in vista di un’altra (così infatti si procederebbe all’infinito, cosicché la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità), è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo. E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un grande peso, e che noi, se, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado di raggiungere ciò che dobbiamo? Se è così, bisogna cercare di determinare, almeno in abbozzo, che cosa mai esso sia e di quale delle scienze o delle capacità sia l’oggetto. Si ammetterà che appartiene alla scienza più importante, cioè a quella che è architettonica in massimo grado. Tale è, manifestamente, la politica. Infatti, è questa che stabilisce quali scienze è necessario coltivare nelle città, e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto; e vediamo che anche le più apprezzate capacità, come, per esempio, la strategia, l’economia, la retorica, sono subordinate ad essa. E poiché è essa che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo. Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città. La nostra ricerca mira appunto a questo, dal momento che è una ricerca «politica».
Politica

Aristotele, Limiti e metodo della scienza politica
La trattazione sarà adeguata, se avrà tutta la chiarezza compatibile con la materia che ne è l’oggetto: non bisogna infatti ricercare la medesima precisione in tutte le opere di pensiero, così come non si deve ricercarla in tutte le opere manuali. Il moralmente bello e il giusto, su cui verte la politica, presentano tante differenze e fluttuazioni, che è diffusa l’opinione che essi esistano solo per convenzione, e non per natura. Una tale fluttuazione hanno anche i beni, per il fatto che per molta gente essi vengono ad essere causa di danno: infatti, è già capitato che alcuni siano stati rovinati dalla ricchezza, altri dal coraggio. Bisogna contentarsi, quando si parla di tali argomenti con tali premesse, di mostrare la verità in maniera grossolana e approssimativa, e, quando si parla di cose solo per lo più costanti e si parte da premesse dello stesso genere, di trarne conclusioni dello stesso tipo. Allo stesso modo, quindi, è necessario che sia accolto ciascuno dei concetti qui espressi: è proprio dell’uomo colto, infatti, richiedere in ciascun campo tanta precisione quanta ne permette la natura dell’oggetto, giacché è manifesto che sarebbe pressappoco la stessa cosa accettare che un matematico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiedere dimostrazioni da un oratore. Ciascuno giudica bene ciò che conosce, e solo di questo è buon giudice. Dunque, in ciascun campo giudica adeguatamente chi ha una preparazione specifica, ma è buon giudice in generale chi ha una preparazione globale. Perciò il giovane non è uditore adatto di una trattazione politica, giacché egli non ha esperienza delle azioni concretamente vissute, mentre è da queste che partono ed è su queste che vertono i presenti ragionamenti. Inoltre, essendo incline alle passioni, egli ascolterà invano, cioè senza trarne giovamento, poiché il fine qui non è la conoscenza ma l’azione. Non fa alcuna differenza se egli è giovane per età o simile ad un giovane per carattere: la insufficienza non deriva dal tempo, ma dal vivere assecondando la passione e dal lasciarsi trascinare da qualsiasi tipo di attrazione. Per uomini simili la conoscenza risulta inutile, come per gli incontinenti; per coloro invece che configurano razionalmente i propri desideri e le proprie azioni, la conoscenza di queste cose potrà essere ricca di vantaggi. Si consideri come introduzione ciò che abbiamo detto sull’uditore, sul come deve essere accolto ciò che diremo e su ciò che ci proponiamo di dire.
Politica

Aristotele, La politica mira alla felicità
Riprendendo il discorso, poiché ogni conoscenza ed ogni scelta aspirano ad un bene, diciamo ora che cos’è, secondo noi, ciò cui tende la politica, cioè qual è il più alto di tutti i beni raggiungibili mediante l’azione. Orbene, quanto al nome la maggioranza degli uomini è pressoché d’accordo: sia la massa sia le persone distinte lo chiamano «felicità», e ritengono che «viver bene» e «riuscire» esprimano la stessa cosa che «essere felici». Ma su che cosa sia la felicità sono in disaccordo, e la massa non la definisce allo stesso modo dei sapienti. Infatti, alcuni pensano che sia qualcosa di visibile e appariscente, come piacere o ricchezza o onore, altri altra cosa; anzi spesso è il medesimo uomo che l’intende diversamente: quando è ammalato, infatti, l’intende come salute; come ricchezza quando si trova povero. Ma coloro che sono consapevoli della propria ignoranza ammirano quelli che fanno discorsi elevati ed a loro superiori. Alcuni, poi, ritengono che oltre a questi molteplici beni ne esista un altro, il Bene in sé, che è pure la causa per cui tutti questi beni sono tali. Orbene, esaminare tutte le opinioni sarebbe, certo, piuttosto inutile; sarà sufficiente esaminare quelle prevalenti o quelle che comunemente si ritiene che presentino qualche particolare aporia. E non ci sfugga che c’è differenza tra i ragionamenti che partono dai principi e quelli che ad essi conducono. In effetti, anche Platone faceva bene a porre questa questione e a cercar di capire se la strada parte dai principi o ad essi conduce, come nello stadio se il percorso va dai giudici di gara fino alla meta, oppure viceversa. Bisogna infatti cominciare da ciò che è noto. Ma «noto» si dice in due sensi: ciò che è noto a noi e ciò che è noto in senso assoluto. Orbene, senza dubbio, noi dobbiamo cominciare da ciò che è noto a noi. Perciò occorre che sia stato rettamente educato, mediante adeguate abitudini, colui che intende ascoltare con profitto lezioni sul moralmente bello e sul giusto, cioè, in breve, sull’oggetto della politica. Infatti, il punto di partenza è il dato di fatto, e, se questo è messo in luce con sufficiente chiarezza, non ci sarà alcun bisogno del perché: chi è moralmente educato possiede i principi o li può afferrare facilmente. Ma chi non li possiede, né può afferrarli, ascolti le parole di Esiodo: “L’uomo assolutamente migliore è colui che tutto pensa da sé; buono è pure quello che presta fede a chi ben lo consiglia: ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altro sa accogliere nel suo spirito, è un buon a nulla”.
Politica

Aristotele, I tre tipi di vita
Ma riprendiamo dal punto in cui abbiamo iniziato la digressione. Infatti, si pensa, non a torto, che gli uomini ricavino dal loro modo di vivere la loro concezione del bene e della felicità. Gli uomini della massa, i più rozzi, l’identificano con il piacere e per questo amano la vita di godimento. Sono tre, infatti, i principali tipi di vita: quello or ora menzionato, la vita politica, e, terzo, la vita contemplativa. Orbene, gli uomini della massa si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie, e pur capita che se ne parli per il fatto che molti individui altolocati hanno le stesse passioni di Sardanapalo. Le persone distinte e predisposte all’azione pongono il bene nell’onore: questo infatti, più o meno, è il fine della vita politica. Ma questo è evidentemente qualcosa di troppo superficiale rispetto a ciò che stiamo cercando: si riconosce infatti che esso stia più in chi onora che in chi è onorato, mentre il bene, lo presentiamo, è qualcosa di intimamente proprio e di inalienabile. Inoltre, sembra che gli uomini aspirino all’onore per poter credere di essere essi stessi buoni: di fatto, cercano di essere onorati da uomini di senno, e da uomini da cui sono conosciuti, e in grazia della virtù: è dunque evidente che, almeno per loro, la virtù è superiore; e si farebbe presto a pensare che è piuttosto la virtù il fine della vita politica. Ma anch’essa è troppo imperfetta: si ammette, infatti, che sia possibile che chi possiede la virtù si trovi in stato di sonno o di inattività per tutta la vita, e che per giunta patisca i più grandi mali e le più grandi disgrazie: ma nessuno chiamerebbe felice uno che vivesse in questo modo, se non per difendere ad ogni costo la propria tesi. E su questo argomento basta: se ne è parlato abbastanza nelle trattazioni correnti. Il terzo tipo di vita è quello contemplativo, sul quale svolgeremo la nostra indagine in seguito. La vita dedicata alla ricerca del guadagno, poi, è di un genere contro natura, ed è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa, infatti, ha valore solo in quanto «utile», cioè in funzione di altro.
Perciò sarà meglio considerare come beni quelli menzionati prima, giacché sono amati per sé stessi. Ma è manifesto che non sono fini ultimi neppure quelli: per la verità, molte argomentazioni sono già state diffuse contro di loro. Lasciamo perdere, dunque, questi fini.
Etica a Nicomaco

Aristotele, Critica del bene di Platone
Forse è meglio fare oggetto d’indagine il bene universale e discutere a fondo quale significato abbia, anche se tale ricerca è sgradevole per il fatto che sono amici nostri gli uomini che hanno introdotto la dottrina delle Idee. Ma si può certamente ritenere più opportuno, anzi doveroso, almeno per la salvaguardia della verità, lasciar perdere i sentimenti personali, soprattutto quando si è filosofi: infatti, pur essendoci cari entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità. (1) Coloro che hanno introdotto questa dottrina non ponevano Idee nelle cose in cui ponevano il rapporto di successione, ragion per cui non costruirono un’Idea neppure dei numeri. Ma il termine «bene» si usa sia nel senso della sostanza, sia in quello della qualità, sia in quello della relazione, e ciò che è per sé, cioè la sostanza, è per natura anteriore a ciò che è relativo (infatti questo è ritenuto accessorio e accidentale rispetto all’essere per sé); cosicché non ci potrà essere alcuna «Idea» comune a queste categorie. (2) Inoltre, poiché «bene» ha tanti significati quanti ne ha «essere» (infatti, si predica nella categoria della sostanza, come, per esempio, Dio e intelletto; in quella della qualità: le virtù; in quella della quantità: la misura; in quella della relazione: l’utile; in quella del tempo: il momento opportuno; in quella del luogo: l’ambiente adatto; e così via), è chiaro che non può essere un che di comune, universale ed uno: non sarebbe, infatti, predicabile in tutte le categorie, ma solo in una. (3) Inoltre, poiché di ciò che è conforme ad una sola Idea una sola è anche la scienza, anche di tutti i beni vi dovrebbe essere una scienza sola; ora, invece, anche delle cose che sono sussumibili sotto una sola categoria vi sono molte scienze: per esempio, scienza del momento opportuno in guerra è la strategia, nella malattia è la medicina, e scienza della giusta misura in fatto di alimentazione è la medicina, in fatto di esercizi fisici è la ginnastica. (4) Si potrebbe porre la questione di che cosa mai essi vogliano dire con «cosa in sé», dal momento che in «uomo in sé» e in «uomo» uno e identico è il significato, quello di uomo. Infatti, in quanto entrambe le espressioni indicano l’uomo, non c’è alcuna differenza tra di loro: se è così, non ci sarà differenza neppure nel caso del bene. (5) Ma neppure per il fatto di essere eterno il «Bene in sé» sarà certo più bene, se è vero che neppure il bianco che dura a lungo è più bianco di quello che dura un sol giorno. In modo più persuasivo sembrano esprimersi sul bene i Pitagorici, che pongono nella lista dei beni l’uno: per conseguenza, si ritiene che siano loro quelli che segue anche Speusippo. Ma a questi argomenti si dedicherà un’altra trattazione. (6) Un’obiezione, poi, alle cose dette sorge dal fatto che i ragionamenti espressi dai Platonici non riguardano ogni bene, bensì i beni di una sola specie, quelli che sono perseguiti e amati per sé stessi, mentre quelli che li producono o in qualche modo li custodiscono ovvero li preservano dai contrari, sono chiamati beni a causa di questi, e in un senso secondario. È dunque chiaro che si può parlare di beni in due sensi diversi: da una parte i beni per sé stessi, dall’altra quelli che sono beni sul fondamento dei precedenti. Dopo aver distinto, dunque, dai beni strumentali i beni per sé, cerchiamo di scoprire se questi ultimi vengono chiamati beni perché sono conformi ad una sola Idea. Con quali determinazioni bisognerà porre i beni per sé? Forse sono tali tutte quelle cose che sono perseguite anche da sole, come l’aver senno e il vedere, e certi piaceri e certi onori? Questi infatti anche se li perseguiamo in vista di qualcos’altro, tuttavia si potrebbero porre tra i beni per sé. Oppure non vi possiamo porre nient’altro se non l’Idea? In tal caso la Forma sarà vuota. Ma se invece anche queste cose appartengono ai beni in sé, la definizione di bene dovrà rivelarsi identica in tutte loro, come la definizione di bianco nella neve e nella biacca. Eppure dell’onore, della saggezza e del piacere le definizioni sono diverse e differenti proprio in quanto sono beni. Dunque il bene non sarà qualcosa di comune in conformità con una sola Idea. Ma allora in che senso si predica? Infatti non sembra appartenere alle cose che, per caso, almeno, sono omonime. Ma forse i beni hanno lo stesso nome in quanto derivano da una sola realtà o perché tendono ad un unico bene, o piuttosto per analogia? Come infatti la vista è bene nel corpo, così l’intelletto è bene nell’anima, e un’altra cosa è bene in un’altra realtà. Ma forse è meglio lasciar da parte questo problema per ora, giacché il suo esame rigoroso è più appropriato ad un’altra parte della filosofia. Lo stesso vale anche per l’Idea del bene: se pure infatti il bene predicato in comune fosse una realtà unica o qualcosa che esiste separatamente di per sé, è chiaro che l’uomo non potrebbe né realizzarlo nell’azione né acquisirlo: ma ora si sta cercando proprio questo tipo di bene. Forse si potrebbe opinare che sia meglio conoscere il Bene in sé proprio in funzione dei beni che possono essere acquisiti e realizzati nell’azione: infatti, tenendo questo come modello, conosceremo meglio anche i beni per noi, e se li conosceremo, li conseguiremo. Questo argomento ha certo una qualche plausibilità, ma sembra essere in dissonanza con il comportamento delle scienze: infatti, pur tendendo tutte ad un qualche bene e pur cercando ciò che ad esse manca, tralasciano la conoscenza del Bene in sé. Eppure non è ragionevole che tutti coloro che esercitano un’arte ignorino e non ricerchino un simile sussidio. D’altra parte è difficile vedere anche quale giovamento possa un tessitore o un carpentiere trarre per la propria arte dalla conoscenza di questo Bene in sé, o come potrà diventare migliore medico o generale migliore chi avrà contemplato l’Idea in sé stessa. È manifesto, infatti, che il medico non ha di mira la salute in sé, bensì quella dell’uomo, anzi, meglio, la salute di un uomo determinato, giacché è l’individuo che egli cura. E su questo argomento basti quanto si è detto fin qui.
Etica a Nicomaco

Aristotele, Si è felici esercitando la razionalità
Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos’è? È manifesto, infatti, che esso è diverso in un’azione e in un’arte diversa: è diverso nella medicina e nella strategia, come pure nelle altre arti. Che cosa è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in architettura la casa, una cosa in un’arte, un’altra in un’altra arte, ma in ogni azione e in ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché, se c’è una cosa che è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile praticamente; se vi sono più fini, saranno essi il bene.

Pur procedendo per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto: ma dobbiamo cercare di chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché noi ne scegliamo alcuni in vista di altri (per esempio, la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il bene supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è perfetta, questa deve essere il bene che stiamo cercando, ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta di esse. Diciamo, poi, «più perfetto» ciò che è perseguito per sé stesso in confronto con ciò che è perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per sé stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità, perché la scegliamo sempre per sé stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per sé stessi (sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient’altro), ma li scegliamo anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro. È manifesto che anche partendo dal punto di vista dell’autosufficienza si giunge allo stesso risultato: si ritiene infatti che il Bene perfetto sia autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione ad un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce una vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori, ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità. A queste persone poi deve essere posto un limite. Se si estende questa considerazione agli antenati e ai discendenti e agli amici degli amici, si procede all’infinito. Ma questo va considerato in seguito. Per ora definiamo l’autosufficienza come ciò che, anche preso singolarmente, rende la vita degna di essere scelta, senza che le manchi alcunché. Di tale natura noi pensiamo che sia la felicità. Inoltre pensiamo che la felicità sia il più degno di scelta tra tutti i beni, senza aggiunte (se fosse così, è chiaro che sarebbe più degna di scelta solo insieme con un altro bene, anche il più piccolo); infatti, quello che le fosse aggiunto sarebbe un sovrappiù di bene, e di due beni quello più grande è sempre più degno di scelta. Per conseguenza la felicità è, manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute.

Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cui c’è completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione dell’uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un’arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l’uomo, se pur c’è una sua funzione propria.

Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c’è, manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell’ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e del citaredo di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l’eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene.

Se è così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell’uomo di valore attuarle bene e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria); se è così, il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta.

Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice. Il bene, dunque, resti delineato in questo modo: è certo infatti che bisogna prima buttar giù un abbozzo e poi, in seguito, svilupparlo. Si può ritenere che chiunque è in grado di portare avanti e di delineare nei particolari gli elementi che si trovano bene impostati nell’abbozzo, e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto; di qui sono derivati anche i progressi delle arti: chiunque infatti può aggiungere ciò che manca. Bisogna ricordarsi anche di quello che si è già detto, cioè di non cercare la precisione allo stesso modo in tutte le cose, ma di cercarla in ciascun caso particolare secondo la materia che ne è il soggetto e per quel tanto che è proprio di quella determinata ricerca. Infatti, il falegname e il geometra ricercano entrambi l’angolo retto, ma in maniera diversa: il primo lo ricerca per quel tanto che è utile alla sua opera, il secondo ne ricerca l’essenza o la differenza specifica, poiché è un uomo che contempla la verità. Alla stessa maniera bisogna procedere anche negli altri casi, affinché gli elementi accessori non soverchino l’opera principale. E non bisogna ricercare la causa in tutte le cose in modo uguale, ma in alcune è sufficiente che venga messo adeguatamente in luce il fatto, come, per esempio, anche nel caso dei principi: il dato di fatto è un che di originario, cioè è un principio. Alcuni dei principi si giunge a vederli per induzione, altri per sensazione, altri mediante una specie di abitudine, altri ancora diversamente. Bisogna, dunque, sforzarsi di tener dietro a ciascun tipo di principio in conformità con la sua natura, e impegnarsi a definirlo adeguatamente. I principi, infatti, hanno un gran peso sugli sviluppi successivi: si ammette comunemente che il principio costituisce più che la metà del tutto, cioè che per suo mezzo diventano chiare molte delle cose che si vanno cercando.

Etica a Nicomaco

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