Nature

ALTRI BRANI DI CLEMENTE ALESSANDRINO

Clemente Alessandrino, La fede cristiana è pensiero
43. Alcuni ritenendosi già ben dotati da natura non vogliono accostarsi né alla filosofia né alla dialettica, e nemmeno apprendere la scienza naturale: essi rivendicano la sola e semplice fede, come se, senza essersi presa nessuna cura della vite, volessero coglierne subito da principio i grappoli. «Vite» è detto per allegoria il Signore [ Gv 15, 1] dal quale bisogna vendemmiare il frutto, per mezzo di cura e arte della coltivazione [condotta] secondo le norme razionali. Potare bisogna, e zappare, legare i tralci e fare gli altri lavori; e c’è bisogno di falce, di vanga e degli altri strumenti agricoli, certo, per la coltura della vite, affinché ci offra il suo frutto succulento. E come nell’agricoltura e nella medicina è bene istruito colui che ha attinto svariate nozioni, sì da poter meglio coltivare e guarire, così anche nel nostro campo io affermo bene istruito colui che rivolge tutti i suoi sforzi alla verità, che cioè raccoglie quanto è utile dalla geometria, dalla musica, dalla grammatica, dalla filosofia stessa, e protegge da ogni insidia la fede. Anche l’atleta, come s’è detto, si può metter da parte, tranne che se si unisca alla sc hiera in ordine d’attacco. 44. E in primo luogo apprezziamo il pilota di molta esperienza, che ha visto «città di molti uomini» [ Odyssea , I, 3], e il medico che ha acquisito esperienza di molti casi, per cui taluni foggiano anche il termine “empirico”. Ora colui che fa sì che ogni nozione contribuisca alla retta vita, desumendo esempi da Greci e barbari, questi è molto abile a mettersi sulle piste della verità ed è veramente «di molto consiglio». Egli, come la pietra di paragone (cioè la pietra di Lidia con cui si crede di poter distinguere l’oro falsificato da quello autentico), è capace di distinguere, questo nostro “gnostico” «dal molto sapere», sofistica da filosofia, arte dell’abbigliamento dalla ginnastica, culinaria da medicina, retorica da dialettica e, fra le altre dottrine, nel campo della filosofia “barbara”, le eresie dalla verità autentica. Come non è necessario che colui il quale desidera raggiungere [col pensiero] la potenza di Dio, sappia operare le dovute distinzioni filosofiche nel campo dell’intelligibile? E come non è utile altresì distinguere le espressioni a doppio senso e quelle equivoche forniteci nei Testamenti? Proprio con un’espressione a doppio senso il Signore elude il diavolo nel momento della tentazione: e allora io non vedo più come mai quegli che sarebbe l’inventore, secondo alcuni credono, della filosofia e della dialettica, si lasci ingannare e fuorviare dagli espedienti dell’anfibolia! 45. Se poi i profeti e gli apostoli ignorarono le tecniche per cui si attua la formazione filosofica, d’altra parte però il pensiero dello Spirito, ammaestrante nella profezia in modo oscuro poiché ascoltarlo e comprenderlo non è da tutti, esige per esser chiaro l’insegnamento delle nozioni tecniche. Quel pensiero i profeti e i discepoli dello Spirito lo compresero con sicurezza: per fede ha parlato lo Spirito, e in modo che non era possibile [accoglierlo] facilmente, anzi non in modo che lo potessero accogliere persone non istruite. Dice la Scrittura: «i miei precetti scrivili due volte, con la volontà e con la scienza, quella di rispondere parole di verità alle questioni che ti sono poste» [ Prv 22,20-21; citazione non presente nel testo ebraico e nei LXX, ndr.]. Ora qual è la scienza del rispondere? La stessa dell’interrogare, e sarà la dialettica. E non è forse un’opera anche il parlare, e l’operare non nasce forse dalla ragione? Sì, perché se non agissimo con la ragione opereremmo da bestie. L’opera razionale si compie secondo Dio: «e niente fu fatto senza di Lui», è scritto [ Gv 1,3]: cioè, senza il Logos di Dio. Il Signore non ha forse fatto tutte le cose col Logos? Operano certo anche le bestie, ma spinte dalla paura che le costringe; e non è forse vero che i cosiddetti benpensanti si lasciano portare ad opere buone senza sapere quel che fanno?
da Stromati, Libro I, cap. 9, tr. it. a cura di Giovanni Pini, Edizioni Paoline, Milano 1985, pp. 108-110.

Clemente Alessandrino, Come i filosofi concepirono Dio
78. «Scoprire il padre e creatore di questo universo è difficile impresa, se poi lo si scopre, impossibile divulgarlo a tutti», «poiché non si può affatto spiegare come le altre conoscenze»: sono parole di Platone, amico della verità [Timeo, 28c]. Egli doveva bene aver saputo per tradizione che il sapientissimo Mosè, quando saliva al monte (attraverso la sacra contemplazione [egli saliva] al vertice dell’intelligibile), rigorosamente vietava che tutto il popolo salisse con lui [cfr. Es 19,12 e 20-24]. E quando la Scrittura dice: «Mosè entrò nella tenebra dove era Dio» [Es 20,21], vuol significare, a chi sa intendere, che Dio è invisibile e ineffabile e che la “tenebra” (tale è in realtà l’ignoranza dei più) si pone di fronte ai raggi della verità. A sua volta Orfeo il teologo trae utile spunto di qui quando dice: «Egli è uno, perfetto in sé; dall’uno tutti gli esseri come figli derivano» (o «sono per natura»: si trova scritto anche così); e aggiunge: « … e nessuno dei mortali lo vede; ma Egli tutti vede». Poi conclude, più chiaramente: «Ma lui non lo vedo: solida nube gli si è posta attorno. Tutti i mortali hanno mortali pupille negli occhi, piccole, poiché insieme vi sono cresciute carni e ossa» [Orfeo, fr. 246 K]. 79. A ciò che è detto qui apporterà poi la sua testimonianza l’apostolo, dove dice: «Conosco un uomo in Cristo, rapito fino al terzo cielo» e di qui «nel paradiso; e udì parole ineffabili, che non è lecito ad uomo proferire» [2Cor 12, 2 e 4]. Così egli allude alla ineffabilità di Dio. E non aggiunge le parole «non è lecito» in rapporto a una legge o per timore di qualche precetto, ma per rivelare che la divinità è inesprimibile per [la sua stessa santa potenza], se è vero che comincia a palarne solo da oltre il terzo cielo, come è lecito a quegli [angeli] che qui si trovano iniziare al mistero le anime elette. Io so infatti che anche Platone pensò a molti cieli (la penna mi trascura per ora gli esempi della filosofia “barbara”, e sarebbero tanti!, perché, fedele alle promesse precedenti, sa attendere il momento giusto) [Allude al piano dell’opera: IV, 1, 3.2 (Munck, 88-91)]. In ogni caso nel Timeo, incerto se dovere ammettere più mondi o questo unico, usa indifferentemente i nomi, parlando di “mondo” e di “cielo” come di sinonimi. Ecco le sue parole: «Abbiamo detto bene “un solo cielo! o sarebbe stato meglio dire “molti”, anzi “infiniti cieli”? Uno, se è vero che dovrà essere foggiato secondo il modello» [Timeo 31a (e Theod. IV 49): cfr. Philon. De opif. M. 61, 171-172]. 80. Anche nella Lettera ai Corinzi di Clemente Romano è scritto: «oceano invalicabile e i mondi che sono oltre quello» [I Ep ai Corinzi 20, 8]. Ed ecco corrispondente l’esclamazione del grande apostolo: «o profondità di ricchezza, di sapienza, di “gnosi” divina!» [Rm 11,33]. E può darsi che proprio a questo alludesse il profeta quando prescriveva di fare «pani azzimi, cotti sotto la cenere» [Gen 18,6 e Es 12,39]: egli significava così che il sacro discorso veramente “mistico” intorno all’Ingenerato e alle sue potestà deve restare nascosto. Lo conferma l’apostolo nella Lettera ai Corinzi, làdove dice apertamente: «Noi parliamo di sapienza con i perfetti, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei principi di questo mondo, destinati a perire; noi parliamo della sapienza di Dio che sta nascosta nel mistero»[1Cor 2,6-7]. E altrove dice ancora: «…per la piena conoscenza del mistero di Dio in Cristo, nel quale tutti i tesori della sapienza e della “ gnosi” stanno nascosti» [Col 2,2-3]. A queste parole appone il sigillo lo stesso nostro Salvatore, dicendo: «A voi è stato dato di conoscere il mistero del Regno dei cieli» [Mt 13,11], Dice ancora il Vangelo che il nostro Salvatore esponeva agli apostoli la sua parola in “mistero” [Sal 77 [78], 2]: dice infatti la profezia su di Lui: «Aprirà la sua bocca in parole e proferirà le cose nascoste dalla fondazione del mondo». Ed ecco che mediante la parola del lievito il Signore manifesta il significato nascosto; dice infatti: «Il Regno dei cieli è simile a lievito. Una donna lo prese e lo nascose sotto tre “sati” di farina, finché il tutto fu lievitato» [Mt 13,33-35]. Qui o vuol dire che l’anima, divisa in tre parti si salva con l’obbedienza, a causa della potenza spirituale nascostavi dalla fede, oppure che la forza del Logos comunicataci, intensa e possente, in modo nascosto e invisibile trascina a sé ogni uomo che la accoglie e la possiede entro di sé e conduce ad unità tutti gli elementi che la compongono. 81. Con somma sapienza pertanto sono state scritte da Solone queste parole intorno a Dio: «Difficilissima cosa è concepire l’occulta misura del sapere, la quale contiene in sé, essa sola, i limiti di tutto» [Solone, fr. 16 D]. Infatti la divinità, dice il poeta di Agrigento, «non è possibile avvicinarla sì da raggiungerla con i nostri occhi o afferrala con le nostre mani, che è il modo per cui larghissima la strada di persuasione scende no all’animo, per gli uomini» [Emped., 31 B 133D.-K.]. E l’apostolo Giovanni: «Dio non lo ha mai visto nessuno: l’Unigenito Dio, quegli che è nel seno del Padre, Egli lo rivelò» [Gv 1,18], Eli che nominò seno di Dio l’invisibile e l’ineffabile. Onde alcuni lo hanno chiamato abisso, perché tiene come avvolte e abbracciate in seno tutte le cose: irraggiungibile e infinito insieme. Ed è precisamente questa la questione teologica più difficile da trattare: se il principio di ogni cosa è difficile a rintracciarsi, allora il primo e più antico principio sarà sommamente difficile da dimostrare, perché è esso anche per gli altri esseri tutti causa della nascita e dell’esistenza. Come potrebbe infatti essere definito Colui che non è né genere né alterità né specie né individuo né numero, e nemmeno accidente né soggetto, cui qualcosa possa capitare come accidente? Né lo si potrebbe dire rettamente un tutto: il tutto è dell’ordine della grandezza, ed Egli è il Padre dell’universo. Né, infine, si può parlare di parti in Lui, poiché l’Uno è indivisibile; per questo è anche infinito, non nel senso dell’impossibilità di percorrerlo, ma dell’assenza di distanze e di dimensioni, e pertanto è senza figura e innominabile. 82. E se mai vogliamo designarlo, e lo designiamo, impropriamente, o l’Uno o il Bene o l’Intelletto o l’Essere in sé o Padre o Dio o Creatore o Signore, non diciamo [queste definizioni] come proferendo il suo nome, ma in mancanza di meglio applichiamo egli appellativi, perché il pensiero possa basarsi su di essi senza aberrare con il ricorrere ad altri: ogni singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso sono indicativi della potenza dell’onnipotente. Poiché le cose di cui si parla sono designabili in base alle qualità loro inerenti o alla relazione reciproca; ma niente di ciò può essere assunto a proposito di Dio. E nemmeno con la scienza della dimostrazione Egli può essere colto, perché quella si costituisce sulla base di premesse anteriori e più note, mentre all’Ingenerato nulla preesiste. Resta quindi che noi pensiamo l’Ignoto solo per grazia divina e per il Logos che da Esso procede, proprio come Luca dice negli Atti degli Apostoli ricordando le parole di Paolo: «o Ateniesi, vedo che in tutto e per tutto voi siete più timorati degli dei [di altri popoli]. Infatti aggirandomi per le strade e osservando i vostri luoghi di culto, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “Al Dio Ignoto”. Ebbene, Colui che venerate senza conoscerlo, Quello io vi annuncio!» [At 17,22-23].
da Stromati, Libro V, cap. 12, tr. it. a cura di Giovanni Pini, Edizioni Paoline, Milano 1985, pp. 609-614.

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