Montaigne, Nulla è certo e spesso cambiamo idea
«In quanti modi diversi noi giudichiamo le cose? Quante volte cambiamo idea? Quello
che ritengo oggi e quello che credo, lo ritengo e lo credo con tutta la mia convinzione;
tutti i miei strumenti e tutti i miei congegni sostengono quest’opinione e me ne danno
garanzia per quanto possono. Non potrei abbracciare alcuna verità né conservarla con
maggiore forza di questa. Ad essa mi son dato intero, mi son dato veramente, ma non mi
è successo, non una volta, ma cento, ma mille, e tutti i giorni, di aver abbracciato
qualche altra cosa con questi stessi strumenti, ma in questa stessa maniera, e averla poi
giudicata falsa? Bisogna almeno diventar saggi a proprie spese. Se spesso mi sono
trovato tradito per questa ragione, se la mia pietra di paragone si rivela di solito falsa e
la mia bilancia inesatta e ingiusta, come posso esserne sicuro questa volta più delle
altre? Non è una sciocchezza lasciarmi ingannare tante volte da una stessa guida?
Benché la fortuna ci muova cinquecento volte di posto e non faccia che vuotare e
riempire continuamente, come un vaso, la nostra credenza di opinioni sempre diverse, la
presente e l’ultima è sempre quella certa e infallibile»
«Quello che le mie facoltà non possono scoprire, non smetto di sondarlo e provarlo; e,
rimaneggiando e impastando questa nuova materia, agitandola e riscaldandola, apro a
colui che mi segue qualche possibilità di goderne di più a suo agio, e gliela rendo più
duttile e maneggevole […] Altrettanto farà il secondo col terzo: sicché la difficoltà non
deve farmi disperare, e nemmeno la mia impotenza, poiché è soltanto mia. L’uomo è
capace di tutte le cose come di nessuna; e se confessa, come dice Teofrasto, l’ignoranza
delle cause prime e dei principi, lasci andare senza esitazione tutto il resto della sua
scienza: se gli manca il fondamento, il suo ragionamento cade a terra; il discutere e ilo
cercare non ha altro scopo e altra meta che i principi; se questo fine non arresta la sua
corsa, egli cade in preda a una irresoluzione infinita».
Michel de Montaigne, “Saggi”
Montaigne, Non bisogna pregare a sproposito
«(a) Stavo pensando ora da che cosa ci derivi questo errore di ricorrere a Dio in tutti i
nostri progetti e in tutte le nostre imprese, (b) di chiamarlo per ogni sorte di necessità e
dovunque la nostra debolezza richieda aiuto, senza considerare se l’occasione sia giusta o
ingiusta; e di invocare il suo nome e la sua potenza, in qualsiasi condizione ci troviamo e
qualsiasi azione stiamo compiendo, per peccaminosa che sia […].
«L’avaro lo prega per la conservazione vana e superflua dei suoi tesori: l’ambizioso, per
le sue vittorie e per il successo della sua passione; il ladro se ne serve di aiuto per
superare il pericolo e le difficoltà che si oppongono all’esecuzione delle sue malvagie
imprese, o lo ringrazia per la facilità con cui ha scannato un viandante. (c) Ai piedi della
casa che stanno per scalare o per minare, essi dicono le loro preghiere, col pensiero e la
speranza pieni di crudeltà, di lussuria, di cupidigia».
[…]
La regina di Navarra, Margherita, racconta di un giovane principe, […] il quale, andando
a un appuntamento amoroso con la moglie di un avvocato di Parigi, poiché passava per
una chiesa, non attraversava mai quel luogo santo, sia che andasse o tornasse dalla sua
impresa, senza far le sue preghiere e orazioni. Vi lascio giudicare a qual fine, con l’anima
piena di quel bel pensiero, egli si servisse del favore divino! […] Una vera preghiera e una
nostra devota riconciliazione con Dio non possono sussistere in un’anima impura e
sottoposta nello stesso momento al dominio di Satana. Colui che chiama Dio in suo aiuto
mentre è preda del vizio, fa come un tagliaborse che chiamasse in aiuto la giustizia, o
come quelli che allegano il nome di Dio a testimonianza di menzogna.
(b) Sussurriamo a bassa voce cattive preghiere Lucano, V, 104-5.
(a) Ci sono pochi uomini che oserebbero palesare le segrete richieste che fanno a Dio […]
Ecco perché i pitagorici volevano che tali richieste fossero pubbliche e che tutti le
udissero, affinché non si richiedessero a Dio cose indecenti e ingiuste».
Michel de Montaigne, “Saggi”
Montaigne, Il valore dell’amicizia
«Del resto, quelli che chiamiamo abitualmente amici e amicizie, sono soltanto
dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza o vantaggio, per mezzo di
cui le nostre anime si tengono unite. Nell’amicizia di cui parlo, esse si mescolano e si
confondono l’una nell’altra con un connubio così totale da cancellare e non ritrovar più la
commessura che le ha unite. Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non
si può esprimere (c) che rispondendo: “Perché era lui; perché ero io”.
(a) C’è, al di là di tutto il mio discorso, e di tutto ciò che posso dirne in particolare, non so
quale forza inesplicabile e fatale, mediatrice di questa unione. (c) Ci cercavamo prima di
esserci visti e per quel che sentivamo dire l’uno dell’altro, il che produceva sulla nostra
sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo ragione quello che si sente
dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi. E al
nostro incontro, che avvenne per caso, in occasione di una grande festa e riunione
cittadina, ci trovammo tanto uniti, conosciuti e legati l’uno all’altro, che da allora niente
fu a noi tanto vicino quanto l’uno all’altro […]. Dovendo durare così poco, ed essendo
cominciata così tardi, poiché eravamo ambedue uomini fatti, e lui maggiore di qualche
anno, essa non aveva tempo da perdere, e non poteva conformarsi al modello delle
amicizie fiacche e regolari, per le quali occorrono tutte le precauzioni di una lunga
frequentazione preliminare. Questa non ha altra immagine che se stessa, e non può
paragonarsi che a sé. (a) Non una considerazione particolare, né due, né tre, né quattro, né
mille: ma una non so quale quintessenza di tutta quella mescolanza che, afferrata tutta
quanta la sua volontà, la condusse a immergersi e perdersi nella sua; (c) che, afferrata
tutta quanta la sua volontà, la condusse a immergersi e perdersi nella mia, con ugual
desiderio, uguale slancio. (a) Dico perdersi, in verità, poiché non ci riservammo nulla che
ci fosse proprio, né che fosse o suo o mio».
«Tutti i ragionamenti del mondo non potrebbero allontanarmi dalla certezza che ho delle
intenzioni e dei giudizi del mio. Non si potrebbe presentarmi alcuna sua azione,
qualunque aspetto avesse, senza che io trovassi immediatamente l’impulso che l’ha
prodotta. Le nostre anime hanno camminato così unite, si sono considerate con affetto
tanto ardente, e con pari affetto si sono scoperte l’una all’altra fin nel più profondo delle
viscere, che non solo io conoscevo la sua come la mia, ma certo mi sarei più volentieri
affidato a lui che a me stesso»
«(a) In questo nobile commercio, i servizi e i benefici che alimentano le altre amicizie
non meritano neppure d’esser messi in conto; e ciò è dovuto al totale connubio delle
nostre volontà. Infatti, come l’amicizia che ho verso me stesso non viene affatto
aumentata dal soccorso che mi porgo nel bisogno, […] e come non mi sono affatto grato
del servizio che mi rendo, così l’unione di tali amici, essendo davvero perfetta, fa loro
perdere il senso dei loro doveri, e odiare e bandire da sé queste parole che dividono e
differenziano: beneficio, obbligo, riconoscenza, preghiera, ringraziamento e simili. Tutto
essendo di fatto comune fra loro, volontà, pensieri, giudizi, beni, donne, figli, onore e
vira. (c) e la loro armonia essendo come un’anima in due corpi, secondo la definizione
assai pertinente di Aristotele, (a) essi non possono prestarsi né regalarsi alcunché».
Michel de Montaigne, “Saggi”
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