Nature

ALTRI BRANI NIETZSCHE

Nietzsche, Sulla compassione
La nostra compassione è una superiore e più lungimirante compassione – noi vediamo come si rimpicciolisce l’uomo, come voi lo rendete piccolo! – e vi sono momenti in cui osserviamo, con una indescrivibile angoscia, la vostra compassione, in cui ci difendiamo da questa compassione […]. Voi volete, se possibile – e non esiste un “se possibile” più assurdo – eliminare la sofferenza; e noi? – sembra proprio che si preferisca averla, questa sofferenza, in un grado ancor più elevato e peggiore di quanto non sia mai accaduto! Il benessere, come lo intendete voi – non costituisce una meta, a noi sembra piuttosto una fine! Una condizione che rende subito l’uomo ridicolo e spregevole – e ne fa desiderare la distruzione. La disciplina formativa del dolore, del grande dolore – non sapete voi che soltanto questa disciplina ha creato fino ad oggi ogni eccellenza umana? […] Nell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c’è materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e c’è anche un settimo giorno – comprendete voi questa antitesi? E che la vostra pietà è per la “creatura nell’uomo”, per ciò che deve essere modellato, infranto, fucinato, purificato, smembrato, riarso, arroventato, per ciò che necessariamente non può non soffrire, che deve soffrire? E la nostra pietà – non lo intendete voi? – a chi è rivolta la nostra opposta pietà, quando essa si difende dalla pietà vostra come dal peggiore di tutti gli infrollimenti e debolezze?
(Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 2004, af. 225).

Nietzsche, Conoscenza e sofferenza
La condizione di certi uomini malati, che a lungo e terribilmente sono tormentati dai loro dolori senza che per questo il loro intelletto resti offuscato, non è senza valore per la conoscenza, anche prescindendo del tutto dai benefici intellettuali che ogni profonda solitudine, ogni subitanea e consentita libertà da ogni dovere e consuetudine portano con sé. Colui che soffre fortemente vede dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori: tutte quelle piccole ingannevoli magie in cui di consueto nuotano le cose, quando l’occhio dell’uomo sano vi si affisa, sono invece per lui dileguate; anzi egli si pone dinanzi a se stesso privo di orpelli e di colore. Ammesso che sia vissuto fino a quel momento in una qualche pericolosa fantasticheria, questo supremo disincantarsi attraverso il dolore è il mezzo per strapparlo da essa: e forse l’unico mezzo. (È possibile che questo sia accaduto al fondatore del cristianesimo, quando si trovava sulla croce: poiché le più amare di tutte le parole – “mio Dio, perché mi hai abbandonato” – intese in tutta la loro profondità, come devono essere intese, racchiudono la testimonianza di una delusione totale e di una lucida visione della propria folle vita; nell’attimo del massimo tormento vide con chiaroveggenza entro se stesso, così come il poeta racconta del povero Don Chisciotte morente). L’enorme tensione dell’intelletto che vuol fronteggiare il dolore, fa che tutto ciò su cui esso dirige lo sguardo risplenda di una nuova luce: e l’indicibile incitamento, che dànno tutte le nuove illuminazioni, è spesso tanto potente da sfidare tutti gli allettamenti del suicidio e da fare apparire al sofferente come altamente desiderabile la continuazione della vita. Con disprezzo egli pensa a quell’intimo, caldo mondo di nebbie in cui l’uomo sano trascorre senza riflettere; con disprezzo pensa alle sue più nobili e più amate illusioni nelle quali, in passato, andava giocando con se stesso; il suo godimento sta nell’evocare questo disprezzo come dal più profondo dell’inferno e nell’infliggere così all’anima la sofferenza più amara: grazie a questo contrappeso non si fa appunto piegare dal dolore fisico – sente che ora è necessario precisamente questo contrappeso! […] S’impenna il nostro orgoglio come non mai: è per esso una lusinga senza eguali prendere proprio la vita sotto la nostra protezione contro il tiranno, contro un tiranno qual è il dolore, e contro tutte le insinuazioni che ci va mormorando, perché si renda testimonianza contro la vita. In questo stato si resiste accanitamente ad ogni pessimismo, affinché esso non appaia la conseguenza del nostro stato e non ci infligga l’umiliazione di essere vinti. Mai come ora è stato grande l’incitamento ad esercitare il nostro giudizio con giustizia, perché questo, ora, è un trionfo su noi stessi e sulla più allettante di tutte le condizioni che renderebbero scusabile ogni iniquità di giudizio […]
(Aurora, af. 114, “Della conoscenza di colui che soffre”).

Nietzsche, Dell’amicizia
Che presso gli antichi l’amicizia fosse ritenuta il sentimento più elevato, superiore perfino alla celebratissima superbia di chi basta a se stesso e di chi è saggio, quasi costituisse addirittura la sua unica e ancor più sacra consorella: tutto ciò lo esprime ottimamente la storia di quel re macedone che fece dono di un talento a un filosofo ateniese spregiator del mondo e se lo vide restituire. “Come?” disse il re “non ha costui un amico?”. Con la qual cosa voleva dire: “Io rendo onore alla superbia di quest’uomo saggio e indipendente, ma onorerei molto di più la sua umanità se in lui l’amico avesse riportato vittoria sul superbo. Ai miei occhi il filosofo si è diminuito mostrando che ignora uno dei due più elevati sentimenti – e in verità quello superiore.
(La gaia scienza, af. 61, “In onore dell’amicizia”).

Nietzsche, Chi è davvero amico
Se si vuole avere un amico, bisogna anche voler far guerra per lui; e per far guerra, bisogna poter essere nemico. Nel proprio amico si deve onorare anche il nemico. Sei capace di avvicinarti massimamente al tuo amico, senza passare dalla sua parte? Nel proprio amico bisogna avere anche il proprio miglior nemico. Col tuo cuore devi essergli massimamente vicino, proprio quando ti opponi a lui. […] Un indovinare sia la tua compassione: affinché in primo luogo tu sappia, se il tuo amico vuole compassione. Forse, invece, egli ama in te l’occhio intrepido e lo sguardo dell’eternità. La compassione verso l’amico si celi sotto un guscio duro, che rompa un dente al tuo morso. Così avrà la sua delicatezza e dolcezza. Sei aria pura e solitudine e pane e medicina per il tuo amico? Vi sono certi che non sanno infrangere le proprie catene, pure sono i liberatori dell’amico. Sei uno schiavo? Allora sei incapace di essere amico. Sei un tiranno? Allora sei incapace di avere amici.
(Così parlò Zarathustra, Adelphi, “Dell’amico”).

Nietzsche, Dell’amore
Quando vediamo soffrire qualcuno, utilizziamo volentieri l’occasione offerta in quel momento per impossessarci di lui: così fa, per esempio, il benefattore e il compassionevole; anch’egli chiama ‘amore’ la bramosia suscitata in lui di un nuovo possesso, e vi attinge il suo piacere, come dall’arridere di una nuova conquista. […] Ma quanto mai chiaramente si tradisce l’amore dei sessi come impulso alla proprietà: l’amante vuole l’incondizionato, esclusivo possesso della persona da lui ardentemente desiderata; vuole un potere assoluto tanto sulla sua anima che sul suo corpo, vuole essere amato lui solo e insediarsi nell’anima dell’altro e signoreggiarvi come il bene più alto e desiderabile. Se si pone mente al fatto che ciò non è altro se non escludere tutto il mondo da un bene prezioso, da una sorgente di felicità e di piacere; se si considera che l’amante mira ad impoverire e spogliare ogni altro concorrente e che vorrebbe diventare il drago del suo prezioso tesoro, essendo il più spietato ed egoista di tutti i ‘conquistatori’ e i predatori; se si tiene finalmente presente che allo stesso amante tutto il resto del mondo appare indifferente, pallido, senza valore, e che egli è pronto a fare ogni sacrificio, a sconvolgere ogni ordinamento, a mettere in secondo piano ogni interesse; ci si meraviglierà effettivamente che questa selvaggia avidità di possesso e questa ingiustizia dell’amore sessuale sia stata a tal punto esaltata e divinizzata, come è accaduto in tutti i tempi, e che anzi da questo amore si sia ricavato il concetto di amore come contrapposto all’egoismo, mentre è forse proprio l’espressione più spregiudicata dell’egoismo stesso. Evidentemente i nullatenenti e i bramosi di possesso − ce ne sono sempre stati troppi − hanno coniato questo uso verbale. […] C’è sì, qua e là sulla terra, una specie di prosecuzione dell’amore dove quell’avida bramosia che hanno due persone l’una per l’altra cede a un desiderio e a una cupidigia nuovi, a una più alta sete comune per un ideale che li trascende: ma chi conosce quest’amore, chi lo ha profondamente vissuto? Il suo vero nome è amicizia.
(La gaia scienza, af. 14, «Quante cose non son chiamate amore!»).

Nietzsche, Della donna
Relativamente alla donna […], per chi è più modesto già il fatto di disporre del suo corpo e di goderne sessualmente vale come segno sufficiente e soddisfacente dell’avere, del possedere; altri invece, nella sua sete più diffidente e più esigente di possesso, vedrà il “punto interrogativo”, l’aspetto solo apparente di un tale possesso, e vorrà prove più sottili, soprattutto, per sapere se la donna non soltanto si dà a lui, ma anche è disposta a lasciare per lui quel che ha o che vorrebbe avere; soltanto così essa sarà per lui “posseduta”. Un terzo, poi, non sarà neppure in questo modo al termine della sua diffidenza e della sua volontà di possesso, e domanderà a se stesso se abbandonando ogni cosa per lui la donna non agisca forse per una rappresentazione fantastica che si è fatta di lui: egli vorrà soprattutto essere ben conosciuto nel profondo, anzi nelle sue stesse abissali profondità, per potere in generale essere amato, e oserà lasciarsi indovinare. Avvertirà di possedere interamente la donna amata soltanto quando ella non si ingannerà più su di lui, quando lo amerà per il suo satanismo e la sua occulta insaziabilità tanto quanto per la sua bontà, pazienza e spiritualità.
(Al di là del bene e del male, af. 194).

Nietzsche, Gli indigenti dello spirito
Ah! Quanto mi ripugna imporre ad un altro i miei propri pensieri! Come mi rallegro in cuor mio di ogni stato d’animo e di ogni intima trasformazione con cui i pensieri di altri giungono ad affermarsi contro i miei propri! Ma di tanto in tanto c’è una festa ancora più alta, allorquando per una volta è permesso far dono della propria casa e del proprio patrimonio spirituale, come fa il confessore, che se ne sta in un angolo, attendendo avidamente che venga un indigente a narrargli le angustie dei suoi pensieri, per colmargli ancora una volta le mani e il cuore e alleggerirgli l’anima tormentata. Non soltanto è lontano dal desiderare una lode, ma vorrebbe anche sottrarsi alla gratitudine, poiché essa è molesta e priva di rispetto per la solitudine e il silenzio. Vivere vorrebbe invece nell’oscurità, e facilmente esposto alle beffe, troppo in basso per destare invidia o inimicizia, senza nessuna febbre in testa, con un pugno di sapere per provvista e una borsa ricolma di esperienze, essere, per così dire, uno spirituale medico dei poveri e aiutare questo e quello, tra quanti hanno la testa confusa da opinioni, senza che costui possa individuare chi lo ha aiutato. Non volere, dinanzi a lui, aver ragione e celebrare vittoria, ma parlargli in modo che, dopo un piccolo impercettibile avvertimento o una contraddizione, egli dica a se stesso il giusto, e fiero di ciò se ne vada. Essere come un piccolo ostello che non respinge nessuno che abbia bisogno, anche se dopo viene dimenticato oppure schernito. Non proporsi nulla, né un miglior nutrimento, né un’aria più pura, né lo spirito più gioioso – ma rinunciare, restituire, partecipare, divenire più povero. Poter stare in basso per essere alla portata di molti e non umiliante per nessuno. Portare su di sé molti torti ed aver strisciato attraverso i meandri di molte specie di errori, per poter arrivare a molte nascoste anime sui loro segreti cammini. Sempre con una sola maniera di amare e con una sola di egoismo e di autocompiacimento! Essere in possesso di un’autorità e al tempo stesso tenersi nascosto e nella rinuncia. Starsene nel sole e nella dolcezza della grazia e pur sapere che in vicinanza ci sono le ascensioni verso il sublime. Questo sarebbe vivere! Un motivo per lungamente vivere!
(Aurora, af. 449, “Dove sono gli indigenti dello spirito”).

Nietzsche, La virtù che dona
Non volgare è la virtù più nobile e non utile, essa luccica di mite splendore: una virtù che dona è la virtù più nobile. In verità io indovino voi, miei discepoli: voi anelate, come me, alla virtù che dona. Che potreste avere voi in comune coi felini e i lupi? Questa è la vostra sete, diventare voi stessi vittime e doni: e per questo avete la sete di accumulare tutte le ricchezze nella vostra anima. Insaziabile, l’anima vostra anela a tesori e gemme, perché la vostra virtù è insaziabile nella volontà di donare. Voi costringete tutte le cose a venire a voi e dentro di voi, perché riscaturiscano dalla vostra sorgente come doni del vostro amore. In verità, un predone di tutti i valori deve diventare questo amore che dona; ma io dico sacrosanto questo egoismo. Vi è anche un altro egoismo, troppo povero, affamato, che vuol sempre rubare, l’egoismo dei malati, l’egoismo malato. Con occhio di ladro esso guarda a tutto quanto luccica; con l’avidità della fame conta i bocconi a chi ha da mangiare in abbondanza; e sempre si insinua alla tavola di coloro che donano. Malattia parla da tale bramosia, e degenerazione invisibile; l’avidità ladresca di questo egoismo parla di un corpo infermo. Ditemi, fratelli: che cosa è per noi cattivo, anzi più cattivo di tutto il resto? Non è forse la degenerazione? – E, dove manca l’anima che dona, noi indoviniamo sempre la degenerazione. In alto va il nostro cammino, dalla specie si avvia verso la sovra-specie. Ma un orrore è per noi la mente degenerata che dice: “Tutto per me”…
(Così parlò Zarathustra, “Della virtù che dona”, par. 1)

Nietzsche, Chi è spirito libero
Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato e ufficio o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse. Egli è l’eccezione, gli spiriti vincolati sono la regola.
(Umano, troppo umano, I, af. 225 “Un concetto relativo, lo spirito libero).

Nietzsche, Lo spirito vincolato
Lo spirito vincolato accetta la sua posizione non per ragionamento, bensì per abitudine; è per esempio cristiano, non per aver esaminato le varie religioni e per aver scelto fra esse; è inglese, non per essersi deciso per l’Inghilterra; egli semplicemente si è trovato davanti il Cristianesimo e la qualità di inglese, e ha accettato le due cose senza ragionarci sopra, come uno che, nato in un paese vinicolo, diventa bevitore di vino. Più tardi, quando già era cristiano o inglese, sarà forse anche riuscito a trovare alcune ragioni a favore della sua abitudine; ma per quanto si demoliscano queste ragioni, non si demolirà nulla della sua posizione. […] L’abitudine a princìpi non ragionati si chiama fede.
(Umano, troppo umano, I, af. 226, “Origine della fede”).

Nietzsche, Pensare sempre con la propria testa
L’esser vincolati nelle opinioni, divenuto con l’abitudine istinto, conduce a ciò che si chiama la forza di carattere. Quando qualcuno agisce in base a pochi motivi, ma sempre in base agli stessi, le sue azioni acquistano una grande energia; se queste azioni sono in armonia con i princìpi degli spiriti vincolati, ottengono riconoscimento e generano fra l’altro, in chi le compie, il sentimento della buona coscienza. Pochi motivi, energico agire e buona coscienza, costituiscono ciò che si chiama forza di carattere. A chi è forte di carattere manca la conoscenza della molte possibilità e direzioni dell’agire; il suo intelletto non è libero, è vincolato, perché in un dato caso gli mostra forse solo due possibilità, fra queste due egli deve poi, secondo tutta la sua natura, necessariamente scegliere, ed egli fa ciò con facilità e rapidità, perché non deve scegliere fra cinquanta possibilità. L’ambiente in cui si viene educati vuol rendere ogni uomo non libero, ponendogli davanti agli occhi il minor numero di possibilità L’individuo viene trattato dai suoi educatori come se fosse sì qualcosa di nuovo, ma dovesse diventare una ripetizione. Se l’uomo appare da principio come qualcosa di sconosciuto, di mai esistito, deve poi essere trasformato in qualcosa di conosciuto e di già esistito. Si dice buon carattere in un bambino il manifestarsi del suo esser vincolato a ciò che è già esistito; mettendosi dalla parte degli spiriti vincolati, il bambino mostra per la prima volta il senso comune che si sveglia in lui; sulla base di questo senso comune, diventa più tardi utile al suo Stato o al suo ceto.
(Umano, troppo umano, I, af. 228, “Il carattere forte e buono”).

Nietzsche, La morale del risentimento
“Noi deboli siamo decisamente deboli: è bene se non facciamo alcuna cosa per la quale non si è forti abbastanza”; ma questo crudo stato di fatto, questa prudenza d’infimo rango, che posseggono persino gl’insetti (i quali, in caso di grande pericolo, si fingono morti per non far nulla “di troppo”), grazie a quell’arte da falsari e a quella mendacità dinanzi a se stessi che è propria dell’impotenza, si dà il pomposo travestimento della virtù rinunciataria, silenziosa, aspettante, come se la debolezza stessa del debole – vale a dire la sua essenza, la sua produttività, la sua intera, unica, inevitabile, irredimibile realtà fosse un effetto arbitrario, qualcosa di voluto, di scelto, un’azione, un merito. Per un istinto di autoconservazione, di autoaffermazione, in cui ogni menzogna suole purificarsi, questa specie di uomini ha bisogno della credenza nell’indifferente libertà di scelta del “soggetto”. Forse per questo il soggetto (o, per parlare in maniera più popolare, l’anima) è stato fino a ora sulla terra il migliore articolo di fede, perché ha reso possibile alla maggioranza dei mortali, ai deboli e agli oppressi di ogni sorta quel sublime inganno di sé che sta nell’interpretare la debolezza stessa come libertà, il suo essere-così-e-così come merito. Vuole forse qualcuno rivolgere un po’ lo sguardo giù in fondo al segreto di come si fabbricano ideali sulla terra? Chi ne ha il coraggio?… Suvvia! Ecco sgombra la vista su questa oscura officina. Ancora un momento d’attesa, signor Curiosone e Rompicollo: i Suoi occhi devono prima abituarsi a questa falsa luce cangiante… Così! Benone! Parli ora! Che cosa succede là sotto? Dica quel che vede, uomo dalla perigliosissima curiosità, – ora sono io ad ascoltare. – – “Non vedo nulla, ma tanto meglio ascolto. È un bisbigliare e un sussurrare cauto, maligno, sommesso, da tutti gli angoli e cantucci. Si direbbe che si stiano biascicando menzogne; una mielata dolcezza è rappresa a ogni suono. La debolezza deve essere falsata in merito – non c’è dubbio – è dunque così come ha detto Lei”. – Avanti! – “E l’impotenza che non si prende la rivalsa, deve essere falsata in ‘bontà’; la timorosa abiezione in ‘umiltà’; la sottomissione dinanzi a coloro che odiamo in ‘obbedienza’ (obbedienza, cioè, a uno che dicono imponga questa sottomissione – lo chiamano Dio). L’inoffensività del debole, la stessa codardia di cui costui è ricco, il suo stare alla finestra, il suo inevitabile dover aspettare, acquista ora un buon nome, in quanto “pazienza”, e viene altresì a significare la virtù stessa; il non-potersi-vendicare è detto non-volersi-vendicare, forse addirittura perdonare (“giacché costoro non sanno quel che fanno) – noi soltanto sappiano quel che essi fanno!”. Si parla anche dell’“amore verso i propri nemici” – e intanto si suda”. – Avanti! – “Sono miserabili, non c’è dubbio, tutti questi bisbigliatori e rincantucciati falsari, sebbene se ne stiano tranquillamente accoccolati al calduccio l’uno accanto all’altro – e tuttavia mi dicono che la loro miseria sarebbe un’elezione e un segno di distinzione da parte di Dio, che si battono i cani che più ci son cari; forse questa miseria sarebbe altresì una preparazione, una prova, un ammaestramento, e forse ancora di più – qualcosa che un giorno verrà compensato e pagato con enormi interessi in oro, ma che dico! in felicità. Ed essi chiamano tutto ciò ‘beatitudine’”. – Avanti! – “Ora costoro mi dànno a intendere che non soltanto sono migliori dei potenti, dei signori della terra, di cui devono leccare gli sputi (non per paura, assolutamente non per paura! ma perché Dio ha comandato di onorare ogni autorità) – che non soltanto sono i migliori, ma che ‘stanno meglio’, o che comunque un giorno ‘staranno meglio’. Ma basta! Finiamola! Non ne posso più. Aria cattiva! Aria cattiva! Quest’officina dove si fabbricano ideali – mi sembra che esali unicamente fetore di menzogne”. – No! Ancora un istante! Non ha ancora detto nulla dei capolavori di questi negromanti che manipolano tutto quanto è nero per ricavarne bianchezza, latte e innocenza – non ha notato a che punto arriva la loro perfezione nel raffinare, il loro artistico tocco arditissimo, finissimo, genialissimo e mendacissimo? Faccia attenzione! Queste bestie del sottosuolo sature di vendetta e d’odio – che cosa fanno appunto di questa vendetta e di quest’odio? Ha mai sentito queste parole? Sempre che si fosse fidato delle loro parole, avrebbe mai potuto prevedere di ritrovarsi né più né meno che in mezzo a uomini del ressentiment? – “Capisco e ancora una volta apro le orecchie (Ahimè, ahimè! e chiudo il naso). Odo soltanto ora quel che essi già tanto spesso dicevano: ‘Noi buoni – noi siamo i giusti’ – a quel che pretendono non dànno il nome di rivalsa, bensì di ‘trionfo della giustizia’; quel che essi odiano non è il loro nemico, no! essi odiano l’‘ingiustizia’, l’‘empietà’; quel che credono e sperano, non è la speranza della vendetta, l’ebbrezza della dolce vendetta (‘più dolce del miele’ – già la chiamava Omero), bensì la vittoria di Dio, del Dio giusto sugli empi; quel che resta loro da amare sulla terra non sono i loro fratelli nell’odio, ma i loro ‘fratelli nell’amore’, come essi dicono, tutti i buoni e i giusti della terra”. – E come chiamano quel che serve loro di conforto contro tutte le sofferenze della vita – la loro fantasmagoria dell’anticipata futura beatitudine? – “Come? Ho udito bene? Lo chiamano il ‘giudizio finale’, l’avvento del loro regno, del ‘regno d’Iddio’ – ma nel frattempo vivono ‘nella fede’, ‘nell’amore’, ‘nella speranza’”. – Basta così! Basta così! Nella fede in che cosa? Nell’amore per che cosa? Nella speranza di che cosa? – Questi deboli – infatti, a un certo momento, anch’essi vogliono essere i forti, non v’è dubbio, a un certo momento deve venire anche il loro ‘regno’ – presso di loro si chiama né più né meno che ‘regno d’Iddio’, come si è detto: sono invero così umili in tutto! Soltanto per fare esperienza di questo si sente la necessità di vivere a lungo, oltre la morte – anzi si ha bisogno della vita eterna per poter altresì rifarsi eternamente, nel ‘regno d’Iddio’, di questa vita terrena vissuta ‘nella fede, nell’amore, nella speranza’. Rifarsi di che cosa? … Dante, a mio parere, ha commesso un grossolano errore nel porre con una ingenuità da far paura sulla porta del suo inferno quell’iscrizione “fecemi l’eterno amore” – sulla porta del paradiso cristiano e della sua “eterna beatitudine” potrebbe stare in ogni caso a maggior diritto l’iscrizione “fecemi l’eterno odio” – ammesso che una verità possa stare sulla porta di una menzogna! Che cos’è, infatti, la beatitudine di quel paradiso?… Forse potremmo già indovinarlo; ma è meglio che ce lo attesti espressamente una autorità indiscutibile in questa materia, Tommaso d’Aquino, il grande maestro e santo. “Beati in regno celesti – dice costui con la mitezza di un agnello – videbunt poenas damnatorum, ut beatitudo illis magis complaceat”. O se lo si vuol sentire in un tono più vigoroso, per esempio dalla bocca di un trionfante Padre della Chiesa, che sconsiglia ai suoi cristiani le crudeli voluttà degli spettacoli pubblici – e perché poi?: “At enim supersunt alia spectacula, ille ultimus et perpetuus judicii dies, ille nationibus insperatus, ille derisus, cum tanta saeculi vetustas et tot ejus navitates uno igne haurientur. Quae tunc spectaculi latitudo! Quid admirer! Quid rideam! Ubi gaudeam! Ubi exultem, spectans tot et tantos reges, qui, in caelum recepti nuntiabantur, cum ipso Jove et ipsis sui testibus in imis tenebris congemescentes! Item praesides (i governatori delle province) persecutores dominici nominis saevioribus quam ipsi flammis saevierunt insultantibus contra Christianos liquescentes! Quod praeterea sapientes illos philosophos coram discipulis suis una conflagrantibus erubescentes, quibus nihil ad deum pertinere suadebant, quibus animas aut nullas aut non in pristina corpora redituras affirmabant!” (Genealogia della morale, Adelphi, Seconda dissertazione, paragrafi 13, 14, 15. Il brano, riportato da Nietzsche nell’originale latino, è tratto da Tertulliano, De spectaculis. Nell’ed. it. dell’opera nietzscheana è riportata, in nota, la traduzione, qui di seguito riprodotta: “Ma vi sono ancora altri spettacoli, quel giorno del giudizio, ultimo e perpetuo, quel giorno inatteso per i popoli, quel giorno deriso, quando da un solo fuoco saranno divorate una così lunga esistenza del mondo e tante sue generazioni. Quale ampiezza avrà allora lo spettacolo! Quali meraviglie vedrò! Di che cosa riderò! Laggiù godrò! Laggiù esulterò, osservando tanti e tanto grandi re – che si proclamava fossero assunti in cielo – lamentarsi in profondità tenebrose assieme allo stesso Giove e agli stessi loro spettatori! Guardando del pari i presidi, persecutori del nome del Signore, che si struggono in fiamme più crudeli di quelle mediante cui essi stessi infierirono con scherno contro i cristiani! e inoltre quei sapienti filosofi, arrossati dal fuoco di fronte ai discepoli che ardono insieme a loro, discepoli che erano stati da loro persuasi che nulla spetta a Dio, e ai quali era stata data da loro l’assicurazione che le anime non esistono oppure che non ritorneranno ai corpi primitivi!”).

Nietzsche, Sul bene e sul male
Fino ad oggi si sono avute pessime meditazioni sul bene e sul male: è sempre stata una questione troppo pericolosa. La coscienza, la buona reputazione, l’inferno, in certe circostanze anche la polizia, non hanno permesso e non permettono spregiudicatezza: appunto alla presenza della morale, come di fronte a ogni autorità, non si deve pensare, ancor meno parlare: qui si ubbidisce! Da che mondo è mondo, ancora nessuna autorità è stata disposta a farsi prendere come oggetto di critica: e criticare addirittura la morale, prendere la morale come problema, come problematica: che? non era questo – non è questo – immorale? Ma la morale non ha soltanto a sua disposizione ogni genere di spauracchi per tenere discoste dalla sua persona mani criticamente sensibili e strumenti di tortura: la sua sicurezza è riposta, più che altro, in una certa arte di seduzione a lei ben nota, essa sa “entusiasmare”. Spesso con un solo sguardo riesce a paralizzare la volontà critica, perfino a trarla con lusinghe dalla sua parte, si dà anzi il caso che finisca per farla volgere contro se stessa così che poi la volontà critica, come lo scorpione, conficca il pungiglione nel suo proprio corpo. Fin dai tempi antichi la morale è appunto espertissima in ogni diavoleria dell’arte della persuasione: non v’è nessun oratore, ancor oggi, che non ricorra ad essa per averne aiuto (si stia a sentire, per esempio, i nostri anarchici: come sono morali i loro discorsi diretti alla persuasione! alla fine giungono a chiamare se stessi “i buoni e i giusti”). Sempre, fino ad oggi, per tutto il tempo che si è parlato e persuaso sulla terra, la moralità si è appunto dimostrata la più grande maestra di seduzione – e, per quanto concerne noi filosofi, la vera e propria Circe dei filosofi.
(Aurora, Adelphi, Milano 2017)

Nietzsche, Terapie lente
Assai di rado le malattie croniche dell’anima, come quelle del corpo, insorgono solo per saltuari, grossolani trascorsi contro la struttura razionale del corpo e dell’anima: solitamente, invece, si producono per innumerevoli piccole inavvertite negligenze. Chi, per esempio, ogni giorno di più respira, sia pure in misura insignificante, in maniera troppo debole, e accoglie nei polmoni una troppo scarsa quantità d’aria, così che questi non vengono totalmente affaticati ed esercitati a sufficienza, finisce per incorrere in un disturbo polmonare cronico: in un caso del genere non può ottenersi la guarigione in alcun altro modo se non intraprendendo, a nostra volta, innumerevoli piccoli esercizi in senso opposto, e contraendo inavvertitamente altre abitudini, per esempio, col porsi la regola di trarre, ogni quarto d’ora, un forte e profondo respiro (possibilmente stando sdraiati sul pavimento; un orologio che suoni i quarti, deve essere, inoltre, scelto a compagno della vita). Lente e minute sono tutte queste terapie: anche chi vuol risanare la sua anima deve riflettere sulla trasformazione delle più piccole abitudini. Taluni dicono dieci volte al giorno una parola fredda e gelida a chi sta loro vicino e non fanno gran caso a ciò, e tanto meno, poi, al fatto che, dopo alcuni anni, hanno eretto questa abitudine a legge, che ormai li costringe a contristare dieci volte al giorno chi li circonda. Ma si possono anche abituare a compiere atti di bontà verso questi ultimi, per dieci volte al giorno!
(Aurora, af. 462, “Terapie lente”).

Nietzsche, Contro la Rivoluzione francese
Se una trasformazione deve andare più a fondo possibile, si somministri il farmaco in dosi minime, ma ininterrottamente, per lunghi periodi di tempo. Che cosa c’è di grande che possa essere creato in un baleno? Così dobbiamo guardarci dall’alterare precipitosamente e a viva forza, con una nuova valutazione delle cose, lo stato della morale al quale siamo abituati: no, vogliamo continuare a viverci ancora tanto a lungo finché, presumibilmente molto tardi, ci accorgeremo che il nuovo apprezzamento di valore ha acquistato in noi un potere preponderante e che le piccole dosi di questo apprezzamento, al quale a partire da oggi ci dobbiamo abituare, hanno posto in noi una nuova natura. Si comincia anzi a capire che anche l’ultimo tentativo di un grande mutamento di valutazione, e precisamente riguardo alle questioni politiche, – la “grande Rivoluzione”, – non è stato nulla più di una ciarlataneria patetica e sanguinosa, che attraverso improvvise crisi è riuscita a infondere nell’Europa dei credenti la speranza di un’improvvisa guarigione e con ciò ha reso fino a questo momento impazienti e pericolosi tutti i malati politici.
(Aurora, af. 534, “Le piccole dosi”).

Nietzsche, Amo le abitudini brevi
Amo le abitudini brevi, e le considero l’inestimabile mezzo per imparare a conoscere molte cose e situazioni e per calare giù fino in fondo alle loro dolcezze e amarezze; la mia natura è interamente predisposta ad abitudini brevi, anche nelle esigenze della sua salute corporale, e in genere, per quanto almeno m’è dato vedere, dal grado più basso fino a quello più elevato. Ho sempre la convinzione che una determinata cosa m’appagherà durevolmente – anche l’abitudine breve ha questa fede della passione, la fede nell’eternità – e che io sia da invidiare per averla trovata e conosciuta: ed ecco che essa mi nutre a mezzogiorno e a sera, e diffonde intorno a sé e dentro di me un profondo senso di appagamento, cosicché, senza aver bisogno di confrontare o di disprezzare o di odiare, non desidero altro. Viene un giorno che essa ha fatto il suo tempo: la buona cosa si accomiata da me, non come qualcosa che a questo punto mi ispira disgusto – ma con dolcezza, sazia di me, come io sono sazio di lei, e come se dovessimo essere l’un l’altro riconoscenti e così ci porgessimo la mano per congedarci. E già il nuovo aspetta alla porta e così pure la mia fede – questa indistruttibile follia e saggezza! – che questa cosa nuova sarà quella giusta, la giusta definitiva. Così mi succede con cibi, pensieri, uomini, città, poesie, musiche, dottrine, ordini del giorno, modi di vivere. – All’opposto, odio le abitudini durature e penso che mi s’avvicini un tiranno, e che la mia aria vitale si addensi, quando gli avvenimenti prendono forma in modo tale che di conseguenza abitudini durevoli sembrino scaturirne necessariamente: per esempio, con un impiego, una costante coesistenza con gli stessi uomini, una fissa dimora, un’unica specie di salute. […] Senz’altro, la cosa più insopportabile, quel che è veramente da temersi, sarebbe per me una vita assolutamente priva di abitudini, una vita che continuamente esige l’improvvisazione: questa sarebbe il mio esilio e la mia Siberia.
(La gaia scienza, Adelphi, Milano 1991, af. 295, “Brevi abitudini”).

Nietzsche, Il valore della sofferenza
Ora che la sofferenza deve sempre mettersi in mostra come il primo degli argomenti contro l’esistenza, come il suo peggior punto interrogativo, si farà bene a ricordarsi dei tempi in cui opposto era il nostro giudizio, poiché non si voleva fare a meno di suscitar dolore e si vedeva in ciò una magia di prim’ordine, una vera e propria esca di seduzione alla vita. Forse allora – sia detto a consolazione dei delicati – il dolore non faceva ancora così male come oggi […]. Forse è persino lecito ammettere la possibilità che anche quel piacere della crudeltà non debba essere propriamente estinto: esso avrebbe solo bisogno di una certa sublimazione e assottigliamento, in relazione al fatto che oggi il dolore fa più male […]. Ciò che propriamente fa rivoltare contro la sofferenza non è la sofferenza in sé, bensì l’assurdità del soffrire: ma un tale assurdo soffrire non ci fu in generale né per il cristiano, che ha trasferito all’interno della sofferenza tutto un segreto macchinario di salvazione, né per l’uomo semplice di più antiche età, che sapeva spiegarsi ogni sofferenza in relazione a spettatori o a provocatori di sofferenza. […] “È giustificato ogni male il cui spettacolo è edificante per un dio”: così suonava la primordiale logica del sentimento – e in realtà fu soltanto quella primordiale? Gli dèi pensati come amici di spettacoli crudeli – oh, fino a che punto questa antichissima concezione emerge ancora all’interno della nostra umanizzazione europea! Ci si può eventualmente consigliare, al riguardo, con Calvino e Lutero. Comunque è certo che ancora i Greci non sapevano offrire ai loro dèi nessun altro più gradevole companatico alla loro beatitudine, se non le gioie della crudeltà. Con quali occhi credete voi che Omero faccia guardare dall’alto sui destini degli uomini i suoi dèi? Quale ultimo senso ebbero in fondo le guerre troiane e simili tragiche atrocità? Non si può avere al riguardo il minimo dubbio: erano concepite come spettacoli di festa per gli dèi: e in quanto il poeta è in questo, più degli altri uomini, di natura “divina”, erano altresì spettacoli di festa per i poeti…
(Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2004, Seconda dissertazione, par. 7).

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