Romano Guardini, Il cristianesimo nella società secolarizzata
Partendo da quanto abbiamo esposto ci si apre anche la possibilità di dire qualche cosa sulla religiosità dei tempi futuri con tutte le riserve che la situazione impone ad un tale tentativo.
Guardiamo ancora una volta indietro. Nel Medio Evo la vita era penetrata di religione in tutti i suoi strati e in tutte le sue manifestazioni. La fede cristiana costituiva la verità universalmente accettata. La legislazione, l’ordine sociali, la morale privata pubblica, il pensiero filosofico, la creazione artistica, le idee operanti nella storia, tutto era in qualche modo caratterizzato dal cristianesimo e dalla Chiesa. Con ciò non diciamo nulla sul valore umano e culturale della singola personalità o della singola realizzazione; ma anche il modo in cui si commetteva una ingiustizia era sottomesso alla norma cristiana. La Chiesa era cresciuta in intima connessione con lo Stato; ed anche là dove imperatore e papa, principe e vescovo stavano colle armi alla mano, e si accusavano e si maledicevano reciprocamente, la Chiesa, come tale, non veniva posta in discussione.
Bisogna aggiungere un secondo elemento. La fede cristiana rappresenta un legame personale con Dio che si rivela e l’altezza delle sue conquiste è misurata dalla purezza e dalla fedeltà di tale legame. Ma una questione diversa è di sapere fino a che punto il singolo uomo è capace di fare esperienza di una realtà religiosa, in quale misura egli sente vitale il suo rapporto col divino, e con quale immediatezza esso opera nella sua vita. Profondi erano questi rapporti nel Medio Evo. L’esperienza religiosa era intensa; sviluppata in profondità ed in finezza. Tutte le cose e tutti i rapporti della vita erano saturati da valori religiosi. Poesia e arte, forme statali, sociali, economiche, usi, leggende e vite di santi, anche prescindendo dai loro singoli contenuti, mostrano che l’esistenza tutta aveva un carattere religioso. Qui il Medio Evo si riallacciava intimamente all’antichità e ne era il proseguimento, anzi, si riallacciava ai tempi primitivi della storia ed in esso si manifestava l’afflusso di vita portato dai giovani popoli del Nord, al tempo delle grandi migrazioni. Questo dono di religiosità rappresenta un elemento diverso dalla pietà cristiana; e ciò che essa consente di cogliere nelle cose e negli avvenimenti è diverso dal contenuto della Rivelazione. Ma un rapporto esiste fra questi due campi di esperienza. La religiosità naturale è purificata dalla Rivelazione e introdotta nel suo contesto ideale. Dal canto suo porta alla fede cristiana delle forze elementari, elementi del mondo e della vita, attraverso i quali i contenuti della Rivelazione sono ricondotti alla realtà terrena.
Nel corso dei tempi moderni tutta questa situazione si trasforma profondamente.
La verità della Rivelazione cristiana viene messa in dubbio sempre più profondamente; la sua validità per la formazione e la condotta della vita viene posta in discussione in forma sempre più perentoria. In particolare la mentalità dell’uomo colto si contrappone alla Chiesa in modo sempre più deciso. Sempre più ovvia e naturale appare la nuova pretesa che i diversi campi dalla vita, politica, economia, ordine sociale, filosofia, educazione, ecc. debbano svilupparsi muovendo unicamente dalle proprie norme immanenti. Si costituisce così una forma di vita non-cristiana, anzi per molti aspetti anti-cristiana, che si impone in modo così conseguente da apparire assolutamente normale; e sembra un abuso l’esigenza della Chiesa che vuole che la vita sia determinata dalla Rivelazione. Lo stesso credente accetta in buona parte questa situazione, quando pensa che le cose della religione costituiscano un settore a sé ed altrettanto le cose del mondo; ogni settore deve adottare la forma che conviene alla sua natura e deve lasciare che il singolo viva in un campo e nell’altro nella proporzione che preferisce.
La conseguenza è che da un lato si afferma una esistenza profana, autonoma, staccata da influenze cristiane dirette, e dall’altro nasce un cristianesimo che imita in uno strano modo questa «autonomia». Come si sviluppa una scienza puramente scientifica, una economia puramente economica, una politica puramente politica, così si sviluppa anche una religiosità puramente religiosa. Questa perde sempre più i suoi rapporti diretti con la vita concreta, diviene sempre più povera di contenuto profano, si limita in modo sempre più esclusivo ad una dottrina e ad una prassi «puramente religiose» e non ha più, per molti, altro significato se non quello di dare una consacrazione religiosa ad alcuni momenti culminanti dell’esistenza: nascita, nozze, morte.
In genere è a questo stato di cose che si pensa, quando si parla della moderna situazione religiosa. Ma possiamo ancora aggiungere quel declino della immediata ricettività religiosa, di cui abbiamo già parlato.
La natura viene studiata in modo sempre più sperimentale e razionale; la politica viene sempre più concepita come un puro gioco di forze e di interessi; la tecnica viene adoperata come un grande meccanismo che può essere utilizzato per qualsiasi fine; l’arte viene considerata come una creazione di forme ispirata a criteri estetici e la pedagogia come educazione di un individuo capace di sorreggere questo stato e questa cultura. Nella proporzione in cui ciò avviene, declina la recettività religiosa. Recettività che non intendiamo, lo ripetiamo ancora una volta, come fede nella Rivelazione cristiana e come condotta ispirata a quella Rivelazione, ma come contatto diretto con il contenuto religioso delle cose; quel lasciarsi afferrare dal flusso di mistero che promana dal mondo e che si ritrova presso tutti i popoli ed in tutti i tempi.
Ma ciò significa che l’uomo moderno non solo smarrisce in gran parte la fede nella Rivelazione cristiana, ma subisce anche un indebolimento delle sue disposizioni religiose naturali, e viene sempre più portato a considerare il mondo come una realtà profana. E le conseguenze di una tale situazione sono di vasta portata.
Così ad esempio l’insieme degli avvenimenti di cui consta la vita non appare più come la Provvidenza di cui Cristo ha parlato, e neppure come quel mistero del destino, quale lo sentivano gli antichi, ma come una semplice catena di cause e di effetti empirici, che possono essere compresi e guidati. Ciò si esprime in forme molteplici; esemplare è per tutte l’odierno sistema delle assicurazioni. Se lo si considera negli sviluppi estremi che ha già avuto in molti paesi, esso appare come l’eliminazione di ogni sfondo religioso. Tutte le eventualità della vita vengono «previste», calcolate secondo la frequenza e l’importanza e rese inoffensive.
Gli eventi capitali della vita umana: concepimento, nascita, malattia, morte, perdono il loro carattere di mistero. Divengono fenomeni biologici e sociali di cui si preoccupa una scienza ed una tecnica medica sempre più sicura di sé. E quando rappresentano dei fatti che non possono essere domati, allora si «anestetizzano», si sopprime la loro importanza; e qui, ai margini, e non soltanto ai margini, della cultura, appare una tecnica complementare a quella che mira a trionfare razionalmente della malattia e della morte, cioè l’eliminazione di quella vita che non appare più degna di essere vissuta neppure allo stesso vivente, o non appare più corrispondente ai fini che lo Stato si propone.
Scompare quell’accento religioso che un tempo era messo sullo Stato; quel carattere di grandezza fondato su di una consacrazione considerata in qualche modo divina. Lo Stato moderno deriva tutto il suo potere dal popolo. Per un certo tempo si cerca di attribuire al popolo stesso un certo carattere di grandezza (si pensi alle concezioni del romanticismo, del nazionalismo, della prima democrazia). Ma presto l’idea si svuota del suo contenuto e non significa più nulla, se non che il «popolo», diremo meglio i molti cittadini che appartengono allo Stato, esprimendo in una qualunque forma la propria volontà costituisce l’ultima istanza nella serie delle misure prese dallo Stato; quando non si tratti in realtà di una frazione capace di agire, che assuma la direzione del governo.
E molto ci sarebbe ancora da dire: dappertutto si costituiscono forme di vita che derivano solo da fattori empirici.
Ma qui sorge la questione se una vita così costruita possa avere possibilità di durare. Ha essa il senso necessario ad una vita che vuol rimanere vita di uomini? È capace di raggiungere le mète che di volta in volta devono essere raggiunte?
Le strutture non perdono la loro forza, quando non sono considerate che nel loro contenuto empirico? Lo Stato, ad esempio, ha bisogno del giuramento. È la forma che lega di più l’uomo, quando egli fa una dichiarazione o si impegna ad una azione. E ciò avviene in quanto chi presta il giuramento riferisce espressamente e solennemente la sua dichiarazione a Dio. Che avviene quando – e tale è la attuale tendenza – il giuramento non include più questo rapporto con Dio? In tale caso esso significa semplicemente che chi presta il giuramento sa chiaramente che sarà punito con la galera, se non dice la verità: una formula che ha ormai ben poco senso e certo non ha efficacia.
Ogni essere è più che se stesso; ogni avvenimento significa più che non il suo stretto compiersi. Tutto si riferisce a qualche cosa che sta al di sopra o al di là. E solo a partire di là riceve la sua pienezza. Se esso scompare le cose e le situazioni si svuotano di senso. Perdono la forza del proprio significato, non convincono più. La legge dello Stato è più che il semplice complesso delle norme che regolano una condotta pubblicamente approvata; al di là della legge si trova un che d’intangibile che s’impone alla coscienza, quando la legge sia stata violata. L’ordine sociale è più che non la semplice garanzia di una vita in comune senza attriti; al di là sta alcunché che in qualche senso trasforma la trasgressione in delitto. Questo elemento religioso fa sì che le diverse attitudini necessarie per l’esistenza umana si determinino «da sé», anche senza pressione esteriore, che i differenti elementi rimangano in rapporto gli uni con gli altri e costituiscano una unità. Non esiste un mondo puramente profano, e quando una volontà ostinata riesce a creare un qualche cosa che gli assomigli, esso non funziona. È un artificio senza forza interiore. La ragione che guida la vita e che sta al di sotto della ragione razionalistica, non si lascia convincere da quest’ultima. Il cuore non ha più il sentimento che un tale genere di mondo «valga la pena» di essere vissuto.
Senza elemento religioso la vita diviene come un motore che non ha più olio. Si riscalda, ad ogni momento qualche cosa si brucia, e dappertutto si smuovono pezzi di ingranaggi. Il centro ed i raccordi si spezzano. L’esistenza si disorganizza e si produce quel corto circuito a cui assistiamo da trent’anni ed in proporzioni sempre crescenti: si usa la violenza e si cerca così una via di uscita alla perplessità impotente. Dal momento che gli uomini non si sentono più uniti dal di dentro, vengono organizzati dal di fuori. Ma a lungo andare si può esistere sotto la costrizione?
Abbiamo visto che dall’inizio del tempo moderno si viene elaborando una cultura non-cristiana. Per lungo tempo la negazione si è diretta solo contro il contenuto stesso della Rivelazione; non contro i valori etici, individuali o sociali, che si sono sviluppati sotto il suo influsso. Anzi, la cultura moderna ha preteso di riposare precisamente su quei valori. Secondo questo punto di vista, largamente adottato dagli studi storici, valori come ad esempio quelli della personalità e dignità individuale, del rispetto reciproco, dell’aiuto scambievole, sono possibilità innate nell’uomo, che i tempi moderni hanno scoperto e sviluppato. Certamente la cultura umana dei primi tempi del cristianesimo ha favorito la loro germinazione, mentre nel Medio Evo sono state ulteriormente sviluppate dalla preoccupazione religiosa per la vita interiore e la carità attiva; ma poi questa autonomia della persona ha preso coscienza di sé ed è divenuta una conquista naturale, indipendente dal cristianesimo. Questo modo di vedere si esprime in molteplici forme ed in modo particolarmente rappresentativo nei diritti dell’uomo al tempo della Rivoluzione Francese.
In verità questi valori e queste attitudini sono legati alla Rivelazione, la quale si trova in un particolare rapporto riguardo a ciò che è immediatamente-umano. Discende dalla libertà della grazia divina, ma attrae l’uomo nella sua economia e ne nasce la struttura cristiana della vita. Così si liberano nell’uomo delle forze che sono per sé «naturali», ma non si svilupperebbero al di fuori di quell’economia. L’uomo diviene consapevole di valori che per sé sono evidenti, ma divengono visibili solo in quell’atmosfera. L’idea che questi valori e questi atteggiamenti appartengano semplicemente alla evoluzione della natura umana, mostra di misconoscere il vero stato di cose; anzi, bisogna avere il coraggio di dirlo apertamente, conduce ad una slealtà che all’osservatore attento appare caratteristica dell’immagine dell’epoca moderna.
Il carattere di persona è essenziale all’uomo, ma esso diviene visibile allo sguardo ed accettabile alla volontà, quando, in grazia della adozione a figli di Dio e della Provvidenza, la Rivelazione schiude il rapporto col Dio vivo e personale. Se ciò non avviene si può avere coscienza dell’individuo ben dotato, elevato, creatore, ma non della autentica persona, che è determinazione assoluta di ogni uomo, al di là di tutte le qualità psicologiche o culturali. La conoscenza della persona è perciò legata alla fede cristiana. La persona può essere affermata e coltivata per qualche tempo anche quando tale fede si è spenta, ma poi gradatamente queste cose vanno perdute.
Lo stesso accade per i valori in cui la consapevolezza della persona si sviluppa. Così accade, ad esempio, di quel rispetto che non va ad un dono particolare o ad una situazione sociale, ma al fatto in sé della persona, alla sua qualità di essere unico, insostituibile, inalienabile, in ogni uomo, comunque egli sia disposto e proporzionato… O di quella libertà, che non significa la possibilità di espandersi e vivere in piena misura, ed è per ciò riservata all’uomo privilegiato in sé o socialmente, ma è la capacità che ogni uomo ha di decidersi e di essere così padrone del suo atto e in tale modo padrone di se stesso… Ovvero di quell’amore verso l’altro uomo che non significa la simpatia, l’aiuto reciproco, il dovere sociale, ma la capacità di dar l’assenso al «tu» nell’altro e di essere in tal modo «io». Tutto ciò resta vivo fino a quando resta vitale la conoscenza della persona. Ma quando essa impallidisce, assieme al rapporto cristiano con Dio, scompaiono anche quei valori e quelle attitudini.
Il non avere riconosciuto questi rapporti, l’aver rivendicato a sé la persona ed il mondo dei valori personali, sopprimendo la Rivelazione cristiana, che ne costituisce la garanzia, ha generato quella slealtà interiore di cui abbiamo parlato. Tutto ciò si è del resto rivelato in modo graduale. Il classicismo tedesco si regge su valori ed atteggiamenti che sono già vaghi. La sua nobile umanità è bella, ma manca della suprema radice di verità, poiché rifiuta la Rivelazione dei cui effetti purtuttavia si nutre tutta. E così, già nella generazione seguente il suo atteggiamento umano comincia ad impallidire. E non perché si trovasse ad un livello meno elevato, ma perché di fronte all’irrompere del positivismo la cultura della persona, tagliata dalle sue radici, si rivelò impotente.
Questo processo è ulteriormente proseguito, e quando improvvisamente fece irruzione il sistema di valori degli ultimi vent’anni, in così stridente contrasto con tutta la tradizione culturale moderna, la subitaneità e la contraddizione furono solo apparenti: in realtà si era rivelato un vuoto che esisteva ormai da lungo tempo. L’autentica personalità, assieme al suo mondo di valori e di atteggiamenti, era scomparsa dalla coscienza col rifiuto della Rivelazione.
Il tempo che viene creerà qui una chiarezza terribile, ma salutare. Nessun cristiano può rallegrarsi dell’avvento di una radicale negazione del cristianesimo. Poiché la Rivelazione non è una esperienza soggettiva, ma la verità assoluta, manifestata da Colui che ha anche creato il mondo; ed ogni ora della storia che rende impossibile l’influsso di questa verità è minacciata nel suo intimo. Ma è bene che si metta a nudo quella slealtà. Poiché allora si vedrà quale è effettivamente la realtà, quando l’uomo si è distaccato dalla Rivelazione, e vengono a cessare i suoi frutti.
Ma ci rimane ancora da rispondere alla domanda di quale natura sarà la religiosità dei tempi futuri. Non il suo contenuto rivelato, ché esso è eterno; ma le forme storiche del suo realizzarsi, la sua struttura umana. Qui molto ci sarebbe da dire e da supporre, e ci dobbiamo limitare.
Importante sarà anzitutto ciò che abbiamo da ultimo accennato: il deciso manifestarsi dell’esistenza non cristiana. Quanto più decisamente il non-credente attua il suo rifiuto della Rivelazione e quanto più conseguentemente lo traduce nella pratica, tanto più chiaramente si vedrà che cos’è il cristianesimo. Il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare a quell’«usufrutto» che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato. Deve attuare onestamente la sua vita senza Cristo e senza il Dio che Cristo ha rivelato, ed esperimentare che cosa questo sia. Già Nietzsche aveva ammonito che il moderno non-cristiano non aveva ancora compreso che cosa sia essere tale. I vent’anni trascorsi ce ne hanno dato una idea, e non era che l’inizio.
Un nuovo paganesimo si sviluppa, ma di natura diversa da quello antico. Anche qui ci troviamo di fronte ad un equivoco, che si rivela, fra l’altro, nei rapporti con l’antichità. L’attuale non-cristiano ritiene spesso di poter cancellare il cristianesimo e cercare una nuova via religiosa riallacciandosi direttamente agli antichi. Ma qui sbaglia. Non si può risalire a ritroso nella storia. Come forma di esistenza l’antichità è definitivamente tramontata. Quando l’uomo di oggi diviene pagano, lo è in forma totalmente diversa dall’uomo prima di Cristo. L’atteggiamento religioso dell’uomo antico, nonostante tutta la grandezza della sua vita e delle sue opere, aveva qualcosa di giovanilmente ingenuo. Si trovava al di là di quella opzione suprema richiesta dal Cristo, per la quale – qualunque sia la sua decisione – l’uomo si pone su di un altro livello esistenziale: Sören Kierkegaard lo ha chiarito una volta per sempre. L’esistenza dell’uomo acquista ora una serietà che l’uomo antico non ha conosciuta, perché non poteva conoscerla. Serietà che non proviene da una maturità propria dell’uomo, ma dall’appello che, attraverso Cristo, Dio rivolge alla persona: essa apre gli occhi ed è ora desta, che lo voglia o non lo voglia.
Romano Guardini, La religione è fondamento di libertà e cultura
La cultura dell’uomo era agli inizi tutta quanta di natura religiosa. Solo assai tardi ha potuto elaborarsene una interamente mondana, isolata dalla grande sintesi. La concezione corrente della cultura e della sua storia vede in ciò senz’altro qualcosa di positivo. Ormai è domma che il distacco dell’opera umana — della scienza, della moralità, dell’educazione, dello stato, dell’economia, dell’arte — dai nessi e connessi religiosi è stato sia per la cultura in se stessa, sia per la personalità dell’uomo un progresso verso più alte concrete realizzazioni ed umani sviluppi. L’attività culturale sarebbe attualmente sottoposta al puro punto di vista dell’obiettività critica. Lo spirito operante resterebbe ora puramente concentrato sull’oggetto e svilupperebbe un massimo d’efficienza operativa.
Sorgerebbe così una cultura libera nella sua propria essenza, vincolata unicamente ai propri criteri, una cultura, cioè, autonoma. E altrettanto una umanità ad essa corrispondente, creatrice di cultura. L’uomo stesso dunque si libererebbe da ogni vincolo che non venga dalle cose stesse; ed elaborerebbe le proprie valutazioni, svolgerebbe le proprie iniziative e maturerebbe come creatore autonomo. Per una simile concezione ogni obiettivo vincolo religioso sarebbe minaccia alla libertà, perché renderebbe dipendente la personalità creatrice da un’istanza estranea al proprio campo operativo. L’opera cadrebbe sotto punti di vista equivoci e l’operante diventerebbe ambiguo. Pensata decisamente fino in fondo una simile concezione conduce alla conseguenza che anche ogni vincolo religioso soggettivo pone a repentaglio l’autonomia umana. Perché, se l’elemento religioso possiede le caratteristiche che sono state descritte, è, come tale, straniero alla realtà mondana immediata e vi può incidere solo portando sconcerto. Il positivismo in tutte le sue forme arriva infatti alla conclusione che ogni elemento religioso deve scomparire dalla vita e dall’azione umane.
Viceversa nasce di qui una religiosità che si ritira sempre più dai campi della vita culturale, elimina dal proprio mondo ogni contenuto mondano, si fa « più interiore », ma con ciò anche più povera e più inerte.
C’è del vero, è chiaro, nella concezione descritta. Quando si vede come certi presupposti religiosi possono deviare o vincolare il giudizio culturale e l’energia operante dell’uomo, si costata pure l’importanza che il punto di vista dell’autonomia dei singoli settori culturali ha avuta. L’apporto culturale dell’età moderna infatti è stato d’un’imponenza immensa.
Ma c’è un’altra domanda da farsi: quale fu il costo di tutti questi risultati? Le considerazioni di questo libro hanno mostrato quanto sia essenziale l’elemento religioso nella totalità dell’esistenza. È dunque già chiaro a priori che la sua eliminazione implica perdite di natura essenziale: le radici dell’agire s’allentano; il terreno su cui ci si fonda non è più solido; interiorità e profondità spariscono; tutta una dimensione va perduta. La precisione dell’applicazione scientifica, la liberazione delle energie conquistatrici e plasmatrici vengono pagate con una specie di rarefazione nell’azione e nella vita, in cui s’insinuano sempre più evidenti sensazioni d’insoddisfazione, di vuoto e d’assurdo. La misura della realtà mondana conquistata cresce sempre più ed è posta sempre più facilmente a disposizione dell’uomo, l’efficienza del lavoro umano si moltiplica; ma nello stesso tempo cresce sempre più il dubbio se tutto ciò valga la sua spesa e non sia negativo alla fine il bilancio fra il mondo e il suo significato.
A riguardo poi dell’uomo stesso, aumenta sempre più l’apprensione ch’egli vada perdendo, per così dire, di peso specifico, di validità personale-umana. Per quanto poi concerne la libertà, ecco un dato di fatto sconcertante, di cui aumenta sempre più l’evidenza: l’uomo cade in balia della sua stessa opera. Egli ha distrutto i vincoli religiosi per giungere alla piena autosignoria del proprio agire e del proprio disporre del mondo, ma ecco che l’opera risultante si fa essa stessa autonoma e riduce l’uomo a propria funzione. Il processo giunge alla sua espressione politico-sociale in una società o in uno Stato, che eliminano in modo sempre più conseguente l’iniziativa individuale e riducono l’uomo a strumento per i propri fini.
Qui è all’opera un’intima logica di cui l’uomo odierno non s’è reso ancora realmente consapevole. Si fa strada la convinzione che quell’elemento dell’esistenza da cui l’uomo moderno si è svincolato per amore della sua libertà e della sua opera personali, è in realtà il presupposto necessario, perché egli possa essere davvero libero e signore di sé e possa compiere un’opera capace di donargli la coscienza d’un autentico significato.
Un’altra conseguenza risulta chiara. Il principio dell’obiettiva autonomia dei settori di cultura ha portato a realizzazioni in misura di continuo crescente: la scienza moderna con i suoi campi sempre più suddivisi; la struttura sociale con le sue articolazioni sempre più numerose, la tecnica, l’economia, ecc. L’impulso di differenziazione è così forte e le esigenze dei singoli settori di lavoro grandi, che l’unita diviene sempre più debole. Ma l’unità è assolutamente essenziale; e non soltanto a causa della reciproca interdipendenza dei singoli campi, ma essa stessa in quanto tale. In essa culmina l’opera. Questa dev’essere il «mondo» in cui l’uomo esiste. Se i singoli campi escono dalla sintesi, o addirittura si disturbano l’un l’altro, penetra nell’esistenza obiettiva la malattia che lo psicologo conosce come disgregazione della personalità e che si chiama schizofrenia. È quanto esattamente avviene. Noi viviamo in una progrediente obiettiva schizofrenia, la quale non può non influire di riflesso sull’uomo stesso. Insorge la domanda come si possa ovviarvi.
La forza creatrice d’unità era, fino all’inizio dell’età moderna, l’elemento religioso. Di qui venivano le istanze datrici di senso (Sinngebungen) per la vita e per l’attività umana. In esso s’integrava in definitiva la molteplicità dell’esistenza. Ma nella misura ch’esso si perse. si dovette cercare altrove l’istanza creatrice d’unità. La si volle vedere per un certo tempo nella «Cultura» . un concetto in cui si rifletteva quello di «Natura» . Ci si convinse cioè che esistesse operante nella Storia una forma totale, efficace di necessità. Quando l’uomo avesse cercato d’obbedire alle obiettive esigenze d’un eventuale settore d’attività, si sarebbe spontaneamente generato un tutto, cioè la «Cultura» . Ma questa fede si è dimostrata falsa. Il fare dell’uomo non sta in rapporto analogo verso l’operare delle forze naturali, le quali generano spontaneamente e necessariamente un tutto; ma in tutto ciò che l’uomo fa incide la libertà che può muovere le cose giustamente, ma anche falsamente. Fu necessario allora trovare un’altra istanza ordinatrice, ed essa divenne sempre più lo Stato. Secondo la concezione che attualmente più s’impone, lo Stato è in grado di collegare la immensa varietà della vita e dell’attività umana in unità. L’autonomia, che prima il singolo aveva preteso per sé, passa ora oltre, e lo Stato sarebbe competente e capace di attuare in piena sovranità l’unità dell’esistenza.
Nasce così la concezione dello Stato totalitario che invade ogni singolo settore della vita e dispone dell’uomo e della sua opera. Quanto e successo finora consente già un giudizio: le realizzazioni saranno immense, ma l’uomo sarà un puro strumento.
Il senso della Storia futura dipenderà dal riconoscimento o meno dell’elemento religioso, come vero presupposto nella libertà dell’uomo e della possibile unità della sua opera. Ora i problemi che nascono si trovano nella seguente direzione: in che modo potrà l’obiettività critica moderna essere inserita nei rapporti religiosi in maniera che essa vi conservi il proprio significato e vi adempia il proprio compito? Ma qui dobbiamo fermarci.
Fenomenologia e teoria della religione, in “Scritti filosofici”, tr. it. a cura di G: Sommavilla, Fabbri Editori, Milano 1964, vol. II, pp. 325-327.
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