Kierkegaard, Fede e ragione
«Io sono e sono stato un pensatore religioso». Così si definiva Kierkegaard nel 1850, nella piena maturità del suo pensiero. E, nel diario dello stesso anno, precisava nei termini seguenti il punto capitale della sua attività letteraria: «È chiaro che nei miei scritti ho dato un’ulteriore determinazione del concetto sulla fede» (Papirer, 1850, X, A 591).
Il testo si ferma qui. Ma si sa che per Kierkegaard, come per ogni cristiano, il problema della fede s’identifica con il problema dell’esistenza cioè con quello del senso e della dialettica del nostro destino; il problema della fede perciò è la prova del fuoco del pensiero di Kierkegaard. Tanto più che l’esegesi ufficiale delle sue opere — sia essa di autori protestanti, cattolici o perfino atei — è stata quasi concorde nel contestare alla fede, com’è intesa da Kierkegaard, ogni consistenza teologica o filosofica: essa sarebbe puramente un’evasione violenta tanto dalla sfera della ragione come da quella della fede veramente teologica, una protesta vuota lanciata da Kierkegaard in faccia ai suoi contemporanei. Quindi filosofi e teologi, protestanti e cattolici, esteti e moralisti, spiriti religiosi e atei dichiarati…, tutti insomma si sentono a disagio dinanzi ai suoi scritti, tutti eludono una critica ed una istanza che li obbligherebbe a rivedere le loro peculiari posizioni su di un punto essenziale che sembra debba restare intangibile.
La teologia di Kierkegaard, conosciuta poco o male negli ambienti cattolici, era interpretata come una crisi circoscritta o personale dell’anima protestante. Tuttavia per confessione dello stesso Kierkegaard e oggi dei più celebri teologi protestanti — come ai suoi tempi, per riconoscimento dei vescovi Mynster e Martensen — questa nuova teologia della fede muove un’accusa formale a tutta la concezione protestante della vita. Per questa ragione, probabilmente, gli scritti di Kierkegaard oggi sono apprezzati meno dalla teologia tedesca, dopo aver conosciuto un tempo di grande autorità in Germania alla fine dello scorso secolo e nei primi decenni di questo. Perfino in Danimarca, l’interesse per Kierkegaard sembrava indebolito, mentre aumentava il prestigio del nome venerabile di Grundtvig, il genio nazionale della religiosità danese. Si comprende facilmente questo scambio di posizioni: Grundtvig era pastore e tutta l’opera sua s’incentra sulla Chiesa; ha scritto su questa pagine notevoli che arieggiano in certi punti l’ecclesiologia cattolica. Invece si ha l’impressione che Kierkegaard lasci il cristiano solo e abbandonato, in balia dei giganti e dei draghi della filosofia, della politica, dell’incredulità e dell’intera armata dei sette peccati capitali.
Questi timori e queste riserve non sembrano, almeno a prima vista, privi di fondamento. Kierkegaard infatti non cessa mai d’affermare dal principio alla fine della sua opera che “la verità è la soggettività”. La ragione e la filosofia non hanno fatto e non fanno altro che eliminare Dio dalla coscienza umana perché lo abbassano alla loro misura. L’oggetto della fede è l’assurdo, è l’odio per il mondo, il paradosso, l’irrazionale… L’essenza della vita cristiana è la sofferenza, la persecuzione, il martirio. Infine — ed io non ho intenzione di enumerare qui tutte le tesi di Kierkegaard, bensì di darne solo la trama essenziale — il Cristianesimo, così come è voluto da questo “terribile libro” che è il Nuovo Testamento, non è mai esistito, non è stato ancora realizzato.
Queste proposizioni prese alla lettera hanno certamente un senso eterodosso per ogni confessione, specialmente per la dottrina cattolica. Kierkegaard l’ha ricercato talvolta di proposito e spesso non ha preso tutte le precauzioni necessarie per evitarlo. È facile perciò coglierlo talora in contraddizione con se stesso anche in punti cruciali, oppure constatare la sua incapacità di dominare la problematica che i suoi princìpi hanno sprigionata. Nondimeno l’opera di Kierkegaard è tutt’altro che negativa: certo è la più notevole fra quelle religiose del secolo scorso e si pone a cavaliere fra l’opera di Newman il convertito e quella di Nietzsche l’ateo. Numerosi termini e non pochi problemi prendono consistenza ed invitano ad uno studio più accorto e comprensivo, quando sono situati nel loro contesto. Le considerazioni che esporrò vorrebbero brevemente trattare il problema della fede nell’opera di Kierkegaard: qual è il suo valore ed il suo significato, quale la natura esatta di questa “ulteriore determinazione” di cui parla il testo citato all’inizio di questo articolo?
La lettura dei testi di Kierkegaard situati nel loro contesto e nello sviluppo dottrinale di cui fanno parte sarà sufficiente per la nostra tesi (perciò crediamo anche di giungere ad una conclusione definitiva); e possiamo rinunciare ad ogni polemica diretta con gli esegeti dell’un campo o dell’altro. La nostra ricerca si limiterà rigorosamente al problema della fede nei termini ora indicati, problema al quale, contro la quasi totalità degli autori, noi siamo persuasi che si debba dare un contenuto ed una soluzione assolutamente positivi. Noi vediamo egualmente necessario di mettere in guardia questa esegesi contro una tendenza metodologica che, alla luce della conoscenza attuale della vita e dell’opera di Kierkegaard, appare del tutto inadeguata. Kierkegaard potrà continuare a sfuggire ad ogni classificazione, potrà non sembrare né cattolico né protestante. Il problema essenziale non è questo. D’altra parte Kierkegaard ripete mille volte che non intende fondare una nuova scuola o fare un sistema, ma vuol essere solamente la voce di risveglio che scuote un cristianesimo pigro, fuorviato e assonnato. La mia modesta opinione è che questa voce, questo “grido nella notte”, ha raggiunto spesso il suo intento e la problematica della fede che essa presenta costituisce nel suo momento essenziale un ritorno alla posizione cristiana autentica e, se si vuole, perfino alla posizione cattolica e tomista, almeno su certi punti.
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L’ “assurdo ” della ragione e il “paradosso” della fede. — Se questa è in sostanza la posizione di Kierkegaard, così infatti le pagine precedenti ed i testi citati invitano a pensare, come accusano in sede cristiana d’irrazionalismo? Eppure è una accusa che gli è stata fatta non soltanto dai nazionalisti, ciò che non ha nulla di strano, ma anche dai cristiani e da teologi di tutte le confessioni. In questo senso preciso l’accusa sostiene che la posizione presa da Kierkegaard esigerebbe l’abbandono di ogni esercizio della ragione a beneficio della fede e significherebbe la condanna di ogni apologetica e di ogni riflessione teologica. Tutto ciò implicherebbe l’abdicazione della fede dinanzi alla ragione, prima e dopo la fede. Questa fu appunto l’interpretazione che della teologia di Kierkegaard diede proprio suo fratello Pietro, pastore, poi vescovo di Aalborg, in una conferenza mensile di pastori del 30 ottobre 1849 a Roskilde. Lo stesso giudizio si trova in un opuscolo contemporaneo scritto da un certo Magnus Eirikson sotto lo pseudonimo di “Teophilus Nicolaus” col titolo alquanto pomposo: “È mai la fede un paradosso? E ciò a motivo dell’assurdo? Un problema occasionato dal libro: Timore e Tremore di Johannes de Silentio, al quale si risponde con le comunicazioni intime d’un cavaliere della fede, per la comune edificazione di Giudei, di Cristiani e di Maomettani, da parte del fratello del citato cavaliere della fede, Theophilus Nicolaus (Copenaghen, 1850). A suo fratello, Kierkegaard rispose significando la sua disapprovazione con una lettera piuttosto amara. Progettò una risposta più ampia a Teophilus Nicolaus, che non fu mai pubblicata; i frammenti che se ne sono conservati si trovano nell’edizione integrale dei Papirer e noi fra poco ne daremo le pagine più importanti. Quanto all’essenziale della posizione di Kierkegaard, mi sembra che non si possa concepire più il minimo dubbio. Egli intende difendere la trascendenza assoluta del cristianesimo contro l’invasione d’una ragione illuminista e idealista e vuol distruggere l’equivoco che veniva dalla teologia della destra hegeliana. Gli eccessi oratori ai quali talvolta lo porta il fuoco della polemica si temperano e trovano la loro giusta misura in numerosi altri testi espliciti e quanto mai probativi dove la situazione dei rapporti tra la fede e la ragione è descritta in termini conformi a quelli della teologia tradizionale. Geismar l’ha nettamente riconosciuto nonostante l’avviso contrario di Bohlin: implicitamente lo riconosce anche Karl Barth.
In queste note noi ci limiteremo ai punti essenziali della controversia, cioè:
a) possibilità dell’apologetica (ratio ante fidem, ad fidem);
b) possibilità della teologia (ratio post fidem, pro fide);
c) possibilità, in generale, d’un rapporto e incontro positivo fra la natura e la grazia.
Possibilità dell’apologetica. C’è apologetica e apologetica. Appartiene all’essenza del cristianesimo che la ragione non possa darsi il fondamento intrinseco della verità rivelata. La tesi hegeliana secondo la quale proprio la speculazione costituirebbe la verità della fede, lungi dall’essere una difesa, è invece una distruzione della fede. Questa non riposa sulla scienza, ma sull ‘autorità. Ma Kierkegaard inoltre ammette e afferma categoricamente che l’autorità qui si trova fondata: “Quando si dice che la Fede si appoggia sull’autorità, e con ciò si crede di aver escluso il momento dialettico, si è in errore. La dialettica della Fede comincia con la questione: “Come ora avviene che ci si affida a questa autorità? c’è una ragione per sceglierla o è per un puro caso?” In quest’ipotesi l’autorità non è autorità neppure per il credente, se egli sa che si tratta di un puro caso” (V Diario, 32, tr. it. n. 787)
Così per quel che riguarda Cristo, la passione della dialettica avrebbe voluto un paradosso assoluto: cioè che “il Figlio di Dio si fosse incarnato, fosse venuto al mondo e vi fosse vissuto in modo da passare inosservato: restando, nel senso più rigoroso, un individuo come tutti gli altri, con un mestiere, una famiglia, ecc. (qui si potrebbero introdurre alcune osservazioni per sapere se la vita di Cristo non sia stata regolata secondo un criterio più alto della morale). In questo caso Dio invece di essere Dio e Padre degli uomini sarebbe stato il supremo ironista. (Se il gregge stimatissimo dei teologi e filosofi attuali avessero un pizzico d’idee in zucca, l’avrebbero già da tempo pensato, e chissà che chiasso ne avrebbero fatto. Ma non son proprio le idee che da essi bisogna cercare). Il paradosso divino nel Cristo è di essersi fatto notare, almeno con l’essere crocifisso, col fare miracoli, ecc.: ciò che implica comunque ch’Egli ha potuto farsi riconoscere dalla Sua autorità divina, anche se è necessaria la Fede per risolvere il Suo paradosso — la sciocca ragione umana vuole ch’Egli abbia successo, ch’Egli trascini i contemporanei, li entusiasmi, ecc. Mio Dio! È proprio una cosa dell’altro mondo riuscire a trascinare i propri contemporanei!” (IV Diario, 103, tr. it. n. 713). Nella giustificazione dell’autorità perciò si può parlare di una funzione positivo-positiva della ragione: questa fa riconoscere l’autorità, la persona che ha l’autorità, l’autorità che esige la fede: “Credete in me e nelle mie parole”.
E Kierkegaard si richiama qui espressamente a S. Agostino, per il quale la perfezione del Cristianesimo è precisamente l’autorità, perché questa è la verità sotto la sua forma più perfetta, tanto che se qualcuno potesse avere la stessa verità senza l’autorità, egli sarebbe meno perfetto, poiché l’autorità è la cosa perfetta.
“Ahimé! Agostino aveva ancora potuto imparare ciò di cui gli uomini hanno bisogno: l’autorità, ciò che precisamente l’umanità, estenuata dai dubbi dei filosofi e dalle miserie della vita aveva potuto imparare dal Cristianesimo che allora entrava nel mondo! Ora la faccenda si è capovolta. Un cosiddetto Cristianesimo filosofico spiega precisamente che l’autorità costituisce lo stadio. imperfetto, ch’essa è al massimo qualcosa di adatto per la plebe: che la perfezione è di abolirla… per ritornare alla situazione in, cui si trovava ‘ma che il Cristianesimo entrasse nel mondo” (XI Diario, 436, tr. it. n. 3046).
È certo pertanto che anche per Kierkegaard esiste una risoluzione dell’atto di fede, che questa porta sull’autorità e che l’autorità è garantita da segni esteriori: p. e. da miracoli. Ma qui, d’accordo col Vangelo, egli distingue due forme o meglio due fasi dell’atto di fede.
Una fase iniziale, in cui si crede a motivo dei miracoli che si sono visti o sono convenientemente attestati.
Un’altra in cui si crede anche senza miracoli, e quest’ultima è più perfetta di quella.
Kierkegaard commenta in questi termini il testo evangelico: “Se non vedete segni e miracoli, voi non volete credere” [Gv 4,48]. Si vede qui quanto sia esatto il fare della Fede una sfera a parte. Perché se quello che di solito si dice “credere” (credere ch’esiste un Dio, una Provvidenza, ecc., cosa che non è altro che un sapere, ovvero quell’immediatezza che può essere chiarita col pensiero, ma non è tentata da scrupoli che vi tormentano fino all’assurdo) fosse credere, allora le parole di Cristo diventerebbero un “anticlimax”, Cristo verrebbe a dire tutto il contrario. Perché quel “quasi credere” s’illude di credere; coi miracoli e simili cose non se la può intendere; crede, come si dice, in Dio o in Cristo, ma lascia da parte i miracoli. — Cristo però dispone la cosa in modo diverso. Prima viene quella Fede che crede nei miracoli, perché li vede; poi viene la seconda che crede, anche se non ne vede più alcuno. Queste sono le due categorie della Fede: qui abbiamo l’assurdo e i segni dello scandalo. Prima, credere che Dio voglia operare qualcosa contro la nostra ragione e intelligenza (l’assurdo). Quando poi si è creduto che questo succederà, seguitare in ogni modo a credere, anche se non accadrà più. Ma se uno toglie la prima categoria della Fede (credere perché si vedono segni e prodigi), allora le sfere si confondono e il sapere e la forza più alta del sapere arrivano ad assomigliarsi. Perché il sapere, quando gli si permette di chiamarsi Fede, non esige alcun miracolo, anzi vuoi piuttosto farne a meno, dato che il miracolo è un motivo di scandalo. Ma la più alta forma di Fede è credere senza vedere segni e miracoli. Qui si ha un esempio della confusione che nasce dal non badare a far della Fede una sfera a parte” (VIII Diario, 672, tr. it. n. 1408). Il miracolo perciò ha un posto nella scienza cristiana, ma deve essere conservato come tale, cioè come rottura nel mondo dei fenomeni e arresto per la ragione che tende a spiegare tutto. Kierkegaard attacca Henrik Steffens che nella sua Religions-philosophie aveva presentato una teoria che trovava logico per il pensiero che ci fosse stato posto anche per i miracoli (VII Diario, 331); a proposito del celebre saggio antropologico di G. E. Carus, Psyche, egli critica aspramente il positivismo moderno che, ubriacato dai nuovi mezzi di investigazione, pretendeva di spiegare il miracolo (cfr. VII Diario, 186ss).
Ragione e fede. Il lavoro della ragione pertanto non è escluso dall’oggetto della fede come tale, certo non per spiegarlo, ma per preparare l’uomo ed invitarlo in qualche modo ad accettarlo. Meglio ancora, la ragione può stabilire che l’oggetto della fede trascende la ragione e non può dipendere da questa. Kierkegaard ha forgiato la formula comprendere che non si può comprendere che ricorda, come indica egli stesso, il “niente può essere nello stesso tempo conosciuto e creduto” (di S. Tommaso). La Postilla tratta per la maggior parte di questo problema, che esprime insieme l’assoluta eterogeneità della ragione della fede e la possibilità per la prima di arrivare ad ammettere la trascendenza della seconda con una certa conoscenza di causa.
Nella sua età matura, Kierkegaard tornò esplicitamente all’esame del contenuto e del senso della Postilla e lo precisò nel senso indicato qui sopra, giungendo ad ammettere espressamente la possibilità d’una riflessione teologica subordinata, naturalmente, alla fede. Il cristianesimo è comunicazione d’esistenza e non esclusivamente una nuova dottrina. Secondo Kierkegaard, il primo movimento della coscienza cristiana va dalla fede alla fede, sempre dentro la fede. Ma nella benevolenza che lo caratterizza, il cristianesimo permette anche l’esercizio della ragione, purché questo non oltrepassi i suoi propri limiti e si contenti di comprendere che non si può e non si deve comprendere: “Nella Postilla, egli scrive, vi sono due punti importanti: Nel senso cristiano più rigoroso, non dovrebbe esserci una “scienza cristiana”. In ogni caso, il pensatore cristiano deve sollecitare dalla fede, come in segno di indulgenza, il permesso di occuparsi di scienza: perché questa è inferiore, non superiore a quella. E ciò non è affatto un principio nuovo, ma il principio stesso del cristianesimo. E molto meno è un nuovo principio scientifico, come se si trattasse di creare una nuova scienza per provare che esiste una scienza; no, questo principio indica semplicemente i limiti della concezione cristiana. La formula della Postilla è quella buona: dalla fede alla fede per l’esistenza come fine e non per la speculazione, meno ancora per questa ultima considerata come qualcosa di superiore. Se qualcuno non può accontentarsi della semplice fede, attenersi alla fede, egli troverà a sua disposizione qualcosa di più elevato: il martirio, l’agire come esistente per il cristianesimo al punto d’essere disprezzato, schernito, condannato a morte… Dal punto di vista cristiano è questa la sola maniera di andare oltre la fede. Il cristianesimo, nel senso più rigoroso, è l’impazienza dell’esistenza, l’impazienza dell’eternità. Una volta contemplata sotto questa luce, la situazione dell’uomo non permette che si sciupi un tempo prezioso con le scienze, con le ambizioni, coi matrimoni… Ecco fin dove giunge la severità del cristianesimo. Ma questo può essere anche mite in modo superlativo, premesso che ottenga da ciascuno una ricevuta di condiscendenza. E se qualcuno ha il desiderio e la capacità di occuparsi di scienza, non gli si faranno obbiezioni, dal momento ch’egli riconosce di agire con condiscendenza a suo riguardo e che, se loro lo volessero, Dio ed il cristianesimo avrebbero ben altra cosa da esigere da lui. Ma se la scienza si mette a spiegare che non può fermarsi alla fede, ch’essa deve andare oltre… arrivare cioè alla speculazione come al fine ultimo, allora io penso che sia necessario l’intervento della polizia di sicurezza internazionale… Questo è il significato [della trattazione] della Postilla. La sua reazione contro la scienza si giustifica logicamente: ci sarebbe una μεταβασις εις αλλο γενος. Non si insegna ciò che non si deve insegnare. Niente affatto. Tutto è trasportato sul piano essenziale e l’Autore stesso è un umorista esistente. Se l’Autore fosse stato un fanfarone, avrebbe ammesso qualche elemento di dialettica, dichiarando che soltanto certe scienze sono proibite. Si sarebbe trovato così d’accordo con l’errore fondamentale di questa nostra epoca, la superstizione del docere. Allora egli sarebbe stato compreso immediatamente, avrebbe ottenuto un successo strepitoso. Invece, per restare logico con se stesso, egli ha rinunciato a tutto questo e, cosciente di ciò che aveva da comunicare e aveva già comunicato, si tien pronto a subire il martirio…: questo martirio d’esser ritenuto per una superfluità, per una stravaganza… Poco importa! Ecco ciò che ho da dire. — Questo scritto (la Postilla) non rappresenta che un momento nell’evoluzione della mia attività letteraria, ma un momento importante. È un lavoro che per il suo contenuto, il suo valore artistico, la sua logica dialettica, avrà un avvenire considerevole. — Se deve esistere una scienza cristiana, questa non può basarsi sul principio che bisogna comprendere la fede, ma su quest’altro che bisogna comprendere che la fede è incomprensibile… Allora ciò che ho esposto, ora lo comprendo; prima non l’avevo compreso con la chiarezza con la quale lo vedo oggi. La mia attività letteraria delinea nel loro complesso le tappe della mia evoluzione e della mia educazione personale. E dall’inizio fino a questo momento mi sono sempre mostrato così severo nell’astenermi da ogni relazione con altri, perché comprendevo come dovevo essere educato da un potere superiore” (Papirer , 1849-50, X B114).
C. Fabro, Dall’essere all’esistente, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 127-130 e pp. 162-168.
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