ANTOLOGIA FILOSOFICA
“La vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti”. (Kierkegaard)
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SENECA: LETTERA SUGLI SCHIAVI
SENECA: LETTERA SUGLI SCHIAVI
Ho sentito con piacere da persone provenienti da Siracusa che tratti familiarmente i tuoi servi: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. “Sono schiavi.” No, sono uomini. “Sono schiavi”. No, vivono nella tua stessa casa. “Sono schiavi”. No, umili amici. “Sono schiavi.” No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Perciò rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio schiavo; e per quale motivo, poi, se non perché è una consuetudine dettata dalla piú grande superbia che intorno al padrone, mentre mangia, ci sia una turba di servi in piedi? Egli mangia oltre la capacità del suo stomaco e con grande avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue funzioni: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo. Ma a quegli schiavi infelici non è permesso neppure muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro prezzo; devono stare tutta la notte in piedi digiuni e zitti. Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura. Inoltre, viene spesso ripetuto quel proverbio frutto della medesima arroganza: “Tanti nemici, quanti schiavi”: loro non ci sono nemici, ce li rendiamo tali noi. Tralascio per ora maltrattamenti crudeli e disumani: abusiamo di loro quasi non fossero uomini, ma bestie. Quando ci mettiamo a tavola, uno deterge gli sputi, un altro, stando sotto il divano, raccoglie gli avanzi dei convitati ubriachi. Uno scalca volatili costosi; muovendo la mano esperta con tratti sicuri attraverso il petto e le cosce, ne stacca piccoli pezzi; poveraccio: vive solo per trinciare il pollame come si conviene; ma è più sventurato chi insegna tutto questo per suo piacere di chi impara per necessità. Un altro, addetto al vino, vestito da donna, lotta con l’età: non può uscire dalla fanciullezza, vi è trattenuto e, pur essendo ormai abile al servizio militare, glabro, con i peli rasati o estirpati alla radice, veglia tutta la notte, dividendola tra l’ubriachezza e la libidine del padrone, e fa da uomo in camera da letto e da servo durante il pranzo. Un altro che ha il còmpito di giudicare i convitati, se ne sta in piedi, sventurato, e guarda quali persone dovranno essere chiamate il giorno dopo perché hanno saputo adulare e sono stati intemperanti nel mangiare o nei discorsi. Ci sono poi quelli che si occupano delle provviste: conoscono esattamente i gusti del padrone e sanno di quale vivanda lo stuzzichi il sapore, di quale gli piaccia l’aspetto, quale piatto insolito possa sollevarlo dalla nausea, quale gli ripugni quando è sazio, cosa desideri mangiare quel giorno. Il padrone, però non sopporta di mangiare con costoro e ritiene una diminuzione della sua dignità sedersi alla stessa tavola con un suo servo. Ma buon dio! quanti padroni ha tra costoro. Ho visto stare davanti alla porta di Callisto il suo ex padrone e mentre gli altri entravano, veniva lasciato fuori proprio lui che gli aveva messo addosso un cartello di vendita e lo aveva presentato tra gli schiavi di scarto. Così quel servo che era stato messo tra i primi dieci in cui il banditore prova la voce, gli rese la pariglia: lo respinse a sua volta e non lo giudicò degno della sua casa. Il padrone vendette Callisto: ma Callisto come ha ripagato il suo padrone! Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti uomini di nobilissima origine, che attraverso il servizio militare aspiravano al grado di senatori: qualcuno lo fece diventare pastore, qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l’uomo che si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi capitare anche tu. Non voglio cacciarmi in un argomento tanto impegnativo e discutere sul trattamento degli schiavi: verso di loro siamo eccessivamente superbi, crudeli e insolenti. Questo è il succo dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere. “Ma io”, ribatti, “non ho padrone.” Per adesso ti va bene; forse, però lo avrai. Non sai a che età Ecuba divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene? Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui, chiedigli consiglio, mangia insieme a lui. A questo punto tutta la schiera dei raffinati mi griderà: “Non c’è niente di più umiliante, niente di più vergognoso.” Io, però potrei sorprendere proprio loro a baciare la mano di servi altrui. E neppure vi rendete conto di come i nostri antenati abbiano voluto eliminare ogni motivo di astio verso i padroni e di oltraggio verso gli schiavi? Chiamarono padre di famiglia il padrone e domestici gli schiavi, appellativo che è rimasto nei mimi; stabilirono un giorno festivo, non perché i padroni mangiassero con i servi solo in quello, ma almeno in quello; concessero loro di occupare posti di responsabilità nell’ambito familiare, di amministrare la giustizia, e considerarono la casa un piccolo stato. “E dunque? Inviterò alla mia tavola tutti gli schiavi?” Non più che tutti gli uomini liberi. Sbagli se pensi che respingerò qualcuno perché esercita un lavoro troppo umile, per esempio quel mulattiere o quel bifolco. Non li giudicherò in base al loro mestiere, ma in base alla loro condotta; della propria condotta ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo diventino; se c’è in loro qualche tratto servile derivante dal rapporto con gente umile, la dimestichezza con uomini più nobili lo eliminerà. Non devi, caro Lucilio, cercare gli amici solo nel foro o nel senato: se farai attenzione, li troverai anche in casa. Spesso un buon materiale rimane inservibile senza un abile artefice: prova a farne esperienza. Se uno al momento di comprare un cavallo non lo esamina, ma guarda la sella e le briglie, è stupido; così è ancora più stupido chi giudica un uomo dall’abbigliamento e dalla condizione sociale, che ci sta addosso come un vestito. “È uno schiavo.” Ma forse è libero nell’animo. “È uno schiavo.” E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c’è chi è schiavo della lussuria, chi dell’avidità, chi dell’ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un’ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria. Perciò codesti schizzinosi non ti devono distogliere dall’essere cordiale con i tuoi servi senza sentirti superbamente superiore: più che temerti, ti rispettino. Qualcuno ora dirà che io incito gli schiavi alla rivolta e che voglio abbattere l’autorità dei padroni, perché ho detto “il padrone lo rispettino più che temerlo”. “Proprio così?” chiederanno. “Lo rispettino come i clienti, come le persone che fanno la visita di omaggio?” Chi dice questo, dimentica che non è poco per i padroni quella reverenza che basta a un dio. Se uno è rispettato, è anche amato: l’amore non può mescolarsi al timore. Secondo me, perciò tu fai benissimo a non volere che i tuoi servi ti temano e a correggerli solo con le parole: con la frusta si puniscono le bestie. Non tutto ciò che ci colpisce, ci danneggia; ma l’abitudine al piacere induce all’ira: tutto quello che non è come desideriamo, provoca la nostra collera. Ci comportiamo come i sovrani: anche loro, dimentichi delle proprie forze e della debolezza altrui, danno in escandescenze e infieriscono, come se fossero stati offesi, mentre l’eccezionalità della loro sorte li mette completamente al sicuro dal pericolo di una simile evenienza. Lo sanno bene, ma, lamentandosi, cercano l’occasione per fare del male; dicono di essere stati oltraggiati per poter oltraggiare. Non voglio trattenerti più a lungo; non hai bisogno di esortazioni. La rettitudine ha, tra gli altri, questo vantaggio: piace a se stessa ed è salda. La malvagità è incostante e cambia spesso, e non in meglio, ma in direzione diversa. Stammi bene.
Seneca, Lettere a Lucilio, 47
PLATONE, IL MITO DELLE DUE META’
PLATONE, IL MITO DELLE DUE META’
Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell’unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po’ come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c’erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d’entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l’essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un’idea. “lo credo – disse – che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso – disse – io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri.” Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d’ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un’apertura – quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell’ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all’altra. Si abbracciavano, si stringevano l’un l’altra, desiderando null’altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d’inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l’altra. E quando una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima ne cercava un’altra e le si stringeva addosso – sia che incontrasse l’altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l’uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell’uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell’essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un’altra che le è complementare, perché quell’unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E’ per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degl adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall’essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto – è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l’uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Queste persone – ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque – quando incontrano l’altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straodinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall’affinità con l’altra persona, se ne innamoranc e non sanno più vivere senza di lei – per così dire – nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s’aspettano l’uno dall’altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell’amore: non possiamo immaginare che l’attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C’è qualcos’altro: evidentemente la loro anima cerca nell’altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: “Che cosa volete l’uno dalI’altro?”, e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: “Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell’Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?” A queste parole nessuno di loro – noi lo sappiamo – dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos’altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l’altra anima. Non più due, ma un’anima sola.
Platone, Simposio
EPITTETO, L’UOMO CITTADINO DEL MONDO’
EPITTETO, L’UOMO CITTADINO DEL MONDO
Se è vero quel che dicono i filosofi sulla parentela tra Dio e gli uomini, che cosa resta da fare a costoro se non seguire l’esempio di Socrate e cioè non rispondere mai a chi vuole sapere la loro città: “Sono cittadino d’Atene o cittadino di Corinto”, ma “cittadino dell’universo”? Perché dici di essere ateniese e non semplicemente di quell’angolo di terra in cui fu gettato il tuo povero corpo al momento della nascita? Ovvero è chiaro che derivi da un principio superiore, che abbraccia non solo quell’angolo di terra, ma anche l’intera tua casa, e, in una parola, il paese dove si è perpetuata fino a te la stirpe dei tuoi antenati, e di qui, se mai, ti chiami ateniese o corinzio? Chi dunque ha penetrato l’organizzazione dell’universo e ha capito che “di tutte le cose la più grande, la più importante, la più universale è la società formata dagli uomini e da Dio, e che da lui le forze generatrici scendono non solo fino a mio padre e a mio nonno, ma a tutto ciò che sulla terra nasce e cresce, specialmente agli esseri ragionevoli, giacché essi soli per natura partecipano alla comunione divina, essendo legati a Dio per la ragione”, perché non dirà di essere cittadino dell’universo?
EPITTETO, L’UOMO CITTADINO DEL MONDO’
EPITTETO, L’UOMO CITTADINO DEL MONDO
Se è vero quel che dicono i filosofi sulla parentela tra Dio e gli uomini, che cosa resta da fare a costoro se non seguire l’esempio di Socrate e cioè non rispondere mai a chi vuole sapere la loro città: “Sono cittadino d’Atene o cittadino di Corinto”, ma “cittadino dell’universo”? Perché dici di essere ateniese e non semplicemente di quell’angolo di terra in cui fu gettato il tuo povero corpo al momento della nascita? Ovvero è chiaro che derivi da un principio superiore, che abbraccia non solo quell’angolo di terra, ma anche l’intera tua casa, e, in una parola, il paese dove si è perpetuata fino a te la stirpe dei tuoi antenati, e di qui, se mai, ti chiami ateniese o corinzio? Chi dunque ha penetrato l’organizzazione dell’universo e ha capito che “di tutte le cose la più grande, la più importante, la più universale è la società formata dagli uomini e da Dio, e che da lui le forze generatrici scendono non solo fino a mio padre e a mio nonno, ma a tutto ciò che sulla terra nasce e cresce, specialmente agli esseri ragionevoli, giacché essi soli per natura partecipano alla comunione divina, essendo legati a Dio per la ragione”, perché non dirà di essere cittadino dell’universo?
LEOPARDI, DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO’
LEOPARDI, DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO
Folletto. Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?
Gnomo. Mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta, come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.
Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo. Che vuoi tu inferire?
Folletto. Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta.
Gnomo. Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
Folletto. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
Gnomo. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
Folletto. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.
Gnomo. Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
Folletto. Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo. E i giorni della settimana non avranno più nome.
Folletto. Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo. E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto. Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
Gnomo. Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto. Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
Gnomo. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
Folletto. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
Gnomo. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
Folletto. E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
Gnomo. Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
Folletto. Perché? io parlo bene sul sodo.
Gnomo. Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo e fatto per gli gnomi?
Folletto. Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa e la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l’aria, il mare, le campagne?
Gnomo. Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
Folletto. Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.
Gnomo. Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
Folletto. Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.
Gnomo. Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
Folletto. Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
Gnomo. In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
Folletto. Ma i porci, secondo Crisippo, erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
Gnomo. Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
Folletto. E anche quest’altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimente di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Gnomo. Sicché in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
Folletto. Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
Gnomo. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto. E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.
Leopardi, Operette morali)
PLATONE, IL MITO DI GIGE’
PLATONE, IL MITO DI GIGE
Ascolta ora il primo argomento che avevo preannunciato, ovvero che cos’è la giustizia e da dove nasce. Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche e provano entrambe le condizioni, non potendo evitare l’una e a scegliere l’altra sembra loro vantaggioso accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l’origine e l’essenza della giustizia, che sta a metà tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia, essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma come un qualcosa che è tenuto in conto per l’incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e l’origine della giustizia, secondo l’opinione corrente”. “Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per l’impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a ciascuno dei due, al giusto e all’ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada dell’ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene, mentre la legge la devia a forza a onorare l’uguaglianza. E la facoltà di cui parlo sarebbe tale soprattutto se avessero il potere che viene attribuito a Gige, l’antenato di Creso re di Lidia. Si racconta che egli serviva come pastore l’allora sovrano di Lidia. Un giorno, a causa delle forti piogge e di un terremoto, la terra si spaccò e si produsse una fenditura nel luogo in cui teneva il gregge al pascolo. Gige si meravigliò al vederla e vi discese; qui, tra le altre cose mirabili di cui si favoleggia, vide un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi si affacciò e scorse là dentro un cadavere, che appariva più grande delle normali dimensioni di un uomo; e senza avergli tolto nulla tranne un anello d’oro che portava a una mano, uscì fuori. Quando ci fu la consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato delle greggi, si presentò anch’egli, con l’anello al dito; quindi, mentre era seduto in mezzo agli altri, girò per caso il castone dell’anello verso di sé, all’interno della mano, e così divenne invisibile ai compagni che gli sedevano accanto e che si misero a parlare di lui come se fosse andato via. Egli ne rimase stupito e toccando di nuovo l’anello girò il castone verso l’esterno, e appena l’ebbe girato ridiventò visibile. Riflettendo sulla cosa, volle verificare se l’anello aveva questo potere, e in effetti gli accadeva di diventare invisibile quando girava il castone verso l’interno, visibile quando lo girava verso l’esterno. Non appena si accorse di questo fece in modo di essere incluso tra i messi personali del re; una volta raggiunto l’obiettivo divenne l’amante della sua sposa, congiurò assieme a lei contro il re, lo uccise e in questo modo si impadronì del potere. Se dunque esistessero due anelli di tal genere e uno se lo mettesse al dito l’uomo giusto, l’altro l’uomo ingiusto, non ci sarebbe nessuno, a quel che sembra, così adamantino da persistere nella giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neanche toccarli, potendo prendere impunemente dal mercato ciò che vuole, entrare nelle case e congiungersi con chi vuole, uccidere e liberare di prigione chi vuole, e fare tutte le altre cose che lo renderebbero tra gli uomini pari agli dèi. Agendo così non farebbe niente di diverso dall’altro uomo, ma batterebbero entrambi la stessa via. E questa può essere definita una prova decisiva del fatto che nessuno è giusto di sua volontà, ma per costrizione, come se non ritenesse la giustizia un bene di per sé: ciascuno, là dove pensa di poter commettere ingiustizia, la commette. Ogni uomo infatti crede che sul piano personale l’ingiustizia sia molto più vantaggiosa della giustizia, e ha ragione a crederlo, come dirà chiunque voglia difendere questa tesi; poiché se uno, venuto in possesso di un simile potere, non volesse commettere ingiustizia alcuna e non toccasse i beni altrui, agli occhi di quanti lo venissero a sapere parrebbe l’uomo più infelice e più stupido, ma in faccia agli altri lo loderebbero, ingannandosi a vicenda per timore di subire ingiustizia. Così stanno le cose.
Platone, Repubblica, libro II)
SENECA, LA BREVITA’ DELLA VITA’
SENECA, LA BREVITA’ DELLA VITA
La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla.
Seneca, De brevitate vitae
GIORDANO BRUNO, L’EROICO FURORE
GIORDANO BRUNO, L’EROICO FURORE
\ TANS.\ Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico, per quanto tende al proprio oggetto, ch’è il sommo bene, e l’eroico intelletto che giongersi studia al proprio oggetto, che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di questo e l’intenzione; l’ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dunque:
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
Il giovan Atteon, quand’il destino
Gli drizz’il dubio ed incauto camino,
Di boscareccie fiere appo la traccia.
Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia,
Che veder poss’il mortal e divino,
In ostro ed alabastro ed oro fino
Vedde; e ‘l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch’a’ più folti
Luoghi drizzav’i passi più leggieri,
Ratto vorâro i suoi gran cani e molti.
I’ allargo i miei pensieri
Ad alta preda, ed essi a me rivolti
Morte mi dàn con morsi crudi e fieri.
Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui slaccia i mastini ed i veltri. De quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa ed efficace che quella; atteso che a l’intelletto umano è più amabile che comprensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda, come lanterna. Alle selve, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini. Il giovane poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve ed instabile il furore, nel dubio camino de l’incerta ed ancipite raggione ed affetto designato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro ed arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di boscareccie fiere, che sono le specie intelligibili de’ concetti ideali; che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le cercano. Ecco tra l’acqui, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’efficacia della bontade e splendor divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori ed inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; vede il più bel busto e faccia, cioè potenza ed operazion esterna che veder si possa per abito ed atto di contemplazione ed applicazion di mente mortal o divina, d’uomo o dio alcuno.
\ CIC.\ Credo che non faccia comparazione, e pona come in medesimo geno la divina ed umana apprensione quanto al modo di comprendere il quale è diversissimo, ma quanto al.suggetto che è medesimo.
\ TANS.\ Cossì è. Dice in ostro alabastro ed oro, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divina sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli pitagorici, Caldei, platonici ed altri, al meglior modo che possono, s’ingegnano d’inalzarsi. Vedde il gran cacciator: comprese, quanto è possibile e dovenne caccia: andava per predare e rimase preda questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose apprese in sé.
\ CIC.\ Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve.
\ TANS.\ E questa caccia per l’operazion della voluntade, per atto della quale lui si converte nell’oggetto.
\ CIC.\ Intendo, perché lo amore transforma e converte nella cosa amata.
\ TANS.\ Sai bene che l’intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, quei cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, ed in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità.
\ CIC.\ Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade.
\ TANS.\ Cossì è. Ecco dunque come l’Atteone, messo in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pensieri, corre e drizza i novi passi; è rinovato a procedere divinamente e più leggiermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena, a’ luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien raro ed eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordinaria vita. Qua gli dàn morte i suoi gran cani e molti: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico, e comincia a vivere intellettualmente; vive vita de dei, pascesi d’ambrosia e inebriasi di nettare.
LUIGI PIRANDELLO | LA SIGNORA FROLA
E IL SIGNOR PONZA, SUO GENERO
Ma insomma, ve lo figurate? c’è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che càpitano soltanto a Valdana, città disgraziata, calamìta di tutti i forestieri eccentrici! Pazza lei o pazzo lui; non c’è via di mezzo: uno dei due dev’esser pazzo per forza. Perché si tratta niente meno che di questo… Ma no, è meglio esporre prima con ordine. Sono, vi giuro, seriamente costernato dell’angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di Valdana, e poco m’importa della signora Frola e del signor Ponza, suo genero. Perché, se è vero che una grave sciagura è loro toccata, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna d’impazzirne e l’altro l’ha ajutato, séguita ad ajutarlo così che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei due veramente sia pazzo; e certo una consolazione meglio di questa non se la potevano dare. Ma dico di tenere così, sotto quest’incubo, un’intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno al giudizio, per modo che non possa più distinguere tra fantasma e realtà. Un’angoscia, un perpetuo sgomento. Ciascuno si vede davanti, ogni giorno, quei due; li guarda in faccia; sa che uno dei due è pazzo; li studia, li squadra, li spia e, niente! non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma, dove la realtà. Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fantasma e viceversa. Vi par poco? Nei panni del signor prefetto, io darei senz’altro, per la salute dell’anima degli abitanti di Valdana, lo sfratto alla signora Frola e al signor Ponza, suo genero. Ma procediamo con ordine. Questo signor Ponza arrivò a Valdana or sono tre mesi, segretario di prefettura. Prese alloggio nel casolare nuovo all’uscita del paese, quello che chiamano “il Favo”. Lì. All’ultimo piano, un quartierino. Tre finestre che danno sulla campagna, alte, tristi (ché la facciata di là, all’aria di tramontana, su tutti quegli orti pallidi, chi sa perché, benché nuova, s’è tanto intristita) e tre finestre interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo diviso da tramezzi a grate. Pendono da quella ringhiera, lassù lassù, tanti panierini pronti a esser calati col cordino a un bisogno. Nello stesso tempo, però, con maraviglia di tutti, il signor Ponza fissò nel centro della città, e propriamente in Via dei Santi n. 15, un altro quartierino mobigliato di tre camere e cucina. Disse che doveva servire per la suocera, signora Frola. E difatti questa arrivò cinque o sei giorni dopo; e il signor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla stazione e la condusse e la lasciò lì, sola. Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa della madre per andare a convivere col marito, anche in un’altra città; ma che questa madre poi, non reggendo a star lontana dalla figliuola, lasci il suo paese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quanto lei sono forestiere vada ad abitare in una casa a parte, questo non si capisce più facilmente; o si deve ammettere tra suocera e genero una così forte incompatibilità da rendere proprio impossibile la convivenza, anche in queste condizioni.
Naturalmente a Valdana dapprima si pensò così. E certo chi scapitò per questo nell’opinione di tutti fu il signor Ponza. Della signora Frola, se qualcuno ammise che forse doveva averci anche lei un po’ di colpa, o per scarso compatimento o per qualche caparbietà o intolleranza, tutti considerarono l’amore materno che la traeva appresso alla figliuola, pur condannata a non poterle vivere accanto.
Gran parte ebbe in questa considerazione per la signora Frola e nel concetto che subito del signor Ponza s’impresse nell’animo di tutti, che fosse cioè duro, anzi crudele, anche l’aspetto dei due, bisogna dirlo. Tozzo, senza collo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa, dense e aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi lucidi da questurino, e negli occhi cupi, fissi, quasi senza bianco, un’intensità violenta, esasperata, a stento contenuta, non si sa se di doglia tetra o di dispetto della vista altrui, il signor Ponza non è fatto certamente per conciliarsi la simpatia o la confidenza. Vecchina gracile, pallida, è invece la signora Frola, dai lineamenti fini, nobilissimi, e una aria malinconica, ma d’una malinconia senza peso, vaga e gentile, che non esclude l’affabilità con tutti.
Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha dato subito prova in città, e subito per essa nell’animo di tutti è cresciuta l’avversione per il signor Ponza; giacché chiaramente è apparsa a ognuno l’indole di lei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma anche piena d’indulgente compatimento per il male che il genero le fa; e anche perché s’è venuto a sapere che non basta al signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera madre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle anche la vista della figliuola. Se non che, non crudeltà, protesta subito nelle sue visite alle signore di Valdana la signora Frola, ponendo le manine avanti, veramente afflitta che si possa pensare questo di suo genero. E s’affretta a decantarne tutte le virtù, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile; quale amore, quante cure, quali attenzioni egli abbia per la figliuola, non solo, ma anche per lei, sì, sì, anche per lei; premuroso, disinteressato… Ah, non crudele, no, per carità! C’è solo questo: che vuole tutta, tutta per sé la mogliettina, il signor Ponza, fino al punto che anche l’amore, che questa deve avere (e l’ammette, come no?) per la sua mamma, vuole che le arrivi non direttamente, ma attraverso lui, per mezzo di lui, ecco. Sì, può parere crudeltà, questa, ma non lo è; è un’altra cosa, un’altra cosa ch’ella, la signora Frola, intende benissimo e si strugge di non sapere esprimere. Natura, ecco… ma no, forse una specie di malattia… come dire? Mio Dio, basta guardarlo negli occhi. Fanno in prima una brutta impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi, come lei, sappia leggere in essi: la pienezza chiusa, dicono, di tutto un mondo d’amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza mai uscirne minimamente, e nel quale nessun altro, neppure la madre, deve entrare. Gelosia? Sì, forse; ma a voler definire volgarmente questa totalità esclusiva d’amore.
Egoismo? Ma un egoismo che si dà tutto, come un mondo, alla propria donna! Egoismo, in fondo, sarebbe quello di lei a voler forzare questo mondo chiuso d’amore, a volervisi introdurre per forza, quand’ella sa che la figliuola è felice, così adorata… Questo a una madre può bastare! Del resto, non è mica vero ch’ella non la veda, la sua figliuola. Due o tre volte al giorno la vede: entra nel cortile della casa; suona il campanello e subito la sua figliuola s’affaccia di lassù.
– Come stai Tildina?
– Benissimo, mamma. Tu?
– Come Dio vuole, figliuola mia. Giù, giù il panierino!
E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giornata. Ecco, le basta questo. Dura ormai da quattr’anni questa vita, e ci s’è abituata la signora Frola. Rassegnata, sì. E quasi non ne soffre più.
Com’è facile intendere, questa rassegnazione della signora Frola, quest’abitudine ch’ella dice d’aver fatto al suo martirio, ridondano a carico del signor Ponza, suo genero, tanto più, quanto più ella col suo lungo discorso si affanna a scusarlo.
Con vera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Valdana che hanno ricevuto la prima visita della signora Frola, accolgono il giorno dopo l’annunzio di un’altra visita inattesa, del signor Ponza, che le prega di concedergli due soli minuti d’udienza, per una “doverosa dichiarazione”, se non reca loro incomodo.
Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi più duri e più tetri che mai, un fazzoletto in mano che stride per la sua bianchezza, insieme coi polsini e il colletto della camicia, sul nero della carnagione, del pelame e del vestito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli sgocciola dalla fronte bassa e dalle gote raschiose e violacee, non già per il caldo, ma per la violenza evidentissima dello sforzo che fa su se stesso e per cui anche le grosse mani dalle unghie lunghe gli tremano; in questo e in quel salotto, davanti a quelle signore che lo mirano quasi atterrite, domanda prima se la signora Frola, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, con pena, con sforzo, con agitazione di punto in punto crescenti, se ella ha parlato loro della figliuola e se ha detto che egli le vieta assolutamente di vederla e di salire in casa sua. Le signore, nel vederlo così agitato, com’è facile immaginare, s’affrettano a rispondergli che la signora Frola, sì, è vero, ha detto loro di quella proibizione di vedere la figlia, ma anche tutto il bene possibile e immaginabile di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dargli nessun’ombra di colpa per quella proibizione stessa. Se non che, invece di quietarsi, a questa risposta delle signore, il signor Ponza si agita di più; gli occhi gli diventano più duri, più fissi, più tetri; le grosse gocce di sudore più spesse; e alla fine, facendo uno sforzo ancor più violento su se stesso, viene alla sua “dichiarazione doverosa”.
La quale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza. Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? E’ morta, è morta da quattro anni la figliuola: e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita: per fortuna, impazzita, sì, giacché la pazzia è stata per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere. Per puro dovere di carità verso un’infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere, ecco, fino a un certo punto: anche per la sua qualità di pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in città, questa cosa crudele e inverosimile: ch’egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre di vedere la propria figliuola. Dichiarato questo, il signor Ponza s’inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po’, che rieccoti la signora Frola con la sua aria dolce di vaga malinconia a domandare scusa se, per causa sua, le buone signore si sono prese qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero. E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta, ma in gran confidenza, per carità! poiché il signor Ponza è un pubblico funzionario, e appunto per questo ella la prima volta s’è astenuta dal dirlo, ma sì, perché questo potrebbe seriamente pregiudicarlo nella carriera; il signor Ponza, poveretto – ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compìto, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità – il signor Ponza, poveretto, su quest’unico punto non… non ragiona più, ecco; il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell’andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola. No, non lo fa per contestare in certo qual modo innanzi agli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quella crudele proibizione a lei di vedere la figliuola, no; crede, crede sul serio il poveretto che sua moglie sia morta e che questa che ha con sé sia una seconda moglie. Caso pietosissimo! Perché veramente col suo troppo amore quest’uomo rischiò in prima di distruggere, d’uccidere la giovane moglietta delicatina, tanto che si dovette sottrargliela di nascosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il povero uomo, a cui già per quella frenesia d’amore s’era anche gravemente alterato il cervello, ne impazzì; credette che la moglie fosse morta davvero: e questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un’altra; tanto che si dovette con l’ajuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l’equilibrio delle facoltà mentali. Ora la signora Frola crede d’aver qualche ragione di sospettare che da un pezzo suo genero sia del tutto rientrato in sé e ch’egli finga, finga soltanto di credere che sua moglie sia una seconda moglie, per tenersela così tutta per sé, senza contatto con nessuno, perché forse tuttavia di tanto in tanto gli balena la paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente. Ma sì. Come spiegare, se no, tutte le cure, le premure che ha per lei, sua suocera, se veramente egli crede che è una seconda moglie quella che ha con sé? Non dovrebbe sentire l’obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto, non sarebbe più sua suocera, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice, non per dimostrare ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a se stessa che il suo sospetto è fondato.
– E intanto, – conclude con un sospiro che su le labbra le s’atteggia in un dolce mestissimo sorriso, – intanto la povera figliuola mia deve fingere di non esser lei, ma un’altra, e anch’io sono obbligata a fingermi pazza credendo che la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perché è là, la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata a non poter convivere con lei, e anche a vederla e a parlarle da lontano, perché egli possa credere, o fingere di credere che la mia figliuola, Dio liberi, è morta e che questa che ha con sé è una seconda moglie. Ma torno a dire, che importa se con questo siamo riusciti a ridare la pace a tutti e due? So che la mia figliuola è adorata, contenta; la vedo; le parlo; e mi rassegno per amore di lei e di lui a vivere così e a passare anche per pazza, signora mia, pazienza… Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov’è la realtà? dove il fantasma? Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c’è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice d’esser seconda moglie; come non c’è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d’esserne la figliuola. Si dovrebbe prenderla a parte e farle dire a quattr’occhi la verità. Non è possibile. Il signor Ponza – sia o no lui il pazzo – è realmente gelosissimo e non lascia vedere la moglie a nessuno. La tiene lassù, come in prigione, sotto chiave; e questo fatto è senza dubbio in favore della signora Frola; ma il signor Ponza dice che è costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura che la signora Frola non le entri in casa all’improvviso. Può essere una scusa. Sta anche di fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato com’è a pagar l’affitto di due case; e si sobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera, e la moglie, che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa, cioè d’una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle più umili, privandosi dell’ajuto di una serva. Sembra a tutti un po’ troppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui.
Intanto, il signor Prefetto di Valdana s’è contentato della dichiarazione del signor Ponza. Ma certo l’aspetto e in gran parte la condotta di costui non depongono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuola, e anche tant’altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno. Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt’e due, l’uno per l’altra, un meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell’altro la considerazione più squisitamente pietosa. Ragionano tutt’e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di dire che l’uno dei due era pazzo, se non l’avessero detto loro: il signor Ponza della signora Frola, e la signora Frola del signor Ponza. La signora Frola va spesso a trovare il genero alla prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo aspetta all’uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual volta per caso l’uno s’imbatte nell’altra per via, subito con la massima cordialità si mettono insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno così, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà.