Nature

CAUSA

“Bisogna prendere in esame le cause, allo scopo di sapere quali e quante esse sono di numero”. (Aristotele, Fisica)






A cura di Diego Fusaro

Con ogni probabilità, non v’è concetto più caro ai filosofi di quello di causa. A tal punto che, come sosterranno gli autori medievali, “il vero sapere è il sapere mediante cause”. Insomma, la filosofia sarebbe nella sua essenza una conoscenza causale. Anche Aristotele lo sostiene, quando mostra che proprio in ciò sta la differenza specifica rispetto al mito: se quest’ultimo si ferma al “che” (“il mito racconta che…”), la filosofia, invece, procede oltre. Non le basta il “che”, ma vuole sapere anche il “perché”, ossia ciò che potremmo, appunto, definire causa, causalità, nesso causale. Nella sua determinazione più ampia e più generale, la causa indica una particolare relazione tra due fenomeni: relazione tale per cui il primo fenomeno, appellato “causa”, è motivo di esistenza del secondo, che invece è denominato “effetto”. Per questo, la causa è ciò che spiega e rende possibile l’effetto, che da essa deriva. Ne facciamo esperienza senza tregua nella nostra esistenza quotidiana. Quando, ad esempio, sul tavolo da biliardo la palla A urta la palla B, quest’ultima si mette in movimento: e, allora, possiamo dire che A ha causato il moto di B. A un esame non superficiale, ogni ente che popola il nostro mondo è effetto di una causa e può, a sua volta, essere causa di nuovi effetti. A partire da questa constatazione, sorge una domanda necessaria e ineludibile, che da subito i filosofi hanno sollevato: se tutto è effetto di una causa precedente, qual è la causa prima, da cui tutto deriva in quanto effetto? Il paradosso sta nel fatto che se ogni causa è stata, a sua volta, causata ed è, quindi, effetto di qualcosa che l’ha preceduto, occorre per il pensiero trovare una causa primissima: intendo una causa che non sia stata, a sua volta causata, ma che sia all’origine di tutti gli effetti. Insomma, deve essere una causa che, a differenza delle altre (che sempre sono causate), sia causa di se stessa. Se non si ammettesse una causa di questo tipo, tale da causare senza essere causata, si sarebbe per ciò stesso costretti a regredire all’infinito nella ricerca della causa: ogni causa, infatti, avrebbe dietro di sé una causa precedente, e così via, all’infinito. Postulare una causa prima è, allora, una necessità per il pensiero filosofico: a tale causa, dal canto loro, i teologi assegnano il nome di Dio. Anche Dio, in effetti, potrebbe con diritto intendersi, in termini puramente filosofici, come la causa da cui tutto deriva, senza che essa, a propria volta, derivi da altro: lo si potrebbe anche definire, a rigore, come l’incausato che è causa di tutto ciò che è. Aristotele, che abbiamo citato anche in precedenza, ha fornito un contributo fondamentale alla filosofia occidentale nella riflessione sulla causalità. Egli ha distinto quattro diversi tipi di causa. V’è a) la “causa materiale”, che rinvia alla materia di cui è composto l’effetto (il marmo è causa materiale della statua). Si dà, poi, b) la “causa formale”, che rimanda alla forma o all’essenza dell’effetto (la forma umana è causa formale della statua). V’è, ancora, c) la “causa efficiente”, che allude a ciò che ha prodotto l’effetto (lo scultore ha realizzato la statua). Infine, abbiamo d) la “causa finale”, in cui si esprime lo scopo in vista del quale l’effetto è stato prodotto (la statua è stata realizzata con lo scopo di venerare gli dèi). In età moderna, il filosofo scozzese David Hume solleverà un dubbio radicale sulla teoria della causalità e, più in generale, sul concetto stesso di causa. Immaginiamo ancora il tavolo da biliardo di cui avevamo detto in precedenza. Vediamo la palla A che si muove e si avvicina alla palla B, fino a toccarla. A questo punto, A si ferma e B si mette in movimento. E noi diciamo, senza esitazioni, che il moto di A ha causato il moto di B. Hume muove a questo punto la sua obiezione: noi non abbiamo visto la causa, che pure diciamo essere operativa in quel contesto. Semplicemente, abbiamo visto che dopo il moto di A v’è stato quello di B, che quando A è entrata in contatto con B, quest’ultima si è mossa e, ancora, che tutte le volte che ciò avviene, torna a ripetersi la stessa dinamica. Ma dov’è la causa, domanda Hume? Non la vediamo mai: è – egli spiega – semplicemente il nome sofisticato che attribuiamo alla nostra abitudine a vedere che ogni qual volta A entra in contatto con B, B si mette in movimento. Dunque, è la causa solo un’abitudine? O ha una sua reale esistenza, come credeva Aristotele?

Citazioni

“E un uomo del genere mi pare proprio un musico, il quale accorda, secondo un’armonia bellissima, non la lira o uno strumento da gioco, ma la sua vita, in armonia tra parole ed azioni”. (Platone, "Lachete")
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