POSSIAMO NON FARE FILOSOFIA?
“Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno” (W. Benjamin)
In molti, ieri come oggi, hanno sostenuto l’esigenza di non fare filosofia: perché è inutile, perché non dà le certezze delle scienze, perché non è in grado di produrre cambiamenti reali, e per molti altri motivi ancora; motivi che, certo, varrebbe la pena prendere singolarmente in esame in forma estesa. Ad esempio, a chi asserisce che la “filosofia non cambia il mondo” o – il che è lo stesso – che essa è “quella cosa con o senza la quale il mondo resta sempre tale e quale”, varrebbe la pena ricordare anche solo che, senza filosofia, non vi sarebbe stata la Rivoluzione francese (esempio di come – ricordava Hegel – il sapere filosofico ha cambiato il mondo, prendendo a governarlo), né vi sarebbe stato il Novecento (le cui vicende si possono in larga parte interpretare con gli schemi di Marx e di Nietzsche). Ancora, a chi afferma che la filosofia “è inutile”, occorre far notare che ciò è vero e che proprio in questo riposa la grandezza della filosofia: essa ci risveglia dal dogmatismo oggi imperante, in grazia del quale il vero si risolve nell’utile e tutto e tutti debbono rispondere al principio di prestazione. Era già noto ad Aristotele, del resto, che la filosofia è la “scienza” (ἐπιστήμη) suprema, proprio in ragione del fatto che essa è sciolta dal vincolo di servitù proprio del servire-a-qualcosa. Tralasciando questo e consimili problemi, desidero spostare l’attenzione su un’altra questione, che così si può condensare: ammesso (e non concesso) che per diversi motivi sia cosa giusta e buona non occuparsi di filosofia, è realmente possibile non farlo? Aristotele, nel Protrettico (fr. 424), negava in forma risoluta tale possibilità e così scriveva: “se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia”. In ogni caso, dunque, siamo “condannati” a filosofare, quand’anche ci dedichiamo a spiegare perché non si debba farlo. D’altro canto, l’uomo è l’animale che pensa, cosicché la nostra stessa natura è quella di “animali filosofeggianti”, che pongono le domande fondamentali, sull’essere e su Dio, sulla verità e sull’agire. Tutti conoscono – o dovrebbero conoscere – il principio di non-contraddizione. Esso afferma la falsità di ogni proposizione implicante che una certa proposizione A e la sua negazione, ossia la proposizione non-A, siano entrambe vere allo stesso tempo e nello stesso modo. Con le parole della Metafisica di Aristotele: “è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo” (1005 b 19-20). Sempre la Metafisica aristotelica (1005 b 22-23) qualifica il principio di non contraddizione come πασῶν βεβαιοτάτη τῶν ἀρχῶν, “il più sicuro di tutti i principi”, asserendo che “tutti coloro i quali dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima, perché per sua natura costituisce il principio di tutti gli altri assiomi (ἀρχὴ καὶ τῶν ἄλλων ἀξιωμάτων αὕτη πάντων)” (1005 b 33-35). Come il principio di non contraddizione, anche il cogito cartesiano si afferma non solo allorché il meditante dubita di sé, ma anche allorché pretende di disconoscere il proprio esistere: posso dubitare di tutto, ma non di esistere nell’atto stesso del mio dubitare. Questa verità incontrovertibile coincide con ciò che è massimamente indubitabile, poiché è il dubitare stesso che, nel suo dispiegarsi, la fa emergere come autoevidenza originaria. Sicché – parafrasando Cartesio – anche chi dicesse “no, non esisto”, starebbe per ciò stesso affermando la propria esistenza. Aristotele, del resto, dimostra il principio di non contraddizione proprio esibendo le assurdità in cui si incagliano quanti pretendano di negarlo e, per farlo, debbano necessariamente utilizzarlo; con la conseguenza per cui, a giudizio dello Stagirita, il negatore di detto principio dovrebbe ridursi a esistere ὅμοιος φυτῷ, “come una pianta” (Metafisica, 1006 a 14-15). Qual è, allora, il nesso tra il principio di non contraddizione di Aristotele, il cogito di Cartesio e la questione della ineludibilità del fare filosofia, a cui prima si faceva cenno? La connessione sta in questo: anche il negare la filosofia – come il negare il principio di non contraddizione o il cogito – produce un’immediata contraddizione, giacché quel negare implica per ciò stesso il negato, ossia il ricorso alla filosofia per negare la filosofia. Questo è il punto nodale del passaggio del Protrettico che abbiamo precedentemente ricordato: anche chi aspiri a negare l’esigenza del filosofeggiare deve, al fine di argomentare detta esigenza, avvalersi della filosofia e, dunque, invalidare il proprio stesso argomento. Anche per questo – ma non solo per questo, ça va sans dire – dobbiamo filosofare: e il “dobbiamo filosofare ” deve essere inteso, più propriamente, come un “non possiamo non filosofare”. |