Nature

DONO

“Donare equivale a regalare qualcosa di se stessi” (M. Mauss)






A cura di Diego Fusaro

Qual è la logica del dono? E che cosa, in generale, vuol dire donare? In termini tecnici, il dono è un passaggio di proprietà che avviene in forma gratuita, senza dunque la tipica forma propria dello scambio commerciale. Quest’ultima prevede che, per ogni cosa data, ve ne sia in cambio una ricevuta. Il dono spezza questa logica e introduce una forma di cessione a cui non fa seguito alcuna contropartita: se, nello scambio commerciale, si dà per avere, nel dono si dà in forma gratuita e fine a se stessa, cioè appunto senza avere nulla in cambio. Il dono, come dicevo, è fine a se stesso: il panettiere e il macellaio ti danno pane e carne non come dono, ma come merce, secondo una logica di scambio in virtù della quale loro ti danno qualcosa, per avere da te in cambio qualcos’altro. Al tuo amico, a tua madre o a tuo figlio offri, invece, un dono, perché ciò che a loro regali non ha altro fine se non il gesto stesso, senza pretendere di averne un vantaggio come corrispettivo. Ne emerge un’ulteriore differenza rispetto allo scambio di tipo commerciale: in quest’ultimo è il soggetto stesso il vero fine ultimo. Egli dà per avere in cambio, secondo un movimento circolare che parte dal soggetto e al soggetto ritorna. Nel dono, invece, il vero fine ultimo è il Tu, ossia il beneficiario di quel dare senza contropartita che è il dono: ti faccio, infatti, un regalo non già per averne qualcosa in cambio, ma per farti felice, perché tengo a te, perché voglio in forma disinteressata privarmi di qualcosa che sarebbe mio e che ora, senza alcun vincolo costrittivo, diventa tuo mediante la mia libera cessione. Per inciso, il perdono – che ha il dono nel suo nome (“per-dono”) – è anch’esso una figura del dono: il perdono è un dono che facciamo a chi ci ha fatto un torto, così spezzando la logica di quello scambio specifico che è la giustizia. Sorge, tuttavia, un problema connesso alla figura del dono. Accade veramente che, donando, si spezzi la logica dello scambio mercantile? O non succede, invece, che essa ritorni sotto mutato sembiante? Pensiamo, ad esempio, alla diffusa ritualità dello scambio dei doni che avviene sotto Natale. Non è forse vero che, nell’atto stesso con cui doniamo, ci attendiamo che il beneficiario ci doni qualcosa in cambio? Ma in questo modo, Epicuro, si riprecipita nello schema dello scambio commerciale, sia pure mascherato dietro la forma del dono. Più precisamente, quello che in questo caso impropriamente chiamiamo dono coincide, in verità, con uno scambio: del quale condivide la formula più tipica del “dare qualcosa per avere altro in cambio”. Doni di questo genere dovrebbero, più propriamente, essere appellati scambi, poiché del dono non conservano l’essenza, che è quella, come dicevo, di un dare disinteressato e senza contropartita. Sembra realmente arduo sottrarsi all’ombra dello scambio anche nell’atto del donare. Soprattutto in un’epoca come la nostra, che ha innalzato il do ut des, il “ti do perché tu mi dia”, a norma generale di una compravendita universale a cui più nulla si sottrae. E sempre più spesso accade, così, che si doni qualcosa per vincolare a noi il beneficiario del regalo: che, in questo modo, da disinteressato e gratuito, diventa un vincolo che cattura chi lo riceve. Questi diviene inconfessabilmente prigioniero di una relazione vincolante, in grazia della quale egli, volente o nolente, dipende da colui dal quale ha ricevuto il dono. Che, per ciò stesso, diventa – come il lessico comune usa dire – un “dono avvelenato”. Se ne potrebbe forse concludere che il vero dono, quello che strutturalmente si pone al riparo da possibili ricadute nella logica dello scambio reciproco, è, paradossalmente, quello in cui il donatore resta anonimo: il fatto che il mittente del dono resti sconosciuto è, infatti, ciò che rende impossibile l’attivazione della logica dello scambio. Come si potrebbe, infatti, restituire qualcosa a qualcuno di cui ignoriamo l’identità?

Citazioni

“La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. (P.P. Pasolini, Una disperata vitalità)
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