ELLENISMO
“Vana è la parola del filosofo, se non allevia qualche sofferenza umana” (Epicuro)
INTRODUZIONE
SITUAZIONE STORICA E SOCIALE DAL IV AL I SECOLO a.C.
Nella seconda metà del IV secolo, con l’espansione della monarchia macedone, l’assetto politico della Grecia e dell’intero mondo mediterraneo vennero radicalmente trasformati.
Dopo la battaglia di Cheronea Filippo raccolse le città greche in una confederazione che le sottometteva al potere macedone, garantendo loro l’autonomia nelle questioni interne e mantenendo gli equilibri sociali a vantaggio dell’aristocrazia contro il demos urbano.
Con le conquiste di Alessandro l’Asia Minore, la Persia e l’Egitto caddero sotto l’egemonia militare dei Greci. Alla sua morte l’impero venne diviso in una serie di regni militari: le dinastie più potenti si installarono in Egitto, Siria e Macedonia.
Questi regni, definiti ellenistici, non intaccarono la struttura sociale esistente, ma la rafforzarono sovrapponendovi solo il potere della Corte e del suo apparato militare e amministrativo. In Oriente la proprietà della terra rimase suddivisa fra il re, i grandi latifondisti e i templi delle divinità tradizionali. In Grecia l’aristocrazia delle città mantenne una certa autonomia locale, aumentando anche le sue ricchezze terriere. Il problema dell’eccedenza di popolazione priva di terra, che non aveva trovato soluzione nella polis indipendente, nella nuova situazione trovò agevole soluzione: la nuova forza militare dei re privò di cittadinanza il demos urbano povero e senza terra, costringendolo ad emigrare e a fondare nuove città in Oriente (come Alessandria), trovando occupazione negli eserciti mercenari di cui i nuovi re avevano bisogno per le loro interminabili guerre di espansione.
La nuova civiltà che si era venuta a creare fu detta ellenistica perché ellenisti erano stati chiamati gli Orientali ellenizzati attraverso la diffusione della lingua e della cultura greca, l’educazione scolastica, l’emigrazione, il commercio, i matrimoni misti e il servizio militare. La nuova monarchia assoluta si ispirava al culto dell’individuo eroico ed eccezionale. Il potere centralizzato si intromise anche nella sfera economica, si circondò di una corte fastosa e si appoggiò al favore dell’esercito e degli alti notabili. Centro motore dell’Ellenismo fu la borghesia, mentre la massa dei lavoratori dipendenti forniva le braccia allo sviluppo del commercio e dell’industria. Il linguaggio ufficiale delle burocrazie fu la Koinè, una lingua a base greco-attica, mentre la lingua nazionale sopravviveva nelle campagne e l’aramaico e l’egizio erano parlati dalle classi inferiori cittadine.
La società ellenistica è divisa in strati che non comunicano fra di loro. Al vertice vi è il potere del re e della sua corte di generali, re che viene divinizzato e fatto oggetto di culto religioso come accadeva per gli antichi monarchi orientali.
I nuovi stati, rispetto alle polis del periodo precedente, non presentano alcuna coesione etnica e sociale, essendo l’unico vincolo quello della sottomissione al re, sottomissione rafforzata dai re con il potenziamento dell’apparato burocratico e militare. Questo apparato era però costoso, e per mantenerlo occorreva aumentare il prelievo fiscale o andare a continue guerre di rapina e di espansione territoriale, le quali a loro volta richiedevano investimenti per pagare i mercenari. Per questi motivi il mondo ellenistico si presenta molto instabile, anche se da un altro lato bisogna riconoscere che la nuova situazione politica e geografica favorisce notevolmente lo sviluppo dei traffici e dei commerci, grazie all’aumento della circolazione del denaro e delle merci.
Grazie a questa situazione si crea un ceto di ricchi commercianti, che concentrano nelle loro mani autentiche fortune, cosa che difficilmente sarebbe potuta accadere nel mondo della polis.
Si tratta di un commerciante che non investe i suoi guadagni per diventare produttore, che rimane legato all’attività mercantile e che, nonostante la ricchezza, non vede aumentare il proprio prestigio sociale, lo status. L’unico modo per vedere aumentare il proprio prestigio sociale è quello di acquistare terreni: in questo modo egli può entrare a far parte della ricca aristocrazia cittadina.
In questa situazione aumenta la distanza sociale fra il re, il demos urbano (che viene espulso dalle città) e i commercianti, per cui l’unica protagonista della città ellenica resta l’aristocrazia: per questa vengono scritti i libri di filosofia e di cultura umanistica, vengono fondate grandi istituzioni educative ed elaborate nuove ideologie sulla condizione umana. Si tratta di un’aristocrazia che non si riconosce più nella tradizione aristocratico-sacerdotale precedente, che andava da Parmenide a Platone, in quanto gli sfugge l’intreccio fra sapere e potere che aveva caratterizzato quella tradizione (il sapere è ormai specializzato e chiuso nelle scuole, mente il potere è delegato al re).
In questa situazione nasce nel cittadino un senso di sfiducia; egli sente lontani il sapere (che non riesce più a dargli un’immagine compiuta e rassicurante del mondo) e il potere (scompare quella possibilità di partecipare alla gestione della vita pubblica che era stata una delle caratteristiche principali dell’epoca della polis). Ed è proprio per rispondere a queste ansie e domande che si sviluppano nel mondo ellenistico una serie di filosofie dell’uomo, della sua felicità e della libertà; nasce un sistema ideologico che ha lo scopo di rassicurare il cittadino sul senso della sua vita.
All’inizio del III secolo, su proposta di alcuni membri eminenti del Liceo, il re d’Egitto Tolomeo I fondò ad Alessandria una grande istituzione scientifica e culturale che diverrà ben presto il simbolo della cultura di quell’epoca: il Museo. I compiti del Museo erano quello di raccogliere in una grande e ordinata biblioteca tutta la produzione filosofica, letteraria e scientifica della Grecia e quello di ospitare i maggiori scienziati del mondo greco, offrendo loro una sede stabile, uno stipendio sicuro, e la possibilità di attendere in tutta tranquillità alle loro ricerche. Il Museo, grazie agli ingenti contributi finanziari dei re d’Egitto, restò per cinque secoli il maggior centro bibliografico di tutto il mondo antico.
Fu in questo contesto che si registrò la nascita del libro: i bibliotecari, per le loro esigenze di catalogazione, raccolsero tutti gli scritti in loro possesso e gli appunti in libri e collezioni di libri, ognuno dei quali doveva recare l’indicazione dell’autore e del titolo (che essi posero anche dove non c’era). Da questo momento il libro fu imposto come forma base della produzione e della comunicazione culturale. La nascita del libro modificò radicalmente anche i rapporti culturali, i quali fino al IV secolo si erano basati sull’incontro e sulla discussione personale, la polemica ravvicinata e la pubblica lezione: ora invece il libro rendeva possibile un colloquio culturale a distanza (per conoscere il pensiero di un filosofo non era più necessario andare nella pubblica piazza o nella scuola, bastava leggerne i libri e rispondere con altri libri, che finivano negli scaffali della biblioteca di Alessandria). Fu così che si svilupparono i commenti ai classici. Furono proprio questi commenti, che saranno il genere letterario più diffuso sino al medioevo, a staccare la cultura dal rapporto costante con i problemi della società e del sapere.
Il Museo di Alessandria divenne anche una sede permanente e centralizzata per la ricerca scientifica. In questo modo la scienza, in pochi decenni, fece passi da gigante, anche se il prezzo che dovette pagare fu il distacco dai problemi sociali e l’isolamento dalla vita della città, oltre all’abbandono dell’impegno politico e di ogni responsabilità. Tramontava così il progetto di Platone di mettere il sapere scientifico al servizio della riforma della società. E tramontava anche quell’ideale di tecnico-scienziato impegnato insieme nell’attività pratica e nell’elaborazione teorica di cui aveva parlato Anassagora e che i medici ippocratici avevano impersonato. I professori di Alessandria si presentano come scienziati puri, che rifiutano le applicazioni tecniche del loro sapere e il lavoro manuale (i biologi alessandrini non visitano i malati, a parte il re; i fisici non costruiscono macchine, a parte quelle da guerra che il re chiede loro). Tutto questo è causa del decadimento sociale ed intellettuale della figura del tecnico (demiourgos) che aveva dominato la scena del V secolo, la cui scienza decade al livello di attività puramente empirica e manuale.
Il contatto fra filosofi e scienziati era stato l’elemento che in passato aveva evitato che la filosofia divenisse astratta e vacua, grazie al suo legame con la politica e i problemi sociali della polis. Ora le scuole filosofiche si raccolgono tutte ad Atene ed elaborano una filosofia consolatoria e retorico-letteraria rappresentata da stoici, epicurei, Liceo ed Accademia; permane comunque anche una corrente critica nei loro confronti rappresentata da cinici, cirenaici e scettici. Le nuove scuole, a causa del loro dogmatismo, assomigliano molto a delle sètte, in cui scarso è lo spazio destinato alla discussione e al confronto con le altre scuole.
Si diffondono in questo periodo le prime dossografie, storie delle opinioni dei principali filosofi, molto schematiche e agevoli.
Analisi della situazione culturale
Il termine “ellenismo” (propriamente: “ciò che risente del carattere greco”) è stato per la prima volta coniato dal Droysen nella sua opera Storia dell’Ellenismo (1836-43) in cui cerca di fissarne i limiti cronologici tra il 323 (morte di Alessandro il grande) e il 30 a.C. (morte di Cleopatra e fine dell’ultimo regno ellenistico).
Se per Ellenismo intendiamo però il fenomeno del traboccare della cultura greca al di fuori dei limiti nazionali e la sua universalizzazione con la diffusione della “paideia” classica (equivalente greco del nostro concetto di cultura, intesa però non come semplice erudizione, ma come cultura formativa dell’individuo, sia come privato che come cittadino) allora esso sembra coprire un periodo molto più vasto.
Tra i meriti dell’Ellenismo bisogna ricordare la trasmissione alle generazioni future degli ideali che a suo tempo avevano ispirato la paideia classica e la fusione tra i caratteri della civiltà occidentale e quella orientale. In particolare per quanto riguarda i rapporti con l’Oriente occorre ricordare come la Grecia avesse già avuto contatti e acquisito elementi della cultura egiziana, ma bisogna anche ricordare che sempre aveva rielaborato quei contenuti investendoli della propria spiritualità. Del resto l’incontro con le culture orientali era stato anticipato dalla penetrazione pacifica, per scopi commerciali, delle poleis sulle coste dell’Asia Minore. Ora le imprese di Alessandro uniscono le due culture anche politicamente.
Il carattere di questa unione sarà però prevalentemente greco, come dimostra l’opera di Filone l’Ebreo, che interpreta la Bibbia in termini greci confrontando Mosè con Platone. La stessa cultura cristiana vive di questi apporti greci, di cui si serve per elaborare la sua nuova teologia. L’Oriente fornisce d’altronde alla grecità il suo spirito religioso e mistico, offrendo nuovi motivi alla sua speculazione religiosa, che comunque sceglie la via delle religioni misteriche, componente questa che si fa particolarmente forte, al punto da ispirare il sistema di Plotino e di Proclo, i quali comunque mantengono fede al carattere eminentemente greco della razionalità.
Un altro fenomeno che va considerato come tipico dell’Ellenismo è la caduta delle barriere culturali, politiche e sociali che da secoli dividevano i Greci dagli altri popoli considerati “barbari”.
Tra le tante possibili datazioni dell’Ellenismo sembra più attendibile quella che tende a dilatare tale periodo dalla fine del IV secolo a.C. alla metà circa del VI secolo d.C. Bisogna infatti considerare che l’ultima fase della cultura romana è permeata di ellenismo, e che nemmeno il Cristianesimo può essere considerato apportatore di elementi nuovi tali da non aver più nulla a che fare con l’Ellenismo, come dimostrano la predicazione di S. Paolo e le prime grandi sintesi cristiane dello Pseudo Dionigi, di Clemente Alessandrino, di Origene e di S. Agostino.
Uno degli aspetti più individuanti dell’Ellenismo è quello che riguarda i suoi rapporti con la polis: la cultura classica greca differisce infatti dall’Ellenismo in quanto è incentrata nella polis, fenomeno non solo politico sociale ma anche etico, spirituale e perfino religioso, tipicamente greco e mediterraneo. La polis rappresenta quel felice connubio fra stato (tutto) e singoli cittadini (parti) che risponde a quel concetto di sana democrazia a cui guardano sia Platone che Aristotele nei loro differenti progetti di “sane” costituzioni. Si tratta di una concezione in cui individuo e stato non sono considerati fini a se stessi, ma l’uno in funzione dell’altro. La polis per l’individuo rappresenta la vita stessa, la somma di tutti quei valori in cui egli si riconosce e crede (gli dei non sono qualcosa di universale o privato, ma sono gli dei della polis).
Con la conquista macedone le poleis non scompaiono, ma perdono tutto il carattere e l’importanza che avevano in precedenza; viene meno anche quella rivalità fra le poleis che ne aveva caratterizzato i rapporti per molto tempo.
Viene a cadere anche la distinzione fra Greci e “barbari”: termine che in passato indicava non solo le popolazioni di stirpe non greca, ma anche le differenze fra alcune poleis (Pericle stentava a riconoscere come Greci quelli che non erano dell’Attica).
Al posto delle grandi personalità che le poleis avevano saputo esprimere e in cui i cittadini avevano saputo riconoscersi, la personalità di Alessandro si impone con un carattere che le poleis avevano sempre combattuto, quello della regalità di una monarchia universale di tipo orientaleggiante. Alessandro, nonostante abbia favorito la diffusione della cultura greca in tutte le aree da lui dominate, fu sempre considerato dai Greci come un “barbaro”; solo Plutarco nelle Vite parallele ne rivalutò la figura.
La vera diffusione dell’Ellenismo si ebbe solo dopo la morte di Alessandro (323), a partire dall’epoca delle lotte di successione fra i diadochi (successori), i generali che si contendono il dominio dell’impero. Dopo numerose lotte si giunge nel 272 alla stabilizzazione in quattro regni: Macedonia, che comprende la Grecia continentale; Egitto, sotto Lagidi o Tolomei, con capitale Alessandria; quello dei Seleucidi, che comprende la Siria, la Mesopotamia, le provincie orientali e parte dell’Asia Minore, e che ha per capitale Antiochia; quello degli Attalidi, comprendente la parte interna dell’Asia Minore, con capitale Pergamo.
Le città della Grecia furono ben presto assoggettate al dominio di alcuni tiranni di comodo, ossia a governi pseudodemocratici che in realtà erano autocratici (il termine tirannia non ha comunque quel significato negativo che noi oggi gli attribuiamo). Le poleis perdono così la loro libertà ma non scompaiono, anzi vengono usate dai sovrani come intermediarie fra il potere centrale e l’amministrazione periferica (come provincie), tanto che verranno addirittura moltiplicate. La sovranità si mostrerà paterna e benefattrice nei loro confronti, come attestano le titolazioni di cui si fregiano questi sovrani (Soter=Salvatore; Eugene=Benefattore; Nikator=Vincitore).
All’accentramento politico corrisponde, come già abbiamo visto, l’istituzionalizzazione regale della cultura, che porta ad un asservimento di questa ai fini politici. Ciò non vuol dire che la cultura ellenistica sia di scarso valore, ché anzi raggiunse buoni risultati in tutti i settori. Possiamo dire di essere di fronte alla nascita di una nuova grecità, il cui carattere dominante è il sincretismo. Questo fenomeno è evidente nell’assimilazione di divinità greche a divinità di altri paesi, nell’importazione di divinità locali in territorio greco. Anche le grandi celebrazioni panelleniche, come le Olimpiadi, vengono non solo mantenute, ma anche diffuse per aumentare la coesione di aree culturali diverse. Un contributo analogo diedero anche i commerci: questi erano favoriti dalla presenza di numerose banche e dall’abbondante monetazione dei sovrani, spesso in gara fra loro; da quando poi la terra, tutta nelle mani dei sovrani, non rappresentava più una fonte di ricchezza, il commercio era diventato la principale fonte di arricchimento, contribuendo a creare una nuova élite sociale, che rispetto alla precedente ha un carattere internazionale. Gli stessi sovrani favoriscono la koinè giuridica greca fra le varie nazioni.
Nonostante tutto ciò alcuni problemi sociali si acuiscono, mentre diventa sempre più forte il contrasto fra città e campagna e fra ricchi e poveri all’interno della città. Permane il grosso problema della schiavitù, nonostante le sempre più frequenti rivolte; all’equiparazione fra Greci e barbari non segue quella fra uomini liberi e schiavi (differenza che Aristotele nella Politica aveva motivato come differenza naturale, e che poteva essere spiegata con le necessità imposte dall’arretrata tecnologia del lavoro). D’altra parte alcune scuole filosofiche, come quella dei cinici, proclamano che tutti gli uomini sono per natura uguali e liberi. Quando l’impero romano conquisterà i regni ellenistici, di questi erediterà anche i problemi.
Con la fine della polis passiamo da un individualismo politico ad un individualismo privato, generato dal nuovo universalismo. E’ l’ideale del “vivi nascosto” epicureo o stoico, mentre l’assuefazione alla tirannide, l’adulazione e il servilismo diventeranno tratti comuni anche a molti uomini di cultura. Prevale la rinuncia all’azione, l’atarassia, la rassegnazione, l’introversione, il ritorno al passato. Vi sono anche alcuni elementi positivi, come il recupero dell’indagine interiore (il “conosci te stesso” socratico) e l’intensificazione della vita spirituale intesa come azione interna anziché esterna. Bisogna inoltre precisare che l’atarassia predicata da stoici ed epicurei non significa lassismo o rinuncia abulica, ma è l’atarassia del saggio, sinonimo di una faticosa conquista spirituale. Se Solone poneva il suo ideale umano nell’azione politica, l’Ellenismo valorizza la rinuncia ad essa.
Dal punto di vista filosofico l’Ellenismo è un periodo molto ricco, non solo per le grandi costruzioni sistematiche (Plotino, Epicuro) ma anche perché l’interesse per la filosofia è condiviso dalla maggior parte degli uomini d’ingegno, che in questa attività trovano il loro appagamento intellettuale e spirituale.
All’inizio questa filosofia è mossa da istanze pratiche più che teoretiche: il problema è trovare un “modus vivendi” che permetta di giungere alla pace interiore, condizione prima di ogni felicità. Il carattere settario di molte scuole di quest’epoca si spiega con il fatto che le conoscenze da queste offerte per risolvere i problemi dell’uomo assomigliano a nuovi culti religiosi: tutte poi presentano un carattere di sistematicità e dogmatismo nelle dottrine che è legato al timore che la discussione possa mostrare i limiti delle verità di cui invece questa età è alla ricerca, verità assolute. Nascono così i sistemi ateo e antimetafisico degli Scettici, materialistico degli Epicurei e degli Stoici, spiritualistico in senso religioso dei Neoplatonici. Il metodo privilegiato è quello deduttivo (Plotino).
La critica degli Scettici alla metafisica ne favorisce l’eclisse, che lascia poi spazio alla fisica messa al servizio di una determinata concezione etica o etico-religiosa del mondo. A favorire questa eclisse sono anche l’ampliarsi degli studi più propriamente scientifici e l’affermarsi degli studi di filologia. Gli interessi metafisici ricompariranno esplicitamente nell’ultima fase della filosofia ellenistica in concomitanza con gli interessi religiosi che contribuiranno a fare della filosofia una specie di teologia.
La scuola che più di altre incarna l’ideale di quest’epoca è quella stoica, che mira a fare del saggio l’ideale e il prototipo di tutta l’umanità. Si tratta, in senso filosofico, di quel cosmopolitismo che corrisponde, in senso politico, all’opera di dilatazione del mondo dovuta alla conquista di Alessandro.
Un’altra esigenza tipicamente ellenistica incarnata dallo stoicismo è quella di trovare una nuova fede, di credere in un solo dio che si sostituisca alle tante divinità tradizionali; l’unità divina per gli Stoici è un’unità impersonale immanente, il logos, presente in tutta la natura (di questo aveva già parlato Eraclito, ma dagli Stoici inteso in una rigorosa concezione panteistica). Ciò comporta l’idea di una più intima unione fra l’umano e il divino: concetto cui aderirà anche il Cristianesimo. Riflesso etico di questa concezione è che il saggio può conseguire lo scopo supremo, che è quello della condotta della vita, solo immedesimandosi con la divinità, identica alla ragione universale. Questa, presente in tutte le cose, gli è di guida per dargli modo di raggiungere attraverso l’estirpazione delle passioni la quiete e la felicità interiore: l’atarassia.
Mentre gli epicurei propendono per l’apoliticità, gli stoici ammettono anche, per il saggio, la possibilità di partecipare alla vita politica: Epicuro contrappone alla società senza confini una società più ristretta, quella degli amici, dove l’amicizia, intesa come consonanza spirituale, diventa il nuovo modus vivendi, la nuova religione, in cui l’uomo venera l’altro uomo.
Se nell’ultima fase dell’Ellenismo assistiamo ad un recupero della filosofia platonica e di quella pitagorica, questo è perché esse meglio rispondono alle esigenze religiose maturate in quella fase del pensiero ellenico; bisogna però osservare che esse, per essere dotata di quella sistematicità che Platone aveva sempre rifiutato come metodo filosofico, vengono stravolte, tanto che Pitagora diventa una sorta di santone e mistico, mentre Platone viene svisato dall’utilizzazione che ne fa Plotino. In quest’ultima fase il concetto di infinito da negativo diventa positivo: nasce così quella teologia negativa che influenzerà i primi pensatori cristiani (Pseudo Dionigi, Origene).
Più aderente al platonismo autentico è la concezione di Filone l’Ebreo, in cui si attua quella concezione di simbiosi fra platonismo e Bibbia che anticipa gli esiti cristiani di S. Agostino, attraverso una concezione personale (e non impersonale, come quella degli stoici) del divino.
Bisogna poi ricordare le versioni romane dell’epicureismo e dello stoicismo, che ebbero successo proprio perché si occuparono di problemi pratici, etici e del mondo umano. Oltre a questo interesse pratico vi era nei pensatori romani anche un interesse per il problema religioso, come dimostra la protezione accordata dall’imperatore Gallieno a Plotino, con l’incentivo a fondare una scuola-città intitolata a Platone (Platonopoli).
Periodi in cui viene diviso l’Ellenismo
1) Dall’inizio della preponderanza macedone alla morte di Alessandro (359-323 a.C.).
E’ il periodo definito pre-ellenistico, caratterizzato dall’ultima strenua difesa delle poleis contro l’invasore macedone. Di questa lotta è campione in Atene Demostene, avversario del filomacedone Eschine. In questo periodo si afferma la filosofia di Aristotele e quella della scuola peripatetica (Aristotele era stato anche il precettore di Alessandro). Nel frattempo Senocrate succede a Speusippo nella direzione dell’Accademia platonica (339). Nel campo delle lettere si afferma l’indirizzo filologico; nell’oratoria, oltre Isocrate e Demostene, s’impongono Eschine e Iperide. E’ il periodo in cui nasce l’universalismo ellenistico, in cui la scienza tende ad autonomizzarsi nei confronti della filosofia. Gli animi tendono a fuggire la vita politica per rifugiarsi nel passato.
2) Dalla morte di Alessandro alla caduta della Grecia sotto l’Impero romano (323-146 a.C.).
Dopo le guerre di successione dei Diadochi, la Grecia diventa una provincia romana e assume il nome di Acaia. Si tratta dell’Ellenismo propriamente detto, nella sua fase orientalizzante. Atene non è più il principale centro della cultura, sostituita in questo da città come Alessandria, Pergamo e Antiochia (fenomeno che prende anche il nome di alessandrinismo e il cui principale rappresentante in campo letterario è Callimaco). Sorge l’erudizione libresca e la critica filologica iniziata da Callimaco; l’eloquenza si fa pesante, accademica; sorge la poesia bucolica (Teocrito) e si afferma la commedia con Menandro. Aumenta l’assenteismo politico e prevalgono gli interessi etici nelle grandi scuole materialistiche degli stoici e degli epicurei (Epicuro nel 306 fonda la sua scuola, “Il Giardino”, in cui insegna sino alla morte, nel 270). Si assiste all’affermarsi dello scetticismo con Pirrone, Arcesilao e Carneade. Prosegue il Peripato. Si affermano le scienze esatte e le discipline storiche (con Polibio).
3) Dall’affermarsi dell’Impero romano a quello del Cristianesimo (146 a.C. – 270 d.C.).
E’ l’ellenismo alessandrino-romano, che si può datare sino alla morte di Plotino (270 d.C.). L’asse della cultura continua ad essere Alessandria, ma tende a spostarsi verso Roma. Politicamente prevale l’inattivismo nelle città greche cadute sotto il dominio di Roma, mentre si diffonde il municipalismo (prevalere di interessi locali che stimolano un nuovo provincialismo anche nel campo della cultura). Nella cultura si afferma sempre di più il sincretismo, ossia la fusione di disparati elementi: greci, romani, orientali, cristiani, sia nella letteratura che nell’arte e nella filosofia. Quest’ultima penetra decisamente in Roma all’epoca degli Scipioni, e vi si diffonde con tendenza pragmatico-eclettica rappresentata soprattutto da Cicerone (106-43). vi penetrano tuttavia anche l’Epicureismo con Tito Lucrezio Caro e soprattutto lo Stoicismo che entra così nel suo ultimo periodo: Stoicismo romano (con Epitteto, Seneca e Marco Aurelio, I-II sec. d.C.). Roma divenne meta di molti filosofi greci come Panezio di Rodi, Plutarco di Cheronea e Plotino che vi insegnò e che riuscì, col favore dell’imperatore Gallieno, ad aprire una scuola in Campania (III sec. d.C.). Nel campo delle lettere prevale una tendenza realistica e nasce un nuovo genere: il romanzo, rappresentato soprattutto da Luciano di Samosata (Storia vera, Lucio o l’asino) e che trovò subito imitatori anche a Roma (Apuleio, Petronio). Dopo una parentesi scettica (che trova nei dialoghi dello stesso Luciano la sua più pungente espressione) risorge il fervore e l’interesse religioso che anima le due ultime scuole filosofiche della grecità : il Neopitagorismo e il Neoplatonismo e segna anche l’inizio della filosofia cristiana (Origene, Clemente Alessandrino) e di quella giudaica (Filone).
4) Dalla morte di Plotino alla chiusura della Scuola di Atene (270-527 d.C.).
L’ultimo periodo dell’Ellenismo (post-ellenismo), vede la continuazione del Neoplatonismo ad opera dei discepoli di Plotino: Porfirio, Giamblico, Proclo. Con Giamblico il Neoplatonismo si rifà orientale impregnandosi di elementi misticheggianti; con Proclo, che ne segna l’ultima ripresa (agli inizi del V sec. d.C.), la scuola si trasferisce di nuovo da Alessandria ad Atene. Qui sopravviene (nel 527) il decreto di chiusura ad opera dell’imperatore Giustiniano. E’ la fine della grecità pagana: dopo il breve tentativo di restaurazione del paganesimo (361-363) compiuto da Giuliano l’Apostata, il cristianesimo, ovunque trionfante, procede alla distruzione dei templi, riti, ecc. In questo modo finisce anche la filosofia veramente greca: Boezio, un cristiano di cultura ellenica vissuto alla corte del barbaro Teodorico, non ne è che un tardo epigono (+525). Eppure con Clemente Alessandrino (II sec.), filosofo greco-cristiano di tendenza ortodossa, la filosofia greca era tornata a rivivere proprio in Alessandria, nella scuola da lui risuscitata con tendenze appunto greco-cristiane (gnosi cristiana in opposizione alla gnosi orientaleggiante) quasi a sottolineare un rapporto di continuità.
Fonti della cultura filosofica Ellenistica
Sincretismo è il termine più adatto per indicare il processo di rielaborazione e di assimilazione degli elementi ricevuti dalla tradizione precedente: termine che non va confuso con quello di eclettismo (che può essere adatto ad indicare solo una particolare tendenza della filosofia ellenistico-romana che fa capo a Cicerone), ossia semplice accostamento di influenze, prive di una vera rielaborazione teoretica in senso unitario.
Le suggestioni orientali si manifestano soprattutto sotto la forma di tendenza religiosa ispirata al misticismo razionalizzato dell’ultima filosofia ellenistica, in particolare quella di Plotino, mentre il senso della continuità col passato che alimenta il senso storico dell’Ellenismo fa sì che nulla della speculazione precedente (nata in Grecia dal riscattarsi e dall’autonomizzarsi del pensiero filosofico dalla tradizione religiosa ellenica) vada perduto.
Le due tradizioni filosofiche che esercitano maggiore influenza nell’Ellenismo sono quelle costituite dalla concezione platonico-socratica, continuata dall’Accademia, e dalla concezione aristotelica continuata e diffusa dal Peripato. Più che di recupero è bene forse parlare di continuità.
Non mancano tuttavia influssi del pensiero presocratico, in particolare in Epicureismo, Stoicismo e Neopitagorismo. Dagli Ionici (Talete, Anassimandro, Anassimene) gli Stoici sembrano trarre ispirazione per quella indistinta promiscuità di materia e di spirito (detta “ilozoismo) che contrassegna la loro concezione del reale, mentre la suggestione di Eraclito è presente nella stessa concezione di un Logos divino, onnipervadente e governante il tutto. Suggestioni eleatiche sono presenti nella concezione del mondo come un tutto unico e compatto (monismo), indivisibile da dio (panteismo), eterno e immutabile nella sua complessità soggetta soltanto a un divenire ciclico (concezione che sembra sposare la concezione filosofica di Parmenide a quella di Eraclito).
Il Pitagorismo è presente non solo nel Neo-pitagorismo, ma anche in certe correnti derivate dal Platonismo (in particolare per una certa spiritualità, ovvero distinzione dell’anima dal corpo: concetto al quale appare contribuire anche la dottrina della metempsicosi presente in Empedocle e quella del Nous di Anassagora).
Come il monismo da un lato (Stoici), anche il pluralismo fa sentire la sua suggestione: non tanto nella forma elaborata da Anassagora (dottrina delle omeomerie) quanto in quella elaborata da Democrito, ossia dell’atomismo che costituisce la base della concezione materialistica di Epicuro e degli Epicurei. La concezione di Democrito è la prima ad abbandonare del tutto quella visione complessivamente razionale del mondo, della sua origine e del suo governo (che si traduce nel concetto di provvidenzialità degli Stoici), quale sembra esprimere, nel suo complesso, la grecità. Nessuna legge razionale presiede infatti, secondo Democrito, all’incontrarsi cieco degli atomi che danno origine alle cose, ma soltanto il caso e la necessità, che di quello è la conseguenza, in ordine a una concezione prevalentemente meccanicistica della realtà fisica. Si tratta di un concetto che in parte sembra corrispondere al concetto del Fato e della Tyche ricorrente nell’Ellenismo, soprattutto a proposito degli eventi umani (Polibio). Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, l’etica democritea è invece pervasa di un forte senso di autonomia e di spiritualità che la apparenta alla contemporanea etica socratica (“Felicità e infelicità non stanno nei greggi o nell’oro: l’anima è sede del demone). Si tratta di un’etica razionalistica che anziché in continuità con la natura (irrazionale) si pone, a differenza degli Stoici, in contrasto con essa. Pare di assistere a quella contrapposizione fra natura e cultura che è teorizzata da alcuni dei più noti sofisti (Prodico, Ippia, Antifonte).
E’ proprio dei Sofisti, come di Democrito, anche il concetto di universalità dell’uomo che sembra rompere decisamente con la preclusione della polis. A parte le degenerazioni della sofistica il senso dell’opposizione, in loro, fra natura e cultura (fusis-nomos) acquista un significato nettamente umanistico (tanto da far risalire all’uomo non solo l’origine del linguaggio e delle istituzioni civili, ma perfino degli dei): questo concetto rompe con la sacralità della polis e delle sue istituzioni fornendo una giustificazione anticipata dell’evemerismo (divinizzazione degli eroi assunti al rango di dei) e della consacrazione ellenistica della regalità.
Alla morale socratica l’Ellenismo è debitore del concetto di interiorità (approfondimento del precetto delfico del “conosci te stesso”) a cui si ispirano, nella loro morale, sia Stoici che Epicurei (questi ultimi nel senso apertamente apolitico del “vivi nascosto”). Sempre da Socrate deriva il concetto di eudaimonia, ossia della felicità che è necessaria compagna della virtù, e che come tale si riflette nell’adeguato concetto del piacere presso Epicuro. Anche l’intellettualismo socratico (che è in realtà un razionalismo) secondo il quale la virtù consiste nel sapere, non mancherà di riflettersi sull’etica stoica. Infine il suo individualismo, condizione indispensabile per l’affermarsi della vita etica permane alla base della concezione di vita di Stoici ed Epicurei.
Il platonismo autentico non ebbe invece, almeno per quanto riguarda la metafisica, nell’Ellenismo il successo che il titolo di Neoplatonica, di cui si fregia parte della filosofia di quel periodo, potrebbe lasciar supporre. Della dottrina delle idee restano tracce solo in Filone, in Epicuro e nel Neoplatonismo. Il fatto è che il platonismo autentico non corrisponde in pieno allo spirito del periodo ellenistico: né per quanto riguarda il concetto della filosofia come ricerca (eros) e come dialettica, in un modo del tutto avverso al sistema, né per quanto riguarda il significato della trascendenza, essendo le principali filosofie ellenistiche (Stoicismo, Epicureismo) orientate verso l’immanenza e presentando l’ultima filosofia ellenistica, ossia il Neoplatonismo, un concetto della trascendenza assolutamente ambiguo e in tutto anti-platonico (panteismo emanazionistico).
Nonostante questo la filosofia ellenistica trae diversi spunti dal pensiero platonico, spunti in genere devianti, a partire dal problema dell’uno e dei molti, riguardante tutte le relazioni fra idee e i rapporti fra queste e il sensibile, per la soluzione del problema della realtà. E’ dalle nove ipotesi del “Parmenide” platonico che Neopitagorici e Neoplatonici prendono le mosse per elaborare una teologia delle ipostasi divine e della realtà tutta come proveniente per emanazione dall’Uno-Uno superessenziale, corrispondente alla prima ipotesi del “Parmenide” e da Plotino identificato col Bene (in senso platonico) cioè Dio. Anche le configurazioni platoniche del kosmos noetòs (mondo ideale), dell’anima divina del mondo, del demiurgo, della materia, dell’eros, trovano posto in Plotino, ma assunte in un contesto, quello emanazionistico, che non ha nulla a che fare con Platone. Negli ambienti mistici ebbero poi particolare successo i miti platonici dell’anima, la metempsicosi, il demiurgo, ecc. Possiamo dire che più che Platone ha influito sull’Ellenismo un certo platonismo di scuola, di tendenza matematizzante (come quello di Speusippo e Senocrate, successori di Platone alla guida dell’Accademia dopo la sua morte) o dualistica (come quello rispecchiato da talune opere giovanili di Aristotele).
Per quanto riguarda l’influsso di Aristotele sull’Ellenismo, bisogna prendere in considerazione la tesi del Bignone, che sostiene che per gran parte dell’Ellenismo si sarebbe conosciuto solo l’Aristotele delle opere essoteriche, quello cioè dualistico, platonizzante e mistico, mentre l’Aristotele che noi conosciamo sarebbe stato scoperto solo dopo l’anno 86 d.C. Questa tesi è stata però criticata per diversi motivi: è difficile credere che la maggior parte delle opere didattiche di Aristotele fosse conosciuta solo a partire dall’epoca di Silla, mentre prima sarebbe stata totalmente sconosciuta o trascurata; è difficile credere che il Peripato non abbia lasciato filtrare idee nell’ambiente circostante; dottrine e concetti aristotelici traspaiono continuamente, sia in filosofi del primo Ellenismo che in pensatori dell’ultima fase (Neoplatonici).
L’Ellenismo ha ereditato dall’aristotelismo lo spirito sistematico e la concezione dell’essere come totalità organica (concetto dinamico con cui Aristotele intende un insieme in cui le parti hanno senso solo in rapporto al tutto e viceversa, e che esprime una tensione intrinseca al concetto di finalità esteso a tutta la natura) e come natura interamente finalizzata, concetto quest’ultimo cui si ispirano, secondo una versione rispettivamente immanentistica e trascendentistica, sia Stoici che Neoplatonici. Nelle trattazioni di Stoici ed Epicurei compaiono anche elementi dell’etica aristotelica (autosufficienza del saggio, attività contemplativa) e della politica (la costituzione mista).
Oltre la versione dell’Aristotele essoterico ed esoterico, si diffonde in epoca ellenistica anche quella di un Aristotele scettico, motivata da una presunta appartenenza del filosofo all’indirizzo scettico dell’Accademia platonica, quale si concretò nella Seconda Accademia di Arcesilao e Carneade. Questo indirizzo scettico trova scarso riscontro nell’Accademia originaria (fatta eccezione per una certa svalutazione della conoscenza sensibile e del mondo), mentre trova più legittima ascendenza nel relativismo sofistico, nonché nelle scuole megarica e cinica, due delle cosiddette “scuole socratiche”. Di queste scuole del IV sec. a.C., che di socratico non hanno quasi nulla, occorre parlare, data la loro importanza nel determinare gli indirizzi scettico, stoico ed epicureo.
La corrente megarica, fondata da Euclide di Megara (da non confondere con il matematico), sviluppa in senso metafisico la scoperta socratica del concetto, assimilandola all’essere eleatico e alle sue caratteristiche di immutabilità ed eternità. Dall’assimilazione dell’essere alla Verità e al Bene discende una concezione immobilistica di entrambi, anche per quanto riguarda la vita conoscitiva ed etica dell’uomo. Risulta così praticamente negata la possibilità di una morale attivistica, così come di una conoscenza di tipo discorsivo (fondata cioè sul collegamento dei concetti), con ampie influenze in particolar modo sullo Scetticismo. Unica virtù sembra essere per loro l’impassibilità o indifferenza, sola in grado di realizzare l’autonomia del saggio.
La corrente cinica, fondata a Cinosarge da Antistene, che Platone definì l’antifilosofo per il suo ostentato disprezzo per la cultura, è una scuola a sfondo antiedonistico e autarchico, basata su un concetto pragmatico di virtù, consistente nel realizzare l’autodominio in vista dell’assoluta autosufficienza del saggio (autarchia). L’autarchia, il disprezzo dei beni esteriori e la rinuncia alla vita politica fanno dei Cinici i precursori dell’ideale di vita stoico ed epicureo: famoso è l’episodio di Diogene che vive in una botte e tratta con grande disprezzo Alessandro, espressione di una vita basata sulla rinuncia a tutto ciò che è superfluo (compresa la cultura) e sul rifiuto di ogni autorità. L’unica legge del cinico è la natura, cui si deve obbedienza a prescindere da ogni imposizione di carattere civile e religioso. Questa corrente è l’espressione del più radicale individualismo, alieno da ogni compromesso col mondo, la religione, la società; è la manifestazione di un radicalismo ingenuo e anarchico che confluirà nello Stoicismo, per riproporsi poi alla fine dell’Ellenismo, in concomitanza con certi motivi del nascente Cristianesimo.
La corrente edonistica o cirenaica si sviluppò dalla scuola di Aristippo di Cirene, che si rifà sempre al socratismo, converte il concetto di felicità (eudaimonia) socratico, consistente essenzialmente nella pratica razionale della virtù, nel principio del perseguimento del piacere (nella sua più vasta accezione), trasformando così l’eudamonismo socratico in puro edonismo. L’unica condizione richiesta per il conseguimento di questo piacere è che si tratti non di un piacere statico ma in movimento, e inoltre che si sia sempre in grado di possederlo, non di esserne posseduti. Questa corrente influenza soprattutto Epicuro, il quale però vi reagirà imponendo un calcolo dei piaceri commisurato ai bisogni e preferendo quelli (spirituali) che non inducano turbamento nell’anima. Epicuro sostiene quindi un concetto di piacere in riposo anziché in movimento. Per Egesia, un discepolo di Aristippo, il piacere è sempre accompagnato da dolore, per cui la felicità è irraggiungibile: così lo scopo della vita è quello di scansare i piaceri cercando l’indifferenza, la rinuncia e l’apatia.
Altrettanto importanti per comprendere la filosofia ellenistica sono, malgrado le cospicue deviazioni dalle dottrine dei rispettivi maestri, le correnti platoniche e aristoteliche che si sviluppano dall’Accademia e dal Liceo.
Abbiamo visto che l’Accademia, dopo la morte di Platone, fu diretta prima da Speusippo e poi da Senocrate, che le impressero un indirizzo pitagorico-matematizzante estraneo al pensiero del platonismo originario (Platone ha sempre respinto l’idea di una metafisica quantitativistica, rimanendo essa per lui incentrata in una concezione qualitativa della realtà, espressa dalle idee-valori). Speusippo e Senocrate interpretano la dottrina del Filebo platonico (circa il limite, l’illimitato, la causa, il misto) in termini matematici: facendo cioè dell’Uno e della Diade (limite e illimitato platonico) l’unica spiegazione della realtà. In Speusippo le idee scompaiono del tutto, mentre in Senocrate sussistono ancora, anche se come derivate. Questa manipolazione della dottrina platonica costituisce l’aggancio per Neopitagorici e Neoplatonici, in particolare per Plotino, che farà dell’Uno superessenziale (uperanon) il principio e il fine della sua concezione emanazionistica, ossia della sua interpretazione mistico-razionalistica della realtà. E così dall’Accademia, oltre ad un indirizzo scettico, proviene un indirizzo mistico.
L’indirizzo del Peripato (la cui sede Stratone di Lampsaco trasferì ad Alessandria) fu quello di volgersi sempre più all’indagine empirica e alla sistemazione dei dati delle singole scienze ordinate per specie, abbandonando ogni presupposto metafisico. La scienza perde così il carattere dimostrativo e abbandona il finalismo che Aristotele ha presupposto e che ha orientato la sua spiegazione dei fatti. Questo indirizzo venne inaugurato da Teofrasto, il primo successore di Aristotele alla direzione della scuola. In logica egli seguì una tendenza empirico-formale, abbandonando ogni presupposto di corrispondenza fra le leggi del pensiero e quelle della realtà, contribuendo così allo sviluppo del sillogismo ipotetico elaborato dagli Stoici. Altri membri del Peripato furono Eudemo di Rodi (autore di una Storia dell’astronomia e della geometria), Aristosseno (autore di una Storia della musica e di biografie dei filosofi) e Dicearco. Quest’ultimo scrisse tre importanti opere: una Vita dei filosofi in cui esalta l’ideale di vita pratico, contrapponendolo a quello teoretico che Aristotele aveva considerato come assolutamente superiore all’altro, e dove cerca di dimostrare che i primi filosofi non furono dei contemplativi; una Storia della Grecia in cui cerca di combattere l’idea del fato o della volontà divina, mostrando che gli uomini sono responsabili del loro destino, essendo la loro decadenza dovuta al cattivo uso della ragione; il Tripolitico, in cui ribadisce la superiorità della vita attiva su quella contemplativa e la responsabilità dell’uomo nella costruzione del proprio destino, e in cui prospetta l’ideale di una costituzione (che fu detta “dicearchica” e che fu tenuta presente da Cicerone) che sia il frutto del contemperamento delle tre forme politiche “rette” (aristocrazia, democrazia e monarchia), ritenute tali sia da Platone che da Aristotele.
La concezione di Stratone di Lampsaco è vicina a quella di Epicuro quando parla di una Fisica rigorosamente meccanicistica e quando rifiuta ogni interpretazione trascendentale delle cause.
Il periodo del quale ci stiamo occupando è caratterizzato dal declino della teoria nei confronti della prassi, dal declino della metafisica tradizionale e del corrispettivo ideale contemplativo. Questa eclissi coincide con l’età alessandrina, ma si tratta di una scomparsa momentanea: impulso teoretico e metafisica risorgeranno sotto la spinta di fattori religiosi e mistici che caratterizzeranno l’ultimo Ellenismo giungendo, con Plotino e Proclo, a porre come supremo traguardo della vita dell’uomo la contemplazione e l’estasi.
Influssi del fattore religioso sull’Ellenismo
Tutto l’Ellenismo è animato da un profondo bisogno di rinnovamento religioso, in quanto la religione ufficiale legata alla “polis” non soddisfa più. Da tempo del resto si era sviluppata accanto ad essa un altro tipo di religione, filosofica, che adombra nella divinità il proprio principio di spiegazione causale della realtà.
A volte questo concetto filosofico del divino assume un aspetto del tutto interiore (basti pensare al daimon socratico); in altre occasioni incarna il concetto della legge civile o di quella che domina l’universo (il dio-giustizia di Solone o il dio-logos di Eraclito); altre volte ancora esso perviene ad esprimersi nel concetto di un valore supremo al di sopra di tutti i valori (il dio-bene di Platone o il puro intelletto di Aristotele, nous).
Tra religione ufficiale e filosofica vi sono spesso degli scontri: Senofane fu accusato di empietà per aver affermato che il sole è una palla infuocata; Socrate fu accusato di non rispettare gli Dei ufficiali della “polis” per avere adorato un “daimon”, una specie di divinità personale, interiore. Nonostante l’apparente vittoria della religione ufficiale, cui va un ossequio esteriore, vincitrice è la nuova religione filosofica, che assume sempre più l’aspetto di una religione individuale.
Fondamentale per comprendere l’affermarsi di questa religione personale fu l’ellenizzazione del mondo orientale operata da Alessandro Magno. Nel 324 Alessandro, come coronamento della sua impresa, ottiene dalle città della Grecia onori divini e Demostene concede che egli venga considerato figlio di Zeus o di Poseidone, proprio perché ormai il fatto religioso ufficiale non ha più grande importanza.
Lo scetticismo che si va diffondendo porta ad un personale distacco dai culti ufficiali più che ad un tramonto del senso della religiosità in generale. Si diffondono così nuove credenze di origine orientale alle quali si partecipa non perché si è cittadini di una polis, ma perché ognuno si sente di scegliere gli dei che più si addicono alla sua personalità. Questo fiorire di nuove credenze orientali favorisce lo sviluppo di una religione universale, in cui il concetto di divino si allarga sino ad includere divinità esotiche che nulla hanno a che fare con il culto tradizionale. Il panteon sanzionerà a Roma l’accoglimento di questo universalismo, così come l’altare ateniese al “dio ignoto”.
Del resto la religione olimpica (di tipo civico, modellata sullo schema di una società aristocratica e che incarna una certa forma di razionalità) non era l’unica religione diffusa in Grecia: accanto ad essa si era diffusa in Grecia sin da tempi antichissimi un tipo di religiosità rurale, misterica e ispirata alle vicende della natura, espressione delle forze oscure e passionali dell’uomo.
Diversi studiosi hanno messo in luce la duplice componente razionale-irrazionale della spiritualità greca (che Nietzsche chiamerà apollineo-dionisiaco). Dioniso (dio dell’ebbrezza e del vino) esprime la religiosità dei campi che si contrappone a quella cittadina di Apollo (dio della musica): alla fine il culto di Dioniso (che comportava manifestazioni orgiastiche) venne accettato anche nella polis. Il culto di Dioniso si intensifica in epoca ellenistica, insieme a quello di altre divinità soccorrevoli, come Asclepio. Il concetto di un dio salvatore, maturato nella religione iranica (Zaratustra), si diffonde sempre più in quest’epoca. E’ così che la divinità scende dall’Olimpo e si avvicina agli uomini, di cui può intendere anche le preghiere.
La nuova spiritualità si esprime attraverso la religiosità misterica, come nel caso dei misteri eleusini. Il culto misterico più diffuso è però quello orfico, che in quest’epoca raggiunge il massimo della diffusione e della popolarità. Riproducendo sotto la forma dell’eroe Orfeo il mito di Dioniso dilaniato dai Titani per poi risorgere sotto nuovo nome, esso proponeva il concetto di una salvazione e di una resurrezione spirituale ottenuta non solo con atti rituali, come nei misteri eleusini, ma attraverso la comunicazione di una dottrina riguardante l’anima e la sua sopravvivenza nell’aldilà. L’orfismo, adottato da Pitagora e Platone, fa uso solo di elementi spirituali, nonostante vi sia un rito di iniziazione simile a quello dei misteri eleusini. L’istanza che anima l’Ellenismo è il desiderio di fuggire l’impurità e la speranza di un’altra vita, oltre alla voglia di essere partecipi della comunità nuova, quella degli iniziati. Si tratta di una fuga dal mondo terreno operata nell’al di qua.
Accanto al concetto di anima individuale si diffonde anche quello di anima universale, tramite fra il mondo e Dio (si tratta di un’antica idea di origine orientale, che troviamo anche nei Pitagorici e in Platone; quest’ultimo nel Timeo pone, attraverso il Demiurgo, l’anima al centro del mondo come principio senza fine del movimento e dell’animazione universale e come intermediaria fra Dio e il mondo, mondo che viene inteso come un organismo vivente). Aristotele abbandona questa teoria e spiega il movimento con la finalità relativa al Primo Motore (Dio) verso cui le cose tendono come al supremo Bene o Fine, ma una concezione animistica dell’universo traspare da altre parti del suo sistema, come a proposito dell’animazione degli astri e delle sfere celesti. L’anima del mondo ritorna poi con gli Stoici, che la identificano col pneuma o fuoco divino insito nella natura.
Plotino riprende questo concetto facendo dell’anima cosmica, considerata un’ipostasi divina, l’intermediaria fra mondo intelligibile e mondo sensibile, assorbendo in essa anche la figurazione platonica del demiurgo. In Plotino questa concezione sottende un panteismo o panpsichismo (che non va confuso con l’animismo, che significa materia con un’anima simile a quella dell’uomo, o con l’ilozoismo, che considera la materia come semplicemente animata).
Mentre la religione olimpica si avviava ad essere demolita del tutto (soprattutto ad opera di Epicuro), con l’affermarsi di nuove forme di religione greco-orientali si assiste ad un interessante fenomeno sociale: il formarsi cioè di particolari comunità di individui che si propongono il reciproco perfezionamento spirituale attraverso pratiche ascetiche ed una vita in comune. Alcune di queste comunità furono vere e proprie sette e derivarono dai pitagorici o, come gli Esseni, dall’ebraismo.
Alcuni attribuiscono l’origine di queste comunità ascetiche o “terapeutiche” al Buddismo e all’India. India e Iran hanno sviluppato sistemi filosofico-religiosi in epoca molto anteriore al sorgere della speculazione greca, dando luogo ad esposizioni dottrinali che accompagnano o precedono la speculazione greca; i primi contatti possono essere fatti risalire a Pitagora, i cui viaggi, così si dice, lo avrebbero portato a conoscere la dottrina della trasmigrazione delle anime. Aristotele parla di Zoroastro come di un precursore di Platone. Con Alessandro i contatti della Grecia con l’India e l’Iran si fanno più intensi e di conseguenza più forti sono gli influssi di queste filosofie sul pensiero greco.
La più antica religione indiana è quella dei Veda: di stampo naturalistico, adora sotto forma di divinità le forze della natura, presenta un sacrificio con cui si nutrono gli dei mentre non compare ancora la dottrina della trasmigrazione delle anime.
La dottrina della trasmigrazione delle anime fa la sua apparizione nel Brahmanesimo, dottrina di carattere assai spirituale esposta nelle Upanishad. Suoi concetti fondamentali sono quelli di brahman (spirito universale) e atman (anima soggettiva). Questi due principi, che sono della stessa natura, sono destinati a coincidere nel brahman-atman. A questa unione è d’ostacolo il Karman, la legge di causalità determinata dalle vite precedenti che incatenano le anime ai corpi e al mondo fenomenico (samsara). Questo fino a quando esse non riusciranno a liberarsi dall’illusione sensibile (maya) attraverso l’ascesi, consistente nel superare l’io superficiale per trovare l’io profondo. L’assoluto, brahman, non è afferrabile positivamente, ma solo allontanando da lui tutte le attribuzioni fenomeniche (né…né…). Una volta realizzata l’unione filiale col brahman, costituita dall’estasi mistica, le negazioni potranno divenire affermazioni. Questa concezione offre lo schema di un panteismo di tipo spiritualistico e trascendentistico, di una teologia negativa, nonché di un’ascesi di puro tipo contemplatico quali si ritroveranno nell’ultima filosofia dell’Ellenismo, quella Neoplatonica.
Dal brahamanesimo si distaccano due correnti: lo yoga, che con particolari tecniche persegue la completa smaterializzazione dell’io; il giainismo, religione atea come il buddismo, che esprime una teoria dualistica e atomistica che concepisce atomi materiali e spirituali.
La concezione buddista, fondamentalmente monistica, approda al relativismo. La dottrina di Budda passa attraverso le quattro verità (constatazione dell’illusorietà del tutto e del dolore universale; constatazione che il dolore viene dal desiderio, sopprimendo il quale si giunge alla terza verità, il nirvana; la via della salvezza che comporta otto diramazioni: fede, volontà, parola, azione, esistenza applicazione, memoria e meditazione pure). La morale buddista raccomanda la rassegnazione alla sofferenza individuale, la benevolenza, la pietà, il perdono e la carità. Il buddismo pare abbia esercitato un’influenza sul cristianesimo primitivo, mentre è singolare la sua corrispondenza con le analoghe dottrine epicuree soprattutto circa il dolore, il desiderio, l’atarassia e la superfluità della regione positiva. Il buddismo si dividerà poi in piccolo veicolo (hina-yana) e grande veicolo (maha-yana): la prima tendenza si occuperà della salvezza individuale, mentre la seconda di quella collettiva; il Budda verrà poi divinizzato.
Altre correnti orientali o medio-orientali che hanno contribuito alla formazione della spiritualità ellenistica sono lo gnosticismo e la magia. La gnosi è una dottrina della conoscenza che significa anche salvazione: essa si propone il riscatto dell’anima attraverso la conoscenza delle cose umane e divine. Ritenuta la massima espressione del sincretismo ellenistico, unisce in sé concezioni iraniche, siriane, ebraiche (essenismo), medio-orientali e cristiane. Si distingue una gnosi volgare, dedita alla formazione di sette di tipo purificatorio e molto diffusa in Siria, Egitto, Asia Minore e anche a Roma, da una gnosi dotta, che ha sede in Alessandria e che conta personalità di grande rilievo come Ireneo e Marcione, in reazione alla quale sorgerà poi la gnosi cristiana. La gnosi dotta professa l’idea di un dio assolutamente trascendente e inconoscibile all’uomo o conoscibile solo attraverso intermediari (ipostasi) detti eoni, vere emanazioni di Dio. Nella versione cristianeggiante della gnosi si aspetta uno Spirito Salvatore (Cristo). L’uomo è considerato un’entità mista, formato da un elemento ilico (materiale), da uno psichico che ha la funzione di intermediario e da uno pneumatico (spirituale). A seconda di quale è l’elemento predominante abbiamo uomini ilici, psichici o spirituali; di questi solo agli ultimi è promessa la salvezza.
La gnosi riflette una visione dualistica e pessimistica del mondo e una concezione aristocratica della salvezza riservata a pochi eletti. Include in sè la credenza nella predestinazione unita a elementi di determinismo astrale e a pratiche magiche (basate sulla credenza all’esistenza di potenze malvagie accanto ad altre benefattrici che occorre ingraziarsi). Proprio per la sua svalutazione dell’azione morale, la gnosi ha incontrato grosse resistenze, sia in ambiente cristiano che in quello filosofico pagano.
Anche la magia si divide in volgare, basata sulla credenza nell’esistenza di demoni buoni o malvagi (la magia che evoca gli spiriti buoni è detta teurgia, mentre quella che evoca spiriti cattivi è detta negromanzia), e una dotta che si rifà alla dottrina dei Magi o sapienti iranici, dei quali il principale è Zoroastro. La magia viene associata alla libertà, in quanto l’uomo può operare sulle cose dell’universo modificandole; per l’astrologia invece l’uomo è determinato dall’influsso degli astri, il che esclude la libertà. La magia dotta è una vera e propria filosofia religiosa: possiamo notare una differenza fra una filosofia religiosa indiana monistica e una iranica dualistica (Zaratustra). Zaratustra è considerato, in epoca ellenistica, il sommo dei Magi. Egli cerca di contenere l’originario dualismo bene-male in una visione trascendente del dio unico chiamato Ahura Mazdah, divinità spirituale che crea col pensiero e da cui tutto dipende. Zaratustra crea lo spirito santo e quello malvagio, i quali si contendono il dominio del mondo e pongono l’uomo e lo stesso Dio di fronte ad una scelta, che presuppone quindi l’esistenza del libero arbitrio. Per la sua idea di un dio unico, spirituale, creatore, onnipotente giudice del bene e del male; per l’idea di responsabilità e colpa riferita all’uomo come conseguenza di una libera scelta originaria; per l’idea di un giudizio finale universale ed individuale è evidente quanto lo zoroastrismo abbia influenzato l’Ebraismo. Il dualismo più radicale ricomparirà più tardi ed influenzerà il manicheismo.
Fonte comune, nel tardo Ellenismo, di magia, gnosi, astrologia è il corpus hermeticum, riferito dalla tradizione al mitico Ermete Trismegisto, singolare contaminazione del dio egiziano Toth e del dio greco Ermes. I trattati che compongono il Corpus rappresentano un tipico esempio di sincretismo tardo-ellenisticoin cui confluiscono motivi platonici, aristotelici, stoici, insieme a suggestioni misteriosofiche orientali, e presentano somiglianze con gli oracoli caldaici, con gli scritti orfici e gnostici. Dio ormai è attingibile solo attraverso un’intuizione e nell’ambito di una conoscenza rivelata, ma, parallelamente, è concepito anche come creatore, conoscibile attraverso il creato. Due anche le etiche che ne derivano, una di disprezzo per il mondo perché considerato frutto di un dio malvagio, l’altra di amore per il mondo considerato creatura di un dio buono.
In quest’ultima fase dell’Ellenismo la razionalità si eclissa per lasciare spazio alle tendenze esoteriche (si avverte chiara l’esigenza di un mediatore tra l’uomo e Dio).
Un ultimo cenno, per una migliore comprensione di questo periodo al contributo dato da cristianesimo ed ebraismo. La traduzione della Bibbia in greco detta dei settanta rappresenta l’ellenizzazione della cultura ebraica. Il Nuovo Testamento fu redatto addirittura in greco, fatto che contribuì a dare origine ad una tendenza gnostica dualistica, quindi ad una gnosi cristiana. Un altra conseguenza fu l’interpretazione allegorica, ossia in termini razionali, della Bibbia, che diede luogo anche a numerose eresie. L’Ebraismo fornì il contesto di una cosmogonia ispirata al concetto di Dio unico, creatore, benefattore e provvidente per quanto giudice severo dell’uomo, in virtù del dono a lui offerto del libero arbitrio (con le conseguenze del peccato originale, della cacciata dall’Eden e del giudizio finale). Il Cristianesimo fornì, attraverso la predicazione paolina, il concetto di un Redentore, dio incarnato e promulgatore di una nuova legge: quella dell’amore; oltre al concetto di una salvezza offerta a tutti in grazia della passione di Cristo e della sua resurrezione.
I pagani furono molto attratti dal messaggio ebraico, ma l’ostacolo della circoncisione frenò la loro adesione a quella comunità; ciò favorì il successo del cristianesimo, il quale prometteva la resurrezione della carne: un concetto fino allora estraneo alla mentalità greca e che serviva a rafforzare la speranza e la fiducia di una vita completa nell’al di là. Successo ebbe anche l’etica cristiana con il suo concetto del rispetto della personalità umana, concetto di cui nel mondo ellenistico si avvertiva l’esigenza, sollecitata da una riflessione prima romana e poi stoica.
EUDOSSO DI CNIDO
Se fino a Platone e ad Aristotele comprensione della natura e comprensione dell’uomo, sapere scientifico e sapere filosofico costituivano i due aspetti strettamente legati di un’unica cultura, funzionali l’uno all’altro, dopo Aristotele, a partire dall’età ellenistica si può parlare di due “culture” procedenti in maniera autonoma, le cui tecniche di apprendimento, i cui metodi, le cui finalità divergono sempre piú. Naturalmente si tratta di un processo graduale, e non di un brusco divario; possiamo quindi parlare di una tendenza che va sempre piú accentuandosi a partire, appunto, dal III secolo a.C. e non di un fenomeno che si afferma improvvisamente all’alba di un nuovo anno. Anche in età ellenistica, infatti, e successivamente fin nei primi secoli dell’era volgare, avremo delle figure di “filosofi” che sono contemporaneamente dei grandi scienziati, come per esempio il matematico e fisico platonico Archimede o il matematico neoplatonico Proclo. Del resto, anche prima di Platone, o contemporaneamente a Platone ed Aristotele, c’erano stati esempi di ricerche scientifiche abbastanza avanzate e con tecniche e metodologie che molto poco avevano a che fare con quelle piú specificamente filosofiche: basti pensare alla matematica pitagorica (cfr. cap. II, par. 4) e alla medicina ippocratica (cfr. cap. III, par. 7). Così ancora, contemporaneamente a Platone e ad Aristotele, c’era stata la figura del grande astronomo e matematico Eudosso di Cnido (409-356 a.C.), frequentatore dell’Accademia platonica e poi fondatore di una scuola scientifica prima a Cizico poi a Cnido. Nell’ambito dell’Accademia, Eudosso dovette esercitare un grande prestigio ed una grande influenza, e non solo per le sue teorie matematiche ed astronomiche, ma anche per le discussioni che accese su alcuni temi fondamentali della teoria platonica: abbiamo varie testimonianze che in risposta alle sue tesi sul piacere – ritenuto un fine pienamente conseguibile e buono di per sé – lo stesso Platone scrisse il Filebo ed Aristotele un’opera Sul piacere; lo stesso Aristotele, contro un’interpretazione “deviante” della dottrina delle idee da parte di Eudosso, lo attaccò anche su questo delicato terreno della teoria platonica. In ambiente accademico, comunque, nacque probabilmente l’esigenza di una nuova elaborazione delle dottrine astronomiche e di una sistemazione del sapere elaborato fino ad allora dagli Ionici fino ad Anassagora. Gli antichi avevano già osservato le “irregolarità” dei fenomeni astronomia, e cioè il fatto che la velocità angolare del moto apparente dei pianeti intorno alla terra variava: noi sappiamo che questo dipende dalle influenze reciproche dei moti dei pianeti e della terra intorno al sole, ma per gli antichi, che non ammettevano la possibilità di orbite ellittiche (il moto dei cieli, essendo perfetto, doveva essere circolare) e pensavano la terra ferma al centro dell’universo, non spiegare quelle “irregolarità” significava ammettere un elemento di imperfezione nel mondo perfetto e divino dei cieli. Ecco perché per Platone bisognava “salvare i fenomeni”; questa, lungi dall’essere nell’intenzione platonica un richiamo all’esperienza ed una sua valorizzazione, era una parola d’ordine che significava esattamente il contrario. trovare una spiegazione dell’esperienza – dei fenomeni – che la inquadrasse necessariamente nei presupposti teoria della perfezione dei cieli e del loro moto circolare intorno alla terra.
A questo compito si accinse appunto Eudosso, e la sua spiegazione – a prescindere dalla finalità “platonica” che molto probabilmente gli fu estranea – resta il primo serio e articolato tentativo di rappresentare matematicamente il complicato moto apparente dei pianeti. La spiegazione di Eudosso si basava su di un sistema di sfere, detto appunto delle “sfere omocentriche di Eudosso”: i poli di ciascuna sfera (racchiudente il moto del pianeta) non sono immobili, ma sono trasportati da una sfera concentrica di raggio maggiore che ruota con velocità diversa attorno a due poli diversi da quelli della prima sfera. Poiché questo sistema non bastava ancora a rappresentare i moti dei pianeti, Eudosso immaginò una terza sfera, sempre concentrica alle altre due, ma anch’essa con poli e velocità diversi: con questo sistema di sfere (tre per il sole e tre per la luna, quattro per i cinque pianeti allora conosciuti, una per le stelle fisse), Eudosso riuscì a dare una elegante rappresentazione del moto dei pianeti, che fu ritenuta insuperabile dallo stesso Aristotele, il quale infatti la accettò nella sua cosmologia.
Dopo Eudosso ed Aristotele, il sistema astronomico geocentrico ebbe il sopravvento, soffocando le intuizioni eliocentriche che non erano mancate in ambiente pitagorico. Ma l’astronomia greca conobbe anche dei tentativi di usare dalla concezione geocentrica con Eraclide Pontico (385-322 a.C.), nato ad Eraclea ed emigrato d Atene, dove fu probabilmente discepolo di Aristotele al Liceo. Eraclide, per spiegare il moto diurno dei cieli, pensò ad un moto della terra intorno al proprio asse da occidente ad oriente; giunse probabilmente a teorizzare un movimento di Venere e di Mercurio intorno al sole. Seguace anche delle dottrine pitagoriche, Eraclide ammetteva l’influenza degli astri sulla vita degli uomini e la capacità, per il saggio, di prevedere o addirittura di regolare questo influsso: aprì quindi la via all’astrologia e alla magia, che si affermarono e dilagarono a partire dall’età ellenistica in poi.
ARISTIPPO
L’ideale di libertà tratteggiato dal cinismo viene rielaborato da Aristippo di Cirene (435 a.C. – 360 a.C.) non come distacco dai propri bisogni ma come distacco dalle cose e dalla vita politica (eleuqeria ). Secondo il filosofo la libertà si identifica con il dominio delle cose e delle passioni, che si ottiene attraverso la moderazione in ogni comportamento (ad esempio nel piacere non bisogna esagerare perché alla fine è il piacere stesso che domina te e non il contrario). L’edonismo, quindi, significa crogiolarsi nel piacere senza però essere dipendenti da esso (posseggo, non sono posseduto). Famoso l’aneddoto su Aristippo, a cui gli invasori avrebbero distrutto la casa, e lui non si sarebbe disperato per questo. Alle richieste dei soldati nemici del motivo per il quale egli non si disperasse, egli rispose che i suoi beni primari erano nella sua anima, e la perdita dei beni esteriori non lo toccava. Qui emerge l’ autarkeia (“autosufficienza”) di Aristippo: il filosofo stesso basta per sé e non ha bisogno di nient’altro. Secondo alcuni storiografi la dottrina dell’edonismo non deve essere attribuita ad Aristippo, al contrario di quanto afferma una storiografia abbastanza consolidata. Questa in realtà sarebbe stata elaborata da suo nipote, Aristippo il Giovane, e rielaborata poi dai cirenaici del IV e III secolo. La vita secondo i cirenaici ha come unico fine il piacere presente e momentaneo: questa limitazione impedisce loro di definire un ideale di virtù duraturo che possa accompagnare l’uomo durante tutta la sua vita. La virtù viene, per contro, concepita come uno stato di autocontrollo (come sosteneva Democrito) e di libertà dell’animo. Con queste posizioni questa scuola si avvicinerà soprattutto alle filosofie elleniche, scetticismo e epicureismo in particolare, allentandosi invece dal socratismo. Aristippo aveva per lungo tempo frequentato Socrate e si era formato alla sua scuola, anche se, in precedenza, aveva già acquisito una cultura, diversissima da quella di marca socratica. Figlio di un mercante, fu il primo tra i socratici ad esigere denaro da coloro ai quali impartiva le sue lezioni e quando inviò dei soldi a Socrate, questi li respinse vivamente. Le definizioni universali (di bello, di bene, di giustizia, ecc) cui mirava Socrate, ad Aristippo non bastavano: al centro della sua filosofia pose quindi l’individualità, poiché per lui l’essenza universale dal lato della realtà era la coscienza individuale e, in questa prospettiva, ben si capisce perché additò il piacere come unica cosa cui l’uomo dovesse occuparsi. Il gran peso dato all’individualità singola si riverbera sulla stessa figura di Aristippo, di cui è importante, forse più del il pensiero, la personalità, il suo carattere: e non è un caso che la tradizione ci riferisca, più che le sue dottrine, il suo tenore di vita, i suoi detti, la sua indole. Egli ricerca il piacere come uno spirito colto, che per questa via si era elevato ad una completa indifferenza verso ogni particolarità, verso le passioni, verso ogni specie di vincolo. Aristippo, pur ponendo al centro di ogni cosa il piacere, non per questo disdegna la cultura, specie quella filosofica: anzi, le attribuisce il massimo valore, tant’è che, a suo avviso, solamente l’uomo dotato di cultura filosofica può raggiungere per davvero il piacere. Infatti – egli dice – non è facile sapere cosa sia effettivamente il piacere e solo un’accurata indagine filosofica può gettar luce in merito: ne consegue che, per raggiungere il piacere, occorre prima effettuare un’indagine filosofica. E Aristippo, coerentemente con tale impianto filosofico, condusse la sua vita ricercando, filosoficamente, il piacere: e sono particolarmente interessanti gli aneddoti che circolano sulla sua condotta di vita, che ne mettono in luce la vivacità geniale. Da buon filosofo, quale era, non ricercava un piacere efferato e momentaneo, dal quale poi sarebbe derivato inevitabilmente un male maggiore rispetto al piacere stesso: al contrario, era la filosofia ad indicargli i piaceri da seguire e quelli da respingere; filosofia che, a suo avviso, altra funzione non aveva se non di sgombrare l’animo umano da ogni ansietà, mettendo in risalto la caducità della vita umana e l’assurdità di attaccarsi alle cose, che per loro natura sono troppo mutevoli. Egli viveva saldamente ancorato al presente, adattandosi a tutte le circostanze: si trovava a suo agio sia alla corte dei re sia nella miseria più squallida, rimanendo sempre uguale a se stesso. Conduisse la sua vita soprattutto alla corte di Dionigi, dove fu sempre ben visto ma dove, in fin dei conti, mantenne sempre una sua libertà e una sua indipendenza, motivo per il quale fu detto da Diogene di Sinope “il cane regio”. Si narra che una volta chiese cinquanta dracme ad un tale che voleva affidargli il figlio per l’educazione: ma poiché quel tale credeva che fosse troppo caro, protestando che, con tutti quei soldi, avrebbe potuto comprarci uno schiavo, Aristippo gli rispose: “compralo: così ne avrai due”. Una volta Socrate, stupito per la sua ricchezza, gli chiese: “com’è che hai tanto denaro?” e Aristippo replicò: “e com’è che tu ne hai tanto poco?”. Un’altra volta, poiché un’etera lo assillava dicendogli di aver avuto un figlio da lui, egli rispose: “puoi affermare che lo hai avuto da me con quella stessa sicurezza con cui, passeggiando per una macchia di spini, sapresti indicare proprio quello che t’ha punta”. Un’altra volta ancora, Dionigi gli sputò in faccia e, poiché egli non s’era nemmeno mosso, fu aspramente criticato; al che, egli rispose: “i pescatori tollerano di restare inzuppati dall’acqua del mare, pur di poter prendere dei pesciolini, ed io non dovrei sopportare quanto m’è avvenuto per prendere una così grande balena?”. Sempre Dionigi gli presentò tre etere, invitandolo a scegliersene una: egli se le prese tutte e tre, dicendo che era già stato pericoloso per Paride dare la preferenza ad una sola; portatele in casa, le fece allontanare tutte e tre. Aristippo non dava importanza al denaro, anche se lui stesso ne era fornitissimo e anche se, secondo il principio del piacere, sembrerebbe che il denaro sia importantissimo: lo sciupava per comprarsi leccornie e una volta pagò una pernice cinquanta dracme e, poiché un tale era sbalordito di fronte a ciò, egli disse: “e tu non l’avresti comprata per un obolo?”; siccome il tale rispose di sì, Aristippo replicò: “ebbene, per me cinquanta dracme non valgono più di un obolo”. Una volta, viaggiando in Africa, si accorse che il suo schiavo era affaticato nel portare una certa somma di denaro; e allora gli disse “getta via quel che è di troppo, e porta soltanto quel che puoi”. Interrogato da un tizio in che cosa si distinguesse l’uomo colto da quello ignorante, rispose: “in questo: che una pietra non può stare su un’altra”, ossia tra loro corre la stessa differenza tra un uomo e una pietra. Aristippo, poi, paragonava quelli che coltivavano le altre scienze trascurando la filosofia ai proci di Penelope, che, come sta scritto nell’Odissea, possono sì entrare in possesso di Melanto e delle altre ancelle, ma non della regina.
ANALISI DEL PENSIERO DI CRISIPPO
La svalutazione della conoscenza della natura, le tesi convenzionalistiche delle leggi e della morale, il privilegiamento dell’etica e della “filosofia morale”, sono le caratteristiche portanti della scuola socratica detta “cirenaica” perchè fondata da Aristippo di Cirene:
Le emozioni sono percepibili, e non ciò da cui esse derivano. Tralasciavano l’indagine sulla natura per la sua evidente incomprensibiIità, mentre si applicavano alla logica per la sua utilità. Nulla è giusto o bello o brutto per natura, ma solo per convenzione e consuetudine. (Diogene Laerzio II, 92)
I Cirenaici negano che vi sia qualcosa che possa essere percepito dall’esterno, ma affermano di percepire solo quelle cose che sentono con il senso interno, come il dolore e il piacere. (Cicerone, Accademica priora II 24,76)
Dolore e piacere, dunque, sono i due “movimenti” fondamentali dell’anima, il primo forte, il secondo lieve: il primo è dunque da rifuggire, il secondo da ricercare. II piacere è quindi il fine ultimo della vita, il piacere vissuto attimo per attimo e non quello della memoria o dell’aspettativa (come vorrà Epicuro), e la felicità non è che la confluenza dei singoli piaceri.
Il piacere particolare può essere scelto di per se stesso, mentre la felicità non può esserlo per se stessa, ma attraverso i piaceri particolari. Indizio che il piacere sia fine è il fatto che ci diventa familiare fin da quando siamo fanciulli senza alcuna nostra scelta, ma per se stesso, e quando ci capita non cerchiamo niente altro, e nulla cosí fuggiamo come il suo contrario, il dolore. (Diog. Laer. II 88)
Ma un piacere perseguito di per se stesso, senza nessuna preoccupazione di coordinamento con altri, si rivela ben presto illusorio: la somma dei piaceri della vita d’un uomo è di gran lunga inferiore alla somma dei suoi dolori. È questa la conseguenza che tirerà dalle dottrine di Aristippo un suo discepolo, EGESIA, tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. Per Egesia,
la felicità è del tutto impossibile: il corpo infatti è pieno di mille sofferenze, l’anima soffre col corpo ed è turbata, e la sorte rende vane molte cose da noi sperate: sicché la felicità è irrealizzabile. Perciò il sapiente non si affannerà nel procurarsi i beni ma nell’evitare i mali, il che si realizza con uno stato d’animo d’indifferenza per ciò che produce il piacere. (Diog. Laer II 93-95)
Diceva anche che la vita è piacevole per gli sciocchi, mentre per il saggio piacevole è la morte, sí che alcuni per questo lo chiamavano “persuasor di morte”. (Epifanio, Contro gli eretici, III,2,9)
Dall’esaltazione del piacere all’esaltazione della morte, massimo piacere: è questa la parabola percorsa dalla dottrina cirenaica: un’ulteriore testimonianza della crisi dei valori della polis. Il saggio non è piú il cittadino attivo che, all’interno della sua città, promuove un programma in cui ricerca scientifica, indagine filosofica, vita morale e civile, siano strettamente fuse, com’era stato per Parmenide, Empedocle, Protagora, Anassagora; il saggio è ormai l’uomo che si rinchiude in se stesso alla ricerca di una improbabile felicità, scettico soprattutto nei confronti della validità dei valori di una città che ormai non sente piú costruita a sua misura. L’evasione dalla città, l’indifferenza per i suoi valori (perché la libertà ormai non si realizza piú al suo interno), il disprezzo delle norme di convivenza sociale, sono caratteristiche anche della scuola cirenaica, come si può vedere dalla dottrina di Aristippo:
Io, disse Aristippo, non mi colloco certo nella schiera di coloro che vogliono comandare; quanto a me, mi colloco tra coloro che vogliono trascorrere la vita nella maniera piú facile e piacevole possibile… La mia via non passa né per il comando né per la servitù, ma per la libertà, ed è quella che meglio porta alla felicità. Non mi rinchiudo in nessuna città, ma ovunque sono forestiero; (Senofonte, Memorabili II 1,8-13)
e da quella di un altro suo discepolo, TEODORO detto l’ateo:
Diceva anche che è ragionevole che l’uomo di valore non si sacrifichi per la patria poiché è sconsiderato gettare via la propria saggezza per l’utilità degli insensati. La patria è il mondo; è lecito rubare, commettere adulterio e compiere sacrilegi, ma al momento opportuno: nessuna di queste cose infatti è turpe per natura, una volta che sia stata rimossa la valutazione che è stata legata a quelle cose per tenere insieme gli stolti. Apertamente il saggio farà uso delle cose che brama, senza alcuna esitazione. (Diogene Laerzio II 98-99)
EPICURO
LA VITA
Nel 306 a.C. si vide sorgere in Atene , oltre all’ Accademia e al Liceo , un’altra scuola filosofica , il Giardino ( in GrecoKhpoV ) . Fondatore di essa fu Epicuro, nato a Samo da genitori ateniesi nel 341 a.C. Da giovane , nella vicina Teo , entrò a far parte della cerchia di Nausifane , che si richiamava all’insegnamento di Democrito e che in seguito Epicuro avrebbe criticato . A 18 anni si dovette recare ad Atene per compiere i due anni di servizio militare richiesti agli efebi . Successivamente fondò una piccola comunità filosofica a Militene , nell’isola di Lesbo , e poi a Lampsaco . Nel 307 – 306 , tornato ad Atene , acquistò una casa con un giardino e vi fissò la sua scuola , una comunità filosofica di amici , di cui facevano parte anche donne e schiavi , che conducevano una frugale esistenza in comune , lontani dalla vita pubblica . La principale attività era la lettura e lo studio degli scritti di Epicuro , il quale continuava a intrattenere rapporti epistolari con discepoli lontani . Alla sua morte , avvenuta nel 271 a.C. , la casa e il giardino passarono ad Ermarco , che divenne il caposcuola , secondo le stesse disposizioni testamentarie del maestro . La fedeltà e la venerazione per il capostipite fu un contrassegno tipico e costante della scuola epicurea e la figura di Epicuro finì per sfumare nella leggenda e nel mito , per essere addirittura caricata di valori divini : per i discepoli degli anni a venire Epicuro non fu più solo il maestro , ma una sorta di divinità . ” Ille deus fuit ” oppure ” genus humanum ingenio superavit , et omnis restinxit , stellas exortus ut aetherius sol ” ( grazie al suo ingegno superò il genere umano e tutti privò di luce , come al suo sorgere il sole nell’ etere spegne le stelle ) dice il latino Lucrezio ; i discepoli , inoltre , coservavano sovente ritratti di Epicuro e il ventesimo giorno di ogni mese la scuola celebrava la sua memoria e quella di uno dei discepoli a lui più vicini , Metrodoro ( divenuto famoso per la sua tipica asserzione : ” ricordati che sei nato mortale di natura e hai avuto un tempo limitato : ma con i tuoi ragionamenti sulla natura sei assurto all’ infinità e all’ eternità , e hai contemplato le cose che sono , che furono e che saranno ” ) . Epicuro compose numerosi scritti . Di molti di essi abbiamo soltanto titoli o scarsi frammenti : Sul canone , Sui generi di vita , Sul fine , Su ciò che si deve scegliere o fuggire . L’opera più importante sono i 37 libri Sulla natura , scritti in un lungo arco di tempo ; su di essa Epicuro tornò incessantemente , riprendendo problemi e approfondendo temi già ritrattati in precedenza . In quest’opera era sviluppato il suo insegnamento in tutti i suoi aspetti , non soltanto in relazione alle questioni della filosofia della natura , ma anche di gnoseologia e di etica . Di essa non rimangono che frammenti papiracei , rinvenuti nella villa di un ricco romano epicureo , situata ad Ercolano e colpita dall’eruzione del Vesuvio nel primo secolo d.C. In essa soggiornò nel primo secolo a.C l’epicureo Filodemo di Gadara , che vi costruì una ricca biblioteca , in gran parte di testi epicurei . Integralmente conservate nel decimo libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio sono invece le Lettere di Epicuro , indirizzate a tre diversi destinatari : a Erodoto ( sui principi della dottrina atomistica ) , a Pitocle ( sulla meteorologia ) , e a Meneceo ( sull’etica ) . Le lettere espongono in forma compendiata i capisaldi della sua dottrina . Epicuro attribuisce grande importanza all’esercizio della memoria : le lettere hanno appunto lo scopo di consentire ai principianti di fissarsi in mente gli elementi fondamentali della sua filosofia e ai più progrediti di richiamarli e usarli nelle varie circostanze della vita . Aspetto tipico dell’attività letteraria della scuola divennero , quindi , esposizioni riassuntive o raccolte di massime estratte dalle opere del maestro . Di questo tipo é una raccolta di 40 Massime capitali , conservateci da Diogene Laerzio , mentre un codice vaticano contiene le cosiddette Sentenze vaticane . Ai destinatari del suo insegnamento Epicuro non richiede una particolare preparazione culturale ; ogni età é adatta per diventare filosofi , anche la vecchiaia , contrariamente a quanto sembrava aver pensato Platone .
LA CONCEZIONE FILOSOFICA
Per Epicuro la filosofia ha in primo luogo una funzione terapeutica : “Vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana” , egli diceva . Una delle metafore da lui preferite per indicare l’obiettivo della vita filosofica é il galhnismoV , la quiete del mare dopo la tempesta , ma questa situazione di quiete é minacciata e impedita dalle credenze infondate che sovente si generano in noi e procurano ansie e timori : l’ uomo che vive con animo sereno é paragonato a coloro che , al sicuro sulla terraferma , osservano distaccati il mare in tempesta , l’ altrui pericolo . La filosofia deve dunque liberarci da queste credenze e condurci in un porto sicuro senza turbamenti . A tale scopo essa deve preliminarmente mostrare che cosa si può realmente conoscere e come lo si può conoscere . La filosofia si articola pertanto in tre parti : dottrina della conoscenza , fisica ed etica . La dottrina epicurea della conoscenza , o canonica , ravvisa il punto di partenza e il criterio , o canone , del conoscere nelle percezioni sensibili , le quali sono prodotte da qualcosa di esterno o interno a noi . Le sensazioni sono sempre vere , non ingannano mai sulla rappresentazione sensibile dell’oggetto , ma non tutte sono egualmente evidenti . Soltanto quelle evidenti sono testimonianze attendibili sulla realtà oggettiva ; le altre , invece , attendono conferma dalle prime . Il ripetersi di rappresentazioni sensibili evidenti e simili tra loro dà luogo ai concetti generali o prolessi , termine che significa letteralmente anticipazioni . Tali concetti ( per esempio il concetto di uomo o di cavallo ) consentono , infatti , di conoscere in anticipo , in base alle sensazioni già avute dai singoli oggetti , che cosa li contraddistingue . E così , vedendo un certo oggetto , in base a queste anticipazioni , sarà possibile riconoscerlo e dire : questo oggetto che ora percepisco , presentando un certo insieme di proprietà già conosciute mediante un determinato concetto o anticipazione , é un cavallo o un uomo e così via . L’esperienza si genera , infatti , dalla conservazione nella memoria di tali concetti . L’errore nasce , invece , quando le parole che usiamo significano concetti che non corrispondono all’oggetto , e ciò deriva da quello che l’opinione aggiunge alla sensazione . Ciò può dipendere dall’ambiguità delle parole o dalla confusione tra rappresentazioni evidenti e non evidenti . Le rappresentazioni evidenti sono il canone , o criterio , che consente di testimoniare a favore o contro i giudizi che mediante i concetti ci formiamo sugli oggetti . La conferma meno forte é data dall’assenza di una attestazione contraria : per esempio , la proposizione che gli uomini sono mortali riceve una conferma di questo genere dal fatto che la nostra esperienza non ci attesta alcuna eccezione rispetto ad essa . La percezione e i concetti sono collegabili tra di loro in modo da dar luogo a inferenze , che permettono di risalire da ciò che é chiaro a ciò che non lo é : questo punto é di estrema importanza per costruire i capisaldi della dottrina fisica .
LA FISICA E LA COSMOGONIA
La fisica epicurea é , infatti , caratterizzata dal risalire , mediante ragionamento , da ciò che é evidente ai sensi a principi che tali non sono , ossia gli atomi e il vuoto . Epicuro riprende per lo più questi concetti da Democrito e ritiene che un numero infinito di corpi indivisibili , che si muovono entro il vuoto infinito , é ciò che può spiegare il mondo fisico quale appare ai nostri sensi . Egli inferisce questa tesi a partire dall’esperienza , la quale ci attesta che nulla può nascere dal nulla e nulla può finire nel nulla , altrimenti il tutto si sarebbe dissolto col tempo : di qui si giunge alla conclusione che l’universo é sempre stato e sempre sarà quale é ora . D’altra parte , é evidente ai sensi che i corpi dotati esistono e sono dotati , sicchè possiamo inferirne l’esistenza del vuoto , che non é di per sé evidente e contro alla quale aveva già dimostrato Melisso . Infatti se il vuoto non esiste , non può esistere il movimento ; ma il movimento esiste , e tutti possiamo vederlo , dunque esiste anche per forza il vuoto . I corpi , a loro volta , sono suscettibili di disgregazione , ma poichè nulla scompare nel nulla , ciò significa che essi sono composti di entità che permangono indistruttibili : queste entità sono gli atomi . Gli atomi sono di forme innumerevoli , ma non sono dotati di qualità come colore , temperatura e così via . Per Democrito gli atomi , probabilmente , non avevano peso , nè esisteva una direzione privilegiata del loro movimento . Epicuro , invece , attribuisce peso agli atomi , forse in base alla tesi che un corpo privo di peso non é in grado di muoversi . Nell’universo infinito non ci sono un centro , un alto , un basso assoluti : ma per Epicuro si può parlare di un alto e basso relativi ed é appunto verso il basso che gli atomi si muovono grazie al loro peso . Ma se gli atomi si muovono verso il basso verso linee parallele , come é possibile la formazione di corpi ? In queste condizioni , infatti , gli atomi non potrebbero incontrarsi e dare luogo ad aggregazioni . I testi conservatrici di Epicuro non rispondono a questo interrogativo , ma , secondo Lucrezio , Epicuro avrebbe introdotto a questo proposito la dottrina del clinamen o declinazione . Attraverso di essa , egli attribuiva agli atomi anche una tendenza a deviare casualmente dal loro moto perpendicolare verso il basso . In tal modo , gli eventi , e in particolare le aggregazioni tra atomi che danno luogo alla formazione dei corpi composti , perdono ogni carattere di necessità . Riprendeva la dottrina democritea dell’atomismo e dell’infinità : però Democrito diceva che gli atomi si muovevano con moti corpuscolari , Epicuro invece si serve dei concetti di alto e basso , sebbene nell’infinito essi non esistano : gli atomi cadono dall’alto verso il basso ( immaginiamoci una specie di pioggia di atomi ) : ma se andasse così , a rigore , il mondo non potrebbe generarsi perchè gli atomi non potrebbero mai scontrarsi tra loro e cadrebbero verso il basso all’infinito : quindi Epicuro introduce questa teoria della deviazione o klinamen secondo la quale gli atomi avrebbero deviazioni tali da consentir loro di scontrarsi e di creare il mondo . E’ una sorta di correzione del meccanicismo , ossia del mondo visto come grande macchina dove il semplice sbattere d’ali di una farfalla ha il suo spessore . Il klinamen é imprevedibile e questo stona con il meccanicismo . La fisica epicurea , quindi , oltre a non essere farina del suo sacco ( non a caso Cicerone dice ” in physicis totus est alienus ” , ossia sottolinea come Epicuro sia totalmente dipendente da altri ” fisici ” , e soprattutto Democrito ) , é forse il suo ” punto debole ” , probabilmente quello meno riuscito .Va poi detto che Epicuro ha anticipato per alcuni aspetti la fisica moderna : l’idea del klinamen ( e della sua imprevedibilità ) é simile al principio di indeterminazione definito da un fisico moderno tedesco , Werner Heisenberg : ” E’ impossibile conoscere simultaneamente la posizione esatta e la esatta quantità di moto di una particella subatomica . Tanto più esattamente conosciamo la posizione , tanto meno sicuri siamo della quantità di moto , e viceversa ” : é una questione strutturale : l’ osservazione stessa che si effettua di una cosa la modifica già : è già legata a noi per il fatto che la si osservi ; la situazione delle particelle é indeterminata . La struttura dell’universo é spiegabile univocamente , secondo Epicuro , soltanto mediante la nozione di atomo e vuoto presenti nell’universo . Egli respinge la costruzione di modelli astronomici e matematici per spiegare i fenomeni celesti ; su questo punto egli conduce una polemica esplicita nei confronti dell’ Accademia platonica , ma di fatto si allontana anche dalla pratica degli astronomi del suo tempo . La cosmologia di Epicuro poggia su un assunto razionale , in quanto esclude qualsiasi intervento divino e qualsiasi antropoformismo nella concezione degli astri e dei corpi celesti . A differenza di Aristotele Epicuro non ammette alcuna materia privilegiata per i corpi celesti . Nella ” Natura ” , poi , conduce una serrata polemica contro la cosmologia platonica del ” Timeo ” . Egli rifiuta la composizione degli elementi e del cosmo sulla base dei 5 poliedri regolari , che Platone non é stato in grado di dimostrare indivisibili : se non sono indivisibili , dice Epicuro , perchè mai si dovrebbe ritenere che le altre figure siano formate da questi , se questi a loro volte sono formati da altri ? Per quanto riguarda la metereologia , ossia quei fenomeni e eventi lontani da noi , dei quali la causa non é evidente , Epicuro ritiene che siano possibili molteplici spiegazioni . Così per il sorgere e il tramontare degli astri , per le loro dimensioni , per il formarsi di tuoni , lampi , terremoti , venti e così via . Di questi fenomeni si possono fornire più spiegazioni che risultano tutte accettabili , purchè in accordo con i fenomeni e non smentibili da parte di altri fenomeni . Epicuro rifiuta la spiegazione di questi eventi in termini di teleologia ( o finalismo ) , alla maniera di Platone e di Aristotele : essi non avvengono in vista di un fine . Soprattutto egli esclude che gli dei agiscano come cause o agenti provvidenziali sul mondo degli uomini ; in tal modo egli si allontana sia dalle credenze della religione popolare , sia dalle teorie elaborate in proposito dai filosofi .
LA TEOLOGIA
Epicuro ammette l’esistenza degli dei . Un argomento a favore di essa é dato dal consenso di tutti gli uomini : ciò su cui tutti gli uomini sono concordi deve essere vero . Inoltre , tutti ritengono che gli dei siano immortali , felici e dotati di figura umana . Ma queste credenze non sono altro che prolessi , concetti derivati dall’esperienza : per esempio , durante il sonno si hanno visioni di dei , le quali , quindi , come ogni prolessi , derivano da oggetti reali . Un’ altra dimostrazione dell’esistenza divina é proprio data dai sogni , dove compaiono anche le divinità , che sono per Epicuro antropomorfi , uguali a come ci appaiono nei sogni . Per Epicuro la divinità non si interessa minimamente delle vicende umane ed egli lo dimostra con un ragionamento simile a quello aristotelico : la divinità é una realtà beata , e se si occupasse delle vicende umane come potrebbe esserlo ? Sarebbe un’autodiminuzione occuparsi di tali cose . Ma gli dei dove stanno ? Epicuro é un materialista e quindi deve pur collocarli da qualche parte : egli li colloca negli ” intermundia ” , ossia gli spazi che separono un mondo dall’altro . Tuttavia dire che gli dei non si curano delle vicende umane non vuol dire che siano irrilevanti : essi sono un modello da imitare per l’uomo ( come Epicuro era per i suoi seguaci ) ; gli dei vivono la migliore delle vite , piena di felicità e l’uomo imitandoli può condurre una vita uguale alla loro : da qui nasce la teoria secondo cui l’uomo é uguale agli dei , può assimilarsi ad essi ( viene ripreso il concetto dell’ ” omoiosiV qeo ” , il diventare come un Dio , di Platone ) . L’unica differenza tra uomo e dei é che loro hanno la vita eterna ( e di conseguenza la felicità eterna ) , l’uomo no . Ma che cosa mi importa se c’è la felicità quando io non ci sono più , diceva Epicuro ? ” Non é infatti per me cosa piccola o priva di importanza ciò che rende la mia disposizione d’ animo simile a quella degli dei e indica che non siamo inferiori alla natura incorruttibile e beata , nonostante la nostra condizione mortale . Perchè , da vivi , possiamo godere di una felicità pari a quella degli dei anche se si sia ricevuta una diminuzione ; ma se non si é in grado di sentire , in che modo si può ricevere una diminuzione ? ” ( Lettera alla madre ). Se per Aristotele la divinità muoveva il mondo , per Epicuro essa muove gli uomini , che devono tentare di imitarla ( esattamente come i pianeti per Aristotele imitavano l’ eternità e la perfezione di Dio ) . Tra l’altro questa concezione della divinità che non interviene nel mondo umano sortisce anche un altro effetto : dissipa il timore per la divinità , che non va temuta in quanto non interverrà mai nel nostro mondo . Per Epicuro la religione tradizionale degenera in superstizione e atteggiamenti ridicoli dati dalla paura che l’uomo prova nei confronti di dio : ” non é irreligioso chi rinnega gli dei del volgo , ma chi le opinioni del volgo applica agli dei ” dice Epicuro . Epicuro utilizza a proposito degli dei che appaiono nel sonno la dottrina , già in parte democritea , secondo la quale dagli oggetti emanano incessantemente flussi di atomi , detti eidwla ( letteralmente immagini ) , i quali conservano fedelmente la configurazione degli oggetti da cui provengono , se non subiscono modificazioni nel loro tragitto . Ma gli dei , secondo Epicuro , non sono composti come gli altri oggetti , altrimenti sarebbero anch’essi sottoposti ai processi di disgregazione . Gli dei , invece , sono immortali , immuni da dolori , e vivono beati in quelli che in latino saranno detti intermundia , gli spazi che separano tra loro gli infiniti mondi . La condizione di beatitudine , ossia l’assenza di ogni genere di turbamento , é usata da Epicuro per dimostrare che gli dei non si occupano del mondo e delle cose umane . Attribuire agli dei il governo del mondo equivarrebbe a privarli della beatitudine , che é propria della loro condizione divina . Altro argomento , forse di origine epicurea , contro la provvidenza divina é quello che fa leva sulla presenza del male nel mondo . Se gli dei intervengono nelle vicende del mondo , perchè non eliminano il male ? Le risposte possibili hanno la forma di una disgiunzione completa : o perchè non possono o perchè non vogliono o perchè nè possono nè vogliono . Ma se non possono , gli dei sono impotenti ; e se non vogliono sono invidiosi , ossia non sono divinità buone . Impotenza e invidia sono caratteristiche incompatibili con la nozione di divinità . D’altra parte se possono e vogliono , come mai il male continua a essere presente nel mondo ? L’unica soluzione che consente di non attribuire alla divinità caratteristiche negative consiste , allora , nel riconoscere che gli dei non si occupano del mondo e delle faccende umane , perchè in fondo sarebbe un’autodiminuzione da parte loro ( come direbbe Aristotele ) . Gli dei sono indifferenti all’uomo , nè minacciosi nè benigni , e la natura non é un ordine protettivo nel quale gli esseri umani sono inseriti . Con queste argomentazioni Epicuro ritiene di eliminare uno dei timori che attanagliano gli uomini e impediscono loro di raggiungere la serenità : il timore degli dei , di un loro intervento e della loro possibilità di assegnare premi o castighi . Ma gli uomini vivono anche in preda ad un altro timore , il timore della morte , con il conseguente desiderio di immortalità ; al filosofo , invece , interessa la qualità , non la quantità della vita . Epicuro cerca quindi di elaborare un’argomentazione che liberi gli uomini anche da questo timore . Le premesse di essa sono date dai principi della dottrina fisica . L’uomo é un composto di atomi e vuoto , in quanto anche l’anima é costituita da un tipo particolare di atomi di forma sferica . La morte equivale alla disgregazione di questo composto ; ma con essa viene meno ogni possibilità da parte dell’uomo di percepire questo evento , perchè la sensibilità é legata alla condizione di integrità di quel composto atomico che é l’uomo . Questo punto é compendiato da Epicuro nell’affermazione che la morte non va temuta , perchè quando ci siamo noi non c’é lei , e quando c’é lei non ci siamo noi . L’ uomo di fronte alla morte deve ragionare così : se la vita trascorsa é stata colma di gioia ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto ; se al contrario é stata segnata da dolori e tristezze , perchè desiderare che essa prosegua ? Solo gli stolti vogliono ad ogni costo continuare a vivere , anche se nulla di nuovo li può attendere perchè accadono sempre e solo le stesse cose ! La liberazione da questi due timori é per Epicuro condizione fondamentale per raggiungere il fine della vita umana , essa fa parte del quadruplice farmaco (tetrafarmakos ) predisposto dalla filosofia , il quale provvede a liberare anche da altri due timori , quello del dolore e dell’irraggiungibilità della felicità . In altre parole nella teoria del quadrifarmaco Epicuro dice che la filosofia 1) libera l’uomo dalla paura degli dèi , che non si curano delle vicende umane 2) libera l’uomo dalla paura della morte , che é semplicemente una disgregazione di atomi ; 3) dimostra la brevità e provvisorietà del dolore : il dolore se é intenso é breve , se é lungo non é intenso e se é intensissimo porta in fretta alla morte , la quale é assoluta insensibilità ; 4) dimostra la facile raggiungibilità della felicità, che consiste nel piacere ( quello catastematico ) . L’apprestamento dei piaceri é compito della terza parte della filosofia , l’etica . Già Eudosso aveva sottolineato che tutti gli esseri aspirano al piacere . Anche Epicuro ripone nel piacere ( in greco edonh ) il fine della propria vita umana , ma , diversamente da quanto aveva pensato Platone nel ” Gorgia ” , piacere e dolore non sono contrari , bensì contradditori , nel senso che se c’é l’uno non c’é l’altro e viceversa . Come le sensazioni e i concetti sono i criteri di verità , così le sensazioni di piacere e di dolore sono i criteri della scelta . Il piacere é dunque definito in primo luogo come assenza di dolore ( alupia ) e caratterizza la condizione di chi gode di una buona condizione di salute fisica e psichica . Il dolore , invece , sia fisico sia psichico , é turbamento di questa condizione naturale . Turbamenti di questo genere sono per esempio i timori degli dei e della morte , prodotti da false credenze .
IL PIACERE
Partendo dalla constatazione che ogni piacere è di per sé un bene , ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi , Epicuro distingue tra piacere cinetico o in movimento , il quale accompagna un processo ed é sempre mescolato al turbamento o al dolore , e piacere catastematico o stabile ( in greco edonh katasthmatikoV ) , proprio invece da uno stato privo di dolori . Contrariamente ai cirenaici , che indicavano nel piacere del momento l’obiettivo da perseguire , Epicuro ripone il fine nel piacere catastematico . Esso coincide con la completa soddisfazione del desiderio , che di per sè é una condizione dolorosa legata a uno stato di mancanza . I desideri , a loro volta , si distinguono in desideri naturali e necessari , per esempio il cibo , e desideri non necessari . Soltanto i primi possono e devono essere integralmente soddisfatti , secondo Epicuro , mentre gli altri non possono mai essere soddisfatti completamente e quindi si accompagnano sempre al dolore . Il piacere stabile per Epicuro é l’assenza di dolore , mentre i piaceri in movimento sono quelli accompagnati dal dolore ( come già diceva Platone nel ” Gorgia ” ). Epicuro ha distinto: 1) piaceri naturali e necessari, 2) piaceri naturali ma non necessari, 3) piaceri non naturali e non necessari.
1. Fra i piceri del primo gruppo egli pone i piaceri che sono strettamente legati alla conservazione della vita dell’individuo, essi sono gli unici che veramente giovano sottraendo il dolore del corpo (mangiare quando si famen, bere quando si ha sete….) Questi piaceri vanno sempre e comunque soddisfatti perchè hanno un preciso limite dalla natura che permette l’eliminazione del dolore
2. Nel secondo gruppo abbiamo tutti quei desideri e piaceri che sono variazioni superflue dei piaceri del primo gruppo: mangiare troppo, bere bevande raffinate. Questi piaceri non hanno più quel limite perché non sottraggono il dolore corporeo, ma variano solo il piacere e possono provocare un notevole danno.
3. Abbiamo i piaceri vani nati cioè dalle vani opinioni degli uomini, sono tutti desideri legati al desiderio di ricchezza, potenza e onore.
Questi piaceri non tolgono dolore al corpo ma provocano sempre turbamento all’anima. Va fatto notare inoltre il carattere sensiobile del piacere, sono tutti piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Tutto ciò poiché secondo Epicuro la sensazione è il canone fondamentale della vita dell’uomo. Occorre precisare che se per edonismo si intende una dottrina che indica nel piacere il fine della vita umana , Epicuro é un edonista , ma se per edonismo s’intende una dottrina che indica questo fine nel perseguimento di qualsiasi piacere , Epicuro non é un edonista . Egli , anzi , ben lungi dal farsi sostenitore di una vita dissoluta , contrappone la frugalità , legata al soddisfacimento dei bisogni naturali e necessari , al lusso e alla crescita illimitata e artificiale dei desideri ; il piacere , infatti , non si può accrescere a suo avviso oltre un certo limite . Inoltre , proprio perchè il piacere coincide con l’assenza di dolori , per perseguirlo occorre effettuare una sorta di calcolo dei piaceri , ponendo sulla bilancia anche i piaceri o i dolori futuri che possono conseguire dalla scelta presente di un piacere o di un dolore ; la scelta migliore sarà quella che darà luogo al piacere maggiore : dice infatti Epicuro: ” Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si realizza il mio desiderio, e che cosa, se non si realizza ? ” . Il filosofo non avrà dunque timore dei dolori , perchè se sono forti , durano poco , mentre se durano a lungo , col tempo non sono più sentiti . Lo stesso Epicuro conservò un atteggiamento di tranquilla serenità di fronte alle malattie che lo tormentarono fino alla morte ( un tumore alla prostata ) . La felicità consisterà in una vita colma di piaceri , nel significato che si é chiarito . In tal modo , il filosofo raggiungerà quella ataraxia , assenza di turbamenti , che lo farà vivere come un dio tra gli uomini . Anche per Epicuro , come già per Aristotele , il modello ultimo della vita filosofica é la vita divina , ma questa non consiste più , come per Aristotele , nell’attività teoretica di studio disinteressato dell’universo e della natura , bensì nell’esercizio privo di turbamenti della saggezza nella condotta della propria vita . L’uomo é libero nel perseguimento del piacere e della felicità . Il clinamen , eliminando la necessità assoluta e introducendo un elemento di casualità nell’universo e quindi anche nel moto degli atomi che costituiscono l’anima umana , é la condizione di possibilità dell’azione libera dell’uomo ( il libero arbitrio ) . Epicuro non voleva cadere in contraddizione e cadere in contraddizione significava cadere nel determinismo : la sua é una filosofia con scopi morali e un insegnamento morale sarebbe privo di senso se si fosse convinti che tutto avviene in maniera necessaria , compreso il comportamento : che senso avrebbe , infatti , dire ad uno di comportarsi in un modo , se non vi é libertà di scelta ? E’ per questo che Epicuro e la sua filosofia ruotano attorno ad un indeterminismo naturale , che già abbiamo incontrato nel klinamen : vi é un margine di indeterminazione che garantisce la libertà : l’uomo può scegliere come agire e dunque l’insegnamento morale ha un suo senso : é sensato dare consigli all’uomo su come comportarsi , visto che egli può scegliere . E del resto, nella ‘Lettera a Meneceo’, Epicuro dichiara che ‘ piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità ‘ . Abbiamo già detto che Epicuro é vicino alla fisica moderna per l’indeterminismo ; ora aggiungiamo che egli lo é anche a riguardo delle spiegazioni multiple che egli fornisce : infatti oltre che all’etica , Epicuro si occupa anche di fisica : infatti può essere utile conoscere come é fatta la realtà per saper vivere in modo più sereno ( vedi la religione ) . Spiegare in termini fisici certi eventi dà serenità : i fulmini , i tuoni , i terremoti … Questo non toglie la gravità dell’evento , ma tuttavia dissipa le paure irrazionali . Non sono eventi divini , ma fisici : spiegazioni ad essi ce ne sono svariate ed é impossibile sapere quella esatta : più di una può essere valida . L’accettazione di più spiegazioni ha valenza etica : l’importante é sapere che é spiegabile in termini fisici : la fisica moderna é un pò dello stesso parere di Epicuro : il fenomeno della luce , per esempio , ha dato vita a parecchie dispute nel corso della storia : vi fu chi disse che essa era di origine corpuscolare , chi invece sostenne che fosse ondulatoria ; poi si é scoperto che alcuni fenomeni luminari sono corpuscolari , altri ondulatori : la luce può quindi essere sia l’una sia l’altra cosa . Così é anche per Epicuro .
LA SOCIETA’
Per Epicuro , però , la piena realizzazione dei fini umani non é raggiunta attraverso la partecipazione attiva alla vita politica e associata : su questo punto egli si allontana decisamente dal Platone della ” Repubblica ” e in parte anche da Aristotele . La società e le tecniche si sono costituite e sviluppate sotto la spinta della ricerca dell’utile , ossia per raggiungere il piacere ed evitare il dolore , ma , secondo Epicuro , il vero luogo in cui il piacere e la felicità possono essere perseguiti e raggiunti é la piccola comunità di amici raccolti intorno ad un maestro , cioè la scuola filosofica , non la città . La città per Epicuro é propriamente soltanto condizione negativa rispetto a questo scopo . Egli definisce , inoltre , la giustizia come un patto o contratto ( nomoV ) stipulato allo scopo di non recare o subire danni . Essa quindi non é una virtù cooperativa , come aveva voluto Platone , ma una convenzione , dettata non da obblighi morali nè dalla natura , bensì dall’utile individuale . Lo scopo é quello della protezione e della difesa : acconsentire di non danneggiare altri a patto che essi non danneggino me . La città come istituzione dovrebbe garantire rispetto di questo patto , ma la vita politica appare a Epicuro come un terreno di conflitti e competizioni , dunque , soltanto quando é l’unica via per garantire la propria sicurezza , essa deve essere praticata , mentre in ogni altra circostanza , l’uomo saggio si asterrà da essa . A questo proposito va senz’altro citato il motto di Epicuro ” vivi di nascosto ” ( in Greco laqe biwsaV ) al quale possiamo affiancare quello di Ovidio : ” Bene qui latuit , bene vixit ” . Ciò non significa vivere una vita solitaria o rompere i legami con la città alla maniera dei cinici . Si tratta , invece , di non ricercare nella città la felicità e l’autosufficienza che soltanto i legami di amicizia possono assicurare . Epicuro ravvisa , infatti nell’ amicizia un grande bene , ossia una causa di massimo piacere e felicità . E l’amicizia é realizzata pienamente soltanto nella piccola cerchia della scuola filosofica , al riparo dalle tempeste della vita. Epicuro stesso sentiva fortemente questo sentimento tanto che fece di tutto ( e ci riuscì ) per far liberare un amico fatto prigioniero a Corinto , come testimoniano i papiri di Ercolano . Il giardino era un luogo privato dove l’amicizia era centrale : tra l’altro l’amicizia é l’unico sentimento coerente alle dottrine epicuree : la politica va evitata , le passioni anche ( in quanto piacere dinamico ) . Se le passioni vanno eliminate , la dimensione sessuale per Epicuro é invece connaturale all’uomo e non va eliminata : Epicuro proponeva un uso terapeutico della vita sessuale , che non va ripudiata perchè permette la perpetrazione della specie ; senz’altro la ricerca efferata del piacere va eliminata . Epicuro a differenza di Platone , dice che l’amore fisico é connaturale all’uomo , mentre l’erwV va abolito : é passionale e non fa che creare nell’uomo un male interiore . L’amicizia rimane il migliore dei sentimenti perchè é distante dalla politica e dall’amore : vi é per Epicuro nell’ amicizia una serenità più profonda , superiore a quella dell’amore , perché più facilmente si può conservare libera da sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il dolore del distacco o la paura di non essere riamati. L’atteggiamento di Epicuro verso gli altri uomini è riassumibile nella sua massima: “E’ non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo”. In questa massima, il piacere assurge a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti gli uomini. Con i suoi insegnamenti, spiegando che ‘ non gioverebbe a niente il procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini finchè si continuasse a nutrire timore riguardo a ciò che sta sopra di noi, o sottoterra, o in generale nell’infinito ‘, Epicuro riuscì a prestar soccorso (in greco epikouroV vuol proprio dire ‘soccorritore’) agli uomini, incapaci di condurre la loro vita serenamente. Se l’epicureismo si spense fu soprattutto per via del cristianesimo, che aveva una concezione della vita diametralmente opposta. Certo, già a Roma la dottrina epicurea era stata vista come pericolosa per i tradizionali valori ( i mores maiorum ), ma fu il cristianesimo a darle il colpo di grazia, forse anche per il fatto che i pagani si appellarono più allo stoicismo e al platonismo che non all’epicureismo. E così, per tutto il Medioevo, la nobilissima teoria di Epicuro, fu vista come eresia e non a caso Dante pone tutti gli Epicurei nell’Inferno, poichè per essi l’anima muore insieme al corpo.
QUALCHE GIUDIZIO
Lucrezio , il famoso poeta latino contemporaneo di Catullo e Cicerone , scrisse un intero poema ( De rerum natura ) dedicato alla filosofia epicurea , colmo di elogi volti al maestro Epicuro : grazie al suo ingegno superò il genere umano e tutti privò di luce , come al suo sorgere il sole nell’ etere spegne le stelle
Nel Rinascimento l’ italiano Lorenzo Valla si avvicinò alle tesi epicuree , condannate per tutto il medioevo dalla Chiesa : perchè mai perseguire il piacere dovrebbe essere peccaminoso , egli si chiede nel De voluptate , quando la Chiesa stessa , predicando la resurrezione dei corpi , sostiene che i giusti , come premio finale , godranno ?
Nel 1600 , il secolo della ragione e della matematica , aderì all’ epicureismo perfino un sacerdote , il francese Pierre Gassend , che nel Syntagma philosophicum riprende la teoria atomica epicurea , sostenendo , da buon religioso , che gli atomi non sono eterni , bensì vengono creati da Dio , il quale può anche disfarli , e propugnando l’ immortalità dell’ anima .
Giacomo Leopardi , esempio di radicale ateismo , riprendendo i versi di Lucrezio , scrisse a riguardo di Epicuro : Nobil natura é quella / che a sollevar s’ ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato , e che con franca lingua / nulla al ver detraendo , / confessa il mal che ci fu dato in sorte , / e il basso stato e frale
Karl Marx, il futuro teorico del comunismo, conseguì la laurea con una tesi intitolata Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro . Marx fu attratto dall’epicureismo soprattutto per via del suo spiccato materialismo e della sua forte razionalità. Non a caso, nella tesi Marx definisce Epicuro come ‘ il più grande illuminista greco ‘, interpretando la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele. E’ possibile un nuovo avvio filosofico dopo il compimento della filosofia nelle grandi sintesi sistematiche? Secondo Marx proprio in questi momenti diventa possibile la ripresa di contatto della filosofia con la realtà, la sua realizzazione nel mondo esterno.
Federico Nietzsche , il folgorante profeta del superuomo , scrisse in uno dei suoi capolavori filosofici ( Umano , troppo umano ) : Un giardino , fichi , piccoli formaggi e insieme tre o quattro buoni amici : fu questa la sontuosità di Epicuro ; Epicuro ha vissuto in tutti i tempi , e vive ancora , sconosciuto a quelli che si dissero e si dicono epicurei , e senza fama presso i filosofi . Del resto egli stesso dimenticò il suo nome : fu il bagaglio più pesante che avesse mai gettato via . Nietzsche scrisse anche, in La gaia scienza (af. 45): ‘ Sì, sono fiero di sentire il carattere di Epicuro in modo diverso, forse, da chiunque altro, e soprattutto di gustare in tutto ciò che di lui leggo e ascolto la gioia pomeridiana dell’antichità – vedo il suo occhio che guarda un vasto,albicante mare, oltre gli scogli delle coste su cui si posa il sole, mentre grandi e piccole fiere giuocano nella sua luce, sicure e placide come questa luce e quell’occhio stesso. Una tale gioia l’ha potuta inventare solo un uomo che ha perpetuamente sofferto, la gioia di un occhio davanti al quale il mare dell’esistenza si è quietato e che non si sazia più di guardare la sua superficie, e questo screziato, tenero, abbrividente velo di mare: non era mai esistita prima di allora una tale compostezza della voluttà. ‘ Sempre in La gaia scienza troviamo scritto: ‘ L’epicureo si sceglie la situazione, le persone e perfino gli avvenimenti che si armonizzano con la sua costituzione intellettuale estremamente eccitabile, egli rinuncia al resto, vale a dire al più, perchè sarebbe per lui un cibo troppo forte e pesante. ‘ In Il viandante e la sua ombra (af. 8), poi, Nietzsche scrisse: ‘ Epicuro, l’acquietatore d’anime della tarda antichità, comprese meravigliosamente, come ancor oggi così raramente si comprende, che per tranquillizzare l’animo non é affatto necessario risolvere le ultime ed estreme questioni teoriche. Sicchè a coloro che erano tormentati dalla ‘paura degli dèi’, gli bastava dire:” se ci sono gli dèi, essi non si preoccupano di noi “,- invece di disputare sterilmente e da lontano sulla questione suprema, se ci siano in genere dèi. Questa posizione é molto più favorevole e forte: si danno all’altro alcuni passi di vantaggio, rendendolo così più pronto ad ascoltare e a ponderare. Ma non appena quegli si accinge a dimostrare il contrario,- che gli dèi si preoccupano di noi,- in quali errori e intrichi spinosi non dovrà cadere il misero, affatto da sè, senza astuzia da parte dell’interlocutore? Costui deve solo avere abbastanza umanità e finezza da nascondere la sua compassione per questo spettacolo. Da ultimo l’altro giunge alla nausea, l’argomento più forte contro quella proposizione, alla nausea per la sua stessa affermazione; si raffredda e va via con lo stesso stato d’animo che é anche dell’ateo puro: “cosa importa poi a me degli dèi? Che il diavolo se li porti!”.- In altri casi, specie quando un’ipotesi a metà fisica e a metà morale aveva offuscato l’animo, egli non confutava questa ipotesi, bensì ammetteva che poteva essere così, ma che per spiegare lo stesso fenomeno c’era ancora una seconda ipotesi; e che forse la cosa poteva stare ancora diversamente. Anche nel nostro tempo la pluralità delle ipotesi, per esempio sull’origine dei rimorsi della coscienza, basta per togliere dall’anima quell’ombra che così facilmente nasce dal ruminare un’ipotesi unica, la sola visibile, e pertanto cento volte sopravvalutata. – Chi dunque desidera largire conforto, a infelici, malfattori, ipocondriaci, morenti, si ricordi delle due espressioni tranquillizanti di Epicuro, che si possono applicare a moltissime questioni. Nella forma più semplice esse suonerebbero all’incirca: primo: posto che la cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo: può essere così, ma può anche essere diversamente. ‘ E, infine, in La volontà di potenza , af. 438, (opera postuma) il filosofo scrisse: ‘ La lotta contro la ‘fede antica’ intrapresa da Epicuro fu, in senso stretto, una lotta contro il cristianesimo preesistente- lotta contro il vecchio mondo intristito, moralizzato, inacidito da sentimenti di colpa, diventato decrepito e infermo. ‘
ERMARCO
Alla morte di Epicuro (270 a.C) suo successore nella direzione della Scuola – e quindi secondo scolarca del Giardino – fu Ermarco di Mitilene. Fu egli pure un cospicuo polemista. F. Longo Auricchio, che ha curato la prima edizione dei frammenti, così tratteggia la figura spirituale di questo personaggio:
«L’eccellenza di Ermarco non è generalmente ammessa. Mentre unanime è il riconoscimento delle elevatissime doti spirituali e umane di Metrodoro, si è diffusa la persuasione che Ermarco, nella formazione filosofica, non abbia raggiunto né il livello di Epicuro né quello di Metrodoro, sia insomma quasi una figura di secondo piano. Non c’è dubbio che alla base di tale convinzione è una testimonianza di Seneca, di cui, a mio avviso, è stata esagerata la portata. Secondo Seneca, Epicuro ha operato, per così dire, una classificazione dei caratteri dei discepoli che tendono alla verità. Metrodoro e Ermarco devono essere entrambi guidati nel cammino verso la sapienza, ma Ermarco ha bisogno di un sostegno maggiore. Tuttavia ambedue raggiungo-no il fine, e Epicuro, che si rallegra con Metrodoro, ammette che la sua ammirazione va in misura maggiore a Ermarco, perché maggiore è stato il suo impegno nella pratica della filosofia. A me sembra che tale sia il senso della testimonianza di Seneca e ne emerga un giudizio tutt’altro che deteriore di Ermarco».
Leggiamo la sua descrizione degli Dei, che riprende le idee di Epicuro in modo puntuale:
“Secondo Ermarco bisogna pensare agli dèi come esseri che ispirano e espirano. Senza questa caratteristica certo non potremmo più pensare questi esseri viventi tali quali li abbiamo conosciuti attraverso le nostre anticipazioni, come neppure (potremo pensare) pesci che non abbiano bisogno di acqua né uccelli che non abbiano bisogno di ali per muoversi attraverso l’aria […]. E bisogna dire che essi fanno uso sia della voce sia della conversazione fra loro. Infatti non li penseremo felici e indistruttibili in grado maggiore – egli afferma – se non avessero voce o non discorressero fra loro, ma fossero simili agli uomini muti: In verità, poiché noi, che non siamo mutilati in alcuna parte, ci serviamo della voce, dire che gli dèi o sono mutilati o non somigliano a noi sotto questo aspetto è anche estremamente sciocco, dal momento che né noi né loro diversamente in alcun modo coniamo espressioni, e, d’altra parte, perché conversare con i propri simili è per i buoni fonte di piacere indicibile E, per Zeus, si deve ritenere che la loro lingua sia il greco o una lingua non lontana dal greco… tutti i sapienti… si dice che usino parole non molto diverse nelle articolazioni. E sappiamo che sono sapienti solo coloro che si servono della lingua greca”.
GLI SCETTICI
“Dicendum est, sed ita ut nihil affirmem, quaeram omnia, dubitans plerumque et mihi diffidens“. (M. T. Cicero, De divinatione II, 3) |
La storia dell’Accademia conobbe nel terzo secolo a.C. una svolta importante . Essa fu dovuta ad Arcesilao; nato a Pitane, dove studiò con il matematico Autolico, egli si recò successivamente ad Atene, dove seguì l’insegnamento di Teofrasto, che poi abbandonò per entrare nell’ Accademia, di cui fu scolarca dal 256 a.C. sino alla sua morte, avvenuta fra il 244 e il 240 a.C. Seguendo l’esempio di Socrate, egli non scrisse nulla, ma i contenuti della sua attività filosofica ci sono in parte noti attraverso ricostruzioni posteriori. Sulla falsariga del Socrate ritratto da Platone nei dialoghi aporetici, Arcesilao ritiene preferibile riconoscere l’ignoranza che pretendere di sapere. Utilizzando la tecnica dialettica dell’argomentare pro e contro una determinata tesi, egli giunge a riconoscere l’impossibilità da parte dei sensi e dell’intelletto di pervenire a una conoscenza certa. Non é chiaro se egli abbia trasformato questo riconoscimento nell’affermazione che nulla é conoscibile o se si sia limitato a sostenere la necessità di sospendere l’assenso, operazione denominata in greco epoch. In ogni caso, egli esprime un orientamento scettico dell’ Accademia, che tuttavia non annulla la necessità della ricerca (in greco appunto skeyiV, da cui "scetticismo"). L’obiettivo polemico di Arcesilao é, soprattutto, la filosofia stoica, che appare come la filosofia dogmatica per eccellenza, ossia quella che enuncia e sostiene con forza una serie di dottrine (dogmata). Arcesilao accetta il lato negativo della definizione del sapiente, data dallo stoico Zenone: sapiente é chi non sbaglia nè corre il rischio di sbagliare, ma a suo avviso solo l’atteggiamento scettico può salvaguardare questo aspetto del sapiente. Infatti, non c’é alcuna rappresentazione che non possa essere falsa, quindi se il sapiente dà il suo assenso a una rappresentazione, opinerà; ma é proprio del sapiente non opinare; dunque il sapiente sospenderà il suo assenso (epoch). Paradossalmente, con questa argomentazione Arcesilao giunge a sostenere che la sospensione dell’assenso del filosofo scettico é la vera realizzazione del modello del sapiente, che non é mai in errore. Ma su quali basi poggerà allora la condotta dello scettico? Arcesilao avrebbe indicato il criterio della condotta in ciò che, una volta compiuto, é eùgolon (eulogon: eu, bene + logoV, ragione), "ragionevole", ossia può essere difeso ragionevolmente. La critica scettica di Arcesilao fu controbattuta, all’interno della scuola stoica, soprattutto da Crisippo di Soli. Uno dei massimi esponenti dello scetticismo fu senz’ altro Pirrone di Elide (365-275 a.C. circa), che fu anche il fondatore del movimento: egli prese parte alla spedizione di Alessandro Magno in Oriente, giungendo in India dove potè conoscere il modo di vita dei cosiddetti "gimnosofisti" (cioè "sapienti nudi"): non è da escludere che questo modello possa aver inciso sul suo modo di concepire la vita filosofica. Pirrone sostenne che, così come i sensi ci ingannano quando il remo immerso in acqua ci appare spezzato, chi può dire che essi non ci ingannino sempre? E’ proprio questo rifiuto di accettazione di tutto ciò che ci viene offerto dai sensi che contribuì a dare il nome di scetticismo alla scuola di pensiero. Non a caso si racconta che Pirrone si facesse investire dai carri e mordere dai cani di sua spontanea volontà, ragionando in questo modo : “chi mi dice che sia un male? I sensi, ma essi così come mi ingannano con il remo immerso in acqua possono ingannarmi sempre”; si racconta, tra l’ altro, che gli amici chiedessero a Pirrone, dal momento che si faceva mettere sotto dai carri, mordere dai cani e quant’ altro: “perchè non ti uccidi?” e che lui rispose: “perchè non so se é un bene o no”. Per Pirrone, siccome non possiamo sapere nulla (neppure ciò che ci accade), non possiamo neanche conoscere le conseguenze di ciò che ci accade: chi mi dice, allora, che farmi mordere da un cane sia un male? Pirrone non scrisse nulla, ma il suo discepolo Timone di Fliunte (nato intorno al 325 a.C.) scrisse varie opere in versi e in prosa, nelle quali alla folla rissosa degli altri filosofi contrappone Pirrone come modello di sapiente imperturbabile. Alla base di tale imperturbabilità sta la convinzione che le cose per natura sono senza differenze, senza stabilità, indiscriminate. Ne segue che le sensazioni e le opinioni non sono né vere né false, cosicché non bisogna prestare loro credito. Occorre piuttosto non avere opinioni né inclinazioni. Chi raggiunge questa condizione si troverà in uno stato di afasia, ovvero – letteralmente – di silenzio. Ciò vuol dire che il filosofo non farà né affermazioni né negazioni sulle cose del mondo e, per tale via, egli potrà pervenire all’atarassia, l’imperturbabilità di fronte alle cose e agli accadimenti. Come Socrate, Pirrone scelse di non scrivere nulla, poiché convinto di non avere nulla da affidare allo scritto e che altri potessero apprendere: ed è per questo che egli non fondò alcuna scuola e gettò le basi dello scetticismo; dal punto di vista di Pirrone e degli Scettici, tutte le filosofie costituiscono un blocco unico, poiché pretendono di avere qualcosa da insegnare; si tratta, per di più, di un blocco dogmatico, dottrinario, che genera un labirinto di opinioni contrastanti e autoelidentisi. In contrapposizione a tutto questo, gli Scettici non hanno dogmi e non hanno persone a cui trasmettere le proprie verità, proprio perché non ne possiedono una. Dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo ipotizzare che anche la filosofia scettica abbia attraversato delle sue fasi: l’immediato successore di Pirrone, Timone, ha composto in versi delle critiche indirizzate agli altri filosofi; la tradizione, poi, testimonia che anche due platonici come Carneade e Arcesilao avrebbero aderito allo Scetticismo. Dopo di che, si perdono le tracce della filosofia scettica, fino al II secolo d.C., quando ad abbracciare la causa scettica fu Sesto Empirico, il quale si scatenò in un’accesa critica Contro i dogmatici e tratteggiò la figura del “filosofo pirroniano” (negli Schizzi pirroniani), facendo in tal modo di Pirrone un modello da seguire (un po’ come farà Lucrezio con Epicuro). Stando a quanto dice Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, Pirrone avrebbe desunto dallo Stoicismo i princìpi della akatalhyia (letteralmente “incomprensibilità”) e dell’ epoch (“sospensione di giudizio”), mentre, attenendoci alla testimonianza di Sesto, Pirrone avrebbe cominciato da solo, senza influenze, la propria attività filosofica. L’opposizione allo Stoicismo appare tuttavia evidente: se gli Stoici parlano di “rappresentazione comprensiva”, Pirrone nega invece la rappresentabilità (e quindi la comprensibilità) delle cose: la sua è una non-gnoseologia. Gli Scettici vengono così definiti dal termine greco skeyiV , che vuol dire “ricerca”, “indagine” sulla natura delle cose per stabilire cosa esse siano: nella sua ricerca, però, lo scettico scopre che le cose sono incomprensibili per due ordini di ragioni. In primo luogo per il fatto che tutte le cose appaiono diversamente a chi le osserva in condizioni diverse, in secondo luogo per il fatto che sulle stesse cose si può riscontrare che gli uomini hanno pareri contrastanti, spesso addirittura opposti (c’è, ad esempio, chi dice che tutto è costituito da atomi, chi da elementi, e così via). Lo scettico, tuttavia, non si limita a dire che le cose sono inconoscibili (poiché questo sarebbe un dogmatismo), ma ritiene che si debba sospendere il giudizio (epoch): egli, cioè, non afferma né nega che le cose siano comprensibili e scopre che dalla sospensione del giudizio scaturisce una felicità irresistibile, sconosciuta a chi si ferma al dogmatismo. Secondo Timone, in particolare, occorre chiedersi tre cose per essere felici: a) quale è la natura delle cose? b) come ci si deve disporre nei confronti di esse? c) cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione? Come Timone stesso asserisce, le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili, indiscriminabili e perciò le nostre sensazioni e opinioni possono essere vere e false, poiché non disponiamo di criteri per distinguere le differenze tra le cose. Di fronte a quest’assoluta mancanza di certezze e verità, Carneade e Arcesilao (rivelando in ciò la loro ascendenza platonica) ovviavano, rispettivamente, con la nozione di piqanon (“probabile”) e con quella di eulogon (“ragionevole”): ma per Pirrone, invece, “si deve vivere senza opinioni, senza inclinazioni, senza agitazioni“, poiché il seguire le opinioni ci turba; occorre, piuttosto, dire che ” ogni cosa è non più di quanto non è “. Ne derivano l’ afasia (“il non pronunciarsi”) e l’ ataraxia (“assenza di turbamenti”). Ma, in questa prospettiva, come conduce lo scettico la propria esistenza? Come dice Sesto Empirico, lo scettico è uomo tra gli uomini, sospende il giudizio ma dà assenso alle rappresentazioni naturali (la fame, la sete, ecc), non ha maestri ma impara come tutti gli altri uomini a leggere e a scrivere perché ciò è utile nella vita quotidiana; in altri termini, lo scettico si adatta alle condizioni comuni, vive seguendo i fenomeni, senza dar valori: non dice, ad esempio, che il miele è dolce, ma che sembra tale. Da notare che lo scetticismo, man mano che passano gli anni, tende sempre più a perdere la dimensione metafisica per accentuare quella etica: se Platone aveva ipotizzato due mondi – uno immutabile e perenne degli enti intelligibili, l’altro mutevole e molteplice degli enti empirici -, gli Accademici successivi (Carneade e Arcesilao) abbandonano il "mondo delle idee" e si concentrano su quello empirico, nel quale (come aveva detto Platone) non ci può essere conoscenza certa; messo da parte il mondo delle Idee (l’unico di cui si potesse per Platone avere conoscenza certa), resta solamente quello empirico, del quale tuttavia non sono date certezze: sicchè l’atteggiamento migliore è quello di chi, anziché affaticarsi nel tentativo di capire il mondo, sospende il giudizio su di esso. Dalla sospensione del giudizio scaturisce l’atharassia (ataraxia, letteralmente “assenza di timore”) che gli scettici prospettano come scopo della loro filosofia: con la piena conoscenza dell’ irraggiungibilità della conoscenza, l’ uomo trova la felicità ( é il “sapere di non sapere” socratico” o quella che Cusano chiamerà “dotta ignoranza”): il sapere di non sapere sarà il presupposto per un’ indagine continua (skeyiV) della realtà. In una seconda fase dello Scetticismo – precisamente quando in esso confluiscono gli esponenti dell’Accademia platonica – si fa sempre più sentire la necessità di precisare le forme e i contenuti dell’atteggiamento scettico, al che provvide soprattutto Carneade. Nato a Cirene, frequentò l’Accademia, della quale divenne scolarca nel 167/166 a.C. Nel 155 a.C. fece parte della celebre ambasceria inviata a Roma dagli Ateniesi multati per aver saccheggiato Oropo; qui riscosse successo argomentando, in due giorni successivi, a favore e contro l’esistenza di una legge naturale universalmente valida. La sua morte avvenne nel 129/28 a.C. Anche Carneade non scrisse nulla, ma il suo discepolo, Clitomaco, originario di Cartagine, ne espose le argomentazioni nei suoi scritti, che sono però andati perduti. L’obiettivo polemico di Carneade é soprattutto la filosofia stoica, in particolare Crisippo. Egli muove una critica serrata alla teologia stoica, alla sua concezione della provvidenza e della divinazione. Secondo Carneade, tra i filosofi dogmatici c’é disaccordo ( in greco diafonia) sull’esistenza della provvidenza, come su qualsiasi altra dottrina: gli epicurei, per esempio, negano la provvidenza; questo disaccordo é irresolubile e ciò conferma che non esistono prove nè a favore nè contro di essa. Così il fatto che una predizione si dimostri vera non é argomento a favore del determinismo: un evento futuro non é l’effetto prodotto dalle proposizioni vere che lo riguardano. Per esempio, la proposizione “Socrate sarà condannato”, enunciata prima della condanna, é vera, ma ciò non significa che essa sia la causa del prodursi della condanna: la necessità che riguarda queste proposizioni é una necessità logica, non casuale o fisica. In generale, a riguardo del criterio di verità, Carneade afferma che nessuna rappresentazione sensibile può garantire di essere in accordo con i fatti. Che essa sia vera é possibile, ma non é possibile accertare che essa sia tale, come provano le rappresentazioni che abbiamo in stato di sogno o di allucinazione o l’impossibilità di distinguere tra due uova o due gemelli identici. Alcune rappresentazioni, tuttavia, possono essere apparentemente vere e persuasive: in ciò consiste il criterio del pithanòn (piqanon, dal verbo greco peiqw, "persuado"), tradotto abitualmente con “probabile”, ma che significa propriamente “persuasivo”. Il carattere di persuasività della rappresentazione riguarda la relazione della rappresentazione non con l’oggetto, bensì con il soggetto della percezione. Infatti, l’unico tipo di rapporto possibile con l’oggetto é dato appunto dalla rappresentazione. Quali devono essere allora i contrassegni di una rappresentazione persuasiva ? Secondo Carneade essi sono tre: 1) l’evidenza, per cui in condizioni di scarsa visibilità, per esempio, non é opportuno fidarsi della vista. 2) Il non essere contraddetta da altre rappresentazioni e il concorso (o sindrome) di altre rappresentazioni a supporto di essa; 3) l’esame o controllo di ciascuna rappresentazione in ogni sua parte, sul modello del comportamento del giudice. Essi determinano in successione il grado crescente di persuasività di una rappresentazione ed é sulla loro base che il filosofo scettico orienterà la propria condotta . Carneade é il fondatore del cosiddetto probabilismo, per il quale Cicerone stesso rivelò una profonda simpatia: é vero che non si può conoscere la realtà, ma si possono comunque tracciare gradi di conoscibilità, ossia ci saranno cose più vere e cose meno vere, delle probabilità: é più probabile che sia così che non altrimenti. Tuttavia allo scetticismo (soprattutto a quello carneadeo) si possono muovere due critiche (e saranno le critiche ad esso mosse da tutti i suoi detrattori, tra cui Lucrezio – De rerum natura, IV): 1) se non posso sapere niente, allora non posso sapere neanche di non sapere niente: lo scetticismo é autocontraddittorio nella misura in cui nega che si possa conoscere la verità e, al contempo, propone ciò come verità. 2) Il concetto di probabilismo di Carneade non lo si può accettare: esso é infatti indisgiungibilmente correlato a quello di certezza: per poter dire che una cosa é più probabile rispetto ad un’altra, devo per forza avere una pietra di paragone; se conosco con certezza alcune cose, allora sì che posso parlare di probabilità. Ma se non conosco nulla con certezza (come di fatto sostengono gli scettici), allora non posso neanche parlare di probabilità. Lo scetticismo, probabilmente in virtù del fatto che mai venne a costituirsi come scuola in senso istituzionale, godrà di grande fortuna, ripresentandosi di epoca in epoca sotto nuovi sembianti, ma mantenendo invariato il suo carattere portante di avversione verso la metafisica e, in generale, verso ogni dogmatismo: abbiamo citato Sesto Empirico (della fine del II secolo d.C.), ma rientrano in una cornice scettica anche autori come Montaigne e Hume, come Cicerone (per quel che concerne il piano conoscitivo) e Nicola di Autrecourt. In sostanza, possiamo dire che l’intera storia della filosofia è percorsa da due grandi filoni tra loro contrapposti e guerreggianti: da un lato, il filone "metafisico" e dogmatico, che propone presunte verità incrollabili (per le quali si è spesso pronti anche a brandire la spada), e, dall’altro, il filone "scettico" e anti-metafisico, che alle presunte verità incrollabili contrappone una skeyiV destinata a non potersi mai dire conclusa.
GLI STOICI
INDICE
INTRODUZIONE
SCHEDA COMPLESSIVA SUGLI STOICI
Pochi anni dopo la fondazione della scuola di Epicuro, verso il 301-300 a.C.,Zenone di Cizio (località situata sull’isola di Cipro) fonda in Atene un’altra scuola, la Stoa poikilh (ovvero il "portico dipinto"), situata non ai margini, ma nel cuore della città, nei pressi dell’agora (la piazza principale). Questo fatto già denota una netta differenza rispetto alla scuola epicurea: la scuola stoica s’integrerà sempre più nella realtà cittadina e nel suo apparato educativo. Un decreto cittadino, infatti, onorò Zenone per essere stato con la sua vita modello per i giovani ateniesi. Morto forse per suicidio a 72 anni, verso il 262-61 a.C., Zenone fu sepolto a spese pubbliche nel cimitero della città, sebbene non fosse di Atene (infatti vi era giunto verso il 311 da Cizio, dov’era nato verso il 333-32 a.C.). Un aneddoto racconta che ad Atene, in una bottega di libraio, udì leggere I memorabili di Senofonte, che parlavano di Socrate, e chiese dove si potevano trovare uomini simili. Il libraio gli indicò il cinico Cratete, che stava passando in quel momento. Zenone avrebbe dunque seguito dapprima l’insegnamento cinico, che, unitamente alla ripresa di alcuni temi platonici, avrebbe lasciato tracce in una delle sue prime opere, La Repubblica. In essa, infatti, egli propugnava l’abolizione della moneta, dei templi e dei matrimoni, ravvisava la vera comunità nella comunità dei buoni, ma ammetteva anche la liceità dell’incesto e, in casi di necessità, dell’antropofagia. In seguito, Zenone dovette abbandonare questo legame troppo stretto con il cinismo, studiando le tecniche della discussione e dell’argomentazione, ossia la dialettica, con Stilpone e Diodoro Crono, che la tradizione collega a un altro filone del socratismo, la scuola megarica. Ben presto, tuttavia, egli fondò una scuola propria, affiancando all’attività di insegnamento, la composizione di scritti. Nessuno di questi ci é pervenuto: di essi abbiamo soltanto titoli e scarsi frammenti. Questa sorte é toccata all’intera letteratura stoica dell’età ellenistica, cosicché per la ricostruzione di questa filosofia occorre attingere alle discussioni che ne fecero gli autori antichi, in primo luogo Cicerone (che dello stoicismo ammirava soprattutto l’etica): ma le fonti tendono a parlarci degli stoici come se si trattasse di un blocco monolitico, senza operare distinzioni (spesso senza neanche nominarli) tra i vari autori stoici. A Zenone successe nella direzione della scuola Cleante di Asso (in Asia minore). Sino alla sua morte, avvenuta nel 230-29 a.C, Cleante si trovò ad affrontare, da una parte, le critiche mosse alle dottrine stoiche dagli accademici e, dall’altra, l’orientamento cinicheggiante che un altro allievo di Zenone, Aristone di Chio, voleva imprimere allo stoicismo, indicando come essenziale per la filosofia soltanto l’indagine etica. Cleante, al contrario, diede particolari contributi soprattutto alla fisica e alla teologia. L’unico scritto stoico di questo periodo a noi conservato nella sua integrità é appunto l’ Inno a Zeus di Cleante , nel quale egli esalta il reggitore divino dell’universo. A Cleante successe Crisippo di Soli (situata anch’essa in Asia Minore), che fu scolarca sino alla sua morte, avvenuta tra il 208 e il 204 a.C. Egli intraprese un’opera di sistematica ricostruzione dello stoicismo, componendo una serie enorme di opere (circa 700, tra cui i soli titoli di opere logiche ammontano a 311). Con esse egli rispose anche alle obiezioni degli avversari, in particolare all’accademico Arcesilao. Gli scritti di Crisippo erano colmi di citazioni da scritti altrui, in particolare da poeti; esse erano utilizzate sia per sostenere le proprie tesi sia per criticare quelle altrui, in questo senso egli fu definito polemicamente un “parassita di libri”. Ma il confronto con dottrine e argomentazioni avanzate da altri indirizzi filosofici fu essenziale per l’attività di Crisippo e, in generale, degli stoici. Essi riuscirono in tal modo a imporre il proprio vocabolario filosofico, che divenne una sorta di koinh, di lingua comune, nella quale potevano essere esposti i contenuti anche di filosofie diverse dallo stoicismo. Per la sua vasta opera di difesa e sistematizzazione delle dottrine stoiche, Crisippo fu considerato una sorta di secondo fondatore dello stoicismo, tanto da generare l’affermazione che senza Crisippo non ci sarebbe stata la Stoà. Non di rado dottrine attribuite dalla tradizione antica agli stoici in generale sono riconducibili proprio a Crisippo. A lui successe il discepolo Diogene di Babilonia, originario di Seleucia, che nel 155 a.C. avrebbe fatto parte, insieme all’accademico Carneade e al peripatetico Critolao, di una celebre ambasceria inviata dagli Ateniesi a Roma. Questa data sancisce in qualche modo la data di contatto ufficiale della filosofia greca con il mondo romano, che – da conquistatore – fu conquistato dalla cultura greca (celebre l’espressione di Orazio "Graecia capta ferum victorem cepit") e – sul piano filosofico – soprattutto dallo stoicismo. L’efficacia dell’insegnamento stoico, comunque, si protrasse sino ai primi secoli dell’impero di Roma. Gli stoici riprendono in generale la connessione stretta che Socrate e, sulla sua scia, Platone avevano stabilito fra virtù e sapere. In modi diversi, sia Aristotele sia Epicuro avevano allentato questa connessione. Con gli stoici invece il sapiente e l’uomo virtuoso tornano a coincidere. L’affermazione secondo cui il sapiente é infallibile é un dato ricorrente a partire da Zenone: la conoscenza infallibile dell’ordine razionale e divino del mondo si traduce necessariamente in un comportamento razionale del tutto conforme a quest’ordine. Il sapiente é dunque perfettamente inserito in un ordine rassicurante e presenta una regolarità di comportamenti analoga a quella della natura, senza falle nè oscillazioni. Ciò dipende dal fatto che il sapiente, per il suo sapere, si é sottratto definitivamente all’area fluttuante e ingannevole delle opinioni e delle passioni, nella quale precipita la maggior parte degli uomini. In tal modo, il sapiente stoico diventa il vero erede della morale militare, colui che non abbandona mai il proprio posto di fronte a qualsiasi attacco, tanto delle passioni quanto della sorte o dei tiranni. Di qui nasce l’immagine popolare dello stoico imperturbabile, che ancor oggi nel linguaggio e nel modo di pensare comune coincide con l’immagine del filosofo. Il nocciolo di questa immagine é la stabilità: la sapienza occupa una posizione incrollabile, é un vertice oltre il quale non si può procedere. In questa prospettiva, é facile giungere ad equiparare la virtù degli dei e degli uomini e, nel caso del sapiente stoico, il dislivello rispetto alla divinità sembra addirittura scomparso. L’equiparazione tra vita del sapiente e vita divina diventa una potente affermazione del primato dell’attività filosofica su tutti gli altri tipi di vita condotti dagli uomini. Tuttavia, il sapiente è una figura limite: gli stoici riconoscono che il sapiente non é mai esistito o, nel migliore dei casi, é esistito pochissime volte, o – come dice Seneca – uno ogni cinquecento anni, come la fenice; meno frequente dei parti di una mula, dice Crisippo. Ciò che é importante però non é tanto la sua esistenza effettiva; infatti, con la costruzione della figura del sapiente, gli stoici intendono presentare ai destinatari del loro insegnamento un modello , forse irraggiungibile , ma proprio per la sua globalità e radicalità capace di offrire un orientamento completamente nuovo e senza incertezza alla vita. Di fronte ad esso nè la sorte nè le vicende storiche o le condizioni fisiche, politiche o sociali hanno potere. Lo stoico che insegna nella scuola non é il sapiente, ma é almeno in grado di darne il ritratto e di indicarlo come norma. Di qui il successo per secoli dell’insegnamento stoico presso le elìte di governo nel mondo di lingua greca e a Roma. Ma quali sono i contenuti di questo insegnamento? Gli stoici hanno una concezione fortemente unitaria e sistematica della filosofia, che ricalca la tripartizione peculiare dell’età ellenistica di cui sono figli. La filosofia, dunque, si articola in tre parti: logica, fisica ed etica, ma tra queste parti intercorrono legami organici indisgiungibili. Essi utilizzano vari paragoni per illustrare questo aspetto: la logica é analoga alle ossa e ai nervi in un corpo vivente, l’etica alle sue carni e la fisica all’anima, oppure la logica é analoga al guscio in un uovo, l’etica alla chiara e la fisica al tuorlo. Fra le tre parti della filosofia non esiste una gerarchia: certo rispetto al fine del vivere bene, la logica e la fisica appaiono subordinate rispetto all’etica (aspetto tipico della filosofia ellenistica), ma in vista del benessere, occorre essere sapienti e quindi possedere pienamente anche la conoscenza della logica e della fisica. La tripartizione della filosofia ha quindi per gli stoici solo una funzione espositiva e pedagogica: per trasmettere la conoscenza della filosofia stoica occorre darne l’esposizione parte per parte. La sequenza consueta é: prima la logica, poi la fisica e infine l’etica. Il termine logica deriva da logoV, che significa sia ragione, sia discorso. Per gli stoici essa non é, come per Aristotele, un organon, uno strumento della scienza, ma una parte specifica del sapere filosofico. I suoi oggetti sono i discorsi. Essa si articola in retorica, o scienza dei discorsi lunghi, e dialettica che Crisippo definisce come scienza delle cose significate e significanti. Si tratta allora di chiarire il senso di questa definizione. Anche per gli stoici, come per gli epicurei, la conoscenza trae origine dalla sensazione. Quando l’uomo nasce, la sua mente é una sorta di tabula rasa, ossia di tavoletta di cera senza segni incisi su di essa (come già aveva sostenuto Aristotele, benché egli mai sia menzionato dagli stoici) ; appena un oggetto esterno colpisce i sensi si forma la rappresentazione o fantasia (anche questo è termine aristotelico) di esso. Le rappresentazioni sono conservate nella memoria e da memorie ripetute di una stessa cosa si formano i concetti o nozioni generali. A partire da questi concetti si possono formare, per somiglianza, analogia, trasposizione, composizione e contrarietà, altri concetti, che non hanno un corrispettivo nel mondo sensibile. Tali sono per esempio i concetti di centauro o di spazio, che non sono oggetti sensibili. Nella sua prima fase, il processo di conoscenza é puramente passivo: Zenone lo paragona alla mano aperta. Nelle fasi successive si ha invece un intervento attivo da parte di chi conosce: Zenone paragona l’assenso, dato dalla mente alla rappresentazione, alla mano parzialmente chiusa. Infatti, di fronte alle rappresentazioni possiamo reagire o dando l’assenso, o non dandolo, o sospendendolo: e proprio nel riconoscere questa libertà di giudizio gli Stoici garantiscono, in una certa misura, una forma di libertà all’uomo; se, infatti, non possiamo scegliere se avere o meno rappresentazioni, ciononostante possiamo scegliere come reagire ad esse, concedendo o negando il nostro assenso. Particolarmente importante è la sospensione dell’assenso (epoch), che costituirà il perno della filosofia scettica e sarà destinata ad avere vita lunga nella storia della filosofia. L’assenso consiste nel porre attenzione alla rappresentazione dell’oggetto. La mano stretta a pugno corrisponde invece alla katalhyiV, che significa comprensione, nel senso letterale di “afferrare”. Secondo gli stoici l’errore é possibile e può dipendere da malattie, allucinazioni o condizioni che impediscono di percepire adeguatamente le cose. Esso consiste nel dare l’assenso a rappresentazioni che non hanno corrispondenza nella realtà. La rappresentazione catalettica o comprensiva é, invece, sempre attendibile in quanto viene impressa in base all’oggetto che la produce: essa rinvia in ogni caso alla sua causa, ossia all’oggetto reale, che é la garanzia della sua attendibilità. Essa é dunque il criterio di verità. Le opinioni, invece, sono anch’esse assenso a qualcosa, ma si tratta di un assenso debole e falso. Gli stoici, infatti, non ammettono uno stato intermedio tra il conoscere e il non conoscere, come non ammettono uno stato intermedio tra l’essere sapienti e il non esserlo: chi sa molto ma non tutto – essi argomentano – si trova sullo stesso piano di chi non sa nulla, come chi è distante da Atene 5 km non è in Atene al pari di chi da essa è distante 1000 km o come chi è con la testa a 5 cm sott’acqua annega al pari di chi ce l’ha a 1000 metri di profondità. La conoscenza, o scienza vera e propria, consiste nell’afferrare una cosa in modo tale che la nostra comprensione di essa non può essere abbattuta da alcuna argomentazione: essa é paragonata da Zenone al pugno che viene stretto dall’altra mano. La conoscenza é, dunque, infallibile e può dimostrare ciò che conosce mediante proposizioni che sono necessariamente vere. A differenza degli animali, che emettono soltanto suoni, l’uomo può formulare le sue conoscenze in un linguaggio articolato, consistente di proposizioni che stabiliscono connessi corrispondenti a stati di cose o eventi del mondo. Gli stoici diedero importanti contributi allo sviluppo della grammatica, costruendo una terminologia che rimase in vigore per indicare, ad esempio, i tempi dei verbi o i casi dei nomi e degli aggettivi. Le parole , come insiemi di suoni proferiti, sono corporee, invece “ciò che é detto” o “ciò che può essere detto” ( in greco lekton, tradotto a volte anche con significato) é incorporeo. Corporeo, infatti, per gli stoici (memori della lezione del Sofista platonico) é ciò che ha la possibilità (dunamiV) di agire o di subire un’azione, ma il significato di un enunciato non possiede questo requisito. Gli stoici distinguono, infatti, tra l’oggetto reale, che é corporeo, l’insieme di suoni articolati, che sono anch’essi corporei e mediante i quali significhiamo l’oggetto, e, infine, il significato (lekton), che é ciò che significhiamo mediante questi suoni: esso consente di riferire il nome alla cosa. La dialettica ha, appunto, per oggetto questi significati, non cose, ma enunciati sulle cose, ciò che si dice o si può dire su di esse. I lekta possono essere incompleti, com’é il caso di verbi senza soggetto (per esempio "ride"), oppure completi (per esempio “Socrate dorme”). Questi ultimi sono denominati dagli stoici axiomata, ossia proposizioni o asserti, e sono suscettibili di essere veri o falsi, come già avevano riconosciuto Platone e Aristotele. Essi pertanto si distinguono da altri tipi di lekta, quali la preghiera o il comando e così via. La verità o la falsità di essi é determinata dalla loro corrispondenza o non corrispondenza con lo stato di cose manifestato dalla rappresentazione comprensiva. Questa ci mette sempre in presenza di oggetti o eventi particolari, non universali. Secondo gli stoici non esistono universali in natura, sicchè proposizioni del tipo “l’uomo é un animale razionale” non sono propriamente vere o false; essi pertanto trasformano questo tipo di proposizioni in proposizioni condizionali quali “se qualcosa é un uomo, allora é un animale razionale”. Ciò ha importanti conseguenze sul modo in cui gli stoici concepiscono la logica; essa, infatti, assume a proprio oggetto non termini universali e relazioni di inclusione di generi e specie, come quella aristotelica, bensì proposizioni che enunciano fatti o eventi concernenti entità singole. Gli stoici, come già Aristotele, prestano attenzione alla forma logica di alcuni asserti e a tale scopo fanno uso di variabili per indicare appunto le proposizioni, mentre Aristotele ne aveva fatto uso per indicare i termini che costituiscono proposizioni del tipo “A é B” o, nella terminologia aristotelica, “B appartiene o inerisce ad A”. Aristotele usava lettere dell’alfabeto per indicare queste variabili, mentre gli stoici usano le espressioni: primo, secondo. Particolare attenzione é dedicata da essi alle proposizioni composte di proposizioni semplici mediante le particelle “e”, “o”, “se”. Nel primo caso si ha la congiunzione (per esempio “é giorno e c’é luce”): essa é vera quando entrambe le proposizioni componenti sono vere. Mediante la particella “o” si forma invece la disgiunzione (per esempio, “é giorno o é notte”): essa é vera quando solo una delle due proposizioni componenti é vera, e non entrambe. Particolare importanza secondo gli stoici rivestono i condizionali o implicazioni, che hanno la forma: “se il primo, allora il secondo”, dove “se il primo” é l’antecedente e “allora il secondo” il conseguente: per esempio, “se é giorno, allora c’é luce”. Un condizionale può essere valido, senza essere necessariamente vero: infatti, l’antecedente “se é giorno” può non corrispondere a uno stato di fatto (se, per esempio, é notte) e quindi neppure il conseguente, ma ciò non toglie validità al condizionale. Quando si può dire che un condizionale é vero? Per gli stoici un condizionale é vero quando l’antecedente e il conseguente sono entrambe veri o entrambi falsi oppure quando l’antecedente é falso e il conseguente é vero. Esso é falso in un unico caso, ossia quando l’antecedente é vero e il conseguente é falso. I condizionali, stabilendo connessioni tra proposizioni che si riferiscono a stati di fatto o eventi, sono essenziali per la costruzione di argomentazioni. Queste sono formate da due premesse e una conclusione , ma non hanno la forma di un sillogismo aristotelico, in quanto non si fondano sulle relazioni d’inclusione fra termini che indicano concetti universali , quanto su relazioni tra proposizioni. In particolare, la dimostrazione é un ragionamento che, partendo dalle premesse, per via deduttiva, scopre una conclusione che non é manifesta. Gli stoici ritengono che tutte le argomentazioni siano riducibili a 5 schemi validi o concludenti, detti anapodittici, ossia indimostrati o indimostrabili, mediante i quali si costruiscono le dimostrazioni, ma che a loro volta non possono essere oggetto di dimostrazione. In questi schemi ricorrono alcuni tipi di proposizioni complesse, quali i condizionali, di cui si é parlato, le proposizioni congiunte (in particolare la negazione di due proposizioni congiunte, ossia non: e p e q) e le disgiunzioni. I 5 schemi, nei quali le lettere dell’alfabeto stanno per proposizioni, sono:
1 ) Se p, allora q, ma p dunque q (es. Se é giorno, c’é luce; ma é giorno, quindi c’é luce)
2 ) Se p, allora q, ma non q, dunque non p (es . Se é giorno, c’é luce, ma non c’é luce, dunque non é giorno)
3 ) Non: e p e q ma p dunque non q (es . Non: é giorno ed é notte, ma é giorno; dunque non é notte)
4 ) O p o q, ma p dunque non q (es . O é giorno o é notte, ma é giorno; dunque non é notte)
5 ) O p o q, ma non q dunque p (es . O é giorno o é notte, ma non é notte; dunque é giorno)
Gli schemi argomentativi , messi in luce dall’analisi logica , riflettono le connessioni che sussistono tra gli stati di fatto e gli eventi dell’universo. La fisica é la parte della filosofia che indaga il modo in cui sono per natura le cose e i legami che intercorrono tra esse. Il mondo manifesta la presenza in esso di due principi, uno attivo e uno passivo. Riprendendo probabilmente alcune analisi aristoteliche, gli stoici identificano il principio passivo con la materia, mentre il principio attivo agisce su di essa come causa efficiente che conferisce la forma. Ma la distinzione tra i due principi é soltanto concettuale; nella realtà sono indisgiungibili e sono entrambi corporei. Riprendendo la definizione di essere, avanzata da Platone nel Sofista, secondo cui l’essere é tutto ciò che ha la possibilità di compiere o di subire un’azione, essi identificano l’essere con ciò che é corpo. La materia, pertanto, in quanto passività, é soltanto un aspetto della corporeità; l’altro aspetto é dato dal principio attivo, che gli stoici identificano con la natura o Dio, che essi chiamano anche logoV, ragione. Dio, dunque, si mescola con la materia, la penetra e le dà forma: per questo aspetto, la dottrina stoica fu qualificata come una forma di panteismo. L’esistenza della divinità é confermata per gli stoici dal consensus omnium (come già per Epicuro), ma essi aggiungono anche alcune argomentazioni a favore di essa. Crisippo, ad esempio, formula questo ragionamento: se nel mondo c’é qualcosa che l’uomo non é in grado di produrre, allora ciò che lo produce dev’essere superiore all’uomo; ma i cieli e tutto ciò il cui ordine é sempre lo stesso non possono essere prodotti dall’uomo; dunque ciò che lo produce é superiore all’uomo: esso é Dio. Questa argomentazione risale dall’ordine dell’universo al suo produttore, mentre un altro argomento di tipo finalistico mira a mostrare che – per dirla con Leibniz – il mondo in cui viviamo é il migliore dei mondi possibili ed é ordinato in vista dell’uomo. In questo senso, la divinità appare agli stoici, sulla scia del Platone del Timeo e in netta opposizione nei confronti dell’ epicureismo, come provvidenza. La divinità é ragione che fa del mondo un insieme ordinato e armonizza anche ciò che é imperfetto, ma è una provvidenza immanente al mondo stesso (e non trascendente, come la voleva Platone). Il male stesso appare giustificato nell’economia del tutto; esso non é altro che un sottoprodotto del bene: per esempio, la fragilità della testa umana é dovuta al fatto che essa é fatta di ossa piccolissime, più adatte alla funzione che le é propria. Crisippo asserisce che il rapporto bene/male è equivalente a quello luce/ombra: come non si capirebbe che cosa è la luce se non vi fosse anche l’ombra, così non si capirebbe che cosa è il bene se non vi fosse anche il male. Il principio divino é unico; gli dei della religione tradizionale non sono altro che nomi dei fenomeni naturali e manifestazioni dell’unica divinità, che gli stoici chiamano anche Zeus. Ma anche la divinità é corporea, giacché, se fosse incorporea, essa non avrebbe possibilità di agire e ordinare razionalmente il mondo, poiché solo il corporeo può agire sul corporeo. Riprendendo la connessione di Eraclito tra LogoV e fuoco, i primi stoici (Zenone e Cleante), identificano il principio attivo con il fuoco artefice. Il mondo nasce e perisce secondo una vicenda ciclica (come già aveva sostenuto Empedocle): dopo un periodo di parecchie migliaia di anni, ha luogo una ekpurosiV, una conflagrazione universale, nella quale tutto si dissolve nel fuoco; poi il fuoco artefice, che coincide con la ragione divina, contenente le ragioni seminali (logoi sphrmatikoi) di tutte le cose, provvede a ricostruire il mondo, che ripercorre quindi un altro ciclo; questo nuovo mondo sarà perfettamente identico al precedente: é l’ eterno ritorno dell’uguale, delle stesse cose e degli stessi eventi. Esso non può essere diverso dal precedente, perchè se fosse diverso, ciò significherebbe che é migliore o peggiore del precedente, ossia che uno o l’altro non sarebbe il migliore dei mondi possibili, contraddicendo la tesi che l’azione razionale e provvidenziale della divinità dà sempre luogo al migliore dei mondi possibili. La conclusione é dunque che ogni ciclo sarà perfettamente uguale ai precedenti. Soprattutto a partire da Crisippo il logoV divino viene identificato con il pneuma (soffio), un composto di aria e fuoco. La nozione di pneuma aveva già trovato impiego nella biologia aristotelica e nella medicina, tra l’altro per spiegare i processi della respirazione e del movimento. Ad esso gli stoici attribuiscono la funzione di tenere insieme, compatti, i due elementi passivi, l’acqua e la terra: ciò dipende dalla tensione (tonoV), che il pneuma stabilisce tra le singole parti. Esso fa, dunque, dell’universo un continuum dinamico, una sorta di unico grande essere vivente, percorso incessantemente da questo soffio caldo. Di qui deriva l’interdipendenza tra tutte le parti dell’universo, che gli stoici chiamano simpatia (sumpaqeia), nel senso che ogni evento ha ripercussioni su ogni altra parte del mondo. Ciò rafforza il senso di appartenenza dell’individuo alla totalità cosmica, nella quale tutto coopera, e spiega anche perchè gli stoici siano generalmente propensi ad accettare l’astrologia, inclusa la pratica degli oroscopi: essa, infatti, parte dall’assunzione che gli astri esercitano una influenza diretta sulla vita degli uomini non solo in generale, ma nei particolari. La concezione stoica dell’unità del cosmo, retto da un unico principio attivo, trova espressione nella teoria della causalità universale. Tutto ciò che avviene per una causa, e, a sua volta, tutto ciò che avviene é causa di qualcos’altro. L’universo é retto da un’unica catena causale: un evento privo di causa frantumerebbe l’unità e la compattezza dell’universo, in quanto ci sarebbe qualcosa che non é determinato dalla natura e dalla ragione divina. Il caso é per gli stoici soltanto un nome per indicare cause che ci sono sconosciute, ma, in linea di principio, qualsiasi evento, dipendendo da una causa, può essere previsto. Su questa base gli stoici giustificano la legittimità della divinazione, ossia della predizione del futuro in base all’interpretazione dei segni che in vari modi la divinità invia agli uomini. E il fatto che dio ci lasci sapere in anticipo quel che accadrà non fa che avvalorare la tesi che lo vuole buono. In generale, gli stoici intendono per causa la causa produttrice di stati di cose o eventi; Crisippo distingue ulteriormente una causa interna e una esterna: entrambe sono necessarie per produrre un determinato effetto, ma la principale é quella interna. Poniamo, per esempio, che ci sia un cilindro su un piano inclinato; perchè esso si metta a rotolare occorre una spinta (ecco la causa esterna), ma occorre anche che esso abbia una determinata natura, cioè che sia appunto di forma cilindrica (ecco la causa interna): il modo in cui un oggetto reagisce a una causa esterna é dunque determinato dalla sua natura. Anche le cause interne, allora, rientrano nell’ordinamento causale necessario dell’universo. Ciò, come vedremo, ha importanti conseguenze nella spiegazione dell’agire umano. Il pneuma é presente in proporzioni differenti nei differenti piani della realtà, nelle piante, negli animali e nell’uomo adulto. L’anima umana é una porzione di questo soffio vitale ed é quindi anch’essa corporea. Essa é costituita dai cinque sensi, dalle facoltà di generare e di parlare e dell’egemonico o principio direttivo, che ha la sua sede nel cuore, come già sosteneva Aristotele. Gli stoici rifiutano la tripartizione dell’anima elaborata da Platone: l’anima é, invece, un’entità unitaria, il cui principio direttivo é la ragione. Nell’uomo anche l’appetizione e le passioni dipendono dalla ragione; i conflitti morali non derivano, quindi, da conflitti tra parti diverse dell’anima, razionali e passionali, ma riguardano tutti la ragione e il suo uso. L’appetizione, ossia il desiderare una certa cosa e tendere verso di essa, si fonda su un’operazione intellettuale, cioè su un atto di assenso a tale desiderio, il quale si traduce nella spinta ad agire in un determinato modo. Per esempio, quando si riceve la rappresentazione di un dolce, l’eventuale assenso a questa rappresentazione si compone di un giudizio di valore sul dolce stesso, considerato meritevole di essere mangiato, e insieme di un comando che spinge a mangiarlo. Anche le passioni, secondo Crisippo, consistono in un giudizio falso su ciò che é bene o male: la paura, ad esempio, é il giudizio su un male imminente che sembra insostenibile; l’avidità giudica il denaro un bene e così via. Come l’appetizione, anche la passione contiene un giudizio di valore, ma é meno razionale della prima; essa é propria di chi ha una ragione priva di tonoV , in cattiva salute, instabile, la quale pertanto sbaglia. Su questi presupposti antropologici si costituisce l’etica degli stoici. La natura, in quanto espressione della razionalità divina, é il criterio in base a cui stabilire ciò che ha valore: essa determina infatti il fine di ciascun essere. La nozione di natura é al tempo stesso la descrizione di ciò che una cosa (per esempio, l’uomo) e la norma che prescrive ciò che la cosa così descritta deve essere. Ogni essere vivente, anche l’uomo appena nato, é per natura disposto ad amare se stesso (in greco oikeiosiV, letteralmente “rendersi affine, conforme a se stesso”) e quindi il suo primo impulso é per l’autoconservazione: esso lo spinge verso tutto ciò che contribuisce ad essa, cibo, riposo e così via e lo allontana da ciò che lo danneggia. Ma passando all’età adulta, nell’uomo si sviluppa la ragione, che trasforma gli impulsi innati nel bambino e fa emergere altri oggetti di desiderio. In particolare essa conduce alla conoscenza che la virtù é ciò che é proprio dell’uomo, più di qualsiasi altra cosa che contribuisca all’autoconservazione. Per gli esseri razionali il vivere secondo natura si identifica, dunque, con la norma del vivere secondo ragione. Con la ragione, poi , che é nient’altro che una parte della ragione universale o divina, l’uomo può arrivare a conoscere ciò che é veramente bene e ad apprendere che la vita associata e la virtù sono cose che appartengono in maniera primaria alla natura umana. Compito dell’uomo sarà in primo luogo compiere azioni convenienti (kaqhkonta) : si tratta cioè di quelle azioni il cui punto di partenza non é un semplice impulso, ma la ragione, e che, una volta compiute, possono essere giustificate razionalmente. Ma di per sè compiere un’azione conveniente non é agire bene, perchè la ragione può essere retta o distorta; le passioni, per esempio, in quanto giudizi errati, possono spingere a desiderare ciò che non é bene come se lo fosse. L’uomo veramente buono é privo di passioni e agisce soltanto in accordo con la virtù: in ciò consiste l’azione retta (katorqwma). La suprema norma morale può allora essere formulata come vivere secondo virtù: in ciò consiste il dovere perfetto, non quello puramente relativo concernente le azioni convenienti. Per gli stoici, solo la virtù ha valore assoluto, mentre tutte le altre cose, come la ricchezza o la salute e così via, hanno valore soltanto relativo, in quanto possono essere usate bene o male: così la ricchezza é sì preferibile alla povertà, ma non é un ingrediente della virtù, poichè in relazione all’essere moralmente buoni non c’é alcuna differenza tra l’essere ricchi o l’essere poveri. Bene e male sono soltanto, rispettivamente, la virtù e il vizio, mentre le altre cose, persino la vita e la morte, sono definite dagli stoici indifferenti (adiafora); tuttavia, tra le cose indifferenti alcune sono preferibili, come l’essere ricco all’essere povero, e altre da respingersi, come l’essere malato. Così la vita é preferibile alla morte, ma ci sono circostanze nelle quali il suicidio é giustificabile, in particolare quando il conservarsi in vita fosse di ostacolo all’esercizio della virtù, caso testimoniato dall’esperienza di Seneca. Per essere felice l’uomo non ha bisogno di nulla all’infuori della virtù contrariamente a quanto aveva pensato Aristotele, la felicità non ha bisogno di beni esterni; in questo senso, gli stoici sostenevano che il sapiente é felice anche nei tormenti. E la felicità, come la virtù, non ammette gradi: o si é virtuosi o non lo si é. Non c’é differenza nell’essere a dieci, a cento chilometri da Atene: in entrambi i casi non si é in Atene; così non c’é differenza tra le colpe: sono tutte uguali, sicchè non v’è differenza tra uccidere un pollo e uccidere un uomo. La conseguenza é che non c’é progresso verso la virtù: il passaggio dal vizio alla virtù, quando avviene, é istantaneo e la virtù, quando é presente, lo é nella sua globalità, non a segmenti. Nella migliore delle ipotesi i più riescono a compiere soltanto azioni convenienti, non azioni rette, che sono quelle che caratterizzano il vivere secondo virtù; secondo gli stoici soltanto il sapiente, ossia l’uomo perfetto, si trova in questa condizione: rispetto ad esso, dunque, i più sono stolti o folli. Queste tesi furono considerate dagli antichi dei paradossi, ossia contrarie alle opinioni comuni (para+doxa). Ma é possibile all’uomo vivere secondo virtù e quindi essere felice? La virtù non può esistere senza il suo contrario, il vizio. Secondo gli stoici solo l’uomo, tra gli esseri naturali, grazie al possesso della ragione, é dotato della capacità di agire bene o male, ossia in accordo con la natura o contro di essa. Sin dall’inizio, infatti, egli é dotato di impulsi e semi di virtù che deve sviluppare; a tale scopo occorre grande sforzo, dal momento che gli é anche possibile agire male. Su questo punto gli stoici recuperano il tema cinico del ponoV, della fatica come ingrediente della vita morale: non dipendono dal singolo l’ambiente e le circostanze nelle quali egli nasce e vive, come non é in suo potere il successo delle proprie azioni, ma sono in suo potere l’intenzione e il modo in cui egli agisce in relazione a tale ambiente e a tali circostanze. E’ rilevante, nella riflessione stoica, questo riferimento all’intenzione: un cane legato a un carro necessariamente correrà; egli può correre di propria volontà oppure no, ma anche in questo caso sarà trascinato, aumentando però la propria sofferenza. Seneca a tal proposito asserisce: "ducunt volentem fata, nolentem trahunt". Questo esempio chiarisce il modo in cui gli stoici affrontano il problema della libertà umana. A tale questione intende rispondere la distinzione formulata da Crisippo tra cause esterne e cause interne di un evento e, quindi, anche di un’azione. In sede morale la causa interna di un comportamento consiste nell’assenso, ossia nel formulare un giudizio di valore, per esempio, che é bene compiere una certa azione; questo assenso, secondo Crisippo, dipende da noi e non da cause esterne. Ma anche le cause interne, ossia la natura propria di ciascuno, come si é visto, rientrano nella concatenazione necessaria del tutto, che gli stoici chiamano fato o destino. L’uomo non può sottrarsi al fato e alla catena di eventi che lo caratterizza, ma é in suo potere di assentire a questo ordine necessario (il cane che segue il carro che lo trascina), qualora sia riconosciuto nella sua razionalità. La libertà non consiste, infatti, nella scelta tra alternative, ma nel seguire deliberatamente di propria volontà ciò che é dettato dal fato. Solo il sapiente é per gli stoici perfettamente libero, perchè lui soltanto conosce l’ordine razionale dell’universo e da ciò gli deriva una gioia tale da essere felice anche se sottoposto a tortura; i più , invece, sono soltanto schiavi, che, come il cane dell’esempio, sono trascinati loro malgrado. Anche nella teoria degli stoici, dunque, come già in quelle di Platone o Aristotele, la libertà é invocata a conferma del primato della vita filosofica. In questo senso, la schiavitù diventa soltanto una metafora della vita morale: é la condizione nella quale si trovano i più, che non sono padroni di se stessi. Ciò rende anche irrilevante la schiavitù giuridica, che rientra soltanto nel dominio dell’accidentale, non ha fondamento nella natura: anche uno schiavo, proprietà di un altro uomo, può essere in linea teorica un sapiente e un uomo buono, ma proprio per questo non é importante la sua liberazione dalla condizione giuridica di schiavo. Tutti gli uomini sono schiavi del destino e non ha dunque importanza se alcuni siano in catene d’oro e altri in catene di vile ferro, la loro condizione è la stessa. Ciò non toglie che certo stoicismo (Seneca e Posidonio) inviti con vigore ad essere umani verso gli schiavi. La vera liberazione diventa, per gli stoici, quella dalla schiavitù, puramente metaforica, del vizio. Già Zenone sosteneva che solo i sapienti sono veramente liberi, cittadini e amici tra loro. Si tratta dunque di una città, anche questa metaforica, di soli sapienti, una città normativa, nella quale i più, inevitabilmente ostili e malvagi tra loro, non possono aver parte. I sapienti costituiscono una comunità che si allarga a una dimensione cosmica: in ciò risiede il nucleo del cosmopolitismo stoico: non a caso Seneca dirà “noi stoici, con generosità, non ci siamo rinchiusi tra le mura di una sola città, ma ci siamo aperti al mondo, e abbiamo proclamato il mondo nostra patria per poter dare un più vasto campo d’azione alla virtù“. Questa città cosmica é retta da una legge naturale, le cui norme sono dettate dalla ragione universale, non dagli interessi e dalle consuetudini proprie delle singole città; esse hanno quindi validità universale e sono superiori alle leggi positive stabilite nelle varie comunità. Diversamente dagli epicurei, gli stoici enunciano il precetto secondo cui il sapiente partecipa alla vita politica, ma con esso difficilmente intendevano determinare il contesto istituzionale della sua azione: il vero raggio di orizzonte del sapiente é l’intero cosmo. Nel decennio fra il 235 e il 225 a.C. uno stoico, Sfero di Boristene, allievo di Zenone, fu ispiratore della riforma dell’educazione giovanile e forse anche delle riforme agrarie di carattere egualitario introdotte da Cleomene a Sparta, ma di fatto, in età ellenistica, la maggior parte dei membri della scuola stoica non fu protagonista di attività politica diretta. Di grande fortuna godrà la scuola stoica, a tal punto da vivere ben tre fasi distinte: dopo l’antica Stoà di Zenone e Crisippo, si svilupperà la media Stoà di Panezio e Posidonio, che ammorbidirà le punte più estremistiche dello stoiscimo, rendendolo in tal modo compatibile con il mondo romano; infine, si avrà un terzo periodo – la cosiddetta nuova Stoà – in cui corifei dello stoicismo saranno Seneca, il liberto Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio.
PIRRONE DI ELIDE
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VITA
Pirrone nacque a Elide fra il 365 e il 360 a.C. Inizialmente esercitò la pittura e in seguito si dedicò alla filosofia, ascoltando dapprima maestri delle Scuole socratiche (in particolare la scuola megarica), e poi Anassarco di Abdera, che gli fece conoscere il pensiero democriteo. Insieme ad Anassarco, Pirrone prese parte alla spedizione di Alessandro in Oriente (334-324 a.C.): un avvenimento, questo, che incise profondamente nel suo animo. Intorno al 324/323 a.C., Pirrone tornò a Elide, dove visse e insegnò la sua nuova visione della vita, con successo. Morì fra il 275 e il 270 a.C. Egli non scrisse nulla (eccetto un carme in onore di Alessandro).
Il suo discepolo Timone di Fliunte fissò per iscritto le dottrine pirroniane.
PENSIERO
Pirrone, dalla nativa città di Elide, a partire dal 323 a.C. (o poco dopo), diffondeva il suo nuovo verbo scettico, e dava così inizio a un movimento di pensiero destinato ad avere notevoli sviluppi nel mondo antico.
Egli non fondò una vera e propria Scuola e non volle neppure mettere per iscritto la sua parola. Si prodigò invece per riprendere l’esempio di Socrate, convinto che attraverso la parola, e anzi nemmeno attraverso la parola ma soprattutto attraverso la testimonianza della vita, si dovesse e si potesse comunicare il più autentico messaggio della saggezza filosofica.
I suoi discepoli si legarono a lui al di fuori degli schemi tradizionali; più che di veri e propri discepoli si trattò di estimatori, di ammiratori e di imitatori: uomini che nel maestro cercarono soprattutto un nuovo modello di vita, un paradigma esistenziale a cui fare costante riferimento, soprattutto una prova sicura che, malgrado i tragici eventi che sconvolgevano i tempi, e malgrado il crollo dell’antica tavola dei valori etico-politici, la felicità era tuttavia raggiungibile.
Pirrone cercava di dimostrare come sia possibile vivere una vita felice, anche senza la verità e senza quei valori che erano stati venerati in passato.
Il Giardino e la Stoà – che sorsero pochi lustri dopo – quando già il verbo di Pirrone cominciava a diffondersi lentamente, pur concordando nell’attribuire al saggio una serie di caratteri esistenziali già chiaramente individuati dal nostro filosofo, assunsero tuttavia una posizione diametralmente opposta, proclamando, con estrema risolutezza, che al saggio sono indispensabili «dogmi» e «certezze», e quindi ribadirono la convinzione greca che l’essere e la verità esistono e sono raggiungibili dall’uomo, e che la regola del vivere felici può scaturire solo da queste acquisizioni, e, dunque, dalla ricostruzione di una precisa tavola di valori.
Come è giunto Pirrone al rovesciamento di questa convinzione, così ben radicata? E come ha potuto dedurre una «regola di vita» e costruire una «saggezza», rinunciando all’essere e alla verità e dichiarando ogni cosa vana apparenza?
Una risposta a questi problemi può essere data solo tenendo conto dei seguenti tre fattori essenziali:
a) il momento storico in cui maturò il pensiero di Pirrone, e, in particolare, la sua partecipazione alla grande spedizione di Alessandro;
b) l’incontro con l’Oriente, che gli rivelò una tipologia di «saggezza» del tutto sconosciuta ai Greci;
c) i maestri e le correnti filosofiche greche da cui egli desunse gli strumenti concettuali per l’elaborazione e per la formulazione del suo pensiero.
La spedizione di Alessandro nonché la conquista dell’Oriente, e, in generale, la rivoluzione dell’assetto politico e ideologico del mondo antico da lui operato, significarono il crollo delle poleis, la distruzione della libertà come era stata tradizionalmente intesa, la rottura dell’identificazione di uomo e cittadino, la parificazione tra Greci e barbari, l’affermazione del cosmopolitismo, la scoperta e l’esaltazione dell’individuo, la diffusione della cultura ellenica con la conseguente assimilazione di elementi propri di altre culture, e, in particolare, di quelle orientali.
Pirrone partecipò, insieme al filosofo Anassarco di Abdera, alla grande spedizione di Alessandro e assistette di persona allo svolgersi dei grandi eventi, proprio al fianco della eccezionale personalità del protagonista, il quale andava distruggendo ciò che fino ad allora era stato ritenuto indistruttibile, faceva crollare le più antiche e radicate opinioni dei Greci e apriva alla storia sconcertanti prospettive.
Non è dunque sorprendente il fatto che proprio il pensiero di Pirrone, più di quello degli altri filosofi, abbia risentito del violento impatto con queste nuove realtà.
La spedizione di Alessandro costituì un avvenimento – per così dire – di rottura; così, analogamente, anche il pensiero pirroniano rappresentò «una filosofia di rottura», vale a dire un pensiero che segnò esso pure un repentino passaggio da un mondo a un altro.
In effetti, Pirrone si situa nel preciso momento in cui la coscienza perde alcune verità e non riesce ancora a trovarne altre, e dunque, come è stato efficacemente detto, egli si colloca «al momento zero della verità».
Fra le varie esperienze che Pirrone ebbe al seguito di Alessandro e che lo influenzarono in vario modo, una fu di importanza eccezionale, e, in certa misura, determinante: l’incontro con i «Gimnosofisti» (“sapienti nudi”), che praticavano una vita monastica, tutta tesa al superamento dei bisogni umani, all’esercizio di rinuncia alle cose e alla conquista dell’impassibilità.
L’influsso dei Gimnosofisti su Pirrone fu già rilevato con accuratezza dagli antichi, come riferisce Diogene Laerzio:
“Pirrone ebbe la possibilità di avere rapporti con i Gimnosofisti in India e con i Magi. Di qui attinse maggiore stimolo per le sue convinzioni filosofiche e pare che egli si aprì la via più nobile nella filosofia, in quanto introdusse ed adottò i principi dell’acatalessia (cioè della irrappresentabilità o incomprensione delle cose) e dell’epoché (cioè della sospensione del giudizio); questo primato gli viene attribuito da Ascanio di Abdera”. (Vite dei filosofi, IX, 61)
Ma c’è di più: gli storici ci riferiscono anche un episodio concernente uno di questi Gimnosofisti, di nome Calano, che ebbe grande eco. Calano si diede volontariamente la morte, gettandosi tra le fiamme e sopportando con impassibilità gli spasimi delle ustioni. Calano, dunque, dimostrava che, se è possibile accogliere con impassibilità anche quelli che sono considerati i peggiori dei mali, questi non debbono avere di per sé quella «realtà» e quella «natura» che vengono loro comunemente attribuite e che, in ogni caso, il saggio può essere in grado di porsi al di sopra di essi.
Pirrone nella testimonianza di Calano vide la dimostrazione di quell’idea che era destinata a trionfare nell’età ellenistica (la si ritrova in Epicuro e negli Stoici), e cioè che il saggio può essere felice anche fra i tormenti.
Certamente l’incontro con i Gimnosofisti e con Calano dovette contribuire, congiuntamente e contemporaneamente al crollo dei valori classici della Grecità che Alessandro stava provocando, a far maturare in Pirrone la convinzione «dell’irrealtà di tutto ciò che sembra “reale”», cioè l’idea fondamentale del suo Scetticismo, a livello di intuizione emozionale; invece gli strumenti concettuali per la formulazione della medesima vennero al filosofo dalle Scuole filosofiche greche, e in modo particolare dalla Scuola atomistica e da quella megarica.
I contatti di Pirrone con l’Atomismo avvennero mediante Anassarco.
Scrive Diogene Laerzio:
“Anassarco nacque ad Abdera. Fu alunno di Diogene di Smirne, il quale a sua volta fu alunno di Metrodoro di Chio, che era solito dire che non sapeva nulla, neppure che non sapeva nulla. Dicono che Metrodoro sia stato alunno di Nessa di Chio, ma corre anche la versione che sia stato alunno di Democrito”. (Vite dei filosofi, IX, 38)
Del resto Pirrone menzionava frequentemente Democrito.
La testimonianza sopra riportata, confermata da molte altre, ci dice che già il maestro di Anassarco faceva affermazioni di sapore scettico, e Sesto Empirico, accomunando col maestro anche il discepolo, scrive:
“E non pochi erano […] quelli che dicevano che anche Metrodoro e Anassarco […] negarono l’esistenza del criterio di giudizio; anzitutto Metrodoro, perché disse: «Nulla sappiamo, e non sappiamo neppure questa cosa, che nulla sappiamo». (Contro i matematici, VII, 87 sg.)
Ma nelle opere dello stesso Democrito abbondavano critiche ai sensi e alla conoscenza sensibile che potevano essere sfruttate in senso scettico e che, in effetti, divennero assai care agli Scettici; in modo particolare, piacque loro la seguente affermazione: “in realtà nulla noi conosciamo, perché la verità giace nell’abisso”.
Ora, è vero che Democrito diceva tutto questo riferendosi esclusivamente alla conoscenza sensoriale e che riteneva di raggiungere la verità «nel suo profondo» tramite la conoscenza intellettiva (com’è noto, per Democrito veri erano gli atomi e il vuoto): tuttavia egli presuppose l’esistenza della conoscenza intellettiva, senza riuscirla a giustificarla teoreticamente, sicché era pressoché inevitabile che (prima che Epicuro riformasse in maniera puramente sensistica la gnoseologia atomistica) le critiche alla conoscenza sensibile finissero per assumere un peso tale da alimentare largamente le istanze scettiche.
Anche dalla dialettica dei Megarici Pirrone dovette desumere elementi scettici; infatti l’originario principio positivo affermato da Euclide, ossia l’unità dell’Essere e del Bene, che essi intendevano difendere con la loro confutazione e distruzione delle tesi di fondo del pluralismo, venne reso sempre meno esplicito e, talora, addirittura taciuto.
Dall’Atomismo e dal Megarismo, dunque, Pirrone poté trarre una serie di concetti e di deduzioni che, al servizio di quella nuova intuizione del senso della vita e delle cose emozionalmente colta e maturata durante la spedizione di Alessandro, generò il suo scetticismo.
Pirrone nega sia la «fisica» sia la «metafisica», e, in generale, ogni forma di ontologia in quanto tale.
Il ripudio dell’ontologia in senso «fisico», ossia presocratico, è chiaramente attestato dal seguente frammento di Timone di Fliunte, l’allievo di Pirrone:
“O vecchio, o Pirrone, come e dove trovasti scampo dalla servitù alle vane e false opinioni dei Sofisti, e spezzasti le catene di tutti gli inganni e l’incanto delle loro ciance? Né ti curasti di investigare quali venti corrano nell’Ellade, né da che si formi ogni cosa e in che si risolva”.
Il rifiuto dell’ontologia platonica, dell’Idea, della forma e della sostanza aristotelica è netto. L’Idea platonica e la forma aristotelica, sia pure in differente modo, fondano la natura delle cose, la loro intelligibilità e, quindi, la possibilità della loro conoscenza, nonché la stabilità e l’eternità dei valori. Tutte le cose, insomma, nell’ontologia platonico-aristotelica, hanno una «stabilità nell’essenza», e pertanto possiedono una differenziazione, una misura e una discriminazione oggettiva. Al contrario, secondo Pirrone le cose non hanno alcuna differenza, né misura, né discriminazione. Ne segue che non esistono valori, e niente è per natura brutto o bello, buono o cattivo, giusto o ingiusto e tutto indifferentemente si equivale (e anche non si equivale), giacché per Pirrone niente è più questo che quello.
Potremmo dunque affermare che egli respinge le istanze di ogni forma di ontologia in quanto tale. Infatti, mentre il cammino dell’ontologia va dalle apparenze all’essere, all’opposto Pirrone si ritrae dall’essere alle apparenze, negando recisamente che ci sia l’essere, e quindi che sia possibile qualsiasi giudizio sull’essere e riconoscendo per conseguenza soltanto l’apparire. Dunque, secondo Pirrone, non domina l’essere ma l’apparire:
“Il fenomeno domina sempre, dovunque appaia”. (Timone, fr.69 Diels)
Ma come e che cosa può costruire Pirrone su questo azzeramento dell’essere e dei suoi principi?
I Sofisti, che negarono l’essere e la verità, spostarono la loro fiducia sull’uomo, inteso come «misura di tutte le cose»; Pirrone non ha più fiducia nemmeno nell’uomo, perché ne sente la nullità. Non a caso, ci viene riferito che Pirrone apprezzava i versi di Omero in cui si canta la fragilità, la pochezza, la miseria e la nullità dell’uomo:
“Filone ateniese, suo intimo amico, diceva che Pirrone menzionava spessissimo Democrito, ma poi anche Omero, che egli ammirava e di cui era solito citare il verso:
Quale la stirpe delle foglie, tale anche quella degli uomini.
E lo lodava anche perché soleva paragonare gli uomini alle vespe, alle mosche e agli uccelli. E citava volentieri anche i seguenti versi:
Dunque, amico, pure tu muori! Perché così piangi il tuo [destino]?
Morì anche Patroclo che era molto più valoroso di te.
E tutti i passi che alludono all’instabilità della condizione umana, all’inutilità dei propositi e alla fanciullesca follia dell’uomo”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 67)
Allora, se criterio non è più l’essere e se criterio non può essere nemmeno l’uomo, dove lo cercheremo? La risposta di Pirrone è: «da nessuna parte». Il criterio è la rinuncia al criterio.
Riferisce il peripatetico Aristocle, attingendo direttamente dalle opere di Timone di Fliunte:
“[Pirrone] non ha lasciato nulla di scritto, ma il suo discepolo Timone dice che colui che vuole essere felice deve considerare queste tre cose: 1) in primo luogo, quale è la natura delle cose; 2) in secondo luogo, in quale modo dobbiamo disporci nei confronti di esse; 3) in terzo luogo; che cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione. 1) Orbene, egli dice che Pirrone mostra che le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili e per questo né le nostre sensazioni né le nostre opinioni possono essere vere oppure false. 2) Per conseguenza, non bisogna accordare ad esse fiducia, ma bisogna essere senza opinione, senza inclinazione, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. 3) Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno, dice Timone, in primo luogo l’afasia, e poi l’atarassia”. (Aristocle, fr.6 Heiland)
Questo passo contiene nei tre punti che sono così lucidamente stabiliti lo statuto dello Scetticismo pirroniano e quindi la matrice dalla quale scaturiranno tutte le forme dello Scetticismo posteriore.
Ma, prima di passare all’analisi dei tre punti, è bene sottolineare il significato e la portata della premessa, in cui si dice che la considerazione di questi punti deve essere fatta da «colui che vuole essere felice». L’aspetto «eudemonistico» prevale, dunque, nettamente nel pensiero di Pirrone.
I tre principi cardinali dello Scetticismo pirroniano esprimono un sistema pratico di saggezza, e in questo spirito vanno letti e interpretati.
Dei tre il più difficile da interpretare è il primo, che è anche il più importante.
La difficoltà sta in questo: le cose sono in se stesse indifferenti, immisurabili e indiscernibili, oppure sono tali non in se stesse, ma solo per noi?
L’indifferenza delle cose è oggettiva o soggettiva?
La maggior parte degli interpreti (in gran parte sotto l’influenza dello Scetticismo posteriore) ha creduto che Pirrone intendesse dire semplicemente che noi uomini non abbiamo strumenti adeguati (sensi e ragione) per riuscire a cogliere le differenze, le misure e le determinazioni delle cose. Ma, in realtà, il testo pare affermare il contrario: non dice, cioè, che, poiché sensi e opinioni sono inadeguati, le cose per noi risultano indifferenziate, immisurate e indiscriminate; ma dice, all’opposto, che le cose stesse sono indifferenti, immisurate e che proprio in conseguenza di questo sensi e opinioni non possono né dire il vero né il falso. Insomma, sono le cose che rendono sensi e ragione incapaci di verità e di falsità, e non viceversa. È, questa, una conseguenza necessaria che scaturisce dalla negazione dell’essere, dell’eidos e della sostanza, è, cioè, la posizione che scaturisce dalla negazione dell’ontologia platonico-aristotelica.
Una chiara conferma la troviamo in un passo di Diogene Laerzio:
“Pirrone diceva che niente è bello né brutto, niente è giusto né ingiusto, e similmente applicava a tutte le cose il principio che nulla esiste in verità e sosteneva che tutto ciò che gli uomini fanno accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello”. (Vite dei filosofi, IX, 61)
I valori etici e in genere tutti i valori, così come tutte le cose, non hanno una loro statura ontologica, appunto perché «nulla esiste in verità».
Invece dell’essere, quindi, si pongono come determinanti la «convenzione» (il nomos) e il «costume» (l’ethos).
Aristotele aveva indicato la sostanza come essere per eccellenza e l’aveva definita come «un qualcosa di determinato»; per contro Pirrone rovescia la posizione aristotelica: «ciascuna cosa non è più questo che quello».
Non contraddicono questa interpretazione, anzi la riconfermano, due celebri frammenti di Timone:
(1) “Non affermo che il miele è dolce, ma riconosco che appare dolce”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 105)
Il che significa che in sé il miele, essendo come ogni cosa indeterminato, è inqualificabile, mentre qualificabile è solo l’apparire. Non vuol dire che esiste un miele come cosa in sé dotato di una sua natura ma da noi non raggiungibile; il miele non ha una sua natura, e il suo apparire, se da me è qualificabile come dolce, da un altro (cui il miele non piace) può essere qualificato in altro modo. L’essere, insomma, non è espresso, perché non c’è, è espresso solo l’apparire.
Di conseguenza, all’«essere» si sostituisce l’«apparire».
(2) “Il fenomeno domina sempre, dovunque appaia”. (Timone, fr.69 Diels)
Questo «fenomeno» o «apparenza», dagli Scettici posteriori è stato trasformato nel fenomeno inteso come apparenza di un qualcosa che è al di là dell’apparire, ossia di una «cosa in sé», e da questa trasformazione sono state tratte numerose deduzioni che, per la verità, non sembrano essere presenti in Pirrone.
Pirrone tuttavia non è giunto tanto avanti da risolvere tutto nell’«apparenza pura e universale» in modo preciso. Infatti la risoluzione di tutte le cose nella pura apparenza senza alcun residuo avrebbe portato non già al dubbio assoluto, bensì alla certezza assoluta, perché, se tutto si risolve nell’apparire, le cose sono così appunto come appaiono e non diversamente.
Riguardo alla sua concezione della natura del divino c’è un frammento di Timone che mostra chiaramente come fosse assai complessa.
Viene domandato a Pirrone:
“O Pirrone, questo il mio cuore desidera di apprendere da te, come mai tu, pur essendo uomo, ancora così facilmente conduci la vita tranquilla, tu che solo sei guida agli uomini, simile a un Dio”. (Timone, fr.67, Diels)
Risponde Pirrone:
“Io ti dirò in verità come mi sembra che sia, prendendo come retto canone questa parola di verità: che vive eternamente una natura del divino e del bene, da cui deriva all’uomo la vita più eguale”. (Sesto Empirico, Contro i matematici, XI, 20)
Come intendere questa «natura del divino e del bene» e il conseguente «retto canone»?
Ha notato a tal proposito lo studioso E. Brèhier: «un accento religioso di questo genere ha qualcosa di enigmatico; il Dio che Pirrone venera non è una provvidenza del mondo né degli uomini come il Dio degli Stoici; è solamente come l’essere perfettamente stabile davanti al quale svaniscono gli aspetti diversi e fuggevoli del reale».
Che Pirrone abbia creduto in un Dio è, per altro verso, confermato anche dal fatto che ci viene espressamente riferito che i suoi concittadini lo scelsero come sommo sacerdote.
Ma come conciliare queste affermazioni con tutte le altre sopra esaminate?
Due ipotesi si possono fare per rispondere al problema.
La prima è che Pirrone risenta l’influsso delle dottrine dei Megarici, dei quali fu discepolo. Anche i Megarici, con la loro dialettica, tentavano di ridurre la molteplicità delle cose, il movimento e il divenire ad apparenza, ma questo facevano appunto per guadagnare la realtà dell’Uno-Bene, che era il loro Dio, come risulta chiaro soprattutto dai frammenti di Euclide.
La seconda è che Pirrone risenta altresì dell’influsso di dottrine orientali, peraltro da noi incontrollabili. Ma anche stando semplicemente alla prima di queste ipotesi, la posizione di Pirrone si può spiegare.
Le cose, secondo Pirrone, risultano mere apparenze non già in funzione del presupposto dualistico dell’esistenza di «cose in sé» a noi come tali inaccessibili, bensì in funzione della contrapposizione appunto a quella «natura del divino e del bene» di cui parla il frammento di Timone. Misurato con il metro di questa «natura del divino e del bene» tutto appare a Pirrone come irreale.
L’analogia fra questa posizione radicale di Pirrone e quella megarica spiega anche le analogie fra le rispettive posizioni pratiche di fronte alle cose: i Megarici predicavano l’«apatia» intesa come un ne sentire quidem, come ci riferisce Seneca; Pirrone predica la medesima dottrina (radicalizzandola) e anche per lui, come attesta Cicerone, la posizione del sapiente è l’«apatia» intesa come un ne sentire quidem.
Se così è, non si può negare l’esistenza di un sottofondo religioso che ispira lo Scetticismo pirroniano. L’abisso che egli scava fra l’unica «natura del divino e del bene» e tutte le altre cose, implica una visione quasi mistica delle cose e una valutazione della vita di un rigore estremo, appunto perché non concede alle cose del mondo alcun significato autonomo, mentre concede realtà al divino e al bene.
Se le cose sono indifferenti, immisurabili e indiscernibili e se, di conseguenza, senso e ragione non possono dire né il vero né il falso, l’unico atteggiamento corretto che l’uomo può tenere è quello di non dare alcuna fiducia ai sensi né alla ragione, ma restare adoxastos vale a dire rimanere «senza opinione», ossia astenersi dal giudizio (l’opinare è sempre un giudicare), e, per conseguenza, deve anche restare senza alcuna inclinazione (non inclinare verso una cosa piuttosto che verso un’altra), e restare senza agitazione, ossia non lasciarsi scuotere da alcuna cosa, rimanere indifferenti.
Questa «astensione dal giudizio» venne successivamente espressa con il termine «epoché», di derivazione stoica. Come è stato recentemente messo bene in rilievo, Zenone di Cizio affermava la necessità per il saggio di non dare l’assenso, ossia di «sospendere il giudizio» (epoché), di fronte a ciò che è incomprensibile (e di dare l’assenso solo a ciò che è evidente); Arcesilao e Carneade, in polemica con gli Stoici, sostengono che il saggio deve «sospendere il giudizio» su ogni cosa, perché nulla è evidente.
Il termine «epoché» fu quindi ripreso anche dal neopirroniano Enesidemo di Cnosso per esprimere il concetto dell’«astensione dal giudizio» e divenne un termine tecnico e venne esteso a Pirrone. Sembra corretto, dunque, concludere che Pirrone parlava di «assenza di giudizio» o «mancanza di giudizio», e che il termine «epoché» è posteriore.
Questa posizione di «totale astensione dal giudizio» è di una coerenza adamantina rispetto al principio che nega alle cose l’essere e l’essenza e quindi nega la legge fondamentale dell’essere, ossia la non-contraddizione.
Scriveva Aristotele, riferendosi ai negatori della suprema legge dell’essere:
“È evidente che la discussione con tale avversario non può vertere su nulla, perché egli non dice nulla: infatti, egli non dice né che la cosa sta così, né che non sta così, ma dice che la cosa sta così e non così, e poi, daccapo, egli nega e l’una e l’altra affermazione, e dice che la cosa né sta così né non così”. (Aristotele, Metafisica, IV, 4, 1008 e 30-33)
Ebbene, la posizione che Pirrone assume è esattamente questa:
“Bisogna essere senza opinione […] affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno in primo luogo l’afasia […]”. (Aristocle, presso Eusebio, Praep. evang, XIV, 18, 3)
Sono parole che, se anche storicamente non sono una risposta ad Aristotele, rappresentano tuttavia l’ideale antitesi delle sue affermazioni.
È chiaro che ciò che sul piano teoretico è la mancanza di giudizio, sul piano pratico è l’indifferenza (adiaphoria) per le cose, appunto per la ragione che nulla è più questo che quello.
Ed ecco come, nella sua vita, Pirrone compie con assoluta indifferenza quelle cose che per un Greco erano servili e ignobili:
“Visse piamente insieme con la sorella, che era ostetrica, secondo la testimonianza di Erastotene nella sua opera Ricchezza e povertà, ove si narra che talvolta Pirrone portava a vendere al mercato, secondo i casi, uccellini o maialetti e faceva le pulizie di casa con perfetta indifferenza. Si dice anche che un’altra prova di indifferenza la dava lavando lui stesso un porcellino”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 66)
Naturalmente, sorge spontanea l’obiezione che tale indifferenza non può andare oltre certi limiti: per esempio non può essere mantenuta di fronte ai presunti pericoli.
Pirrone, tuttavia, cercando di essere coerente con il suo pensiero, manifestava indifferenza anche nelle situazioni di pericolo, lasciandosi investire dai carri (dato che non poteva dire se ciò fosse un bene oppure no):
“La sua vita fu coerente con la sua dottrina. Lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, e assolutamente nulla concedeva all’arbitrio dei sensi. Ma, secondo la testimonianza di Antigono di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 62)
“Non perdeva mai la sua compostezza, così che se qualcuno lo piantava nel mezzo del discorso, egli lo finiva per conto suo, benché in giovinezza sia stato piuttosto facilmente irritabile […].
Quando una volta Anassarco cadde in un pantano, Pirrone continuò la sua strada senza aiutarlo. Qualcuno gli rimproverò un tal comportamento, ma Anassarco stesso lodò la sua indifferenza e la sua impassibilità”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 63)
Più volte, nella Metafisica, Aristotele ribadisce il concetto che chi nega il supremo principio dell’essere, per restare coerente con questa negazione dovrebbe tacere e non esprimere assolutamente nulla.
E tale è precisamente la conclusione che trae Pirrone proclamando l’«afasia».
Ora, l’afasia non è il non-parlare in assoluto ossia l’assoluto silenzio, ma il tacere sulla natura e sull’essere delle cose, il non giudicare «é» o «non é» di nulla.
L’afasia resterà un atteggiamento tipico di tutto lo Scetticismo.
Il distacco dalle cose, che raggiunge il momento culminante nell’«afasia», comporta l’«atarassia», cioè la mancanza di turbamento.
Riportiamo due testimonianze significative:
“Mentre i suoi compagni di viaggio su una nave si erano incupiti a causa di una tempesta, egli rimaneva tranquillo e riprendeva animo, additando un porcellino che continuava a mangiare e aggiungendo che una tale imperturbabilità era esemplare per il comportamento del sapiente”. (Posidonio, presso Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 68)
“Si narra inoltre che quando per qualche ferita gli furono applicati medicamenti corrosivi o dovette subire tagli o cauterizzazioni, non contrasse neppure le ciglia”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 67)
È difficile non riconoscere, in questi esempi, gli influssi dei Gimnosofisti e di Calano.
Scrive Cicerone:
“Secondo Aristone il bene consiste nel non essere in queste cose [intermedie fra virtù e vizio] mosso né da una parte né dall’altra e che da lui vien chiamato adiaforia. Ma Pirrone dice che il saggio non le sente neppure e chiama questo apatia”.
Anche Diogene Laerzio conferma:
“Il fine degli scettici è l’apatia” (Vite dei filosofi, IX, 108).
L’apatia pirroniana è dunque l’insensibilità. Si tratta, come Cicerone ha detto a ragione, non solo di essere indifferenti e senza turbamento, ma di non sentire neppure (ne sentire quidem). Questo è possibile per mezzo di una modificazione del modo di ricevere le impressioni: invece di classificarle come buone o cattive, occorre lasciarle a sé medesime senza emettere giudizio.
L’«apatia» è un punto di arrivo; e lo stesso Pirrone, talvolta, non riuscì a essere insensibile:
“Ma una volta perdette la calma per un’ingiuria arrecata a sua sorella – che si chiamava Filista – e a chi lo riprendeva disse che una donna non è una buona pietra di paragone per l’indifferenza. Un’altra volta fu messo in agitazione dall’assalto di un cane e replicò che era difficile spogliare completamente l’uomo soggiungendo che contro le cose bisogna, in primo luogo, se è possibile, lottare con i fatti, se no con la ragione”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 66)
Questo «spogliare completamente l’uomo» non ha come fine l’annullamento totale dell’uomo, ossia il non-essere assoluto, ma, al contrario, coincide con la realizzazione di quella «natura del divino e del bene da cui deriva all’uomo la vita più eguale», di cui parla il frammento di Timone, ossia la realizzazione di quella vita che non sente il peso delle cose, le quali, rispetto a quella natura, non sono che indifferenti, immisurate e indiscriminate apparenze.
Il successo che Pirrone raccolse fu assai cospicuo.
Molti dei tratti del saggio stoico ripetono quelli del saggio scettico; Epicuro stesso
ammirava il modo di vivere di Pirrone. E, nella sua patria, il nostro filosofo ebbe stima e onori al punto «da essere eletto sommo sacerdote», e già Timone lo cantò come «simile a un dio».
TIMONE DI
FLIUNTE
Tornato in
Grecia intorno al 324, Pirrone da Elide – il padre dello Scetticismo – fondò
una sua scuola in Elide; richiamandosi all’esperienza e all’insegnamento di
Socrate, deliberatamente non lasciò nulla di scritto. Le dottrine dello
scetticismo antico ci sono note attraverso le testimonianze dei suoi scolarchi
e del dossografo Diogene Laerzio; tra i primi, il più importante fu Timone
di Fliunte (325/320-235/230), ex-ballerino convertitosi alla filosofia
dopo aver ascoltato il megarico Stilpone e poi Pirrone. Alla morte di questi,
girò per le colonie greche assorbendo la cultura ellenistica, specialmente nei
suoi aspetti letterari e retorici; intorno al 275, aprì ad Atene una scuola che
diffuse l’insegnamento di Pirrone. Il suo scritto più importante furono I
Silli, un’opera in versi sul modello omerico nella quale si fa la satira
delle dispute tra i filosofi delle varie scuole con accenti di vivace polemica
ed a volte di vera e propria invettiva.
Lo scetticismo di Pirrone intende valorizzare innanzitutto un atteggiamento
critico nei confronti del problema della conoscenza, e in particolare rispetto
al rapporto sensazione-riflessione: come è possibile passare dalle sensazioni
(così varie e particolari e sempre legate alla soggettività) attraverso il linguaggio
(così pieno di insidie e di ambiguità) ad una verità che abbia le
caratteristiche dell’universalità? Questo atteggiamento critico (da cui deriva
lo stesso termine scetticismo, da skèptomai = mi guardo intorno, indago,
osservo, o da skèpsis = dubbio, coscienza critica) è stato in fondo
sempre presente nella tradizione letteraria e filosofica greca, e gli scettici
lo sottolineano infatti in Omero e in Euripide, in Archiloco e in Senofane, in
Empedocle, Eraclito, Zenone, Protagora e Democrito. La stessa ricerca socratica
viene dagli Scettici intesa come l’affermazione più chiara
dell’irraggiungibilità di un sapere vero: chi afferma di poter giungere alla
verità non è che un dommatico.
“Gli Scettici si dedicarono in profondità al capovolgimento di tutte le dottrine dommatiche dei vari indirizzi filosofici, senza fare essi stessi alcuna dichiarazione di stampo dommatico, fino al punto di profferire soltanto i dommi degli altri e di discutere senza dare alcuna definizione”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi IX,74)
Se la verità non è che dogma, e se tutte le opinioni si equivalgono, l’unico atteggiamento saggio sarà quello dell’epoch, della "sospensione del giudizio": non definire nulla, avere coscienza che ad ogni argomentazione si oppone un’altra argomentazione, significa adottare contro la logica dell’«è» la logica del "non più". Ogni cosa ed ogni concetto esistono "non più" di altri, ed anzi una singola cosa ed un singolo concetto "non più esistono che non esistano":
“Pertanto questa locuzione, come dice Timone, intende significare
"il non definire nulla e il non ammettere opinione alcuna". Anche
l’espressione "ad ogni argomentazione si oppone un’argomentazione"
contiene implicitamente la sospensione del giudizio [epoch]: infatti alla
discordanza delle cose reali ed all’equipollenza delle argomentazioni consegue
l’ignoranza della verità”.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi IX,76)
L’epoch e la logica del "non più" stavano ad indicare la perdita di ogni criterio valido per il raggiungimento della verità, e quindi di ogni sistema di riferimento valido in sé, e cioè di una "natura" oggettivamente data: non esiste nulla "per natura", né c’è un rapporto tra le cose come sono "per natura" e come "appaiono", perché le cose si limitano solo ad apparire, ed è questo apparire soltanto la vera natura delle cose. Ma la perdita del criterio significava per gli Scettici non solo l’afasia, cioè il non parlare, il non pronunciarsi sulle cose, ma soprattutto la conquista di quella atarassia, cioè imperturbabilità e tranquillità "di fronte" al mondo delle cose, che costituiscono appunto il fine e forse la felicità dell’uomo veramente saggio.
“Timone afferma che chi aspira alla felicità deve tendere a queste tre cose: in primo luogo a rendersi conto della natura delle cose, in secondo luogo ad assumere un adeguato comportamento nei confronti di queste, e, infine, a capire cosa accadrà a quelli che così abbiano agito. Aristotele osserva che, per quanto concerne le cose, Timone le dichiarava tutte quanti indifferenti, instabili e non-giudicabili e aggiungeva, perciò, che né i nostri sensi né le nostre opinioni sono nel vero o nel falso. Per questo motivo, allora, non si deve prestar fede né ai sensi né alle opinioni, ma dobbiamo essere privi di opinione, non essere inclini a nessuna soluzione e non lasciarci scuotere da nulla, ma dobbiano dire, a proposito di ogni cosa particolare, che essa esiste "non più" che non esista, oppure che essa "è e non è" e non semplicemente che essa non è. E Timone sostiene che a quanti si trovano in questa disposizione d’animo consegne anzitutto l’afasia e, in secondo luogo, l’imperturbabilità”. (Aristocle in Eusebio, P.E. 758 d)
La scuola di Timone non ebbe discepoli illustri, ma l’atteggiamento scettico conquistò l’Accademia platonica con Arcesilao di Pitane (315-240).
TEOFRASTO
Accanto al Giardino di Epicuro e alla Stoà degli Stoici continuarono ad operare in Atene, nell’età ellenistica, l’Accademia platonica e il Peripato aristotelico. Alla morte di Aristotele nel 322 a.C. gli era successo nella direzione della scuola Teofrasto, soprannome (che in greco significherebbe ‘divino parlatore’) che gli fu attribuito dallo stesso Aristotele. In realtà Tirtamo era il vero nome di questo pensatore nato ad Ereso, nell’isola di Lesbo, verso il 370 a.C. Appartenente a famiglia benestante (il padre possedeva una ben avviata industria per la follatura dei tessuti), Teofrasto potè ben presto trasferirsi ad Atene per seguire gli studi di filosofia. Il suo primo maestro fu Platone in persona, alla cui scuola rimase fino alla morte del filosofo (347 a.c. circa); il sodalizio di Teofrasto con Aristotele iniziò poco dopo, quando i due ebbero modo di incontrarsi ad Asso o a Militene fra il 347 e il 345. Lo Stagirita ebbe subito modo di apprezzare le grandi qualità del giovane allievo e gli dimostrò la propria stima affidandogli la direzione del Peripato nel 323 a.C., quando dovette allontanarsi da Atene sotto l’infamante accusa di empietà. La medesima accusa colpì anche Teofrasto, il quale però, a differenza del maestro, non ne rimase minimamente danneggiato. Nel 318 a.C. egli dovette però abbandonare il capoluogo attico perché un decreto impediva ai filosofi di tenervi scuola, ma l’anno successivo il decreto fu abrogato e Teofrasto potè rientrare in città e riprendere la guida del Peripato, che mantenne senza altri rilevanti incidenti fino alla sua morte, avvenuta all’incirca nel 286 a.C. E’ opportuno ricordare che, sempre nel 318, Demetrio Falareo fu posto a capo del governo di Atene e concesse a Teofrasto, che era un meteco (ovvero uno straniero non cittadino), il diritto di acquistare una proprietà come sede della scuola aristotelica. Alla sua morte, Teofrasto lasciò in eredità la biblioteca di Aristotele a Neleo, anch’egli aristotelico, che la portò con sé fuori Atene, dove rimase inaccessibile fino al I secolo a.C. Nell’arco di un’esistenza trascorsa interamente a studiare e a riflettere (sul letto di morte, ottantacinquenne, si sarebbe rammaricato di dover morire proprio quando cominciava ad imparare qualcosa), Teofrasto fu autore di circa 240 opere che spaziavano dalla morale alla politica, alla fisica, alla metafisica, alla logica, alla retorica, alla poetica, alla botanica, alla zoologia: in pratica gli stessi campi che erano stati esplorati dal maestro Aristotele. Con lo Stagirita Teofrasto condivideva vastità di interessi e un sapere altrettanto enciclopedico, pronto ad investigare su qualsiasi argomento, dal più complesso al più banale (ad esempio la meteorologia, il miele, gli odori, la vertigine, il sudore e altro ancora), sempre con la curiosità e il piglio analitico dello scienziato. Tuttavia non è facile oggi riconoscere i concreti contributi teofrastei all’opera aristotelica pervenutaci, né stabilire se egli sia stato soltanto uno zelante e prezioso sistematore degli scritti del maestro; certo è che contribuì al progresso di indagini scientifiche (come quella sulla botanica) già avviate da Aristotele. Ben poco ci è pervenuto della vasta produzione di Teofrasto: qualche centinaio di frammenti e tre opere complete, delle quali due trattano di botanica ( Ricerche sulle piante , in 9 libri, e Sulle cause delle piante , in 6 libri) e una, i Caratteri , risulta non facilmente ascrivibile ad un genere preciso. Di altri scritti possiamo formarci un’idea da estratti conservatici in via indiretta, come nel caso del trattato Sulla religiosità . Per i moderni, però, la celebrità di Teofrasto è legata essenzialmente all’opera generalmente nota col titolo di Caratteri ( Htikoi carakthreV ) che costituisce una novità nella letteratura greca. In questa vivace e piacevole operetta sono descritte trenta particolari disposizioni (caratteri) della natura umana:
1 l’essere bugiardi, 2 l’adulazione, 3 il parlare a vanvera, 4 la rustichezza, 5 il cercare a tutti i costi di essere graditi, 6 la spudoratezza, 7 la loquacità, 8 il contare balle, 9 l’essere arraffoni, 10 la tirchieria, 11 la maleducazione, 12 l’essere inopportuni, 13 l’essere impiccioni, 14 la sventatezza, 15 la zoticheria, 16 la superstizione, 17 l’incontentabilità, 18 la diffidenza, 19 la schifezza, 20 la mancanza di tatto, 21 la vanità, 22 la taccagneria, 23 la millanteria, 24 la superbia, 25 la viltà, 26 l’essere reazionari, 27 il voler essere giovani, 28 la maldicenza, 29 la furfanteria, 30 l’avarizia.
Ciascuna di queste particolari disposizioni umane si incarna in un tipo ben definito (l’adulatore, lo sfacciato, il tirchio e via discorrendo), cioè un individuo con costanti caratteristiche di comportamento. La rappresentazione di ciascun carattere segue uno schema sostanzialmente uniforme: ad una chiara e precisa definizione del tipo preso in esame, segue la sua descrizione ricavata ‘dal vivo’ tramite una vasta esemplificazione di situazioni concrete nelle quali quel carattere ha modo di rivelarsi. Lo stile col quale Teofrasto tratteggia le tante scenette di vita quotidiana è essenziale, privo di artifici o ridondanze, tipico del distacco dello scienziato che effettua un’analisi. E da scienziato Teofrasto evita di esprimere giudizi di ordine etico sui caratteri presi in esame, facendo trasparire soltanto un’aria di sottile divertimento quando l’esemplificazione tocca momenti umoristici, come nella descrizione del rustico, che quando si trova a camminare per una strada non resta stupito da niente o da nessuno, e invece si ferma ad ammirare ogni volta che passa un bue, un asino o un caprone. L’operetta riscosse grande successo fin dall’antichità e ciò ha senz’ombra di dubbio contribuito alla sua conservazione; di essa però restano ignoti sia lo scopo sia il destinatario, nonostante i numerosi studi critici. Fra gli studi di Teofrasto sulla retorica ebbero un posto particolare, per l’influenza che esercitarono sui successivi sviluppi della disciplina, il trattato Sullo stile e la Retorica , entrambi andati perduti. In essi trova spazio la dottrina dei tre stili (sublime, umile e medio, dai latini identificati rispettivamente con quello asiano, attico e rodio) e delle 4 virtutes dicendi (così definite nel complesso da Cicerone, nell’ Orator ), consistenti nell’ ellhnismoV (la purezza dell’eloquio greco), nella safhneia (la chiarezza espressiva), nel prepon (il decoro espressivo) e nella kataskeuh (l’elaborazione). Per quel che riguarda la botanica , Teofrasto è considerato il più grande botanico dell’antichità: in Historia Plantarum (Ricerche sulle piante) classifica le piante in alberi, frutici, suffrutici, erbe, classificando poi ulteriormente all´interno di questi grandi raggruppamenti per genere e specie; il libro IX di quest´opera va considerato come l´antenato delle materie mediche nell´antichità classica, con il suo lungo elenco di droghe e medicinali ed annesso valore terapeutico. Nel De plantarum causis (Cause delle piante) si ammettono la generazione spontanea e la vegetazione per cause esterne, e si parla della coltura di piante utili all´economia agraria. Del De ventis spesso si è pensato che si limitasse ad esporre le teorie di Aristotele, mentre un suo esame più approfondito suggerisce che a Teofrasto si debba una quantità di contributi nuovi e significativi: l´operetta, con la sua opzione di favore del metodo induttivo e con il suo notevolissimo empirismo, prende significative distanze dai Meteorologica aristotelici. Importante è anche il trattatello Sulla musica ( Peri musikhV ), conservatoci dal commentario di Porfirio alle Armonie di Tolomeo, nel quale si argomenta che le note musicali possono essere rappresentate da numeri, senza però ipotizzare nessuna relazione oggettiva fra la lunghezza d´onda delle note e la quantità del numero. Ma Teofrasto si occupò anche di logica , tanto cara ad Aristotele, e studiò la nozione di possibile e costruì una teoria dei sillogismi ipotetici, dove le premesse hanno la forma del tipo “se A è B”. Un esempio di sillogismo totalmente ipotetico è il seguente: se c’è uomo, c’è animale; se c’è animale, c’è sostanza; se dunque c’è uomo, c’è sostanza. Uno scritto di Teofrasto che ebbe grande influenza sullo sviluppo della tecnica delle discussioni filosofiche nell’antichità fu quello intitolato le Opinioni dei fisici ( in latino Physicorum placita ) , di cui ci sono giunti pochi frammenti. In quest’opera Teofrasto esponeva le opinioni (in greco doxai ) dei filosofi chiamati dai moderni “presocratici” e già da Aristotele “fisici”, ovvero filosofi della natura. Da tale opera prese origine la cosiddetta letteratura dossografica antica: trattasi di repertori di opinioni raggruppate sotto temi, le quali esponevano in forma succinta le soluzioni più significative date da filosofi diversi ad un determinato problema (ad esempio, come si è formato il mondo? Esiste la divinità?).
DIOGENE
Accanto alle scuole filosofiche esistono individui che praticano la filosofia senza risiedere in luoghi stabili oppure senza raccogliere intorno a sè gruppi permanenti e discepoli. Un esempio lampante di questo tipo di filosofo é Diogene di Sinope (400-325 a.C. circa) che visse ad Atene e divenne ben presto l’esempio del sapiente cinico, che mira alla completa autosufficienza (autarkeia) rispetto ai bisogni indotti dalla vita in società. Nessuno dei suoi scritti ci é pervenuto, ma intorno alla sua figura fiorì una vasta letteratura di aneddoti, dalla quale é possibile inferire i tratti dominanti del suo insegnamento. Riprendendo la distinzione tra natura (fusiV) e leggi o convenzione (nomoV) – distinzione al centro della speculazione sofistica -, Diogene individua i modelli di vita naturale nel comportamento degli animali, dei mendicanti e dei bambini. Con Diogene emerge, forse per la prima volta sullo scenario greco, l’idea che il bambino rappresenti una natura buona non ancora corrotta dai bisogni artificiali prodotti dalla vita associata, in contrapposizione all’ideale corrente (avvalorata dallo stesso Aristotele) che vedeva nell’uomo maturo l’esemplare del vero uomo e il bambino come mero "uomo in potenza", privo di valore in sè. Partendo da questi presupposti, Diogene rifiuta drasticamente, non senza esibizionismo, le convenzioni e i tabù sessuali e alimentari (per esempio, cibarsi di carni non cotte), oltre che i valori correnti come la ricchezza, il potere, la gloria. Il cinico si addestra a ciò con un duro esercizio (askhsiV) fisico e morale – basti ricordare che Diogene per dimora aveva una botte – e non attraverso indagini teoriche, che egli svalutava completamente, sulla scia del fondatore del cinismo (Antistene). In tal modo, egli mira a porsi in una situazione al tempo stesso di eccezionalità e di marginalità rispetto alla vita del cittadino integrato nella poliV, ma senza pretendere di costruire forme alternative di organizzazione politica. Il filosofo cinico non é radicato in una città, anche se vive itinerando per le città, dove presenta se stesso come modello di vita. La libertà di parola (parrhsia), che negli aneddoti sulla sua vita Diogene rivendica anche di fronte ad Alessandro Magno, é nel parlare francamente senza timore ai potenti, non nel diritto di esprimersi in organismi dove si prendono decisioni politiche. Un’ampia sezione del libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio é dedicata a Diogene il cinico e alla fama che aleggiava intorno alla sua enigmatica figura. Essa dà un’idea del modo in cui era costruita la biografia esemplare di un filosofo destinata alla lettura da parte di un pubblico che non fosse formato di soli filosofi. Ingredienti di essa sono, più che dottrine o ragionamenti articolati, osservazioni di fatti della vita di Diogene, per esempio l’influenza che i comportamenti degli animali o dei bambini hanno rispetto alle scelte decisive della vita, in primo luogo a proposito della necessità di limitare drasticamente i bisogni. Il modo di vita del cinico, nel modo di vestire, nel tipo di abitazione e così via. Inoltre, egli impartisce i suoi insegnamenti, più che attraverso lunghi discorsi o complicati ragionamenti, mediante battute rapide e incisive (dette "apoftegmi") o addirittura attraverso i gesti, come mettendosi a camminare per rispondere a colui che, come Diodoro Crono, appartenente al filone megarico, negava la realtà del movimento. Riportiamo qui alcuni passi sulla vita e sulla filosofia di Diogene : “giunto in Atene si imbattè in Antistene. Poichè costui, che non voleva accogliere nessuno come alunno, lo respingeva, egli, assiduamente perseverando, riuscì a spuntarla. Ed una volta che Antistene allungò il bastone contro di lui, Diogene gli porse la testa aggiungendo: “Colpisci pure, chè non troverai un legno così duro che possa farmi desistere dall’ottenere che tu mi dica qualcosa , come a me pare che tu debba”. Da allora divenne suo uditore, ed esule qual era si dedicò ad un moderato tenore di vita ( … ). Una volta vide un topo correre qua e là, senza mèta (non cercava un luogo per dormire nè aveva paura delle tenebre nè desiderava alcunché di ciò che si ritiene desiderabile) e così escogitò il rimedio alle sue difficoltà. Secondo alcuni, fu il primo a raddoppiare il mantello per la necessità anche di dormirci dentro, e portava una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie; si serviva indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far colazione o per dormirci o per conversare. E soleva dire che anche gli Ateniesi gli avevano procurato dove potesse dimorare: indicava il portico di Zeus e la Sala delle processioni. In un primo tempo si appoggiava al bastone solo quando era ammalato, ma successivamente lo portava sempre, non tuttavia in città, ma quando camminava lungo la strada, insieme con la bisaccia ( … ). Una volta aveva ordinato ad un tale di provvedergli una casetta; poichè quello indugiava, egli si scelse come abitazione una botte, come attesta egli stesso nelle Epistole. E d’estate si rotolava sulla sabbia ardente, d’inverno abbracciava le statue coperte di neve, volendo in ogni modo temprarsi alle difficoltà ( … ). Una volta vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: "Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità". Buttò via anche il catino, avendo pure visto un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane. Ecco come ragionava: "Tutto appartiene agli dei; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni. Perciò i sapienti posseggono ogni cosa". Una volta vide una donna che supplicava gli dei in atteggiamento piuttosto sconveniente e le disse: "Non pensi, o donna, che il dio può stare dietro di te, poichè tutto é pieno della sua presenza, e che tu debba vergognarti di pregarlo scompostamente?" ( … ). In ogni modo egli era senza città, senza tetto, bandito dalla patria, mendico, errante, alla ricerca quotidiana di un tozzo di pane. Era solito dire di opporre alla fortuna il coraggio, alla convenzione la natura, alla passione la ragione. Mentre una volta prendeva il sole, Alessandro Magno sopraggiunto e fattogli ombra disse: "Chiedimi quel che vuoi". E Diogene, di rimando: "Lasciami il mio sole". Così rispose ad un tale che sosteneva che non esistesse il movimento: si alzò e si mise a camminare". Per Diogene il vero piacere consisteva nell’avere l’anima in allegria e in pace e che senza di questo nè le ricchezze di Medo nè quelle di Ciro fossero utili. Il sovrano Alessandro, per farsi gioco di lui che veniva chiamato il cinico, gli mandò un vassoio pieno di ossi e lui lo accettò e gli mandò a dire: "Degno di un cane il cibo, ma non degno di re il regalo". Riferisce Diogene Laerzio:
Navigando infatti verso Egina, fu preso dai pirati il cui capo era Scirpalo. Fu portato a Creta ed ivi esposto alla vendita. E chiedendogli l’araldo che cosa sapesse fare, Diogene rispose: ‘Comandare agli uomini’. Fu allora che egli additò un tale di Corinto che indossava una veste pregiata di porpora, il predetto Seniade, e disse: ‘Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone’. Seniade, invero, lo compra e lo porta a Corinto. Qui gli affidò l’educazione dei figli e l’amministrazione domestica. Diogene curò l’amministrazione in ogni riguardo, in modo tale che Seniade andava in giro dicendo: ‘Un demone buono è venuto a casa mia’. (…) Il medesimo Eubulo attesta che Diogene invecchiò presso Seniade e, morto, fu seppellito dai suoi figli. Chiedendogli al tempo Seniade come volesse essere seppellito, egli replicò: ‘Sulla faccia’. Domandandogliene quello la ragione, Diogene soggiunse: ‘Perché tra poco quel che è sotto si sarà rivoltato all’insù’. Disse questa battuta perché ormai i Macedoni dominavano, o da umili erano diventati potenti.
CRATETE DI TEBE
Il più cospicuo dei discepoli di Diogene di Sinope e, a un tempo, uno dei massimi esponenti del movimento cinico fu Cratete di Tebe, vissuto agli inizi del III secolo a.C.
Egli ribadì il concetto che il desiderio delle ricchezze e della fama per il saggio sono mali e disvalori, e sono invece beni e valori i loro contrari, vale a dire la «povertà»
e «l’oscurità», perché solo chi è povero e oscuro può realizzare l’«autarchia».
“Cratete vendette il suo patrimonio, che apparteneva a distinta famiglia, ne ricavò circa duecento talenti che distribuì ai suoi concittadini […]. Diocle afferma che Diogene lo persuase ad abbandonare i suoi campi al pascolo delle pecore ed a gettar in mare il denaro che avesse […]. Fu perseverante nel suo proposito né si lasciò distogliere dai suoi parenti che venivano a visitarlo e che spesso dovette inseguire col bastone. Demetrio di Magnesia narra che consegnò il suo danaro ad un banchiere, a condizione che se i suoi figli fossero rimasti profani ed incolti desse loro il denaro, ma se fossero divenuti filosofi lo distribuisse al popolo; perché i suoi figli, se si fossero dedicati alla filosofia, non avrebbero avuto bisogno di nulla”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 87)
Oltre che «povero» e «oscuro», il Cinico, anche per Cratete come per Diogene, deve essere «apolide». La polis, infatti, non è che un bene effimero e caduco, giacché essa può essere in ogni momento espugnata e non può offrire al saggio quel sicuro rifugio di cui egli ha bisogno per essere felice:
“La mia patria non ha una torre sola né un tetto solo; ma dove ci è possibile vivere bene, in ogni punto dell’universo, lì la mia città, lì la mia casa” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 98)
“Ad Alessandro che gli chiedeva se volesse che la sua città natale fosse ricostruita, rispose: «E a che servirebbe? Forse un Altro Alessandro la distruggerà»” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 93)
Cratete insistette in modo particolare nel denunciare la vanità dei beni del mondo e nello squarciare l’illusorietà che li ammanta.
Dice un suo frammento pervenutoci:
“I beni del mondo sono posseduti dalla vanità”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 86)
Alla domanda circa il vantaggio che aveva tratto dalla filosofia, Cratete rispose:
“Un quarto di lupini e il non curarsi di niente”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 86)
«Un quarto di lupini» significa lo stretto indispensabile per vivere, e il «non curarsi di niente» significa il preoccuparsi e il restar pago dello stretto indispensabile e il ritener vano e inutile tutto il resto.
Pare, inoltre, che Cratete abbia espressamente polemizzato contro l’edonismo, sostenendo che nessuna vita potrebbe essere felice se la felicità dovesse essere fatta coincidere con i piaceri. Infatti – egli argomentava – in nessuna stagione della vita dell’uomo il piacere sopravanza il dolore, e il bilancio totale di ogni vita registra sempre più dolori che non piaceri. In particolare poi egli, come i suoi predecessori, proclamò la necessità di tenersi lontani dai piaceri di Eros, che, più di altri, turbano l’«impassibilità» del saggio.
I Cinici contestarono l’istituto del matrimonio, o meglio del matrimonio come era tradizionalmente concepito. Cratete si sposò con Ipparchia, la quale aveva abbracciato le idee dei Cinici, e riuscirono di conseguenza a vivere un vero e proprio «matrimonio cinico», un matrimonio, cioè, che rovesciava i valori che ad esso venivano legati dalla società.
La totale svalutazione di questo istituto da parte di Cratete è confermata da due episodi: portò suo figlio, non appena divenne maggiorenne, in un postribolo (bordello) e gli disse che così «suo padre aveva celebrato le nozze». E diede sua figlia «in matrimonio in prova per trenta giorni ».
Con Cratete il Cinismo assunse un tono di filantropia, del tutto assente in Antistene e Diogene. Egli era sempre solerte a dispensare consigli a chi ne abbisognava; anzi spesso non attendeva che gli altri venissero da lui a chiederli, ma di sua iniziativa si recava da chi aveva bisogno.
La saggezza dei suoi consigli e i modi affabili con cui li dispensava erano tali che, per lui, nessuna porta di nessuna casa era chiusa, tanto che fu soprannominato l’«Apritore di porte».
“Era chiamato anche «apritore di porte» perché entrava in ogni casa a dar buoni consigli”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 86)
“Cratete, seguace di Diogene, dagli Ateniesi suoi contemporanei fu venerato come un dio tutelare della casa: nessuna casa restava per lui chiusa, e per quanto il luogo in cui si trovava il capofamiglia fosse nascosto, Cratete vi entrava tempestivamente come arbitro e giudice di tutte le liti e contese familiari”. (Apuleio, Florida, 22)
“Si recava nelle case degli amici, senza essere chiamato oppure chiamato, per riconciliare fra di loro i familiari, se mai s’accorgeva che erano in discordia . Egli riprendeva non aspramente, ma dolcemente, in maniera da non aver l’aria di accusare coloro che riprendeva, perché voleva essere utile a loro e anche a quelli che stavano in ascolto”. (Giuliano, Discorsi, IX [VI], 201 b-c)
Questo sentimento di totale disponibilità verso gli altri e di filantropia non deriva dai principi del cinismo – che portano, piuttosto, all’egoismo e alla misantropia – ma dal carattere di Cratete, particolarmente sereno ed estroverso.
“Cratete, con la sua bisaccia e il suo mantello, passò la sua vita ridendo e scherzando come in una festa”. (Plutarco, De an. Tranquill., 4, 466 e)
EUCLIDE
Di Euclide sappiamo ben poco. Gli venne attribuito l’epiteto di stoixeiwthV, compositore degli Elementi. Una delle testimonianze più importanti su Euclide è quella di Proclo, neoplatonico vissuto nel V secolo dopo Cristo .Proclo scrive che Euclide è più giovane dei discepoli di Platone,e più vecchio di Archimede (che menziona nelle sue opere gli Elementi di Euclide). Da qui Proclo deduce che Euclide visse ai tempi del re Tolomeo I e siccome Platone morì nel 347 a.C. e Archimede visse tra il 287 e il 212 ,è molto probabile che Euclide scrisse gli Elementi intorno al 300 a.C. Euclide visse ad Alessandria d’Egitto ( da non confondere con Euclide di Megara che visse un secolo prima e che era un filosofo) La denominazione Euclide di Alessandria è contenuta in un brano di Pappo in cui si dice che Apollonio passò lungo tempo insieme ai discepoli di Euclide ad Alessandria. Sul carattere di Euclide abbiamo un brano tratto dall’opera di Pappo nel quale si elogia Euclide per la sua modesta riservatezza , tanto da non dimenticare l’opera dei predecessori .Infatti Euclide compose gli Elementi raccogliendo molti teoremi di Eudosso,di Teeteto .Inoltre Euclide era platonico , al punto di porre come scopo finale dei suoi Elementi la costruzione dei poliedri regolari( le figure cosmiche del Timeo). Alcuni aneddoti , riferiti da Proco , ci danno la possibilità di comprendere il carattere di Euclide.Nel primo , ci è detto che il re Tolomeo chiese a Euclide se non ci fosse un mezzo più breve degli Elementi per imparare la geometria, e che Euclide gli rispose che non esistono vie regie in geometria.Nel secondo aneddoto si narra che un discepolo , dopo aver imparato alcuni dei primi teoremi , chiese ad Euclide: Maestro, quale utile ricaverò imparando queste cose ? Ed Euclide chiamò un servo e gli diede ordine di dare qualche moneta al malcapitato, visto che voleva trarre guadagno da ciò che studiava , e di mandarlo via.Dal primo aneddoto si deduce l’estremo rigore di Euclide , tanto da non fare concessioni didattiche , neanche al re.Il secondo aneddoto allude al carattere strettamente teorico degli Elementi Per esempio , Euclide dimostra la proporzionalità tra i cerchi e i quadrati dei diametri , ma non accenna ad una determinazione del relativo rapporto costante , che è legato al famoso p .Valori approssimati di detto rapporto verranno forniti più tardi da Archimede, il massimo ingegnere dell’antichità, che non disdegna le applicazioni pratiche .
ALCUNE OPERE
Il testo più famoso di Euclide sono gli Elementi tant’è che Euclide e gli Elementi vengono spesso considerati come sinonimi: in realtà l’autore degli Elementi era anche autore di una dozzina di trattati che coprivano vari argomenti, dall’ottica all’astronomia, dalla musica alla meccanica. Purtroppo solo altre quattro opere sono pervenute sino a noi
Dati ( in greco Dedomena )
Ci è pervenuta sia nella sua versione greca originale sia in una traduzione araba. Sembra che tale opera sia stata composta per essere usata al Museo di Alessandria come volume sussidiario ai primi sei libri degli Elementi. Doveva servire come guida all’analisi di problemi di geometria al fine di scoprire le dimostrazioni. Si apre con quindici definizioni concernenti grandezze e luoghi. Il testo comprende novantacinque proposizioni riguardanti le implicazioni di condizioni e grandezze che possono essere date in un problema.
Divisione delle figure
Il testo originale greco è andato perduto, ma prima della sua scomparsa ne fu fatta una traduzione araba (che trascurava alcune delle dimostrazioni originali perché facili), la quale fu a sua volta tradotta in latino. Essa comprende una raccolta di trentasei proposizioni concernenti la divisione di figure piane. Per esempio la Proposizione 1 chiede di costruire una retta che sia parallela alla base di un triangolo e divida il triangolo in due aree uguali. Altre proposizioni chiedono di effettuare la divisione di un parallelogramma in due parti uguali mediante una retta passante per un punto dato giacente su uno dei lati (Prop. 6) oppure per un punto dato che si trovi al di fuori del parallelogramma (Prop. 10). L’ultima proposizione chiede di effettuare la divisione di un quadrilatero secondo un rapporto dato per mezzo di una retta passante per un punto giacente su uno dei lati del quadrilatero.
Fenomeni
E’ un’opera di geometria sferica ad uso degli astronomi. Gran parte del materiale descritto deriva probabilmente dalla tradizione manualistica nota in quel periodo.
Ottica ( in greco Optika )
E’ uno dei primi trattati sulla prospettiva, ossia la geometria della visione diretta. Gli antichi avevano diviso lo studio dei fenomeni ottici in tre parti: l’ottica, o geometria della visione diretta; la catottrica, o la geometria dei raggi riflessi; la diottrica, o la geometria dei raggi rifratti. Un’opera che porta il titolo Catottrica viene talvolta attribuita ad Euclide, ma è di dubbia autenticità. L’Ottica di Euclide è notevole per l’esposizione di una teoria “emissiva” della visione secondo la quale l’occhio emette raggi che attraversano lo spazio fino a giungere agli oggetti; tale teoria si contrapponeva alla dottrina di Aristotele secondo la quale una sorta di azione si trasmetteva attraverso un mezzo in linea retta dall’oggetto all’occhio. Uno degli obiettivi di questa opera era quello di combattere il concetto epicureo secondo il quale le dimensioni di un oggetto erano quelle che apparivano alla vista, senza tenere conto dell’impiccolimento dovuto alla prospettiva.
Fra le opere andate perdute ricordiamo Sui luoghi superficiali, Pseudaria, Porismi e un trattato sulle coniche.
GLI ELEMENTI
Gli Elementi non sono un compendio della matematica dell’epoca, bensì un manuale introduttivo che abbraccia tutta la matematica “elementare”, cioè l’aritmetica (la teoria dei numeri), la geometria sintetica (dei punti, delle linee, dei piani, dei cerchi e delle sfere) e l’algebra (non nel senso moderno dell’algebra simbolica, ma di un equivalente in termini geometrici). L’arte del calcolo non è inclusa: questa, infatti, non faceva parte dell’educazione superiore. E neppure lo studio delle coniche o delle curve piane superiori fa parte del libro, poiché costituiva una branca più avanzata della matematica. Così com’è, il trattato euclideo si limita a presentare una sobria e logica esposizione degli elementi fondamentali della matematica elementare. Gli Elementi sono divisi in tredici libri, dei quali i primi sei riguardano la geometria piana elementare, i tre successivi la teoria dei numeri, il Libro X gli incommensurabili e gli ultimi tre la geometria solida. Tuttavia molte edizioni antiche contengono altri due libri che la critica più recente attribuisce rispettivamente a Ipsicle (II secolo a.C.) e a Isidoro di Mileto (IV secolo d.C.).
Guardiamo ora in dettaglio il contenuto dei singoli libri..
LIBRO I
Definizioni (23)
Postulati (5)
Nozioni comuni (5)
Proposizioni (48)
Questo libro inizia bruscamente con un elenco di definizioni. La debolezza di questa parte sta nel fatto che alcune di queste non definiscono nulla; infatti non c’è nessun elenco preliminare di elementi indefiniti, in termini dei quali si debbano definire gli altri elementi. Dire che
un punto è ciò che non ha parti,
una linea è una lunghezza senza larghezza,
una superficie è ciò che ha soltanto lunghezza e larghezza,
non significa definire tali entità, poiché una definizione deve essere espressa in termini di concetti che vengono prima e che sono più noti delle cose definite.
La maggior parte delle proposizioni di questo libro sono familiari a chiunque abbia studiato geometria in una scuola superiore. Esse comprendono i teoremi sulla congruenza dei triangoli, sulle costruzioni semplici con riga e compasso, sulle disuguaglianze concernenti gli angoli e i lati di un triangolo, sulle proprietà delle rette parallele e sui parallelogrammi. Il Libro si chiude (Prop. 47 e 48) con la dimostrazione del teorema di Pitagora e del suo reciproco. La dimostrazione del teorema è diversa da quella in cui si applicano proporzioni tra i lati dei triangoli simili formati dall’altezza che viene abbassata sull’ipotenusa. Euclide si servì invece di una elegante dimostrazione basata su una figura che viene talvolta descritta come un mulino a vento (Fig. 1), di cui possiamo vedere una animazione nel sito Un dimostrazione suggerita dal teorema di Pappo [26].
Si ritiene che questa dimostrazione fosse originale di Euclide.
Libro II.
Definizioni (2)
Proposizioni (13)
E’ molto breve e tuttavia molto importante: contiene infatti un’algebra geometrica che serve più o meno agli stessi scopi della nostra algebra simbolica.
Libro III.
Definizioni (11)
Proposizioni (37)
Tratta la geometria del cerchio che probabilmente Euclide ha attinto da Ippocrate di Chio. Vengono presentati teoremi sulle posizioni reciproche di una retta e un cerchio e di due cerchi, sulle proprietà delle corde e delle tangenti, sulle relazioni tra angoli e archi e tra angoli al centro e angoli alla circonferenza. La prima proposizione, per esempio, chiede di effettuare la costruzione del centro di un cerchio; l’ultima proposizione contiene il noto teorema secondo il quale, se da un punto esterno a un cerchio si tracciano una tangente e una secante, il quadrato costruito sulla tangente è uguale al rettangolo formato dall’intera secante e dal suo segmento esterno.
Libro IV.
Definizioni (7)
Proposizioni (16)
Le proposizioni trattano come inscrivere e circoscrivere ad un cerchio un triangolo, un quadrato, un pentagono regolare e come costruire un esagono e un pentadecagono inscritti in un cerchio.
Libro V.
Definizioni (18)
Proposizioni (25)
Riguarda la teoria generale delle proporzioni. Alcuni commentatori hanno avanzato l’ipotesi che tutto il libro sarebbe opera di Eudosso, ma ciò sembra poco verosimile. Alcune definizioni (come quella di rapporto) sono così vaghe da risultare inutili. La Definizione 4, però, è essenzialmente l’assioma di Eudosso e Archimede:
Si dice che due grandezze stanno in rapporto l’una con l’altra, quando, se moltiplicate, sono in grado l’una di superare l’altra.
Questo libro tratta di questioni fondamentali. Si apre con proposizioni che sono equivalenti alle proprietà distributive sinistra e destra della moltiplicazione rispetto all’addizione, alla proprietà distributiva sinistra della moltiplicazione rispetto alla sottrazione e alla proprietà associativa della moltiplicazione (ab)c = a(bc). Seguono poi le regole per le espressioni “maggiore di” e “minore di” e le proprietà delle proporzioni.
Libro VI.
Definizioni (11)
Proposizioni (37)
Euclide fa uso della teoria delle proporzioni del Libro precedente per dimostrare teoremi concernenti rapporti e proporzioni relativi a triangoli, parallelogrammi o altri poligoni simili. Notevole è la Proposizione 31, che rappresenta una generalizzazione del teorema di Pitagora:
Nei triangoli rettangoli, la figura costruita sul lato che sottende l’angolo retto è uguale alle figure simili e similmente costruite sui lati che contengono l’angolo retto.
Proclo attribuisce questa generalizzazione allo stesso Euclide. Questo Libro contiene anche (nelle Prop. 28 e 29) una generalizzazione del metodo di applicazione delle aree: infatti ora l’autore era in grado di usare liberamente il concetto di similitudine.
Libro VII.
Definizioni (22)
Proposizioni (39)
Si apre con una serie di definizioni che individuano diversi tipi di numeri: dispari e pari, primi e composti, piani e solidi, infine quelli perfetti. I numeri sono rappresentati da un segmento: così Euclide indicherà un numero AB. Pertanto non usa le espressioni “è un multiplo di” o “è un fattore di”, ma si serve rispettivamente delle espressioni “è misurato da” e “misura”.
Le prime due proposizioni costituiscono la regola della teoria dei numeri nota come l'”algoritmo di Euclide” per trovare il massimo comune divisore di due numeri. Vi sono poi altre proposizioni sui numeri primi e su come trovare il minimo comune multiplo.
Libro VIII.
Proposizioni (27)
Si apre con una serie di proposizioni concernenti numeri in proporzione continua (progressione geometrica) e quindi si volge a trattare alcune semplici proprietà dei quadrati e dei cubi, terminando con la Proposizione 27:
Numeri solidi simili hanno l’uno con l’altro il rapporto che un numero cubo ha con un numero cubo
Questa affermazione significa semplicemente che, se abbiamo un “numero solido” ma·mb·mc e un “numero solido simile” na·nb·nc, allora il loro rapporto sarà m³ : n³, ossia staranno tra loro come un cubo sta a un cubo.
Libro IX.
Proposizioni (36)
Ultimo dei tre Libri dedicati alla teoria dei numeri, contiene molti teoremi che presentano un interesse particolare. Fra questi il più famoso è la Proposizione 20:
I numeri primi sono più di una qualsiasi assegnata moltitudine di numeri primi.
In altri termini, Euclide presenta qui la ben nota dimostrazione elementare del teorema secondo cui il numero dei numeri primi è infinito. La dimostrazione è indiretta: si mostra infatti che l’ipotesi dell’esistenza di un numero finito porta a una contraddizione. Per esaminare i passaggi di questa dimostrazione si deve accedere al sito Il teorema di Euclide (Dimostrazione) [27].
La Proposizione 35 contiene una formula per la somma di numeri in progressione geometrica espressa in termini eleganti ma insoliti:
Se tanti numeri quanti se ne vuole sono in proporzione continua, e dal secondo e dall’ultimo si sottraggono numeri uguali al primo, allora come l’eccesso del secondo starà al primo, così l’eccesso dell’ultimo starà a tutti quelli che lo precedono.
La successiva, e ultima proposizione, è la ben nota formula per i numeri perfetti:
Se tanti numeri quanti ne vogliamo, a cominciare dall’unità, vengono posti continuamente in proporzione doppia fino a che la somma di tutti i numeri non diventi un numero primo, e se la somma viene moltiplicata per l’ultimo numero, il prodotto sarà un numero perfetto.
Euclide non da alcuna risposta alla domanda inversa, ossia se la sua formula fornisca o no tutti i numeri perfetti. Sappiamo oggi che tutti i numeri perfetti pari sono del tipo euclideo, ma la questione dell’esistenza di numeri perfetti dispari costituisce ancora un problema irrisolto. La ventina di numeri perfetti oggi noti sono tutti pari, ma trarne per induzione la conclusione che debbano essere tutti pari sarebbe azzardato.
Libro X.
Definizioni (16)
Proposizioni (115)
Esso presenta una classificazione sistematica dei segmenti incommensurabili della forma , , , ove a e b, quando sono della stessa dimensione, sono commensurabili. Oggi saremmo inclini a considerare questo Libro come un trattato sui numeri irrazionali del tipo suddetto, ove a e b sono numeri razionali. Ma Euclide considerava questo Libro come facente parte della geometria, piuttosto che dell’aritmetica.
Libro XI.
Definizioni (28)
Proposizioni (39)
Il Libro comprende trentanove proposizioni riguardanti la geometria tridimensionale. Anche qui le definizioni sono facilmente criticabili: Euclide infatti definisce un solido come
ciò che ha lunghezza, larghezza e profondità
e quindi ci dice che
una estremità di un solido è una superficie.
Le ultime quattro definizioni riguardano quattro dei cinque solidi regolari. Non viene incluso il tetraedro, forse per il fatto che era stata precedentemente definita la piramide come
una figura solida, contenuta da piani, che è costruita partendo da un piano e da un qualsiasi punto.
Libro XII.
Proposizioni (18)
Le proposizioni di questo Libro si riferiscono tutte alla misurazione di figure, effettuate con il metodo di esaustione. Il Libro si apre con una dettagliata dimostrazione del teorema secondo cui le aree dei cerchi stanno tra loro come i quadrati costruiti sui diametri. Applicazioni analoghe del tipico metodo della doppia reductio ad absurdum vengono poi usate in relazione alla misurazione dei volumi di piramidi, coni, cilindri e sfere. Archimede attribuiva a Eudosso il merito di avere dato dimostrazioni rigorose di questi teoremi: è pertanto probabile che Euclide abbia attinto da Eudosso gran parte di questo materiale.
Libro XIII.
Proposizioni (18)
L’ultimo Libro è dedicato interamente alle proprietà dei cinque solidi regolari. Questo fatto ha indotto alcuni storici ad affermare che gli Elementi furono composti per celebrare le figure cosmiche o platoniche. Dal momento, però, che gran parte del materiale contenuto nei Libri precedenti non ha nulla a che fare con i poliedri regolari, una tale ipotesi sembra abbastanza gratuita.
L’obiettivo è quello di includere ciascuno dei solidi regolari in una sfera, ossia di trovare il rapporto tra il lato del solido inscritto e il raggio della sfera circoscritta. Tali calcoli vengono attribuiti da alcuni commentatori greci a Teeteto, cui si deve probabilmente gran parte del Libro XIII.
Nella Proposizione 10, Euclide dimostra il noto teorema secondo cui un triangolo i cui lati siano rispettivamente lati di un pentagono, di un esagono e di un decagono equilateri inscritti nel medesimo cerchio, è un triangolo rettangolo. Le Proposizioni dalla 13 alla 17 esprimono il rapporto tra il lato e il diametro per ciascuno dei solidi regolari inscritti: è per il tetraedro, per l’ottaedro, per il cubo o l’esaedro, per l’icosaedro e per il dodecaedro. Infine, nell’ultima proposizione, viene dimostrato che non vi possono essere poliedri regolari oltre questi cinque.
Gli Elementi di Euclide non sono solo la maggiore e più antica opera matematica greca che ci sia pervenuta, ma costituiscono anche il più autorevole manuale di matematica di tutti i tempi. L’opera fu composta verso il 300 a.C. e da allora fu copiata ripetutamente . Fu inevitabile che vi si introducessero errori e variazioni; alcuni editori di epoca più tarda (come Teone di Alessandria) cercarono addirittura di perfezionare l’originale. Aggiunte posteriori, che generalmente compaiono sotto forma di scoli, forniscono ulteriori informazioni, spesso di natura storica, e nella maggior parte dei casi sono facilmente distinguibili dall’originale. Copie degli Elementi sono pervenute fino a noi attraverso traduzioni arabe, che in seguito vennero tradotte in latino nel XII secolo. La prima edizione a stampa degli Elementi uscì a Venezia nel 1482 e fu uno dei primi libri stampati.
I POSTULATI SULLE RETTE PARALLELE
In figura 1 la retta r è fissa mentre la retta s può ruotare in senso antiorario attorno al punto P. Indichiamo con Q il punto in cui r ed s si incontrano.
Man mano che s ruota si vede che il punto Q si allontana verso est sulla retta r (fig. 2).
Il punto Q si muove con continuità su r: piccole rotazioni di s determinano piccoli spostamenti di Q (e viceversa). Q assume via via tutte le posizioni possibili su r, “passa” per tutti i punti di r.
Il punto Q dunque si allontana sempre più sulla retta r. Si intuisce però che esiste una (e una sola) situazione in cui sembra proprio che le due rette non si intersechino e quindi Q non esista. In questa situazione le due rette si dicono parallele (fig. 3).
Continuando a ruotare s ci accorgiamo che il punto Q ricompare su r, questa volta però Q è a ovest (vedi animazione seguente).
Eccoci arrivati a un punto cruciale. Nella geometria euclidea si assume, assecondando l’intuizione, che per un punto P non appartenente alla retta r passi una e una sola retta s parallela a r (tale cioè che r e s non si incontrino). Tale assunzione non è altro che il quinto postulato di Euclide.
Qui di seguito sono elencati i postulati su cui Euclide (300 avanti Cristo) fondò, negli Elementi, il castello della sua geometria:
(P1) Da ogni punto a ogni altro punto è possibile condurre una linea retta;
Euclide non postula esplicitamente che per due punti passi un’unica retta, ma assume tacitamente che sia così.
(P2) Un segmento di linea retta può essere indefinitamente prolungato in linea retta;
(P3) Attorno ad un centro scelto a piacere è possibile tracciare una circonferenza con raggio scelto a piacere;
(P4) Tutti gli angoli retti sono uguali;
Euclide ha già dato la definizione di angolo retto: se una retta r innalzata da un’altra retta s forma con essa angoli adiacenti uguali fra loro, ciascuno dei due angoli è retto. Il postulato P4 è necessario per garantire che gli angoli ottenuti con un’altra costruzione di questo tipo, relativa alle rette r’ e s’, sono uguali ai precedenti. Il postulato P4 dimostra una notevole raffinatezza logica da parte di Euclide e afferma in sostanza che il piano è uniforme (nel senso che la costruzione predetta fornisce sempre gli stessi angoli, in qualsiasi parte del piano venga eseguita).
(P5) In un piano, per un punto fuori di una retta si può condurre una e una sola parallela a una retta data (due rette si diranno, con Euclide, parallele, quando non si incontrano).
In realtà Euclide formulò il quinto postulato in una forma diversa da quella qui riportata ma ad essa del tutto equivalente.
DIMOSTRAZIONE DELL’INFINITA’ DEI NUMERI PRIMI
Un numero maggiore dell’unità si dice primo se ha solo due divisori distinti: 1 e se stesso.
Tra 1 e 10 ci sono 5 numeri primi;
Tra 10 e 100 ce ne sono 21;
Tra 9.999.900 e 10.000.000 ce ne sono 9;
Tra 10.000.000 e 10.000.100 ce ne sono 3.
Questa è la legge di rarefazione dei numeri primi. Secondo questa legge si può pensare che i numeri primi siano in numero finito, ma non è così, infatti, Euclide dimostrò che i numeri primi sono infiniti.
Dimostrazione (metodo indiretto):
Si suppone che i numeri primi siano in numero finito.
Esiste allora il numero primo più grande di tutti (MAX).
Se si esegue il prodotto tra MAX e tutti i numeri primi che lo precedono e si aumenta di 1 il risultato, si ottiene un nuovo numero primo N più grande di MAX: infatti dividendo N per ciascun numero primo si ottiene sempre resto 1.
Questa è un’assurdità perché è in contrasto con il fatto che MAX sia il più grande numero primo. Perciò si conclude che i numeri primi sono infiniti.
LE GEOMETRIE NON EUCLIDEE
Sono le geometrie che si fondano sulla negazione del 5° postulato (se una retta che interseca due altre rette forma dalla stessa parte angoli inferiori a due angoli retti, le due rette, se estese indefinitamente, si incontrano da quella parte dove gli angoli sono inferiori a due rette) enunciato negli Elementi di Euclide.
I dettagli di questi due tipi di geometria non-euclidea sono piuttosto complessi, ma in entrambi i casi i concetti fondamentali possono essere compresi per mezzo di semplici modelli.
Geometria iperbolica
La geometria di Bolyai-Lobacevskij, spesso chiamata geometria non-euclidea o iperbolica, ambienta la geometria piana all’interno di una circonferenza, in cui tutte le possibili linee ‘rette’ sono rappresentate dalle infinite corde.
Come si può osservare, tracciato un ‘punto’ P ed una ‘retta’ r, si possono trovare due ‘rette’ s e t, passanti per P e per gli estremi della corda r.
Geometria ellittica
La geometria di Riemann, detta anche geometria ellittica o semplicemente geometria non-euclidea, è costruita sulla superficie di una sfera, in cui tutte le linee rette sono rappresentate dai cerchi massimi.
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Come si può osservare, fissato un punto di Riemann e una retta di Riemann, ossia una coppia (A, B) di punti diametralmente opposti e una circonferenza massima r, allora ogni altra retta di Riemann passante per (A, B) interseca sempre la circonferenza massima, r, in due punti diametralmente opposti (C, D) ossia in un punto di Riemann.
I DUE TEOREMI DEI TRIANGOLI RETTANGOLI
Molto importanti sono anche i due teoremi sui triangoli rettangoli. Il primo teorema di Euclide enuncia che: “in un triangolo rettangolo ciascun cateto è medio proporzionale tra l’ipotenusa e la proiezione dello stesso cateto sull’ipotenusa”. Con una diversa formulazione si può anche dire che: “in un triangolo rettangolo il quadrato costruito su uno qualsiasi dei cateti è equivalente al rettangolo che ha per dimensioni l’ipotenusa e la proiezione dello stesso cateto sull’ipotenusa” . Il secondo teorema ci dice che: “in un triangolo rettangolo l’altezza relativa all’ipotenusa è media proporzionale tra le proiezioni dei cateti sull’ipotenusa”. Oppure, usando una diversa versione: “in un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’altezza relativa all’ipotenusa è equivalente al rettangolo che ha per dimensioni le proiezioni dei cateti sull’ipotenusa”.
POLEMONE
Dopo la morte di Senocrate (314 a.C.), nel mezzo secolo che seguì, l’Accademia fu dominata da tre pensatori che contribuirono a produrre una mutazione nel clima culturale tale da rendere l’antica Scuola di Platone ormai in sintonia con le tendenze filosofiche delle Scuole ellenistiche. Questi furono: Polemone, che fu a lungo capo dell’Accademia (verosimilmente fino al 276-275 a.C.), Cratete di Atene, che succedette al maestro Polemone per un brevissimo periodo, e Crantore di Soli, discepolo
di Senocrate e compagno di scuola di Polemone (non ebbe però lo scolarcato dell’Accademia).
Polemone, nato da un’agiata famiglia ateniese, dopo aver trascorso una dissoluta giovinezza tra sregolatezze di ogni genere, fu convertito alla filosofia da Senocrate un giorno in cui lo sentì parlare della moderazione. Da allora la filosofia lo trasformò completamente, facendogli acquisire una compostezza di modi e una costanza morale tali che lo resero famoso.
Diogene Laerzio ci riporta questo aneddoto:
“Quando un cane rabbioso gli sbranò un poplite, egli non impallidì neppure; diffusasi la notizia del fatto, in città scoppiò un tumulto, ma Polemone rimase impassibile”. (D.L., Vite dei filosofi, IV, 17)
L’episodio è emblematico, perché dice nella maniera più eloquente come, ormai, anche nell’Accademia la filosofia fosse diventata pratica di vita, proprio in quelle dimensioni che nelle nuove Scuole ellenistiche andavano affermandosi.
Non solo nella pratica di vita, ma anche nelle affermazioni dottrinarie Polemone è in sintonia con il nuovo spirito:
“Polemone soleva dire che bisogna esercitarsi nei fatti concreti della vita e non nelle speculazioni dialettiche, per evitare di essere come uno che abbia imparato a memoria un manuale di armonia musicale e non sappia esercitarla, e quindi per evitare di riscuotere ammirazione per l’abilità dialettica e di essere incoerenti con se stessi nel disporre della propria vita”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IV, 18)
A ben vedere, questo significava – in una certa misura – l’abbandono di Platone.
Delle tre parti della filosofia distinte da Senocrate (fisica, dialettica ed etica) l’ultima interessa a Polemone in modo preminente e determinante. E il parametro della vita morale, Polemone, come già Speusippo e Senocrate, lo indicò nella physis, nella natura, nella «vita secondo natura». Egli dedicò all’argomento un libro che doveva sviluppare quella concezione assunta ormai come base dell’etica da tutte le Scuole ellenistiche.
«Secondo natura», sono beni – come da Speusippo in poi l’Accademia sostenne – sia quelli dello spirito, e cioè la virtù, sia, in subordine, anche quelli del corpo.
La felicità si può raggiungere con la sola virtù, ma per la perfetta felicità occorrono anche i beni inferiori.
Non dissimile dovette essere la posizione dell’ultimo scolarca dell’antica Accademia, Cratete di Atene, che con Polemone ebbe legami assai stretti:
“In vita non solo ebbero i medesimi interessi e la medesima attività, ma anche fino all’ultimo respiro divennero sempre più simili l’uno all’altro, e morti ebbero comune la tomba”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IV, 21)
CRANTORE DI SOLI
“Io m’auguro di non star mai male, questo sì; ma se proprio dovessi, ebbene, voglio conservare la sensibilità “.
Crantore nacque nel 330 a.C. a Soli, in Cicilia.
Discepolo di Senocrate e compagno di scuola di Polemone, egli riprese la componente «fisica», scrivendo un commentario al Timeo e sostenendo l’idea, già vista in Senocrate, secondo cui il racconto della formazione del mondo da parte del Demiurgo andrebbe inteso solo come espressione immaginifica avente «scopo didattico», e quindi non in senso letterale.
La generazione dell’anima e del mondo sarebbe da interpretarsi non in senso cronologico, ma in senso metatemporale: essa illustrerebbe non altro che la struttura ontologica dell’una e dell’altro.
Crantore rielaborò inoltre la dottrina relativa alla tavola dei valori, includendovi anche il piacere: al primo posto pose la virtù, al secondo la salute, al terzo il piacere e al quarto la ricchezza. In questa rivalutazione del piacere si fece sentire l’influenza epicurea.
Del filosofo va ancora menzionato lo scritto Sul dolore, che inaugurò il genere letterario delle «consolazioni». In esso egli probabilmente analizzava il senso del dolore fisico e spirituale. E anche questo era del tutto in sintonia con lo spirito dei nuovi tempi.
Infine, contro la posizione stoica, Crantore respinse nettamente la dottrina dell’«apatia», e sostenne invece la dottrina della «moderazione delle passioni» o «metriopatia»:
“Non siamo fatti di pietra, noi: anzi, abbiamo nell’anima un non so che di costituzionalmente tenero e sensibile, qualche cosa che il dolore riesce a scuotere come se fosse una tempesta. E non sbaglia Crantore, che fu una delle figure più illustri della nostra Accademia, a dire: «io non sono affatto d’accordo con quelli che tanto elogiano questa non meglio precisata insensibilità, che non può esistere e non deve. Io m’auguro di non star mai male, questo sì; ma se proprio dovessi, ebbene, voglio conservare la sensibilità, qualunque sia l’operazione o il taglio a cui mi debba sottoporre. Perché l’immunità dal dolore non si ottiene se non pagando un prezzo assai alto: l’abbruttimento dell’anima, e la paralisi del corpo»”. (Cicerone, Tusc. Disput., 111, 6, 12)
Crantore morì nel 270 a.C.
ANTIOCO
A cura di Marco Machiorletti
VITA
Antioco nacque ad Ascalona fra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni venti del II secolo a.C. Fu a lungo discepolo di Filone di Larissa. Dopo aver abbandonato Atene insieme a Filone si recò ad Alessandria con Lucullo, ove soggiornò fra l’87 e l’84 a.C. Fece in seguito ritorno ad Atene e divenne capo degli Accademici. Nel 79 a.C. , durante la dittatura di Silla, Cicerone si trasferì ad Atene, dove seguì, per alcuni mesi, le lezioni di Antioco. In seguito, Antioco seguì Lucullo, in occasione della seconda guerra mitridatica in Siria, e nel 69 a.C. assistette alla battaglia di Tigranocerta. Morì poco tempo dopo.
Nessuna opera di Antioco ci è pervenuta.
PENSIERO
Antioco, che fu a lungo discepolo di Filone, si era staccato dallo Scetticismo di Carneade prima che il maestro partisse per Roma e che mutasse con i due libri ivi scritti le posizioni scettiche dell’Accademia.
Furono anzi essenziali le stesse critiche di Antioco al fine di smuovere l’originario Scetticismo di Filone. Ma, mentre Filone si limitò ad affermare l’esistenza del vero oggettivo senza avere il coraggio di dichiararlo senz’altro anche conoscibile dall’uomo e ponendo in luogo della certezza la probabilità positiva, Antioco fece il gran passo con cui si chiuse definitivamente la storia dell’Accademia scettica, dichiarando la verità non solo «esistente» ma anche «conoscibile» e sostituendo alla probabilità la certezza veritativa.
Sulla base di tali affermazioni, egli poteva ben presentarsi come il restauratore del vero spirito dell’Accademia: uno spirito che era in antitesi con quello che ispirava le tendenze inaugurate da Arcesilao e da Carneade, e che, contro il parere di Filone, egli non riteneva in alcun modo con esso conciliabile né mediabile. Come si ricorderà gli Scettici nascevano come eredi del messaggio platonico: ma di quest’ultimo, rigettando il discorso sulle Idee, mantenevano soltanto quello sulla natura, che come è noto Platone aveva liquidato come ambito dell’opinione e dell’incertezza, non afferrabile dalle leggi della ragione. Di qui il dubbio universale fatto valere dagli Scettici.
Tuttavia, alle aspirazioni di Antioco non corrisposero effettivi risultati: nell’Accademia non rinacque affatto Platone, bensì un intruglio eclettico di dottrine.
Egli era convinto che Platonismo e Aristotelismo fossero una identica filosofia e che esprimessero semplicemente gli stessi concetti con nomi e con linguaggio differenti. Ma – e proprio questo è particolarmente indicativo – Antioco giunse addirittura a dichiarare la stessa filosofia degli Stoici sostanzialmente identica a quella platonico-aristotelica e differente solamente nella forma.
Di conseguenza, certe innegabili novità degli Stoici furono da lui giudicate non altro che miglioramenti, completamenti e approfondimenti di Platone.
Antioco pretese di portare a compimento l’opera di restaurazione della vecchia Accademia, recuperando Crisippo e non Platone, tant’è che non esitò a respingere la gnoseologia platonica, e dunque anche la dottrina delle Idee sulla quale essa si fonda.
Antioco, che, per un certo tempo, alla Scuola del primo Filone aveva udito le idee scettiche dell’Accademia, si trovava nelle migliori condizioni per criticarle, conoscendole bene dall’interno, nelle loro intime motivazioni.
Egli rileva sostanzialmente come i due obiettivi fondamentali, la cui possibilità di raggiungimento tutti gli Scettici avevano contestato, ossia il «criterio della verità» e «la dottrina del sommo bene», siano in realtà irrinunciabili per chiunque intenda presentarsi come filosofo, e pretenda di avere qualcosa da dire agli uomini. Lo Scettico, col suo dubbio sulle nostre rappresentazioni (cioè sul criterio della verità), rovescia ciò su cui l’esistenza umana si basa.
Da un lato, negato il valore della rappresentazione, rimane compromesso anche il valore della memoria e dell’esperienza, e quindi conseguentemente la possibilità stessa delle diverse arti (che nascono dalla memoria e dall’esperienza).
Dall’altro lato, negato il valore del criterio, cade qualsiasi possibilità di determinare che cosa sia il bene, inoltre cade la possibilità di stabilire che cosa sia la virtù, e quindi di fondare un’autentica scienza morale.
Senza una salda certezza e una salda convinzione circa il fine della vita umana e circa i compiti essenziali da assolvere, l’impegno morale si vanifica.
Né, secondo Antioco, ci si può trincerare nell’ambito del mero «probabile», perché, senza il criterio distintivo del vero, sarà impossibile ritrovare anche quello del probabile. Infatti, se fra rappresentazioni vere e false non è possibile operare una distinzione, mancando esse di una differenza specifica, non sarà nemmeno possibile stabilire quale rappresentazione sia vicina o prossima al vero o meno lontana da esso. Pertanto, per salvare il probabile, si dovrà reintrodurre il vero, perché, per stabilire se una cosa sia più o meno vicina o lontana dal vero, occorre sapere che cosa sia il vero: proprio in ciò sta la rottura col probabilismo di Carneade.
E neanche sarà possibile sospendere in qualsiasi caso l’assenso. Infatti l’evidenza di certe percezioni naturalmente comporta l’assenso, e in ogni caso, senza l’assenso noi non potremmo avere né memoria, né esperienza e, in generale, noi non potremmo compiere alcuna azione e per conseguenza tutta la vita si bloccherebbe.
Inoltre, non si potrà dare colpa ai sensi di ingannarci. Quando gli organi sensoriali non siano guasti e le condizioni esterne siano adeguate (come già Aristotele aveva sottolineato), i sensi non ci ingannano e quindi non ci ingannano le rappresentazioni. E non vale richiamare, come argomenti in contrario, i sogni, le allucinazioni e simili: queste rappresentazioni, infatti, non sono fornite della medesima evidenza rispetto alle normali rappresentazioni sensoriali. Anche la validità dei concetti, delle definizioni e delle dimostrazioni è innegabile. Lo attesta l’esistenza stessa delle arti, inconcepibili senza di essi.
Al limite, lo dimostrano gli stessi ragionamenti degli Scettici, che possono avere un senso solo nella misura in cui hanno un senso concetti e dimostrazioni.
Infine il dilemma con cui Antioco mise in crisi Filone, costringendolo ad abbandonare Carneade: non si può ammettere ad un tempo: a) che alcune rappresentazioni siano false e b) che fra rappresentazioni vere e rappresentazioni false non esista una differenza specifica che le contraddistingua.
Se si ammette la prima affermazione, cade la seconda; se si sostiene la seconda, cade la prima. Insomma, secondo Antioco, messo alle strette, lo Scetticismo deve a poco a poco riconoscere inesorabilmente le verità negate.
Purtroppo, se Antioco si mostra acuto nella critica allo Scetticismo (e ciò che abbiamo riportato è solo un saggio dei numerosi argomenti da lui addotti), si mostra invece quanto mai deludente nella proposta dell’alternativa positiva che dovrebbe riempire il vuoto aperto dallo Scetticismo.
In logica egli non si scosta sostanzialmente dagli Stoici, e in particolare da Crisippo.
Anche in fisica Antioco ripropone idee stoiche. Ma quel che più stupisce è la sua pretesa che queste siano anche sostanzialmente le convinzioni di Platone e di Aristotele. Né le cose migliorano quando si passa all’etica: l’uomo deve vivere seguendo la natura, anzi conformemente alla sua natura, che consiste nella ragione. In ciò sta la virtù, che è il sommo bene.
Hanno però torto gli stoici nel sottovalutare il corpo e quanto è connesso al corpo. Infatti, basta, sì, la virtù alla felicità, ma non alla «perfetta felicità». Hanno dunque in parte ragione anche i Peripatetici nel ritenere che alla perfetta felicità concorrano anche i beni materiali. Inoltre, Antioco attenua i paradossi dell’etica stoica e tempera la pretesa che il saggio sia impassibile.
È, questo, un tipico esempio di «eclettismo dogmatico», che accosta idee di estrazione diversa, senza saperle unificare.
Pertanto, l’Accademia restaurata non poteva aver lunga vita né andare molto lontano: in realtà, Antioco non aveva fatto altro che mascherare, sotto le proprie insegne, le dottrine del Portico.
ARCESILAO DI PITANE
A cura di Marco Machiorletti
VITA
Arcesilao nacque intorno al 315 a.C. a Pitane, nell’Eolide. Trasferitosi ad Atene, probabilmente all’inizio del III secolo a.C., frequentò dapprima il Peripato e ascoltò Teofrasto; quindi passò all’Accademia e fu discepolo prima di Crantore e poi di Polemone e di Cratete. Studiò, inoltre, la dialettica della scuola megarica, e forse conobbe Pirrone di Elide. Successe a Cratete nella direzione dell’Accademia, dove tenne lezioni molto partecipate. Diogene Laerzio riferisce che possedeva una grande inventiva nel risolvere facilmente le obiezioni e nella capacità di adattarsi ad ogni situazione. Morì intorno al 240 a.C.
PENSIERO
Mentre Timone di Fliunte fissava e sviluppava nei suoi scritti il pensiero di Pirrone di Elide, nell’Accademia platonica Arcesilao inaugurava una nuova fase, assumendo posizioni per alcuni aspetti vicine a quelle di Timone e di Pirrone.
È indubbio che Arcesilao si possa definire «scettico». L’accesa avversione di Timone nei confronti di Arcesilao ne è, in un certo senso, la conferma: Timone sentiva infatti la nuova posizione dell’Accademia come una autentica invasione del proprio campo. Del resto, sia pure a denti stretti, almeno in un’opera egli fu costretto ad approvare il pensiero di Arcesilao. E, al di là di tutte le polemiche, Sesto Empirico riconosce espressamente di non vedere differenze essenziali fra Arcesilao e lo Scetticismo:
“Arcesilao […] pare a me che partecipi proprio dei ragionamenti pirroniani, tanto da essere unico l’indirizzo suo e il nostro. E invero, né si trova ch’egli si pronunci intorno all’esistenza né intorno alla non esistenza delle cose, né giudica preferibile, rispetto alla credibilità o non credibilità, una cosa a un’altra, ma in tutto sospende suo il giudizio”. (Schizzi Pirroniani, I, 232)
In Socrate e in Platone vi sono sicuramente tratti che si possono chiamare formalmente «aporetici», posizioni di dubbio, improvvise sospensioni di giudizio: ma sono quasi sempre finalizzate al ritrovamento della verità, o, in ogni caso, alla preparazione mediata di questo ritrovamento. In ogni caso, in Socrate e in Platone il dubbio è sempre «mezzo» e mai «fine»; si aggiunga poi che, in Platone, il dubbio coinvolge la sfera della natura, ma non sussiste per quel che riguarda il mondo delle Idee, che sono oggetto di scienza incrollabilmente certa.
Certamente un Accademico poteva individuare nei dialoghi platonici un catalogo di espressioni, momenti e passaggi dubitativi: ma questi, in ogni caso, non avrebbero potuto assumere un significato «scettico», se non prescindendo da tutta la parte costruttiva e positiva.
Arcesilao si ispirò alle istanze dello Scetticismo pirroniano, e le fuse con gli elementi del Socratismo e del Platonismo di cui abbiamo ora detto, facendo perdere a essi il loro significato originario. È assai indicativo il fatto che Arcesilao ritenesse di dover respingere addirittura l’unica certezza che Socrate vantava, cioè il «sapere di non sapere»; infatti, Arcesilao negava perfino di «sapere di non sapere».
Tale inversione di rotta era il prezzo che l’Accademia pagava per entrare nel vivo delle discussioni filosofiche della nuova età, ma era anche la rinuncia alla fedeltà rispetto al proprio passato.
In metodo confutatorio-ironico-maieutico, che Socrate e Platone usavano per cercare il vero, fu da Arcesilao largamente utilizzato nel nuovo senso «scettico», e fu da lui diretto in modo massiccio e implacabile soprattutto contro gli Stoici, in particolare contro Zenone.
Si trattava di confutare la Stoà con le sue stesse armi, e in tal modo ridurla al silenzio.
In particolare, Arcesilao sottopose a serrata critica il criterio stoico della verità, che i filosofi del portico identificarono con la «rappresentazione catalettica».
Il nerbo della sua critica consisteva in questo:
“Se l’apprensione è l’assenso della rappresentazione catalettica, è insussistente, in primo luogo, perché l’assenso non ha luogo in relazione alla rappresentazione, bensì in relazione alla ragione (infatti gli assensi sono giudizi), in secondo luogo perché non si trova alcuna rappresentazione vera che sia tale da non poter essere falsa”. (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 134)
Se così è, quando noi «assentiamo», rischiamo di assentire a qualcosa che può essere anche falso. Quello che nasce dall’«assenso» non può dunque mai essere certezza e verità, ma solo «opinione». E, allora, delle due l’una: o il saggio stoico dovrà accontentarsi di opinioni, o, se ciò è per il saggio inaccettabile – dato che saggio è solo chi possiede la verità –, il saggio dovrà essere «acatalettico», ossia dovrà «sospendere l’assenso»:
“Poiché tutte le cose sono inapprensibili, per il motivo che non esiste il criterio stoico, allora, se il saggio darà il suo assenso, avrà mera opinione: infatti, poiché non c’è nulla di apprensibile, se il saggio darà l’assenso a qualcosa, lo darà a ciò che è inapprensibile, e l’assenso a ciò che è inapprensibile è appunto l’opinione. Di conseguenza, se il saggio è uno di coloro che dà l’assenso, il saggio è uno di coloro che hanno semplice opinione. Ma il saggio non è uno che ha semplici opinioni (infatti per gli Stoici l’opinione è insipienza e causa di errori); dunque il saggio non è uno di coloro che danno l’assenso. Ma se è così, il saggio dovrà astenersi dal dare l’assenso su tutte le cose. Ma astenersi dal dare l’assenso non è altro che sospendere il giudizio: dunque il saggio sospenderà il giudizio su tutte le cose”. (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 156 sg.)
La «sospensione del giudizio» (epoché), che lo Stoico raccomandava solo nei casi di mancanza di evidenza, viene così generalizzata da Arcesilao, una volta stabilito che non c’è mai assoluta evidenza.
Sull’epoché Arcesilao dovette effettivamente insistere in modo del tutto particolare:
“Arcesilao dice che il fine è la sospensione del giudizio […]; e, inoltre, che beni sono le singolari sospensioni del giudizio, mali le singolari affermazioni”. (Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 232 ss.)
Naturalmente gli stoici dovettero vivacemente reagire e dovettero obiettare che la sospensione radicale dell’assenso implicava l’impossibilità di risolvere il problema della vita, e inoltre che rendeva impossibile qualsiasi azione.
A tale obiezione Arcesilao dovette rispondere con l’argomento dell’«eulogon» o del «ragionevole».
Lo riportiamo:
“Ma poiché dopo ciò bisogna anche occuparsi di ciò che concerne la condotta della vita, la quale non si può dare senza un criterio di verità, dal quale anche la felicità, ossia il fine della vita, trae la propria credibilità, Arcesilao afferma che chi sospende il suo assenso su tutto regolerà le sue scelte e i suoi rifiuti e in generale le sue azioni col criterio del ragionevole o plausibile; e procedendo secondo questo criterio compirà azioni rette: infatti la felicità si raggiunge mediante saggezza, e la saggezza sta nelle azioni rette, e l’azione retta è quella che, una volta compiuta, ha una giustificazione ragionevole o plausibile. Dunque, chi si attiene al plausibile agirà rettamente e sarà felice”. (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 158)
Il suo senso pare debba essere il seguente: non è vero che, sospendendo il giudizio, l’azione morale è impossibile. Gli stessi Stoici, infatti, per spiegare le comuni azioni morali, avevano introdotto i kathékonta, o «doveri», considerandoli azioni che hanno una loro plausibile e ragionevole giustificazione. E mentre solo il saggio sarebbe capace di azioni morali perfette, tutti sarebbero invece capaci di compiere i kathékonta.
Ma, allora, ecco dimostrato che l’azione morale è possibile, dato che i kathékonta sono possibili anche senza la verità e la certezza assoluta. Anzi il «ragionevole» o «plausibile» basta addirittura per compiere «azioni rette».
E con questo si dimostra, con le armi stesse degli Stoici, essere sufficiente il ragionevole, e che di conseguenza sono assurde le pretese del saggio e della sua morale superiore.
Lo Scetticismo di Arcesilao differisce notevolmente da quello pirroniano sia per i motivi da cui nasce, sia per la sua consistenza speculativa, sia per la temperie culturale che crea attorno a sé.
Lo Scetticismo di Pirrone nasce per risolvere il problema della vita e della felicità: nasce da un sentimento della vita che vede nella rinuncia, nell’imperturbabilità e nell’impassibilità il segreto della felicità.
La formulazione e lo sviluppo delle dottrine pirroniane non sono se non la formulazione e la motivazione di quei presupposti e di quei corollari che conseguono a quella fondamentale intuizione del senso della vita.
Invece lo Scetticismo accademico inaugurato da Arcesilao risulta svuotato di quella carica originaria e si impoverisce in senso «dialettico», in quanto tende a diventare puro elenchos, mera «confutazione» dell’avversario stoico.
In sostanza, lo Scetticismo di Arcesilao finisce per ridursi, in ultima analisi, a un tentativo di rovesciamento dei dogmi della Stoà, senza alcuna capacità di proporre positive alternative di alcun genere.
Tale forma di Scetticismo è di breve respiro e di vita limitata: vive solo nella misura in cui distrugge l’avversario, e poi, ucciso l’avversario, con lui cade esanime sul campo deserto.
EGESIA
A cura di Marco Machiorletti
Egesia, vissuto nel VI secolo a.C. ribadì il principio della Scuola Cirenaica secondo cui il fine è il piacere, ma lo ritenne qualcosa di non raggiungibile se non in modo saltuario; egli sostenne inoltre che il piacere è qualcosa di relativo e non oggettivo.
Che solo il piacere fosse un bene e il dolore un male e che solo il primo potesse dare la felicità pareva chiaro a Egesia, dal momento che per lui non esistevano altri valori indipendenti dal piacere e dall’utilità:
“Nulla sono gratitudine, amicizia e beneficenza, onde queste cose noi le scegliamo non per se stesse ma per ragioni di utilità, mancando le quali neppure quelle sussistono più”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 93)
Ma, se è vero che il piacere pare essere l’unico bene, è altrettanto vero che esso ci sfugge di mano e che il suo contrario ha in noi sempre il sopravvento:
“Il corpo infatti è pieno di mille sofferenze e l’anima soffre col corpo ed è turbata e la sorte rende vane le cose da noi sperate […]”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 94)
Né si può dire che la ricchezza determini il piacere. E nemmeno incidono, nel determinarne la misura, libertà, nobiltà, saggezza, né i loro contrari.
Anzi, Egesia e i suoi seguaci contestavano, come rilevato poc’anzi, che il piacere fosse alcunché di naturalmente determinato in modo oggettivo e lo ritenevano qualcosa di relativo, così come le sensazioni:
“Ritenevano che nulla fosse per natura piacevole o spiacevole: per la rarità o per la novità o per la sazietà accade che taluni godano e altri no […]. Svalutavano anche le sensazioni, perché non danno conoscenza certa, ma facevano tutto ciò che loro sembrasse ragionevole”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 94)
Sulla base di queste premesse si giungeva alla conclusione che la felicità è irraggiungibile e la vita è indifferente:
“La felicità è […] irrealizzabile. Vita e morte sono da prendersi senza preferenza […]. Per l’insensato vivere può essere vantaggioso, per l’uomo saggio indifferente”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 94)
La morte non deve dunque in alcun modo essere temuta, perché non ci separa dai beni, bensì dai mali: concetto, questo, che valse a Egesia il soprannome «persuasore di morte».
“La morte ci divide dai mali, non dai beni, se badiamo al vero. È per questo concetto così discusso ampiamente da Egesia Cirenaico che, si dice, il re Tolomeo gli vietò di insegnare quelle idee nelle scuole, poiché molti, uditele, si davano spontaneamente la morte”. (Cicerone, Tusc. disput., I, 34, 83)
Il saggio, allora, non si affannerà a ricercare il piacere e la felicità, bensì vivrà evitando i mali, mediante l’indifferenza (tema particolarmente caro agli Scettici):
“Perciò il sapiente non si affannerà tanto nel procurarsi i beni quanto nell’evitare i mali, proponendosi come fine una vita né faticosa né dolorosa, il che si realizza con uno stato d’animo di indifferenza per ciò che produce il piacere”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 95 sg.)
Egesia riprese la dottrina socratica dell’«involontarietà della colpa», con i relativi corollari etici e pedagogici:
“Dicevano [scil.: Egesia e i suoi seguaci] che agli errori spetta il perdono: non si sbaglia volontariamente, ma costretti da qualche passione. Non bisogna quindi odiare, ma piuttosto insegnare”.
TEODORO
A cura di Marco Machiorletti
Teodoro, vissuto a Cirene tra la seconda metà del IV secolo e la prima metà del III sec. a.C., aderì alla dottrina di Aristippo, apportandole tuttavia una serie di cambiamenti che ridussero all’osso il nucleo dottrinario aristippeo.
Egli pose il fine non nel piacere come tale, ma nella «gioia», cioè non nel piacere-sensazione (nel piacere del momento), bensì in uno stato d’animo, che non è possibile raggiungere senza la saggezza.
“Concepì come fine la gioia e la tristezza: l’una posta nella saggezza, l’altra nell’insensatezza. Beni sono la saggezza e la giustizia, mali i loro contrari”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 98)
Respinse come valori sia l’amicizia, sia il sacrificarsi per la patria, che erano stati invece accolti da Anniceride.
“Rifiutò anche l’amicizia come insussistente sia per gli insensati che per i saggi: per gli uni, infatti, una volta tolta di mezzo l’utilità, anche l’amicizia sfuma; i secondi poi sono sufficienti a se stessi e tali da non aver bisogno di amici. Diceva anche che è ragionevole che l’uomo di valore non si sacrifichi per la patria: poiché è sconsiderato gettare via la propria saggezza per l’utilità degli insensati. La patria è l’universo”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 98)
La concezione teodorea della patria ci permette di annoverarlo tra i filosofi cosmopoliti. Riferisce infatti Diogene Laerzio:
“La patria è l’universo”. (Vite dei filosofi, 11, 98)
La saggezza secondo Teodoro consiste nel rendersi conto che è lecito fare tutto ciò che si giudica utile e di cui si ha desiderio, senza tener conto delle leggi e delle convenzioni.
Fa così l’ingresso nel Cirenaismo l’anaideìa cinica:
“È lecito rubare, commettere adulterio e compiere sacrilegi, ma al momento opportuno: nessuna di queste cose è infatti turpe per natura, una volta che sia stata rimossa l’opinione che sussiste per accordo degli stolti. Apertamente il saggio farà uso delle cose da lui bramate senza alcuna esitazione”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 1, 99)
Insieme all’anaideìa, Teodoro accolse anche la parresìa cinica, cioè l’assoluta libertà e franchezza nel parlare con chicchessia.
Riportiamo un episodio che vide coinvolti il nostro filosofo e il re Lisimaco:
“A Lisimaco che gli chiedeva: ‘non te ne andasti dalla tua patria spinto anche dall’invidia?’, rispose: ‘non dall’invidia, ma dai pregi della mia natura, ai quali la mia patria non faceva posto sufficiente’”.
Teodoro negò l’esistenza degli dei, confutando tutte le opinioni espresse dai Greci intorno a essi, e per questo fu soprannominato «l’ateo».
“Teodoro fu colui che distrusse ogni opinione sugli Dei”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 97)
“Anche riguardo a questo problema la maggior parte degli uomini affermò l’esistenza degli dei, il che è massimamente conforme a verità e a ciò a cui noi tutti ci indirizziamo sotto la guida della natura. Protagora invece ne dubitò, li negarono del tutto Diagora di Melo e Teodoro di Cirene”. (Cicerone, De nat. deor., I, 1,2)
Secondo alcuni studiosi, Evemero sarebbe partito proprio dalle riflessioni teodoree per trasformare gli dei della mitologia greca in personaggi mitici divinizzati dalla credulità popolare e ciò farà sì che la sua tesi diverrà utilissimo strumento nelle mani dei teologi cristiani per contrapporre la «verità» del Dio della Bibbia alla «falsità» degli dei pagani.
ANNICERIDE
A cura di Marco Machiorletti
Anniceride è un pensatore che cerca di attenuare la spregiudicatezza aristippea.
Egli comprende che l’uomo, in quanto animale sociale, ha bisogno degli altri e che soltanto nel rapporto con gli altri diventa possibile una ricerca della felicità. Ma per fare questo si deve attenuare l’autosufficienza e l’individualismo, per aprirsi all’altro; solo con l’altro è conseguibile il massimo piacere possibile, mentre escluderlo significa precludersi buona parte delle possibilità di conseguirlo. Da qui la rivalutazione di tutti quei fattori del vivere sociale che Aristippo aveva messo in mora ed in primis l’amicizia, la quale si istituisce e si consegue attraverso una ricerca del rapporto simpatetico col nostro prossimo. Per poter costituire legami di amicizia, occorre tentare di comprendere il desiderio dell’altro per contemperarlo col proprio e insieme tendere al piacere comune. Insieme all’amicizia Anniceride invita l’edonista a coltivare anche i sentimenti della gratitudine e dell’affettività parentale, nonché persino (contrapponendosi in ciò al messaggio del cosmopolita Aristippo) l’amore per la patria.
“L’amico non deve essere accolto soltanto per utilità, né ci si deve allontanare da lui quando questa manchi; ma anche per l’insita benevolenza, per la quale si sopporteranno anche i dolori. E invero anche colui che pone come fine il piacere e si duole quando ne sia privato, tuttavia sopporta volentieri i dolori per affetto verso l’amico”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 97)
“I seguaci di Anniceride per altre cose sono d’accordo con i seguaci di Egesia, ma ammettono nella vita l’amicizia, la gratitudine, la reverenza verso i genitori e l’adoprarsi per la patria. Perciò il saggio, anche se avrà dei fastidi, non di meno sarà felice, anche se ci saranno per lui solo piccoli piaceri”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 96)
Si tratta di un chiaro segno del fatto che il Cirenaismo, evolvendosi, ha finito per recare in sé anche i segni della propria negazione, avendo tra le sue linee evolutive anche la tendenza verso un piacere sempre più complesso, che finiva per coincidere con un eudemonismo partecipativo assai distante dalla premesse poste da Aristippo un secolo prima.
ENESIDEMO DI CNOSSO
A cura di Marco Machiorletti
Enesidemo (I sec. a.C.) nacque a Cnosso, nell’isola di Creta.
Lo scopo generale della sua opera è quello di stabilire che nulla può essere compreso in modo stabile né mediante la sensazione, né mediante il pensiero, e per questo motivo, né i Pirroniani né gli altri filosofi conoscono la verità delle cose.
Enesidemo taccia di Accademici di dogmatismo, evidenziando come essi pongono certe cose senza incertezze e ne rigettano altre senza alcuna esitazione; i seguaci di Pirrone di Elide, diversamente, fanno professione di dubbio e sono liberi da ogni dogma: nessuno di loro in assoluto ha affermato che tutte le cose sono incomprensibili né che sono comprensibili, ma che esse non sono comprensibili più di quanto non siano incomprensibili. Il Pirroniano dice che le cose non sono per un dato uomo comprensibili o incomprensibili più di quanto non lo siano per un altro uomo.
Per un Pirroniano una cosa non è né vera, né falsa, né probabile, né improbabile, né essere, né non-essere, bensì non è vera più di quanto non sia falsa, non è probabile più di quanto non sia improbabile, non è essere più di quanto sia non-essere.
L’affermazione che ciascuna cosa «non è più questo che quello» implicava la negazione della validità dei princìpi di identità, di non-contraddizione e del terzo escluso. Di conseguenza, implicava la negazione della sostanza e della stabilità nell’essere delle cose, e, dunque, implicava la loro totale indeterminazione, o, per dirlo con le parole di Enesidemo, il loro «disordine» e la loro «confusione».
Questa è appunto la condizione delle cose, che cercò di far emergere mostrando, in primo luogo, come all’apparente forza persuasiva delle cose fosse sempre possibile contrapporre considerazioni dotate di uguale grado di credibilità, che annullavano (o quantomeno controbilanciavano) quell’apparente forza persuasiva.
A questo scopo compose la «tavola dei tropi», laddove per «tropi» si intendono le ragioni, le vie che inesorabilmente conducono alla constatazione dell’«indeterminatezza delle cose», e dunque alla sospensione del giudizio.
Il primo «tropo» rileva le infinite differenze sussistenti fra i vari esseri viventi a tutti i livelli, e, in particolare, le differenze sussistenti nelle costituzioni dei sensi, che, ovviamente, comportano sensazioni fra loro non solo diverse ma financo contrastanti.
Né si può dire che l’uomo goda, rispetto agli altri animali, di una situazione di privilegio; anzi, per alcuni sensi, è vero esattamente il contrario. Pensiamo per esempio all’olfatto del cane.
Questo contrasto sussistente fra le differenti sensazioni dei diversi esseri viventi impone, ad avviso di Enesidemo, la sospensione del giudizio.
Il secondo «tropo» passa dalla considerazione degli esseri viventi in generale agli uomini in particolare e alle innumerevoli differenze che si riscontrano appunto fra gli uomini. Posto anche (ma non concesso) che le percezioni e i sentimenti degli uomini fossero superiori a quelli degli animali, la situazione non cambierebbe. Infatti gli uomini differiscono fra loro notevolmente, e queste diversità sono tali da comportare nei diversi uomini diverse percezioni, diversi pensieri, diversi sentimenti e anche diversi atteggiamenti pratici (e diversi al punto da essere fra loro persino contraddittori).
Anche per queste considerazioni, dunque, s’impone la sospensione del giudizio.
Ma anche restringendo la nostra considerazione a un solo uomo – quindi senza contrapporre uomo a uomo, e senza fare leva sulle diversità che contraddistinguono l’uno rispetto all’altro – si perviene alle medesime conclusioni e pertanto, ancora una volta, si impone la necessità di sospendere il giudizio.
Infatti la struttura dei vari sensi è diversa, e diverse, quindi, sono le relative sensazioni (terzo «tropo»).
Diogene Laerzio così sintetizza il terzo tropo:
“Il terzo tropo è determinato dalla differenza dei pori che trasmettono le sensazioni. Così la mela dà l’impressione di essere pallida alla vista, dolce al gusto, fragrante all’odorato. E la stessa figura si vede ora in un modo, ora in un altro, secondo le differenze degli specchi. Ne consegue che ciò che appare non è di una data natura piuttosto che di una data altra” (Diogene Laerzio, IX, 81)
Inoltre, nello stesso individuo, non solo sono diverse le strutture dei sensi, ma sono diverse e mutevoli anche le disposizioni, gli stati d’animo, che condizionano, di conseguenza, le rappresentazioni.
Tutti constatiamo che le nostre rappresentazioni differiscono, a seconda che siamo sani o malati, giovani o vecchi, in senno o fuori senno, felici o infelici, e così di seguito, sicché, anche per questa via, si impone la sospensione del giudizio (quarto «tropo»).
Il quinto «tropo» rileva la differenza e la contraddittorietà delle opinioni degli uomini intorno ai valori morali (buono e cattivo, bello e brutto, vero e falso), sugli Dei e sulla generazione e corruzione del mondo, a seconda che essi abbiano avuto educazione diversa e leggi diverse, oppure a seconda che appartengano a popoli e a luoghi diversi, o anche a sette filosofiche diverse).
Il sesto «tropo» rileva come nulla appaia in sé e per sé nella sua purezza, ma solo e sempre in vario modo mescolato ad altro e come la nostra rappresentazione ne risulti, di conseguenza, sempre condizionata, cosicché è necessario, anche per questa considerazione, sospendere il giudizio.
Filone di Alessandria scrive:
“Se uno si allontana alquanto dalle cose e cerca di vederle più chiaramente, saprà questo, che nessuna cosa ci si presenta nella sua semplice natura, ma ciascuna mista e mescolata con altre in maniere molteplici. Per esempio, i colori come li percepiamo? Non, forse, in compagnia dell’aria e della luce, elementi esterni a noi, e degli umori ond’è circondato lo stesso organo visivo? E il dolce e l’amaro in qual modo viene giudicato? Forse separatamente dagli umori che sono nella stessa nostra bocca, conforme a natura o contro? Non è così? E gli odori provenienti dai corpi arsi, ci rivelano, forse, le nature semplici e schiette dei corpi stessi? O non, piuttosto, mescolate all’aria e al fuoco che i nostri corpi distrugge, e alla nostra potenza olfattiva?” (Filone di Alessandria, De ebr., 189 sg.)
Il settimo «tropo» rileva come le distanze, le diverse posizioni e i luoghi condizionino le nostre rappresentazioni delle cose, al punto che, ancora una volta, la sospensione del giudizio appare necessaria.
L’ottavo «tropo» rileva come la quantità e la diversità dei rapporti quantitativi condizionino le nostre rappresentazioni in modo radicale.
Per esempio, la limatura d’argento appare nera se considerata nei singoli granuli, mentre considerata in massa appare bianca. Inoltre, i granelli di sabbia singolarmente appaiono ruvidi, in massa danno l’impressione di morbidezza.
Analogamente, variano gli effetti che producono le cose a seconda della loro quantità.
In modo particolare, poi, varia l’effetto dei composti col variare del rapporto quantitativo dei componenti.
Sesto Empirico conclude come segue:
“La mescolanza diligente ed esatta di farmaci semplici forma un composto utile; e se talora si trascura un’inclinazione anche minima, della bilancia, si ottiene un composto che, non solo non è utile, ma è, spesso, dannosissimo e funesto. Così il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della realtà esteriore” (Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 133 sg.)
Il nono «tropo» rileva come noi conosciamo le cose, per lo più mettendole in relazione con altre, e quindi come, al di fuori di tale relazione, le singole cose siano per sé non conoscibili.
Filone di Alessandria esprime con le seguenti parole questo tropo:
“Inoltre nemmeno questo s’ignora, che di solito nulla si conosce per se stesso, ma ogni cosa si giudica in confronto al suo contrario, come il piccolo in confronto al grande, l’asciutto in confronto all’umido, il caldo in confronto al freddo, il pesante in confronto al leggero, il nero in confronto al bianco, il debole in confronto al forte, il poco in confronto al molto. Altrettanto accade per tutto quanto si riferisce alla virtù o al vizio. L’utile si discerne per mezzo del dannoso, il bello opponendolo al turpe, il giusto e, comunemente, il bene, confrontandolo con l’ingiusto e col male, e così dicasi di tutte le altre cose, quante, osservando, si trova che ricevono un giudizio del medesimo tipo. E invero, ciascuna cosa essendo per se stessa incomprensibile, pare che la si conosca dal confronto con un’altra. Ora ciò che non è in grado di rendere testimonianza a se stesso, ma ha bisogno dell’altrui difesa, è mal sicuro, perché gli si possa prestar fede. Talché, anche per questa cosa vengono confutati coloro che intorno a qualsiasi cosa affermano o negano alla leggera” (Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 141 sg.)
Il decimo «tropo» rivela come la continuità, la frequenza o la rarità con cui i fenomeni ci appaiono condizionino strutturalmente il nostro giudizio.
Come esemplifica Sesto Empirico:
“Il sole è senza dubbio più atto a colpire che una cometa. Ma poiché il sole lo vediamo continuamente, e la cometa, invece, di rado, alla vista di questo astro rimaniamo colpiti” (Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 141 sg.)
Anche per questa ragione si impone la sospensione del giudizio.
La tavola dei «tropi» presenta, per così dire, la mappa completa delle difficoltà che impediscono di attribuire una validità alle nostre rappresentazioni e, in particolar modo, alle rappresentazioni sensibili.
Ma la compilazione di questa tavola non rappresenta che un primo contributo al rilancio del Pirronismo da parte di Enesidemo.
Il nostro filosofo, infatti, cercò di ricostruire altresì la mappa delle difficoltà che impediscono l’edificazione di una scienza, e tentò di smantellare in modo sistematico le condizioni e i fondamenti che la scienza postula.
Nel fare questo egli dovette avvalersi, in certa misura, di alcune delle argomentazioni che già erano state fatte valere dallo Scetticismo accademico.
Enesidemo procedette allo smantellamento dei tre capisaldi della scienza, ovvero l’esistenza della verità, l’esistenza delle cause e la possibilità di un’inferenza metempirica, ossia la possibilità di intendere le cose che si vedono come «segni» (effetti) di cose che non si vedono, e che si debbono postulare appunto come «cause» per spiegare le cose che si vedono.
Intorno alla verità Sesto Empirico ci riporta l’argomentazione del nostro filosofo:
“Se […] c’è qualcosa di vero, questo o è sensibile o è intelligibile o è sia-sensibile-sia-intelligibile. Ma esso non è né sensibile né intelligibile e neppure entrambe queste cose e dunque non c’è un qualcosa di vero” (Sesto Empirico, Contro i matem., VIII, 40)
Che il vero non possa essere qualcosa di «sensibile» Enesidemo lo argomentava – tra l’altro – rilevando come la sensazione sia «arazionale» e come non sia possibile che la conoscenza avvenga in modo «arazionale».
Che il vero non possa essere neppure qualcosa di «intelligibile» il nostro filosofo lo desumeva dal fatto che l’intelligibile non è pensato comunemente da tutti, e se, d’altra parte, esso viene pensato da alcuni soltanto, allora è soggetto a controversie.
Infine, che il vero non possa essere qualcosa «sia-sensibile-sia-intelligibile» Enesidemo lo sosteneva rilevando come, in questo caso, le difficoltà precedentemente rilevate si assommino, in quanto oltre al contrasto sussistente fra le cose sensibili e a quello sussistente fra le cose intelligibili (gli oggetti del pensiero), si aggiunge anche il contrasto reciproco che sussiste fra le cose sensibili e quelle intelligibili.
Ancora più radicali erano i ragionamenti di Enesidemo intorno alla «causa», i quali miravano a dimostrare l’impensabilità dell’esistenza stessa di un rapporto causale, ossia di un legame causa-effetto.
Ad avviso del nostro filosofo, il rapporto causale non può aver luogo né fra corpo e corpo, né fra incorporeo e incorporeo, né, ulteriormente, fra corporeo e incorporeo, né viceversa.
E per colpire fino alle radici la mentalità «eziologica» dei Greci, egli elaborò una nuova tavola dei «tropi», ossia una nuova tavola dei modi paradigmatici secondo cui coloro che pongono le cause cadrebbero inevitabilmente in errore.
Questi nuovi «tropi» sarebbero, ad avviso del nostro filosofo, gli errori strutturali in cui è destinato a cadere ogni tentativo di costruire una eziologia.
Questi «tropi» – che Enesidemo ritenne essere otto di numero – sono i seguenti:
1) il primo «tropo» consiste nel presumere, indebitamente, di raggiungere qualcosa di non visibile e di non evidente (la causa, appunto) senza che sia attestato da ciò che è visibile ed evidente.
2) Il secondo consiste nel pretendere di spiegare le cause di ciò che è oggetto di indagine limitandosi ad indicarne una sola, mentre sarebbe possibile indicarne molteplici.
3) Il terzo consiste nel pretendere di potere addurre cause che non hanno un ordine per spiegare ciò che, invece, si manifesta con un ordine (come fanno ad esempio gli Epicurei, che pretendono di addurre gli atomi disordinati per spiegare il mondo che è invece ordinato).
4) Il quarto consiste nel pretendere che le cose che non sono visibili si comportino come quelle visibili, mentre potrebbero benissimo comportarsi in maniera differente e particolare.
5) Il quinto consiste nella pretesa dei filosofi di stabilire le cause sulla base delle proprie ipotesi intorno agli elementi primi (ipotesi che variano a seconda delle varie sette filosofiche) e non sulla base di metodi e nozioni comunemente ammessi.
6) Il sesto consiste nel pretendere di accogliere come causa solo ciò che si accorda con le proprie ipotesi e di respingere ciò che invece non si accorda, anche se fornito di uguale forza di persuasione.
7) Il settimo consiste nell’accogliere cause in contrasto con i fenomeni, o, anche, in contrasto con le proprie ipotesi.
8) L’ottavo consiste nella pretesa di poter spiegare cose che appaiono in modo incerto con cause che sono parimenti incerte.
Non sarebbe difficile mostrare come molte delle spiegazioni causali dei «dogmatici» – specie quelle degli Epicurei e degli Stoici – incorrano in uno o più di questi errori.
Va peraltro subito rilevato come Enesidemo, a ben vedere, nel formulare queste critiche e nel redigere questa tavola risulti profondamente permeato proprio di quella «mentalità eziologica» che vorrebbe distruggere. Egli, infatti, a ben vedere, procede non ad altro che a una puntigliosa determinazione delle cause per cui non sarebbe possibile far ricerca delle cause.
Egli vorrebbe, insomma, scoprire le cause per cui non è possibile scoprire le cause.
Con la tavola dei «tropi», che denuncia gli errori in cui cade la «mentalità eziologica», ovvero la pretesa di trovare le cause dei fenomeni, si passa al «problema dell’inferenza», o, per dirla con il linguaggio antico, al problema dei «segni», al quale Enesidemo dedicò un’analisi specifica.
Un principio che riassume la profonda convinzione propria della filosofia e della scienza greca è quello per cui ciò che appare è uno spiraglio aperto sull’invisibile.
Secondo questo principio è possibile, partendo da ciò che si manifesta ai sensi, risalire a ciò che non cade sotto i sensi, ossia «inferire», partendo dal fenomeno, la causa meta-fenomenica.
Il fenomeno diviene così il «segno», ossia l’«indizio» di qualcos’altro (che non cade sotto i sensi), vale a dire della «causa non fenomenica». E’ proprio questo principio che Enesidemo intese contestare in modo radicale. Nel quarto libro dei Dircorsi pirroniani egli scrisse che le cose visibili che noi chiamiamo segni delle cose non visibili, non lo sono affatto e che coloro che credono questo sono indotti in inganno da una vana passione.
E aggiunse, come ci riporta Sesto Empirico:
“Se le cose apparenti appaiono allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili, e se i segni sono apparenti, i segni appaiono allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili. Ma i segni, in realtà, non appaiono affatto allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili; le cose apparenti, invece, appaiono allo steso modo a tutti quelli che si trovino in condizioni simili; dunque i segni non sono cose apparenti” (Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 215)
Per chiarire il ragionamento di Enesidemo, Sesto osservava – tra l’altro – che gli stessi fenomeni patologici che si manifestano in un malato possono apparire, per esempio a tre medici che lo visitano e che si trovano dunque in condizioni simili, come «segni» dovuti a «cause diverse».
Il che significa che le cose che appaiono possono essere intese come «segni» solo arbitrariamente, e dunque, indebitamente.