ERMENEUTICA
“Qui ci soccorre una regola ermeneutica tradizionale, formulata per la prima volta dall’ermeneutica romantica, ma la cui origine risale alla retorica antica. Si tratta del rapporto circolare fra il tutto e le parti: il significato, anticipato da un tutto, si comprende attraverso le parti ma le parti svolgono la loro funzione chiarificatrice solo alla luce del tutto”.
(H.-G. Gadamer, Verità e metodo)
A cura di Diego Fusaro Che cos’è l’ermeneutica? Qual è il suo significato? La parola “ermeneutica” deriva dal greco “hermeneutikè téchne”, che, se tradotto alla lettera, significa “arte dell’interpretazione”. Si è soliti concordare sul fatto che, a sua volta, l’espressione derivi dal dio Hermes, il messaggero degli dèi olimpici: il cui compito stava nel trasmettere ai mortali i messaggi divini, facendo, per così dire, da tramite tra l’Olimpo e la terra. È, d’altro canto, a Hermes che viene anche attribuita dal mito la scoperta del linguaggio e della scrittura: scoperta che avrebbe reso possibile, ai mortali, la traduzione dell’infinito che abita i loro pensieri nel finito del testo scritto. Nel suo significato più generale l’ermeneutica è, dunque, l’arte dell’interpretazione, mediante la quale – così per lungo tempo – si cerca di intendere il vero significato dei testi: ciò vale soprattutto per i Testi Sacri della tradizione cristiana. Come può essere realmente interpretata la parola di Dio così come ce l’hanno restituita i discepoli di Cristo? Agostino di Ippona (354 – 430 d.C.), con il suo testo Sulla dottrina cristiana, distingue tra una interpretazione “letterale” (che insegna i fatti accaduti), una “allegorica” (da cui apprendiamo ciò in cui crediamo), una “morale” (dalla quale si impara l’agire) e una “anagogica” (che ci trasmette la tensione spirituale). Uno sviluppo propulsivo è senz’altro offerto all’ermeneutica, nell’Occidente cristiano, dal problema dell’interpretazione dei Testi Sacri: e ciò soprattutto quando, con Lutero, affiorano letture divergenti, che creano scissioni ermeneutiche – è il caso di dirlo – in senso al mondo cristiano. È a quel punto che scaturisce, più forte che mai, l’esigenza di una retta ermeneutica del Testo Sacro: per inciso, è anche in ciò una delle più rilevanti differenze tra l’Occidente cristiano e l’Oriente islamico, che invece non conosce l’ermeneutica del Testo Sacro. Questa diversità si spiega in ragione del fatto che il Corano si pretende scritto direttamente da Allah e, dunque, non può essere liberamente interpretato, là dove il Vangelo, essendo stato scritto dagli apostoli e, per di più, in forme diverse a seconda del singolo autore, rende possibile un ampio margine di interpretazione da parte dell’ermeneuta. Addirittura, Spinoza, nel Seicento, si avventurerà a sostenere l’esigenza di interpretare i Testi Sacri con il solo ausilio del “lume naturale”, ossia con una ragione libera da ogni residuo della fede. Uno dei capisaldi dell’ermeneutica è da ravvisarsi nel cosiddetto “circolo ermeneutico”, che troviamo tematizzato presso numerosi autori (già, ad esempio, presso il teologo protestante Mattia Flacio Illirico e nella sua opera del 1567, La chiave della Sacra Scrittura): il circolo ermeneutico permette una prima immediata e complessiva comprensione del Testo Sacro, resa possibile dalla fede dell’ermeneuta; questi solo successivamente, e tenendo sempre in debita considerazione la visione fideistica, potrà rivolgersi alla ricerca della conferma della giusta esegesi per il tramite delle analisi delle singoli parti del testo. Sviluppando verso nuove direzioni questo principio, Friedrich Schleiermacher (1768–1834) si spingerà a sostenere che l’ermeneutica è un compito infinito e inesauribile: non esiste una interpretazione che possa dirsi definitiva. Finora s’è detto che l’ermeneutica è l’arte dell’interpretazione del testo. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, secondo uno sviluppo che fiorirà nel Novecento, si sviluppa una nuova prospettiva: l’interpretazione si estende e riguarda il rapporto del soggetto interpretante non solo con il testo, ma anche con il mondo nella sua complessità. In altri termini, il mondo viene concepito come un immenso testo che chiede di essere interpretato. Voglio qui ricordare Wilhelm Dilthey (1833–1911) e la sua distinzione tra lo “spiegare” (in tedesco “erklären”) e il “comprendere” (in tedesco “verstehen”): le scienze della natura spiegano il mondo, investigando sulle cause e sulle leggi universali, là dove le scienze dello spirito aspirano a comprendere il caso singolo nella sua storicità. La lezione di Dilthey sarà metabolizzata e sviluppata verso nuove direzioni soprattutto da Martin Heidegger, nel Novecento: a suo avviso, il nostro essere al mondo è, nella sua sostanza, un continuo tentativo di comprensione ermeneutica di ciò che ci sta intorno. L’ermeneutica, in questo modo, cessa di essere intesa come mero metodo e assume un carattere ontologico, connesso con il rapporto che lega l’uomo all’essere nella sua interezza. Questo approccio diventa, poi, centrale presso l’allievo principale di Heidegger, Gadamer, il quale, in Verità e metodo (1960), mette a tema la “fusione di orizzonti”: ogni interpretazione scaturisce dall’incontro tra l’orizzonte storico dell’interpretato e quello dell’interprete, dando luogo a un prisma ermeneutico che varia storicamente. A me pare che il principio dell’ermeneutica debba oggi più che mai essere valorizzato, soprattutto in ragione del fatto che stiamo assistendo a un predominio di quelle che Dilthey appellava “scienze della natura”: le quali pretendono di essere le sole depositarie del sapere legittimo, per ciò stesso delegittimando ogni forma di conoscenza che non sia scientifica. Contro questa tendenza, occorre ribadire con forza l’importanza dell’interpretazione e di uno spazio di verità che – per riprendere il titolo di Gadamer – vada al di là del metodo delle scienze. Tuttavia, il principio dell’ermeneutica non deve essere estremizzato in direzione di un relativismo soggettivistico, per cui il punto di vista dell’individuo interpretante si ponga come assoluto: la celebre sentenza di Nietzsche – “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” – è, da questo punto di vista, l’apice di un’ermeneutica portata ai suoi eccessi, piegata a un relativismo prospettico che la porta, dalla ricerca della verità mediante l’interpretazione, all’abbandono di tale ricerca in nome dell’infinita e mai definitiva interpretabilità. |