Nature

FELICITÀ

“Pensiamo che la felicità sia il più degno di scelta tra tutti i beni, senza aggiunte”. (Aristotele, Etica Nicomachea)






A cura di Diego Fusaro

Felicità. Un concetto che, più di altri, tutti credono di avere ben chiaro nel proprio immaginario. Tutti, anche quelli che non si sono mai avvicinati alla filosofia, pensano infatti di sapere cosa voglia dire essere felici. E, soprattutto, cercano concretamente di esserlo. Ma che cosa vuol dire, davvero, essere felici? E, posto che sia possibile dare una definizione della felicità, può essa bastare per essere, poi, realmente felici? Prima di Epicuro, era stato Aristotele a sottolineare la difficoltà di ogni possibile definizione della felicità. È, forse, facile inquadrare che cosa concretamente ci faccia felici: un viaggio o un regalo, un incontro o un successo. Ma quando poi, interrogati, dobbiamo spiegare che cosa davvero sia la felicità che con quei mezzi abbiamo raggiunto, ecco, allora iniziano le difficoltà. Sta in ciò, forse, il paradosso della felicità: possiamo più o meno facilmente identificare i mezzi che ci portano ad essa, assunta come un fine. Ma non riusciamo mai a spiegare che cosa sia quel fine, quale sia la sua natura. Vorrei partire da una indicazione di Epicuro, che mi pare preziosa: egli dice che il fine ultimo a cui tutti – filosofi e non – tendiamo è la felicità. Addirittura, molto tempo dopo, nel 1776, la “Dichiarazione d’Indipendenza americana” sancirà un diritto, inesistente prima d’allora, alla felicità. Seguendo la filosofia epicurea, la felicità consisterebbe nel piacere. Quest’ultimo, però, non deve essere inteso – come troppo spesso oggi si fa – nel senso di un godimento smisurato e trasgressivo. Tutto il contrario. Il vero piacere, quello che procura la felicità, è il piacere misurato, che sostanzialmente nasce da una condizione di assenza di dolore. Così concepito, il piacere che porta alla felicità non è – per addurre alcuni esempi concreti – bere senza misura o mangiare fino all’eccesso: è, invece, bere e mangiare quel tanto che basta, per rimuovere quei dolori specifici che sono, appunto, la sete e la fame. La felicità, dunque, dovrebbe coincidere con un piacere in negativo, tale cioè da corrispondere con l’assenza di dolore. Non sono, tuttavia, sicuro che questa definizione “in negativo” sia di per sé sufficiente a chiarire cosa in concreto sia la felicità. Mi spiego. È chiaro che, per essere felici, dobbiamo trovarci in una stabile condizione di assenza di dolori. Ma questo davvero basta per essere felici? Forse, potremmo dire che è condizione necessaria, ma non sufficiente. A questa condizione di assenza di dolore, mi sentirei di aggiungerne un’altra, forse meno facilmente definibile: siamo felici quando raggiungiamo la nostra pienezza d’essere; ossia quando sentiamo che abbiamo raggiunto, anche con l’assenza di dolore di cui dici, uno stato di equilibrio con noi stessi, con gli altri e con il mondo in generale. Per essere felici, dunque, non basta non provare dolore, proprio come non è sufficiente vivere: occorre vivere bene, con un’intensità che noi stessi avvertiamo come piena e, dunque, tale da non farci desiderare nulla di più e nulla di meno di ciò che effettivamente abbiamo, di ciò che realmente siamo. In effetti, la felicità è un concetto davvero particolare: sfugge necessariamente a una definizione universale, che cioè sia valida per tutti allo stesso modo. E questo non solo perché, come dicevo, la felicità c’è, quando sentiamo di essere felici (non potremmo, in altri termini, essere oggettivamente felici senza sentire soggettivamente di esserlo). Accanto a questo motivo, ve n’è un altro: ciò che fa sì che io mi senta realizzato appieno non è necessariamente ciò che fa sì che anche tu ti trovi in una condizione analoga. La felicità implica, quindi, una sua specifica componente soggettiva: che fa sì che ciascuno possa essere felice a suo modo, diversamente dagli altri. Per questo, infatti, ciascuno cerca di essere felice inseguendo i propri sogni e i propri progetti, che sono, per l’appunto, i suoi.

Citazioni

“Oggi la maniera dialettica di pensare è estranea a tutto il nostro universo di termini e di azioni. Essa sembra appartenere al passato e condannata a essere respinta dalle conquiste della civiltà tecnologica. La realtà di fatto sembra sufficientemente promettente e redditizia per respingere o assorbire al suo interno ogni alternativa”. (H. Marcuse, "Ragione e rivoluzione")
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