FILOSOFI MEGLIO TRATTATI
“Per quanto sia innegabile che in tutte le epoche coloro che erano in grado di elevarsi a un mondo ideale furono sempre una minoranza, mai come al giorno d’oggi, per ragioni che posso passare sotto silenzio, questa minoranza è stata così ristretta” (J.G. Fichte, La missione del dotto)
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PLATONE
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Maxi RiassuntoPlatone nacque ad Atene nel 427-428 a.c.e morì nel 348-347 circa : si è a lungo discusso sul suo soprannome ( Platone , infatti, é solo un soprannome , in quanto il vero nome era Aristocle ): si è concordi sul fatto che derivi dall’aggettivo greco “platùs” (ampio).Vi è chi sostiene che l’aggettivo vada attribuito alla larghezza e alla fluità del suo stile , chi è invece del parere che sia dovuto alla sua fronte particolarmente ampia e chi sostiene che fosse un soprannome datogli dal suo insegnante di ginnastica a causa dell’ampiezza delle sue spalle. Pur essendo un autore di circa 2400 anni fa ,egli affronta problemi che possiamo accomunare a quelli dei giorni nostri:la sua è un’ epoca di passaggio tra oralità e scrittura e lui è il primo ad affrontare questo problema.Di Platone possediamo praticamente tutte le opere(probabilmente molte gli sono attribuite pur non essendo effettivamente sue),ma paradossalmente egli stesso ci dice che la vera filosofia è solo orale.All’inizio del 1800 un teologo luterano di nome Schleirmacher effettuò un gran lavoro sulle opere di Platone ignorando però totalmente quanto abbiamo appena detto:egli esaminò infatti la filosofia platonica con il mezzo del “sola scriptura”(solo mediante la scrittura:era un celebre motto di Lutero):non si curò assolutamente del fatto che per Platone la filosofia fosse solo orale,rifiutando tra l’altro di servirsi di scritti non realmente platonici.Il teologo luterano ebbe però il merito di introdurre un altro metodo per esaminare la filosofia platonica:si trattava del sistema ermeneutico (la parola deriva da Hermes,messaggero ed interpretatore divino;in Italiano la parola ha assunto il significato di “tecnica dell’interpretazione”):era (ed è) infatti difficile definire la filosofia platonica,in quanto non ci troviamo di fronte ad un sistema,ma ad un insieme:il “corpus” platonico,come quello dell’Antico e del Nuovo Testamento,è costituito da una molteplicità di libri;la tecnica dell’ermeneutica consiste nel riuscire a contestualizzare un testo,al fine di comprenderlo,servendosi delle nozioni generali,in questo caso,della filosofia platonica:è come quando leggiamo un articolo di giornale;in realtà non partiamo proprio da zero e tramite la lettura dell’articolo ampliamo le nostre conoscenze.Platone fu discepolo del celebre Socrate e visse in prima persona l’ingiusta condanna del maestro (della quale si fa portavoce nell’ Apologia ):nasce proprio da questa esperienza la filosofia platonica.Egli rimane profondamente deluso dalla politica:prima vi era stato il governo filo-spartano dei Trenta Tiranni,di cui era membro niente meno che il suo stesso zio Crizia:Platone rimase deluso dal loro dominio dispotico e violento.Delusione e sfiducia gli procurò anche la democrazia restaurata,che nel 399 mandò a morte Socrate (in parte si trattava proprio di una condanna politica: Socrate era infatti un aristocratico e pur avendolo accusato di empietà e di corrompere i giovani,il vero motivo della condanna era di origine politica : i suoi “seguaci” ,mentre attendeva in carcere il giorno dell’esecuzione,prepararono un piano per farlo evadere,ma lui si rifiutò di compiere tale azione perchè era del parere che fosse un grande errore violare la legge : egli aveva infatti gran rispetto per la legge , che a suo avviso poteva essere criticata ma non infranta;quindi di fronte ad una legge ingiusta non bisogna reagire infrangendola,bensì battersi per farla modificare in meglio : e Socrate si accusa proprio di non essere riuscito a fare questo). Il tema della condanna di Socrate viene da Platone affrontato anche nel ” Critone ” , dialogo che prende il nome da Critone , un agiato ateniese coetaneo di Socrate e , come ci dice Senofonte , suo discepolo devotissimo . La scena si svolge nel carcere in cui Socrate deve soggiornare in attesa della morte . Critone cerca di persuadere Socrate ad evadere : tenta di convincerlo dicendo che se non fuggirà la gente biasimerà i suoi amici per non averlo aiutato ; Critone dice poi che tutte le difficoltà pratiche che la fuga comporta sono superabili e che rimanendo in carcere Socrate danneggerà se stesso , i figli e gli amici . Poi prende la parola Socrate , che si ostina a preferire la permanenza in carcere : a sua difesa dice che la vita di un uomo deve essere coerente con le sue dottrine : la legge non va violata in nessun caso : Socrate ha sempre rispettato le leggi e non vuole violarle proprio ora : è ormai vecchio e trasgredire le leggi dopo aver condotto una vita corretta , il tutto per vivere solo i pochi anni di vita che gli resterebbero , sarebbe un’assurdità , un’incoerenza . Il problema di fondo è se evadere sia giusto oppure no : per Socrate chiaramente non lo è , e commettere ingiustizia è gravissimo e più dannoso per chi la commette che non per chi la subisce . Socrate pronuncia poi una celeberrima frase : non bisogna tenere in massimo conto il vivere come tale , bensì il vivere bene , ed il vivere bene è lo stesso che il vivere con virtù e con giustizia . Se non avesse vissuto tale esperienza probabilmente si sarebbe dedicato ad attività di tutt’altro genere;egli infatti era aristocratico sia per origini sia per orientamento politico ed è proprio alla vita politica che egli si sarebbe dato se non avesse vissuto la condanna politica del suo maestro.La politica,tuttavia,è una componente che sarà sempre in qualche modo presente nelle sue opere . Perchè Platone amasse tanto l’oralità e il dialogo è facile intuirlo:il dialogo presenta parecchi vantaggi tra i quali la possibilità di interloquire e di modulare il discorso in base a chi ci si rivolge:un libro,invece,non consente un dibattito e può finire nelle mani di persone che potrebbero fraintenderlo;Platone stesso dice che c’è un aspetto che accomuna scrittura e pittura:le immagini dipinte si presentano quasi come se fossero vive,ma se si chiede loro qualcosa,chiaramente,tacciono;lo stesso vale anche per i discorsi scritti:si può quasi avere l’impressione che parlino,ma se si chiede loro di spiegare qualcuno dei concetti che hanno espresso,essi non rispondono.Tuttavia,come abbiamo detto,egli stesso ha scritto molto(sotto il suo nome ci sono giunti 35 dialoghi e 13 lettere,la cui stesura viene generalmente suddivisa in 3 periodi della sua lunga vita:la giovinezza,la maturità e la vecchiaia).Che funzione aveva dunque la srittura per Platone?Egli,pur prediligendo apertamente l’oralità,sente il bisogno di scrivere(probabilmente anche dettato dal periodo di transizione in cui viveva)e la scrittura svolge per Platone principalmente due ruoli:uno propagandistico,vale a dire cercare di invogliare alla filosofia,l’altro rammemorativo,cioè far ricordare la filosofia a chi già l’ha vissuta(ad esempio le persone anziane).Si può quindi dire che anche la scrittura avesse una sua utilità,pur non essendo un “filosofare”pieno:in una sua opera Platone la definisce “un gioco serio”,vale a dire un passatempo piu’ intelligente di molti altri.Egli argomenta in favore dell’oralità in un mito di ambientazione egizia,simbolo per i Greci di una grande civiltà:il protagonista è Teuth,divinità della scrittura e della saggezza.Egli è un inventore dalle grandi abilità e presenta le sue scoperte al faraone che le promuove sempre con entusiasmo;quando però Teuth propone l’invenzione della scrittura,spiegando che serve a ricordare,il faraone non approva,sostenendo che,al contrario,sortirebbe l’effetto opposto:mettendo le cose per iscritto,infatti,non è più necessario ricordarle.Proprio nel ricordare consisteva la sapienza:le posizioni del faraone possono un pò identificarsi con quelle di Platone.E’ un’evidente difesa dell’oralità mediante un mito platonico,inventato di sana pianta,cosa che per altro Platone faceva spessissimo.Può sembrare strano che un filosofo,che per definizione è chi cerca di dare spiegazioni razionali e scientifiche,si serva del mito,che non è nient’altro che una spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione:la verità è che per Platone il mito è una cosa al di fuori del comune,che ha ben poco a che fare con la tradizione.Egli sapeva bene che l’argomentazione razionale era migliore,ma sapeva altrettanto bene che un mito,una favola o una metafora possono sortire ottimi effetti:stimolano la fantasia,divertono e restano meglio impressi.Platone se ne serve dunque come arma impropria dell’intelletto.Inoltre è convinto che si possa dimostrare l’immortalità dell’anima,ma non razionalmente:si serve cosi’ di miti esplicativi,detti escatologici:non a caso si parla di “fede razionale”di Platone.Egli sfrutta inoltre i miti per descrivere particolari livelli della realtà:aveva in mente come una scala che vedeva il suo fulcro intorno all’essere,che corrispondeva al pieno livello di conoscenza(è pienamente conoscibile solo una cosa che è,che esiste pienamente):più ci si allontana dall’essere(sia più in alto,sia più in basso) e più la conoscenza diventa inferiore.Una cosa non pienamente conoscibile non è pienamente razionale ed il modo migliore per parlarne è il mito.Un mito molto interessante è quello raccontato nel “Fedro” ,una dei dialoghi più conosciuti:Platone tratta qui un argomento non pienamente raggiungibile con la ragione,anche se il nucleo è alquanto razionale:racconta dell’esistenza dell’anima e dell’incarnazione.Per Platone l’anima è una biga trainata da cavalli alati:essa è composta da tre elementi:un auriga e due cavalli.Nell’esistenza prenatale le anime degli uomini stavano con quelle degli dei nel cielo,con la possibilità di raggiungere un livello superiore,l’iperuranio,una realtà al di là del mondo fisico che si riconnette alla celeberrima teoria delle idee,che esamineremo in seguito,secondo la quale vi erano due livelli di realtà:il nostro mondo e le idee.L’auriga impersonificava l’elemento razionale,mentre i cavalli quelli irrazionali:ciò significa che la nostra anima è per Platone costituita da elementi razionali ed irrazionali.Dei due cavalli,uno,di colore bianco,è un destriero da corsa ubbidiente e con spirito competitivo,l’altro,nero,è tozzo,recalcitrante ed incapace:compito dell’auriga è riuscire a dominarli grazie alla sua abilità e alla collaborazione del bianco.Il nero si ribella all’auriga (la ragione)e rappresenta le passioni più infime e basse,legate al corpo.Il bianco rappresenta le passioni spirituali,più elevate e sublimi.Significa che non tutti gli aspetti irrazionali sono negativi e che è comunque impossibile eliminarli:si possono solo controllare con la “metriopazia”,la regolazione delle passioni.E’ una metafora efficace perchè è vero che guida l’auriga,ma senza i cavalli la biga non si muove:significa che le passioni sono fondamentali per la vita.Sta anche a significare che soltanto alla parte razionale,in quanto dotata di sapere,spetta il governo dell’anima.Anche le anime degli dei hanno i cavalli,ma solo bianchi.Lo scopo è arrivare all’altopiano dell’iperuranio:gli dei non incontrano particolari difficoltà,mentre le bighe delle anime umane hanno seri problemi perchè si creano ingorghi ed i cavalli neri tendono a volare nella direzione opposta,verso il basso.Accade spesso che le ali dei cavalli si spezzino e la biga precipiti sulla terra:questa è l’incarnazione.Una volta arrivato sulla terra,l’uomo non si ricorda più dell’altra dimensione,e vive con nostalgia:la vita dell’uomo non è nient’altro che un tentativo di tornare a quella situazione primordiale e le vie da percorrere per raggiungerla sono due,vale a dire la filosofia,che ci consente di vedere le ombre di quel mondo splendido,di cui quello terreno è solo un’imitazione,e la bellezza,una via più semplice,che fa nascere l’amore;se ha la meglio il cavallo bianco guidato dall’auriga l’amore assumerà connotazioni sublimi,se vincerà quello nero sarà un amore puramente fisico.La bellezza è una delle tante idee e filtra facilmente nel mondo sensibile perchè è coglibile per tutti grazie ad un senso,la vista.Secondo Platone per gli occhi degli innamorati intercorre un fluido che scorre fino al punto dove le ali dei cavalli s’erano spezzate cosi’ che si ricreano e si può tornare alla dimensione primordiale:il liquido che viene a contatto con l’ala spezzata le dà nuovo vigore facendola rispuntare;proprio quando essa sta ricrescendo,esattamente come i primi denti che spuntano,fa soffrire.Quando si è vicini alla persona amata,contemplandola scorre nuovo flusso che fa passare il dolore dell’anima alimentandola.Quando si è lontani dalla persona amata,invece,non arrivando più il flusso,le ali si inaridiscono e si seccano,accentuando il dolore e la sofferenza.Quindi l’innamorato farà di tutto per vedere il più spesso possibile la persona amata e solo in sua presenza starà bene.Il concetto di amore platonico che abbiamo oggi deriva dal medioevo e non è completamente corretto in quanto i Medioevali credevano che per un innalzamento spirituale non ci dovesse essere amore fisico;per Platone c’è una scala gerarchica dell’amore:nei gradini più bassi si trova l’amore fisico,ma per arrivare in cima ad una scala bisogna percorrere tutti i gradini.Per Platone l’anima ed il corpo hanno caratteristiche opposte:l’una è spirituale e legata all’Iperuranio,alla dimensione delle idee,mentre l’altro è puramente materiale,affine al mondo sensibile e terreno,e soprattutto è mortale.Mentre il corpo spinge l’uomo a cercare piaceri sensibili e di livello basso,l’anima lo induce a cercare piaceri sublimi e spirituali.Va senz’altro notato come Platone riprenda la teoria dei Pitagorici(e degli Orfici )secondo la quale il corpo è la prigione dell’anima(si giocava sulla parola greca “soma” che indica il corpo e “sema”,che indica invece la prigione).Il contrasto anima-corpo lo si affronta anche da un punto di vista gnosologico:il corpo talvolta ci aiuta a conoscere,talvolta ci ostacola:se si disegna un triangolo rettangolo e ci si ragiona,da un lato può essere un aiuto per passare all’astrazione e passare all’idea di triangolo,che è ben diversa dal triangolo disegnato che è solo un’imitazione mal riuscita,dall’altro può essere un ostacolo se ci si limita a ragionare su quel singolo triangolo senza passare al livello di astrazione.La principale differenza tra l’amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al giorno d’oggi abbiamo in mente un amore “bilanciato”,biunivoco,dove i due amanti si amano reciprocamente;ai tempi di Platone era univoco,uno amava e l’altro si faceva amare:nel mondo greco o l’uomo amava la donna o l’uomo amava l’uomo:l’omosessualità era diffusissima.Talvolta ci poteva essere un amore biunivoco,che Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre tra gli occhi:secondo lui poteva venirsi a creare una situazione di “specchio”:in realtà l’amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso perchè vede riflessa la propria bellezza;è una concezione mitica che rievoca i celeberrimi versi di Dante:”amor,ch’a nullo amato amar perdona…”:è come se chi è amato si innamorasse del sentimento stesso.Platone ci parla dell’amore(in Greco “eros”,che designa l’amore passionale ed irrazionale,diverso da “agapè”,l’amore puro)nel ” FEDRO “:in realtà gli argomenti trattati sono due:1)l’eros 2)la retorica.Quella di Platone,oltre ad essere un’epoca di passaggio tra oralità e scrittura,è anche un’epoca in cui emerge un importante quesito:come si fanno ad educare i cittadini?Vi era chi rispondeva che l’unica via era la filosofia(tra questi Platone stesso),e chi,come Isocrate,sosteneva che per tale funzione ci fosse la retorica.Platone,dunque,vuole argomentare in difesa della filosofia:le vicende si svolgono nella campagna circostante Atene,in una calda giornata estiva.Protagonista è Socrate ,che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che l’autore matura tenda a sfumare;Socrate in campagna si imbatte in Fedro,un suo discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti.I due si siedono al riparo dal sole sotto un platano e Fedro mostra a Socrate un’orazione di Lisia,uno dei più grandi oratori greci,che si è appena trascritto:è un’orazione riguardante l’amore a carattere “sofistico”,si cercano cioè di dimostrare cose paradossali ed assurde:Lisia (va senz’altro notato come Platone ben riproduca lo stile lisiano)cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama:Lisia parte dal presupposto che l’amore sia una “follia” e che concedersi a chi ama è una stoltezza:si avrebbe un amore troppo “appiccicaticcio” che se mai si rompesse farebbe soffrire terribilmente l’innamorato-amante;poi dopo che è passato l’ardore iniziale si torna in sè e ci si rimprovera di esseresi comportati così da “rimbambiti” e si finisce per soffrire di continuo.Con una persona non amata è chiaro che ci si comporterebbe in tutt’altro modo:più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto all’amato non amato . Socrate a sua volta imposta due discorsi:nel primo conferma la tesi lisiana,mentre nel secondo sostiene che il suo “demone”(una specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta commettendo un errore) lo sta ammonendo,facendogli capire che sta clamorosamente sbagliando.Anche per Socrate l’amore è una follia,però,a differenza di Lisia,per lui è positiva:vi sono infatti follie dannose e negative,ma anche positive e benigne.Poi Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio dell’amore (“Eros”).E’ difficile comprendere quale sia il tema centrale(l’amore?La retorica?);fatto sta che sono due argomenti strettamente connessi tra loro in quanto l’amore(l’eros)è una metafora per indicare la filosofia:questa stretta parentela Platone la esamina meglio nel “SIMPOSIO”(dal Greco sun+pino=bere insieme),il suo capolavoro : Socrate si sta dirigendo verso la casa del tragediografo Agatone quando incontra un amico;allora invita anche l’amico e quando sono ormai arrivati , Socrate comincia a riflettere intensamente.Durante i simposi (all’epoca non c’era la TV e le serate si trascorrevano cosi’)veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di dare un ordine alla discussione facendo passare la parola da un invitato all’altro e selezionare l’argomento da trattare.Si sceglie di parlare dell’amore:c’è chi dice che Eros è la divinità più giovane e più bella,chi dice che è la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto,chi sostiene che sia una forza cosmica che domina la natura,chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti di eternarsi procreando,c’è chi è del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare perfino la guerra,facendo riferimento all’episodio mitico secondo il quale Ares,il dio della guerra,sarebbe innamorato di Afrodite.Aristofane,celeberrimo commediografo,narra una storia semiseria:si tratta di un mito secondo il quale gli uomini un tempo erano tondi, sferici e doppi:questi esseri si sentivano forti e perfetti e peccarono di tracotanza;gli dei per punirli li tagliarono a metà e per ricucirli fecero loro un nodo(l’ombelico)sulla schiena;poi lo posizionarono sulla pancia perchè si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso:questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l’altra metà e la cercavano disperatamente.Quando la trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare e cosi’ morivano di fame;cosi’ gli dei crearono l’atto sessuale che consentiva di trovare un appagamento da questa unione.Questo mito originale ci spiega due cose:1)in ogni epoca i rapporti sessuali sono sempre stati etero e omo.2)il tentativo di ritornare ad una situazione primordiale.Notare che nel mondo greco la forma sferica è sempre vista come unità originaria perfetta( cosi’ era già in altri grandi filosofi quali Empedocle,Parmenide…).Se si leggono accuratamente tutti i discorsi ci si accorge che ognuno di essi contiene una parte di verità:il discorso finale di Socrate non sarà nient’altro che una sintesi in cui li unisce praticamente tutti.Egli racconta di essersi una volta incontrato con una sacerdotessa(Diotima)che gli ha rivelato tutti i misteri dell’eros:viene a proposito citato un mito riguardante i festeggiamenti divini per la nascita di Afrodite:tra le varie divinità ci sono anche Poros(astuzia,furbizia)e Penia(povertà).Essi,ormai ubriachi per l’eccessivo bere,si uniscono e viene cosi’concepito Eros,che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori:è ignorante,povero e brutto a causa di Penia,ma sa cavarsela sempre grazie a Poros.Non è bello,ma sa andare a caccia della bellezza;egli sente l’amore ed è soggetto della ricerca della bellezza e dell’amore,svolge le mansioni dell’amante e non dell’amato.Chiaramente se ricerca la bellezza significa che non la possiede:così il filosofo è privo e bisognoso del sapere (penia=povertà),ma ha anche le capacità di cercarsi e di procurarsi ciò di cui è privo (poros=astuzia,espediente);dato che Eros è privo di bellezza e le cose buone sono belle,manca anche di bontà;ciò che non è bello o buono,non è necessariamente brutto e cattivo;per Platone vi è un livello intermedio;tra il sapere e l’essere ignoranti la via di mezzo consiste nell’avere buone opinioni,senza però darne ragione;la posizione intermedia comunque non è un male perchè è uno stimolo per arrivare al top:chi si trova nella posizione più bassa sa di non potersi elevare e neanche ci prova,chi si trova in quella più alta non si deve impegnare perchè è già nella posizione ottimale:chi si impegna e lavora è chi si trova in una zona intermedia (i filosofi,che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere).Tutti gli dei,gli aveva detto Diotima,sono belli e buoni e di conseguenza Eros non rientra nella categoria.Anche da questo punto di vista Eros riveste una posizione intermedia:non è un dio,ma neanche un mortale:è un qualcosa che nasce e muore di continuo;è una metafora con cui si vuole dimostrare che non si può mai possedere totalmente l’amore;è anche metafora della filosofia perchè l’uomo non possiede il sapere,ma si sforza per ottenerlo;può riuscire ad avvicinarvisi,ma non si tratta comunque di una conquista definitiva:il pieno sapere è irraggiungibile.Dunque Eros è una semi-divinità intermedia.Nella struttura sociale dell’epoca l’omosessualità era tipica dei filospartani e di coloro che avevano un’impostazione culturale arcaica:è questo il caso di Socrate e Platone.Il rapporto veniva vissuto “pedagogicamente”,vale a dire che era un rapporto di tipo maestro-allievo.A differenza dell’amore eterosessuale,di livello più basso in quanto volto al piacere fisico e alla procreazione materiale,quello omosessuale era di più alto livello in quanto volto alla procreazione spirituale:vengono fecondate le anime per procreare nuove idee.Propriamente in Socrate non si parlava di amore,ma vanno tenute in considerazione le affermazioni a riguardo della maieutica(Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre che era un’ostetrica:lei faceva partorire le donne,lui le idee): Socrate aveva quindi già in mente anime gravide da far partorire;Platone invece sostiene che ci sia una vera e propria fecondazione delle anime,che chiaramente non devono essere sterili.Ben si intuisce che la ricerca dell’amore combacia con quella della filosofia.Alla fine del Simposio irrompe improvvisamente il famoso Alcibiade,totalmente ubriaco,che racconta pubblicamente di aver fatto delle “avances” a Socrate ,che però non ha accettato:lui,bello,giovane,aitante con un vecchio decrepito che non ci sta:il che sta a significare che la bellezza esteriore conta meno di quella interiore,ed è anche un modo per ribadire il concetto della scala gerarchica dell’amore. Socrate non ci viene presentato come un asceta:egli è totalmente immerso nella sua realtà,ma non si lascia catturare:ai festini lui partecipa tranquillamente,pur non identificandovisi;dagli altri si distingue perchè mantiene sempre la sua capacità di giudizio(nel Simposio è l’unico a non addormentarsi).Nella LETTERA 7°(non si è certi se sia realmente opera di Platone:la maggior parte delle lettere,infatti,sono false in quanto compaiono dottrine posteriori a quelle platoniche.Si è quasi sicuri sull’autenticità della Lettera 7° in quanto sono effettivamente presenti le ideologie platoniche e lo stile;a supportare ulteriormente questa tesi sta il fatto che non è mai successo che un falsario abbia inventato un genere tutto nuovo come questo:la lettera 7° infatti è una lettera “aperta” finalizzata a fare “pubblicità” alle ideologie platoniche ) vi è una sua autobiografia dove ci racconta anche di un incontro con il tiranno di Siracusa Dionigi.Nella mente di Platone è fortemente radicata l’idea che ci sarà un buon governo solo quando o i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi;proprio la conoscenza dell’idea del bene rende legittima l’attribuzione del governo ai filosofi(conoscere il bene significa conoscere ciò che rende buone le cose);a sua volta,il governo della città dipende dal buon uso del sapere.Per chiarire in che cosa consista questo uso del sapere Platone introduce nella “Repubblica” ,una sua celebre opera,il mito “della caverna”;egli paragona il processo conoscitivo,che attraversa i vari gradi sino a culminare nella conoscenza dell’idea del bene,ad un processo di liberazione da catene che ci tengono imprigionati nel fondo di una caverna sino all’uscita alla luce del sole:Dopo che ci si è liberati dai legami sensibili che tengono imprigionati nella caverna rischiarata artificialmente soltanto da un fuoco,si arriva soltanto lentamente ad abituarsi alla luce del sole.Il sole è appunto l’analogo del bene.Platone si capaciterà definitivamente che quello dei filosofi re o dei re filosofi è un progetto irrealizzabile (lo stato ideale per Platone non è quindi realizzabile su questa terra:è solo un’idea,e come tale appartiene al mondo intellegibile delle idee) proprio da questo incontro;Platone cercò di insegnare la filosofia a Dionigi ed il risultato che ottenne fu che il tiranno scrisse un libro dove spacciava per sue le idee di Platone,il quale si indignò parecchio e ribadi’ che la vera filosofia è solo orale,è un dibattito aperto tra due o più individui dal cui “scontro”,come da quello di due pietre,prende vita una fiamma,che rappresenta la conoscenza che coglie l’uomo:secondo Platone,talvolta, è la conoscenza che si impossessa dell’uomo;a volte,invece,si serve della metafora della caccia per indicare che l’uomo deve andare alla caccia del sapere.Platone per definire la filosofia,oltre a quella dell’eros,si serve di un’altra efficace metafora:paragona la filosofia alla medicina che con Ippocrate aveva raggiunto livelli elevati.Per Platone la filosofia è come una sorta di medicina per l’anima.Ma non si accontenta di dire questo e attacca ancora una volta la retorica affermando che la filosofia sta alla retorica come la medicina alla gastronomia.La medicina si occupa del corpo e la filosofia dell’anima:pure la gastronomia si occupa del corpo,come la retorica dell’anima.La medicina però si occupa del bene del corpo,mentre la gastronomia del piacere;cosi’ vale anche per la filosofia e per la retorica:una si occupa del bene dell’anima,l’altra del piacere.La filosofia fornisce all’anima un nutrimento piacevole e sostanzioso.La retorica le fornisce solo un piacere:sentire una persona pronunciare discorsi raffinati ed eleganti è senz’altro piacevole,ma se sono privi di verità(come nel caso della retorica,che è proprio l’arte del parlare)sono totalmente inutili.vi è quindi una distinzione tra bene e piacere,che non si identificano affatto tra di loro:contro l’identità bene-piacere vi sono diverse argomentazioni da parte di Platone,nessuna delle quali risulta però totalmente convincente;fatto sta che ad avere a che fare con il piacere sono principalmente le persone peggiori.Platone dice che il piacere può essere considerato bene nella misura in cui è razionalmente controllabile (pare,per esempio,che Socrate non disdegnasse il vino,ma che comunque sapesse regolarsi);il bene può infatti riuscire a controllare il piacere.Dunque il vero piacere è quello che viaggia di pari passo con il bene,senza separarsene:tuttavia bene e piacere non si identificano:il piacere in alcune sue forme può essere un bene,in altre un male.Quindi l’argomentazione in realtà si limita a dire che piacere e bene sono due cose distinte e che tuttavia dove c’è piacere non c’è necessariamente male.Il piacere non esiste mai “puro”:è sempre accompagnato dal dolore:nel “Gorgia”,un’altra grande opera platoniana,si fa addirittura notare che il piacere ed il dolore sono la stessa cosa:un caso con cui possiamo esemplificare ciò che intendeva Platone è quello della fame e della sete,entrambe forme di dolore;il dolore consiste nel provare la sete(o la fame) e il piacere nel soddisfare l’esigenza bevendo(o mangiando,nel caso della fame);se sparisce il dolore,sparisce anche il piacere.Per cui se sparisse la sete,è vero che non soffriremmo più,ma non proveremmo neppure più piacere.Un quesito che ha sempre crucciato l’uomo è quello di come si fa a sapere,a conoscere.I sofisti sostenevano ch e non si può imparare perchè o già una cosa la si conosce o non la si conosce:nel secondo caso è impossibile trovare una cosa che non si sa cosa sia,come sia fatta. Socrate stesso aveva detto che non si poteva insegnare,ma solo imparare tramite la maieutica,la tecnica con la quale faceva partorire le anime.Questo tema Platone lo affronta soprattutto nel “Menone”.Ancora una volta Platone assume una posizione intermedia,servendosi in parte delle affermazioni dei sofisti:se è vero quel che dicono i sofisti e uno dei loro più grandi esponenti,Gorgia,(cioè che non si può imparare e quindi neanche insegnare),si può ricordare:una cosa che ci siamo dimenticati e ci torna in mente,non possiamo dire di conoscerla ma neanche di non conoscerla.Dunque per Platone il processo attraverso il quale si impara e si conosce è puramente di rammemorazione(in Greco anamnesis).L’unico modo di considerare il sapere come “ricordare”è quello di fare una ipotesi piuttosto strana(ragionare per ipotesi significa vedere quale è la condizione che bisogna ammettere perchè si verifichi un determinato fatto):l’unica ipotesi per Platone valida è quella della preesistenza dell’anima.Nel Menone il corpo viene visto proprio come prigione dell’anima.Anche nel “Fedone”,dialogo ambientato nel periodo dopo la condanna e prima della sua morte,Socrate parla con due Pitagorici a riguardo della preesistenza dell’anima:egli li porta a capire la questione servendosi di esempi:tira in ballo la scienza dell’uomo e quella della lira,che sono evidentemente diverse tra loro; Socrate afferma che agli innamorati,nel momento in cui vedono una lira o un vestito che il loro amato è solito usare,succede quanto segue:riconoscono la lira e nel pensiero colgono l’idea del ragazzo a cui appartiene la lira:la reminescenza consiste proprio in questo,riuscire a ricordarsi cose tramite vari “agganci”,aspetti che stimolano il ricordo.Nel “Menone” Socrate parla con uno schiavo privo di cultura e gli pone una serie di domande mirate e legate al teorema di Pitagora ;chiaramente lo schiavo non lo conosce,ma Socrate ponendogli solo domande specifiche lo porta alla soluzione:è un tipico caso di maieutica.L’unica spiegazione possibile è che lo schiavo si ricordi di un qualcosa che già conosceva,ma aveva dimenticato:dato che non l’ha conosciuto nell’attuale vita significa che l’ha conosciuto in un’altra dimensione(l’altopiano dell’iperuranio).Tale dimenticanza è legata al momento dell’incarnazione:nella sua vita terrena l’uomo può avere momenti in cui ricorda.L’apprendimento è quindi interpretato come il recupero di conoscenze acquisite dall’anima prima di incarnarsi in un corpo,ma dimenticate al momento della nascita e rimaste latenti in essa.Si definisce giustamente Platone “INNATISTA”,perchè sostiene che quando nasciamo sono già presenti in noi alcuni elementi di conoscenza.Lo schiavo il teorema ce l’aveva già nella sua mente,si trattava solo di ricordarglielo.Quali sono dunque le vie per ricordare?Un modo,come nel Menone ,è avere qualcuno che ci aiuti(Socrate),un altro(più impegnativo)è usare bene la propria esperienza(come nel caso di Pitagora ,che per primo si ricordò con la sua esperienza del teorema che gli viene attribuito:in realtà lui non l’ha inventato,se l’è solo ricordato per primo).Oltre a sostenere la preesistenza dell’anima,Platone era anche convinto della sua immortalità e della sua eternità:l’anima è viva per definizione e un corpo è vivo o morto a seconda che abbia o meno un’anima;l’anima,quindi,dà e toglie la vita.E’ un qualcosa che partecipa all’idea di vita e che di conseguenza non può partecipare a quella di morte,come il numero 3 partecipa all’idea di dispari e non può partecipare a quella di pari.Per Platone ciò che può corrompere l’anima è l’ingiustizia;essa però non può distruggerla:se l’ingiustizia,che è il suo male peggiore,non è in grado di annientarla,è chiaro che neanche i mali minori ce la faranno.L’anima,essendo increata,è anche eterna ed immutabile.Per Platone vivere significa prepararsi alla morte perchè il distacco dell’anima dal corpo va preparato moralmente:bisogna liberarsi dalle passioni legate al corpo superandole (un pò come era per i Pitagorici e per gli Orfici :occorreva purificarsi).Dal punto di visto gnosologico,l’anima disincarnata coglie facilmente le idee nell’Iperuranio;in Platone compare la frase “omoios teo”,che significa ottenere un tale perfezionamento da diventare tutt’uno con la divinità : dice questo nel Teeteto dove dice testualmente che ” non è possibile che i mali scompaiano del tutto perchè è una necessità che ci sia sempre qualcosa di contrapposto al bene , nè possono avere sede tra gli dei , ma si aggirano nella natura mortale e in questo nostro mondo qui . E’ per questo che bisogna anche sforzarsi di fuggire di qui a lassù al più presto . E fuga è rendersi simili a Dio secondo le proprie possibilità : e rendersi simili a Dio significa diventare giusti e santi , e insieme sapienti ” . Va poi ricordato che Platone aveva identificato diversi livelli di conoscenza,i cui 2 più importanti sono quello della conoscenza sensibile (doxa),basato su un sapere sensibile,instabile e dettato dalle opinioni,e della conoscenza intellegibile (episteme),sicura,certa e basata su cause vere e proprie.A noi viene da pensare che la differenza tra la doxa e l’episteme ad esempio quando osserviamo un libro consista nel conoscerlo meglio o peggio;pensiamo che guardandolo si abbia una conoscenza sensibile e superficiale,mentre esaminandolo da un punto di vista geometrico se ne abbia una intellettuale.Platone invece è convinto che ad ogni livello di conoscenza corrisponda un oggetto preciso:non è che cogliamo il libro prima con i sensi e poi con l’intelletto.Per Platone dopo che esaminiamo attentamente il libro in modo sensibile,esso ci rievoca con le sue forme geometriche l’idea di parallelepipedo,che è totalmente differente dal libro stesso.Infatti il libro partecipa all’idea di parallelepipedo,cioè la imita,ma non lo è:quando in matematica si dimostra su un parallelepipedo disegnato,in realtà si dimostra sull’idea stessa di parallelepipedo:le regole di dimostrazione valgono per tutti i parallelepipedi perchè in realtà vanno riferite solo all’idea del parallelepipedo;d’altronde le misure che risultano dalla dimostrazione non potranno mai essere esattamente compatibili con quelle del nostro disegno:lo sono esclusivamente con quelle dell’idea (quando noi diciamo di disegnare un triangolo rettangolo,diciamo un’assurdità perchè è impossibile che un angolo risulti esattamente di 90°:in realtà esiste solo l’idea di triangolo rettangolo).Di conseguenza ci sono anche 2 soggetti conoscitivi:a conoscere il libro è la sfera del sensibile(il corpo),mentre a conoscere il parallelepipedo è la sfera dell’ intellegibile(l’anima).Tutto questo dimostra che vi è una stretta parentela tra l’anima e le idee,che non a caso Platone dice essere costituite dello stesso materiale metafisico ed entrambe eterne:vale a dire che sono immutabili.Che cos’è la dottrina delle idee?La parola “idea”,innanzitutto,deriva dalla radice greca “id-“che è a sua volta riconducibile al verbo “orao”,vedere:è quindi qualcosa che si può vedere ma non con gli occhi,bensi’ con l’intelletto;la percezione degli oggetti sensibili risveglia il ricordo delle idee dell’iperuranio,le quali permettono di misurare l’inferiorità e la deficienza degli oggetti sensibili rispetto ad esse.Cosi’ qualunque oggetto sensibile possa essere detto bello, non coincide mai con l’idea della bellezza nella sua perfezione ed immutabilità.L’idea di bellezza,per esempio, è il modello ed il criterio in base al quale possiamo denominare belli determinati oggetti:infatti è perchè già possediamo l’idea di bellezza che possiamo designare belli questi altri oggetti.Nei primi dialoghi Platone aveva presentato l’indagine di Socrate proiettata alla ricerca di definizioni ( un dialogo in cui troviamo un Socrate proiettato alla ricerca di definizioni é , per esempio , l’ ” Ippia Maggiore “ , che ruota tutto intorno alla ricerca del bello ),ossia di risposte corrette alla domanda:”Che cos’è x ?”(dove x sta per bello,giusto…).Per Platone la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l’idea in questione(per esempio l’idea di bellezza,di giustizia…).L’idea è dunque un “universale”:ciò significa che i molteplici oggetti sensibili,dei quali l’idea si predica,dicendoli per esempio belli o giusti,sono casi o esempi particolari rispetto all’idea:una bella persona o una bella pentola sono casi particolari di bellezza,non sono la bellezza.Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento,soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente se stesse;proprio questa differenza di livelli ontologici,ossia di consistenza di essere,qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti.L’attività di un artigiano,per esempio di un costruttore di letti,è descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni che mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell’ idea del letto,alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero.L’idea è quindi dotata di esistenza autonoma,nè dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata;essa è ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano.La partecipazione all’idea,per esempio,di bellezza rende un determinato oggetto sensibile bello.Si usa solitamente dire che le idee abbiano una triplice valenza:1)Ontologica (dal participio del verbo essere greco):due cavalli,per esempio,si assomigliano perchè compartecipano all’idea.L’idea rende conto di ciò che una cosa è.Le cose sono infatti quel che sono perchè imitano le idee.2)Gnosologica (dal verbo greco “gignosco”,conoscere):noi conosciamo le cose perchè facciamo riferimento all’idea di uguaglianza:nella realtà empirica l’uguaglianza non esiste;essa esiste in un’altra dimensione.Due uomini si assomigliano perchè partecipano entrambe all’idea di uomo.3)Assiologica (da “axiologia”,la scienza che studia i valori):l’idea è il modello (in Greco “paradigma”) imitando il quale ogni cosa tende al bene,che è lo scopo di ogni cosa:per un cavallo il bene sarà correre veloce.Ovviamente le imitazioni non potranno mai essere uguali al modello;questo avviene per diversi motivi:uno che merita di essere ricordato è che le idee nell’iperuranio non avevano nè forma,nè colore,nè dimensioni…quindi se disegnamo un triangolo bianco è già diverso dal modello che non aveva alcun colore e che paradossalmente li aveva tutti.Platone sostiene quindi la causa finale:secondo lui la causa il motivo per cui avviene una cosa è il suo fine stesso;la causa finale di una casa è farvi abitare della gente:ci sono però anche delle “concause”(che noi definiremmo “la condizione senza la quale…”),in questo caso i mattoni,il cemento…la vera causa finale però è l’idea stessa,sul modello della quale la casa viene costruita:il fine della casa infatti è essere fatta sul modello dell’idea di casa,cioè nel migliore dei modi:il meglio di ogni categoria corrisponde infatti alla sua idea.I sofisti avevano individuato solo una causa riferita alla materia;Platone non accetta questo e dice,servendosi di una metafora legata alla tecnica della navigazione,che la loro “prima navigazione” era fallita,e che quindi lui si serve della “seconda navigazione”,quella che si usa quando non c’è vento e ci si serve dei remi:è una navigazione più faticosa,ma più sicura.Della “seconda navigazione” Platone ce ne parla nel “Fedone”:Socrate racconta che in gioventù era stato attratto dalla scienza naturale,che era tipica dei sofisti (non a caso Aristofane nelle sue commedie ce lo presenta come un sofista con la testa fra le nuvole)ma poi se ne era allontanato per dedicarsi alla vera filisofia e aveva così effettuato la seconda navigazione . Anassagora , fra i filosofi naturalisti, sembrava, con la sua dottrina del “Nous”, aver trovato la vera causa delle cose. Ma a questa affermazione, di per sé eccellente, Anassagora non seppe dare adeguato fondamento. Infatti, il “Nous” avrebbe dovuto spiegare come tutti i fenomeni siano strutturati in funzione del meglio, presupponendo quindi una precisa conoscenza, da parte del “Nous”, del Bene e del Male. Ma Anassagora non ha saputo fare questo e ha continuato ad assegnare agli elementi fisici – le “omeomerìe” – un ruolo di causa determinante. Gli elementi fisici sono solo una causa ausiliare, non la vera causa. Ma se vogliamo spiegare la «vera causa» noi non possiamo riferirci a cause fisiche; la vera causa, ossia la causa reale, è l’Intelligenza che opera in funzione del meglio. Occorre guadagnare quel «meglio», ossia quel «Bene», in funzione di cui opera l’intelligenza, il quale sta al di là del fisico e del sensibile; occorre quindi guadagnare il piano dell’essere intelligibile, metasensibile, ovvero l’essere «metafisico». La verità delle cose sta appunto nelle realtà intelligibili, che Platone ha chiamato “Idee”, pure forme, eterni modelli delle cose, rispetto alle quali le cose sensibili sono un mezzo o strumento di realizzazione, non quindi l’essenza delle cose, ma ciò mediante cui l’essenza si realizza nella sfera del sensibile . Questa scoperta delle Idee come vero essere, intelligibile, incorporeo, immutabile, in sé e per sé esistente, è stato in passato considerato il vertice speculativo del pensiero platonico (oggi noi sappiamo che Platone, nelle «Dottrine non scritte», si è spinto ancora oltre con la teoria dei Principi primi e supremi.). Hegel scriveva addirittura che proprio nella formulazione della dottrina delle Idee sta «la vera grandezza speculativa» di Platone, «grazie alla quale egli segna una pietra miliare nella storia della filosofia e quindi nella storia universale»(Hegel, “Lezioni sulla storia della filosofia” . Socrate (e anche Platone) non solo si era allontanato dai sofisti,ma addirittura cercava di far comprendere ai suoi concittadini che il loro metodo era sbagliato:essi non danno motivazioni razionali e partono dal presupposto (in particolare Protagora) che non esista una verità:l’uomo è misura di tutte le cose);per di più i sofisti si fanno pagare per i loro discorsi raffinati e privi di verità;per dimostrare la loro bravura effettuano dimostrazioni assolutamente paradossali (vedi quella di Lisia);Platone non può tollerare che “vendano”il sapere:è una cosa sbagliatissima e a riguardo si esprime nel “Protagora”;va però detto che per lui la vita era facile:era nato ricco e non aveva problemi economici:ma non tutti si trovavano nella sua stessa condizione.L’errore consiste soprattutto nel considerare il sapere alla pari delle altre cose,vendibile come esse:il rischio nell’acquisto degli insegnamenti è molto più grande rispetto a quello ,per esempio, del cibo,con il quale abbiamo un rapporto di “incorporazione”:i cibi,però,si possono portare a casa in recipienti e analizzarli con calma,mentre le cognizioni le si devono mettere alla prova su se stessi,sulla propria anima;il che può essere tanto un bene quanto un male ed in entrambe i casi non si può più tornare indietro:è un processo irreversibile.Acquisire nuove conoscenze,infatti,significa cambiare in un senso lineare ed inevocabile,e non semplicemente soddisfare un bisogno che si ripresenta ciclicamente e che deve essere soddisfatto per la sopravvivenza.Il rapporto che si instaura tra il commerciante ed il cliente è di manipolazione:chi vende si interessa solo di sfruttare a proprio vantaggio un bisogno altrui o addirittura di suscitare negli altri un bisogno che non hanno.Socrate dice poi che ad Atene,città democratica per eccellenza,tutti hanno voce in capitolo quando è il momento di prendere le decisioni,mentre nelle altre arti (per esempio la medicina) c’è una divisione del lavoro che porta ad affidare le scelte tecniche a persone competenti e non a chiunque.Di conseguenza per gli Ateniesi la politica non è insegnabile;infatti se tutti hanno voce in capitolo e dicono la loro,significa che tutti la conoscono già e non occorre insegnargliela,meno che mai a pagamento. Protagora replica affermando che lui insegna l’arte politica,che consiste nell’amministrare con senno tanto la propria casa quanto le questioni pubbliche. Platone passa dal concretismo sofistico all’astrattismo.Nella teoria delle idee traspare una sorta di ambiguità,che nasce dalla diversità delle valenze ontologiche ed assiologiche:infatti l’idea dovrebbe rendere conto di ciò che una cosa è,e di ciò che dovrebbe essere:il che è contradditorio,ma perchè non siano contrastanti bisogna supporre che l’essere ed il dover essere siano lo stesso.Ciò nella realtà è chiaramente impossibile, e Platone lo sapeva bene.La condizione pare essere che l’essenza di ciascuna cosa stia nel tendere a realizzare una determinata idea.L’essere è quindi concepito come stato dinamico e di tensione.Platone ha una concezione trascendente della realtà:ogni essere che appartiene al mondo fisico,secondo Platone, ha la propria essenza fuori di sè:si trova nell’idea.L’idea sta quindi oltre l’esistenza fisica;noi uomini non siamo al 100%100 dentro di noi;una delle parti più importanti si trova fuori.Chiaramente le parole che Platone mette in bocca a Socrate non sappiamo se siano effettivamente di Platone o di Socrate : man mano che matura Platone tende sempre più a elaborare e a reinterpretare i discorsi di Socrate ,mettendogli in bocca proprie idee.Va senz’altro ricordato che Platone fu il fondatore di una scuola(l’Accademia)dove veniva fornita un’impostazione culturale che spaziava nei campi più vasti e che si prefiggeva di selezionare coloro che avrebbero dovuto continuare gli studi per poi governare rettamente,oltre ad insegnare il bene(che non si identifica con il piacere:la filosofia fornisce bene all’anima,la retorica piacere;è questo il tema trattato nel “Gorgia”.I beni sono molteplici,ma il bene vero e proprio è per l’uomo è quello che riguarda la sua anima.Da questo punto di vista la filosofia si costituisce come medicina,come terapia dell’anima.Dove si può apprendere il bene?Non di certo nella città,che ha condannato ingiustamente Socrate,il suo uomo migliore;la vera sede per cercarlo diventa la scuola filosofica):si basava quindi sulla selezione.Per arrivare al potere non bastava essere figli di governanti,bensi’bisognava dimostrarsi idonei di svolgere tale ruolo.Tutti gli studenti venivano quindi messi alla pari e a creare le distinzioni tra loro era solo il merito del singolo.Questo ben rispecchia gli orientamenti politici aristocratici (la parola stessa “aristos”migliore+”crazia”forza,indica che il potere dev’essere in mano a chi se lo merita ed è superiore agli altri) di Platone.Le due materie che venivano maggiormente trattate erano la matematica e la filosofia:la prima,che era volta alla conoscenza degli enti matematici,eleva l’anima umana dal mondo sensibile a quello intellegibile,portando all’astrazione;la seconda perchè fornisce le conoscenze della realtà vera,di quei modelli perfetti della realtà cui tende l’anima umana .
La “REPUBBLICA” è l’opera in cui affiorano maggiormente tutti i temi di Platone:è un libro composto a sua volta da 10 dialoghi dove in particolare emerge il pensiero politico platoniano;come abbiamo già detto Platone era rimasto molto deluso dalla politica della sua città che aveva condannato il suo uomo più giusto e per lui lo stato ideale è quello in cui l’uomo giusto può trovare il suo collocamento senza essere tormentato;molto deluso era anche rimasto dall’incontro con il tiranno di Siracusa e si accorge quindi che il suo concetto di stato è inattuabile,puramente ideale:come ogni altra idea,anche quella di stato va imitata,sebbene sia impossibile riuscirvi totalmente.Si dice spesso che lo stato platoniano sia una utopia,vale a dire un qualcosa che non sta da nessuna parte . Netta pare la distinzione tra il primo “libro” della repubblica,probabilmente scritto in gioventù, e gli altri:è il dialogo tra Socrate ed un sofista,che dà una definizione di giustizia:essa per lui è il diritto del più forte;egli sostiene,come molti altri sofisti,che gli uomini per natura nascono diversi,chi più forte e chi più debole,ed è solo la legge che li fa uguali:per lui la legge non è nient’altro che un’ingiustizia dei più deboli nei confronti dei più forti,che dovrebbero dominare per natura.Per il sofista il modello d’uomo ideale è il tiranno,colui che ha fatto valere la sua superiorità sui più deboli:il tiranno è l’uomo più felice e potente.Il primo libro termina con la confutazione di Socrate delle tesi del sofista:per lui ci deve essre per forza una giustizia,in quanto l’ingiustizia che predicava il sofista non può esserci,perchè tende ad eliminarsi da sè:Socrate porta l’esempio dei briganti,ingiusti per eccellenza;anche dopo che hanno commesso ingiustizie rubando,per dividersi il bottino dovranno pur applicare qualche norma.A partire dal 2° libro Socrate imposta il suo discorso cambiando prospettiva,sostenendo che il modo migliore per esaminare l’uomo giusto sia vedere le cose più in grande:dov’è che esiste più in grande il concetto di giustizia?Certamente nello stato;Socrate mirerà a dimostrare l’opposto del sofista:per lui l’uomo ingiusto non è il più felice.Socrate aveva già più volte affermato che la giustizia rende automaticamente felici:nel libro 10° della Repubblica Platone ci spiega attraverso un mito escatologico ( che possiamo in qualche modo paragonare a quello presente nel Gorgia , il mito dei morti ) che la giustizia conduce alla felicità anche nel mondo ultraterreno . Tuttavia Socrate dovrà anche confutare la critica mossagli dall’ aristocratico Glaucone , che sostiene che si é giusti solo per timore di essere scoperti ; non solo , ma chi é ingiusto conduce una vita molto più felice rispetto al giusto . Glaucone argomenta servendosi del celebre mito di Gige , il pastore che imbattutosi in un anello capace di rendere invisibile chiunque se lo fosse infilato , da giusto che era divenne ladro e omicida , diventando ingiusto proprio perchè non poteva essere scoperto ; Socrate potrà ribattere servendosi della super-idea del bene . Socrate imposta poi il suo discorso tratteggiando lo stato ideale,partendo da zero:uno stato nasce secondo lui da esigenze materiali e per soddisfare dei bisogni;dal momento che ci sono diverse tecniche per soddisfarli,occorre selezionarle.A suo parere uno stato per funzionare deve avere tre classi sociali:1)i governanti.2)i difensori.3)i produttori.Ogni classe deve svolgere le sue funzioni,che non sono però di ugual livello,sebbene siano tutte fondamentali;è una chiara prospettiva aristocratica.In realtà la classe dei governanti si costituisce tramite la selezione di difensori che maturando diventano governanti:la forza fisica cede il passo a quella intellettuale e morale.Questa tripartizione ebbe enorme successo nella storia:nel Medioevo,per esempio,la società era suddivisa in oratores,bellatores e laboratores.E le donne che funzione avevano?Platone è stato il primo ad affermare che non ci siano propriamente lavori maschili e lavori femminili;tuttavia era convinto che in ogni campo gli uomini fossero superiori e riuscissero meglio. La città ideale di Platone è aristocratica,cioè governata da coloro che risultano essere i migliori ed i più idonei a svolgere tale compito;i migliori vengono selezionati in base al loro talento e non al fatto che i loro genitori potessero essere governanti;tuttavia egli ammette che ci sia una sorta di ereditarietà:ciò non significa che i giovani venissero selezionati per la loro discendenza,ma è un dato di fatto che coloro che mostrano maggiori attitudini per il governo sono proprio i figli dei governanti.Per selezionare occorre effettuare 2 lavori:1)la selezione vera e propria,2)sviluppare le propensioni dei selezionati.In realtà lo stato delineato da Platone è lo stato spartano idealizzato:a quei tempi presso gli aristocratici era visto come il top dell’organizzazione.Ma Platone tratteggia anche le possibili degenerazioni statali e proprio tra queste ci sarà lo stato spartano che era in realtà dominato non da aristocratici,ma da militari e proprietari terrieri.Secondo Platone ad ogni classe sociale spetta una virtù;poi ce n’è una comune a tutti e tre i gruppi:in tutto sono 4 le virtù (anche nel Cristianesimo ci sono le virtù,4 cardinali e 3 teologali:le 4 cardinali l’uomo le possiede per natura,le 3 teologali deriverebbero dalla divinità e sono fede,carità e speranza) e si suddividono così:1)sapere2)coraggio3)temperanza4)giustizia.I governanti,come abbiamo già detto,devono essere filosofi e quindi la loro virtù è il sapere;quella dei difensori è il coraggio che serve loro per difendere strenuamente lo stato;i produttori devono invece essere dotati della temperanza,devono cioè sapere che vi è chi governa e chi lavora;è una virtù che in realtà appartiene un pò a tutti,ma soprattutto a loro che devono obbedire.In termini moderni la temperanza è il consenso:se non c’è una diffusa convinzione del fatto che ci sia chi governa e chi lavora lo stato non può reggere.Bisogna tenere a mente che Platone sta sì parlando per bocca di Socrate per delineare la giustizia statale ideale ma solo per tratteggiare l’uomo giusto:si serve dello stato per poter operare su un modello più grande.La “Repubblica” viene spesso letta solo in chiave politica sebbene la politica sia in secondo piano:il tema centrale è proprio l’uomo giusto e la sua formazione.Per esempio descrive le degenerazioni statali per delineare parallelamente quelle umane;a sostenere la tesi che sia un libro il cui fulcro è l’uomo è il 10° libro che con un mito escatologico spiega che ne sarà dell’uomo giusto nell’aldilà.Nella “Repubblica” Platone ripropone la tripartizione dell’anima che corrisponde esattamente a quella statale,dettata dal fatto che non in tutti gli uomini prevale la stessa parte dell’anima:quella razionale (l’auriga) dominerà nei governanti,i quali ricercano il sapere razionale;quella irascibile (il cavallo bianco)prevale nei difensori,che agiscono mossi da orgoglio;quella concubiscibile (il cavallo nero) avrà la meglio sui produttori.Possiamo così comprendere perchè Platone la chiami temperanza:le varie parti dell’anima capiscono che bisogna tenere a bada,temperare, quella concubiscibile.Platone definisce un uomo più forte di se stesso quando la parte razionale tiene a freno le altre,vale a dire quando l’auriga ha la meglio.La giustizia è la 4° virtù : si ha giustizia quando ciascuno svolge le proprie mansioni e non pretende di svolgere ruoli che non gli spettano.Sparta era una oligarchia militare e quindi era ingiusta in quanto svolgevano le mansioni di governanti persone non idonee e a detenere il potere non sono necessariamente i migliori.Atene,città democratica, era anche messa peggio:era retta dalla 3° classe,i produttori;Platone definisce la democrazia il governo degli incompetenti,dove bisogna ascoltare il parere di qualsiasi stolto e dove ciascuno pensa solo a se stesso.Lo stesso vale per l’uomo:l’uomo giusto non si lascia trascinare dai piaceri (tanto meno da quelli fisici) ed è felice perchè la giustizia stessa fornisce un piacevole senso di benessere;la parte irascibile (cavallo bianco),vincolata dall’orgoglio, si vergogna dei piaceri e aiuta l’auriga a tenerne l’anima distante.Per Platone il tiranno è schiavo della parte peggiore di se stesso,del cavallo nero:è quindi ingiusto perchè nel contesto dell’anima non spetta al cavallo nero di comandare ed infelice perchè privo di giustizia.Un dubbio che può sorgere è come si ottiene il consenso o temperanza che dir si voglia:Platone dà una spiegazione tramite un mito,che può quindi anche rivestire una funzione politica:per convincere afferma che gli uomini siano stati forgiati con 3 diversi metalli (oro,argento,ferro):ci sono quindi differenze naturali tra gli uomini e quindi la tripartizione è necessaria e giustificata.Si ha consenso quando si ha una ideologia diffusa:la parola ideologia ha una lieve sfumatura negativa,come se si affermasse qualcosa non proprio corretto ma fatto passare per buono:è proprio il caso del mito platonico con valenza politica;Platone parla anche in questo caso di menzogne buone e necessarie per il consenso.Per lui,comunque,quando lo stato è felice,allora anche tutti i gruppi lo sono.Secondo le concezioni liberali e moderne è l’opposto:quando i singoli stanno bene,anche lo stato procede felicemente.Platone,per motivare quanto detto,si serve di una concezione “organicista”:se il nostro organismo sta bene,allora ogni singolo membro sta bene.dire concezione organicista,non significa che le singole parti debbano per forza essere subordinate alla totalità:Platone dice che da un lato conta il tutto,ma che dall’altro se il tutto è felice anche le parti lo sono.Come possono essere esse felici?Platone non si limita alla precedente argomentazione organicista;egli pone dei limiti allo stato:non deve essere troppo ampio perchè uno stato è tale solo quando i suoi abitanti hanno la consapevolezza di formarlo;uno stato troppo esteso è anche difficilmente controllabile.Platone vedeva lo stato come una grande famiglia basata sull’armonia e sulla solidarietà:per creare questa situazione bisogna a suo avviso eliminare la famiglia naturale in modo che gli abitanti dello stato considerino propri familiari gli altri abitanti;bisogna poi eliminare la proprietà che frammenta la società.E’ un comunismo radicale ed estremista dove bisogna addirittura vivere insieme;lo scopo è far sì che i cittadini concepiscano un forte senso di solidarietà:ciascuno lavorerà e difenderà lo stato come farebbe con la propria famiglia.Probabilmente Platone prese spunto dalla società spartana arcaica e militare improntata sul governo oligarchico-militare.Questo comunismo per Platone deve riguardare solo alle due classi superiori,che devono governare.Bisogna eliminare gli interessi personali in modo tale da evitare che i governanti tutelino i propri interessi accecati dalla smania di denaro,tralasciando quelli altrui.L’obiezione di fondo che solitamente si muove,al di là dell’estremismo,è che i governanti,condannati ad una scelta così rigida,condurrebbero una vita tristissima.La società è fortemente gerarchizzata e sul piano materiale sono avvantaggiati i produttori,che vivono normalmente e possono arricchirsi.Quindi può sembrare che i ceti superiori siano infelici;in realtà i governanti ed i guardiani che poi lo diverranno hanno un talento naturale e sono già stati selezionati ed educati dallo stato;da questa educazione trarranno enormi vantaggi e saranno poi chiamati a governare,sebbene contro la loro volontà:infatti vengono educati alla sapienza e alla conoscenza,che comprenderanno essere le cose più importanti ed utili di tutte;dello stato non gliene importa nulla,così come non gli importa delle ricchezze materiali:la sapienza rappresenta una ricchezza morale molto più importante e duratura.Verranno però poi chiamati a governare proprio perchè non vogliono!Secondo Platone infatti lo stato va amministrato da chi non vuole farlo,da chi ha raggiunto un alto livello di educazione e ha compreso che ciò che più conta è il sapere,e non da chi vuole amministrarlo,in quanto lo farebbe solo per interessi personali.Vivranno quindi la maggior parte della loro vita dedicandosi alla cultura,ma saranno poi costretti a governare per un pò:lo devono allo stato che li ha allevati e mantenuti negli studi.E’ un dovere morale.Guardiamo ora alle singole classi sociali.i governanti (ed i difensori) nel complesso fanno ciò che desiderano,svolgono cioè la loro vita dedicandosi al sapere (il periodo in cui governano,come abbiamo detto,è breve);ai produttori non interessa il sapere e sono felici di arricchirsi materialmente e perseguire questi strumenti inferiori di felicità.Quindi è una società (ideale) felice anche nelle sue singole parti.Platone viene anche criticato per aver creato uno stato totalitario,che vuole organizzare totalmente la vita dei singoli,la cui vita non conta nulla di per sè,se non in funzione dello stato:si può portare come esempio il caso che Platone cita in uno dei 10 libri:l’ eugenetica (dal Greco eu,bene,+gignomai,nasco,=nascere bene);lo stato sceglie gli individui da far accoppiare in modo tale da avere una discendenza perfetta.Un filosofo di posizioni liberali,Popper,criticava la società di Platone,perfetta e totalitaria,ed era in favore di una società aperta,che avesse la possibilità di correggersi e di migliorare: Popper era del parere che creare una società perfetta fosse impossibile perchè l’uomo stesso è imperfetto per natura.La società aperta è inferiore a quella totalitaria platonica,ma ha conoscenza della propria inferiorità e sa correggersi cambiando in continuazione:una società perfetta non ha motivo di fare questo.Platone insiste invece sull’immutabilità:la società per lui è perfetta così com’è e non deve assolutamente cambiare.Popper ha però commesso un errore dimenticandosi nella foga che Platone parla di un’idea statale:un’idea,per definizione,non è mai realizzabile:è solo un punto verso cui muovere.Nelle “Leggi”,opera incompiuta,Platone delineerà lo “stato secondo”:dal momento che quello delineato nella “Repubblica” è puramente ideale,Platone ne tratteggia uno attuabile,dove prende gli aspetti migliori di ogni governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili (questa soluzione piacque molto in seguito ed è considerata il punto di partenza dello stato “misto”.Il ragionamento di Popper è dunque in parte fuori luogo:se ipotizzassimo la società perfetta,perchè mai dovremmo cambiarla?Perchè cambiare qualcosa di perfetto?Potrebbe cambiare solo in peggio.Abbiamo detto che lo stato delineato nella “Repubblica” è un’utopia ed è interessante notare la distinzione tra i due aggettivi che ne derivano;”utopistico” è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile,ma che per fortuna non lo è:utopistico è il Comunismo ideale.”Utopico” è un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo,che molti credono buono così com’è,imperfetto e migliorabile:il progressista ha un atteggiamento sempre volto al cambiare.Si può dire che il concetto di “utopistico” si avvicini molto a Platone che nelle Leggi fa notare che lo stato così com’è non va bene e ne propone uno “misto”,dal momento che quello ideale-aristocratico è inattuabile. Popper ha invece preso l’idea di Platone utopica di stato per utopistica.La “Repubblica” può anche essere vista in chiave di trattato pedagogico-educativo volto all’istruzione dei futuri governanti:Platone ci indica qui i diversi livelli di conoscenza e contrappone la filosofia ad altri metodi di educazione,primo tra tutti quello della retorica capeggiato da Isocrate ;per Platone la vera retorica è quella che si fonda sulla piena conoscenza della verità e delle persone cui ci si rivolge,non come la intendevano tutti i suoi contemporanei:per Isocrate e tutti gli altri essa consisteva invece nel formulare discorsi eleganti ma privi di verità.Platone critica anche la poesia:Socrate stesso diceva che essa non è un vero sapere,ma una forma di conoscenza infusa dalla divinità:il poeta infatti quando componeva era divinamente ispirato,la divinità si serviva di lui per comunicare (basti pensare ad Omero ,che parlava ammaestrato dalla Musa).Platone era appassionato di etimologia e si divertiva a dare interpretazioni sull’origine e la derivazione delle parole,che per lo più erano errate;una di queste,però,era corretta:Platone fece derivare la parola “mantica” dal termine greco “mania”,follia.Infatti quando si davano responsi si era come se fuori di sè: a parlare era la divinità.Non significa comunque che la poesia non valga nulla (Platone stesso può essere considerato poeta). Va senz’altro a proposito citato lo ” Ione “ , un dialogo platonico considerato ” minore ” , dove ben emerge come fondamento della poesia non sia la scienza , bensì l’ispirazione . Protagonisti sono Socrate e Ione , un rapsodo . Ione si dichiara espertissimo di Omero e di tutte le sue opere , e ne dà prova recitando a memoria i pezzi più svariati . Ione ne sa davvero molto su Omero , ma Socrate gli dimostra che il suo sapere non si basa su conoscenza e scienza : è un’ispirazione divina . Platone nella “Repubblica” fa considerazioni più articolate e complesse rispetto a quelle di Socrate ,attaccando l’arte su due piani differenti:1)morale e più banale rispetto all’altro:Platone,come già Senofane,sostiene che l’arte ci presenta gli dei o gli eroi con caratteristiche fortemente negative e che assumono atteggiamenti meschini e di basso valore morale (basti pensare all’ira di Achille);lo stesso vale anche per la musica,di cui Platone era esperto (si racconta che ormai in fin di vita,sentendo una fanciulla che suonava il flauto,le ultime parole che pronunciò prima di morire furono di rimprovero perchè ella aveva stonato):a quell’epoca vi erano diversi stili ben canonizzati e definiti,ognuno dei quali stimolava determinati sentimenti,positivi e negativi.Secondo Platone la musica che stimola sentimenti negativi va assolutamente censurata;al giorno d’oggi abbiamo criteri di giudizio differenti:un brano musicale o ci piace o non ci piace,indistintamente dal suo valore morale:per noi bello e brutto sono su un livello totalmente differente da buono e cattivo.Prendiamo per esempio i Carmina Burana di Orf,di orientamento filo-nazista:si possono apprezzare pur non essendo filo-nazisti.Presso di noi vige l’autonomia dell’arte,che Platone non ha riconosciuto:bello-brutto è diverso da buono-cattivo e da vero-falso:in un libro di storia ricerco la verità,in un romanzo la bellezza…Platone era senz’altro molto attratto dalla questione del bello,che per lui aveva a che fare con la natura e non con l’arte:parla infatti di begli uomini,belle piante,belle azioni…Il suo giudizio è puramente morale:se un’opera è cattiva sul piano morale,anche se bella va censurata,il che rientra bene nella concezione di stato totalitario platonico.Bisogna comunque dire che era un concetto molto diffuso presso i Greci,che lo riassumevano nella “calogazia”:non c’era differenza tra bello e buono.Abbiamo anche tirato in ballo la coppia vero-falso,di valenza gnosologica;abbiamo già detto a riguardo delle idee che il piano ontologico e quello gnosologico corrispondono:vero e falso si identifica con essere e non essere;di conseguenza il falso va censurato.2)metafisico e di più alto livello:in un primo momento Platone afferma dunque che le opere d’arte pericolose vanno allontanate;successivamente,non soddisfatto di quanto detto,sostiene che vadano censurate tutte dalla prima all’ultima.Quando un artista raffigura un corpo,secondo Platone,imita un corpo esistente in natura;ma abbiamo detto che per Platone le cose sono imitazioni delle idee.Le opere d’arte sono quindi a suo avviso imitazioni di imitazioni:se già le cose sensibili sono inferiori alle idee,figuriamoci le opere d’arte:sono un gradino più distanti e contengono un tasso di verità addirittura inferiore a quello delle cose:le opere d’arte impediscono all’uomo ancora di più rispetto alle cose sensibili di conoscere le idee e vanno dunque bandite.L’arte diventa quindi negativa a prescindere dal fatto che stimoli buoni o cattivi sentimenti:il piano morale non conta più.Sono affermazioni piuttosto strane,soprattutto se consideriamo che Platone stesso era un artista e dedicò dialoghi al bello naturale,come il “Fedro” o il “Simposio” .Chiaramente aveva ben presente le capacità persuasive dell’arte.Tuttavia in epoche successive si sono usate queste stesse affermazioni platoniche per giustificare l’arte:essa non imita la realtà empirica,ma le idee stesse ed è strano che Platone non se ne sia accorto in quanto aveva tutti gli strumenti:i ritratti stessi (presso i Greci ancora di più i busti) sono idealizzati;l’artista sfrutta il volto di chi deve ritrarre per poi passare all’idea vera e propria (è lo stesso del triangolo disegnato che serve per ragionare sull’idea di triangolo).Probabilmente per noi è più facile capirlo perchè possediamo la macchina fotografica;è facile per tutti capire la differenza tra un ritratto e una foto.Da notare,poi,che dalla scoperta della macchina fotografica in poi i pittori hanno cominciato a fare ritratti sempre più astratti e meno realistici.Gorgiaaveva dato grande importanza all’arte sganciandola dal piano ontologico:secondo lui dal momento che la verità non esiste,ci si può creare un mondo proprio,dato che non c’è un vero mondo:non si hanno vincoli imitativi;per Gorgia l’artista è tanto più bravo tanto più riesce ad ingannare.Gli artisti secondo Platone,invece, con le loro “copie” precludono agli uomini la possibilità di conoscere.Altro motivo della condanna da parte di Platone è che l’arte corrompe i giovani perchè rappresenta l’uomo in preda alle passioni;vengono indotti a considerare normale una vita in balia delle passioni,dell’odio,dell’invidia…l’arte stessa sviluppa le passioni.Lo stesso Omero (che veniva anche definito “la bibbia dei Greci” dal momento che nelle sue opere si trovava un pò di tutto:verità religiose,tecniche militari…)ha rappresentato i più grandi eroi in preda a passioni.Platone nella sua condanna risparmia solo la musica e le poesie patriottiche che elevano l’uomo al grande dovere di sacrificio per la patria,ispirandosi al modello spartano,dove la musica patriottica aveva avuto importanza sul piano educativo.Tuttavia in altri dialoghi dà un giudizio positivo rivalutandola completamente (egli stesso era un grande poeta).Platone,come detto,si occupa dell’educazione dei futuri governanti,recuperando alcuni aspetti della “paideia” tradizionale;il percorso da seguire è lungo e difficile e si può suddividere in varie tappe:nel periodo della giovane età l’educazione viene improntata sulla musica e sulla ginnastica;Platone è convinto che nella prima fase dell’educazione non si possa forzare sul piano teoretico.La musica aveva a che fare con il ritmo e più che musica come la intendiamo noi,era educazione ad ogni tipo di ritmo:era quindi educazione dell’anima.La ginnastica aveva la funzione di creare uno stato di armonia sia nel corpo sia nell’anima, e di conseguenza era una forma di educazione tanto relativa al corpo quanto all’anima.Si può dire che l’intero percorso educativo miri all’armonia dell’anima:in poche parole l’uomo giusto è l’uomo armonico.Prima di entrare nella fase vera e propria dello studio teoretico secondo Platone bisogna dunque impartire un’armonia psico-fisica tramite queste due attività.lo studio vero e proprio si articola nello studio della matematica e della filosofia:il culmine consiste nel raggiungimento dell’idea di bene;è un itinerario lungo e selettivo:quando lo si completerà si avranno ormai circa 50 anni per poi essere pronti a governare lo stato,anche se controvoglia.E’ interessante il fatto che nelle “Leggi” Platone parli di un’educazione prenatale:a suo avviso grazie a tecniche particolari (modi di cullare,per esempio) si può dare una prima educazione all’armonia;ai giorni nostri si è scoperto che ciò ha davvero una sua influenza;è quindi un’interessante intuizione platonica,che sapeva bene che l’educazione non è solo razionale.La dimensione conoscitiva è legata ancora una volta alla gerarchia ontologica;Platone per esprimere meglio questa idea si serve di un’efficace immagine e di un mito (il celebre mito della caverna):la prima è la celebre immagine della “linea”:
come abbiamo già detto la conoscenza stabile è quella basata sull’episteme,quella mutevole ed opinabile sulla doxa.Ancora una volta riscontriamo una chiara influenza pitagorica : i Pitagorici infatti individuarono il numero come principio della realtà e crearono una “piramide” di principi che partiva dalla coppia finiti-infinito e da lì si generavano tutte le altre coppie.Per il momento diciamo che i livelli platonici sono 4 (anche se quelli fondamentali restano 2).L’eikasia ha a che fare con la radice eik- di somiglianza,apparenza:è opportuno tradurla con “immaginazione”,ma va depurata da tutti i significati che le attribuiamo noi;è la capacità di cogliere le immagini;si tratta di verità addirittura inferiori a quelle del mondo sensibile e possiamo in parte identificarle con le opere d’arte,ma anche con i riflessi delle cose,come gli specchi o le superfici di laghi o fiumi:Platone aveva in mente tutte le riproduzioni del mondo sensibile;ma molti studiosi hanno anche sostenuto che nella capacità di immaginazione si possa vedere anche un primitivo atteggiamento conoscitivo:si tratta della pura e semplice sensazione;quando prendiamo in mano un quaderno abbiamo dapprima una pura e semplice percezione sensuale:notiamo la forma,il colore…Conoscere realmente un quaderno significa mettere insieme le sensazioni e sfruttarle;forse per capire meglio basterebbe chiudere gli occhi e stringere un libro:lo si percepirebbe con il tasto e si potrebbe immaginare cosa si vedrebbe ad occhi aperti;verso la fine del ‘600 si cominciarono ad effettuare i primi interventi di cataratta e si fecero vedere per la prima volta persone che non avevano mai visto:quando costoro riferirono le loro impressioni si scoprirono cose interessanti;per esempio non riuscirono ad identificare con la vista ciò che per anni avevano toccato;chiaramente è molto differente da ciò che intendeva Platone,ma ci permette comunque di capire che l’oggetto della conoscenza (sebbene la conoscenza empirica sia inferiore a quella intellegibile)è il risultato di operazioni complesse:si associano esperienze visive con esperienze tattili;tuttavia non siamo per niente sicuri che Platone ci sia davvero arrivato.La pistis,che possiamo tradurre con “credenza”è il soggetto conoscitivo degli oggetti sensibili.Della episteme abbiamo già parlato:i suoi oggetti sono intellegibili,ma non necessariamente idee;o meglio,ci sono sì le idee,ma anche gli enti matematici che possiamo suddividere in a)geometria,b)musica,vista come rapporti matematici,c)stereometria,che è la geometria dei corpi solidi,d)astronomia,vista come scienza del movimento dei solidi:erano le arti del “quadrivio”,diremmo oggi le materie scientifiche che già all’epoca si contrapponevano a quelle umanistiche.Dunque la dianoia corrisponde alla matematica in generale,la noesis alle idee;Platone era molto interessato di matematica (anche qui possiamo riscontrare un’influenza pitagorica ) e proprio sull’entrata dell’Accademia (i cui resti si possono vedere qui di fianco )
; c’era scritto “Non entri chi non conosce la matematica”:essa per Platone aveva una valenza propedeutica e di ginnastica mentale.Per un verso assomiglia alla filosofia perchè ha oggetti stabili,permanenti e non sensibili (uso sì disegni,ma per dimostrare su idee)per un altro presenta grandi limiti:si pensa sì ad idee,ma si lavora pur sempre su cose sensibili:occorre sempre l’appoggio del piano sensibile;la filosofia invece è un percorso mentale tutto interno alle idee.La matematica ha poi bisogno di ipotesi:si parte da postulati e da definizioni:cose che vengono accettate senza venir dimostrate;la filosofia ha invece un carattere critico:non si accetta mai nessuna cosa per data e si tende a mettere sempre in discussione fino ad arrivare alla conoscenza.Bisogna infatti risalire tutte le ipotesi fino ad arrivare ad una ipotesi indiscutibile da cui derivano tutte le altre.Va poi ricordato che gli oggetti matematici sono su un piano intermedio:hanno caratteristiche di idee (l’immutabilità) ma anche di enti empirici (la molteplicità):molteplicità e immutabilità sono proprio 2 dei principali aspetti che differenziano il mondo sensibile da quello intellegibile;il numero 3,ad esempio,è immutabile ma in un’espressione matematica lo si può scrivere più volte.Dianoia e noesis hanno entrambe la radice di “nous”,intelletto:la noesis è la versione pura e senza aggiunte e si può tradurre con “intellezione”;dianoia è più complessa perchè compare la radice “dià”,attraverso-mediante,che implica il passaggio da qualcosa a qualcos’altro e si può tradurre con “ragionamento discorsivo”:in un’espressione ci sono diversi passaggi e si passa di continuo da mondo empirico a mondo intellegibile.La noesis è l’intellezione,la contemplazione delle idee.La diversa lunghezza dei segmenti nel disegno di prima suggerisce una chiara gerarchizzazione:un segmento più è lungo e più è conoscibile,vale a dire che contiene un maggior tasso di essere.Il punto di arrivo della conoscenza è il bene in sè,l’idea di bene,cui Platone allude qua e là nei suoi dialoghi,sempre velatamente,chiamandola “misura”,”uno”,”bellezza”…Si tratta del più alto livello di argomentazione platonica:ce ne parla però in maniera molto indiretta e sfumata e doveva rientrare nelle dottrine non scritte;Platone stesso ci dice che lui non ne parlerà usando una strana metafora,che si può definire “bancaria”:dice che parlerà “del figlio e non del padre”,termini che in greco significano anche “interesse” e “capitale”:quindi si può intendere “vi parlerò dell’interesse e non del capitale”.Si serve poi di un’efficace metafora “solare”:il bene sta al mondo delle idee come il sole sta a quello sensibile.Con bene in sè,idea di bene si intende un bene assoluto e non relativo ad altre cose come le idee (l’idea di forza,ad esempio,è un bene relativo perchè può essere un bene come un male:dipende dall’uso e dalle circostanze).Il bene in sè è la conoscenza suprema e sublime a cui sono chiamati i filosofi-re,che devono seguire il lungo percorso di studi:esso è il top del percorso educativo:quando si ottiene la conoscenza del bene in sè si è chiamati a governare la città;ciò che porta ad orientare ogni cosa verso il bene,a renderla buona è proprio la conoscenza del bene in sè.Per molti aspetti esso coincide con l’idea del bello:la bellezza è il modo in cui si esterna il bene interno:è una concezione ampiamente diffusa in tutto il mondo greco.Secondo Platone il sole è la “ratio essendi” (la ragione di essere)e la “ratio cognoscendi” (la ragione di conoscere)nel mondo sensibile:è infatti grazie al sole che riusciamo a vedere il mondo sensibile;in sua assenza vediamo molto male ed è grazie a lui che conosciamo la realtà sensibile.Il sole consente poi la vita:dove non c’è il sole non c’è vita.Il bene riveste le stesse funzioni del sole,però nel mondo intellegibile delle idee,che in un certo senso sono anch’esse “ratio cognoscendi” e “ratio essendi”:l’idea fa sì che un cavallo sia tale e che lo si riconosca.Come detto,l’idea ha anche valenza assiologica (i cavalli mirano ad imitare l’idea di cavallo) ed è bene aggiungere di “unità della molteplicità”:i cavalli sono tantissimi,ma l’idea di cavallo è unica e la si può definire “stampo” dei cavalli.Il bene in sè,oltre a quelle del sole,svolge le funzioni anche delle idee:risulta quindi inesatto definirlo idea:è una idea delle idee,una super-idea che si trova ad un livello superiore delle idee e che riveste funzioni analoghe a quelle delle idee sul mondo sensibile,ma sulle idee a stesse.Le idee sono unità della molteplicità,ma tuttavia sono tante:quindi si può fare lo stesso discorso che facevamo per le funzioni delle idee sul mondo sensibile;esse dovranno avere qualcosa in comune tra di loro.Esse rappresentano il bene per ciascuna categoria,il punto cui devono mirare i componenti di ogni “classe”:le idee tendono ad essere il bene per la loro categoria:l’idea di uomo è il punto cui tutti miriamo:le idee fanno quindi riferimento al bene in sè,che è quindi un principio supremo,una super-idea.Esso svolge le stesse funzioni che le idee svolgono nel mondo sensibile,ma sulle idee stesse:ce le renderà conoscibili (conosco un’idea perchè è il bene della sua categoria),le farà esistere ( esistono nella misura in cui sono il bene della loro categoria,partecipano al bene).L’idea del bene sarà anche l’unità della molteplicità delle idee,che sono innumerevoli,pur essendo il solo modello per ogni categoria.Abbiamo detto che a volte,al posto di bene in sè,troviamo “uno”,”misura”…Abbiamo anche già parlato di quella volta che Platone tenne la conferenza sul bene parlando di matematica:dunque l'”uno” ben si riallaccia.Ma che cos’era il bene in sè?Per Platone esso è unità,armonia,ordine,misura,unità…In altri dialoghi parla del bene in sè,del vertice della realtà,come coppia di principi,o meglio come principio bipolare:al vertice della realtà ci sarebbero dunque l'”uno” e la “diade indefinita”.L'”uno” è l’unità,la diade fa riferimento al 2,quasi all’idea di 2:Platone col 2 vuole chiaramente indicare la negazione dell’unità,suggerendo il principio della molteplicità o almeno un primo passo verso di essa.Con il bene in sè (in greco “katà auton”)sta pian piano rivelandoci l’esistenza di un 5° livello,principio supremo della realtà.La dottrina delle idee serve a spiegare perchè,in fin dei conti,le cose sono buone,o meglio le idee sono buone:il mondo sensibile cerca di imitare la bontà delle idee,ma con scarsi risultati.Abbiamo fin’ora detto che le imitazioni risultano imperfette:è un’ipotesi molto vaga.E’ il momento di spoiegare perchè le cose non sono perfettamente buone:bisogna o ammettere un altro principio o ammettere la bipolarità del principio:accanto all'”uno” (il bene vero e proprio)c’è la diade,la molteplicità concettuale che crea disordine.Cerchiamo di ritracciare lo schema già trattato in precedenza,però più corretto :
é una gerarchia ontologica:più si sale e più cresce il tasso di essere perchè si ha esistenza sempre più forte:l’idea di cavallo non muore,il cavallo sì.Il punto di partenza,puramente teorico,addirittura sotto il livello delle immagini-imitazioni,è il non essere,poi troviamo l’essere pieno delle idee;il bene in sè,però,per Platone è per “dignità e per potenza” superiore all’essere:se le idee sono l’essere ciò che le motiva (il bene in sè) non può essere essere.Di fronte a questa affermazione di Socrate (ricordiamoci che a parlare è lui,con parole platoniche)l’interlocutore del dialogo esclama con stupore “Oddio!”.In realtà esclama “per Apollo”.Un interprete ha avanzato un’ipotesi:dato che è un pezzo di dialogo particolarmente allusivo egli ha ritenuto che sotto l’espressione “Apollo” (la divinità del sole,già qui ci può essere un collegamento alla proporzione precedente)si possa leggere “a” (alfa privativa) e “pollos”,che significherebbe non molteplice.Effettuando questa affermazione non ci dice tanto ciò che il principio supremo è,quanto piuttosto ciò che non è (molteplice).Il bene risulta quindi coglibile con qualcosa che sta oltre alla conoscenza:se i livelli della conoscenza corrispondono all’essere e il non essere non è conoscibile,man mano che cresce il tasso di essere cresce il tasso di conoscibilità:ma il bene in sè è sopra,al di là dell’essere e quindi ha una conoscibilità totalmente fuori dal normale.Platone stesso ci dice che è una conoscenza extra-razionale.Schematizziamola in un grafico:
la conoscenza non è nient’altro che un tentativo del soggetto di arrivare all’oggetto o dell’oggetto di arrivare al soggetto:limitiamoci a dire che è un tentativo di unione tra soggetto ed oggetto.Se si sale dalla parte del soggetto,di pari passo si sale da quella dell’oggetto:crescono di pari passo.Paradossalmente,però,l’identificazione tra soggetto e oggetto implica l’inconoscibilità:per conoscere ci deve essere un soggetto che compie l’azione ed un oggetto che viene conosciuto:se vengono a mancare,manca di conseguenza anche la conoscibilità.Il bene in sè si trova esattamente nel punto di incontro tra soggetto ed oggetto:Platone afferma che la conoscenza del bene in sè sia un’esperienza mistica dove però è indispensabile la ragione;la si potrebbe tranquillamente definire una mistica di superamento della ragione.Platone dice poi di voler descrivere la nostra situazione di uomini,di come siamo e di come il nostro destino può cambiare.Si serve qui del celeberrimo mito della caverna,forse il più famoso mito platonico,dove emerge tutta la sua filosofia :
descrive una caverna profonda stretta ed in pendenza,simile ad un vicolo cieco.Sul fondo ci sono gli uomini,che sono nati e hanno sempre vissuto lì;essi sono seduti ed incatenati,rivolti verso la parete della caverna:non possono liberarsi nè uscire nè vedere quel che succede all’esterno.Fuori dalla caverna vi è un mondo normalissimo:piante,alberi,laghi,il sole,le stelle…Però prima di tutto questo,proprio all’entrata della caverna,c’è un muro dietro il quale ci sono persone che portano oggetti sulla testa:da dietro il muro spuntano solo gli oggetti che trasportano e non le persone:è un pò come il teatro dei burattini,come afferma Platone stesso.Poi c’è un gran fuoco,che fornisce un’illuminazione differente rispetto a quella del sole.Questa è l’immagine di cui si serve Platone per descrivere la nostra situazione e per comprendere occorre osservare una proporzione di tipo A : B = B : C La caverna sta al mondo esterno (i fiori,gli alberi…) così come nella realtà il mondo esterno sta al mondo delle idee:nell’immagine il mondo esterno rappresenta però quello ideale tant’è che le cose riflesse nel lago rappresentano i numeri e non le immagini empiriche riflesse.Si vuole illustrare la differenza di vita nel mondo sensibile rispetto a quella nel mondo intellegibile.Noi siamo come questi uomini nella caverna,costretti a fissare lo sguardo sul fondo,che svolge la funzioni di schermo:su di esso si proiettano le immagini degli oggetti portati dietro il muro.La luce del fuoco,meno potente di quella solare,illumina e proietta questo mondo semi-vero.Gli uomini della caverna scambieranno le ombre proiettate sul fondo per verità,così come le voci degli uomini dietro il muro:in realtà è solo l’eco delle voci reali.Gli uomini della caverna avranno un sapere basato su immagini e passeranno il tempo a misurarsi a chi è più bravo nel cogliere le ombre riflesse,nell’indovinare quale sarà la sequenza:è l’unica forma di sapere a loro disposizione ed il più bravo sarà colui il quale riuscirà a riconoscere tutte le ombre.Supponiamo che uno degli uomini incatenati riesca a liberarsi:subito si volterebbe e comincerebbe a vedere fuori gli oggetti portati da dietro il muro non più riflessi sul fondo della caverna.Poi comincerà ad uscire ma sarà piuttosto riluttante perchè infastidito dalla luce alla quale era desueto:quando finalmente uscirà si sentirà completamente smarrito e disorientato.Comincerà a guardare indirettamente la luce solare:ad esempio la osserverà riflessa su uno specchio d’acqua.Man mano che la vista si abitua guarda gli oggetti veri:gli alberi,i fiori…In un secondo tempo le stelle e poi riuscirà perfino a vedere il sole.Chiaramente vi sono chiare allusioni a varie dottrine platoniche:evidente risulta l’allusione ai 5 livelli di conoscenza;le immagini proiettate sul fondo della caverna sono l’eikasia la capacità di cogliere le realtà empiriche riflesse,grazie al fuoco che rende visibili questi oggetti “artificiali”.Gli oggetti artificiali che portano dietro il muro sono la pistis,il mondo sensibile vero e proprio.Curioso è che l’atto di voltarsi da parte degli uomini nella caverna venga espresso con la parola “convertirsi”:è l’atto fondamentale per il cambiamento della propria prospettiva esistenziale.Le cose dietro il muro riflesse nello specchio d’acqua rappresentano la dianoia,gli enti matematici;gli alberi ed i fiori sono invece le idee vere e proprie,la noesis.Il sole,invece,è il bene in sè.Le stelle sono le idee più elevate (i numeri ideali…).L’uomo che è fuggito dalla caverna e ha visto tutto si trova in una situazione piuttosto ambigua:da un lato vorrebbe rimanere all’aperto,dall’altro sente il bisogno di far uscire anche i suoi amici incatenati;alla fine decide di calarsi nella caverna e quando arriva in fondo non vede più niente,è come se accecato.Sostiene di essere tornato per condurli in un’altra realtà,ma essi lo deridono perchè non riesce più neppure a vedere le ombre riflesse sul fondo.Lui però continua a parlar loro del mondo esterno ma i suoi “amici” lo deridono e si arrabbiano e lo picchiano perfino.In realtà Platone vuole qui descrivere la storia di Socrate ,un uomo che ha visto realtà superiori e ha cercato di farle conoscere agli altri che non hanno però accettato.Per quel che riguarda il fatto che l’uomo tornato nella caverna non riesca più a cogliere le realtà sensibili,possiamo portare ad esempio la vicenda del filosofo Talete,che guardando le stelle cadeva nei pozzi e veniva deriso per il fatto che voleva vedere le stelle lui che non vedeva neppure cosa c’era per terra.La liberazione dalle catene avviene (come la reminescenza) o per caso o grazie all’intervento di qualcuno.Comunque il mito rievoca pure il compito dei governanti,che una volta raggiunto il sapere devono per forza tornare nel mondo sensibile per governare.La fuoriuscita dalla caverna può anche essere metafora del lungo percorso educativo dei filosofi-re.Si può quindi definire correttamente il mito della caverna come una sorta di riassunto della filosofia platonica.Platone passa poi alla descrizione delle “decadenze” statali:a suo avviso la miglior forma di governo è quella dello stato ideale da lui tratteggiato,che è però inattuabile:essa potremmo identificarla con l’aristocrazia,dove a detenere il potere sono coloro che risultano essere i più idonei.Tra gli stati attuabili Platone attribuisce il secondo posto (se non contiamo lo “stato secondo” delle “Leggi” )alla Timocrazia,vale a dire il governo basato sul senso dell’onore corrispondente allo stato spartano nel suo periodo migliore.A lungo si è pensato che Platone avesse effettuato questa graduatoria di forme di governo a seconda del numero di governanti:più ce n’è peggio è.In realtà la differenza tra un governo e l’altro è solo la capacità dei governanti.La repubblica ideale di Platone è un’aristocrazia idealizzata che non si distingue solo per il numero esiguo di persone preposte al governo,ma anche per le loro abilità:la sequenza delle decadenze statali va vista in parallelo con quella delle decadenze umane:infatti si ha aristocrazia quando nell’anima prevale la parte razionale (l’auriga).Nella Timocrazia,invece,prevale la parte irascibile (il cavallo bianco),desideroso di farsi onore.Subito sotto alla Timocrazia troviamo l’oligarchia,il governo dei pochi che però non sono i migliori:si servono del loro potere per arricchirsi,accecati dalla cupidigia.Ad un livello al di sotto troviamo la democrazia,che si viene ad instaurare quando la massa degli ignoranti diventa gelosa delle ricchezze degli oligarchici:il “demos” volge a suo favore i beni che prima erano dell’oligarchia.ai tempi di Platone la democrazia corrispondeva grosso modo con l’anarchia dove ciascuno faceva ciò che voleva e vigeva la maleducazione totale.Subito sotto troviamo la tirannide:dalla democrazia si passa alla tirannide quando la massa ignorante si fa abbindolare dai demagoghi che promettono sempre maggiore libertà.Essi dicono che tutti ce l’hanno con loro e che per dare al popolo la libertà promessa han bisogno di guardie del corpo e così nasce la tirannide.Platone arriva adimostrare che il destino dell’uomo giusto sono la felicità e la giustizia.Egli è felice nella vita terrena perchè la giustizia lo appaga e gli rende l’anima sana.Nel libro 10° della “Repubblica” PLatone afferma che dopo la morte per i giusti ci sarà ulteriore felicità,per gli ingiusti altra infelicità.Pur avendo già dimostrato che l’anima è eterna in modo razionale,Platone si serve poi di un mito,il celebre mito di Er ,un guerriero della Panfilia morto in battaglia.Il suo corpo viene raccolto e portato sul rogo (era un’usanza greca):proprio prima che gli diano fuoco si risveglia e racconta ciò che ha visto nell’aldilà,affermando che gli dei gli han concesso di ritornare sulla terra per raccontare agli altri uomini ciò che ha visto.Dice di aver visto 4 passaggi attraverso i quali le anime salgono nella dimensione ultraterrena,da un passaggio le buone,dall’altro le malvagie,e tramite i quali ritornano sulla terra.Infatti,dice,le anime buone finivano in una sorta di Paradiso dove godevano,le cattive in una sorta di Purgatorio (l’Inferno era un fatto raro,destinato solo ai più malvagi).I giusti ricevono premi per 1000 anni,i malvagi soffrono.Dopo questi 1000 anni le anime buone e quelle cattive si devono reincarnare.Esse si recano al cospetto delle 3 Moire che devono stabilire il loro destino.Le anime vengono radunate da una specie di araldo che distribuisce a caso dei numeri,seguendo una prassi che può ricordarci quella dei supermercati;infatti prende i numeri e li getta per aria ed ogni anima prende quello che le è caduto più vicino (questo sottolinea come nella nostra vita ci sia comunque una componente di casualità).Il numero serve per dare un ordine alle anime che devono scegliere in chi reincarnarsi;chiaramente chi ha il numero 1 è avvantaggiato perchè ha una scelta maggiore,ma deve comunque saper scegliere bene.Dunque c’è sì una componente di casualità,ma in fin dei conti la nostra vita ce la scegliamo noi:è vero che per chi nasce,per esempio,in una famiglia agiata è più facile essere onesti rispetto a chi nasce in una famiglia povera,oppure chi nasce in una famiglia onesta è avvantaggiato rispetto a chi nasce in una famiglia disonesta,ma tuttavia la nostra vita ce la scegliamo noi.Ma quelli che hanno numeri sfavorevoli non sono necessariamente svantaggiati perchè scelgono dopo:in primo luogo le possibilità di scelta che gli restano sono sempre tantissime,in secondo luogo chi è primo non sempre effettua buone scelte; Er racconta che nel suo caso chi scelse per primo scelse la tirannide che gli aveva fatto una buona impressione (infatti lassù si vedono le cose sotto forma di oggetti:forse la tirannide aveva dei bei colori,chi lo sa?).Costui,non appena si era accorto di ciò che comportava l’essere tiranno,non voleva più esserlo,ma era troppo tardi:le Moire gli danno l’incarico di tiranno e lo lanciano sulla terra,dopo averlo immerso nel fiume Lete perchè dimentichi (Er chiaramente non è stato immerso).Er dice che per ultima era arrivata l’anima di Ulisse e che,stanca della passata vita “movimentata”,scelse la vita di un comune cittadino.Platone fa notare che di solito chi veniva dal Paradiso tendeva ad effettuare scelte sbagliate,mentre chi veniva dal Purgatorio e aveva sofferto sceglieva bene.Infatti chi aveva vissuto per 1000 anni di beatitudine si era scordato di che cosa fosse la sofferenza.Quindi chi ha sofferto sceglie bene e sceglie una buona vita che lo porterà al Paradiso,mentre chi ha goduto sceglie male e dopo che ri-morirà finirà in Purgatorio.Pare quindi un circolo vizioso,ma in realtà Platone dice che il motivo per cui si sceglie una vita buona o una cattiva può derivare da doti naturali:ci sono infatti persone portate a comportarsi bene per inclinazione naturale:vi è anche chi ha conoscenze basate sulla doxa (l’opinione) e che può cogliere alte realtà,ma solo casualmente,senza riuscire a fornire motivazioni:costoro,che conducono una vita buona per caso,non radicata nella coscienza,si smontano facilmente nel Paradiso quando godono e finiranno per scegliere male.Chi ha invece raggiunto il bene in sè,la super-idea del bene,non cadrà mai nel male.Secondo alcuni studiosi nella fase della vecchiaia è come se Platone effettuasse un’autocritica della dottrina delle idee:essa,infatti,risolve alcuni problemi per crearne altri;non si è totalmente certi che sia realmente un’autocritica e c’è chi sostiene semplicemente che Platone si faccia portatore di discussioni che si tenevano nell’Accademia ,un luogo aperto dal punto di vista intellettuale:forse vi fu chi non approvò la teoria delle idee e la contestò.Vi sono anche indizi che ci inducono a pensare che sia così:il “Parmenide” rientra in questi dialoghi e vede al centro la figura di Parmenide perchè si affronta il problema del rapporto tra l’uno ed i molti,molto caro a Parmenide appunto,e quello del rapporto idee-superidea del bene;i temi centrali sono quelli dei tempi di Parmenide (il dialogo è ambientato in quel periodo):è come se Platone riprendesse ciò che era stato lasciato in sospeso anni addietro.Protagonisti del dialogo sono Socrate , Parmenide e Zenone, discepolo di Parmenide ;questo dialogo può per diversi aspetti essere accostato al “Sofista”,dove il protagonista è “lo straniero di Elea”,la città di Parmenide e di Zenone.Il vero tema centrale del “Parmenide” è quello riguardante le idee e le cose,a cui Platone aveva finora solo accennato senza mai sbilanciarsi troppo : che cosa intendesse per “compartecipazione”,per esempio,non l’aveva ancora detto : arriva a dire che le idee sono ciò in virtù di cui le cose empiriche possiedono certe caratteristiche . Nel Parmenide sono attestate l’una accanto all’altra e con pari legittimità una versione concreta e materiale e una versione astratta e metaforica della compartecipazione : nella sua versione concreta , la partecipazione delle cose empiriche ad un’idea implica che l’idea sia effettivamente presente nelle cose partecipanti : ad esempio , tutte le cose empiriche molteplici si rivelano molteplici in quanto l’idea della molteplicità è presente in esse . Nella sua versione astratta e metaforica , invece , la partecipazione consiste nella somiglianza delle cose empiriche ad un’idea . Affronta questo problema partendo proprio dall’uno ed i molti.Tuttavia , se Platone si distacca dal maestro Socrate , egli è e gli resta fedele ; è e resta fedele cioè all’ideale , che questi incarna , della filosofia come continua ricerca.Pure nel “Sofista” c’è il problema uno-molti,ma non è riferito al rapporto tra idee e cose,bensì tra idee e basta:è una questione tutta interna alle idee.Va subito rilevato che nel “Parmenide” ed in generale in tutti questi dialoghi della vecchiaia vi è un’attenuazione dell’aspetto dinamico,forse dovuto all’età:la fantasia giovanile tende a venir meno,così come la figura di Socrate tende a sfumare; mentre il “Simposio” è un esempio della letteratura greca,il “Parmenide” non lo è : testimonia la volontà di addentrarsi in discussioni tecniche e di conseguenza lo stile si fa più arido.Anche la figura di Socrate tende a diventare marginale ed a sparire:ciò significa che i temi di Platone sono davvero estranei e distanti da Socrate e non se la sente di metterglieli in bocca;è evidente che quando si parla di virtù e di giustizia ci si può riallacciare a Socrate ,ma i problemi metafisici e ontologici non erano materie che rientravano negli interessi del maestro di Platone.Nel “Parmenide” la figura di Socrate è addirittura quella di un ragazzino:volendo introdurre Parmenide per questioni cronologiche è costretto a mettere in gioco un Socrate giovane ed un Parmenide vecchio (Zenone è un uomo maturo);fatto sta che Platone deve comunque aver forzato leggermente la cronologia per immaginare l’incontro.Parmenide nel dialogo è sempre accompagnato dagli aggettivi “venerando” (sia perchè è anziano sia perchè Platone lo ritiene il fondatore della filosofia astratta) e “terribile” (ragionava in modo così logico e razionale da mettere in crisi).In tutti i dialoghi che abbiamo esaminato Socrate è sempre stato il protagonista indiscusso in cui Platone si identificava;ma nel “Parmenide” in chi dei tre si identifica ? Da un certo punto di vista si identifica in Parmenide ,da un altro in Socrate ;compare come Socrate nella forma giovanile,come Parmenide in quella senile.Il nucleo del dialogo ruota intorno a Socrate che fa delle affermazioni e a Parmenide che le corregge,dicendogli che da grande capirà.Vi è una interpretazione ingenua e giovanile delle idee ed una più senile e completa: Parmenide non è che dica cose opposte,si limita a correggere ed a rendere più complesse e complete le affermazioni di Socrate .E’ Platone anziano che si confronta con Platone giovane,ma può anche essere Platone che si confronta con chi nell’ Accademia contestava la dottrina delle idee.Come detto il “Parmenide” affronta due tematiche:l’uno-molti,che viene discusso a livello astratto,e idee-cose.Cosa significa in concreto che molte cose partecipano a un’idea sola ? Platone avanza diverse ipotesi e le respinge un pò tutte:per esempio ipotizza che il rapporto di partecipazione sia di presenza:un’unica idea sarebbe quindi presente in più cose,ma sarebbe molteplice e non più unità del molteplice:infatti ce ne sarebbero tantissime.Vi è poi la famosa argomentazione del “terzo uomo”,nella quale si evidenzia la difficoltà nel rapporto idee-cose:Parmenide ,dopo che Socrate ha esposto la dottrina delle idee, afferma che l’idea è quindi ciò che unifica molte cose,che il ragionamento è che tante cose insieme presentano una cosa in comune:gli uomini hanno una cosa in comune:l’idea di uomo.Ma l’idea di uomo,che rappresenta l’unità,dovrà per forza avere qualcosa in comune con gli uomini:gli uomini sensibili si assomigliano perchè imitano l’idea di uomo;ma un rapporto di somiglianza non c’è solo tra gli uomini sensibili,ma anche con l’idea di uomo:se ci sono gli uomini e l’idea di uomo e sono tra loro simili,ci deve essere per forza essere qualcosa di comune all’idea di uomo e agli uomini che li rende simili,che li accomuna:ci deve essere un terzo uomo;questa argomentazione può andare avanti all’infinito perchè ci dovrà sempre essere qualcosa in comune.Vi è chiaramente una contraddizione nella dottrina delle idee,che era servita per semplificare la realtà ma che la complica ammettendo la molteplicità:gli enti invece di ridursi si moltiplicano all’infinito.Vi è poi una terza argomentazione: Parmenide chiede a Socrate di che cosa ammette che ci siano le idee e lui risponde citando le cose astratte quali la giustizia,la bellezza,gli enti matematici…Dice di non essere certo che esistano idee degli oggetti sensibili veri e propri:l’idea di albero,di cavallo,di cane…Platone era ricorso a queste idee:per spiegare l’attività di un artigiano aveva perfino ammesso che le idee potessero essere create dall’uomo:Platone si era occupato del problema delle tecniche e aveva ammesso che ci fossero delle tecniche di produzione e delle tecniche di uso;chi costruisce le briglie per i cavalli mette in atto la tecnica di produzione ,il cavaliere che cavalca quella di uso.Il cavaliere deve sapere come le briglie devono essere usate,come funzionano,come devono essere:dà le indicazioni all’artigiano che le fa come vuole il cavaliere.Chi applica la tecnica di uso crea un’idea che l’artigiano deve imitare:egli guarda ad un’idea creata da chi mette in pratica la tecnica d’uso.Platone sembra ipotizzare la produzione delle idee:l’idea di tavolo,per esempio,è una sorta di idea che gli uomini si fanno.Chiaramente in una ipotetica scala gerarchica chi usa è più in alto di chi produce.Socrate dice che certamente non esistono le idee delle cose spregevoli ed insignificanti:ad esempio,il fango ed il capello che corrispettivo possono avere nel mondo delle idee,dice Socrate.Ma Parmenide gli dice di pensarci bene e forse un giorno capirà.Socrate stava evidentemente pensando alla valenza assiologica:l’idea è il punto cui le cose sensibili devono mirare,è il meglio verso cui tendere.Come si può tendere all’idea di fango ? Però Parmenide ,ontologo per eccellenza,dice che se l’idea deve essere l’essenza di ogni cosa ,anche il fango dovrà avere una sua idea. Parmenide fa qui notare che nel concetto di idea la valenza ontologica contrasta con quella assiologica,cosa che peraltro Platone sapeva benissimo : proprio per questo possiamo leggere il dibattito Parmenide–Socrate come uno scontro tra il Platone ontologico e quello assiologico . In effetti se pensiamo al piano assiologico pare impossibile che esistano idee di cose spregevoli : se però consideriamo quello ontologico , così come un cavallo esiste nella misura in cui compartecipa all’idea di cavallo , anche il fango o la sporcizia esistono nella misura in cui imitano l’idea di fango e di sporcizia . Parmenide poi mette definitivamente a tacere Socrate con un’ultima obiezione : comunque venga concepita , l’ipotesi della compartecipazione pare in contrasto con l’assunto della separazione delle idee; in effetti se le idee rimangono davvero separate dal mondo sensibile , esse saranno in relazione tra loro soltanto ma non con il mondo sensibile degli uomini , come d’altronde anche le cose empiriche si porranno le une in rapporto alle altre senza alcun genere di contatto con le idee . Pertanto se vi è questa separazione nettissima che Platone (qui Socrate) aveva sempre predicato tra mondo sensibile e mondo intellegibile , nessuna partecipazione tra idee e mondo sensibile sarà ammessa e così neppure nessuna conoscenza delle idee per noi uomini sarà possibile . Questa difficoltà è indicata da Parmenide come “la più grande di tutte” (“megiston dè tòde”) : le idee devono per forza rimanere in sè e per sè , radicalmente separate dal mondo sensibile , perchè la separazione ne preserva l’assoluta superiorità ontologica , stabilendo un’incolmabile discontinuità rispetto alle cose empiriche .Va notato che Platone,in ogni suo dialogo,prende spunto un pò da tutti gli altri filosofi e Parmenide non fa eccezione : l’idea platonica è unità e stabilità proprio come l’essere parmenideo.L’istanza etica di Socrate vuole idee solo positive e guarda alla assiologia , mentre Parmenide è interessato all’essere,al piano ontologico:d’altronde è risaputo che Socrate fosse un antropologo,una persona che si interessava ai valori.Platone si rende conto che è Parmenide ad avere ragione e non Socrate .Nel dialogo Parmenide discute sul rapporto tra l’uno ed i molti:è una discussione a tal punto tecnica e complessa che si è arrivati a pensare che si tratti di una parodia,una presa in giro da parte di Platone di alcune scuole. Comunque Platone mette in discussione la dottrina delle idee anche nell’ ” Eutidemo “ , dove viene tirato in ballo un quesito piuttosto strano : se una cosa stando vicino all’idea di bellezza diventa bella , Socrate stando vicino a Platone diventa Platone ? Tornando al “Parmenide” , in esso comincia a trasparire una nuova accezione della parola “dialettica”,tipica di Socrate e di Platone : originariamente designava il dialogo socratico , poi è passata a designare la tecnica argomentativa di Platone ed è anche divenuta sinonimo di “filosofia”;nel Parmenide” il significato si sposta da un certo modo di affrontare la conoscenza al rapporto tra le idee:non esiste solo un dialogo-scontro tra gli uomini (quello che dava vita alla fiamma) che aumenta la conoscenza , ma anche tra le idee : lo “scontro” si sposta dal soggetto della conoscenza all’oggetto.Il concetto dell’uno ed i molti si richiamano a vicenda:non si può conoscere pienamente il concetto di uno se non si conosce il concetto di molti e viceversa.Un modo per sintetizzare la filosofia di Parmenide può essere l’affermazione “l’uno è” ,la negazione della molteplicità ;Platone dice che quando si predica il concetta di uno lo si moltiplica:se non si predicasse affatto sarebbe davvero uno ,ma se ne parlo non è già più uno,è già due:gli si aggiunge il concetto di essere.”L’uno è l’essere” :affermo il molteplice perchè lo predico : nego e affermo nello stesso tempo.Le idee non sono una accanto all’altra,ma se le accosto dialogano e si scontrano.Questo è il nuovo significato di dialettica,che non designa più solo un metodo di indagine:diventa anche la struttura della realtà.Di conseguenza la dialettica è lo strumento migliore di ricerca della realtà perchè essa stessa è la realtà:c’è uno stretto rapporto tra la realtà soggettiva e quella oggettiva.Questo concetto viene trattato nel “Sofista” ancora di più che nel “Parmenide”.Un altro problema,molto astratto e legato alla possibilità di ragionare,che Platone affronta in età avanzata (e anche in gioventù) ed in diversi dialoghi è quello riguardante il vero e il falso,in parallelo con l’essere ed il non essere : si torna a problematiche parmenidee e viene messa da parte la figura di Socrate.La possibilità di poter distinguere il vero dal falso è legata al poter commettere errori ed il tema viene affrontato nel “Sofista” ;già dal titolo dell’opera si può intuire la solita critica platonica dei sofisti,già avanzata in gioventù:qui però è trattata con sfumature più ontologiche.Che cosa c’entrano i sofisti con il vero-falso e l’errore ? Si può sbagliare solo quando si può porre una differenza tra vero e falso : Gorgia e Protagora ,i due maggiori esponenti sofisti,erano rispettivamente del parere che tutto fosse falso ( Gorgia ) e che tutto fosse vero ( Protagora ):per entrambe non vi è la distinzione tra vero e falso 😮 ce n’è uno o l’altro,si basano sul fatto di non poter distinguere il vero dal falso.Per Parmenide dire il falso vuol dire ammettere il non essere,le cose come non sono (il che è impossibile);per Parmenide si dice e si pensa solo ciò che è,ciò che esiste.Questo spiega come un dialogo tutto incentrato sulla filosofia eleatica si leghi al sofismo:le tesi eleatiche e quelle sofiste mirano ad affermare che l’errore sia impossibile,che non ci sia la distinzione tra vero e falso.Sono posizioni differenti che portano alle stesse conclusioni,sebbene in modi diversi.Il “Cratilo” ed il “Teeteto” sono dialoghi dove si cerca di contestare la possibilità di non errare : se non esiste la possibilità di sbagliare tutti i discorsi saranno o veri o falsi;se tutto è vero o falso e non c’è la via di mezzo viene a perdere di significato perchè una cosa è sensata quando contiene un pò di verità,ma anche un pò di falsità,quando si trova in una via di mezzo (ancora una volta Platone assume posizioni intermedie);se non si ammette l’errore non si può ammettere la verità,che è ciò che non è sbagliato.Il “Cratilo” prende il nome da un seguace di Eraclito,che però aveva radicalizzato le posizioni del maestro e si era molto soffermato sul “panta rei” (tutto scorre):a suo avviso è impossibile dare i nomi alle cose perchè cambiano di continuo:noi chiamiamo Pò un fiume ma non è corretto:non esiste qualcosa che si chiami Pò perchè cambia in continuo (è un esempio evidente perchè le acque si rinnovano in continuazione);si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione.Cratilo con il “panta rei” arriva a dimostrazioni sofistiche:è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre.Quindi in teoria ,dal momento che non si possono attribuire nomi,bisognerebbe solo indicare le cose.Secondo alcuni studiosi Platone stesso sarebbe stato allievo di Cratilo,il che può sembrare strano se consideriamo la dottrina delle idee,in cui viene ammesso un essere fisso,stabile e permanente.Pensandoci bene,però,non è poi così strano:Platone deve aver constatato che nel mondo sensibile non c’è nulla di stabile ed è ricorso alle idee.Platone nel “Cratilo” effettua un’ampia discussione sulla problematica della lingua.Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni a riguardo , legate al binomio “nomos”-“fusis” (convenzione-natura);questo della lingua è un problema tipicamente antropologico e di materia sofistica.Alcuni sofisti erano del parere che si attribuiscano i nomi in maniera spontanea,secondo natura (“katà fusin”),come se la natura stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi confronti.Altri la pensavano in modo opposto:gli uomini attribuiscono i nomi in maniera assolutamente artificiale,secondo convenzione (“katà vomon”).Questa diatriba è in corso ancora al giorno nostro;Platone,dal canto suo,sostenne che attribuiamo i nomi un pò “katà fusin” e un pò “katà nomon”.Nella tradizione ebraico-cristiana vi è il mito della torre di Babele;la lingua di Adamo (l’ebraico) sarebbe stata naturale ed i nomi corrispondevano esattamente all’essenza delle cose e proprio con i nomi si poteva cogliere l’essenza delle cose.Nella torre di Babele i linguaggi successivi sarebbero stati convenzionali e non vi era più piena corrispondenza tra i nomi e le cose.Platone è dunque del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni concordiamo con lui:vi è una mescolanza dei fenomeni.Esiste sì una derivazione naturale dei nomi:sono le cose stesse che suggeriscono i nomi da usare,ma le lingue parlate sono molteplici:una componente di arbitrareità ci deve per forza essere.Quindi le cose tendono a suggerire il nome con cui chiamarle ma dopo di che l’uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la ragione:ancora oggi,comunque,ci sono parole onomatopeiche,che suggeriscono l’essenza del soggetto cui sono riferite (“zanzara”,”cornacchia”…).Si tratta di una teoria intermedia che mette insieme il lavoro razionale a quello naturale.Ma cosa c’entra tutto questo nell’ambito del “Cratilo” e della discussione del vero-falso ? Più di quello che potrebbe sembrare : per Platone entrambe le possibilità per denominare le cose negano la possibilità dell’errore : le parole corrispondono esattamente alle cose;o sono totalmente artificiali o totalmente naturali:si arriva alla stessa conclusione.Se mi attengo alla teoria “katà fusin” un libro mi suggerisce la parola con cui chiamarlo ed è solo quella:non c’è possibilità di errore.Se mi attengo al “katà nomon” i nomi sono totalmente artificiali e quindi vanno bene tutti :lo posso chiamare libro,ma anche tavolo,scarpa…sarà in ogni caso corretto e anche qui non c’è possibilità di sbagliare:infatti in assenza di un arbitrio generale tutti i nomi risultano corretti.Il far corrispondere al meglio (con un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all’essenza delle cose consente di affermare che l’errore esiste e che la retorica (quella vera è ) è la filosofia.Platone sposta poi il problema dalle cose alle idee:così come si possono dare nomi alle cose che si conoscono,si possono dare nomi alle idee che si conoscono:c’è una dimensione conoscitiva e vi è uno sforzo di attribuire nomi che esprimano l’essenza di ciò a cui si riferiscono.Il “Teeteto” è un dialogo dedicato alla matematica:il protagonista , Teeteto , è un giovane matematico che in futuro diventerà famoso.E’ anche dedicato alla conoscenza sensibile e a quella intellegibile,che è quella vera e propria.Quando si parla della conoscenza sensibile viene citato Protagora,che sosteneva che le cose sono come mi sembrano e che l’uomo è misura di ogni cosa:si tratta del relativismo assoluto.Platone è interessato a ciò perchè siamo di fronte al rapporto tra vero e falso.Per poter ragionare,come detto,occorre ammattere l’esistenza del vero e del falso.A supportare le tesi di Platone è un suo allievo, Aristotele ; egli dice che con i sofisti non si può neppure discutere perchè ,dal momento che sostengono che tutto sia vero o che tutto sia falso , nel momento in cui un sofista discute smonta le sue stesse tesi perchè in un certo senso ammette la distinzione tra vero e falso,la possibilità dell’errore:se infatti ci fosse solo il vero o il falso che motivo ci sarebbe di discutere ? C’è anche chi vuole che il “Parmenide” sia in realtà una confutazione da parte di Aristotele delle teorie del maestro Platone : dunque Socrate rappresenterebbe Platone,mentre Parmenide Aristotele.In effetti ci sono numerosi indizi a sostegno di questa tesi : la stessa argomentazione del terzo uomo la ritroviamo in testi di Aristotele ed è quindi probabile che sia sua a tutti gli effetti.D’altronde Aristotele non condivise mai pienamente le teorie del maestro e se rimase nell’Accademia fino a oltre trent’anni fu solo per il rispetto che aveva nei confronti di Platone.Nel “Sofista” Socrate compare come interlocutore secondario in quanto il vero protagonista è lo “straniero di Elea” ,una figura misteriosa, che non possiamo far coincidere nè con Parmenide nè con Zenone ,e che alla fine dovrà effettuare il “parricidio” di Parmenide : arriverà cioè a rivedere le tesi dell’ontologo Parmenide e ad ammettere il non essere.Perchè se il protagonista è un eleatico il dialogo si chiama il “Sofista” ? Evidentemente perchè sia gli eleatici sia i sofisti miravano a negare l’esistenza del non essere:per i sofisti ammettere il non essere è ammettere il falso,per gli eleatici (ed in particolare per Parmenide ) ammettere il non essere significa ammettere un’ altra entità:per loro solo l’essere è e solo l’essere può essere detto.In linea di principio il tema principale del dialogo dovrebbe essere la ricerca di che cos’è il sofista tramite la ricerca di una definizione (è un processo che molto ricorda quello effettuato da Socrate).In realtà per arrivare alla conclusione si fa un giro molto lungo dove si trattano numerosi temi,il più importante dei quali è l’essere (ricordiamoci che “lo straniero” è un eleatico).Che cos’è l’essere ? Lo straniero (quindi Platone) pone due possibili alternative di interpretazione effettuate da due diversi gruppi di persone : lo scontro tra i due gruppi viene paragonato al conflitto tra i Titani e gli Dei . Gli uni vivevano sulla terra e rappresentavano la forza terrena e materiale , gli altri in cielo.I due gruppi che si scontrano nel “Sofista” sono i materialisti (paragonati ai Titani )che sostengono che l’essere è solo quello materiale e gli idealisti (paragonati agli Dei)che affermano che il vero essere sia quello ideale (Platone li chiama “amici delle idee”).Chiaramente Platone fa riferimento alle teorie di Democrito,materialista per eccellenza : egli fu il primo a depurare la materia da concezioni vitalistiche e “ilozoistiche”.Platone in qualità di filosofo idealista vede in Democrito un acerrimo nemico e la sua netta contrapposizione tra mondo sensibile e mondo intellegibile è un modo per dare contro all’avversario : è chiaro che se Platone fosse vissuto prima di Democrito non avrebbe formulato tutte le teorie che ci sono pervenute.I filosofi sono grandi o quando rompono decisamente con la filosofia a loro precedente o quando operano grandi sintesi dei loro “antenati” per creare un qualcosa di nuovo : è proprio questo il caso di Platone nella cui filosofia troviamo tutti i filosofi precedenti : Socrate ,i sofisti , i pitagorici , Parmenide , Eraclito (questi ultimi due hanno addirittura concezioni antitetiche : il primo è il filosofo dell’essere , l’altro del divenire : per Platone le idee sono l’essere pieno mentre le realtà empiriche sono il divenire).Un grande filosofo si serve anche di chi dice cose opposte alle sue : è il caso dei sofisti che si inseriscono in modo “dialettico” nella filosofia platonica ; basti pensare alla questione della seconda navigazione (che Platone effettua perchè non può accetare la ricerca delle cause materiali) o alla reminescenza (che Platone tira in ballo partendo dalle affermazioni sofiste secondo le quali è impossibile imparare).Già solo leggendo i titoli delle opere platoniche ci si accorge di come ci sia tutta la filosofia dell’epoca.Tra i personaggi che Platone cita , quello che viene sempre meno ricordato è Democrito , il cui nome di fatto non compare mai;Platone probabilmente lo conosceva benissimo e lo considerava il suo nemico naturale e l’espressione che compare nel dialogo platonico “l’essere non è nient’altro che il corpo” è senz’altro di Democrito,il materialista più convinto.Come detto,Platone contrappone gli idealisti ai materialisti:entrambe hanno torto,come dirà lo straniero,ma i materialisti sono un caso disperato ed irrecuperabile : sono teste dure con cui è impossibile il dialogo e quindi Platone dice che supporrà un dialogo fittizio con loro (immaginandosi materialisti più aperti e meglio disposti) perchè di fatto sarebbe impossibile parlare con gente così cocciuta e rigida,rigida proprio come ciò che sostengono,quasi come se la loro testa fosse piena di quella materia che vedevano ovunque : cercano di portare tutto sulla terra,come i Titani cercavano di far scendere dal cielo gli Dei. Democrito è quindi l’avversario più temibile e che più di chiunque altro va sconfitto e Platone costruisce la propria filosofia proprio per dargli contro ; chiaramente non si sarebbe potuti arrivare ad una posizione idealista se prima non ci fosse stato chi sosteneva il materialismo:sono posizioni antitetiche ma l’esistenza dell’una determina quella dell’altra.Sullo sfondo di questo scontro tra i due gruppi e tra le loro definizioni di essere,anche lo straniero dà la sua definendo l’essere come “dunamis” (possibilità , potenza):possibilità a fare che cosa ? Esiste tutto ciò che può agire o può subire una cosa : anche l’azione più piccola connota l’esistenza.A questo punto i materialisti affermano che solo ciò che è un corpo può subire o compiere azioni : essi non si limitano a dire che i corpi esistono,ma sostengono che siano le uniche cose ad esistere.Platone dice (muovendo una critica tipicamente idealista) che non è vero : se ammettiamo l’esistenza solo dei corpi cadiamo in una contraddizione.Se esiste solo ciò che è materiale,la giustizia esiste ? Platone si serve della dimostrazione per assurdo,tipica di Zenone : ammettiamo che la giustizia non esista :con che criterio diciamo che una cosa è giusta o sbagliata ? E’ inammissibile che non esista in quanto le cose sono giuste nella misura in cui compartecipano all’idea di giustizia.Ammettendo che esista è alquanto facile dire che essa non sia una realtà materiale.L’ipotesi che l’essere sia solo materiale cade miseramente.Anche “gli amici delle idee” hanno torto,ma chi sono ? Sono coloro che sostengono le tesi di Platone e che pur sbagliando sono aperti al dialogo : potrebbero tranquillamente rappresentare il Platone di tempi addietro , quando aveva appena scoperto la dottrina delle idee e non aveva ancora pensato ai problemi che potevano derivarne e gli pareva che tutto filasse liscio.Però gli “amici delle idee” possono anche rappresentare posizioni interne all’Accademia ma troppo rigide : essi stanno quindi dalla parte di Platone,che però li critica.Dove sbagliano ? Essi (ma anche Platone stesso nella sua giovinezza) sostengono la dottrina delle idee recuperando concetti tipici della filosofia parmenidea : le idee hanno infatti carattere di unicità , permanenza , eternità ,immobilità … Platone evidenzia particolarmente un aspetto : la presunta immobilità e separazione reciproca delle idee . Come detto, “gli amici delle idee” sostengono anche l’esistenza delle cose non materiali e di conseguenza delle idee in quanto subiscono un’azione :vengono pensate e conosciute.Così,però,entra in crisi la concezione delle idee come un qualcosa di immobile : esse esistono nella misura in cui subiscono un’azione e di conseguenza è ovvio che ciò comporti il movimento.Le idee si muovono perchè subiscono l’azione dell’essere conosciute. Dopo di che , Platone passa ad esaminare 5 idee di fondamentale importanza : l’essere , la quiete , il movimento , l’identico , il diverso .Platone fa subito notare come queste 5 idee siano in rapporto complesso tra di loro ed è come se fossero vive perchè hanno rapporti complessi le une con le altre.Si arriva a dire che il mondo delle idee sia un mondo vivo , dotato di intelligenza (sennò come farebbero le idee ad avere rapporti complessi ? );queste 5 idee sono tra l’altro molto importanti per esemplificare che il mondo delle idee non è affatto statico.Dapprima si considerano l’essere , la quiete ed il movimento:derivano tutte e tre dalla discussione precedente (l’essere e le 2 ipotesi , quella dei materialisti,secondo i quali l’essere è in continua evoluzione e non è mai lo stesso , e quella degli idealisti ,secondo cui è un essere immobile )e si comincia una complessa e articolata indagine per analizzare i vari rapporti che intercorrono tra queste idee : ogni idea , infatti , partecipa di altre idee,senza però identificarvisi : è chiaro che solo l’idea di essere è l’idea di essere , ma tutte le altre idee ne partecipano : infatti tutte le idee esistono , sono.Solo l’idea della quiete è l’idea della quieta,ma molte altre ne partecipano(lo stesso vale per quella di movimento).Si passa poi all’idea di identico e di diverso:ogni idea è identica a se stessa e diversa dalle altre , pur non identificandosi nell’idea di identico e di diverso.L’idea stessa dell’essere partecipa all’idea di non essere perchè l’essere è se stesso ma non è nessun’ altra idea.da qui nasce il famoso parricidio di Parmenide : anche il non essere è ,esiste ; si evidenzia quindi la distinzione di essere con valore copulativo (quel libro è bello) da essere con valore esistenziale (l’uomo è):dire “una cosa non è” non vuol dire negare la sua esistenza , ma dire che è diversamente : la penna non è il libro.Nasce quindi la possibilità dell’errore , che prima pareva negata : sbagliare significa dire le cose diversamente da come sono.Vi è quindi il nuovo valore della parola “dialettica”:le idee si richiamano le une alle altre e tra loro intercorrono comlessi rapporto:sono vive e “pensanti” , in quanto si rapportano tra di loro secondo una logica.Secondo Platone le idee sono come le lettere dell’alfabeto che si possono legare e formare un numero quasi infinito di parole ,attenendosi però alle precise regole del discorso;così le idee si possono legare con altre idee (ma non con tutte) secondo determinate leggi e non a caso (come le parole unite a caso non hanno senso , così anche le idee).Le due mansioni che la dialettica deve svolgere sono la “sunopsis” (sun + orao = vedere insieme -> unire ) e la “diairesis” (dià + aireo = dividere attraverso -> divisione ):per Platone bisogna agire come un macellaio che taglia le carni seguendo le articolazioni : occorre ritagliare il mondo delle idee ,che si ricollegano, secondo confini reali:bisogna mettere insieme ciò che va messo insieme e tagliare ciò che va separato.Si arriva a definire il sofista come “cacciatore di giovani” che va a caccia di giovani ricchi da cui spillare soldi:alla definizione si arriva mediante la “diairesis”:in primis bisogna definire la categoria generalissima a cui appartiene la cosa che stiamo definendo:nel caso del sofista bisogna subito “ritagliare” la tecnica.Ma si tratta di una tecnica di produzione o di acquisizione ? Chiaramente nel caso del sofista è acquisizione .Ma si possono acquisire diverse cose : animali , commercianti …La “diairesis” consiste nell’individuare la categoria generalissima e da lì dividere sempre a metà : ogni volta si arriva ad un bivio e si deve scegliere da che parte svoltare , per poi trovarsi ad un altro bivio finchè non si arriva ad una specie ultima , quando cioè la divisione mi porterebbe a trovare solo personaggi (nel caso del sofista Gorgia , Protagora ).Nell’ambito dei dialoghi composti in età avanzata troviamo il “Timeo” , che ha in comune con tutti gli altri dialoghi della vecchiaia il fatto che si facciano vedere le idee in una dimensione più dinamica e si evidenzino i rapporti che intercorrono tra le idee stesse (il “Sofista” ) e tra idee e cose (il “Parmenide” ).Nel “Timeo” si parla in modo particolare del rapporto idee-cose e Platone si occupa del mondo fisico a tal punto che non è sbagliato definire il “Timeo” libro fisico (da “fusis”,libro della natura).Infatti finora non si era praticamente occupato del mondo sensibile se non per affermare che è una pallida copia del mondo delle idee e per evidenziare la sua inferiorità rispetto al mondo intellegibile.Dato che era un argomento meno importante e che il “filosofo” si muove tra le idee , Platone dedicò solo un’ opera al mondo sensibile, che ci viene presentato come “il mondo in cui si muove l’uomo”.Il “Timeo” ci viene da Platone presentato come continuazione della “Repubblica” :è come se dopo aver parlato dello stato ideale , Platone si cimentasse a descrivesse il mondo fisico in cui lo stato deve operare.Va poi ricordato che il “Timeo” e il “Crizia” sono i dialoghi del mito di Atlantide , città nemica della Atene preistorica che era vista come realizzazione dello stato ideale:chiaramente Atene è collocata in un tempo senza tempo,è vista come città mitica.Questo mito tutto platonico serve a far conoscere qualcosa che non è pienamente coglibile con il raziocinio (le idde sono l’essere pieno e quindi effettivamente conoscibili con la ragione : il mondo sensibile è in continua mutazione e di conseguenza non è un essere pieno e non può essere conosciuto con la ragione;così era anche per il mito della caverna in cui si parlava del bene in sè,che era al di sopra delle idee e quindi non era pienamente conoscibile con la ragione).Questo mito verosimile viene presentato in un contesto pitagorico (il protagonista,Timeo ,è di Locri ,nell’attuale Calabria;non si sa però se codesto Timeo sia realmente esistito o sia un’ invenzione platonica come molti sofisti;fatto sta che Timeo rappresenta il “pitagorico” )e presenta una cosmogonia (come è nato il mondo) e una cosmologia (come è fatto il mondo).Descrivendo la nascita del mondo Platone si serve di una metafora (ricordiamoci che stiamo parlando di una “opinione vera”) biologica : il mondo in cui viviamo ha un padre e una madre:il padre è il mondo delle idee mentre la madre è la materia (notare che la parola materia deriva dal latino “mater” = madre).Secondo Platone il padre fornisce la forma mentre la madre la materia ( a quei tempi si dava per scontato che l’aspetto più nobile della riproduzione fosse paterno,mentre l’aspetto materno era ritenuto inferiore sebbene essenziale).Dunque ci sono questi due elementi , il padre (ricordiamoci che la forma del mondo sensibile deriva,nella misura in cui ne compartecipa, da quella del mondo intellegibile) e la madre (Platone per definirla non usa la parola materia,in greco “ule”,che verrà poi introdotta da Aristotele ,ma “concausa”,per il fatto che la madre ha un ruolo secondario rispetto al padre,o “causa necessaria”,per il fatto che la materia è la condizione per la realizzazione di qualcosa:c’è sì il cavallo ideale , ma senza materia con cui plasmare non si può fare nulla).Tuttavia chiama la madre anche “ricettacolo delle forme” per il fatto che la materia è il luogo in cui vengono ricevute le forme , e “spazio” (in greco “kora” = regione ,ma con valore astratto = spazio):la parola “kora” dà proprio l’idea dell’estensione pura,senza alcuna forma (il che comporta il fatto che può assumerle tutte).Sappiamo che le idee sono fuori dal tempo e dallo spazio : quando un’idea è compartecipata dal mondo sensibile si cala nello spazio.Tutto il “Timeo” è incentrato sulla necessità di spiegare il mondo fisico e la sua compartecipazione alle idee:le idee sono perfette , le cose no:da un lato si predica il bene (le cose tendono alla perfezione ideale)dall’altro il male (non riescono ad imitare perfettamente): si crea così una sorta di ambiguità;si può accettare la frase non platonica ( é infatti stoica ) “viviamo nel migliore dei mondi possibili” in quanto il nostro mondo si avvicina più che può a quello intellegibile.Finora per quel che riguarda l’imperfezione del mondo sensibile ce l’eravamo cavata dicendo che un’imitazione , per definizione , non è mai perfetta:ma perchè il mondo non sarà mai perfetto ? Qual è l’ostacolo ? Platone era del parere che il nostro fosse un mondo buono,ma tuttavia era consapevole della sua imperfezione.Alla domanda che ci siamo appena posti Platone rispose così : per lui ciò che impedisce al mondo sensibile di essere perfetto è la materia;perchè il mondo empirico si realizzi e si plasmi occorre che si realizzi in qualcosa privo di forma : è come un metallo che deve essere lavorato : se avesse già una sua forma immutabile non lo si potrebbe lavorare.Quindi la caratteristica della materia è non avere caratteristiche.Platone dice che il ragionamento che ci porta a conoscere la materia è “bastardo”,impuro , scorretto perchè se ad esempio guardiamo un cavallo , in realtà conosciamo l’idea : la materia la conosco come ciò che non è idea:si arriva alla conclusione in modo negativo perchè il ragionamento coglie solo una caratteristica : la materia non ha forma.Non potrebbe essere “ricettacolo delle forme” se avesse una forma definita (è come la cera sulla quale si deve attaccare un sigillo:deve essere molle e senza forma per poter così prendere quella del sigillo).Se affermiamo che la materia per ricevere le forme non deve avere forme cogliamo simultaneamente un aspetto positivo e uno negativo : è di fondamentale importanza ma soffrirà sempre di una deficienza.Consente alla materia di avere forme,ma le riceverà sempre imperfettamente perchè è priva di forme , disordinata : le si darà una forma , ma manterrà sempre una componente priva di forma:è proprio questa componente a rendere il mondo sensibile imperfetto.Quindi la materia è contemporaneamente un aiuto perchè fa calare le idee nel mondo sensibile ed un ostacolo perchè , per inclinazione naturale , mantiene una componente di disordine.Tra gli “agrafa dogma” (le dottrine non scritte) di Platone troviamo la diade indefinita , alla quale abbiamo già accennato.Platone è all’ultima fase della sua riflessione e risulta particolarmente influenzato dai pitagorici ;al vertice della realtà si trova il principio bipolare,in cui vi sono due poli come in un magnete:e come un magnete esiste solo quando ci sono un polo negativo e uno positivo che risultano essere indivisibili.L’uno è il vertice unitario , il due quello molteplice , diade indeterminata del piccolo e del grande.Platone ha spiegato che in fondo il mondo è uno , di parvenza molteplice:non è una dispersione di cose.Ma perchè , pur essendo uno , pare essere molteplice ? Come mai l’uno si moltiplica ? Vi sono due risposte : a) c’è di mezzo la materia , che genera scompiglio ed indeterminatezza , b) c’è la diade , che genera indeterminazione : se si ha della materia alla quale dare una forma , la forma stessa determina che essa sia nei suoi limiti , nè più grande nè più piccola di ciò che è : piccolo e grande sono una coppia di concetti simmetrici e polari , entrambe indeterminati (c’è sempre qualcosa di più grande e qualcosa di più piccolo) : ricorda molto il gioco del limite e dell’illimitato dei pitagorici .La parziale differenza è che più che essere due principi , sono un principio solo bipolare , altrimenti se il mondo si moltiplicasse significherebbe che i due principi (uno-diade) devono essere impliciti nella realtà.Nel principio che genera il mondo (l’uno) ci deve anche essere la diade : l’uno non rimane uno (come invece era per Parmenide) , ma presentando aspetti molteplici scende di livello : parte dal bene in sè,passa alle idee e poi si cala al mondo sensibile.se vogliamo,la materia rappresenta il male in quanto è elemento di disordine della realtà.Pare quindi che il male stesso sia parte del principio ; in verità c’è il principio da cui si origina il male , ma il male di per sè all’inizio non c’è : la diade indeterminata sta a significare che l’uno (il bene in sè) non rimane unitario , ma si cala nelle idee (che sono tante) prima e nel mondo sensibile poi.E’ come se la potenziale negatività della materia si manifestasse gradualmente : quando è nell’uno non la si vede neppure , è ben inserita e quasi identificabile con lo stesso uno.Nel mondo delle idee , invece , non si è ancora manifestata come male, ma solo come molteplicità (le idee sono tante , ma ordinate ).Nel mondo sensibile le cose sono molteplici (e si sono moltiplicate in modo indefinito : mentre l’idea di cavallo è una , i cavalli sono tantissimi , un numero quasi infinito)e disordinate:la componente di imperfezione è presente in tutti i livelli , ma man mano che si scende è come se si “inspessisse” sempre di più.Comunque tutto questo discorso rimane avvolto da un’ alone di mistero un pò perchè non sta scritto da nessuna parte , un pò perchè non è pienamente coglibile con la ragione.Dunque il mondo fisico deriva da un padre (il mondo delle idee) e da una madre (la materia , che è la condizione per l’esistenza del mondo fisico stesso ma che mantiene comunque una componente di indeterminazione) : ma cos’è che fa da madiatore tra il mondo delle idee e la materia ? Cos’è che fa sì che le idee si calino nel mondo sensibile ? Platone mette a questo punto in gioco la figura del Demiurgo (dal Greco “demos” ,popolo, + “ergon” , opera, = artigiano).Il Demiurgo è un divino artigiano : è colui che contemplando le idee plasma la materia sul modello delle idee stesse.Platone introduce quindi una divinità a tutti gli effetti (fino ad adesso non ne avevamo mai realmente incontrata una).Il concetto che l’artigiano guardi ad un modello è tipicamente platonico (e aristotelico ): mentre gli artigiani umani guardano ad un modello che hanno nella loro testa , il Demiurgo guarda ad un qualcosa che è fuori da lui:dato che le idee sono il bene per la loro categoria , anche il mondo sensibile dev’essere per forza buono , sebbene indeterminato.Che rapporto intercorre tra le idee , la materia ed il Demiurgo ? Tutti e tre sono coeterni , sono sempre esistiti.A differenza della divinità cristiana , che crea il mondo, quella platonica si limita a plasmarlo e non è onnipotente : ha infatti due limiti : la materia , che gli impedisce di costruire un mondo perfetto , e le idee , che sono il modello a cui deve per forza attenersi.Il Demiurgo guarda sì al meglio , ma il suo comportamento è dato da qualcosa da lui esterno ed indipendente.Nel Medioevo vi fu un grande dibattito teologico : le cose sono sante perchè piacciono alla divinità o piacciono alla divinità perchè sono sante ? In altre parole : la divinità è colei che riconosce le cose buone e le sceglie , o è colei che fa le cose buone ? Platone affronta questo argomento , legato al santo , nell’ ” Eutifrone “ : a suo avviso le cose sono buone ( sante ) intrinsecamente e non perchè c’è chi decide che lo siano : il bene in sè è il criterio per giudicare tutte le cose che possono essere buone;è buono ciò che partecipa alla super-idea di bene , come è bello ciò che partecipa all’idea di bellezza.Le idee sono il modello per gli uomini e per la divinità.Chiaramente la divinità vale di più rispetto all’uomo : essa riconosce facilmente il bene , mentre gli uomini hanno delle difficoltà e non sempre ci riescono.Vi fu chi arrivò a dire che ciò che è giusto è giusto perchè l’ha deciso la divinità.Chiaramente se Platone avesse avuto modo di prendere parte al dibattito teologico medioevale , avrebbe affermato che le cose buone piacciono alla divinità perchè sono buone e non avrebbe potuto accettare l’idea che le cose sono buone perchè piacciono alla divinità. E’ corretto affermare che la divinità per Platone è il Demiurgo solo entro certi limiti : se la divinità per definizione è il principio supremo , allora la divinità platonica dovrebbe essere il bene in sè.Se la divinità è principio della realtà , è evidente che non deve dipendere da nulla : ma il Demiurgo dipende dalla super-idea del bene e dalle altre idee che è costretto ad imitare : ne consegue che non è indipendente ma è al contrario limitato.Il bene in sè ,invece,abbiamo visto che è illimitato ed è lui stesso il principio (bipolare) della realtà.Il concetto di divinità nella tradizione ebraico-cristiana attinge un pò dal Demiurgo e un pò dalla super-idea del bene.Non a caso nel Medioevo il “Timeo” (che è appunto il dialogo dove compare il Demiurgo) ,a differenza degli altri dialoghi platonici, continuò ad essere letto e non cadde in disuso.Questo perchè il “Timeo” è l’opera platonica più vicina al Cristianesimo : c’è l’idea della plasmazione , piuttosto vicina a quella della creazione : inoltre la divinità in un certo momento crea il mondo (la divinità di Aristotele invece fa ben poco).Va poi ricordato che il Demiurgo è un dio-persona come quello dei Cristiani.Dietro a questo amore cristiano per il “Timeo” , probabilmente c’è un fraintendimento : le interpretazioni del “Timeo” sono due e i Cristiani scelsero probabilmente quella sbagliata.Se si legge il “Timeo” alla lettere si incontra questo “plasmatore” divino : sembra che il mondo prima non ci sia e che ci sia solo la materia : si ha l’impressione che ci sia un tempo prima e un tempo dopo . Ma Platone credeva in ciò che diceva ? Se si legge accuratamente il “Timeo” ci si accorge che Platone ad un certo punto si pone un quesito : che cos’è il tempo ? Il Demiurgo tra le varie cose plasma anche gli astri , il cui movimento regolare si identifica con il tempo.Il tempo viene definito “immagine mobile dell’eternità”: come il mondo sensibile è imitazione di quello intellegibile (il primo mutevole , il secondo eterno) , così il tempo è imitazione dell’eternità.Non a caso il tempo viene identificato con il movimento circolare : se si vuole rappresentare l’eternità con qualcosa di movimentato , senz’altro ciò che meglio la rappresenta è il cerchio , il movimento circolare in cui si compie un giro per poi tornare al punto di partenza:infatti il tempo è caratterizzato dal non essere eternità ma tornare sempre su se stesso.La cosa più simile a ciò che non si muove mai è quella che torna sempre su stessa , così come la cosa più simile che l’uomo possa fare per eternarsi è il riprodursi ciclicamente.Dunque il tempo è la plasmazione dell’eternità ideale da parte del Demiurgo.La conseguenza è che non c’è un tempo prima del mondo perchè è solo con la nascita del mondo sensibile che il Demiurgo ha calato nella realtà sensibile l’imitazione di eternità.Questa è una visione ben diversa da quella cristiana nella quale la divinità in un certo momento decise di creare il mondo.Va poi ricordato che Platone stesso all’inizio del “Timeo” dice che si tratta di un mito : di conseguenza i Cristiani hanno preso per vero qualcosa che Platone stesso dice non essere vero , ma solo un’immagine che rappresenta la relazione tra mondo intellegibile e materia.Quindi Platone non credeva assolutamente nella figura del Demiurgo ed il suo vero dio resta il bene in sè.Oltre ad esprimere la relazione tra idee e materia , il mito del Demiurgo esprime anche il finalismo : Kant direbbe “è come se” il mondo fosse stato elaborato da un artigiano.Il mondo sensibile è da sempre e per sempre un’ immagine temporale del mondo delle idee.Il Demiurgo dunque comincia a plasmare nella materia (che Platone chiama anche “spazio”)e arriva a generare tutta la realtà . Platone dice che la prima cosa che si crea nello spazio sono 4 solidi geometrici fondamentali : si tratta dei 4 solidi regolari (costituiti da facce uguali tra di loro).Platone è convinto che si possano ottenere tutti e 4 partendo da un triangolo rettangolo isoscele:ricombinandolo si possono ottenere vari tipi di figure ( se ne creerebbero 5 , ma Platone una la scarta).Essi sono il cubo , l’ottaedro , il tetraedro , l’icosaedro (quello che scarta è il dodecaedro). Questi 4 solidi stanno a rappresentare i 4 elementi fondamentali di Empedocle (terra , acqua , aria , fuoco , che verranno poi anche ripresi da Aristotele ) : ognuno dei 4 elementi di Platone è costituito da parti minime (non ulteriormente divisibili)e ciascuno è caratterizzato da una forma : per Platone la terra è il cubo , che suggerisce l’idea di regolarità , materialità , stabilità e compattezza.Il fuoco , per esempio, è invece rappresentato dal tetraedro perchè , dal momento che brucia , deve essere particolarmente spigoloso (il tetraedro è il più spigoloso) e la forma stessa della fiamma è simile a quella del tetraedro.Platone ancora una volta prende spunto dalla filosofia dei suoi precedenti mescolando in questo caso Empedocle a Democrito (che tra le varie cose riteneva che a stimolare i nostri sensi fossero le determinate forme degli atomi)e ai Pitagorici (Timeo è pitagorico e le forme degli elementi sono geometriche).Tra l’altro ci possiamo anche riallacciare alla gerarchia dei livelli della realtà : abbiamo detto (con l’aiuto del grafico) che i numeri erano a metà strada tra mondo sensibile e mondo intellegibile ; qui vengono utilizzati come collegamento tra mondo ideale e materiale.Il Demiurgo plasma quindi l’ Universo ed il Sistema (non è molto chiara la struttura astronomica che attribuisce al Sistema : pare che Platone abbia superato la teoria geocentrica ; non ammette il movimento di rivoluzione , ma sembra ammettere quello di rotazione:è la Terra che gira). Platone introduce poi il concetto di “anima del mondo” : il mondo delle idee abbiamo detto che è movimentato , intelligente, vitale: il mondo sensibile , nella misura in cui il Demiurgo lo plasma , non può che essere simile a quello intellegibile : ha un’ anima sua .L’Universo è un grande essere vivente permeato interamente da un’ anima.Tutto quindi è vitale , sebbene in diverse misure.L’osso è vivo perchè fa parte di un essere vivente , ma anche la pietra è viva perchè fa parte di questo grande essere vivente (l’Universo).Platone insiste poi particolarmente sul finalismo ( il cavallo è nato per essere veloce , il cane per fare la guardia…) e sulla stretta parentela tra uomo e animali (gli animali sono il frutto di incarnazioni infelici delle anime nell’aldilà : ricordiamoci del mito di Er ;di tutte le incarnazioni , Platone sostiene che la peggiore , dopo quella di donna e di animale , sia quella dei pesci).Le ultime riflessioni di Platone sulla vita etica (quella del singolo individuo) e sulla vita politica (quella dell’intera comunità) le troviamo nel “Filebo” e nel “Politico” : ci troviamo di fronte ad un Platone più scettico e che mette in discussione le sue stesse teorie.Si pensa che questi due dialoghi risalgano all’esperienza siracusana con il tiranno,ma c’è anche chi è del parere che questa “sfiducia” nelle sue dottrine sia dovuta solo all’età ormai avanzata:Platone , ormai vecchio , non è più entusiasta come quand’era giovane delle sue dottrine che erano nate per risolvere problemi , ma che in realtà ne avevano solo creati di nuovi.Probabilmente sono entrambe questi due fattori (l’esperienza con il tiranno e l’età avanzata) che fanno sì che Platone sia così scettico.Il “Filebo” non è un dialogo propriamente politico : viene posto l’interessante quesito : che cos’è la vita buona ? Dunque Platone riprende un tema tipicamente socratico ; si discute ancora una volta (come già nel “Gorgia” o nel “Fedone” ) se bene e piacere siano identificabili : a differenza degli altri dialoghi in cui aveva affrontato questo problema , nel “Filebo” Platone assume posizioni più moderate : anche qui nega l’identificazione , ma arriva tuttavia ad individuare diversi tipi di piacere , non necessariamente negativi : non tutti i piaceri sono per forza accompagnati dal dolore . Ci sono anche piaceri intellettuali (ad esempio la musica o quelle conoscenze che danno un senso di piacere)che non sono così strettamente legati al dolore: sono piaceri a dimensione positiva.In poche parole quando ci sono sono un piacere , quando non ci sono sono un dolore.Secondo Platone bisogna privilegiare e coltivare solo certi piaceri.Una vita buona non può essere priva di piaceri (così avevamo anche detto a riguardo dell’anima : le passioni sono fondamentali).Platone delinea così la “vita mista” , basandosi sull’idea che la bontà consista in un equilibrio dato dalla mescolanza di elementi diversi che si mescolano secondo misura : da notare che misura , 1 , numero etc. sono sinonimi per definire il bene in sè.La vita buona , per Platone , è mescolanza di intelligenza e piacere : questa mescolanza non è casuale , ma ponderata : bisogna vedere attentamente in che misura mescolare intelligenza e piacere.Per Platone l’intelligenza è superiore al piacere e tenderà sempre a prevalere per il semplice fatto che se si deve stabilire in che misura mescolare piacere ed intelligenza , è l’intelligenza stessa che ci indica la misura in cui mescolare.Quindi ,di per sè,l’intelligenza è maggiormente presente nella vita buona.Se si presta attenzione alla filosofia platonica , ci si accorge che ritorna spesso l’idea che la spiegazione ultima di tutto è riconducibile ad un sistema binomio,ad un duplice principio.Prendiamo , ad esempio, la “Repubblica” e più precisamente la tripartizione della società : le classi in realtà sono due perchè i difensori sono i futuri governanti . E’ la classe dei governanti che dà l’equilibrio alla sua classe e a quella dei produttori.Spostiamoci ora al “Fedro” e al mito della biga alata , metafora dell’anima : c’è un principio razionale (l’auriga : il fatto che sia uno solo sta a significare che la piena razionalità è nell’unicità) e due irrazionali (il cavallo bianco , che simboleggia la parte arazionale , e quello nero , che è emblema dell’irrazionalità : l’irrazionalità è data da due elementi , che simboleggiano la molteplicità):la ragione è ordinata e unica , l’irrazionalità è molteplice : il fatto che sia data da due cavalli implica la possibilità di andare in due direzioni diverse.Passiamo poi agli “agrafa dogma” (le dottrine non scritte) e al principio bipolare uno-diade : un polo (quello dominante) è l’unitarietà , l’altro è la molteplicità.Nel caso della biga alata , emerge il fatto che con la misura si controlla ciò che è illimitato : pensiamo ad un termometro ; le temperature sono pressochè infinite (in realtà non lo sono , ma facciamo conto che lo siano) e il termometro rende quindi definito ciò che è indefinito.Platone voleva scrivere una trilogia : 1) il sofista 2) il politico 3)il filosofo : il primo l’ha effettivamente ralizzato , il secondo l’ha iniziato ma non l’ha finito ed il terzo non l’ha mai neppure cominciato.Analizziamo ora il “Politico” : l’opera si intitola il “Politico” e non “la politica” (come si chiamerà invece l’opera di Aristotele ) perchè Platone era convinto che per avere uno stato perfetto occorresse che fosse governato da uomini politici perfetti.Ma chi è il vero uomo politico ? Platone parte dallo scartare la definizione omerica “il re è pastore di uomini” perchè implica una superiorità di razza da parte del politico e ciò lo si poteva accettare solo se si torna all’epoca mitica in cui gli dei governavano gli uomini.Così come nel “Sofista” (in cui il tema centrale era la possibilità di dire il falso , il non essere) , anche nel “Politico” la definizione del personaggio passa in secondo piano e risulta scherzosa.Così come nel “Sofista” , per definire si serve della “diairesis” : quella del politico è una tecnica analoga a quella del tessitore che intreccia fibre di carattere diverso:intreccia trama e ordito.Ancora oggi si suole usare l’espressione “tessuto sociale” per indicare che le funzioni si intrecciano . Nell’intrecciare i tessuti , ci sono caratteri più solidi ( coraggiosi, nella politica) ed altri più raffinati (intelligenti , nella politica) : il politico deve sapere la misura per mescolare bene i diversi “strati” sociali.Ben emerge come Platone sia più rigido e meno sciolto (soprattutto nello stile) rispetto a quanto lo era in gioventù.Egli arriva ad affermare che nello stato perfetto non ci sarebbe bisogno delle leggi perchè esse sono quasi un “male necessario” che si introducono in assenza dell’uomo politico perfetto.Infatti la legge per quanto cerchi di cogliere le sfumature non ci riesce mai totalmente e non è mai assolutamente giusta : la legge dice di non rubare e di punire chi ruba con determinate pene : ma non dice , per esempio , di punire chi ruba due libri ed un quaderno con due mesi di carcere.Se ci fossero politici perfetti deciderebbero quale pena applicare in ogni determinato caso.Come il medico riesce a vedere in ogni frangente la cura da amministrare al paziente , così il politico , per Platone , deve prendere le decisioni senza essere vincolato dalle leggi.Ma nella realtà , dove è impossibile per definizione essere perfetti ,Platone dice che le leggi sono necessarie : esse sono necessarie perchè è vero che danno norme universali e non sempre giuste in tutti i casi , ma comunque in questo vincolare danno delle regole alle quali attenersi.Seguendole non si otterrà un risultato perfetto (che si otterrebbe invece seguendo il politico perfetto) , ma comunque buono. Platone crea poi nel “Politico” una nuova gerarchia dei governi : al vertice mette sempre il suo stato ideale ma subito dopo si trovano i governanti che regnano secondo le leggi.Negli ultimi posti ci sono i governi in cui si comanda senza leggi.L’ultima fatica di Platone è costituita dalle “Leggi” , un dialogo rimasto incompiuto : si è curato della sua pubblicazione e di inserire l’ultimo libro un allievo di Platone : questo ci aiuta a capire il carattere pesante e ridondante dell’opera.E’ di gran lunga l’opera più lunga : si tratta di una raccolta di leggi e pure questo aspetto contribuisce alla pesantezza dell’opera.Il problema del consenso che abbiamo affrontato nella “Repubblica” si trasforma nell’essere tutti d’accordo che le leggi sono buone:ogni legge viene preceduta da un preambolo , da un’argomentazione dove si spiega perchè quella legge viene elaborata, perchè è giusta : oggigiorno questo non c’è nelle nostre leggi , ma tuttavia nelle proposte di legge viene data una motivazione alle nuove leggi.Vi è anche chi dice che le “Leggi” fossero un manuale in uso nell’Accademia che assunse gran prestigio : pare infatti che le nuove città , o quelle rifondate o ancora quelle ricostituite si rivolsero all’Accademia per farsi varare le leggi.Abbiamo già parlato dello Stato Secondo : Platone cerca un compromesso tra lo stato ideale (che sa bene che sia inattuabile) e la realtà : egli elimina gli aspetti più scioccanti ed inattuabili (l’abolizione della proprietà terriera e della famiglia , sebbene sostenga che i governanti debbano vivere di tanto in tanto insieme).Per lo stato delineato qui da Platone si parla anche di “involuzione politica” : lo stato di Platone , a sorpresa , diventa teocratico . Per Platone si devono venerare gli astri a causa del loro ordine e bisogna imporre la religione ai cittadini (anche con la forza : Platone può quindi apparire l’antenato degli inquisitori spagnoli). Ci troviamo di fronte ad un Platone molto conservatore (dice addirittura che chi non crede nella religione vada ucciso) e distante dalle posizioni di Socrate (che aveva idee religiose molto personali).La teoria delle “Leggi” che di gran lunga ha avuto più successo nella storia è quella della costituzione mista , che abbiamo già esaminato.Prendendo infatti i migliori aspetti di ogni forma di governo i difetti di ciascuna si attutiscono : vi è una sorta di equilibrio dei poteri.Dopo la morte di Platone , la sua scuola si continua per quasi 8 secoli, se vogliamo includervi anche la neoplatonica;ma non conserva in tutto il suo svolgimento lo stesso spirito nè si mantiene fedele alla dottrina del maestro.I successori immediati di Platone furono Speusippo e dopo di lui Senocrate , nei quali già comincia a manifestarsi l’influsso di Aristotele ,almeno per quel che riguarda la necessità di dare un ordine più sistematico ed architettonico alla dottrina.
IL PENSIERO
Alla base del sistema platonico vi é quella concezione dualistica che segnerà profondamente i successivi sviluppi della filosofia occidentale : da una parte l’ Iperuranio , il mondo delle idee perfette ed eterne , dall’ altro l’ universo fenomenico , pallida ombra e copia imperfetta di quello . Al primo appartiene anche l’ anima , imprigionata in un carcere corporeo da cui aspira a liberarsi ; questa conosce le cose attraverso l’ affiorante ricordo delle idee , che delle cose stesse sono i puri archetipi e che essa ha contemplato nella sua esistenza anteriore . Da qui la condanna , sofferta ma inevitabile , di ogni forma di arte , che della realtà sensibile é a sua volta imitazione ( mimesi ) , e l’ aspirazione a costruire una ” politeia ” terrena , che rifletta in qualche modo le idee di Bene e di Ordine del mondo iperuranico , dal rigido statalismo della Repubblica fino agli esiti teocratici delle Leggi . Due sono comunque le caratteristiche fondamentali del pensiero platonico : la sua asistematicità , che trova espressione coerente nella forma ” aperta ” del dialogo , e il suo tentativo di porsi come sintesi di tutte le posizioni che avevano caratterizzato il dibattito precedente , da Eraclito e Parmenide fino a Socrate e ai Sofisti ; e infatti non é un caso che molti dei protagonisti di tale dibattito siano anche scelti come interlocutori dei dialoghi , quasi come se Platone li chiamasse a far parte di un’ ideale giuria , che non possa non riconoscere nella sua dottrina il punto d’ arrivo di una ricerca iniziata due secoli prima in Ionia . Il perpetuo fluire eracliteo e l’ eterna immutabilità dell’ Essere parmenideo , l’ Uno degli Eleati e il molteplice degli atomisti , il relativismo di Protagora e la fede socratica in un mondo di valori assoluti : tutto confluisce nel grandioso e variegato edificio che Platone ha innalzato sulle rovine antiche della ” sapienza ” , spesso utilizzandole come materiale di ri-uso . Ma per far ciò egli ha dovuto pagare un duplice prezzo , compiendo una scelta traumatica , che il suo maestro Socrate si era rifiutato di fare . Innanzitutto ha accettato di fissare nell’ univocità della parola scritta le dinamiche movenze del dialogo , trasformandolo in un vero e proprio genere letterario . Poi si é visto costretto a trasferire sul piano ontologico la frattura del logos già avvenuta sul piano concettuale , creando due universi paralleli nei quali collocare rispettivamente doxa e aletheia , opinione ingannevole data dai sensi e verità assoluta derivante dalla contemplazione razionale degli archetipi che sono le idee , e facendo passare questa scissione anche all’ interno dell’ uomo , irrimediabilmente lacerato dal dualismo corpo-anima : questi due eventi , il farsi scrittura del logos e la rottura del suo nucleo , segnano la morte definitiva della sophia e l’ avvento della philosophia , di quella ” non amante ” ( nonostante il nome ) , ma distruttrice . Di questo doloroso passo , reso necessario dalle profonde trasformazioni di un mondo che non era più quello degli antichi sapienti , Platone é pienamente consapevole , e lo dimostra la paradossale condanna della scrittura espressa nel Fedro e l’ ancor più sconcertante dichiarazione contenuta nella Lettera VII , secondo cui egli non ha mai messo nè mai metterà per iscritto il vero cuore della sua dottrina , poichè ” non é assolutamente qualcosa che si possa esprimere a parole , come le altre discipline , ma solo dopo lunga dimestichezza e comunanza di vita riguardo alla materia stessa , all’ improvviso si manifesta all’ anima , come luce che si accende da fuoco che guizza , e si nutre poi di sè medesima ” . Che Platone avesse affidato alla scrittura solo una parte dei suoi insegnamenti é confermato dal riferimento di Aristotele ( Fisica , 209b 14 ) ai suoi agrafa dogmata , espressione che lascia intendere l’ esistenza di una dottrina esoterica , cioè riservata a una ristretta cerchia di discepoli , che il fondatore dell’ Accademia non riteneva opportuno divulgare all’ esterno . Certo , in mancanza di dati sicuri , rimane impossibile stabilire il peso specifico di tali ” dottrine non scritte ” nel contesto del pensiero platonico , quale ci é dato di conoscere dai Dialoghi , ma gli influssi pitagorici ed orfici affioranti anche in essi possono lasciarci supporre che Platone intendesse affidare a tali insegnamenti segreti una memoria sapienziale destinata a salvarsi dal generale naufragio di una cultura che ha avuto in Socrate il suo ultimo esponente .
ARISTOTELE
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Aristotele nacque a Stagira , una cittadina della penisola Calcidica nel nord della Grecia nel 384 a.c.Il padre Nicomaco era medico presso la corte del re dei macedoni Aminta , ma morì quando Aristotele era ancora giovane.Egli fu quindi allevato da un parente più anziano , di nome Prosseno.Nel 367 , all’età di 17 anni , andò ad Atene al fine di entrare a far parte dell’Accademia di Platone , che si trovava all’epoca a Siracusa.Vi rimase per ben 20 anni svolgendo un’attività di insegnamento , sino alla morte di Platone che fu nel 347-348 : in realtà se ne sarebbe già andato prima in quanto aveva idee divergenti da quelle del maestro , ma si trattenne fino alla sua morte per il rispetto che aveva nei confronti di Platone . Si allontanò dall’Accademia proprio quando era subentrato Speusippo e tra i motivi del suo allontanamento possiamo annoverare la crescente ostilità che si era venuta a creare ad Atene verso il re macedone Filippo , il quale nel 348 si era impadronito di Olinto nel nord della Grecia.Nel 347 si recò da Ermia , tiranno di Atarneo , che nutriva simpatie per la filosofia platonica e aveva messo a disposizione degli accademici una sede ad Asso ,nella Troade , una zona dell’Asia minore. Qui si stabilì Aristotele e poi nel 345 a Militene , sull’isola di Lesbo.In questo periodo egli sposò Pizia , nipote di Ermia , dalla quale ebbe 2 figli , Pizia e Nicomano , entrò in rapporto con Teofrasto , che divenne suo discepolo , e intraprese ricerche biologiche sugli animali.Nel 343 Filippo lo invitò a corte in veste di precettore di Alessandro . Qui rimase a lungo finchè Filippo non fu assassinato da Pausania nel 336 e Alessandro gli succedette al trono.Nel 335 Aristotele fece il suo rientro ad Atene con Teofrasto e svolse attività di ricerca e di insegnamento nel Liceo , un ginnasio vicino al tempio di Apollo Liceo (originariamente fu chiamato “peripato” , passeggiata e luogo di discussione) , raccogliendo intorno a sè amici e scolari.Nel 323 però , morto Alessandro in Oriente , prese il sopravvento in Atene la corrente anti-macedone capeggiata da Iperide . La tradizione vuole che Aristotele , accusato di empietà a causa dei suoi difficili rapporti con la monarchia macedone,abbia allora pronunciato la celebre frase : ” Non voglio che gli Ateniesi commettano un secondo crimine contro la filosofia ” , alludendo alle vicende di Socrate .Di fatto egli si allontanò da Atene e si ritirò a Calcide , sull’isola di Eubea , dove la famiglia di sua madre aveva possedimenti : qui morì intorno a 62 anni nel 322 a.c.Nominò suo esecutore testamentario Antipatro , che proprio nel 322 ristabiliva il dominio macedone sulla Grecia e su Atene , e lasciò Teofrasto a capo della scuola. Dunque Aristotele vive una generazione dopo rispetto al maestro Platone.Proprio rispetto a Platone ha origini sociali e geografiche differenti : abbiamo detto che non era di Atene e questo aspetto contribuì al fatto che Aristotele desse meno peso alla politica rispetto a Platone , che si sentiva pienamente cittadino della polis.Senz’altro a far sì che desse poco peso alla politica fu anche il fatto che all’epoca la polis stava attraversando un periodo di profonda crisi : infatti nella seconda metà del quarto secolo subentrò il regno macedone (ricordiamoci che il padre di Aristotele fu medico di Filippo e Aristotele stesso fu precettore di Alessandro Magno).Tuttavia quando si dedica alla politica , Aristotele risulta essere ancora molto legato al concetto di polis.Senz’altro Aristotele è influenzato dall’Accademia dove era stato per molto tempo , sebbene non condividesse pienamente le ideologie (dirà ” amicus Plato , sed magis veritas ” : egli era molto legato alla figura del suo maestro , ma tuttavia era più attratto dalla verità).Atene si trova in un momento difficile dove si alternano al potere il partito macedone (al quale Aristotele era vicino) e quello anti-macedone , il cui più grande e accanito sostenitore era l’oratore Demostene.Risulta particolarmente importante l’esperienza a Militene : qui , come detto , si dedicò insieme a Teofrasto a ricerche in ambito biologico e tutte strettamente legate al mondo terreno : si dice spesso che Aristotele sia partito come platonico (seguendo la dottrina delle idee) ma che poi habbia dato una svolta alle sue indagini orientandole sempre di più verso il mondo terreno.
CARTESIO
Cartesio opera come scienziato e filosofo per tutta la prima metà del 1600 e ha grande importanza non solo in ambito filosofico e scientifico , ma pure letterario : é infatti considerato insieme a Pascal il fondatore della prosa francese ; caratteristiche del suo stile sono la chiarezza e la linearità , caratteristiche che finiranno poi per influenzare anche l’ illuminismo . Non é affatto sbagliato dire che il linguaggio di Cartesio é il linguaggio della ragione illuministica per diversi motivi . Innanzitutto l’ epoca in cui vive Cartesio é stata definita l’ età del razionalismo , ossia l’ età dell’ indiscussa onnipotenza della ragione umana : é evidente come vi siano analogie con l’ illuminismo , che prende il nome proprio dai lumi della ragione . Tuttavia tra razionalismo e illuminismo possono essere ravvisate anche differenze : il 1600 é l’ epoca in cui si riscopre , dopo un lungo periodo di svalutazione durato tutto il medioevo , la ragione umana e come ogni scoperta appena fatta vi é la tendenza ad entusiasmarsi troppo e a non vederne i limiti : ecco allora che nel 1600 i filosofi ripongono tutta la loro fiducia nella ragione in modo acritico , senza domandarsi se essa abbia dei limiti o meno . Nel 1700 , invece , dopo cento anni che questa riscoperta é stata introdotta , ci si comincia a chiedere se la ragione abbia dei limiti o meno : certo l’ illuminismo é figlio del razionalismo in quanto si predilige la ragione ad ogni altro strumento di indagine , ma l’ approccio con la ragione stessa risulta diverso , più ponderato e critico . Ma a questo punto sembra che con l’ illuminismo si ritorni al medioevo perchè in fondo già San Tommaso , che nutriva grande fiducia nella ragione , si era chiesto fin dove potesse arrivare . La vera differenza tra illuminismo e medioevo é che mentre per il medioevo la ragione é limitata da Dio stesso , per l’ illuminismo i limiti della ragione sono imposti dalla ragione stessa : questo lo posso conoscere , quest’ altro no . Locke , filosofo preilluminista , definisce la ragione come una candela che ci illumina il cammino ; é sì l’ unica luce che possa illuminarci il cammino , ma rimane comunque una luce fioca , che non può tutto . E’ anche interessante la metafora di cui si avvale il più grande filosofo illuminista , Kant , nella Critica alla ragion pura , che dice di aver istituito il tribunale della ragione : la ragione é contemporaneamente sia giudice sia imputato : si vedono i limiti e si dà un giudizio , ma a dare il giudizio é proprio colei che é accusata , la ragione . Ecco allora che per gli uomini del 1700 la ragione non é più un qualcosa di illimitato come era per gli uomini del 1600 , ma é tuttavia l’ unico mezzo a nostra disposizione per conoscere la realtà . Cartesio dal canto suo ha grande fiducia nella ragione umana ed é caratterizzato da quell’ eccessivo entusiasmo tipico dei filosofi del 1600 ; l’ opera che può essere considerata compendio di tutta la sua filosofia é il Discorso sul metodo , che tuttavia presenta diverse contraddizioni e aporie : numerosi risultano i passaggi del suo ragionamento che presentano difficoltà e possono essere oggetto di critica . Malgrado questo e forse anche per questo , l’ impostazione filosofica di Cartesio é stata predominante per mezzo secolo circa : tutta la filosofia successiva sarà un tentare di risolvere i problemi da lui lasciati in sospeso o affrontati erroneamente . Cartesio viene spesso definito il fondatore del meccanicismo moderno , ossia il vedere il mondo come una grande macchina , come l’ urtarsi di palle da biliardo su un tavolo : Cartesio non fa altro che riprendere quanto già aveva detto Galileo , che oscillava tra un meccanicismo metodico ( nel mondo ci sono qualità e quantità , ma io posso e devo esaminare in termini matematici solo le quantità ) e ontologico ( esistono solo quantità e le qualità non sono altro che il manifestarsi soggettivo di cose oggettive ) . Cartesio opta per il meccanicismo ontologico , preferendo l’ idea che esistano solo quantità . Questo passaggio di Cartesio , che accompagnerà tutta la filosofia del 1600 , in realtà , non é propriamente legittimo , sebbene egli cerchi di argomentare in suo favore : Galileo stesso , pur avendo avuto il dubbio che tutto sia fatto solo di quantità , non l’ aveva dimostrato un pò perchè non c’ era riuscito e un pò perchè non gli interessava ( lui esaminava il come e non il che cosa e il perchè ) . Il Discorso sul metodo non é l’ unico testo di Cartesio e non é neanche il più importante : basti pensare che gli stessi argomenti esposti in modo anche più approfondito li troviamo nelle Meditazioni metafisiche , che tra l’ altro diedero adito a un dibattito internazionale : da tutta Europa vennero spedite lettere a Cartesio , che non rinunciò a rispondere , nelle quali gli si muovevano obiezioni e gli si mostravano incongruenze presenti nelle sue teorie ( Hobbes stesso ebbe modo di scrivergli ) . Tuttavia il libro di Cartesio più letto da sempre é il Discorso sul metodo per la sua estrema chiarezza e linearità ( non é un testo particolarmente difficile ) e per la sua brevità : in esso Cartesio fa un riassunto generale e complessivo di tutta la sua filosofia , cosa piuttosto rara per un pensatore . La storia stessa del Discorso sul metodo é piuttosto curiosa : infatti non era stato pensato come libro indipendente , bensì come prefazione a una raccolta di tre saggi scientifici su tre argomenti specifici , saggi che al giorno d’ oggi vengono raramente pubblicati . Questo discorso sul metodo però aveva una valenza ben superiore di quella di prefazione e Cartesio in fondo lo sapeva benissimo ; infatti non si tratta di un semplice Discorso sul metodo , ma di un testo ricco di argomenti e di significati : certo vi é anche un’ ampia indagine sul metodo , atteggiamento peraltro diffusissimo all’ epoca ( già Galileo e Bacone avevano fatto qualcosa del genere ) : in Cartesio e in molti altri pensatori del 1600 é radicata la convinzione che il problema fondamentale della ricerca della verità fino ad allora sia stato un fallimento proprio perchè il metodo usato era fallimentare : per arrivare alla verità occorre mettersi a monte della ricerca e chiedersi in che modo effettuarla , con che metodo : senza metodo infatti non sarà mai possibile acquisire verità alcuna . Quest’ idea del fare discorsi sul metodo é tipica del 1600 come pure del 1700 , dove però più che il problema del metodo ci si porrà quello gnoseologico ( indagare sugli strumenti conoscitivi ) . Però in sostanza il problema di fondo rimane sempre quello : bisogna mettersi a monte della ricerca per esaminare gli strumenti con cui condurre la medesima . Kant si porrà la domanda : che cosa posso conoscere ? Tuttavia nel Discorso sul metodo affiorano anche altre tematiche , quali l’ autobiografia spirituale di Cartesio stesso : é tipico del pensiero moderno l’ interessamento per l’ interiorità ; non a caso si é soliti fare iniziare l’ età moderna con Petrarca che si richiamava esplicitamente ad Agostino e alle sue Confessioni per avviare una ricerca interiore . La celebre frase di Agostino che riassume il tutto é : ho cercato due cose , l’ anima e Dio . Anche Cartesio in fondo nel discorso sul metodo svolge un’ indagine interiore , sostenendo che prima ancora che cercare la verità occorra cercare il metodo con cui cercarla : l’ indagine del soggetto diventa la premessa dell’ intera ricerca : prima di avviare la ricerca devo indagare all’ interno della mia personalità per trovarvi un metodo adatto . Sempre a proposito dell’ interiorizzazione é bene ricordare che con la fine del medioevo e con l’ inizio del 1500-1600 si era diffusa sempre più la lettura silenziosa ( interiore ) , l’ interiorizzazione del tempo e dello spazio e altre cose del genere che devono senz’ altro aver dato il loro contributo . E’ quindi evidente che nel Discorso sul metodo ci sia questo atteggiamento autobiografico perchè in fondo per trovare il metodo bisogna esaminare il soggetto ; ciò che al massimo può essere curioso é che ci sia un’ autobiografia come premessa per una raccolta di saggi scientifici . Ritornando al testo del Discorso sul metodo , dopo aver detto che esso ha essenzialmente tre valenze ( 1 indagine sul metodo 2 riassunto della filosofia cartesiana 3 autobiografia spirituale ) , entriamo nel dettaglio : il libro é diviso in 4 parti , di cui la prima e la quarta risultano più semplici per via del loro carattere discorsivo . Cartesio esordisce affermando che la ragione é uguale in tutti gli uomini , ma diverso é l’ uso che gli uomini ne fanno . Con questa affermazione Cartesio pare essere un precursore dell’ illuminismo a tutti gli effetti : gli illuministi diranno infatti che esiste un’ unica ragione uguale sempre e ovunque . Però , se esaminata più approfonditamente , l’ affermazione di Cartesio é diversa da quella degli illuministi : se qualcuno fa più strada nella ricerca della verità é perchè conduce la propria ragione meglio di altri : ecco che emerge l’ importanza di cercare e trovare un metodo per poter condurre la propria ragione perchè senza di esso é destinata a fare davvero poca strada ; come Bacone , anche Cartesio sostiene che alla verità non si arriva per le straordinarie potenzialità intellettive dei singoli , ma per il metodo che si adotta . In presenza di una ragione uguale per tutti é proprio il metodo che ciascuno ha che porta a risultati diversi . Cartesio , in modo quasi timido e titubante , fa notare che se é il metodo ciò che conta e che conduce alla verità , ebbene lui ne ha trovato uno che a suo avviso funziona piuttosto bene e che intende proporre agli uomini : non vuole imporlo , ma solo proporlo , dicendo che a lui é parso efficace , ma ad altri può sembrare inefficace . Egli propone quindi il suo metodo come un qualcosa fatto a misura per lui e che forse non a tutti andrà bene , ma in realtà é ovvio ( tanto più che l’ ha pensato in termini matematici ) che Cartesio volesse dare al suo metodo una valenza universale , pur non volendo imporlo brutalmente . Poi racconta di aver studiato in un collegio di Gesuiti che gli hanno impartito le prime conoscenze : dice che sono state conoscenze interessanti , ma ne sottolinea i limiti : non gli hanno fatto acquisire una conoscenza chiara e sicura , non gli hanno cioè dato evidenze : proprio il concetto di evidenza é basilare in Cartesio e ha due valenze , 1 ) di conoscenza chiara e lineare , 2 ) di conoscenza espressa in termini rigorosi e fondati . Dice di aver appreso molte cose interessanti nella sua gioventù , ma tutte di dubbia utilità , volte solo a stupire il prossimo : quello che non gli hanno dato é stata proprio quella conoscenza sicura che egli brama di ottenere . La filosofia e la matematica hanno grandi limiti agli occhi di Cartesio : la prima gli pare una disciplina che rende chi l’ acquista in grado di sbalordire gli ascoltatori tramite ragionamenti spericolati e sopraffini , mentre la seconda gli sembra essere utile solo per risolvere qualche problema pratico limitato . Ciò che intende fare Cartesio é dare un nuovo senso alla matematica e alla filosofia cercando di integrarle a vicenda : la filosofia infatti si occupa del mondo reale ma ha il limite di non avere un metodo rigoroso con cui indagare , la matematica ha un metodo rigoroso di indagine ma é legata ad un mondo inesistente , puramente ideale , quasi come un gioco di intelligenza su di un mondo che non c’ é . In altre parole , la filosofia si occupa in modo non rigoroso di cose reali , la matematica si occupa in modo rigoroso di cose non reali . Ecco che allora il problema consiste nell’ accostarle e nel riuscire ad integrarle e Cartesio prova a risolvere il problema partendo dai limiti di entrambe . Dal momento che gli studi libreschi compiuti in gioventù l’ hanno deluso , Cartesio decide di acquisire nuove conoscenze mettendosi in viaggio : siamo nel bel mezzo della guerra dei trent’ anni ed egli si arruola con l’ intento di girare il mondo . Ma rimane alquanto deluso anche da questa seconda esperienza e arriva a questa conclusione : il mondo merita di essere girato quel tanto che ci porta a capire che non é il mondo a darci nuove conoscenze . Certo da un paese all’ altro i costumi dei popoli cambiano , ma il vero arricchimento conoscitivo cui Cartesio perviene dopo questo peregrinare per l’ Europa é che non é nel mondo che si può scoprire la verità . Se non é dai libri nè dal mondo che si può arrivare alla verità , come vi si può arrivare ? Cartesio giunge alla conclusione che l’ unico modo per arrivare ad una conoscenza valida ed esauriente é svolgere un’ indagine interiore , scavando dentro se stessi : ecco allora che risulta evidente il richiamo ad Agostino , il quale , come detto , sosteneva di aver ricercato due cose , l’ anima e Dio . Certo gli obiettivi che si prefiggono Cartesio e Agostino sono molto diversi tra loro : Agostino intendeva arrivare a Dio , Cartesio invece vuole approdare ad una fondazione di una metafisica utile per la fondazione di un discorso scientifico : egli parte dall’ io , passa attraverso Dio e arriva al mondo esterno . Durante la guerra dei Trent’ anni , agli inzi dell’ inverno , trova un posto tranquillo dove può ragionare e riflettere in pace : ecco che scava dentro di sè e trova il metodo , che propone senza imporre : non vuole stravolgere le tradizioni in vigore e passare per sovversivo ; si limita a raccontare della sua esperienza personale , di come gli sia capitato di trovare un metodo a suo avviso soddisfacente , dopo aver rinunciato agli insegnamenti scolastici e al peregrinare per il mondo . Nel suo ragionare di impostazione agostiniana scopre le regole di questo suo metodo strepitoso e capisce che bisogna azzerare totalmente il sapere antico , che non é riuscito a portare alla verità , pur senza sovvertire la tradizione . Nel suo metodo cerca di recuperare e assimilare due degli insegnamenti che aveva ricevuto ma che da soli non potevano bastare : la filosofia e la matematica , che devono assolutamente essere integrate , in modo da potersi completare a vicenda . Ecco allora che , come un’ illuminazione , gli balenano per la testa le 4 regole del metodo : 1 ) non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale : apparentemente sono cose ovvie , ma se ci pensiamo bene Cartesio sta dicendo qualcosa di davvero innovativo : bisogna entrare nell’ ottica di accettare solo ciò che ci appare evidente e inconfutabile , senza accettare qualsiasi cosa che possa essere messa anche lontanamente in dubbio : pare qui evidente l’ influenza su Cartesio dello scetticismo antico ; come molti altri autori di quegli anni ( a partire dal Rinascimento ) Cartesio aborre dalla tradizione aristotelica ( tipica soprattutto del medioevo , di un’ epoca buia secondo gli uomini del 1500 ) per riprendere tutto ciò che non é aristotelico . Cartesio dice quindi che tutto ciò che non é evidente va scartato ; ma se non ho certezze , arriverò a comportarmi come faceva Pirrone , il quale , visto che non aveva certezze , si faceva mordere dai cani e investire dai cavalli nella convinzione che , in assenza di certezze , ciò potesse essere un bene . Ecco che Cartesio deve comprendere come ci si debba comportare quando non si hanno certezze , nel tempo in cui non sono ancora state trovate : certo egli non arriva a formulare teorie estremistiche quali quelle propugnate da Pirrone , ma arriva a dare le regole per una morale provvisoria : finchè non vengono trovate le evidenze inconfutabili su cui si deve fondare la vera morale , bisogna attenersi alla morale provvisoria , che esamineremo meglio in seguito . Ora il vero problema é trovare qualcosa di davvero inconfutabile su cui non si possa nutrire dubbio alcuno : basterebbe trovare anche una sola cosa di indubitabile , ma dovrebbe essere indubitabile nel vero senso della parola : in questo modo si avrebbe il primo vero mattone stabile per costruire il nuovo edificio del sapere , stabile e non vacillante , come invece si era rivelato quello degli antichi : l’ edificio del sapere degli antichi agli occhi di Cartesio é fatiscente e altamente instabile e l’ unico modo per approdare ad un sapere certo é abbattere questo edificio per costruirne uno nuovo su fondamenta più sicure ; si tratta ora di trovare il primo mattone davvero solido per dare il via alla costruzione . Proprio nel dubbio consiste l’ atto dell’ abbattimento della costruzione antica che non si é mai rivelata stabile : ma questo dubitare e buttar giù l’ edificio del sapere classico non va visto in termini negativi , anzi , é il punto di partenza per un sapere davvero valido e certo . In prospettiva Cartesio spera di poter costruire una conoscenza valida anche per la morale dell’ uomo , essendo convinto che da una piena conoscenza delle cose possano derivare i comportamenti che occorre assumere . Ma nella fase in cui l’ antico edificio del sapere viene abbattuto e si fanno i progetti per costruire quello nuovo , l’ uomo dove deve andare ad abitare ? Finchè non c’ é il sapere certo , l’ uomo come deve comportarsi ? Ecco allora che Cartesio costruirà una morale provvisoria , ossia una serie di regole non razionali , ma ragionevoli , dettate non dalla ragione ma dal buon senso . In questo mettere in dubbio ogni cosa Cartesio ne salverà una sola , come vedremo meglio più avanti : resta ora da chiarire se davvero egli credesse a ciò che diceva ; in altri termini , davvero Cartesio ha messo in dubbio in cuor suo tutto quanto , compresa l’ esistenza del mondo fisico e la validità delle verità matematiche ? Davvero crede di poter dubitare che 2 + 2 = 4 ? La risposta é insita nella distinzione tra dubbio psicologico ( non so effettivamente se sia così o no ) e dubbio metodico ( sono convinto che le cose stiano così , ma non so dimostrarlo razionalmente , e anzi , provandoci potrei addirittura metterle in dubbio ) . E’ evidente che il dubbio di Cartesio sulle verità matematiche e sul mondo fisico sia di tipo metodico : egli é convinto che il nostro mondo esista e che 2 + 2 = 4 , come d’ altronde lo siamo tutti . Tuttavia Cartesio avanza la curiosissima ipotesi del genio maligno : chi non ci dice che siamo stati creati da un genio malvagio che impiega tutta la sua onnipotenza per ingannarci , per farci credere che 2 + 2 = 4 , per farci prendere per certe cose false ? Senz’ altro é un’ ipotesi non ragionevole , ma molto interessante . Senz’ altro Cartesio non credeva all’ esistenza del genio malvagio ( e arriverà infatti anche a negarla in termini razionali ) , resta ora da capire perchè egli avanzi quest’ ipotesi . Egli lo fa essenzialmente perchè é sua intenzione riformare la conoscenza in termini assolutamente certi e inconfutabili , é come se volesse abituarsi a non prendere nulla per certo , bensì a sottoporlo ad un’ accurata indagine della ragione . E’ solo dubitando di tutto che si arriverà ad una certezza davvero indubitabile ed evidente , sulla quale poggerà un sapere certo ; a proposito di evidenza , Cartesio introduce due concetti per spiegarla : chiarezza e distinzione . Un’ idea é chiara quando é autotrasparente , quando la contemplo e mi risulta subito manifesta in tutti i suoi aspetti : la contemplo e la concepisco perfettamente nella sua globalità , senza che nulla mi resti oscuro . Un’ idea distinta deve essere appunto distinta , separata da tutte le altre idee : si deve manifestare isolata e proprio per questo meglio coglibile . Quindi una cosa é evidente quando é chiara e distinta . Ma quale é lo scopo di questo dubbio metodico ? Per comprendere immaginiamo di avere nelle nostre conoscenze aree bianche ( cose che conosciamo ) , aree grige ( cose che conosciamo imperfettamente ) e aree nere ( cose che non conosciamo ) : con il suo dubitare esasperato Cartesio finisce proprio per arrivare a considerare nere tutte le aree grige : tutto ciò che non é evidente , certo , inconfutabile , va scartato senza esitazione . In altre parole , Cartesio scambia la quantità con la qualità : si priva di un sacco di certezze e di cose ovvie spostando le conoscenze dell’ area grigia all’ area nera , ma questa perdita quantitativa é tutta a favore della qualità : avrò meno certezze , ma quelle che avrò saranno salde e insmontabili ; da qui si deve ripartire per costruire il nuovo sapere . Ritornando alle altre regole del metodo : 2 ) dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente ; 3 ) condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l’un l’altra ; queste due regole le affrontiamo insieme perchè presentano analogie e uno stretto rapporto di parentela : sono di chiara derivazione algebrica e geometrica . Quando siamo di fronte ad un problema complesso il metodo migliore per risolverlo é suddividerlo , smontarlo in passaggi semplici fino ad arrivare a verità semplicissime ma inconfutabili . Una volta fatto questo , avendo cioè smontato il problema in tante piccole parti , lo si deve ricomporre con le tante piccole verità ottenute : é chiaramente lo stesso procedimento di un’ espressione algebrica e ciò cui Cartesio si riferisce sono le parentesi tonde , quadre e graffe che isolano passaggi semplici facenti parte del tutto . I singoli passaggi sono semplici , basta non fare errori di distrazione e nel rimontare il problema e il gioco é fatto : così bisogna agire con i pensieri . 4 ) Fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla : l’ errore classico che si può commettere in un’ espressione algebrica é quello del segno , ossia mettere un segno invece di un altro : ma é un errore non dovuto ad una carenza mentale , bensì ad una dimenticanza , un errore di memoria potremmo dire : quello che Cartesio vuole dire con questa quarta regola é di fare una revisione dopo aver suddiviso il problema in piccole parti e , svolte , averle rimesse insieme per evitare di fare errori di dimenticanza , proprio come in un’ espressione algebrica . Ecco allora che una volta risolto il problema che ci eravamo prefissi di risolvere , non dobbiamo fermarci , bensì dobbiamo controllare di non aver tralasciato nulla e di non aver commesso errori . Con gli esempi di tipo matematico Cartesio non intende dire che il suo metodo consiste nel risolvere ogni problema della vita con i numeri , anche perchè sarebbe assurdo ; vuole invece suggerirci di usare il metodo che usiamo in matematica per modellare qualsiasi altro ragionamento . Che la matematica potesse andare benissimo come strumento di indagine della realtà fisica l’ avevano già sostenuto Galileo e tanti altri scienziati del 1500 – 1600 ; Cartesio condivide in pieno l’ idea di esaminare in termini rigorosi ( quindi matematici ) la realtà fisica , ma fa ancora un passo avanti : dice che il mondo é fatto esclusivamente di quantità e per questo l’ unico mezzo per studiarlo e interpretarlo é la matematica , la forma di ragionamento più efficace e rigorosa di cui disponiamo . Ecco allora che Cartesio porta alle estreme conseguenze ciò che in Galileo era solo un dubbio : le qualità non esistono nella realtà , sono solo modi di manifestarsi delle quantità sui nostri sensi : quelli che noi chiamiamo odori non sono altro che atomi con una loro forma specifica che vanno a urtare i nostri organi sensoriali dandoci le sensazioni qualitative e soggettive degli odori . Ma Cartesio fa un ulteriore passo avanti , dicendo che la matematica va impiegata per esaminare il mondo fisico , ma il metodo matematico deve invece essere usato dappertutto , perfino nei pensieri : Cartesio nota come la matematica abbia portato l’ uomo a risultati apprezzabili più di qualsiasi altra scienza : se la matematica funziona così bene , perchè non estendere l’ intero metodo matematico alla realtà ? E dire metodo matematico non significa dire che si debba usare la matematica ( i numeri ) per spiegare ogni cosa ( sarebbe infatti assurdo provare a dimostrare l’ esistenza di Dio in termini matematici ) , bensì dobbiamo applicare il metodo matematico , come prescrivono la seconda e la terza regola del metodo cartesiano : ogni problema va scomposto in tante parti più semplici e poi ricomposto per poter così arrivare alla verità . Ogni nostro pensiero , secondo Cartesio , per essere condotto in modo preciso deve essere impostato e risolto con il metodo matematico ; ecco allora che nel 1600 verrà usato il metodo matematico perfino in politica e in metafisica . Ma quali sono gli strumenti di cui l’ uomo dispone per avvalersi di questo metodo matematico e , più in generale , della sua ragione ? Cartesio ravvisa essenzialmente tre strumenti : 1 ) intuizione ; 2 ) dimostrazione ; 3 ) sensazione ; l’ intuizione e la dimostrazione sono due metodi di inferenza ( ossia di passaggio da un’ idea all’ altra ; idea per Cartesio é qualsiasi oggetto della mente ) : le inferenze sono immediate ( 2 + 2 = 4 ) o mediate ( una sfilza di numeri complessi = 3 ) ; dire che 2 + 2 = 4 é un’ inferenza ( il segno = mi fa passare immediatamente dall’ idea 2 + 2 a quella 4 ) : non appena accosto le due idee ( 2 + 2 e 4 ) , vedo immediatamente che sono la stessa cosa , senza doverci ragionare sopra : non occorre un vero e proprio ragionamento , ma un colpo d’ occhio mentale . Nelle inferenze mediate ( un’ espressione lunghissima uguale a un numero , per esempio ) c’ é l’ identità tra le due idee , ma non é immediatamente coglibile , occorre un ragionamento e non basta più il colpo d’ occhio mentale ; é solo col ragionamento ( e non con l’ intuito immediato ) che arrivo a scoprire che effettivamente c’ é identità tra le due idee : vi arrivo dopo una lunga serie di passaggi , ossia dopo una dimostrazione . Ma ogni dimostrazione , fa notare Cartesio , deriva da un’ intuizione . In altre parole , il problema che si pone Cartesio é di arrivare a conoscenze evidenti , assolutamente inconfutabili : l’ intuizione a noi dà l’ idea di qualcosa di arazionale , che si può capire anche senza essere dimostrato , una sorta di sesto senso . Ma nel vocabolario filosofico non é questo il significato della parola intuizione : essa deriva da un verbo latino che propriamente significa vedere : intuire quindi é vedere un verità con gli occhi della mente : pensiamo a Platone e al mondo intellegibile delle idee . Abbiamo un’ intuizione quando ci troviamo di fronte a verità immediatamente coglibili ( 2 + 2 = 4 ) : vengono accostate due idee divise dall’ uguale e si coglie subito che sono la stessa cosa , senza ragionare . Però quando abbiamo espressioni complesse non possiamo cogliere immediatamente la verità dell’ idea di destra e di quella di sinistra : occorre una dimostrazione , ma una dimostrazione non é altro che una catena di intuizioni ; ecco allora che lo scopo del metodo é di ottenere la risoluzione delle dimostrazioni in intuizioni , il che equivale a seguire la seconda regola del metodo , quella che dice di dividere i problemi complessi in problemini semplici : devo scomporre il problema finchè non ottengo microproblemi elementari ( potremmo definirli atomi ) intuitivi . Ed é esattamente quello che facciamo per risolvere espressioni algebriche complesse . Allora avrò solo più fasi intuitive che sommate danno la dimostrazione . E va detto che la validità delle singole intuizioni si trasmetterà alla complessiva dimostrazione , purchè si applichi la quarta regola del metodo , quella che prescrive di revisionare quanto fatto : ho diviso il problema in tanti problemini , li ho svolti intuitivamente , poi li ho riuniti per risolvere il problema iniziale : devo però stare attento a non commettere errori . Gli errori non possono nè mai potranno derivarci dall’ intuizione : che 2 + 2 = 4 lo sanno tutti e nessuno la penserebbe diversamente ; come risolvere l’ espressione ( che non é altro che un insieme di operazioni quali 2 + 2 = 4 ) non tutti lo sanno . L’ errore pertanto non nascerà mai nel fare 2 + 2 , ma potrà nascere quando ricostruisco il problema ridotto in tanti problemini svolti correttamente : potrò ad esempio sbagliare e scrivere – 4 anzichè + 4 : ecco allora che l’ errore non é altro che uno svarione della nostra memoria , una dimenticanza . Di per sè , infatti , applicando le regole del metodo e scomponendo tutti i problemi in problemi più semplici , coglibili con l’ intuizione , e evitando gli errori di memoria ( comunemente detti di distrazione ) non si dovrebbe mai sbagliare e si dovrebbero riuscire a risolvere allo stesso modo i problemi più semplici e i più complessi . Ma entra anche in gioco la prima regola del metodo : non dobbiamo prendere nulla per buono , bensì dobbiamo accettare solo ciò che é evidente . Ma che cosa é evidente ? Per noi é evidente ciò che ci é testimoniato dai sensi : il quaderno é blu e così via . Per Cartesio no , egli riprende in un certo senso la tradizione scettica e dice che i sensi possono ingannarci ; per Cartesio l’ evidenza é propria del pensiero razionale e trova nella matematica il suo punto più elevato . Per capire che cosa Cartesio intendesse per fallacia dei sensi , serviamoci dell’ esempio del chiliogono , il poligono di mille lati : una figura geometrica semplice , quale il triangolo , possiamo sia pensarla ( ossia avere in mente la definizione e il concetto : un poligono di tre lati ) sia immaginarlo ( ossia vedere un triangolo disegnato nella nostra testa come lo vediamo su un foglio di carta ) ; però man mano che moltiplichiamo i lati del poligono si apre la forbice pensiero-immaginazione : quando arriverò al chiliogono saprò sempre pensarlo perfettamente ( é un poligono a mille lati : sono chiarissimi i concetti di mille , di poligono e di lati , chiari alla pari che nel triangolo ) , ma non più immaginarlo , ossia costruirlo mentalmente . In altri termini , tutto quanto é presente nel concetto di chiliogono é chiarissimo per noi ( ci é chiaro allo stesso modo in cui é chiaro a Dio ) e ci é anche chiarissima la distinzione di questo poligono di mille lati rispetto a uno di 999 lati ; ma l’ immagine , il disegno mentale che abbiamo di un chiliogono é differente da quella di un poligono a 999 lati ? Certamente no ; anzi , addirittura se li vedessimo raffigurati su un muro non coglieremmo distinzioni . Il chiliogono immaginato non é nè chiaro nè evidente , mentre quello pensato é sia chiaro sia evidente : ecco allora che i sensi ci ingannano ( non cogliamo la differenza ” fisica ” tra chiliogono e poligono a 999 lati ) e l’ evidenza é solo della ragione ( saprò sempre concettualmente che cosa é un chiliogono ) . Una volta determinati questi precetti , Cartesio li applica alla matematica : la geometria é asservita all’ immaginazione , egli dice , fondata non sul calcolo e sull’ astrazione , ma sull’ empirico , tant’ é che a volte per dimostrare che il raggio é metà del diametro lo si dimostra piegando in due il foglio di carta sul quale é stata disegnata la circonferenza ; per Cartesio in geometria si deve impiegare l’ algebra , ossia le quantità fisiche vanno unite a quelle astratte ; ecco allora l’ importanza di Cartesio come matematico : gli dobbiamo infatti l’ invenzione del piano cartesiano , che non é altro che un’ applicazione delle sue idee , ossia di unire fisico ad astratto . Ma Cartesio vuole applicare la matematica , o meglio , il metodo matematico , che gli pare essere il più efficace , sull’ intera realtà . D’ altronde egli porta i ragionamenti di Galileo alle estreme conseguenze , arrivando a dire che il mondo fisico é fatto in termini meccanicistici , in termini di estensione e movimento : ecco che se il mondo é fatto di quantità , allora la matematica e il suo metodo andranno benissimo per esaminarlo ! E’ ovvio che se il mondo fisico va visto come un insieme di quantità ( le qualità sono solo modi di manifestarsi soggettivi delle quantità ) sarà pienamente risolvibile con formule matematiche . Tutto questo ha poi un’ importante conseguenza : se si può indagare il mondo fisico con la matematica , allora il mondo fisico é potenzialmente evidente proprio perchè la matematica non sbaglia mai ( che 2 + 2 = 4 é vero sempre e neanche Dio potrebbe cambiarlo ) . Cartesio arriverà comunque ad ammettere l’ esistenza di un mondo spirituale , nel quale non rientrano le quantità : diventa chiaramente assurdo usare la matematica in un mondo spirituale e mettersi , per dire , a misurare e a pesare le anime ; tuttavia , pur non potendosi usare la matematica , si può comunque usare il metodo matematico . Cartesio col metodo matematico arriverà a mettere il primo mattone inconfutabile per costruire l’ edificio del sapere : scomponendo i problemi , non prendendo nulla per certo , facendo revisioni egli arriverà alla certezza di esistere come entità pensante ( res cogitans ) ; da qui , sempre muovendosi su basi matematiche , egli arriva ad alcune intuizioni : Dio e il mondo fisico ; nel dire che penso , dunque esisto , evidentemente non si possono usare numeri o formule matematiche , tuttavia il metodo matematico sì e Cartesio lo usa : prende per buono solo ciò che é evidente ( di esistere come soggetto pensante ) . In altre parole , Galileo aveva detto che si possono indagare in termini rigorosi ( matematici ) solo le quantità ; Cartesio dice che esistono solo le quantità e che comunque il metodo matematico va usato proprio perchè é il migliore in ambiti anche non propriamente fisici ( la spiritualità o la metafisica , ad esempio ) . Cartesio é convinto che ci si debba comportare in modo conforme a come é il mondo , ossia l’ etica deve derivare dalla conoscenza , in altre parole essa é l’ ultima delle scienze perchè il come comportarsi ci deve derivare da come é fatto il mondo . Tuttavia , finchè il nuovo edificio del sapere fondato sull’ evidenza non é ancora stato costruito , dove si deve andare ad abitare ? Come bisogna comportarsi finchè non si sa con certezza come é fatto il mondo ? Sì , perchè se sul piano teoretico l’ etica é l’ ultima delle scienze , sul piano concreto essa é la prima . Mentre non si sa come sia il mondo e quindi come ci si debba comportare seguendo la ragione , cosa si deve fare ? Si era posto lo stesso problema lo scettico Pirrone , il quale , non sapendo che cosa fosse bene e che cosa male si faceva mordere dai cani e investire dai carri ; Cartesio certamente non intraprende la strada di Pirrone , bensì dà delle regole per una morale provvisoria , dettata non dalla ragione , ma dal buon senso : finchè la ragione non mi dice come devo comportarmi , devo attenermi a queste regole , anche perchè sarebbe assurdo fare come Pirrone o addirittura non comportarsi proprio ( il che , tra l’ altro , é impossibile perchè se anche decido di non comportarmi e mi chiudo in casa , mi sto già comportando in qualche modo ) ; queste regole di morale provvisoria che Cartesio dà consistono essenzialmente nel non stravolgere la tradizione , attenersi agli usi , ai costumi e alla religione in vigore nel proprio paese , evitando gli estremismi e optando per l’ aurea via di mezzo ; ecco che qua pare evidente l’ influsso di Aristotele , che predicava la mesothes ( la moderazione ) ; se devo scegliere tra bianco e nero , Cartesio consiglia di scegliere grigio perchè così , se anche il giusto sarà il nero , non avrò mai sbagliato del tutto . Ma in realtà c’ é una differenza tra Aristotele e Cartesio : per Aristotele la mesothes era il frutto di un accurato esame della ragione , per Cartesio la via di mezzo é solo un precetto del buon senso valido fin tanto che la ragione non mi insegnerà come é fatto il mondo e da lì potrò dedurre come comportarmi : non é la ragione a dirmi di evitare gli estremismi , ma il buon senso ; magari poi , invece , la ragione potrà insegnare diversamente . Ecco che emerge la personalità mite e pacata di Cartesio , un uomo che voleva evitare di andare contro chicchesia e che prescriveva di seguire la tradizione per non creare disordini ; in un certo senso , sempre restando nella metafora dell’ edificio del sapere fondato sull’ evidenza , le regole della morale provvisoria sono come case provvisorie ( containers ) in cui abitare finchè la ragione non mi dia il palazzo del sapere evidente . Se la prima regola della morale provvisoria prescrive di abbracciare posizioni moderate , la seconda prescrive invece di portare fino in fondo ciò che si é intrapreso senza demordere , una sorta di autocoerenza : non dobbiamo interrompere ciò che abbiamo iniziato per fare qualcos’ altro , ma dobbiamo essere coerenti con noi stessi e assumerci le nostre responsabilità . La metafora usata da Cartesio per esprimere il concetto é quella della foresta : immaginiamoci di esserci persi in una foresta e di non avere certezze su dove sia la via d’ uscita : l’unica cosa da fare é scegliere una strada seguendo gli indizi e l’ istinto e proseguire su quella strada finchè non si arriva all’ uscita della foresta ; l’ errore consiste proprio nel cambiare strada di continuo senza mai portare a termine quella iniziata . Ecco che prima che il nuovo palazzo del sapere venga costruito , siamo come in un bosco in cui non abbiamo certezze e la cosa migliore da fare é scegliere una strada e non abbandonarla fino alla fine . La terza regola della morale provvisoria presenta molte analogie con le filosofie ellenistiche : prescrive di cercare di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo ; in sostanza , prescrive di evitare lo scontro con la realtà : ciò che da noi dipende é solo la nostra interiorità ; non c’ é nulla di cui siamo interamente padroni se non dei nostri pensieri , dice Cartesio : non potrò mai cambiare il mondo , ma potrò cambiare il mio atteggiamento nei confronti del mondo : potrò , ad esempio , cambiare i miei desideri scegliendo di mantenere solo quelli realizzabili . In altre parole occorre rendersi conto che il mondo va così e non lo si può cambiare , però possiamo cambiare il nostro rapporto con lui , adeguandoci e non scontrandoci con esso : gli Stoici usavano una metafora efficace a riguardo del mondo e dell’ uomo : l’ uomo é un cane legato al carro ( che é il mondo ) : l’ uomo intelligente segue il carro e non oppone resistenza , l’ uomo sciocco oppone resistenza e tira in direzione opposta rispetto al carro , con il risultato che viene portato dal carro come tutti gli altri cani e soffre ancora di più . In altre parole la terza regola della morale provvisoria può essere sintetizzata nelle parole dello stoico Epitteto : Non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena . La quarta parte del discorso sul metodo é dedicata alle questioni metafisiche : Cartesio parte dall’ io , passa per Dio e arriva al mondo esterno ; in altre parole per Cartesio le cose più certe , in ordine dalla più certa alla meno certa , sono : l’ esistenza di lui stesso come res cogitans , l’ esistenza di Dio e quella del mondo fisico . Il punto di partenza su cui si fonda la metafisica cartesiana , di netta matrice matematica , é il dubbio : non a caso si può accostare l’ andamento del pensiero di Cartesio a quello di Agostino , anche lui attentissimo a non prendere nulla per buono ; Agostino era riuscito ad uscire dal dubbio scettico in questo modo : é vero che posso dubitare di ogni cosa , ma devo per forza ammettere di esistere come soggetto dubitante ; da questa unica verità Agostino entrava in contatto con la Verità divina e il gioco era fatto . Cartesio agisce in modo simile : il suo obiettivo é abbattere l’ edificio traballante del sapere per edificarne uno solido : tutto ciò di cui non abbiamo certezza assoluta dobbiamo scartarlo allo stesso modo di ciò di cui non abbiamo neanche una vaga conoscenza ; anche cose che siamo abituati a prendere per buone ma di cui non abbiamo certezza vanno eliminate alla pari di quelle di cui non sappiamo nulla . Ecco che allora si mette tutto in dubbio , ma é un dubbio strano , quasi paradossale : finchè Cartesio , sulle orme degli Scettici , mette in dubbio le cose testimoniate dai sensi si può essere d’ accordo ; Cartesio fa notare come i sensi ci ingannino al massimo , più che in ogni altra occasione , nel sonno quando ci pare di star facendo qualcosa anche se in realtà stiamo dormendo o quando ci troviamo in situazioni assurde e paradossali . Tuttavia Cartesio fa notare che anche nei sogni , nei momenti in cui i sensi ci ingannano di più , anche se ci troviamo in mondi inesistenti e in situazioni fantastiche le verità matematiche rimangono sempre quelle : potrò trovarmi in un’ isola inesistente su un pianeta inesistente , ma che 2 + 2 = 4 é vero anche nei sogni ! Questo dimostra come l’ evidenza dell’ intelletto sia maggiore di quella dei sensi ( vedi l’ esempio del chiliogono ) ; tuttavia Cartesio non si ferma qui , ed ecco che arriviamo all’ assurdo ; chi mi dice di non essere stato creato da un genio malvagio che mi ha costruito tale da ingannarmi anche su cose che credo certe ? Ossia , chi non mi dice che questo genio malvagio non mi abbia creato convinto che 2 + 2 = 4 , ma in realtà 2 + 2 = 5 ? Chiaramente é un’ ipotesi molto tirata , oseremmo dire ridicola , alla quale ovviamente Cartesio non credeva , ma che comunque , sul piano filosofico – concettuale , non può essere esclusa ! Certo , sul piano della certezza empirica siamo tutti convinti che non sia così , ma sul piano concettuale l’ ipotesi del genio cattivo non può essere esclusa a priori . Mettere in dubbio perfino le certezze matematiche significa che , una volta trovato qualcosa di indubitabile , l’ edificio del sapere poggerà su fondamenta davvero stabili ; in altre parole , Cartesio vuole evitare che nel suo edificio del sapere rimangano ” tarli ” che possano in un secondo tempo far vacillare l’ edificio e dubita davvero di tutto . Sul fatto che i sensi possano ingannarci Cartesio poteva anche dubitare davvero , ma sul fatto che 2 + 2 = 4 é totalmente da escludere che egli dubitasse : il primo é un dubbio psicologico , il secondo metodico ; in altre parole , sul fatto che i sensi ingannino egli dubita , sul fatto che la matematica inganni egli vuole dubitare . Tuttavia , quando arriverà al nuovo edificio del sapere Cartesio riprenderà le cose su cui aveva dubitato e alcune saranno dimostrate valide altre erronee ; in altri termini col suo metodo Cartesio tutto ciò che non é chiaro lo mette in zone nere ; quando arriva ad una certezza bianca , riprende il tutto e certe cose le fa diventare bianche , altre le lascia nere . E Cartesio arriva ad una certezza davvero inconfutabile : se dubito vuol dire che penso e se penso vuol dire che esisto : cogito , ergo sum . Tuttavia non mancarono le critiche mosse a questa verità apparentemente inconfutabile ed é bene ricordarne soprattutto 3 : la prima critica mossa a Cartesio é di plagio . Lo si accusava in sostanza di non aver scoperto nulla di nuovo con il cogito ergo sum , bensì di aver solamente ripetuto ciò che già aveva detto parecchi anni prima Agostino . Cartesio non tardò a rispondere a questa critica dicendo che era vero che in fin dei conti diceva lo stesso di Agostino , ma che lui c’ era arrivato per conto suo , senza neppure leggere Agostino ! Anzi , gli faceva piacere che qualcun’ altro fosse arrivato alle sue stesse conclusioni perchè ciò significava che il suo era un ragionamento lineare cui tutti gli uomini potevano pervenire . Resta però da chiarire se Cartesio fosse sincero quando diceva di non aver plagiato Agostino , anzi , di non averlo neppure mai letto . Gli studiosi di oggi sono propensi essenzialmente per una via di mezzo : Cartesio era solito frequentare ambienti di frati agostiniani e quindi quelle teorie dovevano ronzargli nelle orecchie , doveva già averle sentite dire da qualcuno ed ecco che finì per assorbirle e farle sue inconsciamente , pur senza aver mai letto Agostino . D’ altronde il punto d’ arrivo di Cartesio e di Agostino é simile , come simile é il metodo , ma diverso é l’ obiettivo : Agostino intende fondare una teologia salda , Cartesio vuole fondare una metafisica meccanicistica . La seconda critica mossa a Cartesio era di aver derivato il cogito ergo sum da un sillogismo , ma di averlo espresso , paradossalmente , in forma non sillogistica . Ecco che , gli si faceva notare , se il sillogismo é espresso per intero regge , ma se vengono occultati dei passaggi ( come si accusava Cartesio di aver fatto ) non regge più ! In realtà il sillogismo completo doveva essere : tutto ciò che pensa esiste ; io penso ; dunque esisto . In altre parole , Cartesio prende per certo senza dimostrare che il fatto di pensare implichi una esistenza ; Cartesio ha tolto dal cogito ergo sum la premessa maggiore ( tutto ciò che pensa esiste ) e così il cogito ergo sum , la prima pietra dell’ evidenza per costruire il nuovo edificio del sapere , si rivelerebbe instabile . Ma Cartesio fa notare che il rapporto tra pensare ed esistere é immediatamente intuibile , non deve essere mediato da ragionamenti ( sillogismi ) ; é immediato e subitamente coglibile al pari della verità che 2 + 2 = 4 . Nessuno oserebbe pensare che 2 + 2 non é uguale a 4 così come nessuno oserebbe pensare che ciò che pensa non esiste . La terza critica mossa a Cartesio é che in realtà lui presenta il cogito ergo sum come punto di partenza per la conoscenza certa , ma in realtà a fondamento della conoscenza vanno posti i principi logici ( identità : A = A ; contraddizione A non é = non A ; del terzo escluso A o é A o non é A ) . Cartesio risponde che tutto dipende dai punti di vista ; i principi logici su cui dovrebbe fondarsi la conoscenza stando agli avversari di Cartesio in un certo senso fondano la conoscenza perchè mi dicono che cosa una cosa é e che cosa non é , ma non mi garantiscono l’ esistenza della cosa ! In altre parole , i principi della logica vanno benissimo per ragionare e indagare , ma per essere certo degli oggetti su cui indagare occorre il cogito ergo sum . Sarebbe infatti assurdo indagare con i principi logici qualcosa di cui non si é nemmeno certi se esista o meno ! Prima bisogna appurarsi se esista ( con il cogito ergo sum ) e poi bisogna indagare ( con la logica ) . Dopo il cogito ergo sum , Cartesio fa un passaggio di enorme importanza per la metafisica , ma di dubbia stabilità : é uno dei passi più contestati e meno solidi di Cartesio . Una volta detto che esisto con il cogito , resta da chiarire che cosa sono ; dopo il quod est del cogito ergo sum bisogna passare al quid est ; il fatto di pensare ha portato Cartesio all’ evidente certezza di esistere come cosa pensante ( res cogitans ) : da qui Cartesio deduce di esistere come pensiero , ossia come anima . Però Cartesio non ha del tutto ragione : perchè dire che esisto per il fatto di pensare non significa che io esista solo come entità pensante . Sicuramente come entità pensante esisterò , ma magari non solo come entità pensante : magari avrò un corpo , un’ esistenza materiale e non solo spirituale come anima . L’ errore di Cartesio in altri termini sta nel passare da una cosa che pensa a una cosa pensante , che come unica caratteristica ha il pensare . Dell’ esistenza del mio corpo non ho certezza ( il cogito ergo sum mi dimostra l’esistenza intellettuale ) , ma non ho neanche certezza dell’ inesistenza del corpo per dire che sono un pensiero senza corpo ! Perchè mai devo essere un pensiero invece che un essere materiale che pensa ? Questa é l’ aporia cartesiana , il non prendere nulla per certo , neanche l’ esistenza del proprio corpo , per poi finire col prendere per certa l’ inesistenza del proprio corpo ! Sempre nel 1600 Locke da buon cristiano riprenderà le tesi di Cartesio ma non accetterà l’ esistenza come pensiero , bensì dirà di avere il pensiero , ma di non essere pensiero ; egli dice di avere la convinzione di possedere un corpo perchè così dice il cristianesimo . Cartesio non sa ancora dell’ esistenza di un mondo fisico ( non l’ ha ancora dimostrato ) , ma distingue tra res cogitans ( la cosa pensante ) e res extensa ( la sostanza estesa ) ; so di esistere come sostanza pensante ( non so nulla del mio corpo ) , ma ho concepito separatamente la sostanza pensante . Non so ancora se esista una sostanza estesa , ma se arriverò a dimostrare che essa esiste , avendo potuto concepire la sostanza pensante perfettamente diversa e distinta da quella estesa , avrò un mondo fatto di due realtà nettamente distinte dove la caratteristica della res cogitans sarà il pensiero , quella della res extensa l’ estensione . In altre parole , Cartesio sa di esistere come res cogitans ( come pensiero ) , non é certo che la res extensa esista , ma se esiste sarà totalmente purificata dalla spiritualità così come la res cogitans é totalmente altra cosa dalla res extensa . Tutto questo discorso metafisico e spirituale porta Cartesio ad una metafisica meccanicistica , che vuole la materia totalmente diversa dallo spirito . In altri termini , Cartesio con la questione della res cogitans dà una fondazione a priori del meccanicismo , elimina cioè dal mondo fisico tutto ciò che non risulta riconducibile ad aspetti quantitativi : nel mondo quantitativo tutto é ridotto ad estensione ( la parte occupata dalla materia ) e movimento ( gli spostamenti nello spazio dell’ estensione ) . La fondazione meccanicistica di Cartesio , dicevamo , é a priori perchè afferma il carattere meccanicistico proprio perchè opposto alla realtà spirituale . La res cogitans é nettamente diversa dalla res extensa e di conseguenza il mondo materiale ( che é caratterizzato dalla materia , la res extensa ) sarà privo di spiritualità . La grande novità introdotta da Cartesio e che va ben al di là della tradizione aristotelica , é che Aristotele non aveva spaccato in due il mondo come invece fa Cartesio ; per lo Stagirita tutto ( tranne Dio , l’ anima e le intelligenze celesti ) é fatto di sinoli ( unione di materia e forma ) ; dire che l’ intero mondo é fatto di sinoli non significa affatto dire che vi sono due sostanze , una materiale e una immateriale accoppiate : anzi , la separazione di materia e forma in un sinolo é solamente concettuale e anche un ente semplicissimo , quale una pietra , é sinolo di materia e forma . In altre parole sinolo é una sostanza che allo stesso tempo é materia e forma . Non a caso un essere animato é tale nella misura in cui é sinolo di materia e forma . Per Platone invece sì che vi sono due sostanze diverse che si accoppiano momentaneamente e questo lo porta inevitabilmente all’ immortalità dell’ anima , che invece in Aristotele può difficilmente essere giustificata : l’ anima per Platone é qualcosa di radicalmente diverso dal corpo e mentre per Aristotele una volta che il corpo muore anche l’ anima non può che perire perchè si rompe il sinolo corpo , per Platone invece l’ anima , una volta morto il corpo , vive meglio da sola . Sotto questo aspetto Cartesio é decisamente platonizzante : per lui in primo luogo il mondo é costituito da realtà animate e realtà inanimate o , per essere più netti , di realtà di pura materia e di realtà di puro spirito ; ecco quindi che Cartesio si distacca decisamente dalle posizioni monistiche rinascimentali di Giordano Bruno , che vedeva ogni ente come sostanza fatta di materia e forma ( che finivano per identificarsi ) . Il mondo di Cartesio é fortemente dualistico : da un lato troviamo la res extensa ( la materia ) , pura , senza forma , senza spirito , movimentata ed estesa e dall’ altro lato troviamo la res cogitans , che é l’ esatto contrario della res extensa : é senza estensione ed é puramente spirituale . Cartesio , sulle orme di Platone , dice che nell’ uomo queste due realtà totalmente diverse sono momentaneamente accoppiate . Dire che sono totalmente diverse e accoppiate solo momentaneamente implica l’ immortalità dell’ anima , cosa che Cartesio , da buon cristiano , sosterrà strenuamente . Quella di Cartesio si potrebbe definire metafisica meccanicistica ma non materialistica , visto che accanto alla materia c’é anche la spiritualità . Ma la cosa strana é che il fondamento di questa metafisica é a priori : dubito , penso e quindi esisto come res cogitans ; ma Cartesio fa un passo avanti : dal fatto che esisto e sono una cosa che pensa ( ho intuito di esistere proprio dal fatto di pensare ) Cartesio arriva a concludere di essere sostanza pensante , sostanza la cui caratteristica fondamentale é il pensiero : detto in altri termini , Cartesio non si limita a dire che abbiamo il pensiero , bensì dice che siamo soltanto pensiero . Secondo Cartesio dal fatto che possiamo cogliere in modo evidente ( chiaro e distinto ) la nostra esistenza intellettuale , deriva inevitabilmente che siamo sostanze la cui essenza é il pensiero . Abbiamo anche parlato di res extensa contrapposta a res cogitans , ma in realtà Cartesio non é ancora arrivato a dimostrare l’ esistenza della res extensa , del mondo materiale : ha solo dimostrato ( o meglio intuito immediatamente ) che intellettualmente esistiamo ( cogito ergo sum ) . Ma quando Cartesio dice che esistiamo come pensiero che cosa intende con la parola ” pensiero ” ? Egli non intende soltanto l’ attività intellettuale ( matematica , geometria , ecc . ) ma anche quella mentale ( percepire i colori , ad esempio ) . Questo permette di capire come il suo ragionamento ( apparentemente assurdo ) in fondo sia sensato . Cartesio é certo dell’ esistenza dell’ io ma anche delle idee che percepisco ( dove idea sta per ogni qualsivoglia contenuto della mente : tanto pensare un triangolo quanto percepire il colore blu ) proprio perchè vengono percepite dal mio intelletto il quale , a differenza dei sensi , si fa ingannare ben più difficilmente ; ma il problema che si pone Cartesio é se dietro alle idee che cogliamo esistano anche le cose reali : se vedo un libro blu e percepisco il colore blu nella mia mente sono certo che il blu esista , ma non sono affatto certo che esista il libro ! Dicendo di essere res cogitans Cartesio arriva a dire che tutto ciò che percepisco esiste ma esiste solo come contenuto del mio pensiero , non é detto che esista anche nella realtà . L’ esistenza delle idee delle cose materiali é certa ; quel che non é certa é l’ esistenza delle cose materiali di cui percepiamo le idee . Quindi Cartesio non sa ancora se il mondo materiale esista ( le idee delle cose materiali però esistono ) ; in qualità di res cogitans egli é convinto della propria esistenza ( come soggetto pensante ) ; non sa se il mondo esiste ma se esiste , comunque , esisterà per forza come res extensa perchè essa é l’ opposto della res cogitans ; Cartesio ha già dimostrato che il pensiero , lo spirito é totalmente depurato dalla materia e quindi a sua volta la materia sarà totalmente depurata dallo spirito : distinguendo una cosa resta distinta anche l’ altra . Cartesio ha dimostrato l’ esistenza del pensiero nella sua purezza , non sa se la materia esista , ma se esiste egli é convinto che vada concepita come estensione e movimento , assolutamente libera e indipendente dal pensiero . In realtà Cartesio sembra aver intrapreso un grossolano circolo vizioso : decide di fondare la sua argomentazione sull’ evidenza , vede che funziona e decide di prendere sempre come criterio di verità solo l’ evidenza ( chiarezza + distinzione ) : sceglie di usarla , dice che la sua dimostrazione é andata bene con l’ evidenza e da ora in avanti userà quella ; ma in realtà é andata bene perchè l’ ha scelta di proposito lui ! Naturalmente non mancarono le obiezioni e lui fece notare comunque che in realtà non c’ é bisogno di concepire astrattamente il concetto di evidenza per cogliere la verità del fatto di esistere : é immediata e intuitiva : penso e per forza devo esistere ; sono certo di pensare e quindi di esistere anche senza far appello all’ evidenza . Però ciò che ha portato Cartesio a prendere per buona la verità ” penso dunque esisto ” é stata proprio l’ evidenza di questa verità , chiara e distinta ; e allora Cartesio da lì in poi ha scelto di affidarsi all’ evidenza : prenderà per buone solo le cose chiare ed evidenti . Il percorso della metafisica cartesiana é antitetico rispetto a quello dell’ empirismo tradizionale : si parte dall’ io , si arriva a Dio e poi si torna al mondo sensibile . Ne consegue che Cartesio per dimostrare l’ esistenza di Dio non potrà far perno sul mondo sensibile ( come invece faceva , ad esempio , Tommaso con le sue 5 prove ) visto che non ne ha ancora dimostrata l’ esistenza , bensì dovrà dimostrare l’ esistenza di Dio in base all’ io . Tuttavia Cartesio può anche permettersi di usare le idee delle cose sensibili : non sa se il mondo esista , però le idee del mondo presenti nella sua testa devono per forza esistere come contenuto del suo pensiero ; nel 1900 il filosofo Edmund Husserl userà i concetti di noesis e noema : noesis é l’ azione del pensiero noema é l’ oggetto del pensiero ; penso a un triangolo : l’ atto di pensare é noesis , il triangolo pensato é noema . Ebbene Cartesio si può avvalere per dimostrare l’ esistenza di Dio sia della noesis sia dei noemata , entrambi presenti nel pensiero di me che esisto appunto come pensiero ( res cogitans ) . La dimostrazione Cartesiana é così riassumibile : se dubito non sono perfetto perchè ciò che é perfetto non può dubitare ; ma non posso concepire il concetto di imperfezione se non in base a quello di perfezione ; se sono imperfetto e posseggo l’ idea della perfezione , essa deve derivare da qualcosa che sta al di fuori di me che sono imperfetto : Dio . E’ il dubbio del cogito ergo sum che mi mette di fronte alla coscienza della mia imperfezione : se dubito é ovvio che non sono perfetto : ma per concepire l’ imperfezione bisogna conoscere anche la perfezione : come farei infatti a definire imperfetta una cosa senza sapere che cosa invece é perfetto ? In altre parole l’ effetto non può essere più grande della causa : io che sono imperfetto non posso causare a me stesso come effetto il concetto di perfezione : ci deve essere un ente che non sono io e che é perfetto che mi dia l’ idea di perfezione . Questa dimostrazione sembra molto astratta , ma in realtà c’ é un nucleo esistenziale : l’ uomo non soffre solo nel momento in cui muore ( come fanno gli animali ) , ma per tutta la sua vita perchè non fa che pensare alla morte ; l’ uomo é in altri termini costretto e capace a soffrire molto di più rispetto agli altri animali : non ha solo la paura , ma anche l’ angoscia . In realtà queste considerazioni le farà poi Pascal , ma tuttavia in Cartesio sono sullo sfondo : riflettiamo sulla nostra finitezza e sulla nostra imperfezione e questo ci fa soffrire ; questa nostra finitezza che sentiamo é una sorta di prova dell’ esistenza di Dio , anzi , più che una prova un argomento , fondato sul fatto stesso di sentire la nostra imperfezione ; sentire la propria imperfezione vuol dire avere l’ idea di perfezione ( Dio ) ed é segno del destino ultraterreno dell’ uomo : l’ uomo non é realizzato nel corpo , che é imperfetto e finito , ma nell’ anima , che é infinita e immortale . Qualcosa di simile era già presente a suo tempo in Platone : l’ uomo non é sapiente nè ignorante , ma si trova in uno stato di medietà che lo colloca a metà strada tra animali e dèi . In realtà ci fu qualcuno che fece notare che l’ argomentazione usata da Cartesio per dimostrare l’ esistenza di Dio non funzionava : noi finiti abbiamo l’ idea di infinito quindi l’ infinito ( Dio ) deve averci dato quest’ idea . Ma tra infinito e idea di infinito c’ é una bella differenza , così come c’ é una bella differenza tra qualsiasi cosa e l’ idea stessa di quella cosa : un libro ha un tasso di essere ben superiore rispetto all’ idea di libro . Si obiettò a Cartesio che in realtà lui confondeva l’ idea di infinito con un’ idea infinita : l’ infinito per definizione é infinito , ma l’ idea di infinito no , proprio perchè é un’ idea , un segno finito . E’ un grave errore parlare dell’ idea di infinito come dell’ infinito stesso . Cartesio fece notare che effettivamente tra idee e cose c’ é una bella differenza ontologica : le idee hanno una x in meno di essere rispetto alle cose di cui sono idee proprio perchè le cose hanno essenza ed esistenza reale , le idee hanno essenza ma non esistenza reale . Ma nel caso dell’ infinito tutto cambia proprio perchè siamo nell’ infinito : Cartesio intendeva dire che é vero che il cavallo ontologicamente pesa di più dell’ idea di cavallo , ma é altrettanto vero che l’ idea di infinito ( pur essendo un’ idea ) ontologicamente pesa di più del cavallo ( e di qualsiasi altra cosa finita ) . Ma in realtà bisogna ammettere che Cartesio non aveva ragione perchè una cosa é l’ infinito , un’ altra l’ idea di infinito : l’ infinito é effettivamente infinito , l’ idea di infinito é finita proprio perchè é un segno , un’ idea . Ma Cartesio non si limita a fornire una sola prova dell’ esistenza di Dio , bensì ne fornisce tre . La seconda prova presenta analogie con la prima poichè si fonda anch’ essa sull’ idea di perfezione che abbiamo noi che siamo imperfetti . Cartesio si domanda quale é la causa , ossia che cosa crea noi che non siamo perfetti . Le possibilità sono due : o ci creiamo da soli , siamo cioè causa di noi stessi , oppure siamo creati da qualcosa a noi esterno . Ma ciò che porta Cartesio a dire che non possiamo esserci creati da noi , bensì dobbiamo essere stati creati da qualcosa di esterno é che se fossimo noi stessi la causa di noi stessi , ci saremmo creati perfetti , ma perfetti non siamo perchè dubitiamo , quindi ci deve aver creato qualcosa a noi esterno : Dio . E’ evidente che nessuno , potendosi creare e avendo l’ idea di perfezione insita nella sua testa , sarebbe così stupido da crearsi imperfetto , da non incarnare l’ idea di perfezione nel suo corpo ed é quindi ovvio che non siamo noi stessi a crearci . La differenza tra le due prove dell’ esistenza di Dio finora citate é che la prima spiega la causa dell’ idea di perfezione , la seconda la causa della nostra esistenza : in entrambi i casi l’ artefice é Dio . In tutti e due i casi comunque si parte da effetti per risalire a cause ( l’ idea di perfezione chi l’ ha causata in noi ? la nostra esistenza chi l’ ha causata ? ) ; sono tutte e due prove a posteriori , che partono dall’ esistenza di qualcosa per risalire all’ esistenza di qualcos’ altro ; nessuna delle due parte dall’ esistenza del mondo ( anche perchè Cartesio non sa ancora se esso esista ) , bensì partono dall’ io , che é di evidente esistenza ( cogito , ergo sum ) . Tuttavia si può accennare al fatto che non mancarono anche in questo caso le obiezioni mosse a Cartesio : gli si faceva notare che lui diceva che non ci siamo creati altrimenti ci saremmo attribuiti perfezione assoluta ( ma non l’ abbiamo : il fatto di dubitare implica imperfezione ) ; ma gli avversari dicevano : ” e perchè non potrebbe essere che abbiamo tanta potenza da crearci , ma non abbastanza da darci la perfezione ? ” : in altre parole si sosteneva che noi potremmo avere la potenza di crearci ma non di darci la perfezione . Ma Cartesio ribatteva ( e a ragion veduta ) che se uno avesse così tanta potenza da crearsi , ossia di passare dal nulla all’ esistenza , allora avrebbe anche la potenza per darsi la perfezione : ci vuole ben più potenza per crearsi che non per darsi la perfezione ! Il passaggio dal nulla all’ essere é di gran lunga più difficile e richiede molta più potenza rispetto a quello dall’ imperfezione alla perfezione : se son così potente da darmi esistenza , non mi mancherà di sicuro la potenza per darmi la perfezione . L’ unico essere che si dà esistenza e perfezione é proprio Dio , spiega Cartesio . La terza prova dell’ esistenza di Dio fornita da Cartesio é una rivisitazione della prova ontologica di Anselmo da Aosta : l’ idea di perfezione deve per forza avere esistenza ; l’ essere perfettissimo , per essere tale , non può mancare di esistenza , diceva Anselmo . Cartesio però riproponeva la prova anselmiana in termini matematizzati : l’ esistenza di Dio deriva dalla sua essenza come le proprietà del triangolo derivano dalla definizione di triangolo . Si può notare come tutte e tre le prove cartesiane dell’ esistenza di Dio partono dall’ idea di perfezione insita nella nostra mente ; dall’ idea di perfezione poi si risale a una causa perfetta : nel momento in cui si dimostra l’ esistenza di Dio si dimostra anche la sua perfezione : dico che sono imperfetto e ho l’ idea di perfezione ; deve avermela trasmessa qualcosa di perfetto e ci deve quindi essere qualcosa di perfetto : Dio esiste ed é perfetto . Con questa asserzione Cartesio si mantiene , tra l’ altro , fedele alla tradizione cristiana che vuole Dio perfetto ; anche a noi pare ovvio che la divinità , per definizione , sia perfetta , ma in realtà nell’ antichità non era così : gli dèi non erano affatto perfetti ( già solo il fatto di essere non uno ma tanti implica imperfezione ) : tuttavia il Dio che intende Cartesio é qualcosa di ben distinto da quello cristiano : può essere maggiormente accostato al ” motore immobile ” aristotelico , garante dell’ ordine e nulla più , che non al Dio cristiano , con cui l’ uomo può parlare e che deve essere pregato . Tra l’ altro dimostrare che Dio esiste ed é perfetto consente a Cartesio di tornare sui suoi passi e dimostrare sbagliata l’ ipotesi del genio maligno : se Dio é perfetto é buono e se é buono non usa la sua onnipotenza per ingannarmi e di conseguenza le verità matematiche e le altre evidenze vanno prese per buone . Ecco allora che Cartesio arriva alla fondatezza delle regole del metodo : le regole erano evidenti , ma non pienamente accettabili perchè potevano essere frutto di un genio cattivo che me le faceva sembrare evidenti anche se in realtà non lo erano ; ma questo genio maligno non c’ é , quindi le regole del metodo sono evidenti e vanno accettate . Un Dio buono ci fa percepire ciò che percepiamo in modo evidente effettivamente come é , senza ingannarci . L’ annullamento dell’ ipotesi del genio maligno , però , non comporta che tutte le cose su cui Cartesio aveva dubitato diventino automaticamente certe e accettabili : si devono accettare solo le verità evidenti , chiare e distinte ( le verità matematiche , tipo 2 + 2 = 4 , e la fisica matematizzata ) mentre le cose non chiare e non distinte non vanno accettate perchè é vero che non c’ é il genio cattivo ad ingannarmi , ma posso io stesso ingannarmi : le testimonianze dei sensi continuano ad essere incerte . Tuttavia , tornando alla metafora delle aree bianche e nere , adesso dalla parte bianca cominciano ad affluire nuove cose : prima c’ era solo il cogito ergo sum , adesso si aggiungono anche le verità matematiche e quelle della fisica matematizzata : oltre al 2 + 2 = 4 si può anche accettare come evidente il mondo fisico nella misura in cui é riducibile in termini matematici . Dopo essere partito dall’ io e passato per Dio , Cartesio arriva al mondo esterno ( che aveva messo scetticamente in dubbio ) , con il vantaggio di poter tranquillamente prendere per buone le cose evidenti senza temere il genio maligno . Sorgono due problemi relativi al mondo esterno : 1 ) esiste ? 2 ) se esiste , come é fatto ? Che caratteristiche ha ? Cartesio deve dimostrare l’ esistenza del mondo esterno , sapendo già , nel caso esista , che esso sarà fatto esclusivamente di estensione e movimento ( res extensa ) . Cartesio fa questo ragionamento : il mondo esterno si manifesta a noi indipendentemente dalla nostra volontà ( vedo cosa la realtà mi offre e non cosa voglio io ) ; il mondo lo vediamo quindi passivamente : esso esiste in modo esterno e indipendente da noi ; sarebbe un genio maligno a farci credere con evidenza che il mondo esiste indipendentemente quando in realtà non esiste ( il genio maligno nella sua onnipotenza potrebbe mandare nella nostra testa immagini virtuali di un mondo inesistente nella realtà ) ; ma il genio maligno non esiste quindi le sensazioni ci derivano effettivamente da un mondo a noi esterno ed indipendente che esiste . Ma per Cartesio dire che il mondo esiste non vuol dire che esso esista come lo percepiamo perchè dobbiamo essere certi solo delle cose che ci si rivelano con l’ evidenza : del mondo esisterà con certezza ciò che percepiamo con evidenza e noi con evidenza percepiamo solamente le caratteristiche oggettive , ossia le quantità , e non quelle soggettive ( le qualità ) : le quantità sono coglibili in modo evidente , tramite la matematica che é la forma di pensiero più evidente . Non a caso , se cerco di concepire la forma geometrica di una realtà fisica , le sue quantità sono chiare e distinte ( evidenti ) : la forma ( ossia l’ estensione geometrica ) fa parte delle verità matematiche . La percezione di una qualità invece ( ad esempio un colore ) non potrà mai essere evidente : se voglio comunicare ad una persona la forma parallelepipedo , se lei sa cosa é e io le do le misure avrà chiarissima nella sua mente l’ essenza di ciò che le ho detto ; ma se invece voglio comunicarle un colore ( ad esempio il giallo ) una vaga idea ce l’ avrà per forza , ma non saprà mai con evidenza che cosa intendo : penserà , per dire , ad un’ altra tonalità rispetto a quella da me pensata . Ecco allora che nelle qualità la confusione impera : le qualità non sono nè esprimibili nè comunicabili in forma rigorosa . Già Galileo si era trovato di fronte a questo problema ed aveva finito per considerare vero ciò che é oggettivamente coglibile ( quantità ) , falso ciò che é soggettivamente coglibile ( qualità ) . Ora Cartesio sa che il mondo esterno esiste e sa anche che é fatto esclusivamente di movimento ed estensione , proprio perchè la materia é simmetricamente opposta allo spirito : dicendo che nello spirito non ci potrà mai essere materia , non ha fatto altro che dire che nella materia non ci potrà mai essere spirito e quindi il mondo fisico sarà senza spiritualità . Allora con Cartesio salta decisamente l’ idea aristotelica del mondo come unione di materia e forma ( i sinoli ) e si afferma un mondo di tre sostanze : res divina , res cogitans e res extensa . Però una volta detto che Dio esiste e non ci inganna , non é stato con questo spiegato se tutto ciò che ci circonda e che percepiamo é vero . Ma spetta all’ uomo stesso stabilire ciò che va preso come vero e ciò che va scartato servendosi del criterio dell’ evidenza che , annullata l’ ipotesi del genio cattivo , é lo strumento di indagine più efficace . Dio ci ha dato gli strumenti , non ci inganna e quando ci dà cose evidenti possiamo accettarle sicuri . Però é solo a noi stessi che spetta prendere per buone esclusivamente le cose evidenti e stare in guardia da quelle non evidenti . Ed ecco allora che per Cartesio l’ errore dipende non dall’ intelletto , ma dalla volontà . Galileo faceva notare che l’ estensione della conoscenza divina é molto più grande della nostra , ma negli ambiti matematici ciò che noi sappiamo lo sappiamo in modo del tutto uguale a Dio : che 2 + 2 = 4 lo sappiamo esattamente come Dio . Le verità matematiche che l’ uomo conosce , certamente inferiori rispetto a quelle conosciute da Dio , sono però totalmente evidenti , le conosciamo alla pari di Dio . Le verità evidenti ( del tipo 2 + 2 = 4 ) l’ uomo le conosce alla pari di Dio ; nelle verità evidenti la differenza di conoscenza tra Dio e uomo non é qualitativa ( 2 + 2 = 4 lo so io come Dio ) , ma quantitativa ( Dio conosce molte più verità evidenti rispetto all’ uomo ) . Allora l’ errore non dipende dalla limitatezza dell’ intelletto umano ( che 2 + 2 = 4 lo colgo alla pari di Dio ) , ma dalla sua volontà di affermare cose di cui non ha evidenza . Quando l’ uomo afferma cose di cui ha l’ evidenza non sbaglia mai . L’ errore nasce da una discrepanza dell’ intelletto limitato e della volontà illimitata : voglio affermare cose di cui non posso avere l’ evidenza e così sbaglio . Ecco allora che il sapere umano sarà anche limitato , ma assolutamente certo . Per Dio tutte le verità sono certe e coglibili immediatamente , per l’ uomo no , proprio perchè il suo intelletto é limitato : delle qualità non potrà mai avere certezza e il modo per non sbagliare consiste nel lasciarle perdere . L’ ignoranza umana dipende dalla limitatezza dell’ intelletto che non può conoscere tutto , ma l’ errore dipende dalla volontà che vuole affermare cose di cui non ha conoscenza evidente . Nella quinta parte del Discorso sul metodo Cartesio affronta il principale obiettivo del suo discorso : la fondazione di una fisica rigorosamente meccanicistica , ridotta ad estensione e movimento . Propone un breve riassunto di quanto aveva già scritto nel trattato sul Mondo , che in realtà era per lo più incentrato sul problema della luce : dal problema della luce Cartesio aveva costruito tutto un discorso di fisica : il Sole la trasmette , i pianeti la ricevono , l’ uomo ne é spettatore . Il ricondurre tutto all’ estensione implica alcune importanti conseguenze : in primo luogo l’ assenza del vuoto . Cartesio é un personaggio cauto e timoroso e si trova sempre a dover conciliare le teorie di cui é convinto con ciò che l’ autorità sostiene ; egli é profondamente convinto della verità della dottrina copernicana che vuole il Sole al centro dell’ universo , ma teme di andare contro la Chiesa e così finisce per sostenere la teoria copernicana facendo finta di non sostenerla . Che cosa é per Cartesio il movimento ? Egli definisce il movimento di una determinata parte di materia come una traslazione da una vicinanza di determinate parti di materia alla vicinanze di altre determinate parti di materia . Qualche decennio dopo Cartesio arriveranno le grandi scoperte di Newton ; Newton concepirà lo spazio come un grande contenitore nel quale sono contenute le cose e gli oggetti . Newton é convinto che lo spazio esista oggettivamente fuori di noi e indipendentemente sia dal nostro ruolo di percepire sia dall’ esistenza delle altre cose . Togliendo dallo spazio tutte le cose e tutti i soggetti pensanti , per Newton ( e così anche per noi ) lo spazio continuerebbe ad esistere . Lo spazio é dunque il luogo dove stanno le cose , ma dove potrebbero benissimo anche non stare le cose . Se anche togliessimo tutto resterebbe sempre e comunque lo spazio . Cartesio invece la pensa in modo del tutto diverso : concependo la materia in termini meccanicistici e estensivi , egli non può che arrivare a negare il vuoto così come l’indipendenza dello spazio dalle cose che lo occupano . Per Cartesio l’ estensione é sinonimo di spazio ; la materia é sinonimo di estensione , quindi la materia é sinonimo di spazio . In fondo già Platone a suo tempo aveva espresso qualcosa di molto simile con il concetto di kòra . Se la materia é lo spazio , ne consegue che il vuoto non esiste perchè sarebbe uno spazio senza contenuto fisico ; uno spazio senza cose che lo occupino , questo sarebbe il vuoto ; ma per Cartesio lo spazio é la materia , quindi non ci sarà mai spazio senza materia e di conseguenza non ci sarà mai il vuoto . Nel 1600 il dibattito sull’ esistenza del vuoto é stato sentitissimo : sarà in questi anni che si farà l’ esperimento con il mercurio e la baccinella . Cartesio dal canto suo arriva a negare l’ esistenza del vuoto , non in termini empirici , ma metafisici . Dall’ inesistenza del vuoto deriva una particolare concezione del movimento : noi immaginiamo lo spazio come una realtà assoluta e nell’ immagine newtoniana non c’ é nulla che ci impedisca di immaginare lo spazio privo di cose ( il vuoto ) ; il movimento viene quindi da Newton concepito come spostamento di un oggetto da una parte dello spazio ad un’ altra . Ma nella concezione cartesiana tutto cambia : neppure concettualmente si può ipotizzare uno spazio vuoto e quindi non si può definire il movimento come spostamento da qui a lì ; se un libro lo spostiamo da qui a lì , Newton dice che nello spazio si sposta da una parte all’ altra ; per Cartesio invece significa che il libro viene traslato dalla vicinanza di alcune parti di materia alla vicinanza di altre parti di materia : sposto il libro dal tavolo al muro ; quindi ( secondo Cartesio ) viene traslato dalla vicinanza alla materia del tavolo alla vicinanza della materia del muro . Quali conseguenze ha questa concezione del movimento ? Cartesio quando descrive la genesi del mondo fisico sarà molto influenzato da questa concezione del moto : ipotizza che il mondo fisico si sia generato tramite vortici di materia ; in un certo senso l’ attuale movimento dei pianeti intorno al Sole é un residuo di quell’ antico moto vorticoso che aveva portato alla creazione del mondo . Tra i pianeti e il Sole , poi , non può esserci il vuoto perchè esso , come dimostrato , non esiste : tutto lo spazio é occupato da materia . Cartesio ammette quindi la teoria copernicana : il Sole é al centro e i pianeti trascinati dal vortice gli ruotano attorno ; ma Cartesio , per sfuggire a possibili censure della Chiesa , dice che non si può affatto sostenere che i pianeti ruotino intorno al Sole : il movimento é traslazione da materia a materia : immaginiamo un lavandino con lo scarico aperto : l’ acqua viene risucchiata e si creano vortici che coinvolgono dei pezzetti di carta galleggianti ( che rappresentano i pianeti ) : ma non sono i pezzi di carta a muoversi , bensì é l’ intero vortice che li sposta tutti insieme e la vicinanza di materia sempre quella é . Questa spiegazione di Cartesio dell’ origine del mondo di impostazione anassimandrea é più che altro un gioco di parole per tenere buona la dottrina copernicana senza uscire troppo allo scoperto . Ma questa assenza di vuoto implica un’ altra conseguenza : Cartesio spiega che i pianeti sono trascinati dai vortici e rifiuta radicalmente ogni sorta di azione a distanza , rifuggendo dalle teorie di Galileo e Keplero : quest’ ultimo soprattutto aveva ipotizzato che il Sole attirasse a sè i pianeti grazie ad una specie di attrazione paragonabile a quella esercitata dal magnete . Newton non farà altro che unificare le leggi di Keplero e quelle di Galileo per formulare la legge di gravitazione universale , che in fin dei conti , certamente depurate da residui di concezioni animistiche , implicano l’ azione a distanza : i pianeti sparati a velocità elevatissime uscirebbero dalle orbite se non sentissero la forza di gravità che li tiene ancorati al Sole . Quando Keplero ammette l’ animismo e l’ azione a distanza , Cartesio li rifiuta entrambi , Newton riprende l’ azione a distanza . Ma perchè Cartesio rifiuta l’ azione a distanza ? E’ il meccanicismo di Cartesio che prescrive di evitare l’ azione a distanza : l’ unica cosa che esista é la materia come estensione e movimento : l’ unica cosa che si possa ipotizzare é il movimento per contatto . Non a caso l’ immagine del mondo presente nella mente di Cartesio é assai simile ad un tavolo di biliardo dove tutto ciò che é mosso é mosso per contatto . Cartesio vuole abolire tutto ciò che dà un’ impostazione qualitativa e spirituale della realtà . Non c’ é spazio per nulla che possa anche lontanamente dar sentore di concezioni animistiche e non a caso l’ ilozoismo ( la vita della materia ) é spesso stata dimostrata servendosi dell’ esempio del magnete che muove non per contatto diretto . Cartesio vuole proprio sradicare queste concezioni di sapore ilozoistico , che fino a pochi anni prima di lui erano all’ ordine del giorno : pensiamo a Giordano Bruno che diceva che la materia é viva e divina . Keplero viene prima dell’ affermarsi di concezioni meccanicistiche della realtà , Cartesio vive in un’ epoca in cui il meccanicismo non si é ancora pienamente affermato e dichiara guerra agli ilozoisti arrivando ad evitare tutto ciò che sa anche lontanamente di animistico , come l’ azione a distanza . Newton invece si muove in un contesto in cui il meccanicismo si é pienamente affermato e può anche permettersi di accettare l’ azione a distanza pur rifuggendo da concezioni animistiche : la Terra non si muove perchè attirata dall’ anima del Sole ( come diceva Keplero ) , ma per la combinazione di un moto rettilineo uniforme e di uno uniformemente accelerato . D’ altrone Cartesio con il suo meccanicismo radicale non poteva neanche spiegare che un oggetto cade perchè attirato dalla forza di gravità , ma doveva ricorrere a bizzarre interpretazioni : una penna cade al suolo perchè sente una sorta di pressione esercitata dall’ alto dall’ infinita quantità di materia sopra di noi . Non si tratta di un processo di attrazione a distanza , ma di un processo di schiacciamento vero e proprio . All’ epoca di Newton il meccanicismo non ha più bisogno di difendersi strenuamente e estremisticamente e può in qualche senso tornare ad ammettere fenomeni quali l’ azione a distanza , che , tra l’ altro , é ben lungi dall’ essere animistico , già solo per il fatto che é esprimibile in termini matematici . Ecco allora che anche Newton resta fedele al meccanicismo e al metodo matematico di Cartesio . Cartesio era convintissimo che il mondo fosse davvero come lo pensava lui ( movimento ed estensione ) , così come era convinto che il suo Metodo fosse il migliore : era altresì convinto che il mondo avesse avuto una genesi , ma , da persona cauta e moderata , non imponeva le sue teorie . Ma con la teoria della genesi del mondo andava contro alle Verità della Chiesa e all’ autorità di Aristotele : la Chiesa parla di creazione ; Dio ha creato il mondo e ha fatto le cose ; non é che c’ é la materia e Dio decide di creare un movimento ( per di più a vortici ) . Va poi contro Aristotele preferendo le quantità alle qualità . Cartesio presenta il mondo dicendo di non essere certo che sia così , però che senz’ altro le sue teorie sul mondo sono particolarmente chiare e fluide . Dopo aver spiegato che nel mondo tutto avviene in modo meccanicistico , ossia in termini di estensione e movimento , Cartesio vuole dare un’ ulteriore prova di questa asserzione e tenta di dimostrare come perfino il funzionamento di un organo centrale come il cuore avvenga in termini puramente meccanicistici . Pare assai difficile e discutibile dimostrare che anche nel cuore valga il meccanicismo ( e Cartesio lo sa bene ) , però sa altrettanto bene che se riuscirà a dimostrare che il meccanicismo governa perfino l’ attività del cuore allora le sue tesi sono veritiere : il mondo é fatto di materia ed estensione . Senz’ altro la circolazione sanguigna , tra tutti i processi possibili , é quello che meno si presta a spiegazioni di tipo meccanicistico ed é proprio per questo che Cartesio si cimenta nel dimostrare come esso sia invece di tipo meccanicistico . Egli presenta comunque la sua teoria non come verità indiscutibile , ma come ipotesi che funziona bene , proprio come aveva fatto con la sua teoria della genesi del mondo o con la presentazione del suo metodo : non vi dico che la mia teoria sia quella giusta , però vi posso dire che funziona benissimo per spiegare la circolazione sanguigna . Senz’ altro quest’ atteggiamento moderato e tiepido di Cartesio ha motivazioni politiche : egli deve stare in guardia dalla Chiesa che pochi anni prima aveva fatto morire Bruno e abiurare Galilei . Presentare le sue teorie come verità inconfutabili sarebbe stato condannarsi da soli e così egli preferisce presentarle come possibili teorie , che non sono certe ma hanno il pregio di spiegare il fenomeno in modo razionale e ragionevole . Naturalmente se le sue teorie funzionano bene per chi sostiene cose diverse diventa difficile contestarle e dimostrarle false , così ciò che lui aveva proposto come possibile , in virtù della sua razionalità e capacità esplicativa , finisce per diventare vero e inconfutabile . Cartesio per spiegare fenomeni e processi di vario genere si serve del cosiddetto metodo genetico , servendosi dell’ immagine ( tipica del 1600 ) dell’ orologiaio . Così come i bambini per capire come é fatta una cosa e come funziona sono soliti smontarla , anche Cartesio ritiene che il miglior metodo per esaminare le cose e capirne il funzionamento consista nello smontarle , nel vedere come si costruisce una volta smontata . Ed é proprio ciò che intende fare Cartesio : vuole esaminare i singoli ingranaggi ( in questo caso il cuore ) che costituiscono quell’ immenso orologio che é l’ universo ; solo esaminando i singoli ingranaggi si può capire il funzionamento del tutto . E’ tra l’ altro una peculiarità di tutto il 1600 esaminare ingranaggio per ingranaggio il mondo e non a caso l’ italiano Giambattista Vico preferirà la storia agli enti naturali : la storia siamo noi a farla , gli enti naturali sono invece costruiti da Dio .In un certo senso Cartesio la pensa come Vico , ma , a differenza del pensatore italiano , egli intende occuparsi degli enti fisici in qualità di scienziato e filosofo e l’ unico metodo per poterne comprendere la natura e il funzionamento é proprio smontarli e rimontarli ; per capire la natura delle cose bisogna o averle create o mettersi nell’ ottica di chi le ha create , nel caso del mondo occorre mettersi nell’ ottica del grande orologiaio ( Dio ) . Va subito detto che l’ impostazione radicalmente meccanicistica di Cartesio rischia di impedirgli di comprendere correttamente certi aspetti del funzionamento delle cose : egli può solo accettare le cose in termini meccanicistici e rifiutando ogni forma di azione a distanza o di spiritualismo insito nelle cose ; non a caso i cartesiani , quando Newton spiegherà il moto dei pianeti servendosi della forza di attrazione la rifiuteranno ( nonostante fosse corretta ) perchè implica un’ azione a distanza che va contro i princìpi del meccanicismo . La stessa cosa in fondo vale per il cuore : Cartesio nello spiegare la circolazione del sangue rifiuta ogni spiegazione che si allontani anche minimamente dal meccanicismo più radicale e finisce per dare una spiegazione sul funzionamento del cuore mezza vera e mezza falsa . Le teorie tradizionali a riguardo non erano mai riuscite a riconoscere la circolazione e si riteneva per lo più che il sangue fosse un liquido stagnante e le pulsazioni non venivano mai interpretate come il rumore della pompa cuore . Questa difficoltà a comprendere il meccanismo della circolazione era dovuta in buona parte a difficoltà autonome : ad esempio , le arterie in un corpo deceduto si svuotano assai velocemente del sangue e quindi esso non veniva mai trovato all’ interno delle vene e di conseguenza bisognava ricorrere ad interpretazioni bislacche per spiegare le funzioni delle vene stesse . Il primo a fornire un’ organica e corretta spiegazione a riguardo della circolazione sanguigna fu il medico inglese William Harvey che sostenne che il cuore si contrae ritmicamente e fa sì che il sangue venga pompato e abbia il suo flusso . Era un’ interpretazione indubbiamente corretta . Cartesio però non può accettare pienamente le teorie del medico inglese : senz’ altro anche Cartesio riconosce la presenza della circolazione sanguigna , ma non accetta la spiegazione datane da Harvey . Cartesio pensa che il cuore umano funzioni allo stesso modo di un motore a scoppio , nel quale non sono i pistoni che si muovono nel cilindro a mettere in moto la miscela , bensì é la miscela a muovere i pistoni : é lo scoppio appunto della miscela a far dilatare la medesima e a far andare su e giù i pistoni . Ora , le posizioni di Harvey e di Cartesio risultano esattamente opposte : per Harvey é il cuore a far muovere il sangue , per Cartesio é il sangue che fa muovere il cuore , esattamente come avviene nel motore a scoppio . Harvey era convinto che il cuore , contraendosi , spingesse fuori il sangue per poi riattirarlo con la dilatazione . Per Cartesio , al contrario , essendo il cuore un organo caldissimo , é il sangue che , surriscaldandosi per via del calore presente nel cuore , si dilata e per questo dilatarsi schizza via dando luogo alla circolazione che riporta il sangue raffreddatosi al cuore , dove si riscalda nuovamente , si dilata , schizza via e il processo ricomincia . In Harvey abbiamo una pompa autonoma , in Cartesio un motore a scoppio in cui é il sdangue a muovere il cuore . Sembra una semplice diatriba della storia della medicina , priva di ogni significato , ma in realtà ha un’ importanza fondamentale perchè se Cartesio arriva a sostenere l’ analogia del cuore con un motore a scoppio lo fa perchè spinto dal suo stesso radicale meccanicismo : egli non può assolutamente ammettere un movimento autonomo di un organo ( il cuore ) che muove il sangue perchè la cosa gli puzza troppo di animismo . Così come non può accettare l’ azione a distanza , Cartesio non può neanche accettare l’ autonomia e l’ indipendenza di certi organi perchè in un certo senso questo potrebbe portarlo verso l’ animismo , l’ attribuire vita autonoma , anima alla materia ; ma la materia per definizione é estensione e quindi il meccanicismo cartesiano vieta di accettare l’ interpretazione della circolazione sanguigna data da Harvey . Invece l’ idea del sangue che si dilata per via del calore , schizza via e muove il cuore é rigorosamente meccanicistica : é una serie di urti : il sangue viene mosso dal calore , muove il cuore e poi viene di nuovo mosso dal calore . Ecco allora che anche nel cuore , l’ organo che meno di tutti si presta ad interpretazioni meccanicistiche , tutto avviene come in un orologio . Una volta spiegato il meccanicismo presente nel mondo , Cartesio lo estende all’ intera realtà vivente e qui si può notare , come già si poteva a riguardo dell’ interpretazione della circolazione , come un meccanicismo troppo radicale porti ad errori grossolani . Cartesio fissa una differenza radicale tra uomini da una parte e piante e animali dall’ altra : gli uomini sono ai suoi occhi tutt’ altra cosa rispetto sia agli animali sia alle piante . Questa distinzione in parte gli deriva senz’ altro dal cristianesimo che vede l’ anima immortale esclusivamente negli uomini . Certo , é vero che i cristiani , diostaccandosi da Aristotele , hanno fissato una grande differenza tra uomo e animali e piante poichè é come se l’ uomo godesse di un’ anima aggiuntiva , una sorta di realtà diversa che é l’ anima immortale , però i cristiani non avrebbero mai ammesso o accettato quanto arriva a dire Cartesio , ossia che solo gli uomini hanno l’ anima . Cartesio afferma che gli animali sono automi : Cartesio non si limita a dire che essi non hanno la ragione , ma arriva addirittura ad affermare che essi non provano sensazioni , sono come macchine . In altre parole , quando si tira la coda ad un cane esso abbaia non perchè provi dolore , ma per un riflesso incondizionato senza coscienza : quando gli si tira la coda esso abbaia allo stesso modo in cui una macchina fa rumore quando le si suona il clacson . Negli animali , proprio come nelle macchine , ad ogni imput corrisponde un output : se gli si tira la coda , il cane abbaia , se lo si colpisce morde e così via . A portare Cartesio a sostenere che gli animali sono automi mentre gli uomini no é il seguente ragionamento : anche il peggiore degli uomini sa parlare , ossia sa esprimere ciò che pensa ; anche il migliore degli animali non sa parlare , ossia non sa esprimere ciò che pensa ; ne consegue che gli uomini hanno la ragione , gli animali no . In realtà c’ é qualcosa che non quadra in questo ragionamento cartesiano : a suo favore gioca senz’ altro il fatto che se costruiamo un robot a immagine e somiglianza di un animale , che si atteggi allo stesso suo modo in effetti si può davvero pensare che l’ animale vero e il robot siano la stessa identica cosa ; questo , secondo Cartesio , non é possibile per gli uomini perchè essi sanno parlare e , soprattutto , esprimono ciò che pensano : hanno la facoltà di pensare e di dire ciò che pensano . Però oggigiorno , con il perfezionarsi delle tecnologie , ci si avvicina sempre più alla creazione di un robot che sappia imitare perfettamente l’ uomo : non solo nell’ atteggiamento e nelle parole , ma perfino nel pensiero ! Nel momento in cui vi si riuscisse ( e dovrà arrivare ) allora , seguendo il ragionamento di Cartesio , si dovrebbe trarre la conclusione che gli uomini sono automi . Infatti il ragionamento di Cartesio é : avendo ipotizzato che una macchina imiti perfettamente un animale , chi non mi dice che l’ animale stesso non sia una macchina ? Per l’ uomo non si possono costruire macchine che sappiano ragionare , di conseguenza l’ uomo non é una macchina . Ma nel momento in cui si arrivasse a creare un robot uguale agli uomini ne conseguirebbe che l’ uomo stesso potrebbe benissimo essere una macchina . D’ altronde la logica cartesiana stessa , a ben pensarci , non mi garantisce l’ esistenza effettiva delle persone che mi circondano : io dubito , quindi esisto ; ma non posso sapere se gli altri effettivamente esistano e quindi tutti gli uomini ( fatta eccezione di me , perchè dubito e quindi sono ) potrebbero essere macchine . Per Cartesio il fatto di parlare , ossia di esprimere ciò che si pensa , implica che gli uomini non siano automi come gli animali , bensì comporta che essi abbiano un’ anima : solo gli uomini ne sono dotati e non gli animali o le piante . E’ arrivato ad ipotizzare che una macchina possa arrivare ad imitare alla perfezione il comportamento di un animale ; quello che non é arrivato ad ipotizzare é che una macchina possa imitare il comportamento di un uomo . Allora seguendo il ragionamento di Cartesio si dovrebbe appunto arrivare alla conclusione che pure gli uomini sono macchine ; tutti gli animali , tutte le piante e tutti gli uomini sono macchine fatta eccezione per me stesso , che so di esistere come soggetto dubitante . Cartesio ha quindi sbagliato a dire che gli animali sono macchine e gli uomini no : per non sbagliare i casi sono due : o si dice che sia gli animali sia gli uomini sono macchine , oppure si dice che nè gli uni nè gli altri lo sono . Il fatto che una macchina in linea di principio possa imitare il comportamento di un animale , non può portare ad affermare che l’ animale sia privo di sensazioni così come non posso affermare che l’ uomo sia privo di sensazioni . Ecco allora che ancora una volta il meccanicismo radicale porta Cartesio ad un errore grossolano . Quest’ immagine dell’ animale macchina stabilisce una netta differenziazione tra res cogitans , res extensa ( che comprende la materia , gli animali e le piante ) e res divina . Si possono tra l’ altro fare alcune considerazioni a riguardo : il meccanicismo cartesiano fa esattamente l’ opposto di quel che a suo tempo aveva fatto l’ animismo : gli animisti avevano fatto passare per viventi anche cose che viventi non sono ; tutta la realtà in ultima istanza per pensatori come Talete o Bruno era animata . Cartesio fa esattamente l’ opposto : invece di ridurre tutto a materia vivente ( come l’ animismo ) riduce tutto a materia non vivente : la vita stessa degli animali non é altro che un puro meccanismo e solo dove c’ é l’ anima ( negli uomini ) si può propriamente parlare di vita perchè c’ é la ragione e la sensibilità . Viene così anche superata la concezione aristotelica : anche Aristotele in fondo era un monista dal momento che riduceva l’ intera realtà a sinoli di materia e forma ; con Cartesio invece rimane solo la materia bruta , priva di forma e di vita , esattamente l’ opposto di come la intendeva Bruno ( viva e divina ) . Ma se la materia é solo materia e l’ anima é solo anima e materia e anima sono inconciliabili , che rapporto c’ é tra corpo e anima ? In altre parole , se sono due realtà tra loro così distinte , come fa il corpo ad agire sull’ anima e l’ anima ad agire sul corpo ? Che agiscano l’ uno sull’ altro non si discute : quando con l’ anima decido di alzare il braccio e poi col corpo lo alzo é l’ anima che agisce sul corpo ; viceversa , quando metto la mano su una superficie calda , provo con l’ anima una scottatura . Ecco che allora Cartesio si trova di fronte ad un problema non da poco : due sostanze eterogenee , tra loro opposte , che nell’ uomo agiscono l’ una sull’ altra . Le realtà fisiche , poi , per Cartesio si comportano secondo schemi meccanici e deterministici , mentre invece l’ anima é libera di scegliere , gode del libero arbitrio ( l’ errore consiste proprio nella volontà ) : anche qui Cartesio deve far fronte a un grande problema che se non risolto può far vacillare l’ intero suo edificio del sapere . Cartesio deve far quindi incontrare il mondo fisico , meccanicistico e privo di libertà d’ azione con quello spirituale libero e immateriale . Diventa poi difficilissimo spiegare come l’ anima muova il corpo e viceversa visto che l’ anima , per definizione , é sostanza spirituale e non é riconducibile ad estensione : nell’ ottica meccanicistica cartesiana , ogni movimento é causato da urti fisici , ma come fa il corpo materiale ad urtare l’ anima immateriale per farla muovere a sentire il calore quando appoggiamo la mano su una superficie calda ? Come può esserci movimento per contatto tra una realtà fisica e una spirituale ? E’ una contraddizione parlare di movimento e di urti a riguardo dell’ anima . Ecco allora che Cartesio tenta di fornire una spiegazione ipotizzando proprio un contatto tra anima e corpo , una spiegazione non molto convincente già all’ epoca ; i problemi sollevati da Cartesio in merito finiscono più per essere ampliati che risolti ; che rapporto ci sarà mai tra anima e corpo , due realtà diverse e inconciliabili che nell’ uomo trovano il loro punto di contatto ? Per spiegare il rapporto anima – corpo Cartesio si serve di due realtà fisiche : la ghiandola pineale e gli spiriti animali . Supponiamo che Cartesio debba spiegare il rapporto anima – corpo quando con la mano si tocca una superficie calda e il calore viene dal corpo trasmesso all’ anima . Cartesio dice che la superficie calda mette in moto le particelle dei polpastrelli della mano e fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale e corporeo ; dopo di che Cartesio tira in ballo il reticolo nervoso ( lo si era da poco scoperto in medicina : esso si concentra soprattutto alla base del cervello ) ; Cartesio individua nel reticolo nervoso la via per la quale gli impulsi vengono trasmessi dalla periferia al centro e viceversa : attraverso i nervi la sensazione di calore che si ha quando si tocca con mano una superficie calda viene trasmesa dai polpastrelli verso il cervello . Da notare che Cartesio evita appositamente di servirsi di spiegazioni chimiche ed elettriche : egli accetta e si serve solo di spiegazioni meccanicistiche : contatti fisici che causano il movimento . Ipotizza che all’ interno dei nervi ci siano degli spiriti animali : non dobbiamo farci ingannare dal nome ; si chiamano spiriti non perchè sono realtà spirituali ( il che sarebbe assurdo ) ma per via della loro estrema sottigliezza ( sono talmente sottili da stare nei nervi ) ; si chiamano poi animali perchè trasmettono gli impulsi dell’ anima . Grazie alla loro sottigliezza questi spiriti animali vengono urtati dal calore della superficie e trasmettono questo moto fino al cervello ; fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale e lo stesso avviene tanto negli animali quanto negli uomini . Da questo punto in poi , però , negli animali l’ impulso arrivato al centro ( il cervello ) in modo meccanico genera una reazione meccanica : ad ogni imput corrisponde un output ; se prendo una zampa ad un gatto e la metto su una superficie calda , gli spiriti animali dalla zampa si muovono fino al cervello e generano una reazione meccanica : il miagolare ; tutto questo avviene senza la mediazione di un organo che genera sensibilità : ricordiamoci che gli animali sono macchine . Nell’ uomo invece il processo si differenzia : il centro dell’ uomo é la cosiddetta ghiandola pineale , una delle ghiandole che sta alla base del cervello : essa , spiega Cartesio , é il centro della sensibilità e gli animali , proprio perchè macchine prive di sensazioni , ne sono sprovvisti . A questo punto avviene un fenomeno misterioso e inspiegabile : nella ghiandola pineale l’ impulso nervoso guidato dagli spiriti animali incontra l’ anima , che nel corpo ha la sua dimora provvisoria e nella ghiandola pineale trova il suo punto di incontro e di rapporto con il corpo : qui dall’ incontro con gli spiriti animali viene generata la sensazione . Supponiamo di leggere un giornale : leggo che c’ é un concerto e decido di andare a vederlo , mi alzo e ci vado fisicamente : fisicamente c’ é un contatto con i miei occhi , si passa al reticolo nervoso , le informazioni vengono trasportate fisicamente dagli spiriti animali e nella ghiandola pineale c’ é il fatidico incontro con l’ anima : qui si valuta la notizia e , seguendo le leggi del libero arbitrio proprie della realtà spirituale , si decide di andare fisicamente a vedere il concerto ; a questo punto l’ impulso viene portato dagli spiriti animali tramite il sistema nervoso fino al corpo : mi alzo fisicamente e raggiungo il teatro . Quello che differenzia gli uomini dagli animali é proprio l’ anima , che però sembra più un elemento aggiuntivo che non fondamentale : gli animali , senz’ anima , vivono benissimo . Pare un elemento forzatamente aggiunto l’ anima tant’ é che poi nel 1900 un filosofo definirà adeguatamente la concezione cartesiana dell’ uomo : una macchina con uno spettro all’ interno : l’ uomo é una macchina esattamente come gli animali e in più rispetto ad essi si trova ad avere uno spettro ( l’ anima ) . Ma quest’ ipotesi dell’ anima nella macchina parve poco convincente fin dall’ inizio perchè in fondo il problema di come realtà materiale e spirituale entrino in contatto Cartesio lo risolve in modo poco convincente , quasi come se l’ anima nella ghiandola pineale si comportasse da corpo . Nella stessa tradizione cartesiano non tardarono ad arrivare quelli che divisero radicalmente in due pezzi il ragionamento cartesiano , spezzando in due il dualismo anima – corpo . Nel 1700 vi sarà chi dirà che l’ uomo é una macchina senza lo spettro dentro , un corpo privo di anima , uguale agli animali ; si toglie cioè la parte spirituale , che , come detto , sembra aggiunta senza senso , quasi come se Cartesio temesse di andare contro al cristianesimo togliendo l’ anima dai corpi umani . Cartesio non si limita a sostenere che esista un’ anima negli uomini , ma arriva a dimostrare l’ immortalità dell’ anima , in netta contrapposizione con i libertini ( i liberi pensatori che criticavano la morale tradizionale ) francesi del 1600 : essi negavano l’ immortalità dell’ anima servendosi di un ragionamento per assurdo : per i cristiani l’ anima dell’ uomo é immortale , quella degli animali no ; perchè mai , dicevano , non dovrebbe essere mortale anche l’ anima animale ? Non é mortale l’ anima degli animali e quindi non lo é neanche quella degli uomini . Cartesio , negando che gli animali abbiano un’ anima , fa cadere la dimostrazione per assurdo dei libertini : gli animali non hanno anima , gli uomini ce l’ hanno ed é immortale proprio perchè in quanto res cogitans é radicalmente opposta alla res extensa ( il corpo ) . Più si separa concettualmente l’anima dal corpo e più si é indotti a sostenere l’ immortalità dell’ anima ; già Platone stesso aveva fatto un ragionamento simile vedendo il corpo come prigione dell’ anima . Anche per Cartesio é così : l’ anima e il corpo non vanno d’ accordo e mentre l’ uno muore , l’ altra vive : subito dopo l’errore di chi nega Dio, errore che ritengo di avere confutato a sufficienza, non c’è un altro che allontani maggiormente gli spiriti deboli dalla retta via della virtù, che l’immaginare che l’anima dei bruti abbia la stessa natura della nostra, e che pertanto non abbiamo nulla da temere né da sperare dopo questa vita, proprio come le mosche e le formiche; mentre quando si conosce quanta differenza ci sia si capiscono molto meglio le ragioni che provano che la nostra è di una natura indipendente dal corpo, e dunque non è destinata a morire con esso; e dal momento che non si vedono altre cause che possano distruggerla, si è portati naturalmente a giudicarla immortale. Ammettere l’ immortalità dell’ anima , tra l’ altro , era un buon punto di partenza per non incappare in censure da parte della Chiesa o , almeno , per non avere troppe noie . D’ altronde Cartesio , alla fine del Discorso , spiega di non aver pubblicato l’ opera sul Mondo proprio perchè era venuto a sapere del trattamento riservato dalla Chiesa a Galileo : si chiede se convenga andare incontro ad una censura o ad agire con cautela . Cartesio , sulla scia di Bacone ,mira ad una scienza utile per l’ intera umanità , ma non per questo vuole andare incontro alla Chiesa : se venisse censurato e condannato , d’ altronde , egli spiega , non potrebbe più fare scoperte e aiutare l’ umanità , quindi conviene agire con cautela . Proprio per questo al posto del Mondo pubblica il Discorso sul metodo , nel quale spiega di voler sempre mantenere la propria libertà di pensiero ; preferisce non avere un lavoro ma essere libero di pensare ciò che vuole piuttosto di avere un lavoro ma non essere libero di pensare ; una scelta simile la farà anche Spinoza .
SUL COMPENDIUM MUSICAE DI CARTESIO
di Roberto Taioli
LA GENESI STORICA DEL COMPENDIUM
Il trattatello sulla musica è la prima opera compiuta che il giovane Cartesio ha redatto, in testimonianza della viva amicizia che in quel momento lo legava al più maturo amico, lo scienziato olandese Isaac Beckman. Infatti Cartesio dopo aver studiato giurisprudenza a Poitiers, si trasferì nelle Province unite per arruolarsi volontario in uno dei reggimenti francesi comandati dal principe protestante Maurizio di Nassau.
Secondo quanto si legge nel prezioso Journal che lo scienziato olandese teneva regolarmente con grande precisione, l’incontro tra i due studiosi ebbe luogo il 10 novembre 1618 e non in forma casuale, perché in una cittadina come Breda era allora molto intenso e frequente se non addirittura frenetico lo scambio di notizie culturali e scientifiche, di esperienze e di studi.
Che Isaac Beeckman abbia rivestito un grande ruolo nella formazione del giovane Cartesio, è ammesso dal Nostro nelle primissime lettere indirizzate all’amico e in particolare in quella del 23 aprile 1619 in un passaggio emblematico che riportiamo:
Infatti, voi siete davvero il solo ad avere spronato un pigro a richiamare un sapere già quasi tutto svanito dalla memoria ed a volgerne l’intelligenza, che si era allontanata dalle occupazioni serie, verso cose più grandi. Per questo, se dovesse venir fuori da me qualcosa di non disprezzabile, potrete a buon diritto rivendicarlo come interamente vostro. Da parte mia, non mancherò di mettervene da parte, sia perché ve ne dilettiate, sia perchè lo correggiate, come avete fatto molto di recente a proposito di ciò che avevo scritto sull’arte della navigazione. Come se foste un indovino, mi avete infatti messo a parte della cosa; tale è, infatti, la vostra invenzione relativa alla Luna, che pure ritenevo, ma erroneamente, potesse venire semplificata con alcuni strumenti.1
A dire il vero il passo epistolare menzionato, oltre al riconoscimento dei meriti dell’amico nell’averlo risvegliato dal torpore intellettuale, contiene un argomento incautamente inserito da Cartesio, che diverrà di là ad alcuni anni, oggetto di polemica e divisione tra i due. Infatti Cartesio, preso dall’elogio verso il maestro, non esista ad attribuire a Beeckman una sorta di paternità intellettuale dei suoi futuri scritti, come avverrà proprio riguardo al Compendium.
Su questa linea di allineamento verso l’amico più titolato ed esperto può anche essere letta la conclusione del trattatello musicale, ove ancora una volta Cartesio riconosce i meriti dell’interlocutore, affidandogli l’opera senza esitazione:
Ormai scorgo la terra, mi affretto verso il lido; molto qui ometto per brevità, molto per dimenticanza, ma di certo ancor più per ignoranza. Lascio tuttavia venir fuori fino a voi quesrto parto del mio ingegno, così informe, e quasi come un piccolo di orsa | appena messo al mondo, perché sia un ricordo della nostra amicizia profonda, e un pegno certissimo del mio amore per voi; ma a questa condizione, se credete: che, al riparo per sempre nell’ombra della vostra biblioteca o del vostro studio, esso non sia consegnato al giudizio di altri. I quali, come voi invece farete, ne sono sicuro, non distoglierebbero gli occhi benevoli dalle sue parti monche verso quelle nelle quali non nego certo che siano delineati al vivo alcuni tratti del mio ingegno; e non saprebbero che esso è stato composto tumultuosamente e solo per voi, qui, in mezzo all’ignoranza dei militari, da un uomo ozioso e libero, che pensa e fa cose completamente diverse.2
Tuttavia anche se queste lettere e questi riscontri non esistessero, basterebbe leggere alcuni passi del Journal di Beeckman per rendersi conto che il genere di ricerche che conduceva lo studioso olandese (tra cui quelle in campo musicale) rappresentavano un paradigma culturale che il giovane filosofo non avrebbe potuto conoscere senza restarne vivamente interessato. Ciò lo si coglie tra l’altro da tutta una serie di problemi che i due amici affrontarono nei loro dibattiti e di cui è rimasta traccia nelle lettere, tra le quali quella della determinazione dei tempi della caduta dei gravi, ove la reciproca inerenza tra fisica e matematica era particolarmente evidente.
Nel 1618 l’esercito agli ordini del Principe Nassau non era impegnato in grandi imprese militari, poiché era ancora in vigore la tregua di dodici nella guerra contro la Spagna. Cartesio, arruolatosi come volontario nell’esercito, si trovava inattivo nel presidio di Breda, attendendo ai propri amati studi e a comporre il trattatelo musicale in omaggio al suo amico, che mostrava anch’egli interesse per le questioni musicali.
Per la data di composizione del trattatello, sicuramente Cartesio lo iniziò nel novembre del 1618 e lo ultimò il 31 dicembre dello stesso anno, così da poterlo inviare il 1 gennaio del 1619 all’amico a mo’ di strenna augurale per il nuovo anno.
Lo studioso olandese trattenne per sé il manoscritto musicale per 11 anni, fino a quando non dovette renderlo all’amico a seguito della aspra disputa che li aveva divisi che riecheggia fragorosamente nella lettera di Cartesio del 17 ottobre 1630, con toni di rancore incomprensibili al tempo di inizio della loro relazione intellettuale:
Guardate infatti quanto siete ingiusto: volete essere l’unico proprietario e non volete che altri si attribuiscano non solo quel che sanno e che mai hanno appreso da voi, ma, addirittura, proprio ciò che voi stesso confessate di avere appreso da loro. Scrivete infatti che l’algebra che vi ho dato non è più mia; la stessa cosa in altra circostanza avete scritto sulla musica. Volete dunque, presumo, che queste scienze si cancellino dalla mia memoria, perché ormai sono vostre: per qual motivo, infatti, mi avreste chiesto gli autografi (dal momento che siete già in possesso delle copie, mentre io non ne ho alcuna), se non perché col tempo potessi dimenticarmi delle cose in essi contenute, e di cui più non mi occupo, e perché foste voi il solo a possederle? Ma sicuramente avete scritto ciò per burla; so infatti quanto sappiate essere elegante e faceto: non volete dunque che sui creda seriamente che sia vostro se non quel che siete stato il primo a trovare. Perciò nel vostro manoscritto annotate la data in cui avete pensato ciascuna cosa, perché non capiti mai nessuno tanto impudente da voler attribuire a sé quel che abbia sognato una notte dopo di voi. Mi pare tuttavia che così non custodiate con la massima prudenza i vostri beni: che accadrebbe infatti, se si dubitasse dell’attendibilità del manoscritto? Non sarebbe più sicuro addurre testimoni o confermare su un registro ufficiale? Ma vi dirò la verità, di certe ricchezze come queste, che temono i ladri, e debbono essere sorvegliate con tanta cura, vi rendono infelici piuttosto che beato; né, credetemi, vi rammaricherebbe di perderle insieme alla malattia.3
Cartesio portò con sé il manoscritto a Stoccolma, come risulta alla lettera R dell’inventario dello Chanut (“otto foglietti scritto sulla musica, 1618”). Per diverse strade e traversie il manoscritto pervenne poi nelle mani di Padre Nicolais Poisson, Superiore presso il Collegio degli Oratoriali a Vendome,che lo tradurrà dal latino e lo pubblicherà.
Un’altra copia del manoscritto finì poi all’attenzione di un altro grande amico di Cartesio, Costantino Huygens padre, anch‘esso appassionato di musica, mentre sappiamo che una trascrizione del testo si trova nelle pagine del Journal di Beeckman, come se lo studioso olandese volesse in qualche modo appropriarsi del lavoro che – come abbiamo visto – fu fonte della polemica tra i due.
DALLA TEORIA DELLA CONSONANZA ALLA TEORIA MUSICALE DEL RITMO
Dal punto di vista filosofico e scientifico nonché strettamente musicale, il Compendium cartesiano eredita una lunga storia musicologica che affonda le sue radici nella Grecia antica e si connette alla scuola pitagorica, alla scoperta del numero a fondamento della musica, all’idea che il suono sia un rapporto trasferibile in una cifra numerica. Se il suono è rappresentabile in un rapporto numerico, la musica altro non è che la disciplina del numero sonoro, come peraltro emergeva anche dal tessuto musicale del medioevo e del rinascimento, ove le speculazioni matematiche ed astronomiche non erano estranee a relazioni musicali.
Cartesio parte dalla teoria della consonanza musicale sistemata dal veneto Gioseffo Zarlino nel tardo rinascimento (Zarlino è l’unico musicologo espressamente citato, seppur una volta sola, nel Compendium) e la assume criticamente come un contributo ineludibile senza tuttavia restarne prigioniero, ma mira ad elaborare una originale teoria musicologica imperniata sulla scoperta e la ricerca del ritmo come moderna forma del tempo nell’universo musicale.
Il rtimo è una forma del tempo e si dà nel tempo che tuttavia non può considerarsi solo nella sua dimensione fisica ed lineare, uniforme e quantitativa.:
Il tempo nei suoni deve consistere di parti uguali, perché sono, di tutte, le più facilmente percepite dal senso, in base alla quarta premessa; oppure di parti che siano | in proporzione doppia o tripla; ma non si deve procedere oltre, poiché queste parti sono, di tutte, le più facilente distinte dall’udito, in base alla quinta e sesta premessa. Se poi le misure fossero più diseguali, l’udito non potrebbe se non a fatica riconoscere le loro differenze, come risulta per esperienza. Se infatti, per esempio, volessi porre cinque note uguali contro una, allora non si potrebbe cantare senza la più grande difficoltà.4
La concezione del ritmo elaborata da Cartesio prevede come fondamento una dimensione del tempo interno proveniente dal trattato De musica di S. Agostino, la cui lettura non era estranea certamente a Cartesio.. Infatti, se è pur vero che il tempo si dà e si scandisce nel tempo esterno della sensibilità e della quantità, gli effetti dello stesso non sono uniformi ma variano e si modificano venendo a contatto con lo spirito del soggetto che lo percepisce tramite l’udito e lo fa suo.
Questa sistemazione del ritmo come tempo interiore non viene organicamente trattata da Cartesio nelle pagine del trattatelo, ma l’autore ne semina le tracce e qua e là fornisce elementi per percepirla come un nuovo orizzonte teorico che porta il pensatore francese oltre le acquisizioni di Zarlino. Il suono è l’oggetto della musica (come la carne l’involucro dell’uomo) e nella musica si manifesta nel succedersi del ritmo, nel variare della sua intensità, nel celarsi o rivelarsi secondo una complessa dialettica di variazioni, sfumature, tonalità, significati.
Il suono è una dimensione totalizzante, ma non tutte le forme di suono accedono alla dimensione del ritmo. Non basta che un suono accada, perché il suono musicale non si identifica nel mero suono fisico del quale, dice Cartesio, è bene che se ne occupino i fisici.:
Ma, ammesso questo, e poiché, come abbiamo detto, all’inizio di ogni misura il suono è emesso con più forza e più distintamente, va detto anche che esso scuote con più forza i nostri spiriti dai quali siamo eccitati al movimento. Segue da ciò che anche le bestie possono ballare a tempo, se glielo si insegna e le si abitua, perché per questo è necessario il solo impulso naturale.5
PRAENOTANDA
Nei sei punti di Praenotanda, in forma linguistica schematica e quasi come una serie di appunti da fissare per non smarrire il senso di un ragionamento, Cartesio enumera alcuni punti chiave della sua ricerca. L’insieme dei punti di Praenotanda non è quindi sistematico né organico ma ricco di suggestioni e spunti. I primi due punti rivestono quasi lo stile di una dichiarazione metodologica:
1 Tutti i sensi sono capaci di un qualche piacere.
2 Per questo piacere si richiede una certa proporzione dell’oggetto con il senso stesso. Accade per questo, ad esempio, che il fragore degli schioppi o dei tuoni non sembra atto alla musica, certo perché lederebbe l’orecchio, come l’eccessivo splendore del sole in fronte lede gli occhi.6
La via della sensibilità è qui collegata all’avvertimento del piacere o, come Cartesio scrive nell’esordio del trattato, del diletto che è il fine della musica. La valorizzazione dei sensi non pare tuttavia fine a se stessa ma finalizzata a individuare il senso della musica nel suo offrirsi all’udito umano. Dobbiamo partire da questo importante riconoscimento della dimensione sensibile ma non ridurre – come del resto Cartesio non fa – la musica alla sua base meramente fisica. Questa riduzione sarebbe infatti fuorviante perché il mondo non è un oggetto inerte ma una comunità di soggetti attivi e dotati di una modalità interiore, attraverso la quale il ritmo si manifesta ora lento, ora accelerato trasformandosi in stati d’animo di pace, quiete, oppure azione, dinamismo, tumulto.
L’oggetto musicale, il suono è un oggetto discreto, nel senso che non può darsi in forma univoca ma modulata, articolata, quasi frantumandosi e spezzandosi e tendente ad una matematizzazione. La musica lo rende infatti in un rapporto numerico in proporzione.. Dice Cartesio in alcuni brevi passaggi di Praenotanda
Diciamo meno differenti tra loro le parti dell’intero oggetto tra le quali c’è maggiore proporzione.
La proporzione deve essere aritmetica e non geometrica. La ragione è che in essa non ci sono tante cose da notare, dal momento che le differenze sono ovunque uguali e perciò il senso si affatica tanto a percepire distintamente tutto ciò che è in essa.7
Va inoltre rilevato che la riflessione cartesiana indica nella varietà del ritmo una meta cui tendere, in modo che la curiosità e la vivacità dell’ascoltatore vengano sollecitate e gratificate. Questa attenzione alla sfera dell’ascolto e della piacevolezza del ritmo, di cui parleremo più diffusamente, è una novità nella consuetudine dei trattati musicali del tempo che si muovevano su una dimensione prettamente scientifica. Ciò rende il trattato di Cartesio attraversato e permeato di una inflessione umanistica seppur non esplicitamente formulata.
SEGUENDO LE NOTE DI ZARLINO: LE REGOLE DELLA COMPOSIZIONE E I MODI
La presenza di Zarlino (chiamato ai suoi tempi il Principe dei Musici) nel trattato musicale di Cartesio non si riduce alla mera citazione del nome che compare una sola volta nell’elaborato. Sappiamo che Cartesio venne a conoscenza degli studi musicali di Zarlino probabilmente durante il suo soggiorno di studio presso il Collegio dei Gesuiti a La Fléche. Tuttavia l’influenza del teorico tardo- rinascimentale è ben presente nelle formulazioni cartesiane, soprattutto per quanto riguarda la visione matematica della musica che già Zarlino aveva configurato e rafforzato in linea con la tradizione pitagorica.. A Zarlino si deve peraltro una sorta di riforma e rimodulazione della teoria musicale antica (passata anche dal filtro di Severino Boezio) con la sostituzione del quaternario di origine pitagorica e l’immissione del senario, la relazione da 1 a 6 da cui nasceranno le nuove consonanze di terza e sesta maggiore. Passaggio questo di non poco conto e non ignoto a Cartesio e che è ben ravvisabile nella musicologia barocca.
Assumendo questa impostazione, Cartesio nel suo trattato giunge ad una formulazione dei criteri di composizione e dei modi mettendo a fuoco tre principi fondativi.:
1. tutti i suoni emessi contemporaneamente debbono costituire una consonanza
2. una medesima voce deve procedere in successione soltanto per gradi e per consonanze
3. non siano mai ammessi il tritono e la falsa quinta neppure in relazione.
Ma anche la relazione dei modi procede in modo nuovo. La successione dei modi (nella tradizione musicale occidentale il termine modo indica un determinato sistema organizzato di intervalli e l’ordine e la classificazione secondo i quali si organizzano nella successione di toni e semitoni che costituiscono una scala) deve soddisfare l’esigenza di armonia e di gradevolezza richiesta dall’udito, cosicché al temine di una composizione l’udito deve sentirsi appagato in modo da non attendere nient’altro e da comprendere che il brano si è concluso.
L’insieme dei modi deve disegnare una totalità in cui gli elementi interni che la compongono non paiono isolati e scissi e l’ascoltatore avverta quel senso di appagamento e di soddisfazione che la musica può trasmettere.
LA NATURA DEL PIACERE
Premessa la natura sensibile del piacere che Cartesio sancisce nelle prime pagine del trattato, intesa come unica sorgente di percettibilità data in dotazione all’uomo, occorre esaminare più da vicino questo assunto per non restare prigionieri di un principio empiristico che sembra esulare in ultima analisi dalle riflessioni del filosofo. Non tutti i sensi peraltro servono per Cartesio allo stesso modo alla causa della musica e non tutti sono omologabili nella loro funzione di recettori di esperienze. L’udito in particolare è il senso che più nella musica è sollecitato ed è verso di esso che Cartesio indirizza le sue considerazioni.
L’udito deve infatti essere educato, affinato e rigenerato, perché il suono musicale possa raggiungerlo e tramite esso produrre un mutamento, l’emersione di uno stato d’animo nel soggetto che ascolta. Diletto ed emozioni formano per Cartesio una coppia che non può essere scissa, delectare et movere sono cadenze di uno stesso movimento che dall’esterno raggiunge l’interno,. dando luogo ad una nuova rielaborazione, questa volta non più determinata dal mero agente fisico.
Un ritmo infatti non accade per tutti allo stesso modo e la serie delle sue cadenze, la scale della sua maggiore o minore intensità, non è percepita univocamente. Un ritmo si dà nel tempo ma per sfumature, segni, tracce che i sensi interni (lo spirito) avvertono in modalità proprie e non catalogabili, in emozioni irripetibili.
Si deve così poter pensare che la natura sensibile per Cartesio non basti da sola per generare il diletto e che questo non possa essere inteso in senso meramente acustico. Esso infatti non va inteso in senso meramente empiristico come sollecitazione che proviene dall’esterno e raggiungendo il soggetto lo lascia inerte e insensibile. Le pagine del Compendium cartesiano contengono accenni rilevanti alla natura attiva del soggetto e dell’ascoltatore che non si limita ad una mera recezione. Il soggetto attivo significa che esso dispone di una soggettività creatrice capace, mediante l’affinamento e l’educazione dell’udito, di scremare l’armonico dal disarmonico, il tenue dall’intenso, il lento dal veloce e così via.
In particolare esiste nel soggetto-ascoltatore un tessuto e fitto ordito di emozioni che, opportunamente sollecitate dall’avvento del suono musicale, determinano una sfera di azioni-reazioni, stati d’animo, moti che pur sorgendo da una base sensibile, non si risolvono in essa pienamente.
Questa sfera dell’emozione nel trattatello Cartesio non la descrive compiutamente, né dà ad essa una organica sistemazione teorica procedendo per allusioni, suggestioni, in modo quasi schematico, proprio di un pensiero che è in corso.
Il procedimento cartesiano nasce dalla sensibilità ineludibile inscritta nell’uomo mediante i sensi fisici che gli sono stati attribuiti e perviene all’interno (nello spirito), per quanto riguarda la musica in particolare, attraverso l’udito che produce l’ascolto, l’attenzione e l’interiorizzazione del suono fisico che in sé e per sé a Cartesio non interessa. Esterno ed interno non sono quindi due modalità contrapposte e antitetiche, ma destinate ad incontrarsi mediante un rapporto di enteropatia. L’ascolto infatti, che Cartesio molto valorizza ed è questa una indubbia innovazione da lui introdotta, è una forma di relazione e richiede una attenzione (un tendere) che è insieme attiva e passiva. Passività ed attività sono quindi inscritte nello stesso ascoltatore che non si trova mai in una situazione di totale inerzia e non è mai mero recettore.
Il gusto è allora un tendere dell’ascolto che scremando il suono ritmico che gli perviene, lo trasforma interiorizzandolo in significato, in stato di piacevolezza, armonia, benessere ed altro ancora, in una successione emotiva che non ha fine.
L’emozione pare così in Cartesio andar perdendo connotazioni di labilità e fragilità generalmente attribuite alla parola nel senso comune, acquisendo lo statuto estetico ed etico di affinamento della sensibilità, di educazione al gusto, al bello. La valenza estetica nel trattatello cartesiano non è mai conclamata apertamente ma sempre sottesa, anche nelle analisi più rigorosamente astratte e tecniche che l’autore compie. Essa funge da filo sotterraneo che tiene insieme le riflessioni, cucendo le varie parti del discorso, cosicché il tecnicismo linguistico non pare mai come un ordine disanimato e spento.
Sentiamo allora Cartesio sulle e emozioni:
Per quanto attiene ai diversi affetti che, con la diversità di misure, la musica può eccitare, in generale dico che la misura più lenta eccita in noi anche i moti d’animo più lenti, quali sono il languore, la tristezza, il timore, la superbia ecc., quella più veloce, per contro, anche gli affetti più veloci, qual è la gioia, ecc. E lo stesso dicasi dei due generi di battuta: la quadrata, ossia quella che si suddivide sempre in due parti uguali, è più lenta della ternaria, quella che consta di tre parti uguali. La ragione è che quest’ultima occupa maggiormente il senso, dal momento che in essa ci sono più cose a cui fare attenzione – vale a dire tre membri -,mentre nell’altra soltanto due. Ma una disquisizione più esatta su questo argomento dipende da un’accurata conoscenza dei moti dell’animo, sui quali non aggiungo altro.8
Cartesio si ferma qui, non senza tuttavia aver osservato come segue:
Non ometterò tuttavia che tanta è la forza del tempo in musica, che esso, anche da solo, | può di per sé procurare un certo piacere: come risulta nel tamburo, strumento di guerra nel quale non si considera nient’altro che la misura, la quale perciò – ritengo – può lì trovarsi a constare non solo di due o tre parti, ma fors’anche di cinque o sette, e più ancora. E poiché infatti, in tale strumento, il senso non ha nient’altro a cui rivolgere la sua attenzione che il tempo, | in quest’ultimo può esservi una maggiore diversità, in modo che esso occupi maggiormente il senso.9
L’uso del termine piacere nel contesto della riflessione cartesiana (il diletto) di cui si parla nell’esordio del trattato, non va interpretato in senso meramente empirico, poiché lo stesso Cartesio lo connette al mondo variegato dei moti dell’animo.
IL COMPENDIUM TRA CONTINUITA’ E NOVITA’
L’impianto complessivo del Compendium cartesiano si innerva nel solco della tradizione musicologica occidentale che partendo dalla radice pitagorica attraverso il Medioevo (Boezio) e il Rinascimento (Zarlino), è confluita ai tempi di Cartesio nel suo elaborato. Questa operetta giovanile, pur con tutti i limiti che lo stesso Cartesio riconosce presenti nel suo scritto (la brevità, la schematicità ecc.), non si discosta dal quel profilo. Anche la questione delle consonanze ereditata da Zarlino è affrontata da Cartesio in sostanziale continuità con il musicologo veneto.
Più rilevanti ci paiono le novità che il Compendium contiene, seppur non tutte esplicitate e portate ad evidenza. La dimensione dell’ascolto, la posizione dell’ascoltatore e del fruitore, di quello che potenzialmente diverrà il pubblico, è senza dubbio da Cartesio fortemente sottolineata, mentre pare assente nei trattati musicologici della tradizione occidentale antica e più vicina ai tempi del pensatore francese. L’ascolto possiamo dire che rappresenti sotto questo aspetto la novità più eclatante introdotta dal giovane Cartesio nella sua elaborazione. Questa dimensione è poi quella dell’attenzione e del ruolo del pubblico nella fruizione dell’arte, questione che ai tempi di Cartesio non era certamente centrale come diverrà nei secoli successivi a partire dal Settecento con l’illuminismo.
Anche l’analisi del tempo musicale come tempo interiore, già presente in Boezio nel medioevo e risalente alla concezione del tempo di S . Agostino elaborata nelle Confessioni, riemerge in Cartesio nelle riflessioni sul ritmo come tempo e nella modulazione del tempo ritmico a contatto con il mondo delle emozioni, della soggettività, sembrano foriere di ulteriori e più articolati sviluppi per es. nella novecentesca analisi della concezione fenomenologica del tempo come tempo interiore da parte di Edmund Husserl. Il Compendium pare così porsi al crocevia tra tradizione e modernità, contenendo elementi che lo connettono all’una e all’altra, in una sintesi ancora aperta.
Da ultimo si vorrebbe ricordare una poco nota composizione di Cartesio destinata alla versione musicale e che il filosofo, ormai anziano, stese a Stoccolma, pare su commissione della regina Cristina, che tra l’altro voleva così celebrare l’avvento della pace di Westfalia. Si tratta del Balletto danzato al Castello Reale di Stoccolma nel giorno della nascita di Sua Maestà, elaborato nel 1649 in forma di testo poetico e successivamente da altri musicato per la rappresentazione a corte.
Il contenuto del poemetto in realtà è prettamente politico, teso ad esaltare l’avvento della pace ed è imperniato sul rivestimento mitologico attraverso l’intervento di Dei, Muse ed altre figure classicheggianti. La qualità dei versi cartesiani non parve già all’epoca eccelsa (a tal conto si ricorda il non benevolo
giudizio di Albert Thibaudet in un articolo del tempo), mentre diverso e più favorevole fu l’accoglienza del pubblico che lesse nel poemetto e nella rappresentazione a balletto la gioia e l’entusiasmo per la raggiunta pace.
Si legga in tal senso qualche strofa ove, al di là degli orpelli mitologici, si intravede il rasserenamento degli animi per la fine della guerra:
Ora che la Pace è fatta
E che Marte si è ritirato,
Pallade può servirsi di me
Per riparare in pochi anni
Tutte le piazze rovinate
Negli stati sottomessi alla sua legge.
Ed io ho delle ottime ragioni
Per assicurare che le mie canzoni
Non le saranno inutili
Infatti come Amfione un tempo,
Con i soli accordi della mia voce
Ho il potere di costruire città.’10
EPICURO
LA VITA
Nel 306 a.C. si vide sorgere in Atene , oltre all’ Accademia e al Liceo , un’altra scuola filosofica , il Giardino ( in GrecoKhpoV ) . Fondatore di essa fu Epicuro, nato a Samo da genitori ateniesi nel 341 a.C. Da giovane , nella vicina Teo , entrò a far parte della cerchia di Nausifane , che si richiamava all’insegnamento di Democrito e che in seguito Epicuro avrebbe criticato . A 18 anni si dovette recare ad Atene per compiere i due anni di servizio militare richiesti agli efebi . Successivamente fondò una piccola comunità filosofica a Militene , nell’isola di Lesbo , e poi a Lampsaco . Nel 307 – 306 , tornato ad Atene , acquistò una casa con un giardino e vi fissò la sua scuola , una comunità filosofica di amici , di cui facevano parte anche donne e schiavi , che conducevano una frugale esistenza in comune , lontani dalla vita pubblica . La principale attività era la lettura e lo studio degli scritti di Epicuro , il quale continuava a intrattenere rapporti epistolari con discepoli lontani . Alla sua morte , avvenuta nel 271 a.C. , la casa e il giardino passarono ad Ermarco , che divenne il caposcuola , secondo le stesse disposizioni testamentarie del maestro . La fedeltà e la venerazione per il capostipite fu un contrassegno tipico e costante della scuola epicurea e la figura di Epicuro finì per sfumare nella leggenda e nel mito , per essere addirittura caricata di valori divini : per i discepoli degli anni a venire Epicuro non fu più solo il maestro , ma una sorta di divinità . ” Ille deus fuit ” oppure ” genus humanum ingenio superavit , et omnis restinxit , stellas exortus ut aetherius sol ” ( grazie al suo ingegno superò il genere umano e tutti privò di luce , come al suo sorgere il sole nell’ etere spegne le stelle ) dice il latino Lucrezio ; i discepoli , inoltre , coservavano sovente ritratti di Epicuro e il ventesimo giorno di ogni mese la scuola celebrava la sua memoria e quella di uno dei discepoli a lui più vicini , Metrodoro ( divenuto famoso per la sua tipica asserzione : ” ricordati che sei nato mortale di natura e hai avuto un tempo limitato : ma con i tuoi ragionamenti sulla natura sei assurto all’ infinità e all’ eternità , e hai contemplato le cose che sono , che furono e che saranno ” ) . Epicuro compose numerosi scritti . Di molti di essi abbiamo soltanto titoli o scarsi frammenti : Sul canone , Sui generi di vita , Sul fine , Su ciò che si deve scegliere o fuggire . L’opera più importante sono i 37 libri Sulla natura , scritti in un lungo arco di tempo ; su di essa Epicuro tornò incessantemente , riprendendo problemi e approfondendo temi già ritrattati in precedenza . In quest’opera era sviluppato il suo insegnamento in tutti i suoi aspetti , non soltanto in relazione alle questioni della filosofia della natura , ma anche di gnoseologia e di etica . Di essa non rimangono che frammenti papiracei , rinvenuti nella villa di un ricco romano epicureo , situata ad Ercolano e colpita dall’eruzione del Vesuvio nel primo secolo d.C. In essa soggiornò nel primo secolo a.C l’epicureo Filodemo di Gadara , che vi costruì una ricca biblioteca , in gran parte di testi epicurei . Integralmente conservate nel decimo libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio sono invece le Lettere di Epicuro , indirizzate a tre diversi destinatari : a Erodoto ( sui principi della dottrina atomistica ) , a Pitocle ( sulla meteorologia ) , e a Meneceo ( sull’etica ) . Le lettere espongono in forma compendiata i capisaldi della sua dottrina . Epicuro attribuisce grande importanza all’esercizio della memoria : le lettere hanno appunto lo scopo di consentire ai principianti di fissarsi in mente gli elementi fondamentali della sua filosofia e ai più progrediti di richiamarli e usarli nelle varie circostanze della vita . Aspetto tipico dell’attività letteraria della scuola divennero , quindi , esposizioni riassuntive o raccolte di massime estratte dalle opere del maestro . Di questo tipo é una raccolta di 40 Massime capitali , conservateci da Diogene Laerzio , mentre un codice vaticano contiene le cosiddette Sentenze vaticane . Ai destinatari del suo insegnamento Epicuro non richiede una particolare preparazione culturale ; ogni età é adatta per diventare filosofi , anche la vecchiaia , contrariamente a quanto sembrava aver pensato Platone .
LA CONCEZIONE FILOSOFICA
Per Epicuro la filosofia ha in primo luogo una funzione terapeutica : “Vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana” , egli diceva . Una delle metafore da lui preferite per indicare l’obiettivo della vita filosofica é il galhnismoV , la quiete del mare dopo la tempesta , ma questa situazione di quiete é minacciata e impedita dalle credenze infondate che sovente si generano in noi e procurano ansie e timori : l’ uomo che vive con animo sereno é paragonato a coloro che , al sicuro sulla terraferma , osservano distaccati il mare in tempesta , l’ altrui pericolo . La filosofia deve dunque liberarci da queste credenze e condurci in un porto sicuro senza turbamenti . A tale scopo essa deve preliminarmente mostrare che cosa si può realmente conoscere e come lo si può conoscere . La filosofia si articola pertanto in tre parti : dottrina della conoscenza , fisica ed etica . La dottrina epicurea della conoscenza , o canonica , ravvisa il punto di partenza e il criterio , o canone , del conoscere nelle percezioni sensibili , le quali sono prodotte da qualcosa di esterno o interno a noi . Le sensazioni sono sempre vere , non ingannano mai sulla rappresentazione sensibile dell’oggetto , ma non tutte sono egualmente evidenti . Soltanto quelle evidenti sono testimonianze attendibili sulla realtà oggettiva ; le altre , invece , attendono conferma dalle prime . Il ripetersi di rappresentazioni sensibili evidenti e simili tra loro dà luogo ai concetti generali o prolessi , termine che significa letteralmente anticipazioni . Tali concetti ( per esempio il concetto di uomo o di cavallo ) consentono , infatti , di conoscere in anticipo , in base alle sensazioni già avute dai singoli oggetti , che cosa li contraddistingue . E così , vedendo un certo oggetto , in base a queste anticipazioni , sarà possibile riconoscerlo e dire : questo oggetto che ora percepisco , presentando un certo insieme di proprietà già conosciute mediante un determinato concetto o anticipazione , é un cavallo o un uomo e così via . L’esperienza si genera , infatti , dalla conservazione nella memoria di tali concetti . L’errore nasce , invece , quando le parole che usiamo significano concetti che non corrispondono all’oggetto , e ciò deriva da quello che l’opinione aggiunge alla sensazione . Ciò può dipendere dall’ambiguità delle parole o dalla confusione tra rappresentazioni evidenti e non evidenti . Le rappresentazioni evidenti sono il canone , o criterio , che consente di testimoniare a favore o contro i giudizi che mediante i concetti ci formiamo sugli oggetti . La conferma meno forte é data dall’assenza di una attestazione contraria : per esempio , la proposizione che gli uomini sono mortali riceve una conferma di questo genere dal fatto che la nostra esperienza non ci attesta alcuna eccezione rispetto ad essa . La percezione e i concetti sono collegabili tra di loro in modo da dar luogo a inferenze , che permettono di risalire da ciò che é chiaro a ciò che non lo é : questo punto é di estrema importanza per costruire i capisaldi della dottrina fisica .
LA FISICA E LA COSMOGONIA
La fisica epicurea é , infatti , caratterizzata dal risalire , mediante ragionamento , da ciò che é evidente ai sensi a principi che tali non sono , ossia gli atomi e il vuoto . Epicuro riprende per lo più questi concetti da Democrito e ritiene che un numero infinito di corpi indivisibili , che si muovono entro il vuoto infinito , é ciò che può spiegare il mondo fisico quale appare ai nostri sensi . Egli inferisce questa tesi a partire dall’esperienza , la quale ci attesta che nulla può nascere dal nulla e nulla può finire nel nulla , altrimenti il tutto si sarebbe dissolto col tempo : di qui si giunge alla conclusione che l’universo é sempre stato e sempre sarà quale é ora . D’altra parte , é evidente ai sensi che i corpi dotati esistono e sono dotati , sicchè possiamo inferirne l’esistenza del vuoto , che non é di per sé evidente e contro alla quale aveva già dimostrato Melisso . Infatti se il vuoto non esiste , non può esistere il movimento ; ma il movimento esiste , e tutti possiamo vederlo , dunque esiste anche per forza il vuoto . I corpi , a loro volta , sono suscettibili di disgregazione , ma poichè nulla scompare nel nulla , ciò significa che essi sono composti di entità che permangono indistruttibili : queste entità sono gli atomi . Gli atomi sono di forme innumerevoli , ma non sono dotati di qualità come colore , temperatura e così via . Per Democrito gli atomi , probabilmente , non avevano peso , nè esisteva una direzione privilegiata del loro movimento . Epicuro , invece , attribuisce peso agli atomi , forse in base alla tesi che un corpo privo di peso non é in grado di muoversi . Nell’universo infinito non ci sono un centro , un alto , un basso assoluti : ma per Epicuro si può parlare di un alto e basso relativi ed é appunto verso il basso che gli atomi si muovono grazie al loro peso . Ma se gli atomi si muovono verso il basso verso linee parallele , come é possibile la formazione di corpi ? In queste condizioni , infatti , gli atomi non potrebbero incontrarsi e dare luogo ad aggregazioni . I testi conservatrici di Epicuro non rispondono a questo interrogativo , ma , secondo Lucrezio , Epicuro avrebbe introdotto a questo proposito la dottrina del clinamen o declinazione . Attraverso di essa , egli attribuiva agli atomi anche una tendenza a deviare casualmente dal loro moto perpendicolare verso il basso . In tal modo , gli eventi , e in particolare le aggregazioni tra atomi che danno luogo alla formazione dei corpi composti , perdono ogni carattere di necessità . Riprendeva la dottrina democritea dell’atomismo e dell’infinità : però Democrito diceva che gli atomi si muovevano con moti corpuscolari , Epicuro invece si serve dei concetti di alto e basso , sebbene nell’infinito essi non esistano : gli atomi cadono dall’alto verso il basso ( immaginiamoci una specie di pioggia di atomi ) : ma se andasse così , a rigore , il mondo non potrebbe generarsi perchè gli atomi non potrebbero mai scontrarsi tra loro e cadrebbero verso il basso all’infinito : quindi Epicuro introduce questa teoria della deviazione o klinamen secondo la quale gli atomi avrebbero deviazioni tali da consentir loro di scontrarsi e di creare il mondo . E’ una sorta di correzione del meccanicismo , ossia del mondo visto come grande macchina dove il semplice sbattere d’ali di una farfalla ha il suo spessore . Il klinamen é imprevedibile e questo stona con il meccanicismo . La fisica epicurea , quindi , oltre a non essere farina del suo sacco ( non a caso Cicerone dice ” in physicis totus est alienus ” , ossia sottolinea come Epicuro sia totalmente dipendente da altri ” fisici ” , e soprattutto Democrito ) , é forse il suo ” punto debole ” , probabilmente quello meno riuscito .Va poi detto che Epicuro ha anticipato per alcuni aspetti la fisica moderna : l’idea del klinamen ( e della sua imprevedibilità ) é simile al principio di indeterminazione definito da un fisico moderno tedesco , Werner Heisenberg : ” E’ impossibile conoscere simultaneamente la posizione esatta e la esatta quantità di moto di una particella subatomica . Tanto più esattamente conosciamo la posizione , tanto meno sicuri siamo della quantità di moto , e viceversa ” : é una questione strutturale : l’ osservazione stessa che si effettua di una cosa la modifica già : è già legata a noi per il fatto che la si osservi ; la situazione delle particelle é indeterminata . La struttura dell’universo é spiegabile univocamente , secondo Epicuro , soltanto mediante la nozione di atomo e vuoto presenti nell’universo . Egli respinge la costruzione di modelli astronomici e matematici per spiegare i fenomeni celesti ; su questo punto egli conduce una polemica esplicita nei confronti dell’ Accademia platonica , ma di fatto si allontana anche dalla pratica degli astronomi del suo tempo . La cosmologia di Epicuro poggia su un assunto razionale , in quanto esclude qualsiasi intervento divino e qualsiasi antropoformismo nella concezione degli astri e dei corpi celesti . A differenza di Aristotele Epicuro non ammette alcuna materia privilegiata per i corpi celesti . Nella ” Natura ” , poi , conduce una serrata polemica contro la cosmologia platonica del ” Timeo ” . Egli rifiuta la composizione degli elementi e del cosmo sulla base dei 5 poliedri regolari , che Platone non é stato in grado di dimostrare indivisibili : se non sono indivisibili , dice Epicuro , perchè mai si dovrebbe ritenere che le altre figure siano formate da questi , se questi a loro volte sono formati da altri ? Per quanto riguarda la metereologia , ossia quei fenomeni e eventi lontani da noi , dei quali la causa non é evidente , Epicuro ritiene che siano possibili molteplici spiegazioni . Così per il sorgere e il tramontare degli astri , per le loro dimensioni , per il formarsi di tuoni , lampi , terremoti , venti e così via . Di questi fenomeni si possono fornire più spiegazioni che risultano tutte accettabili , purchè in accordo con i fenomeni e non smentibili da parte di altri fenomeni . Epicuro rifiuta la spiegazione di questi eventi in termini di teleologia ( o finalismo ) , alla maniera di Platone e di Aristotele : essi non avvengono in vista di un fine . Soprattutto egli esclude che gli dei agiscano come cause o agenti provvidenziali sul mondo degli uomini ; in tal modo egli si allontana sia dalle credenze della religione popolare , sia dalle teorie elaborate in proposito dai filosofi .
LA TEOLOGIA
Epicuro ammette l’esistenza degli dei . Un argomento a favore di essa é dato dal consenso di tutti gli uomini : ciò su cui tutti gli uomini sono concordi deve essere vero . Inoltre , tutti ritengono che gli dei siano immortali , felici e dotati di figura umana . Ma queste credenze non sono altro che prolessi , concetti derivati dall’esperienza : per esempio , durante il sonno si hanno visioni di dei , le quali , quindi , come ogni prolessi , derivano da oggetti reali . Un’ altra dimostrazione dell’esistenza divina é proprio data dai sogni , dove compaiono anche le divinità , che sono per Epicuro antropomorfi , uguali a come ci appaiono nei sogni . Per Epicuro la divinità non si interessa minimamente delle vicende umane ed egli lo dimostra con un ragionamento simile a quello aristotelico : la divinità é una realtà beata , e se si occupasse delle vicende umane come potrebbe esserlo ? Sarebbe un’autodiminuzione occuparsi di tali cose . Ma gli dei dove stanno ? Epicuro é un materialista e quindi deve pur collocarli da qualche parte : egli li colloca negli ” intermundia ” , ossia gli spazi che separono un mondo dall’altro . Tuttavia dire che gli dei non si curano delle vicende umane non vuol dire che siano irrilevanti : essi sono un modello da imitare per l’uomo ( come Epicuro era per i suoi seguaci ) ; gli dei vivono la migliore delle vite , piena di felicità e l’uomo imitandoli può condurre una vita uguale alla loro : da qui nasce la teoria secondo cui l’uomo é uguale agli dei , può assimilarsi ad essi ( viene ripreso il concetto dell’ ” omoiosiV qeo ” , il diventare come un Dio , di Platone ) . L’unica differenza tra uomo e dei é che loro hanno la vita eterna ( e di conseguenza la felicità eterna ) , l’uomo no . Ma che cosa mi importa se c’è la felicità quando io non ci sono più , diceva Epicuro ? ” Non é infatti per me cosa piccola o priva di importanza ciò che rende la mia disposizione d’ animo simile a quella degli dei e indica che non siamo inferiori alla natura incorruttibile e beata , nonostante la nostra condizione mortale . Perchè , da vivi , possiamo godere di una felicità pari a quella degli dei anche se si sia ricevuta una diminuzione ; ma se non si é in grado di sentire , in che modo si può ricevere una diminuzione ? ” ( Lettera alla madre ). Se per Aristotele la divinità muoveva il mondo , per Epicuro essa muove gli uomini , che devono tentare di imitarla ( esattamente come i pianeti per Aristotele imitavano l’ eternità e la perfezione di Dio ) . Tra l’altro questa concezione della divinità che non interviene nel mondo umano sortisce anche un altro effetto : dissipa il timore per la divinità , che non va temuta in quanto non interverrà mai nel nostro mondo . Per Epicuro la religione tradizionale degenera in superstizione e atteggiamenti ridicoli dati dalla paura che l’uomo prova nei confronti di dio : ” non é irreligioso chi rinnega gli dei del volgo , ma chi le opinioni del volgo applica agli dei ” dice Epicuro . Epicuro utilizza a proposito degli dei che appaiono nel sonno la dottrina , già in parte democritea , secondo la quale dagli oggetti emanano incessantemente flussi di atomi , detti eidwla ( letteralmente immagini ) , i quali conservano fedelmente la configurazione degli oggetti da cui provengono , se non subiscono modificazioni nel loro tragitto . Ma gli dei , secondo Epicuro , non sono composti come gli altri oggetti , altrimenti sarebbero anch’essi sottoposti ai processi di disgregazione . Gli dei , invece , sono immortali , immuni da dolori , e vivono beati in quelli che in latino saranno detti intermundia , gli spazi che separano tra loro gli infiniti mondi . La condizione di beatitudine , ossia l’assenza di ogni genere di turbamento , é usata da Epicuro per dimostrare che gli dei non si occupano del mondo e delle cose umane . Attribuire agli dei il governo del mondo equivarrebbe a privarli della beatitudine , che é propria della loro condizione divina . Altro argomento , forse di origine epicurea , contro la provvidenza divina é quello che fa leva sulla presenza del male nel mondo . Se gli dei intervengono nelle vicende del mondo , perchè non eliminano il male ? Le risposte possibili hanno la forma di una disgiunzione completa : o perchè non possono o perchè non vogliono o perchè nè possono nè vogliono . Ma se non possono , gli dei sono impotenti ; e se non vogliono sono invidiosi , ossia non sono divinità buone . Impotenza e invidia sono caratteristiche incompatibili con la nozione di divinità . D’altra parte se possono e vogliono , come mai il male continua a essere presente nel mondo ? L’unica soluzione che consente di non attribuire alla divinità caratteristiche negative consiste , allora , nel riconoscere che gli dei non si occupano del mondo e delle faccende umane , perchè in fondo sarebbe un’autodiminuzione da parte loro ( come direbbe Aristotele ) . Gli dei sono indifferenti all’uomo , nè minacciosi nè benigni , e la natura non é un ordine protettivo nel quale gli esseri umani sono inseriti . Con queste argomentazioni Epicuro ritiene di eliminare uno dei timori che attanagliano gli uomini e impediscono loro di raggiungere la serenità : il timore degli dei , di un loro intervento e della loro possibilità di assegnare premi o castighi . Ma gli uomini vivono anche in preda ad un altro timore , il timore della morte , con il conseguente desiderio di immortalità ; al filosofo , invece , interessa la qualità , non la quantità della vita . Epicuro cerca quindi di elaborare un’argomentazione che liberi gli uomini anche da questo timore . Le premesse di essa sono date dai principi della dottrina fisica . L’uomo é un composto di atomi e vuoto , in quanto anche l’anima é costituita da un tipo particolare di atomi di forma sferica . La morte equivale alla disgregazione di questo composto ; ma con essa viene meno ogni possibilità da parte dell’uomo di percepire questo evento , perchè la sensibilità é legata alla condizione di integrità di quel composto atomico che é l’uomo . Questo punto é compendiato da Epicuro nell’affermazione che la morte non va temuta , perchè quando ci siamo noi non c’é lei , e quando c’é lei non ci siamo noi . L’ uomo di fronte alla morte deve ragionare così : se la vita trascorsa é stata colma di gioia ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto ; se al contrario é stata segnata da dolori e tristezze , perchè desiderare che essa prosegua ? Solo gli stolti vogliono ad ogni costo continuare a vivere , anche se nulla di nuovo li può attendere perchè accadono sempre e solo le stesse cose ! La liberazione da questi due timori é per Epicuro condizione fondamentale per raggiungere il fine della vita umana , essa fa parte del quadruplice farmaco (tetrafarmakos ) predisposto dalla filosofia , il quale provvede a liberare anche da altri due timori , quello del dolore e dell’irraggiungibilità della felicità . In altre parole nella teoria del quadrifarmaco Epicuro dice che la filosofia 1) libera l’uomo dalla paura degli dèi , che non si curano delle vicende umane 2) libera l’uomo dalla paura della morte , che é semplicemente una disgregazione di atomi ; 3) dimostra la brevità e provvisorietà del dolore : il dolore se é intenso é breve , se é lungo non é intenso e se é intensissimo porta in fretta alla morte , la quale é assoluta insensibilità ; 4) dimostra la facile raggiungibilità della felicità, che consiste nel piacere ( quello catastematico ) . L’apprestamento dei piaceri é compito della terza parte della filosofia , l’etica . Già Eudosso aveva sottolineato che tutti gli esseri aspirano al piacere . Anche Epicuro ripone nel piacere ( in greco edonh ) il fine della propria vita umana , ma , diversamente da quanto aveva pensato Platone nel ” Gorgia ” , piacere e dolore non sono contrari , bensì contradditori , nel senso che se c’é l’uno non c’é l’altro e viceversa . Come le sensazioni e i concetti sono i criteri di verità , così le sensazioni di piacere e di dolore sono i criteri della scelta . Il piacere é dunque definito in primo luogo come assenza di dolore ( alupia ) e caratterizza la condizione di chi gode di una buona condizione di salute fisica e psichica . Il dolore , invece , sia fisico sia psichico , é turbamento di questa condizione naturale . Turbamenti di questo genere sono per esempio i timori degli dei e della morte , prodotti da false credenze .
IL PIACERE
Partendo dalla constatazione che ogni piacere è di per sé un bene , ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi , Epicuro distingue tra piacere cinetico o in movimento , il quale accompagna un processo ed é sempre mescolato al turbamento o al dolore , e piacere catastematico o stabile ( in greco edonh katasthmatikoV ) , proprio invece da uno stato privo di dolori . Contrariamente ai cirenaici , che indicavano nel piacere del momento l’obiettivo da perseguire , Epicuro ripone il fine nel piacere catastematico . Esso coincide con la completa soddisfazione del desiderio , che di per sè é una condizione dolorosa legata a uno stato di mancanza . I desideri , a loro volta , si distinguono in desideri naturali e necessari , per esempio il cibo , e desideri non necessari . Soltanto i primi possono e devono essere integralmente soddisfatti , secondo Epicuro , mentre gli altri non possono mai essere soddisfatti completamente e quindi si accompagnano sempre al dolore . Il piacere stabile per Epicuro é l’assenza di dolore , mentre i piaceri in movimento sono quelli accompagnati dal dolore ( come già diceva Platone nel ” Gorgia ” ). Epicuro ha distinto: 1) piaceri naturali e necessari, 2) piaceri naturali ma non necessari, 3) piaceri non naturali e non necessari.
1. Fra i piceri del primo gruppo egli pone i piaceri che sono strettamente legati alla conservazione della vita dell’individuo, essi sono gli unici che veramente giovano sottraendo il dolore del corpo (mangiare quando si famen, bere quando si ha sete….) Questi piaceri vanno sempre e comunque soddisfatti perchè hanno un preciso limite dalla natura che permette l’eliminazione del dolore
2. Nel secondo gruppo abbiamo tutti quei desideri e piaceri che sono variazioni superflue dei piaceri del primo gruppo: mangiare troppo, bere bevande raffinate. Questi piaceri non hanno più quel limite perché non sottraggono il dolore corporeo, ma variano solo il piacere e possono provocare un notevole danno.
3. Abbiamo i piaceri vani nati cioè dalle vani opinioni degli uomini, sono tutti desideri legati al desiderio di ricchezza, potenza e onore.
Questi piaceri non tolgono dolore al corpo ma provocano sempre turbamento all’anima. Va fatto notare inoltre il carattere sensiobile del piacere, sono tutti piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Tutto ciò poiché secondo Epicuro la sensazione è il canone fondamentale della vita dell’uomo. Occorre precisare che se per edonismo si intende una dottrina che indica nel piacere il fine della vita umana , Epicuro é un edonista , ma se per edonismo s’intende una dottrina che indica questo fine nel perseguimento di qualsiasi piacere , Epicuro non é un edonista . Egli , anzi , ben lungi dal farsi sostenitore di una vita dissoluta , contrappone la frugalità , legata al soddisfacimento dei bisogni naturali e necessari , al lusso e alla crescita illimitata e artificiale dei desideri ; il piacere , infatti , non si può accrescere a suo avviso oltre un certo limite . Inoltre , proprio perchè il piacere coincide con l’assenza di dolori , per perseguirlo occorre effettuare una sorta di calcolo dei piaceri , ponendo sulla bilancia anche i piaceri o i dolori futuri che possono conseguire dalla scelta presente di un piacere o di un dolore ; la scelta migliore sarà quella che darà luogo al piacere maggiore : dice infatti Epicuro: ” Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si realizza il mio desiderio, e che cosa, se non si realizza ? ” . Il filosofo non avrà dunque timore dei dolori , perchè se sono forti , durano poco , mentre se durano a lungo , col tempo non sono più sentiti . Lo stesso Epicuro conservò un atteggiamento di tranquilla serenità di fronte alle malattie che lo tormentarono fino alla morte ( un tumore alla prostata ) . La felicità consisterà in una vita colma di piaceri , nel significato che si é chiarito . In tal modo , il filosofo raggiungerà quella ataraxia , assenza di turbamenti , che lo farà vivere come un dio tra gli uomini . Anche per Epicuro , come già per Aristotele , il modello ultimo della vita filosofica é la vita divina , ma questa non consiste più , come per Aristotele , nell’attività teoretica di studio disinteressato dell’universo e della natura , bensì nell’esercizio privo di turbamenti della saggezza nella condotta della propria vita . L’uomo é libero nel perseguimento del piacere e della felicità . Il clinamen , eliminando la necessità assoluta e introducendo un elemento di casualità nell’universo e quindi anche nel moto degli atomi che costituiscono l’anima umana , é la condizione di possibilità dell’azione libera dell’uomo ( il libero arbitrio ) . Epicuro non voleva cadere in contraddizione e cadere in contraddizione significava cadere nel determinismo : la sua é una filosofia con scopi morali e un insegnamento morale sarebbe privo di senso se si fosse convinti che tutto avviene in maniera necessaria , compreso il comportamento : che senso avrebbe , infatti , dire ad uno di comportarsi in un modo , se non vi é libertà di scelta ? E’ per questo che Epicuro e la sua filosofia ruotano attorno ad un indeterminismo naturale , che già abbiamo incontrato nel klinamen : vi é un margine di indeterminazione che garantisce la libertà : l’uomo può scegliere come agire e dunque l’insegnamento morale ha un suo senso : é sensato dare consigli all’uomo su come comportarsi , visto che egli può scegliere . E del resto, nella ‘Lettera a Meneceo’, Epicuro dichiara che ‘ piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità ‘ . Abbiamo già detto che Epicuro é vicino alla fisica moderna per l’indeterminismo ; ora aggiungiamo che egli lo é anche a riguardo delle spiegazioni multiple che egli fornisce : infatti oltre che all’etica , Epicuro si occupa anche di fisica : infatti può essere utile conoscere come é fatta la realtà per saper vivere in modo più sereno ( vedi la religione ) . Spiegare in termini fisici certi eventi dà serenità : i fulmini , i tuoni , i terremoti … Questo non toglie la gravità dell’evento , ma tuttavia dissipa le paure irrazionali . Non sono eventi divini , ma fisici : spiegazioni ad essi ce ne sono svariate ed é impossibile sapere quella esatta : più di una può essere valida . L’accettazione di più spiegazioni ha valenza etica : l’importante é sapere che é spiegabile in termini fisici : la fisica moderna é un pò dello stesso parere di Epicuro : il fenomeno della luce , per esempio , ha dato vita a parecchie dispute nel corso della storia : vi fu chi disse che essa era di origine corpuscolare , chi invece sostenne che fosse ondulatoria ; poi si é scoperto che alcuni fenomeni luminari sono corpuscolari , altri ondulatori : la luce può quindi essere sia l’una sia l’altra cosa . Così é anche per Epicuro .
LA SOCIETA’
Per Epicuro , però , la piena realizzazione dei fini umani non é raggiunta attraverso la partecipazione attiva alla vita politica e associata : su questo punto egli si allontana decisamente dal Platone della ” Repubblica ” e in parte anche da Aristotele . La società e le tecniche si sono costituite e sviluppate sotto la spinta della ricerca dell’utile , ossia per raggiungere il piacere ed evitare il dolore , ma , secondo Epicuro , il vero luogo in cui il piacere e la felicità possono essere perseguiti e raggiunti é la piccola comunità di amici raccolti intorno ad un maestro , cioè la scuola filosofica , non la città . La città per Epicuro é propriamente soltanto condizione negativa rispetto a questo scopo . Egli definisce , inoltre , la giustizia come un patto o contratto ( nomoV ) stipulato allo scopo di non recare o subire danni . Essa quindi non é una virtù cooperativa , come aveva voluto Platone , ma una convenzione , dettata non da obblighi morali nè dalla natura , bensì dall’utile individuale . Lo scopo é quello della protezione e della difesa : acconsentire di non danneggiare altri a patto che essi non danneggino me . La città come istituzione dovrebbe garantire rispetto di questo patto , ma la vita politica appare a Epicuro come un terreno di conflitti e competizioni , dunque , soltanto quando é l’unica via per garantire la propria sicurezza , essa deve essere praticata , mentre in ogni altra circostanza , l’uomo saggio si asterrà da essa . A questo proposito va senz’altro citato il motto di Epicuro ” vivi di nascosto ” ( in Greco laqe biwsaV ) al quale possiamo affiancare quello di Ovidio : ” Bene qui latuit , bene vixit ” . Ciò non significa vivere una vita solitaria o rompere i legami con la città alla maniera dei cinici . Si tratta , invece , di non ricercare nella città la felicità e l’autosufficienza che soltanto i legami di amicizia possono assicurare . Epicuro ravvisa , infatti nell’ amicizia un grande bene , ossia una causa di massimo piacere e felicità . E l’amicizia é realizzata pienamente soltanto nella piccola cerchia della scuola filosofica , al riparo dalle tempeste della vita. Epicuro stesso sentiva fortemente questo sentimento tanto che fece di tutto ( e ci riuscì ) per far liberare un amico fatto prigioniero a Corinto , come testimoniano i papiri di Ercolano . Il giardino era un luogo privato dove l’amicizia era centrale : tra l’altro l’amicizia é l’unico sentimento coerente alle dottrine epicuree : la politica va evitata , le passioni anche ( in quanto piacere dinamico ) . Se le passioni vanno eliminate , la dimensione sessuale per Epicuro é invece connaturale all’uomo e non va eliminata : Epicuro proponeva un uso terapeutico della vita sessuale , che non va ripudiata perchè permette la perpetrazione della specie ; senz’altro la ricerca efferata del piacere va eliminata . Epicuro a differenza di Platone , dice che l’amore fisico é connaturale all’uomo , mentre l’erwV va abolito : é passionale e non fa che creare nell’uomo un male interiore . L’amicizia rimane il migliore dei sentimenti perchè é distante dalla politica e dall’amore : vi é per Epicuro nell’ amicizia una serenità più profonda , superiore a quella dell’amore , perché più facilmente si può conservare libera da sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il dolore del distacco o la paura di non essere riamati. L’atteggiamento di Epicuro verso gli altri uomini è riassumibile nella sua massima: “E’ non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo”. In questa massima, il piacere assurge a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti gli uomini. Con i suoi insegnamenti, spiegando che ‘ non gioverebbe a niente il procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini finchè si continuasse a nutrire timore riguardo a ciò che sta sopra di noi, o sottoterra, o in generale nell’infinito ‘, Epicuro riuscì a prestar soccorso (in greco epikouroV vuol proprio dire ‘soccorritore’) agli uomini, incapaci di condurre la loro vita serenamente. Se l’epicureismo si spense fu soprattutto per via del cristianesimo, che aveva una concezione della vita diametralmente opposta. Certo, già a Roma la dottrina epicurea era stata vista come pericolosa per i tradizionali valori ( i mores maiorum ), ma fu il cristianesimo a darle il colpo di grazia, forse anche per il fatto che i pagani si appellarono più allo stoicismo e al platonismo che non all’epicureismo. E così, per tutto il Medioevo, la nobilissima teoria di Epicuro, fu vista come eresia e non a caso Dante pone tutti gli Epicurei nell’Inferno, poichè per essi l’anima muore insieme al corpo.
QUALCHE GIUDIZIO
Lucrezio , il famoso poeta latino contemporaneo di Catullo e Cicerone , scrisse un intero poema ( De rerum natura ) dedicato alla filosofia epicurea , colmo di elogi volti al maestro Epicuro : grazie al suo ingegno superò il genere umano e tutti privò di luce , come al suo sorgere il sole nell’ etere spegne le stelle
Nel Rinascimento l’ italiano Lorenzo Valla si avvicinò alle tesi epicuree , condannate per tutto il medioevo dalla Chiesa : perchè mai perseguire il piacere dovrebbe essere peccaminoso , egli si chiede nel De voluptate , quando la Chiesa stessa , predicando la resurrezione dei corpi , sostiene che i giusti , come premio finale , godranno ?
Nel 1600 , il secolo della ragione e della matematica , aderì all’ epicureismo perfino un sacerdote , il francese Pierre Gassend , che nel Syntagma philosophicum riprende la teoria atomica epicurea , sostenendo , da buon religioso , che gli atomi non sono eterni , bensì vengono creati da Dio , il quale può anche disfarli , e propugnando l’ immortalità dell’ anima .
Giacomo Leopardi , esempio di radicale ateismo , riprendendo i versi di Lucrezio , scrisse a riguardo di Epicuro : Nobil natura é quella / che a sollevar s’ ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato , e che con franca lingua / nulla al ver detraendo , / confessa il mal che ci fu dato in sorte , / e il basso stato e frale
Karl Marx, il futuro teorico del comunismo, conseguì la laurea con una tesi intitolata Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro . Marx fu attratto dall’epicureismo soprattutto per via del suo spiccato materialismo e della sua forte razionalità. Non a caso, nella tesi Marx definisce Epicuro come ‘ il più grande illuminista greco ‘, interpretando la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele. E’ possibile un nuovo avvio filosofico dopo il compimento della filosofia nelle grandi sintesi sistematiche? Secondo Marx proprio in questi momenti diventa possibile la ripresa di contatto della filosofia con la realtà, la sua realizzazione nel mondo esterno.
Federico Nietzsche , il folgorante profeta del superuomo , scrisse in uno dei suoi capolavori filosofici ( Umano , troppo umano ) : Un giardino , fichi , piccoli formaggi e insieme tre o quattro buoni amici : fu questa la sontuosità di Epicuro ; Epicuro ha vissuto in tutti i tempi , e vive ancora , sconosciuto a quelli che si dissero e si dicono epicurei , e senza fama presso i filosofi . Del resto egli stesso dimenticò il suo nome : fu il bagaglio più pesante che avesse mai gettato via . Nietzsche scrisse anche, in La gaia scienza (af. 45): ‘ Sì, sono fiero di sentire il carattere di Epicuro in modo diverso, forse, da chiunque altro, e soprattutto di gustare in tutto ciò che di lui leggo e ascolto la gioia pomeridiana dell’antichità – vedo il suo occhio che guarda un vasto,albicante mare, oltre gli scogli delle coste su cui si posa il sole, mentre grandi e piccole fiere giuocano nella sua luce, sicure e placide come questa luce e quell’occhio stesso. Una tale gioia l’ha potuta inventare solo un uomo che ha perpetuamente sofferto, la gioia di un occhio davanti al quale il mare dell’esistenza si è quietato e che non si sazia più di guardare la sua superficie, e questo screziato, tenero, abbrividente velo di mare: non era mai esistita prima di allora una tale compostezza della voluttà. ‘ Sempre in La gaia scienza troviamo scritto: ‘ L’epicureo si sceglie la situazione, le persone e perfino gli avvenimenti che si armonizzano con la sua costituzione intellettuale estremamente eccitabile, egli rinuncia al resto, vale a dire al più, perchè sarebbe per lui un cibo troppo forte e pesante. ‘ In Il viandante e la sua ombra (af. 8), poi, Nietzsche scrisse: ‘ Epicuro, l’acquietatore d’anime della tarda antichità, comprese meravigliosamente, come ancor oggi così raramente si comprende, che per tranquillizzare l’animo non é affatto necessario risolvere le ultime ed estreme questioni teoriche. Sicchè a coloro che erano tormentati dalla ‘paura degli dèi’, gli bastava dire:” se ci sono gli dèi, essi non si preoccupano di noi “,- invece di disputare sterilmente e da lontano sulla questione suprema, se ci siano in genere dèi. Questa posizione é molto più favorevole e forte: si danno all’altro alcuni passi di vantaggio, rendendolo così più pronto ad ascoltare e a ponderare. Ma non appena quegli si accinge a dimostrare il contrario,- che gli dèi si preoccupano di noi,- in quali errori e intrichi spinosi non dovrà cadere il misero, affatto da sè, senza astuzia da parte dell’interlocutore? Costui deve solo avere abbastanza umanità e finezza da nascondere la sua compassione per questo spettacolo. Da ultimo l’altro giunge alla nausea, l’argomento più forte contro quella proposizione, alla nausea per la sua stessa affermazione; si raffredda e va via con lo stesso stato d’animo che é anche dell’ateo puro: “cosa importa poi a me degli dèi? Che il diavolo se li porti!”.- In altri casi, specie quando un’ipotesi a metà fisica e a metà morale aveva offuscato l’animo, egli non confutava questa ipotesi, bensì ammetteva che poteva essere così, ma che per spiegare lo stesso fenomeno c’era ancora una seconda ipotesi; e che forse la cosa poteva stare ancora diversamente. Anche nel nostro tempo la pluralità delle ipotesi, per esempio sull’origine dei rimorsi della coscienza, basta per togliere dall’anima quell’ombra che così facilmente nasce dal ruminare un’ipotesi unica, la sola visibile, e pertanto cento volte sopravvalutata. – Chi dunque desidera largire conforto, a infelici, malfattori, ipocondriaci, morenti, si ricordi delle due espressioni tranquillizanti di Epicuro, che si possono applicare a moltissime questioni. Nella forma più semplice esse suonerebbero all’incirca: primo: posto che la cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo: può essere così, ma può anche essere diversamente. ‘ E, infine, in La volontà di potenza , af. 438, (opera postuma) il filosofo scrisse: ‘ La lotta contro la ‘fede antica’ intrapresa da Epicuro fu, in senso stretto, una lotta contro il cristianesimo preesistente- lotta contro il vecchio mondo intristito, moralizzato, inacidito da sentimenti di colpa, diventato decrepito e infermo. ‘
NIETZSCHE
BREVE INTRODUZIONE
Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso é un dio a danzare, se io danzo.
Federico Nietzsche é una delle grandi figure del destino della storia dello spirito occidentale, un uomo che costringe alle estreme decisioni, un terribile punto interrogativo sul cammino lungo il quale era andato fino ad allora l’uomo europeo, cammino determinato dalla eredità dell’antichità e di duemila anni di cristianesimo. Nietzsche rappresenta la spietata ed acuta negazione del passato, il rifiuto di tutte le tradizioni, l’appello ad una svolta radicale. Nietzsche è il filosofo che mette in dubbio tutta la storia della filosofia occidentale, che cerca, dopo venticinque secoli di interpretazione metafisica dell’essere, un nuovo principio. Egli sovverte i valori occidentali ed è volto verso il futuro; ha un programma, un ideale, che è quello della “grande salute”. All’inizio della sua riflessione, Nietzsche fu influenzato da Schopenhauer, per il quale la vita è crudele e cieca irrazionalità, è dolore e distruzione. Ma egli non si ferma non si ferma al pessimismo di Schopenhauer: il sentimento tragico della vita è accettazione della vita stessa, è una esaltante adesione a tutti gli aspetti dell’esistenza, anche a quelli più terribili, poiché tutto fa parte dell’immensa marea della vita. Ne La nascita della tragedia (1872), Nietzsche vede nel mondo greco la stagione spiritualmente più alta e ricca dell’umanità. La civiltà greca era infatti nutrita da un vigoroso senso tragico, che è per Nietzsche l’autentico modo di rapportarsi alla vita: è accettazione di essa, coraggio davanti al Fato. L’uomo greco vedeva dappertutto l’aspetto orribile e assurdo dell’esistenza: ma egli seppe, nell’arte, trasfigurando l’orribile e l’assurdo in immagini ideali, rendere accettabile la vita. La grande tragedia greca è la forma suprema di arte, in quanto in essa si compongono gli impulsi vitali creativi (spirito dionisiaco), e la moderazione, l’equilibrio, la razionalità (spirito apollineo). Dalle Considerazioni inattuali (1873-74) in poi, Nietzsche inizia la sua critica ad ogni manifestazione culturale. La coscienza e il linguaggio si sono sviluppati dal bisogno di comunicare, comandare, difendersi. La scienza non è che il proseguimento della costruzione concettuale iniziata nel linguaggio; anch’essa è solo capace di ricondurre utilitaristicamente il mondo ad unità, creando l’immagine di un universo “regolare e rigido”, e si limita perciò a descrivere la superficie delle cose. Essa vuole parlare il linguaggio dei fatti, ma il fatto è sempre stupido, non parla da sé ma ha bisogno di qualcuno che lo interpreti. Dunque la scienza non è mai pura, né oggettiva perché non esiste conoscenza senza presupposti, e che non sia uno strumento in mano a qualche forza. Si pratica la scienza, insomma, per desiderio di sicurezza, per fuggire fantasmi e paure, per sete di possesso e di dominio. In quanto poi alla storia (cfr. la seconda delle Considerazioni inattuali intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita), essa serve all’uomo perché ha bisogno di avere dei maestri ideali. Ma se la storia dice di poter servire alla vita, non può però pretendere di essere una scienza oggettiva; d’altra parte, se vuole essere una scienza, essa diventa una sorta di statica conclusione e di inutile bilancio di vite. In più, la società moderna tende a trasformare le cose in eventi, che obbediscono ad una legge inesorabile ed estranea all’uomo. L’individuo non è altro che uno spettatore di un processo, la Storia, che lo supera e lo travolge. Gli scritti successivi (Umano, troppo umano,1878-80; Aurora, 1881; La gaia scienza,1882), aprono la fase “neoilluministica” di Nietzsche. Egli vuole deliberatamente mettere tutto in discussione: romanticismo, idealismo, positivismo, socialismo, evoluzionismo, cristianesimo, metafisiche e dogmatismi vari. Tutte le realtà che sono state presentate come nobili, vere, spirituali sono in realtà “umane, troppo umane”. Sono costruzioni che esprimono solo gli istinti, appetiti, passioni e interessi più intimi dell’uomo. Nietzsche rifiuta così ogni tipo di metafisica e di religione, ed attacca lo stesso concetto di verità: secondo Nietzsche si sono chiamate verità gli errori utili, quelli che sono indispensabili all’uomo per poter vivere, giacché non sopporta il vivere senza un senso. La volontà di verità ha la sua radice proprio nel bisogno di stabilità, nella paura di instabilità. Ma non esiste nessuna verità se non all’interno di una interpretazione ed in riferimento ad una particolare prospettiva. In altre parole, non vi sono verità evidenti se non all’interno di categorie storicamente instaurate dagli uomini. Per quanto riguarda la religione, Nietzsche definisce il cristianesimo come “platonismo per il popolo”, nel senso che afferma due realtà, di cui quella che non si vede è la più importante. Non solo: il cristianesimo oppone i valori del cielo a quelli della terra. Così esso è la religione dei deboli, dei vinti. L’ateismo, appare quindi a Nietzsche come l’unica alternativa per liberare l’uomo. Esso è in lui qualcosa di ovvio: “Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una risposta così grossolana. Dio è una risposta grossolana, un’indelicatezza verso noi pensatori; anzi, addirittura, non è altro che un grossolano divieto contro di noi: non dovete pensare” (cfr. Ecce homo). Ne La gaia scienza Nietzsche sostiene che l’uomo ha ucciso Dio. “Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso” ( fr. 125). La civiltà occidentale ha ucciso Dio a poco a poco, ma, uccidendo, ha perso ogni punto di riferimento. Dicendo che “Dio è morto!” Nietzsche vuol indicare insomma che sono morti gli ideali ed i valori del mondo occidentale. Dio è stato ucciso perché in Lui era sintetizzato tutto ciò che era contro la vita. Però, ora che Dio è morto, l’uomo non sa più che cosa fare: è privo di valori ed è quindi solo, sperduto “nel gran mare dell’essere”, senza punto d’appoggio. Non c’è che una alternativa: è l’uomo stesso che deve creare i valori. Ma quali? Prima di proporre una nuova tavola di valori, Nietzsche si dedica allo smantellamento della morale. In Al di là del bene e del male (1886) e nella Genealogia della morale (1887), egli risale all’origine dei comportamenti morali. La morale per Nietzsche è uno strumento di dominio: essa consiste nella costituzione di valori presentati come universali e auto-evidenti, ma in realtà astratti e repressivi. In nome di tali valori, alcuni uomini (i “buoni”) ne soggiogano altri (i forti). Vi sono infatti due tipi di morale: la morale dei sani, dei forti, che privilegia l’individualismo, la fierezza, l’amore per la vita; e vi è poi la morale degli schiavi, dei deboli, che è sociale e utilitaristica, che predica la democrazia e via dicendo. La morale degli schiavi è nata col cristianesimo ed è sorta per il risentimento verso la classe dei forti: infatti i mediocri non sanno elaborare nulla di proprio e di autonomo, la vera azione è loro negata, ed allora trovano il compenso in una vendetta immaginaria. Il disinteresse, l’abnegazione, il sacrificio di sé sono il frutto del risentimento dell’uomo debole verso la vita. I deboli, che non sanno vivere, hanno fatto diventare valore la negazione della vita; è questa la vendetta dei deboli contro i forti. La morale tende così ad indebolire l’uomo. L’essere umano desiderava soddisfare le proprie pulsioni, realizzarsi in questo mondo. La morale lo ha invece spinto a credere in una specie di anti-mondo, lo ha portato ad allontanarsi dalla sua natura originaria, che è terrestre. Ma la natura si è vendicata e gli istinti si sono rifugiati all’interno dell’uomo. Nietzsche ha anticipato qui Freud: ha scoperto la resistenza degli istinti e delle pulsioni, la impossibilità di annullarli con la forza della coscienza e della morale. Ed ha scoperto che, se non sono liberati per vie naturali, essi possono esercitare un’azione ancora più perversa. L’uomo appare così a Nietzsche come un “animale malato”. Orbene, per liberare l’uomo da questo nichilismo (nella sua storia l’Occidente ha progressivamente negato i valori vitali), Nietzsche propone una trasvalutazione di tutti i valori, una nuova tavola di valori che realizzino l’ideale della “grande salute”. Per poterla attuare, egli ha elaborato i concetti di volontà di potenza, superuomo ed eterno ritorno. In Così parlò Zarathustra (1883-85), Nietzsche mette in bocca a Zarathustra la dottrina della “morte di Dio”, che è l’inizio della liberazione da tutti gli idoli metafisici. L’uomo vivrà felice e libero quando si sarà liberato da tutti i legami, anche da quelli stessi di “uomo” e “umanità”. “L’uomo deve essere superato” affinché arrivi il Superuomo o Oltreuomo. Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E’ un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità. E’ un essere “fedele alla terra”, alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni. La “fedeltà alla terra” è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza). Non più “tu devi”, ma “io voglio”. Il superuomo è inoltre un essere socievole, rappresentato da Zarathustra che balla. Egli ha abbandonato ogni fede, ogni desiderio di certezza, per reggersi “sulle corde leggere di tutte le possibilità”. La sua massima è: “Diventa ciò che sei”. La libertà del superuomo è una ricchezza di possibilità diverse, da qui appunto la rinuncia ad ogni certezza assoluta e da qui anche la profondità tipica del superuomo, l’impossibilità di definire e giudicare la vita interiore, dalla quale non si attinge altro che la maschera (“Tutto ciò che è profondo, ama mascherarsi”). Il superuomo è il filosofo dell’avvenire; è un uomo senza patria né mèta per poter insegnare ad amare la ricchezza e la transitorietà del mondo. Con la sua “diversità di sguardo”, egli cerca di rendere più degno il pensiero della vita, di dare al mondo un altro valore, un’altra verità: la verità non è qualcosa da riconoscere ma da creare. Con la libertà che nasce dall’abbandono delle vecchie illusioni e certezze, egli osa “spostare le pietre di confine” e aprire alla ricerca nuovi orizzonti. La volontà di potenza, come abbiamo già accennato, è la volontà di creare sempre, incessantemente, dei valori nuovi, cioè creare il senso della terra; quindi tutte le cose dipendono dalla volontà, dalla mia volontà. E’ questo può introdurci al terzo concetto, quello dell’eterno ritorno dell’uguale. Nietzsche vuole polemizzare così contro lo storicismo e l’evoluzionismo e, d’altra parte, rifiuta la riduzione della realtà a meri eventi effimeri, senza valore. Per Nietzsche, tutto quanto accade, è già accaduto, e tornerà ad accadere. Nulla avviene a caso; e quando avviene, avviene per sempre, non si dissolve, ritorna eternamente. Questa dottrina – dice Nietzsche – è una condanna solo per gli uomini mediocri, poiché per essi torneranno sempre frustrazioni e sconfitte. Ma per il superuomo, invece, l’eterno ritorno indica che in ogni momento si può cominciare una nuova vita. Per questo esso richiede un impegno assoluto: il superuomo è consapevole che ogni suo atto si inserisce in una realtà eterna. L’eterno ritorno è anche il sì che il mondo dice a se stesso, è l’autoaccettazione del mondo, la volontà cosmica di riaffermarsi e di essere se stesso: dall’eternità il mondo accetta se stesso e quindi si ripete. L’eterno ritorno è così una verità terribile. Bisogna però fare di più che “sopportare” un simile pensiero : bisogna amarlo, bisogna promettere noi stessi all’”anello degli anelli”! La formula per la grandezza dell’uomo è dunque l’amor fati, non volere nulla di diverso da quello che è, non solo sopportare quello che è necessario, ma amarlo appassionatamente e quindi volerlo. Questo amore libera l’uomo dalla schiavitù del passato, giacché per lui tutto quello che è stato si trasforma in “ciò che io volevo che fosse”. Il presente, in quanto momento della decisione, ha la capacità di far ritornare il passato riassumendolo nell’atto della decisione. E’ quindi proprio nella decisione che il tempo si crea come tale, dividendosi in passato, presente e futuro.
Riassunto generale
“Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall’esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un’aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso – ma che è troppo curioso per non ‘tornare a se stesso’ ogni volta” (Al di là del bene e del male, § 292).
Nietzsche e Freud sono accomunati dall’aver smantellato in profondità, seppur con differenti modalità, le certezze del mondo ottocentesco e della sua fiducia razionalistica, già peraltro fatte scricchiolare da Schopenhauer e da Kierkegaard. Il bersaglio a cui indirizzano le loro critiche è costituito tanto dal panlogismo hegeliano quanto dal masterialismo marxiano e dallo scientismo positivistico, filosofie che hanno in comune una fiducia esasperata nel progresso. Ed è a partire da queste critiche che Freud e Nietzsche, così diversi tra loro, mettono in discussione i punti apparentemente più stabili della civiltà occidentale. I due pensatori, poi, sono tra loro accostabili perchè non possono essere considerati filosofi nel senso classico del termine: Freud è prima di tutto un medico e Nietzsche nasce come filologo, tant’è che esordisce come docente di filologia classica, anche se interpreta tale disciplina non come strumento per ricostruire fedelmente il passato, ma come una maniera per scavare nel significato più intimo della civiltà occidentale e per poter così metterne in evidenza gli aspetti più oscuri e stridenti; dietro la maschera di Nietzsche filologo è evidente come si nasconda già il Nietzsche filosofo che interpreterà l’Occidente. Nel suo lavoro di filologo, spesso e volentieri egli non rispetta le norme di “serietà” proprie della disciplina, ma si lascia trasportare dalla ricerca del significato profondo che ad essi soggiace e per coglierlo compie salti argomentativi che il più delle volte si rivelano spericolati. In altri termini, Nietzsche non vuole studiare l’antichità esclusivamente per conoscerla nella sua essenza più intima, ma, viceversa, intende piuttosto impossessarsi di conoscenze che gli permettano di farsi profeta di una traformazione della civiltà attuale: e proprio in questo risiede l’ “inattualità” del pensiero nietzscheano (come recita il titolo delle celebri Considerazioni inattuali ), nel trovarsi fuori posto nel suo tempo, nell’essere o troppo indietro o troppo avanti rispetto ai tempi correnti. Egli infatti scava nel mondo greco per farsi profeta di quelle trasformazioni che investiranno, prima o poi, la società del suo tempo e facendo ciò si trova perennemente proiettato o nel passato o nel futuro. E Nietzsche è in piena sintonia con l’idea marxiana di una filosofia di trasformazione, per cui interpretare il mondo, senza mutarlo, è insufficiente e, nel proporre questo modo di pensare, egli rompe brutalmente una lunga tradizione, risalente ad Aristotele, la quale voleva la filosofia come sapere fine a se stesso. Il sapere per il sapere, di ispirazione aristotelica, a Nietzsche non interessa, come del resto non gli interessa la pura e semplice ricostruzione filologica della realtà: queste operazioni, infatti, risultano del tutto subordinate, e dunque di secondaria importanza, rispetto al problema della vita. Sulla base di queste considerazioni, Nietzsche si innesta su un filone di pensiero che possiamo tranquillamente definire vitalistico , volto all’esaltazione della vita e dell’irrazionalismo che la contraddistingue; nella 2° delle Considerazioni inattuali , il cui titolo recita “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, Nietzsche non si domanda, come invece facevano i suoi contemporanei, se la storia sia o non sia una scienza e come la si debba impostare per far sì che essa ricostruisca fedelmente il passato; al contrario, gli interessa se la storia sia utile o dannosa per la vita: tutta la storia della filosofia precedente a Nietzsche aveva concentrato la propria indagine sulla ricerca del vero, senza mai osar mettere per davvero in forse il concetto di verità; ora, Nietzsche è del parere che il concetto di verità sia uno di quei concetti su cui si è costruita nel corso della storia la civiltà occidentale ed egli si propone di sostituirlo, dopo averlo dimostrato assurdo, con quello di utilità: la vera filosofia non deve più domandarsi cosa è vero, ma cosa è utile per la vita. Ne consegue che il criterio per giudicare un sapere non consisterà più nel domandarsi se esso sia veritiero, ma se serve o no alla vita, ovvero se è in grado di stimolare le forze vitali dell’uomo. Nietzsche prende le distanze dalla tradizione anche per il modo di scrivere: al periodare ampio e architettonicamente strutturato, egli preferisce l’ aforisma , caratterizzato dalla forma concisa, essenziale e folgorante di punti cruciali, attraverso stringate argomentazioni e rapide illuminazioni: inoltre l’aforisma, che Nietzsche mutua da Eraclito, è tipico delle filosofie non-sistematiche e ben risponde all’esigenza della filosofia nietzscheana di operare come un martello che distrugge le verità e che saggia le campane per vedere se suonano bene (fuor di metafora: gli aspetti della civiltà occidentale), o se debbano essere abbattute. Ecco perchè l’opera del pensatore tedesco si configura come un’opera di smontaggio degli elementi occidentali per sondarne la legittimità con i colpi martellanti dell’aforisma. Egli si avvale di questo stilema narrativo in quasi tutte le sue opere, fatta eccezione per La nascita della tragedia e per le Considerazioni inattuali , dove invece prevale la forma accademica del saggio, ossia la trattazione di un tema che procede gradualmente passo dopo passo, poichè l’argomento trattato lo costringe a percorrere quella strada (anche se fortissima è la partecipazione emotiva del filosofo); un’altra illustre eccezione è rappresentata dal capolavoro di Nietzsche, Così parlò Zarathustra : ciò a cui maggiormente si avvicina sono le Sacre Scritture e non a caso il protagonista stesso (Zarathustra) è un profeta o, meglio, per usare un’espressione tipicamente nietzscheana, è un “Anticristo”, ovvero predica un modo di vita diametralmente opposto a quello delineato da Cristo. Proprio come nei Vangeli, si racconta la vita del profeta inframmezzata da parabole e scintillante di metafore. E’ bene spendere qualche parola anche sulla vita di Nietzsche, naufragata nella pazzia: al di là dei molteplici eventi che l’hanno segnata, è molto importante il fatto che essa si sia tragicamente conclusa, dopo una lunga depressione, in una follia che ha portato il filosofo alla morte, dopo il crollo avvenuto nella sua città prediletta, Torino. E c’è chi ha voluto scorgere in alcuni aspetti sconcertanti della filosofia nietzscheana la prova lampante che la sua mente fosse già malata, leggendo la sua follia come un effetto della sifilide contratta in passato. Vi è poi stato chi ha sostenuto che la follia fu causata dalla filosofia stessa elaborata dal pensatore: e in effetti certi aspetti di essa tendono a sfuggire ad ogni logica umana, a schizzare via da ogni forma di comprensibilità; in certi punti il pensiero si smarrisce letteralmente e questo avvitamento estremo della filosofia lo avrebbe portato alla follia. Detto questo, passiamo ad esaminare la prima opera importante composta da Nietzsche: si tratta de La nascita della tragedia , del 1871. L’impostazione è, apparentemente, di stampo filologico, in quanto si cerca di risalire alle origini della tragedia fiorita in età greca, ma, come si evince fin dalle prime pagine, le tesi strettamente filologiche sono affiancate da profonde considerazioni filosofiche; ed è curioso notare come questo modo argomentativo abbia fatto molto presa, a tal punto che in molti (tra cui Heidegger), da allora, cercheranno, sulla scia di Nietzsche, di studiare dai tempi più remoti la società occidentale per poterla sanare. Nell’opera e, più in generale, nell’intera filosofia nietzscheana, aleggia l’idea che la crisi che sta vivendo la civiltà occidentale sia un qualcosa di molto remoto, risalente ai tempi del mondo greco, nell’idagine del quale Nietzsche apporta ragguardevoli novità. In primo luogo, egli stravolge la tradizione nella misura in cui non guarda alla civiltà greca come vivamente ottimistica, come invece si era soliti fare in virtù della tradizione invalsa dal Rinascimento in poi; al contrario, vuole indagarne gli aspetti ombrosi, il pessimismo di fondo che serpeggia in quel mondo e che nessuno era stato davvero in grado di cogliere. In quest’indagine, Nietzsche prende spunto da Schopenhauer, della cui filosofia si dichiara momentaneamente depositario: e legge appunto la nascita della tragedia come manifestazione di questo pessimismo latente che pervade il mondo greco; in particolare, egli adduce come esempi del pessimismo imperante all’epoca le lamentazioni sull’esistenza, i numerosi paragoni instaurati tra le stirpi umane e le foglie e, soprattutto, ricorda la vicenda di un sovrano che, imbattutosi in un satiro dei boschi detentore della verità sull’esistenza umana, dopo averlo a lungo rincorso, lo costringe ad enunciare tale verità: il bene assoluto per l’uomo è non nascere e, se è nato, morire al più presto. L’altra grande novità (strettamente connessa alla prima) che Nietzsche introduce nel suo metodo filologico risiede nell’aver scorto il momento culminante dell’età greca non nella società dei tempi di Platone e Pericle, bensì nella civiltà arcaica, ancora venata dal pessimismo; infatti, l’ottimismo è subentrato a partire dai grandi sistemi filosofici di Platone e Aristotele. E la tragedia, nella prospettiva nietzscheana, costituisce il momento in cui la civiltà greca arriva al massimo grado e, contemporaneamente, si avvia al suo tramonto: l’intera civiltà greca (e, indirettamente, quella occidentale) appare agli occhi di Nietzsche governata da due princìpi che egli identifica, rispettivamente, con il dio Apollo e con il dio Dioniso . Essi simboleggiano due atteggiamenti antitetici che connotano il mondo dei Greci: da un lato, Dioniso è l’orgiastico dio della natura selvaggia e incarna il disordine, le forze irrazionali e istintive dell’uomo; dall’altro lato, Apollo è il dio solare, emblema dell’equilibrio, dell’armonia, della razionalità e dell’ordine. Ed è come se il mondo greco, nella sua classicità, avesse privilegiato l’atteggiamento apollineo, dandosi una veste razionale: ma Nietzsche mette in risalto l’aspetto dionisiaco, attribuendogli anche un peso maggiore rispetto a quello apollineo. Prima che nascesse la tragedia, egli nota, vi è stato un alternarsi dei due atteggiamenti, per cui ora prevaleva la prospettiva caotica del dionisiaco, ora quella composta dell’apollineo: e se in alcune civiltà orientali (Nietzsche ha soprattutto in mente certi culti orgiastici in cui il dionisiaco si manifesta in modo sfrenato) lo spirito dionisiaco emerge incontrastato da quello apollineo e perciò risulta particolarmente violento, nel mondo greco, invece, il dionisiaco genera anche l’apollineo, quasi come una barriera di difesa all’impeto dirompente dello spirito dionisiaco. Soffermando la propria attenzione sul mondo greco, Nietzsche cita espressamente il tempio dorico arcaico che, con la sua assoluta perfezione geometrica, rappresenta proprio l’ergersi dell’ordine apollineo in opposizione al caos dilagante del dionisiaco. Ed è evidente come la novità della lettura nietzscheana della civiltà greca consista non tanto nell’aver sostenuto che, in fin dei conti, la cultura greca non è poi così ordinata come sempre la si è immaginata, quanto piuttosto nell’aver evidenziato il fatto che l’ordine che, qua e là, la colora è una pura e semplice manifestazione derivata dal caos di fondo, una barriera volta a limitare i danni dell’eccessivo disordine. A differenza dell’interpretazione che del mondo greco aveva dato qualche decennio prima Hegel, ad avviso del quale, in fin dei conti, i Greci erano un popolo ottimista e composto per inclinazione naturale, Nietzsche mette in luce come i Greci abbiano insistito in modo esasperato sull’ordine perchè avevano un senso particolarmente acuto della tragicità dell’esistenza umana, cosicchè dionisiaco e apollineo, inizialmente presentati come due poli antitetici, si rivelano ora come due facce della medesima medaglia, in quanto l’apollineo nasce come reazione alla tragicità dionisiaca della vita. E, sotto questo profilo, la tragedia greca costituisce il vertice raggiunto dal mondo arcaico, in quanto in essa è cristallizzato un perfetto e armonico equilibrio tra lo spirito dionisiaco e quello apollineo : sulla scena, infatti, vengono rappresentati avvenimenti terribili che però risultano piacevoli agli spettatori (già Aristotele aveva riflettuto su questo paradosso); l’interpretazione che ne dà Nietzsche è in piena sintonia con il suo ragionamento: di fronte alla tragicità degli eventi messi in scena, si prova piacere perchè si esprime sì l’impeto dionisiaco, ma è ” Dioniso che parla per bocca di Apollo “, ovvero gli elementi tragici dell’esistenza messi in scena vengono sapientemente sublimati dall’essere tradotti in un linguaggio artistico, come se Apollo desse forma ai contenuti di Dioniso. E la tesi nietzscheana, che campeggia nell’opera, secondo la quale la tragedia deriverebbe da antichi riti dionisiaci è ancor oggi per lo più accettata: “tragedia”, infatti, sta a significare “canto del capro” e il capro era appunto un animale sacro a Dioniso; al coro di uomini vestiti come capri in onore del dio, si è sempre più contrapposta la figura di Dioniso e da ciò si è, gradualmente, sviluppata la tragedia vera e propria. Come abbiam detto, in quest’opera Nietzsche professa la propria ascendenza schopenhaueriana e ben lo si evince dal prevalere, nella sua lettura del mondo greco, dell’aspetto drammatico e caotico dell’esistenza e della forza irrazionale, quasi demoniaca, che la permea a tal punto che la razionalità altro non è se non una mera apparenza. Tuttavia, nella seconda edizione dell’opera, Nietzsche pone una prefazione in cui dichiara di non essere più schopenhaueriano e che anzi, già quando aveva scritto La nascita della tragedia si era solo illuso di esserlo. E in effetti le differenze tra i due pensatori sono parecchie: seppur accomunati dal privilegiamento per l’irrazionalità e dal pessimismo, i due filosofi appaiono incommensurabilmente distanti nella loro concezione della vita; essa è per Nietzsche il valore centrale intorno al quale costruire la filosofia, mentre invece per Schopenhauer, attraverso quel tortuoso processo che, culminando con la “noluntas”, porta allo spegnimento della vita stessa, essa non ha alcun valore, ed è anzi la fonte della sofferenza umana. Nietzsche, che pure all’epoca de La nascita della tragedia si riteneva schopenhaueriano nella misura in cui prospettava la caoticità dell’esistenza, non giungeva affatto a scorgere l’unico rimedio possibile all’infelicità dell’esistere nell’annullamento della vita stessa: in altri termini, se per Schopenhauer, dopo essersi accorti che la vita è tragica, non resta che uscirne al più presto, per Nietzsche, viceversa, la si deve vivere fino in fondo, accettandola in ogni sua sfumatura (in Così parlò Zarathustra egli dice, con un’espressione che ben sintetizza la sua filosofia, ” bisogna avere un caos dentro di sè per generare una stella danzante “). Da tutto ciò si evince come per Nietzsche la vita sia il valore supremo e che dunque la tragicità che la connota non sia un motivo sufficiente per sottrarsi ad essa : il che è brillantemente simbolizzato dal coro tragico che si identifica a tutti gli effetti con la caoticità di Dioniso; Apollo stesso, del resto, non viene dipinto a tinte negative, ma è anzi inteso come un filtro che permette di vedere la tragicità esistenziale senza essere accecati dal fulgore che essa emana. Ciò non toglie, tuttavia, che l’apollineo, per rimanere positivo, non debba perdere il suo contatto con il dionisiaco (da cui è generato): il problema sorge nel momento in cui Apollo non è più portavoce di Dioniso, ma parla con voce propria, diventando così autonomo. E il crollo della cultura greca, verificatosi agli occhi di Nietzsche nel V secolo a.C., è legato proprio a questo: i due personaggi che ne sono vessilliferi sono Euripide , tragediografo dell’epoca, e Socrate , modello tipico di spettatore di tali tragedie. Infatti, con la produzione euripidea, il tragico sfuma e cede il passo alla razionalità, i personaggi in scena ragionano con una dialettica spietata e la tragedia perde i suoi connotati tragici tendendo sempre più a diventare ottimistica e razionale. Socrate, dal canto suo, è il primo grande simbolo della grande razionalità filosofica della Grecia e il suo allievo, Platone, non fa che portare alle stelle questa tendenza: da quel momento fino all’epoca in cui vive Nietzsche, la civiltà occidentale è sempre più andata, in modo irresistibile, verso una marcata compostezza ordinata e razionale, con il conseguente sganciamento dell’apollineo dal dionisiaco e la fine dell’equilibrio tra i due. Ma a Nietzsche non interessa il passato in quanto tale, ma la vita e il suo trascorrere incessante nel presente: ed è per questo che proietta la sua indagine sulla meravigliosa epoca dei Greci, per cercare il senso e l’origine profonda di quella crisi che alimenta l’epoca in cui Nietzsche vive; e il filosofo, come abbiam visto, rinviene le radici di tale crisi nel prevalere schiacciante dell’apollineo sul dionisiaco. E in questa fase del suo percorso filosofico, Nietzsche, oltrechè schopenhaueriano, si professa wagneriano, scorgendo nella figura di Wagner la possibilità di una rinascita della tragedia greca, intesa come antidoto al prevalere imperante dell’apollineo. Questo atteggiamento è presente anche nella II delle Considerazioni inattuali (1873-74), dal titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita : che la riflessione di Nietzsche sia “inattuale” e che egli sia, se inquadrato nella sua epoca, un pesce fuor d’acqua è evidente già solo dal titolo di questa Considerazione, titolo che peraltro costituisce la chiave di lettura di tutto il suo pensiero: a Nietzsche non interessa affatto se la storia dica il vero o se vada adottato un metodo storico piuttosto che un altro; semplicemente si domanda se la storia sia utile o dannosa per la vita, protagonista indiscussa della sua filosofia a partire da La nascita della tragedia (anche se in tale opera finiva per identificarsi con la volontà schopenhaueriana). Dalla lettura della II Considerazione, emerge come per Nietzsche la storiografia, che di per sè non è da respingersi, in quegli anni abbia assunto un’eccessiva importanza a tal punto da poter divenire dannosa, poichè fa sì che ci si senta inibiti nella vita perchè posseduti dalla malsana idea che tutto ciò che si poteva fare sia già stato compiuto nel corso della storia umana. Per poter agire nella vita è necessario un margine di oblìo e di ignoranza, e pertanto la storiografia va bene solo se presa a piccole dosi. Nello specifico, poi, egli individua tre diversi tipi di storiografia : quella “critica” ha un approccio critico con il passato e, dunque, si pone (sulla scia dell’Illuminismo) in forma correttiva rispetto ad esso; quella “monumentale”, invece, esamina e celebra le azioni del passato e, infine, quella “antiquaria”, come suggerisce il nome, nutre un culto, di stampo museale, del passato in quanto tale. Ciascuna di queste tre tipologie, a patto che non venga oltremodo esasperata quantitativamente e non si trascurino le altre, è utile: la critica e l’esaltazione delle gesta del passato, infatti, sono uno stimolo per agire in modo migliore e, in modo analogo, perfino il radicamento museale nel passato può essere una buona premessa per agire meglio (pensiamo a Manzoni, che nell’Adelchi mette in scena vicende del passato radicate nella cultura italiana per aizzare il popolo ai moti risorgimentali). Ciò non toglie, tuttavia, che non si debba esagerare: perchè se è vero che i tre tipi di storiografia possono, per le ragioni poc’anzi esposte, essere utili alla vita, è anche vero che, se si eccede, possono rivelarsi dannose. Se si critica eccessivamente il passato, infatti, ci si limita a lamentale di come le cose non debbano andare e se si esaltano troppo le imprese degli antichi ci si blocca in un’assurda idolatria. Ed è per questa ambiguità per cui la storia, nelle sue tre sottodivisioni, è in perenne bilico tra l’essere utile e l’essere dannosa per la vita, che Nietzsche attribuisce tale titolo alla seconda Considerazione. E, proprio come fa Freud, egli propone sempre anche degli antidoti: se ne La nascita della tragedia aveva proposto l’opera wagneriana come possibile ritorno all’equilibrio tra apollineo e dionisiaco, ora, invece, sostiene che per far fronte al rischio che la storia possa danneggiare la vita si deve ricorrere all’arte e alla religione. L’arte, infatti, pressochè costante nell’opera nietzscheana, può costituire un’efficace cura per dar spazio alla creatività dell’uomo e al suo istinto creativo, anche se, è bene notare, il pensatore tedesco cambia, a poco a poco, il suo atteggiamento. Se ne La nascita della tragedia e nelle Considerazioni inattuali ravvisa nell’arte un potente antidoto contro l’apollineo che mortifica la vita, man mano che matura, Nietzsche è sempre meno convinto che essa possa salvare e arriva a sostenere che si deve vivere la vita come un’opera d’arte (tesi che sarà particolarmente cara a D’Annunzio), ovvero si deve condurre la propria esistenza artisticamente, diventando creatori di valori e di certezze da contrapporre a quelli tradizionali. Forse più complessa è la questione per quel che riguarda la religione: pare infatti piuttosto strano che Nietzsche, accanito sostenitore che ” Dio è morto ” e autore de L’Anticristo , possa rintracciare nella religione un rimedio. Tuttavia, è bene precisare, Nietzsche non era banalmente un “ateo” dispregiatore della religione: come non gli interessa se la storia sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita, così la religione gli sta a cuore nella misura in cui essa può promuovere la creatività umana: e se arriverà a condannare le religioni dei suoi tempi, lo farà quasi esclusivamente perchè esse uccidono la vitalità, non perchè sono menzognere; e, in questa fase del suo pensiero, non può fare a meno di constatare che nell’epoca d’oro della tragedia (quella di Sofocle e, soprattutto, di Eschilo) la religione era un patrimonio lussurreggiante di miti e di immagini da vivere in prima persona con i riti e con le feste, cosicchè essa non ammazzava, ma anzi era una sorgente di vitalità umana. Da queste riflessioni si capisce come per Nietzsche la religione e l’arte siano antistoriche e “inattuali”: esse, cioè, si collocano al di là della pericolosità dell’incantesimo di quella storia che, se eccessiva, fiacca la vita. Una buona parte del lavoro filosofico di Nietzsche nella sua maturità è dedicato alla ricostruzione della ” genealogia della morale ” (come recita il titolo di un suo scritto datato 1887): se nella prima fase della sua indagine, il pensatore tedesco aveva individuato nell’arte la via di salvezza per la civiltà occidentale, da un certo momento in poi egli abbandona tale strada e scorge l’unico antidoto possibile nella scienza e per questo motivo questa nuova stagione del suo pensiero è stata spesso definita “illuministica”, tant’è vero che molti dei suoi scritti maturati all’epoca sono dedicati ai più prestigiosi pensatori dell’età della ragione, tra cui spicca Voltaire (dedicatario di Umano, troppo umano ). Apparentemente può stupire questa fedele adesione alla scienza di un pensatore che privilegia l’irrazionale e, soprattutto, il vitalismo: ma l’atteggiamento che egli assume è radicalmente diverso rispetto a quello positivistico, fiducioso che nel dato di fatto risiedesse la verità; più precisamente, la valutazione positiva che Nietzsche riserva alla scienza può essere spiegata facendo riferimento ad un altro testo, del 1881, intitolato ” La gaia scienza “: il pensatore tedesco apprezza la scienza non in base ad un criterio di verità, ma piuttosto perchè capace di liberare l’uomo, proprio come, anni prima, aveva valutato positivamente la religione per la sua capacità di far emergere la capacità creativa. Ed è per questo che egli abbraccia la scienza nella misura in cui in essa scorge una capacità liberatoria, senza contrapporla perchè più “vera” (come invece facevano i Positivisti) alle nebbie della metafisica: un pò come aveva fatto per la storia, egli si domanda ora non se la scienza sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita. E la valutazione che ne dà è inequivocabilmente positiva: la tecnologia stessa appare ai suoi occhi come un elemento liberatorio e non è un caso che egli, in questo periodo, concentri la sua attenzione su molti studi variegati, anche di natura scientifica. Ciò che più affascina Nietzsche della scienza e del suo essere utile per la vita è il fatto che essa indaghi sull’origine delle cose ed è per questo che la sua attenzione è rivolta precipuamente alla chimica e alla paleontologia, finalizzate (anche se una nel tempo, l’altra no) alla ricerca dell’origine degli elementi costitutivi della realtà. In sostanza, conclude Nietzsche, queste due scienze hanno un atteggiamento “genealogico” e si propone di operare anch’egli, in ambito filosofico, con questo metodo di costruzione dell’origine passando per lo smontaggio; tuttavia, se la chimica e la paleontologia studiano, in senso lato, la natura, Nietzsche vuole invece proiettare la propria indagine sulla morale, anche se con le stesse modalità delle altre due discipline: ed è per questo motivo che il suo famoso scritto che ne scaturisce si intitola Genealogia della morale . Più che distruggere la morale, come più volte gli è stato rinfacciato, Nietzsche la “decostruisce”, come ha acutamente messo in evidenza Vattimo, ovvero la costruisce all’incontrario: come la chimica “smonta” le sostanze complesse per ravvisare i singoli elementi che le costituiscono, così egli si propone di agire nei confronti della morale; ed è, a tal proposito, significativo il titolo di un’opera del 1878, intitolata ” Umano, troppo umano ” , che mette in risalto come dallo smontaggio della morale se ne ottenga una demitizzazione della morale stessa. In altri termini, la morale ha tradizionalmente poggiato su realtà sovrasensibili (il mondo delle idee di Platone ne è la più fulgida espressione), quasi come se nella storia i valori umani fossero stati tramutati in divini; questo atteggiamento paradossale, nato con Socrate e proseguito con Platone, ha accompagnato la civiltà occidentale per tutto il suo sviluppo, senza mai venir meno. Il cristianesimo stesso altro non è, a dire di Nietzsche, che un “platonismo popolare” che, con una precettistica meno raffinata di quella platonica, ha fatto slittare la discrepanza tra mondo fisico e mondo metafisico da un piano ontologico ad uno temporale, cosicchè la trascendenza non si colloca più al di sopra, ma dopo, dal momento che la si raggiunge solo con la morte. Perfino la democrazia e il socialismo sono il frutto di quest’atteggiamento di divinizzazione della morale e ciò che intende mettere in luce Nietzsche in Umano, troppo umano è come quei valori ipostatizzati, quasi trasformati in sostanze divine, in realtà sono umani, fin troppo umani: ” dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane “. Ma più che venir rifiutati, questi valori “ideali” sono smontati, quasi denudati, ossia messi in luce nella loro vera origine e quindi nella loro vera natura, attraverso un’operazione filosofica accostabile a quella di un martello che saggia ogni cosa. E, nel concreto, dimostrando nella sua indagine sulla genealogia della morale che essa non ha un’origine sovrasensibile e divina, ma anzi, fin troppo terrena, egli intende dire, ad esempio, che le regole morali che serpeggiano nella nostra civiltà sono regole di convivenza civile per regolare il comportamento degli individui, e non leggi enigmaticamente emanate da dio. E perchè nasce la morale? L’uomo, osserva Nietzsche, ha per natura il bisogno di dominare la realtà che lo circonda e tale esigenza si estrinseca in primo luogo come dominio intellettuale (la paura del buio, ad esempio, nasce dal fatto che non riusciamo a dominare concettualmente l’ambiente in cui ci si trova) e, per fare ciò, l’uomo sente la necessità impellente di imporsi delle regole comportamentali e conoscitive che lo difendano dalla realtà caotica e irrazionale in cui è immerso, proprio come, al tempo dei Greci, lo spirito apollineo era nato da quello dionisiaco. Ma il termine “morale” riveste in Nietzsche un significato più ampio di quello che, solitamente, le attribuiamo: a costituire la “morale” sarà la sfilza di regole che l’uomo si è imposto, ma anche i criteri per stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, dato che la ricerca della verità e la necessità di comunicarla ai propri simili è esso stesso un valore morale, cosicchè anche il vero, oltre al bele, rientra nella vastità semantica del termine “morale”. Ma non basta: perfino la religione è una forma di morale, visto che in Dio sono cristallizati tutti i valori maturati nella storia dell’uomo ed è in quest’avventura di ricerca dell’origine umanissima della morale che Nietzsche ha modo di trattare della schiavitù: quelli che vengono generalmente riconosciuti come “il bene” e “il male” sono tali perchè l’han stabilito i “padroni”, afferma Nietzsche accostandosi in modo impressionante alle tesi che in quegli anni stava elaborando pure Marx; dopo di che, tuttavia, succede anche che nasca una morale dei servi, di coloro, cioè, che sono assoggettati in quanto deboli e che, con la loro morale, intendono negare la validità del diritto del più forte, proponendo, opposta ad essa, una ” morale del risentimento “. In questa prospettiva, che molto risente delle discussioni degli antichi Sofisti (cari a Nietzsche perchè demolitori della verità) sulla distinzione tra fusiV e nomoV , Nietzsche scaglia i suoi velenosi strali soprattutto contro Platone, che nella Repubblica aveva contestato a Trasimaco il diritto del più forte, contro il cristianesimo, strenuo propugnatore dell’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, contro la democrazia e contro il socialismo ( ” balorda incomprensione di quell’ ideale morale cristiano “); e dopo aver tuonato contro di essi, Nietzsche fa una scoperta sensazionale: la morale dei deboli può diventare morale della sopraffazione, poichè se essi si uniscono possono imporre i loro valori in modo coercitivo ma anche in modo “pacifico” e, in quest’ottica, l’ascetismo stesso, tanto caro a Schopenhauer, altro non è se non trasformare in valore l’incapacità di vivere la vita fino in fondo e voler costringere gli altri a cedere a tale valore. Perfino i martiri cristiani, sostiene Nietzsche, commettono una violenza, poichè col martirio è come se imponessero agli altri i loro valori. Con queste riflessioni Nietzsche demitizza la morale e da ciò deriva un atteggiamento di nichilismo , ovvero una filosofia del nulla che prorompe dal venir meno dei punti di riferimento della morale: e Nietzsche distingue tra “nichilismo passivo”, dipingendolo in negativo, e “nichilismo attivo”, esaltato invece come altamente positivo. Se con Platone era invalsa la convinzione che esistessero due mondi distinti, uno intellegibile e perfetto, l’altro fisico e lacunoso perchè pallida copia dell’altro (e il cristianesimo aveva esasperato questa mentalità), si è poi scoperta la falsità di tale apparato ideologico e morale, cosicchè il mondo fisico ha perso ancora più consistenza perchè, se ai tempi di Platone e della morale cristiana, era considerato imperfetto ma comunque copia di quello ideale, ora si trova smarrito e senza punti di riferimento assoluti: domina dunque il nichilismo passivo, che corrisponde a buona parte delle posizioni atee (ad esempio, gli atei che invidiano chi ha ancora il coraggio di credere). Con la fase del nichilismo passivo, il mondo ha perso consistenza rispetto al mondo di Platone perchè, se è vero che ha proclamato la falsità dei punti di riferimento assoluti (Dio, la morale, ecc), è altrettanto vero che non si è del tutto liberato da quel gravoso fardello e prova una sorta di rimpianto per quel mondo assoluto. Poi, però, nasce una nuova posizione: dopo aver dichiarato l’inesistenza del mondo dei valori assoluti, ci si accorge che di esso non c’è più bisogno (e forse non ce n’è mai stato), sicchè viene meno il rimpianto che caratterizzava il nichilismo passivo; il mondo sensibile resta l’unico e assume un valore assoluto, mai conosciuto in precedenza, poichè tutto il valore riconosciuto un tempo al mondo sovrasensibile si riversa ora su quello terreno e così, dal nichilismo passivo si passa a quello attivo, caratterizzato da un radicale immanentismo; il nuovo ateo, cioè, non rimpiange più il mondo dei valori, ma dice: “dio non c’è? Benissimo, allora dio sono io”, o, per usare le parole impiegate da Nietzsche in Così parlò Zarathustra , ” se esistessero gli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! […] adesso é un dio a danzare, se io danzo “. E una volta che la scienza “gaia” (perchè liberatrice) perviene alla conoscenza e alla decostruzione della morale, la depotenzia fino a liberare l’uomo dalle tradizionali catene dei valori morali imposti dall’esterno e, per questo motivo, limitativi nei confronti della creatività umana; però, solo con il passaggio dal nichilismo passivo a quello attivo si attua effettivamente la liberazione dell’uomo e quella che Nietzsche definisce ” trasvalutazione dei valori “, cioè lo stravolgimento dei valori tradizionali: non si tratterà di eliminare il bene e il male, ma di trasmutarne il significato e questo atteggiamento volto a cambiare, non a distruggere, emerge bene dal titolo di un’opera del 1885-86 intitolata Al di là del bene e del male , da cui si evince facilmente come l’uomo, smontata la morale, sia tenuto a collocarsi al di là di quelli che la tradizione ha additato come “bene” e “male”, liberandosi in tal modo dei valori “divini” imposti dall’esterno e dannosi per la vita: questi vengono sostituiti da nuovi valori che l’uomo stesso si dà, trasformandosi così in un “creatore di valori”. Non si subiscono più in modo passivo i valori “divini”, ma si vivono in modo gioioso e gaio quelli nuovi, terreni a tutti gli effetti (l’opera di Nietzsche è pervasa da costanti inviti all’umanità a restare fedele alla terra). In base alle considerazioni fin’ora illustrate, Nietzsche può così arrivare ad affermare che ” Dio è morto “: in molti si son chiesti perchè non dica, molto più semplicemente, che non esiste, ma in realtà il suo atteggiamento è profondamente motivato dal suo stesso impianto filosofico. Infatti, ripercorrendo brevemente il suo percorso, egli ha indirizzato la sua ricerca sull’origine della morale attraverso l’impiego della scienza e ha scoperto che tutti quei valori morali, da sempre esaltati come divini, in verità hanno un’origine fin troppo umana, ma nella prospettiva nietzschena rientra nella tradizionale “morale” anche l’esigenza di distinguere il vero dal falso ed è a questo proposito che affiora un paradosso interessante nel suo pensiero, paradosso che qualche studioso ha voluto connettere alla follia nietzscheana: la ricerca condotta sulla genealogia della morale si basa anch’essa su quella spinta alla ricerca della verità che costituisce un punto cardinale della civiltà occidentale (e trova la sua massima espressione nella celebre espressione di Aristotele secondo cui l’uomo tende per natura alla verità); da tale indagine si scopriva che la verità non esiste e lo stesso valore morale che ci ha indotti a tale ricerca rivela la propria inconsistenza, quasi come se l’unica verità fosse l’inesistenza di una verità. E, poichè credere in Dio significa riporre tutti i valori morali (bontà, verità, ecc) in un solo ente, negarne l’esistenza vorrebbe dire, a sua volta, riproporre una verità e quindi ritirare in ballo l’esistenza di Dio, che è appunto la sintesi di tutti i valori morali (tra cui la verità): in altri termini, se Nietzsche avesse detto “Dio non esiste”, avrebbe riproposto una nuova verità (la non-esistenza di Dio) e si sarebbe trovato incastrato dalla sua affermazione, perchè laddove c’è una verità, là c’è anche Dio. Ecco perchè Nietzsche preferisce usare un’espressione più indiretta e sfumata, priva di implicazioni ontologiche: asserendo che Dio è morto, Nietzsche ci sta suggerendo che non ci serve più e da ciò emerge l’idea (fortissima in Così parlò Zarathustra ) del ” congedarsi da Dio “; certo, ci sono stati momenti in cui Dio ha avuto un senso e, del resto, Nietzsche esamina (nella Genealogia della morale )l’origine della morale senza scagliarsi contro di essa, ma anzi riconoscendo che, in determinati periodi storici, è stata necessaria e ha avuto un senso. Più nello specifico, è il progresso che ha reso sempre più possibile la vita senza l’arsenale divino e morale, fino ad arrivare al nichilismo attivo, in cui si smarrisce ogni rimpianto per tali valori; e un ruolo di primissimo piano è stato svolto dalla tecnologia: l’uomo, infatti, finchè non è stato in grado di dominare materialmente la realtà, ha sentito l’esigenza di imporsi su di essa almeno concettualmente con l’idea di Dio e della morale. Ma poi, grazie al progresso e alla tecnologia, egli ha esteso il proprio dominio materiale sulla realtà e la validità di concetti come “Dio” e “morale” si è sgretolata, a tal punto che ancora oggi le società più evolute sono quelle dotate di regole meno fisse. Non si tratta, pertanto, di distruggere brutalmente la morale e Dio, ma semplicemente di assumere nei loro confronti quell’ atteggiamento di congedo calmo e sereno che si attua nel momento in cui ci si accorge che quelle cose, un tempo indispensabili, ora non servono più e possiamo liberarcene in tutta tranquillità (l’idea di ” crepuscolo degli idoli “, come recita il titolo di un’altra opera, del 1888, rende bene l’idea di come i valori tradizionali non vengano violentemente distrutti, ma di come tramontino). L’odio nei confronti della morale e della religione, dice Nietzsche, può solo scaturire in seno al nichilismo passivo, quando cioè vengono ancora sentite forti e, in fondo, se ne sente ancora il bisogno: questo atteggiamento di transizione viene paragonato a quello del cane appena liberato che ha ancora sul collo il segno del collare. E dopo che la morale e la religione sono giunti al loro crepuscolo, l’uomo che si è congedato da esse è il superuomo : ” morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva ” ( Così parlò Zarathustra ). Tuttavia, al termine superuomo, destinato a diventare un mito per le generazioni successive a Nietzsche e ad essere soggetto a clamorosi fraintendimenti, è preferibile usare quello di “oltreuomo”, come ha sottolineato Vattimo, proprio per distinguere la concezione nietzscheana dalle poco fedeli interpretazioni fascistoidi e dannunziane, anche se qualche spunto in tale direzione compare, qua e là, nelle stesse opere nietzscheane, soprattutto quando il folgorante profeta del superuomo si schiera contro le morali dei deboli; anche se, ad onor del vero, pur non approvando il socialismo come dottrina, in qualche aforisma guarda con simpatia al movimento operaio perchè, a differenza della sonnolenta borghesia, è animato da una forza particolarmente vitalistica capace di creare nuovi valori. Fondamentalmente, l’oltreuomo non è un essere superiore agli altri, ma la nuova figura che l’uomo dovrà assumere in futuro e Nietzsche se ne fa profeta soprattutto in Così parlò Zarathustra , un libro enigmatico ( “un libro per tutti e per nessuno” avverte il sottotitolo) che, come abbiamo accennato, si configura come una sorta di parodia del Vangelo in cui, oltre a capovolgere il testo sacro (viene propagandata una contro-religione), sceglie come protagonista quello Zarathustra, fondatore della religione persiana, che aveva contrapposto in modo nettissimo il bene al male. Nietzsche tramuta questo personaggio storico che aveva dato la codificazione più netta della morale in profeta di un’oltre-religione dell’essere al di là del bene e del male. Ma Nietzsche, per bocca di questo nuovo “profeta all’incontrario”, non vuole imporsi come fondatore di una nuova religione, poichè ciò non costituirebbe altro che una nuova divinizzazione di valori: ” non c’é nulla in me del fondatore di religioni: non voglio credenti, non parlo alle masse; ho paura che un giorno mi facciano santo ” ( Ecce homo ). L’unica cosa che Zarathustra insegna è di non accettare insegnamenti, ma di creare nuovi valori: egli profetizza la venuta del superuomo, ovvero dell’uomo del futuro ( ” Ancora non é esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l’uomo più grande e il più meschino. Sono ancora troppo simili l’uno all’altro. In verità anche il più grande io l’ho trovato troppo umano! “) che si innesta nella civiltà postmoderna: vi sarà sì una fase provvisoria in cui esisteranno solo pochi oltreuomini in grado di cogliere come procede il futuro, ma ciò che li caratterizzerà sarà quel senso di “malattia” e di inattualità che ha accompagnato Nietzsche stesso per tutta la sua vita fino a culminare nella follia. Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E’ un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità. E’ un essere “fedele alla terra”, alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni. La “fedeltà alla terra” è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza). Non più “tu devi”, ma “io voglio”. Soprattutto, l’oltreuomo trasvaluta tutti i valori e ne crea di nuovi, facendo della propria vita un’opera d’arte: e in Così parlò Zarathustra troviamo immagini ricorrenti , da cui traspare come l’oltreuomo sappia amare e trasmettere agli altri la gioia che deriva dalla propria piena realizzazione; il ridere e il danzare sono le sue prerogative peculiari: dopo aver smontato la verità, crolla inevitabilmente anche l’essere, giacchè la verità altro non è se non disvelamento dell’essere, e quando Nietzsche dice che ” l’essere manaca ” si avvicina soprattutto alle posizioni di Gorgia, il quale, dopo aver dimostrato che l’essere non è e che se anche fosse non sarebbe conoscibile e, se anche fosse conoscibile, comunque sarebbe incomunicabile, aveva dato una valutazione suprema dell’arte poichè, in assenza di una verità, l’artista non imita (come invece credeva Platone), ma crea e inganna; il discorso di Nietzsche è molto affine a quello gorgiano e, interpretando l’intera vita come un’opera d’arte, ciò che l’uomo crea diventa un valore assoluto e autonomo: in questa prospettiva, la risata e la danza incarnano la leggerezza dell’oltreuomo, il suo poggiare non sull’essere, ma sul vuoto simboleggiano il suo saper ” vivere in superficie “, quasi camminando sulle acque, proprio in virtù del venir meno di quella che Kant chiamava ” cosa in sè ” ed è proprio in questa prospettiva che uno dei più gravi pericoli è costituito dallo “spirito di gravità”. Costante è anche l’immagine del volo, che ben esprime la leggerezza: ” colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola ‘la leggera’. “; e Nietzsche può così affermare che ” l’uomo è un cavo teso fra la bestia e il superuomo […] é qualcosa che deve essere superato “, ma tale cavo è sospeso nel vuoto ed è perciò un passaggio arduo e rischioso (non a caso il funambolo presente in Così parlò Zarathustra perde l’equilibrio e cade). Sempre dalla lettura di Così parlò Zarathustra emergono altri concetti chiave della filosofia nietzschena, come ad esempio quello di “volontà di potenza” e di “eterno ritorno”. In particolare, la volontà di potenza (a cui Nietzsche dedica un’opera intitolata, appunto, La volontà di potenza ) è in un certo senso l’erede remoto della volontà schopenhaueriana: la stessa opera La nascita della tragedia era intrisa di concezioni schopenhaueriane e, soprattutto, l’elemento dionisiaco era quello in grado di cogliere la forza irrazionale che governa la realtà e che finiva per identificarsi con la volontà di Schopenhauer. Tuttavia, con la nozione di “volontà di potenza” Nietzsche si discosta dall’insegnamento del filosofo pessimista: come senz’altro si ricorderà, Schopenhauer insisteva vivamente sulla necessità di capovolgere la volontà in nolontà, quasi come se si dovesse sfuggire alla volontà stessa; ora, a partire da La nascita della tragedia , Nietzsche sostiene invece che si deve accettare fino in fondo la tragicità dell’esistenza e trovare una specie di gioia paradossale nel vivere il caos fino in fondo. In altri termini, se per Schopenhauer si deve sconfiggere la tragicità esistenziale rifiutandola, per Nietzsche la si deve vincere accettandola fino in fondo, in ogni sua sfumatura. E, con l’avvento del nichilismo, la mancanza di un senso assoluto finisce, secondo Nietzsche, per far assumere un senso assoluto proprio a quella realtà superficiale che è il mondo che ci circonda. E allora il concetto di volontà si colora di nuovi significati: in primo luogo, per Schopenhauer la volontà è l’unica cosa che esista veramente, come per Spinoza l’unica vera cosa esistente era la “Sostanza”; e per questo il discorso schopenhaueriano era metafisico a tutti gli effetti e per Nietzsche ogni discorso metafisico è del tutto inaccettabile, ovvero non si possono più fare affermazioni sulla struttura della realtà (come invece facevano Schopenhauer o Hegel) poichè, respinto il concetto di verità, ciò non ha più senso. L’oltreuomo si trova così nella situazione in cui non ci sono più l’essere nè i valori prestabiliti, e ad esistere sono solamente le interpretazioni del mondo e la nozione di interpetrazione (che fa di Nietzsche uno dei padri del pensiero ermeneutico) è originalissima: non si tratta di interpretare la verità sotto i diversi e legittimi, ma di per sè non sufficienti, punti di vista con cui si può guardare ad essa, bensì, ci sono solo interpretazioni del mondo ma non c’è più il mondo da interpretare, c’è solo più l’immagine del mondo: e Nietzsche può affermare che ” non esistono fatti, ma solo interpretazioni “. Non vi è una verità oggettiva da guardare sotto diversi profili, ma vi sono solo più i punti di vista: e se non c’è più il mondo ( ” l’essere manca “), cosa permette di dire che un’interpretazione è più valida di un’altra? Qui nuovamente emerge il concetto cardinale della filosofia nietzscheana: la vita; le interpretazioni, infatti, sono migliori o peggiori non perchè corrispondano di più o di meno ad una presunta verità, ma nella misura in cui sono più “potenti”, più convincenti, più capaci di muovere e di sostenere la vita (e questo spiega l’apprezzamento di Nietzsche per il movimento operaio). Venuto meno il mondo, esso è sostituito, potremmo dire, da un campo nel quale diversi centri di forza si confrontano tra di loro e tali centri di forza altro non sono se non le diverse interpretazioni di quel mondo che non c’è: ci saranno diverse immagini di valori, di interpretazione della realtà, e così via, e possono di volta in volta prevalere le une sulle altre proprio perchè manca la realtà con cui confrontarsi e l’unico criterio che permette ad un’interpretazione di trionfare sulle altre è basato sulla vitalità. Pertanto un’interpretazione che stimoli la vita tenderà a prevalere sulle altre e proprio in questo è racchiuso il concetto di volontà di potenza: è questo tentativo di affermare determinati valori a danno di altri, quasi il centro di un campo di forza, non una “cosa” (come invece era in Schopenhauer). Ma è bene notare come la volontà di potenza non sia volontà di esistere, poichè, propriamente, non c’è nulla che esista, ma è, invece, volontà di affermarsi (il martire cristiano non muore per esistere, ma per affermarsi); e questo ci permette di capire come, al di là di qualche sbavatura qua e là del pensiero nietzscheano, la volontà di potenza non si affermi mai in modo violento: viene seguita perchè dà un’interpretazione più forte della realtà, non perchè si impone con la violenza sui più deboli (come credevano i nazisti). E l’ultimo grande concetto presente in Così parlò Zarathustra è quello di eterno ritorno : tra i bislacchi personaggi che accomapgnano Zarathustra nella sua avventura, vi è anche un nano che espone tale dottrina, secondo cui tutto ritorna su se stesso e per cui tutto quanto accade ora è già accaduto un’infinità di volte nel passato e accadrà un’infinità di volte nel futuro. Nel formulare questa strana teoria, Nietzsche si basa anche su studi scientifici e, in particolare, sulla constatazione che meccanicisticamente le possibili composizioni della materia, per quanto numerose, si esauriscono e, dopo esserci state tutte, ritorna quella di partenza. Nella poliedricità caleidoscopica della filosofia nietzscheana, suona quasi banale questa teoria già esposta similmente dagli Stoici: tuttavia, gli animali che accompagnano Zarathustra, ad un certo punto, intonano una canzone il cui motivo è quello appunto dell’eterno ritorno, il cui significato profondo, però, non è banalmente quello del ritorno perpetuo delle medesime cose, ma è un significato recondito e profondo: tant’è che Zarathustra, in una narrazione in cui aleggia un clima onirico, racconta di aver avuto una visione e di aver visto un pastore che dormiva e a cui entra in bocca un serpente; Zarathustra cerca di aiutarlo ma, non riuscendoci, lo invita a mordere il serpente e così si salva e la vicenda si chiude con una risata liberatoria del pastore. Quale è il significato di ciò? Il serpente che si morde la coda simboleggia il tempo concepito come ciclico e che in un primo tempo può essere concepito come un qualcosa di soffocante, perchè l’idea che tutto ritorni è insostenibile poichè nessuno vorrebbe ripetere all’infinito la propria vita, proprio perchè la nostra vita non è così perfetta da poter aspirare ad essere desiderata per l’eternità. Il morso al serpente sta a significare che è vero che la dottrina dell’eterno ritorno può essere soffocante, ma solo per chi ha un’esperienza di vita non pienamente realizzata. L’oltreuomo, invece, che sa vivere in superficie e vivere pienamente la sua esistenza come un’opera d’arte, può per davvero desiderare di riviverla in eterno e tagliar la testa al serpente vuol dire spezzare il circolo del tempo che ritorna su se stesso e inserirsi in questo circolo ma se tutto torna su se stesso, si può obiettare, non c’è la possibilità di entrare in questo circolo; e questo è l’apparente paradosso della dottrina dell’eterno ritorno. E’ vero che non ci si può infilare nel circolo a nostro piacimento, ma tutto si spiega se, come ci rammenta Zarathustra, teniamo presente che le apparenze ingannano e la teoria dell’eterno ritorno è diversa da come sembra. Del resto, sarebbe assurdo che ora Nietzsche ci dicesse, prospettando i cicli dell’eterno ritorno, come procede il mondo: secondo la logica della volontà di potenza, egli vuole proporci un’interpretazione particolarmente forte del mondo, non una verità, ma un’immagine del mondo che valga la pena di essere vissuta; in altri termini, ci sta dicendo che se ci mettiamo nella prospettiva dell’oltreuomo e se quindi sappiamo vivere pienamente la vita, varrà la pena anche decidere di vivere come se la vita dovesse eternamente ritornare, momento per momento. Soltanto una vita pienamente vissuta si può desiderare che ritorni in eterno, ma solamente un qualcosa concepito come eternamente ritornante assume un valore assoluto tale da poter vivere pienamente la vita: nella dottrina del tempo lineare, ogni istante distrugge quello precedente, ogni cosa è travolta da quella che viene dopo e quindi se accetto tale dottrina non posso vivere pienamente, perchè so che ogni istante sarà distrutto da quello successivo; nella dottrina dell’eterno ritorno, invece, posso vivere la vita fino in fondo perchè ogni cosa che faccio ha un valore assoluto, poichè si sfugge tempo lineare per cui ogni cosa che si fa viene mangiata (e quindi privata di significato) da quella successiva (il mito di “Cronos”, ovvero il tempo, che divora i propri figli). Se l’eterno ritorno viene considerato non come dottrina metafisica, ma come interpretazione, allora il paradosso per cui si entra nel circolo si dilegua: posso decidere di vivere come se ci fosse l’eterno ritorno, desiderando con ardore di rivivere ogni singolo istante della vita per l’eternità ( amor fati ), quasi come se al “no” alla vita di Schopenhauer si sostituisse un “sì” eterno ad essa: ” la mia formula per la grandezza dell’uomo é amor fati: che cioè non si vuole nulla diverso da quello che é, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l’eternità ” ( Ecce Homo ). E così, la fase precedente al nichilismo, quella cioè dei valori morali e di Dio, simboleggia l’eternità, mentre quella del nichilismo passivo, privo di valori assoluti, è il tempo lineare che tutto travolge e nulla ha senso; l’ultima fase, quella del nichilismo attivo, è il divenire continuo che assume valore assoluto e tutto ciò è quanto accade nella dottrina dell’eterno ritorno, la quale fa assumere dignità di assoluto al divenire, tutto fluisce ma in modo circolare. E così si capisce la vicenda del pastore: soffocato in principio dall’interpretazione banalizzante dell’eterno ritorno, riesce ad entrare nel circolo dell’eterno ritorno e col riso esprime la sua piena felicità.
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MARX & ENGELS
Cronologia della vita e opere
1818 Karl Heinrich Marx nasce il 5 maggio a Treviri, la più antica città della Germania, all’una e mezza di notte. Il padre è un affermato avvocato di origine ebraica, così anche la madre di Marx, Henrietta Pressburg.
1830 Si iscrive al Liceo-ginnasio di Treviri. Si dedica agli studi classici e letterari, trascurando la storia.
1835 Per volontà del padre, Karl si reca all’Università di Bonn a studiare diritto. Frequenta le lezioni di filosofia e di letteratura del vecchio A.W. Schlegel. Ma si dà anche alla vita godereccia e bohémienne che preoccupa la famiglia. Condannato per ubriachezza e schiamazzi notturni, trascorre perfino un giorno in prigione. Successivamente, in un duello fra studenti, è ferito al sopracciglio. Si sente portato per la poesia, altra inclinazione che non piace per nulla al padre.
1836 Si fidanza segretamente con Jenny von Westphalen. Il futuro suocero di Marx ha un affetto ricambiato dal filosofo tedesco. Nell’autunno Marx parte per Berlino per proseguire i suoi studi di diritto in un ateneo ancora più austero e prestigioso di quello di Bonn. Qui aveva insegnato Hegel. Tutta la cultura berlinese era dominata dal pensiero hegeliano, non soltanto in campo filosofico ma anche scientifico e giuridico.
1837-1841 A Berlino, Karl rafforza le sue inclinazioni romantiche. Scrive molte poesie a Jenny, raccolte poi in due libri: “Libro dei canti” e “Libro dell’amore”, che Jenny custodirà sempre gelosamente. Viene esonerato dal servizio militare per una malattia agli occhi. Entra in un circolo di giovani della “sinistra hegeliana” impegnati in politica su posizioni radicali. Sono mesi di studi e riflessioni. Inizia a scrivere la sua tesi di laurea sulla “Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro”. Dopo la laurea decide di dedicarsi al giornalismo.
1842 Inizia la collaborazione con la “Rheinische Zeitung” (“Gazzetta Renana”), giornale liberale appena fondato dall’amico Arnold Ruge, esponente della sinistra hegeliana. La Gazzetta Renana avrà breve vita, per ragioni politiche. Marx vi scrive in merito alla libertà di stampa, sulla caccia di frodo e sul problema dei furti di legname e sulla divisione della terra.
1843 La Gazzetta Renana viene interdetta per ragioni di censura e, pochi mesi dopo, il 31 marzo è costretta a chiudere. Marx si dedica allora agli studi di filosofia, inizia a fare i conti con il “materialismo” di Feuerbach e scrive la “Critica del diritto pubblico di Hegel”. Ruge lo invita a raggiungerlo a Parigi, dove gli offre un posto di condirettore della rivista “Annali franco-tedeschi” e uno stipendio di 500 talleri. Questa prospettiva lo convince a sposare Jenny nella piccola chiesa luterana di Kranznach (19 giugno). Poi partono per la Francia. Destinazione: Parigi.
1844 Gli “Annali franco-tedeschi”, però, fanno la fine della Gazzetta Renana: Marx scrive due articoli, “Sulla questione ebraica” e “Sullo Stato e sulla religione” che provocano la reazione della Prussia che interdice ai redattori il rientro in Germania. Marx inizia a frequentare Blanc e Proudhon, ma anche l’anarchico Bakunin e il poeta tedesco Heine. Scrive i “Manoscritti parigini (Manoscritti economico-filosofici)” in cui denuncia l’alienazione del lavoro industrializzato. Entra nella “Lega dei Giusti” e collabora con il giornale comunista “Vorwarts”. Tutta questa attività gli procura l’espulsione dalla Francia.
1845-1846 Si trasferisce nella più tollerante Bruxelles. Pubblica in febbraio con FRIEDRICH ENGELS “La Sacra famiglia” contro le concezioni filosofiche di Bauer. A primavera Engels lo raggiunge a Bruxelles e nell’estate i due amici compiono un viaggio in Inghilterra per prendere i contatti con le associazioni operaie, in particolare con i cartisti. Sempre con Engels inizia la stesura dell’ “Ideologia tedesca”, prima organica esposizione del MATERIALISMO STORICO. Scrive le “Tesi su Feuerbach”.
1847 Primo congresso della Lega dei comunisti, nata dalla Lega dei giusti, che incarica Marx di stenderne il “manifesto”.
1848 L’Europa è scossa dalle rivoluzioni. Scrive insieme ad Engels il MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA. Per la sua attività politica riceve l’ordine di abbandonare il Belgio. Visto il clima meno ostile della Germania verso i fuoriusciti, decide di rientrare in patria e fonda la “Neue Rheinische Zeitung”, che plaude alla rivoluzione parigina del giugno.
1847-1850 Nuovamente espulso dalla Prussia, Marx torna a Parigi, dove lo raggiunge la moglie, che aspetta un quarto bambino. Ma il governo francese gli vieta di rimanere sul suolo della Repubblica e Marx decide di trasferirsi a Londra. Qui, nonostante gli aiuti economici di Engels, vive in condizioni molto critiche.Tiene alcune conferenze presso l’Associazione culturale operaia comunista, prima traccia che lo avrebbe condotto alla stesura de IL CAPITALE.
1851-1856 Le sue condizioni economiche sono disastrose: “Non posso più uscire di casa avendo gli abiti impegnati”. Scrive “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte” in cui analizza il colpo di stato del 2 dicembre 1851. Su sua proposta, la Lega dei comunisti viene sciolta. Nonostante i costanti aiuti dell’amico Engels e di altre persone, vive in condizioni di assoluta miseria. Nel 1854 la famiglia Marx si trasferisce in uno dei quartieri più malsani di Londra, Soho. Muore il piccolo Edgard, affettuosamente chiamato Musch. Per Marx è un dolore terribile. Nel 1856 grazie all’eredità della madre di Jenny, lasciano le due stanze soffocanti di Soho e si trasferiscono in Maintland Park, alla periferia di Londra.
1857 Marx riprende i suoi studi di economia. Inizia la stesura dei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, ampio lavoro preparatorio a “Il Capitale”.
1859-1863 Nel 1859 termina il manoscritto “Per la critica dell’economia politica”. Nel 1860 si intensificano i suoi rapporti con Lassalle che, come Marx, era giunto al socialismo attraverso la filosofia hegeliana. Per Marx sarà un poco un suo allievo. Lassalle morirà in duello nel 1864. Nel 1861 Jenny si ammala di vaiolo; qualche mese dopo anche Marx contrae e supera la stessa malattia. Per far fronte alla grave situazione economica della famiglia, fa domanda di assunzione nelle Ferrovie dello Stato, ma la richiesta viene respinta per la calligrafia pressocchè illeggibile. Alla fine del novembre 1863 muore sua madre; eredita un piccolo lascito dalla morte della madre che gli consente di superare i momenti peggiori.
1864 Nasce l’Associazione internazionale dei lavoratori (la PRIMA INTERNAZIONALE) e viene affidato a Marx il compito di redigere il programma. I primi anni di vita dell’Internazionale sono caratterizzati dalle polemiche tra la linea egemone di Marx e quelle minoritarie di Mazzini e Bakunin.
1865-1872 Nel 1865 scrive “Salario, prezzo e profitto”. Gli impegni per l’Internazionale gli consentono a fatica di trovare spazi per la stesura de “Il Capitale”. Nel 1867, presso l’editore Meissner di Amburgo esce il primo libro de “IL CAPITALE”, stampato in 1.000 esemplari. Le condizioni di famiglia sono sempre critiche sino a quando Engels non vende la sua parte di proprietà della fabbrica di Manchester e si impegna a corrispondere una somma fissa alla famiglia Marx, che finalmente può risolvere, in modo definitivo, i propri problemi economici. 1871: l’Impero francese cede sotto i colpi della Prussia di Bismarck e la Francia diviene nuovamente repubblicana. Quando i tedeschi chiedono il disarmo della Guardia nazionale (formata da proletari e borghesi radicali), l’insurrezione è generale: viene proclamata la COMUNE DI PARIGI e il potere passa nelle mani del popolo. Il governo di Thiers fugge a Bordeax. In maggio il governo decide la repressione sanguinosa della Comune parigina. I comunardi resistono ma sono battuti e massacrati (25.000 morti). Marx scrive la “Guerra civile in Francia” in cui esalta la Comune di Parigi come primo esperimento di “governo proletario” e grande bandiera del comunismo rivoluzionario.
1873-1880 Si aggravano le sue condizioni di salute, mentre sua figlia Eleanor si impegna in politica. Nel 1875 scrive il terzo volume de “Il Capitale”. In maggio, al Congresso di Gotha, nasce il Partito operaio socialdemocratico tedesco. Marx dissente dalla sua linea politica (“Critica al programma di Gotha”). Nel 1876 si scioglie, a Filadelfia, la Prima Internazionale. Anche lo stato di salute di Jenny diviene grave verso il 1879. Marx scrive e si occupa della situazione russa.
1881-1882 Il 2 dicembre del 1881 Jenny muore. Marx ne riceve un colpo tanto duro da non risollevarsi più: la sua salute è così sempre più minata. Sono ormai ricorrenti accesi colpi di tosse che non gli danno tregua. Passa, nel giugno del 1882, con i nipoti un periodo ad Argenteuil.
1883 A gennaio muore la primogenita di Marx, Jenny, a soli 38 anni. Questo ulteriore durissimo colpo lo ferisce a morte: alla bronchite si aggiunge un’ulcera polmonare. Il 14 marzo, alle 2 e 45 del pomeriggio, anche Marx muore. Viene sepolto nel cimitero londinese di Highgate il 17 marzo. Engels recita una breve orazione funebre che termina così: “I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. E’ morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale. Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!”.
Tutte e tre le figlie di Marx amavano un gioco di società, molto popolare in età vittoriana, chiamato ‘Confessioni’ e verso la metà degli anni Sessanta invitarono il padre Karl a sottoporsi all’interrogatorio. Ecco le sue risposte:
La virtù che preferisci: La semplicità
La qualità che preferisci in un uomo: La forza
La qualità che preferisci in una donna: La debolezza
La tua caratteristica principale: La determinazione
La tua idea della felicità: Lottare
La tua idea dell’infelicità: La sottomissione
Il difetto che scusi di più: La credulità
Il difetto che detesti di più La servilità
Ciò che ti disgusta di più: Martin Tupper
La tua occupazione preferita: Razzolare tra i libri
Il tuo poeta preferito: Shakespeare, Eschilo, Goethe
Il tuo scrittore preferito: Diderot
Il tuo eroe preferito: Spartaco, Keplero
La tua eroina preferita: Margherita
Il tuo fiore preferito: La dafne
Il tuo colore preferito: Il rosso
Il tuo nome preferito: Laura e Jenny
Il tuo piatto preferito: Il pesce
La tua massima preferita: Nihil humani a me alienum puto
Il tuo motto preferito: De omnibus dubitandum
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IMMANUEL KANT
LA VITA E IL PERIODO PRECRITICO
Kant opera negli ultimi decenni del Settecento in Germania, in un’epoca per molti versi di transizione tra illuminismo e romanticismo. Risente di questa fase di transizione e, pur collocandosi a pieno titolo nell’illuminismo (di cui è l’ultimo e il massimo esponente), molti aspetti del suo pensiero sono già romantici. Rilevante è il fatto che egli operi in una realtà come quella tedesca che, per la sua collocazione ‘provinciale’ dal punto di vista culturale e politico, vede il penetramento di un illuminismo diverso da quello degli altri Paesi, un illuminismo più sfumato, il cui aspetto rivoluzionario di netta rottura e di critica verso il passato risulta smorzato. Che l’illuminismo in Germania sia più sfumato che altrove, lo si può facilmente evincere dall’uso che i tedeschi continuano a fare del latino, nella altre nazioni europeee ormai sostituito dalle lingue nazionali, atte a divulgare il più possibile la cultura e le scoperte filosofiche. Un altro aspetto che contraddistingue la realtà tedesca dalle altre in Europa è il fatto che, in ambito filosofico, in Germania non c’è la rottura definitiva con la metafisica, nè tantomeno il distacco degli intellettuali dalle università: Kant stesso sarà per tutto il corso della sua vita professore universitario. Si può dire, in altri termini, che la Germania di quegli anni è di gran lunga meno rivoluzionaria di molti altri Paesi, quali la Francia o l’Inghilterra; Kant è per molti versi un pensatore rivoluzionario, tanto da essere talvolta paragonato a Robespierre; eppure, letto in trasparenza, molti sono in lui gli aspetti conservatori: egli si presenta, più che come pensatore radicalmente rivoluzionario, come pensatore che cerca di dare una sistemazione definitiva alla culturta moderna . Kant accetta con entusiasmo le novità subentrate nella cultura moderna, cercando di dar loro una veste definitiva; quest’operazione egli la attuerà soprattutto con la scienza newtoniana: la filosofia di Kant è, infatti, per molti aspetti un tentativo di fondare filosoficamente la scienza di Newton e questo dimostra che egli non è un conservatore, ma anche che è meno rivoluzionario del previsto. La vita di Kant , interamente dedicata all’insegnamento universitario, è diventata quasi proverbiale per i pochi avvenimenti che la caratterizzano. Due però sono le tappe fondamentali che la segnano: la prima, risale a quando Kant rivendicò apertamente la libertà di pensiero, in opposizione con la censura che aveva avuto da dire sul suo scritto sulla religione costruita nei limiti della sola ragione. In Kant la libertà di pensiero è un tema centrale , che trova la sua massima trattazione nella Risposta alla domanda: che cosa è l’illuminismo? (1784) . In questo trattatello (che è il vero e proprio testamento spirituale dell’illuminismo), Kant definisce l’illuminismo come ‘ l’uscita dell’ uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso ‘ , quasi come se l’uomo non fosse ancora del tutto divenuto maggiorenne sul piano intellettuale, cioè capace di usare la propria ragione. Kant, riprendendo le tematiche tipicamente illuministiche della lotta ai pregiudizi, spiega che gli uomini, fino a quel momento, non hanno dovuto fare lo sforzo di pensare da soli perchè c’era chi lo faceva per loro: essi si sono dunque ridotti ad accettare le opinioni elaborate dagli altri senza vagliarle con la propria ragione. La minorità che ha caratterizzato fino ad allora l’uomo è interamente imputabile all’uomo stesso, che non ha avuto il coraggio nè la voglia di sapere; l’illuminismo è quindi un fatto di volontà e il suo motto è ‘ abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione! ‘. A questo punto, però, Kant (e qui si vede come egli sia per molti aspetti conservatore) distingue tra uso pubblico e uso privato della ragione : l’uso pubblico è quello che io faccio in qualità di libero cittadino, quello privato è invece quello che faccio nell’esercizio specifico di determinate funzioni. Come soldato impegnato in guerra, ad esempio, dovrò limitarmi ad obbedire, senza esprimere la mia disapprovazione (uso privato della ragione); quando però non sono più nelle vesti di soldato, ma in quelle di cittadino, posso liberamente esprimere la mia disapprovazione e tutte le obiezioni che desidero (uso pubblico della ragione); allo stesso modo, se un gruppo religioso mi paga per tenere la messa, io devo limitarmi ad eseguire e non mi è concessa la libertà di esprimere le mie riserve in merito a quella dottrina religiosa; come libero cittadino, invece, posso esprimere il mio disappunto e le mie perplessità. Nei due casi appena esaminati, non vi è alcuna violazione dell’obbedienza: ho libertà di parola, ma devo obbedire (anche se non approvo); e Kant tesse le lodi di Federico II, il sovrano imbevuto di razionalismo, il cui atteggiamento può così essere riassunto: ‘puoi pensare quello che vuoi, ma devi obbedire ai miei ordini’. Tuttavia Kant si accorge con grande acutezza che spesso la distinzione tra fatti e parole non è così facilmente operabile: il soldato che obbedisce agli ordini, ma li critica va oltre la libertà di espressione e raggiunge la fattualità, creando una situazione psicologica che favorisce la disobbedienza agli ordini: in questo modo, le parole diventano fatti. Kant riconosce dunque due limiti alla libertà di espressione: il primo è quello che risiede nella distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione, e il secondo è invece quello riguardante i casi in cui la libertà d’espressione non è del tutto legittima (come nel caso del soldato che obbedisce ma critica). L’altra tappa fondamentale della vita di Kant è legata all’atteggiamento assunto nei confronti della Rivoluzione francese: si narra che i concittadini di Kant regolassero i loro orologi in base alle sue passeggiate, che avvenivano immancabilmente in determinati orari, e che una sola volta egli mancò all’appuntamento: quando seppe della presa della Bastiglia. Anche quando la Rivoluzione prese una piega radicale, Kant restò coerente: non rinunciò mai a considerare la Rivoluzione come positiva per la storia dell’umanità e il popolo francese come il primo popolo che si era finalmente dato un regime del tutto degno del genere umano. Stranamente però nel giudicare la Rivoluzione e l’annosa questione della legittimità della ribellione, Kant sostenne che di fronte ad un’autorità legittimamente costituita la ribellione fosse illegittima; tuttavia questo non gli impedì di giudicare positivamente i contenuti del regime nato dalla Rivoluzione una volta che esso era nato: la Rivoluzione è stata illegittima, secondo Kant, perchè contro un governo legittimamente costituito, ma, una volta che essa c’è stata, non si possono non riconoscere i valori fortemente positivi scaturiti dal nuovo regime. Anche in merito a questo strano atteggiamento verso la Rivoluzione emerge la questione della libertà di pensiero: non c’è il diritto di opporsi ad uno stato costituito legittimamente, ma c’è il diritto di schierarsi, in qualità di liberi cittadini, a favore della Rivoluzione, una volta che essa ha preso il via. Tutto questo si collega ancora ad un altro opuscolo kantiano, dedicato alla politica e intitolato Per la pace perpetua : in esso, Kant ipotizza la possibilità di realizzare una pace perpetua, cioè di trovare un sistema di equilibrio internazionale che garantisca una volta per tutte la fine delle guerre. Kant non ipotizzava una sorta di unico stato mondiale, anzi, guardava con sospetto la cosa perchè in fondo la sua è una posizione liberale. Piuttosto, egli propone di creare una sorta di federazione mondiale degli Stati, a partire dall’Europa per poi coinvolgere l’intero mondo. In questo senso, Kant può essere considerato il teorico dell’Europa Unita. E’ interessante il fatto che egli scorga nella Francia repubblicana (per repubblicano Kant intende uno Stato in cui i cittadini prendano parte al governo) il punto di riferimento per questa confederazione: il ragionamento che porta il pensatore tedesco a scegliere la Francia e più in generale un Paese repubblicano è questo: Kant è convinto che in fondo i sovrani han sempre fatto le guerre come varianti dello sport della caccia, senza rimetterci molto; se si vuole davvero ottenere una pace perpetua, è necessario che a scegliere se fare la guerra o meno sia chi ne paga le conseguenze, ovvero il popolo: se spettasse ad esso la decisione, non vi sarebbero mai guerre, sostiene Kant. Quest’osservazione kantiana, però, non è del tutto corretta e nasce soprattutto in virtù dell’ottimismo illuministico che si respirava in quegli anni: il Novecento ha chiaramente mostrato come i popoli (pur pagandone le conseguenze) si lascino facilmente trascinare in guerra, a differenza di quel che pensava il filosofo tedesco. Piuttosto importante è la vita intellettuale di Kant : egli ebbe una prima formazione di stampo pietistico. Il pietismo è quella corrente protestante che, nata nel Seicento, si caratterizza per un intenso senso della spiritualità e per un rigorismo morale molto marcato: e sia il rigorismo sia l’interiorità spirituale sono due connotazioni fortissime nella filosofia di Kant; uno dei suoi testi più famosi (la Critica della ragion pratica ) è dedicato all’etica ed è evidentemente ispirato al pietismo. Nella formazione culturale del giovane Kant ebbero peso parecchi pensatori: va subito precisato che Kant non è un autore precoce (come saranno invece gli autori romantici: Schelling, ad esempio, a 25 anni aveva già scritto le sue opere più importanti), bensì giunge alla piena maturazione del proprio pensiero in età avanzata. Pur avendo composto parecchi scritti in gioventù, è solo con la Critica della ragion pura (1781), composta quando aveva ormai circa sessant’anni, che Kant raggiunge la maturità del suo pensiero. Tutto ciò che aveva scritto prima non è altro che una lunga e laboriosa preparazione a questo. La sua filosofia, del resto, viene solitamente suddivisa in due periodi, facendo riferimento alla stesura della Critica della ragion pura : il periodo che viene prima di quest’opera è definito ‘precritico’. A caratterizzare questo lungo periodo di maturazione filosofica, sono le continue oscillazioni dovute alle diverse influenze filosofiche che agiscono su Kant. Di esse, due sono quelle che si fanno più sentire: si tratta dell’empirismo e dell’innatismo. Nella metà del Settecento, in Germania, l’influenza di Leibniz era ancora fortissima, grazie anche alla diffusione e alla sistematicizzazione del suo pensiero operata da Wolff: e proprio queste due istanze, leibniziane e di sistematicizzazione, le ritroviamo in Kant; soprattutto l’idea di sistematicizzare è fortissima nel pensatore tedesco, quasi ossessiva, tanto che qualcuno ha detto che si tratta quasi di una gabbia che cristallizza il suo pensiero: sì, perchè se prendiamo la Critica della ragion pura noteremo in essa una sistematicità esasperata, ricercata; addirittura alle altre due grandi critiche (la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio ) egli tenterà di conferire la stessa sistematicità. Detto questo, Kant deriva da Leibniz parecchie concezioni, delle quali una resta fissa, assolutamente intoccabile: si tratta di un’istanza innatista sul piano gnoseologico, un rifiuto a pensare che tutto possa derivare solo dall’esperienza; come diceva Leibniz stesso, non c’è nulla nel nostro intelletto che prima non sia passato dall’esperienza, fatta eccezione per l’intelletto stesso. Naturalmente il materiale della conoscenza lo riceviamo dal’esperienza, ma a rielaborarlo è l’intelletto, che esula del tutto dall’esperienza stessa. Leibniz aveva avuto il merito di riconoscere, almeno embrionalmente, che le strutture con le quali organizziamo le conoscenze sono innate; la soluzione all’annoso problema del conflitto tra empirismo e innatismo la darà Kant, in modo definitivo: la materia della conoscenza deriva dall’esperienza, ma la forma della conoscenza è a priori. Kant mutua quindi da Leibniz l’istanza innatistica, pur depurandola: dal soggetto deriviamo le forme della conoscenza, dai sensi deriviamo invece i contenuti. Questo vuol dire che Kant (sostenendo che il materiale dela conoscenza derivi dall’esperienza) non attinge solo dall’innatismo leibniziano, ma anche dall’empirismo lockiano. Da Locke egli eredita anche il criticismo nei confronti degli strumenti conoscitivi a nostra disposizione, ponendosi il quesito: fin dove può arrivare la mia ragione? Locke diceva che la ragione è l’unico lume di cui possiamo avvalerci per illuminare il mondo, ma si tratta comunque di una luce limitata, che non può gettar luce su ogni cosa: ma la limitatezza di queso mezzo non autorizza a porre ad esso dei limiti esterni (quale la fede). Essendo l’unico strumento a disposizione, il lume della ragione è l’unico che abbia il diritto di indagare sui suoi stessi limiti, che non le sono comunque imposti dall’esterno. La ragione non è onnipotente, ma ha dei limiti intrinseci: questo distingue l’illuminismo dal razionalismo cartesiano, che, vedendo la ragione come onnipotente, scivolava, paradossalmente, nell’irrazionalismo al pari della religione: come la religione non ha fede nella ragione, così il razionalismo ha fede in essa, senza però indagare sui limiti che essa presenta. La Critica della ragion pura è proprio, come il Saggio sull’intelletto umano di Locke, un tentativo della ragione umana di riflettere su se stessa, un tentativo che per molti versi conclude il discorso avviato a suo tempo da Cartesio sul metodo da adottare: che mezzi ha a disposizione la ragione per conoscere? E fin dove si possono spingere tali mezzi della ragione? Ad indagare sui limiti della ragione deve essere la ragione stessa. Ma Kant, oltrechè dell’influenza di Locke e di Leibniz, risente anche di quella di Newton e di Hume: la filosofia di Kant (almeno nella sua parte teoretica, ossia nella Critica della ragion pura ), come accennato, si configura come tentativo di fondare filosoficamente la scienza moderna, la cui paternità è riconducibile soprattutto a Newton. A quest’ultimo spetta il merito di aver unificato in una sola legge (legge di gravitazione universale) quelle che in Keplero e Galileo erano leggi distinte: Keplero aveva elaborato le tre leggi sull’orbita ellittica dei pianeti, Galileo, invece, aveva formulato la legge di caduta dei gravi. All’epoca di Kant la formulazione scientifica di Newton è all’avanguardia perchè si configura come una formulazione pienamente matura del meccanicismo: ormai il meccanicismo cartesiano, rigurgitante di errori, è sorpassato. Cartesio, del resto, aveva respinto l’attrazione a distanza dei pianeti e dei corpi perchè puzzava troppo di animismo e rischiava di inficiare l’impianto meccanicistico, il quale implica invece un’azione per contatto. Le teorie di Newton, che proponevano, con la legge di gravitazione universale, un’attrazione reciproca dei corpi, erano state viste dai cartesiani come un infamante allontanamento dal meccanicismo, noi le vediamo invece come la sua forma più matura. E Kant, sotto questo profilo, la pensa come noi. A testimonianza del suo stretto rapporto con la scienza newtoniana va indubbiamente ricordato lo scritto, datato 1775, intitolato Storia universale della natura e teoria del cielo : in esso, Kant avanza l’ipotesi della nascita dell’universo a partire dalla formazione nello spazio di una nebulosa di materia, secondo le leggi di Newton; quest’opera testimonia, tra l’altro, grandi comptetenze scientifiche, perchè sarà poi riformulata dall’astronomo La Place e prenderà il nome di ipotesi Kant-La Place. Vi è poi un altro testo fondamentale, risalente al periodo precritico, che testimonia la vicinanza a Newton e, al tempo stesso, la presa di distanza da Leibniz: Newton e Leibniz avevano avuto due diverse concezioni del tempo e dello spazio. Per il pensatore inglese, il tempo era qualcosa di assoluto, cioè di indipendente dal soggetto che conosce e dagli oggetti immersi nello spazio stesso; anche se non vi fossero cose nè soggetti percepienti lo spazio, quasi come un enorme contenitore, continuerebbe ad esistere; per esso (dato da 3 coordinate, cioè tre numeri ciascuno dei quali dà un’informazione: non possono esserci al tempo stesso due oggetti ad occupare lo stesso spazio) è anzi indifferente che vi siano al suo interno soggetti e cose. La concezione di Leibniz, per molti versi più vicina a quella della fisica novecentesca, vuole sia il tempo sia lo spazio come inesistenti in assoluto, ma dipendenti dagli oggetti stessi: spazio e tempo per Leibniz non sono altro che le relazioni tra le realtà materiali esistenti: lo spazio è la relazione della coesistenza fra le cose, e il tempo della successione delle cose. Concettualmente per Leibniz prima ci sono le cose, poi il tempo e lo spazio, perchè ne sono relazioni (e una relazione deve per forza sussistere tra cose già esistenti): pur dipendendo dalle cose, spazio e tempo non dipendono per Leibniz dal soggetto, in quanto non hanno carattere meramente soggettivo. Per Newton è l’esatto opposto: prima ci sono lo spazio e il tempo, poi tutto il resto. E Kant, nel periodo precritico, scrive un opuscolo in cui prende le difese di Newton, servendosi, nella sua dimostrazione, dell’analisi degli oggetti simmetrici: la mano destra e la mano sinistra, pur essendo simmetriche (cioè avendo una relazione interna tra le parti uguale, ma capovolta), non sono congruenti (cioè non occupano lo stesso spazio); ne consegue che se lo spazio fosse soltanto la relazione delle parti di un oggetto, lo spazio occupato dalla mano destra e dalla sinistra (la cui relazione interna è uguale, seppur capovolta) dovrebbe essere uguale, ma così non è: infatti (ed è evidente nel caso delle mani) dove c’è la stessa relazione, non c’è lo stesso spazio, ovvero il rapporto tra le parti non è lo spazio. Il che spiega chiaramente che la relazione delle parti non fa lo spazio , come invece sosteneva Leibniz, ma che lo spazio è prima delle cose stesse, come voleva Newton. Nella fase critica, però, Kant, pur non rinnegando la sua adesione alla tesi di Newton, opererà una modifica: è vero che lo spazio e il tempo sono assoluti e indipendenti dagli oggetti, di cui sono anzi la condizione di esistenza, spiegherà, ma è altrettanto vero che essi sono in qualche modo dipendenti dal soggetto. Tra i vari pensatori che influiscono su Kant vi è pure l’ inglese Berkeley , il quale sosteneva che essere vuol dire essere percepiti: anche nel caso in cui non vi fossero più gli uomini, le cose continuerebbero ad esistere perchè percepite da Dio; Berkeley conferiva così alla propria filosofia una sfumatura idealistica (negando l’esistenza autonoma delle cose). Quando Kant scriverà la Critica della ragion pura , molti vedranno erroneamente in essa una banale riproposizione delle tesi esposte a suo tempo da Berkeley: il che spinse Kant ad effettuare una rivisitazione dell’opera in cui confutava l’idealismo e prendeva le distanze da Berkeley. Oltre a Berkeley, Kant risente anche dell’influenza di Hume , a tal punto che egli riconoscerà al pensatore scozzese il merito di averlo destato dal suo sonno dogmatico. Quest’espressione, divenuta celebre, dà quasi l’idea di un’illuminazione improvvisa arrivata dalla lettura dei testi humeani, i quali hanno svolto su Kant una funzione anti-dogmatica, l’hanno cioè destato da quel sonno che l’aveva portato ad accettare in maniera acritica alcuni punti fermi della metafisica e del comune modo di pensare: Hume aveva mostrato che la nozione di sostanza e di causa, da tutti accettate come evidenti, in realtà non erano poi così ovvie: chi mi dice che il mondo sia effettivamente un insieme di sostanze tra loro legate da rapporti causali? Non posso dimostrarlo razionalmente, ma ne sono certo per via della credenza immediata dettata dalla mia stessa natura di uomo, la quale mi invita ad accettare le nozioni di causa e sostanza, secondo Hume. Una volta svegliato da Hume, Kant ne prenderà poi le distanze perchè convinto che sebbene infondate razionalmente, le nozioni di causa e sostanza, a differenza di quanto credeva il pensatore scozzese, possano essere fondate dalla ragione. Certo, Hume ha perfettamente ragione a dire che le nozioni di causa e sostanza non sono ovvie, ma, detto questo, bisogna spingersi oltre, provando, con un percorso originale, a fondarle. E a proposito è interessante ricordare uno scritto kantiano (di tutti forse il più piacevole alla lettura) risalente al 1766, intitolato I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica . Lo spunto per quest’opera sorge in occasione di un fatto contingente: una conoscente aveva chiesto a Kant il parere a riguardo di un bislacco personaggio di allora, dalle idee strane e, a quanto sosteneva, capace di entrare in contatto col mondo sovrasensibile e spirituale. Kant ne approfitta e scrive questo libercolo, effettuando un capovolgimento ironico (evidente a partire dal titolo), quasi a dire che quel personaggio è un fanfarone che vuole andare al di là dell’esperienza sensibile allo stesso modo in cui spesso la metafisica ha costruito castelli in aria, cercando illegittimamente di andare oltre l’esperienza: i sogni della metafisica vengono dunque accostati a quelli del fanfarone e ritenuti dei puri vaneggiamenti. Questo testo costituisce l’apice della polemica kantiana verso la metafisica, una polemica che trova appunto in Hume il suo massimo eroe. Questa posizione di insofferenza verso la metafisica nel periodo critico si attenuerà e, sebbene Kant continuerà a ritenere erronea la pretesa della metafisica di spiegare ciò che è al di là del mondo fisico, tuttavia egli spiegherà che si tratta di una pretesa innata nella natura dell’uomo stesso, il quale sente l’esigenza di porsi queste domande e di rispondere ad esse. Dirà che alcune idee metafisiche (ad esempio Dio) hanno una certa funzione nella conoscenza (ad esempio, non posso conoscere Dio, ma l’idea di Dio mi aiuta a capire molte altre cose), e che esse, sebbene inaccessibili alla conoscenza, per altri versi sono accessibili al campo morale ed etico (ad esempio, Dio non lo posso conoscere, ma nell’etica, scegliendo come comportarmi, mi baso sul concetto di Dio). A quegli anni risale anche un’altra opera kantiana, che segna il distacco di matrice humeana dalla metafisica: L’unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio (1763) . Qui Kant distrugge la classica argomentazione ontologica di Anselmo da Aosta: Anselmo aveva dimostrato l’esistenza di Dio partendo dal concetto stesso di Dio, inteso come l’essere perfettissimo, e spiegando che Dio, la cosa più perfetta di ogni altra, per essere tale non può mancare di esistenza; l’esistenza, in quanto perfezione, per Anselmo fa parte dell’essenza, e un concetto (pura essenza) privo di esistenza, non può essere perfetto. Ma Kant confuta quest’argomentazione, sostenendo che l’esistenza non può a nessun titolo far parte dell’essenza ; il concetto di una cosa, sia che essa esista sia che non esista, non varia e l’esistenza è come se si aggiungesse dall’esterno: il concetto di giraffa è perfetto di per sè, anche se le giraffe non esistessero. Kant si avvaleva di un esempio: certo i 100 talleri che ho in tasca sono diversi dai 100 talleri che io penso, già solo perchè con quelli in tasca posso fare acquisti, ma non è una differenza di essenza, non è, come credeva Anselmo, che i 100 talleri esistenti siano più perfetti e abbiano più valore dei 100 talleri pensati; non è vero che una cosa esistente è più grande della medesima cosa pensata come se inesistente. L’esempio dei 100 talleri rende bene l’idea perchè, se come dice Anselmo ciò che esiste vale di più ed è più grande di ciò che è solo pensato, avendo 100 talleri in tasca, pensando quei talleri, dovrei averne in mente meno, solo 90, ad esempio, perchè una cosa solo pensata vale meno di una esistente. Così facendo, Kant smonta la prova anselmiana e mostra che i 100 talleri, sia che esistano sia che non esistano, hanno la stessa essenza. L’esistenza è invece qualcosa che si aggiunge dall’esterno, è la posizione (l’essere posto) di qualcosa: esiste ciò che è dato o può essere dato nell’esperienza di qualcuno: l’essenza di libro non cambia a seconda che il libro esista o meno, e posso dire che il libro esiste perchè mi è dato all’esperienza (visiva, tattile, etc.). Ne consegue che all’esistenza di qualcosa si arriva sempre dall’esperienza, mai dall’essenza, e quindi Anselmo ha sbagliato credendo di poter dimostrare l’esistenza di Dio partendo dalla sua essenza. In L’unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio , Kant, smontata la prova ontologica, spiega che vi è un solo argomento per dimostrare l’esistenza di Dio, e tale argomento si basa appunto sull’esperienza: si tratta della dimostrazione (‘del principio di ragion sufficiente’) data a suo tempo da Leibniz. Non vi è nulla che avvenga senza un motivo: ne consegue che si deve trovare un qualcosa che si spieghi da solo, che sia motivo di se stesso e che faccia derivare da sè tutto il resto: si tratta di Dio. Successivamente Kant rifiuterà quest’argomentazione, ma manterrà valida la critica alla prova di Anselmo, spiegando anzi, nella Critica della ragion pura , che tutte le prove dell’esistenza di Dio sono riconducibili alla prova di Anselmo; ma se essa è falsa, anche tutte le altre (che da essa derivano) lo sono. In effetti la prova della dimostrazione dell’esistenza di Dio addotta da Kant in quest’opera è molto discutibile, e lui stesso se ne rende conto, a tal punto che, sul finale dell’opera sull’unico argomento possibile, troviamo scritto: ‘ se è necessario convincersi dell’esistenza di Dio, non è altrettanto necessario che la si dimostri ‘. Nel 1770 Kant pubblica un’opera di fondamentale importanza nel suo percorso filosofico: si tratta della Dissertazione del 1770 sulla forma e i princìpi del mondo visibile e intellegibile: l’importanza di questo scritto risiede nel fatto che esso segna il periodo di transizione da fase precritica a fase critica; dopo averla pubblicata, Kant non scriverà più nulla di significativo per 11 anni: egli sente l’esigenza di riflettere prima di pubblicare qualcosa di davvero importante. Possediamo delle lettere kantiane risalenti a quel periodo in cui il pensatore tedesco spiega di essere impegnato nella preparazione di una grande opera, la Critica della ragion pura , che comporrà, nel 1781, in due soli mesi . Dalle lettere, è interessante notare, emerge che Kant aveva pensato a realizzare un’unica opera in cui illustrare i concetti che invece poi inserirà in due opere distinte, la Critica della ragion pura (dedicata alla gnoseologia) e la Critica della ragion pratica (dedicata alla praticità). Nelle lettere Kant non accenna minimamente a quella che sarà la terza grande critica, la Critica del giudizio (dedicata all’estetica): non riteneva infatti l’estetica suscettibile di trattazione critica. Esiste poi un Opus postumum , una raccolta di riflessioni kantiane pubblicate postume, in cui emergono alcune sfumature del suo pensiero, in particolare a riguardo di quella che Kant chiamerà la ‘cosa in sè’: in questi scritti essa tenderà a subire delle modificazioni. Tornando alla Dissertazione del 1770 , quel che emerge in essa e che sarà presente, seppur in modo diverso, nel periodo critico è la distinzione tra fenomeno e noumeno. Fenomeno (dal grecofainomenon , ciò che appare ) è ciò che appare, è l’oggetto dell’esperienza sensibile, mentre noumeno (dal greco noumenon ciò che è pensato ) è ciò che viene pensato, il possibile oggetto del pensiero. Questa distinzione rievoca quella operata a suo tempo da Platone tra sensibile e intellegibile, anche se in realtà, per Platone, si trattava di una distinzione tra due diversi oggetti del pensiero (una cosa era il cavallo, un’altra l’idea di cavallo e altra cosa era conoscere la prima rispetto alla seconda: si poteva conoscere una realtà a livello sensibile o pensandola con l’intelletto), per il Kant della Dissertazione, invece, si tratta di due livelli graduali: prima conosco la cosa come appare (conoscenza fenomenica), poi come effettivamente è (conoscenza noumenica). Ed è solo la conoscenza intellettuale (noumenica) che mi fa vedere come la cosa è realmente. In un secondo tempo, Kant introdurrà il concetto di ‘cosa in sè’ come sinonimo di noumeno: parla di cosa in sè perchè si tratta della cosa non in riferimento alla mia attività conoscitiva, ma slegata, a sè stante. Tuttavia la differenza lampante tra il Kant della Dissertazione e quello della Critica della ragion pura sta nel fatto che nel 1770 egli, influenzato dal platonismo, è pienamente convinto della conoscibilità della cosa in sè, mentre nel periodo critico la dichiarerà inconoscibile. E’ ben evidente che la posizione kantiana nella Dissertazione è diametralmente opposta a quella assunta ne I sogni di un visionario , dove intendeva la metafisica come un puro vaneggiamento: nella Dissertazione Kant dice invece che posso vedere le cose come mi appaiono, ma, platonicamente, posso anche coglierne col pensiero l’essenza stessa (la cosa in sè). Il Kant della Ragion pura, invece, proclamerà l’inconoscibilità della cosa in sè asserendo che la nostra conoscenza si ferma al fenomenico. Esaminando la Dissertazione, però, è interessante notare che Kant, imbevuto di platonismo, introduce l’idea che la forma della conoscenza fenomenica sono lo spazio (per il mondo esterno: tutto quel che è fuori di me, lo percepisco nello spazio) e il tempo (per il mondo interiore: la successione dei miei stati interni). Qui Kant concepisce lo spazio e il tempo in maniera differente rispetto alle nozioni leibniziane e newtoniane, spiegando che essi non hanno esistenza oggettiva (come pretendeva Leibniz) e non sono assoluti, indipendenti dalle cose in essi immerse e dai soggetti conoscenti (come voleva Newton): per Kant spazio e tempo sono realtà soggettive , che non appartengono agli oggetti e al noumeno, ma al nostro modo di conoscere gli oggetti e al fenomeno. Essi appartengono dunque alle forme della conoscenza sensibile (fenomenica), fanno parte non della natura delle cose in sè, ma della natura del nostro modo di percepire: percepiamo, infatti, le cose nello spazio e nel tempo. Ma dobbiamo prestare attenzione a non farci ingannare dal linguaggio kantiano: egli per oggettivo intende sì qualcosa di opposto al soggettivo, un qualcosa che non dipende dal soggetto ma è a sè stante (il noumeno), tuttavia in Kant il termine ‘oggettivo’ è spesso sinonimo di ‘universale’: ad esempio, spazio e tempo sono soggettivi, nel senso che non appartengono alle cose come sono in sè, ma alle cose come appaiono a noi; detto questo, però, Kant dice anche che la nostra conoscenza delle cose nello spazio e nel tempo è oggettive, ha cioè valenza universale, vale per tutti i soggetti umani. Dire che la conoscenza fenomenica è oggettiva sembra un paradosso, perchè il fenomenico è soggettivo, non attinge la cosa oggettivamente come è in sè: però, avendo tutti gli uomini la stessa struttura mentale, allora conoscono le cose, sostanzialmente, tutti nella stessa maniera, che non è oggettiva nel senso che attingono la cosa in sè, ma è oggettiva nel senso che tutti la percepiscono fenomenicamente allo stesso modo: quando, ad esempio, parlo della penna, nessuno può cogliere il noumeno, ma dicendo ‘la penna è qui’ tutti mi capiscono perchè hanno le mie stesse strutture mentali. Così si spiega dunque perchè per Kant la conoscenza fenomenica è oggettiva (universale), grazie al fatto di essere soggettiva : avendo tutti noi gli stessi strumenti per conoscere le cose in modo soggettivo (nello spazio e nel tempo), si tratta però di una conoscenza universale, cioè oggettiva; il che ci permette di comunicare. Protagora diceva che l’ uomo é misura di tutte le cose e questa espressione può anche significare che l’ uomo in quanto tale (il genere umano) conosce le cose come gli appaiono e non può fare altrimenti. Ora, quest’ interpretazione rispecchia molto bene il pensiero di Kant: il genere umano conosce le cose come appaiono (fenomenicamente), ossia ciascuno le conosce soggettivamente, come appaiono a lui; ma tuti gli altri uomini, dotati delle stesse strutture mentali, le conoscono soggettivamente allo stesso modo: si tratta allora di una conoscenza soggettiva (fenomenica: basata sull’apparenza), ma oggettiva (universale, uguale per tutti gli uomini). Ad accomunare Protagora e Kant è poi il fatto che per entrambe l’uomo può conoscere (e non può fare altrimenti) le cose come gli appaiono, quasi come se avesse davanti agli occhi delle lenti colorate non rimuovibili che gli fanno vedere il mondo in un determinato modo. Tuttavia, il Kant della Dissertazione è pienamente convinto che si possa conoscere anche il noumeno, accanto al fenomeno: vale a dire, che se la conoscenza fenomenica avviene attraverso il filtro dello spazio e del tempo e ci fa vedere le cose non come sono, ma come appaiono, tuttavia esiste la conoscenza noumenica, che ci fa cogliere le cose in sè, come oggetti del pensiero. Nella Critica della ragion pura , invece, spiegherà che è conoscibile solo il fenomeno e che in realtà, mentre lo spazio vale solo per il mondo esterno, il tempo, invece, oltre a valere nell’interiorità, vale anche per l’esterno: infatti anche le percezioni esterne diventano qualcosa di interiore a me (quando vedo un libro blu, è una sensazione di qualcosa di esterno, ma come sensazione è interna, perchè il blu entra nella mia testa, nel mio interno: e qui regna il tempo). Sempre nella Critica della ragion pura , Kant spiega che non si possono conoscere le cose in sè, ma le si possono comunque pensare: penso alla penna conosciuta fenomenicamente, la percepisco e la inquadro intellettualmente: rifletto sul fatto che al di là della penna c’è la penna in sè, da cui derivano tutti gli elementi sensibili, e sebbene io possa pensarla, tuttavia non posso conoscerla, perchè dovrei avere un concetto privo di contenuto della penna, senza relazioni con altre cose: dovrei avere il noumeno.
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HEIDEGGER
La grandezza dell’uomo si misura in base a quel che cerca e all’insistenza con cui egli resta alla ricerca.
CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
1889,
Martin Heidegger nasce a Messkirch, Baden, il 26 settembre del 1899 (cinque mesi dopo nascerà a Vienna il filosofo suo contemporaneo Wittgenstein). I suoi genitori, Friedrich e Joanna Heidegger, lo educarono agli studi classici.
1909,
Si iscrive all’università di Friburgo, dopo aver frequentato le scuole prima a Costanza e poi nella stessa città universitaria.
1913,
Porta a termine gli studi universitari con la tesi su La teoria del giudizio nello psicologismo. Contributo critico-positivo alla logica.
1916,
Dopo essere divenuto libero docente presso l’università di Friburgo, nel marzo diventa assistente di Husserl, che venne chiamato per occupare la cattedra di filosofia. Prende il via un periodo di grande intesa tra i due filosofi.
1923,
Sempre a Friburgo, tiene dei seminari e corsi sulla filosofia classica e medievale. Lascia Friburgo per andare ad occupare la cattedra di filosofia dell’università di Marburgo. Qui tiene lezioni su Kant, Aristotele, Platone e Cartesio.
1928,
E’ chiamato a succedere a Husserl alla cattedra di Friburgo.
1933,
E’ nominato rettore dell’università di Friburgo. Nel suo discorso, Autoaffermazione dell’università tedesca, tenuto durante l’insediamento al rettorato, sono evidente le idee politiche che lo avevano fatto aderira, nello stesso anno, al Partito nazionalsocialista. Si dimetterà dalla carica di rettore dopo un anno dalla sua nomina di rettora per incompatibilità con il regime politico. Da questo momento comincia un periodo di lungo silenzio, Heidegger infatti non scriverà nè pubblicherà quasi nulla.
1935,
Nella suo scritto, Introduzione alla matafisica, sono evidenti chiari accenni con il regime nazista, che egli vede come evento strettamente legato alla metafisica, la sua posizione rimarrà comunque sempre ambigua.
1936,
Tiene una conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia a Roma.
1942,
Esca La dottrina platonica della verità.
1944
Un divieto delle potenze occupanti impedisce ad Heidegger di portare avanti la sua attività accademica. Riprende in questi anni a pubblicare nuovamente.
1950,
Tiene una serie di conferenze tra le quali quella di Monaco su La cosa; i temi trattati in questi seminari sarranno gli elementi su cui si svilupperà la meditazione heideggeriana negli anni successivi.
1958,
Riprende, seppur in un primo momento in forma privata, corsi all’università, che hanno per tema il pensiero di filosofi come: Parmenide, Aristotele, Leibniz.
1976,
Muore a Messkirch, il 26 settembre del 1976.
RIASSUNTO SU HEIDEGGER
"Arriviamo a capire che cosa significa pensare quando noi stessi pensiamo. Perché un tale tentativo riesca, dobbiamo essere preparati ad imparare a pensare. Non appena ci impegnamo in questo imparare, abbiamo già anche confessato che non siamo capaci di pensare. Eppure, l'uomo significa colui che può pensare, e ciò a giusto titolo " ("Che cosa significa pensare").
Martin Heidegger (1889-1976) ha una formazione giovanile di stampo teologico e religioso, molto influenzata dall'ambiente familiare, e questa matrice teologica resterà costante in tutto il suo pensiero; la sua fu una vita piuttosto regolare, segnata da pochi eventi, tra i quali il più importante fu senz'altro l'adesione al nazismo: ciò ha fatto molto discutere e proprio per via di quest'adesione, dopo il 1945, Heidegger fu emarginato dagli ambienti culturali tedeschi. Essa risulta particolarmente fastidiosa se teniamo presente che il suo maestro, Husserl, fu espulso dalla Germania in quanto ebreo e Heidegger gli prese il posto negli ambienti accademici: in veste di rettore dell'università, pronunciò un acceso discorso in cui tesseva le lodi del nazismo; ma, per onestà, è bene ricordare che egli non ha mai abiurato, ma, al contrario, si è sempre assunto le sue responsabilità. E del resto la sua adesione al nazismo durò pochissimo: dopo il celebre discorso in cui elogiava il nazismo, Heidegger se ne allontanò, ritirandosi all'interno della vita accademica, e arrivò perfino ad opporsi vivamente all'espulsione nazista degli insegnanti ebrei. Trattando il suo pensiero, ci accorgeremo di come in realtà l'adesione heideggeriana al nazismo sia più complessa del previsto e non possa risolversi in una questione di comodo: si tratta di un'adesione che potremmo, in un certo senso, definire "strumentale", in quanto Heidegger vede nel nazismo non un fine, ma uno strumento attraverso il quale far emergere alcune cose importanti. Sul versante culturale, gli studiosi del suo pensiero hanno individuato essenzialmente due fasi nella sua filosofia: il punto di confine tra di esse si colloca, anche se in modo non del tutto ben definito (poiché in quegli anni il filosofo pubblica pochissimo), all'incirca negli anni '30. Dopo aver pronunciato il discorso rettorale di adesione al nazismo ed essersi immediatamente ritirato nella vita accademica, non pubblica più quasi nulla fino agli anni '40. Da quel momento in poi si entra in una nuova stagione del suo pensiero: tra l'Heidegger degli anni '20 e quello degli anni '40 troviamo quella che lui stesso definisce "Kehre", ovvero una svolta. Sul fatto che una svolta ci sia stata nel suo pensiero tutti gli studiosi concordano: meno chiaro, tuttavia, è di che genere essa sia stata. Qualcuno ha sostenuto che si tratta di una svolta radicale e che l'Heidegger degli anni '40 dica cose diversissime da quello degli anni '30, ma c'è anche chi, sulla scia dell'interpretazione che Heidegger stesso dà del proprio pensiero, tende a intendere tale svolta come lieve e piuttosto sfumata. Secondo questa linea interpretativa, il problema centrale nella filosofia heideggeriana resterebbe sempre lo stesso e a cambiare sarebbero esclusivamente gli strumenti impiegati dal filosofo nel tentativo di risolverlo. Questo permetterebbe anche di capire, almeno in parte, perché si studia Heidegger tra gli esistenzialisti sebbene egli non abbia mai accettato di essere etichettato come tale e, anzi, dopo la svolta, abbia polemizzato aspramente con l'esistenzialismo: ancora più curioso rispetto a questo rifiuto dell'etichetta esistenzialista è il fatto che la stragrande maggioranza dei pensatori esistenzialisti si ispiri ad Heidegger sebbene egli neghi che la propria filosofia sia esistenzialista. In gioventù, Heidegger oscilla fra teologia, fenomenologia e ontologia: proprio come Nietzsche, anch'egli può essere considerato un pensatore "inattuale", che scrive nel Novecento ma che si occupa di problemi fin troppo classici. Heidegger, infatti, dedica costantemente la sua attenzione alla metafisica, in particolare alla dottrina dell'essere in Aristotele: come testimonianza dei suoi interessi metafisici merita di essere ricordata la sua tesi di dottorato su "La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto" (1915). L'ontologia sarà il nucleo di indagine della filosofia heideggeriana, anche nei momenti in cui il filosofo sembrerà più distante da essa. In questo periodo giovanile, però, egli si occupa anche di teologia di tradizione paolina: affrontando il problema della teologia cristiana, Heidegger insiste sul carattere di "evento" tipico dei contenuti cristiani. Nell'ontologia tradizionale le strutture fondamentali della realtà non avvengono, ma sono: ad avvenire sono i fatti, mentre, secondo quella tradizione avviata da Parmenide, l'essere in quanto tale è statico; in una concezione del genere, nota Heidegger, l'essere e il tempo sono due concetti che si escludono a vicenda, poiché l'essere è atemporale e il tempo è la dimensione del divenire. La novità introdotta dal cristianesimo è che l'essere per antonomasia (Dio) non si limita ad essere, ma, attraverso l'incarnazione del Verbo, avviene, cosicchè ci si trova di fronte ad un evento dell'essere. Si tratta di un'innovazione radicale, che stravolge la tradizione di stampo parmenidea: il fatto stesso che Platone parlasse in una sola opera (Il Timeo) del tempo e in essa non trattasse dell'essere (le idee), attesta la tradizionale inconciliabilità delle nozioni di essere e di tempo. Queste riflessioni di fondo resteranno costanti in tutta l'attività filosofica di Heidegger, tant'è che la sua opera più famosa, del 1927, si intitolerà "Essere e tempo". E una delle principali prerogative di Heidegger è di giocare con le parole: in tedesco, "Essere e tempo" si intitola "Sein und Zeit" e il filosofo fa notare la forte assonanza tra i due termini, quasi come se, in definitiva, l'essere e il tempo fossero la stessa cosa. Ma in gioventù Heidegger, oltrechè dalla teologia, risulta anche influenzato dalla fenomenologia di Husserl: in particolare, in Heidegger resta l'idea husserliana che la coscienza sia sempre costitutivamente intenzionale; la coscienza, in altri termini, si riferisce sempre a qualcos'altro, qualsiasi atto umano è un riferirsi a qualcosa, cosicchè il nostro volere, pensare, e fare è sempre riferito a qualcosa. Se l'atteggiamento di Husserl, però, era iperclassico, in quanto portava all'esasperazione la tendenza teoretica riservata da Aristotele alla filosofia, quasi sganciandosi dal mondo (che non a caso veniva da Husserl messo tra parentesi), l'indagine esistenzialista (sebbene Heidegger rifiuti di essere bollato come "esistenzialista") verte sull'esistenza e quest'ultima implica l'essere immersi in quel mondo sul quale Husserl sospendeva il giudizio. Dunque Heidegger eredità la nozione husserliana di "intenzionalità", ma respinge nettamente l'ipotesi che essa resti interna solo all'orizzonte della coscienza: ne consegue che per Heidegger il carattere intenzionale non implica soltanto il tendere alle idee, ma anche il tendere e il riferirsi al mondo; questo atteggiamento, proprio di Heidegger, rispecchia in realtà buona parte delle posizioni esistenzialistiche, che per lo più vedono come marginale l'aspetto teoretico, tanto caro ad Husserl, perché l'esistenza è, in primo luogo, essere nel mondo. Se nel periodo giovanile il filosofo oscillava soprattutto tra la teologia e la fenomenologia, con la prima fase vera e propria della sua filosofia egli proietta la propria indagine sull'essere. Questa fase si apre con la pubblicazione di " Essere e tempo " : all'inizio dell'opera, Heidegger dichiara di condividere sostanzialmente l'antica affermazione aristotelica secondo cui il problema della filosofia è chiarire che cosa è l'essere; egli proverà dunque a fornire una risposta a tale quesito, ma fa subito notare come si debba necessariamente dare a tale domanda una risposta articolata in termini diversi rispetto a qualsiasi altra. Se alla domanda "cosa è x?" (dove x sta per "uomo", "animale", "casa", ecc) si può rispondere dando una definizione, cioè effettuando un ritaglio all'interno dell'essere, quest'operazione è inattuabile se ci domandiamo "cosa è l'essere", dato che l'essere è appunto quell'orizzonte all'interno del quale ritagliamo delle porzioni nel dare definizioni. E se l'essere è quell'orizzonte ultimo su cui si stagliano tutte le cose tranne che l'essere stesso, allora non ci si dovrà interrogare sulla definizione dell'essere, ma sul senso dell'essere: ed è a questo proposito che Heidegger si propone di percorrere una nuova strada, quella dell'analisi dell'esistenza. Infatti, per provare a comprendere il senso dell'essere si deve provare a porre questa domanda passando attraverso l'analisi di quell'ente particolarissimo che è radicato nell'essere e che si pone esso stesso domande sull'essere, quell'ente cioè per cui l'essere rappresenta un problema: per provare a cogliere il senso dell'essere si deve dunque provare ad indagare l'esistenza umana, dal momento che l'uomo è immerso nell'essere e ha la capacità di interrogarsi su di esso ( " l'uomo significa colui che può pensare ") . Cosa sono l'essere, l'ente e l'esistenza? L'essere, propriamente, non è una cosa: come aveva sottolineato Aristotele, la filosofia deve indagare sull'essere in quanto essere, depurato da ogni qualità ad esso inerente; da ciò deriva il fatto che l'essere non sia una cosa, ma l'orizzonte su cui si possono definire e riconoscere le singole cose, che altro non sono se non gli "enti". L'esistenza, invece, ha sempre un carattere di trascendenza, come aveva già sottolineato Kierkegaard: ciò significa che un ente che esiste sta fuori di sé, ovvero non è mai solo ciò che è in quel determinato momento, ma anche quello che progetta di essere per il futuro. Ogni esistenza, dunque, è un progetto, un essere slanciato verso l'avvenire: se la pietra racchiude in se stessa tutto il proprio significato, l'uomo, invece, non è mai tutto in se stesso, ma si trascende di continuo, quasi come se pendesse in avanti. Sotto questo profilo, per Heidegger, solo l'uomo esiste: ecco perché l'uomo è un ente ma, a differenza degli altri enti, è dotato di esistenza. Heidegger tende frequentemente ad impiegare parole antiche colorandole di nuovi significati, convinto che scavando in esse si possano trovare significati nascosti e più profondi. Per fare ciò, si avvale di un artificio grafico che mette in luce come, pur essendo termini di vecchia data, vengano ripresi in una nuova accezione: mette i trattini tra le lettere; e così progetto diventa pro-getto, a sottolineare l'idea del gettarsi avanti dell'esistenza; quest'ultima diventa e-sistenza, con l'idea del venir fuori di continuo verso il futuro. Letteralmente, "esistenza" in tedesco sarebbe "da-sein", cioè "essere qui": in italiano diventa "esser-ci" e implica che l'esistenza sia sempre situata in un luogo del mondo e questo è connesso con l'intenzionalità fenomenologica (per cui ogni atto è un riferirsi a qualcosa) e con l'idea che l'uomo sia l'unico ente che si interroga sull'essere; inoltre, suggerisce l'idea sartreana secondo la quale l'uomo è gettato nel mondo ed è condannato ad essere libero. Quella di Heidegger è dunque una posizione apparentemente esistenzialista che, se megli analizzata, si rivela invece ontologica: infatti, al pensatore tedesco interessa l'essere ma, poiché non lo si può trattare come tutti gli altri oggetti, egli ricorre ad un' "analitica dell'esistenza" orientata a cogliere il senso dell'essere. Ecco perché, per Heidegger, l'analitica esistenziale non è un obiettivo, ma solo uno strumento: e in "Essere e tempo" egli attua questa analitica dell'esistenza nel tentativo di cogliere il senso dell'essere, non per fare un'analisi fine a se stessa sul senso dell'esistenza umana; l'opera, tuttavia, resta incompiuta perché Heidegger dice che gli è mancato il linguaggio per sviluppare pienamente l'analisi ontologica. Da queste considerazioni emerge come, in realtà, il tema trattato nell'opera è "Esistenza e tempo", in quanto, per indagare sull'essere attraverso l'esistenza, Heidegger finisce per non trattare affatto la tematica dell'essere. L'ambiguità sta quindi nel fatto che ci troviamo di fronte ad un'opera che, nelle intenzioni dell'autore, doveva essere ontologica ma che in fin dei conti non fa altro che trattare dell'esistenza: ed è per questo motivo che molti pensatori hanno visto in Heidegger il punto di partenza per le riflessioni esistenzialistiche. Ma, stando a quanto abbiamo finora detto, possiamo dare ragione ad Heidegger quando dice che la "svolta" nel suo pensiero non è stata così radicale: il suo obiettivo resta sempre e comunque quello ontologico e se anche in "Essere e tempo" risalta l'analitica esistenziale, ciò non toglie che essa resti un mero strumento; sia nella sua prima fase (quella "esistenzialista") sia nella seconda (che sarà "ermeneutica") l'essere resta al centro dell'indagine. Nel periodo in cui Heidegger conduce l'analisi esistenziale, risulta centrale la coppia autenticità/inautenticità : già Kierkegaard, a suo tempo, aveva insistito sul fatto che è più facile che si salvi chi crede in qualcosa di sbagliato ma in modo sincero e autentico piuttosto di chi crede in modo inautentico in cose giuste. Heidegger riprende questa coppia di concetti e li applica all'esistenza, scavando, come sempre, nell'intimità delle parole e scoprendo in esse una verità nascosta. In particolare, egli nota, nella parola "autentico" è racchiusa la radice greca " autoV " , che significa "se stesso"; una cosa, pertanto, sarà autentica quando è se stessa, quando è propria fino in fondo. Cerchiamo di capire meglio in che senso: si può parlare di esistenza autentica quando l'esser-ci, soggetto dell'esistenza, compie scelte vere, appunto "autentiche", quando cioè nelle scelte mette in gioco se stesso come l'Abramo di Kierkegaard. Viceversa, un'esistenza sarà inautentica quando sarà caratterizzata da non-scelte, da un'assoluta non-originarietà. La distinzione nell'ambito dell'analitica esistenziale tra autentico e inautentico viene poi da Heidegger inserita in un contesto fenomenologico: si tratta, dice Heidegger, di vedere le strutture di fondo dell'esistenza così come esse si manifestano nella " quotidianità media ", ovvero nella vita di tutti i giorni. E dunque il pensatore tedesco procede all'analisi dei modi fondamentali in cui l'esistenza si manifesta: il primo concetto che emerge è che l'esistenza è un essere-nel-mondo ; i trattini tra una parola e l'altra servono, in questo caso, non a separare (come era nel caso dell'esser-ci), bensì ad unire. E dire "essere nel mondo" senza i trattini è un altro modo per dire esser-ci, dato che "essere qui" vuol dire appunto essere situati nel mondo: se invece poniamo i trattini tra una parola e l'altra (essere-nel-mondo), tutto cambia. Se infatti lo scrivo senza trattini, do per scontato che ci sia un mondo già costituito e un essere che ad esso si rapporta; ma Heidegger vuole sottolineare come il mondo, propriamente parlando, esiste solo nella misura in cui è costituito dalla coscienza: essa si riferisce sempre, husserlianamente, a qualcosa e ciò comporta un relazionarsi pratico col mondo; ne consegue che, proprio come per Husserl era la coscienza ad essere intenzionale, anche per Heidegger le cose stanno in questi termini. Il mondo non è un qualcosa che esista prima: al contrario, è la natura stessa della coscienza che, proprio in virtù del suo naturale relazionarsi intenzionale, si crea il mondo, il quale si trova così ad esistere solo nella misura in cui ci sono coscienze che si relazionano a qualcosa. Con quest'asserzione, però, Heidegger non intende avvicinarsi alle tesi idealistiche e, soprattutto, fichteane dell'Io che pone il non-Io: infatti, non è la coscienza che produce il mondo in sè, ma, semplicemente, il mondo è l'insieme delle cose utilizzabili. Che poi ci sia un mondo indipendente da noi e dalla nostra coscienza, ad Heidegger non interessa, perché per noi esiste solo e soltanto il mondo con cui ci relazioniamo e quel mondo è appunto prodotto dalla coscienza, come si evince benissimo nel momento in cui Heidegger dice che esso è l'insieme delle cose che possiamo utilizzare. In tale prospettiva, è centrale la categoria di cura : la cura consiste nel badare e nel prestare attenzione alle cose poiché, se la coscienza è intenzionalità, allora essa non può che tendere alle cose del mondo e prendersene cura. Ed è a questo punto che affiora uno dei maggiori stravolgimenti mai avvenuti nella cultura occidentale: da Aristotele in poi era invalsa l'idea che l'uomo avesse nell'ambito della realtà un atteggiamento teoretico da cui tutti gli altri derivavano (la tecnica stessa altro non era se non un'applicazione del sapere); Heidegger stravolge questa concezione antichissima e sostiene che l'atteggiamento intenzionale della coscienza costituisce il mondo come insieme di cose utilizzabili con l'inevitabile conseguenza che la modalità originaria della coscienza è pratica, volta all'azione, poiché tende a usare le cose e a crearsi un mondo di cose utilizzabili. L'attività conoscitiva non è più, aristotelicamente, alla base della natura umana ma, al contrario, è uno dei tanti modi in cui si possono utilizzare le cose come strumenti dell'esistenza: conoscere una cosa è uno dei tanti modi in cui posso usare quella cosa, instaurando con essa un rapporto teoretico. In questa maniera, l'esser-ci è essere-nel-mondo: il problema è che ci sono due modi diversi di essere situati nel mondo; uno è quello dell'autenticità, l'altro è quello dell'inautenticità. L'uomo, infatti, è un essere e, in quanto tale, nel relazionarsi col mondo manifesta spesso una tendenza che Heidegger definisce alla "deiezione", cioè al trasformarsi in una cosa come le altre: e ciò che distingue le cose dall'uomo è che esse sono tutte in se stesse, mentre l'esser-ci è sempre trascendente, ossia affacciato sul futuro. E nel suo relazionarsi col mondo, potrà assumere atteggiamenti che lo portino a rinunciare all'autenticità, rinunciando in questo modo all'esistenza e alla progettualità; il che richiama alla mente la vita estetica di Don Giovanni delineata da Kierkegaard, una vita in cui l'unica vera scelta che si compie è quella di non scegliere, cioè di lasciarsi vivere passivamente: e questa esistenza è immanentistica, non è vera, bensì è inautentica, dato che perde il suo carattere di libera progettualità proiettata nel futuro. L'esistenza inautentica, precisa Heidegger, è caratterizzata dal " Si " riflessivo (si fa, si pensa, si crede, ecc), imperante nell'età della massificazione: e con il solito scavo nella terminologia, si può notare come in tedesco la parola "man" ("Si") è molto affine a "mensch" ("uomo"), a sottolineare che il "Si" è l'atteggiamento proprio dell'uomo che si dedica ad un'esistenza inautentica, non propria. In particolare, questo atteggiamento nasce nel momento in cui l'uomo rinuncia alle proprie scelte per comportarsi nel modo in cui lo spinge a comportarsi il "Si", cioè la collettività: e in ciò egli diventa una "cosa" priva di progettualità, viene passivamente trascinato dalla corrente e si trova di fronte alla scelta conformistica. Quando l'esistenza umana è inautentica, perché dominata dal "Si", l'uomo non parla più né è indotto ad aspirare alla conoscenza: il parlare cede il passo alla "chiacchiera" e la conoscenza viene sostituita dalla "curiosità". Infatti, nel momento in cui cedo al "Si", non parlo più di cose che coscientemente sento mie e di cui voglio parlare con gli altri. Al contrario, "chiacchiero" avvalendomi di modi di pensare comune e tendo a parlare delle cose di cui tutti parlano nel modo in cui tutti ne chiacchierano. E Heidegger nota una cosa piuttosto interessante: non si può sfuggire al "Si" nemmeno facendo gli anticonformisti perché, in definitiva, anche l'anti-conformismo è un conformismo. Nel momento in cui regna il conformismo, infatti, tutti cercano disperatamente di sottrarsi ad esso e perciò si rifugiano nell'anti-conformismo che, diventando meta di tutti, è ancora sotto il controllo del "Si": trasgredendo la norma non si esce dai ranghi del "Si", nota Heidegger, perché non si compie una libera scelta personale, ma anzi si trasgredisce come "Si" trasgredisce, cioè nello stesso modo in cui lo fanno anche gli altri. Un esempio di anti-conformismo che sfugge al "Si" può essere quello di Socrate, il quale sa tanto inquadrarsi perfettamente nelle situazioni canoniche quanto sottrarsi ad esse: nel "Simposio" platonico, egli partecipa come tutti gli altri al convito ma poi, quand'è il momento, se ne va. Proprio in virtù dell'autenticità delle sue scelte egli è un vero anti-conformista: sceglie sempre liberamente senza mai farsi influenzare dal "Si". Oltrechè dalla chiacchiera, l'epoca contemporanea è secondo Heidegger caratterizzata dalla curiosità: l'interesse culturale autentico e genuino, profondo e motivato interiormente viene meno e cede il passo ad una banale e morbosa curiosità dominata dal "Si". Il risultato di questa situazione è la " deiezione ", cioè la trasformazione dell'uomo in cosa come tutte le altre: egli perde la sua libertà di scelta e tradisce l'esistenza autentica, abbracciando quella inautentica; quest'ultima, priva di ogni progettualità nel futuro, esula dalla temporalità, a differenza di quella autentica. Esaminiamo dunque l'esistenza autentica: centrale è il concetto di angoscia , che, come Kierkegaard, Heidegger riconduce alla paura del nulla. La grande novità consiste tuttavia nel fatto che Heidegger collega in positivo questo sentimento del nulla al problema della morte: riprendendo un'antica espressione platonica, si può affermare che la vita del saggio è una lunga preparazione alla morte, la quale (nella prospettiva platonica) altro non è se non un trapasso ad un'altra vita puramente spirituale; Dante stesso, similmente, afferma che il vivere è un correre alla morte. Heidegger, invece, parla espressamente di essere-per-la-morte , espressione che, un po' come quella platonica, suggerisce come il vivere sia in funzione della morte. In sostanza, ciò che Heidegger vuol dire quando parla di essere-per-la-morte è che la caratteristica costitutiva dell'esser-ci è di essere finito e, in virtù di ciò, di sentire la prospettiva del nulla e di essere colto per questo dall'angoscia, la quale è, appunto, il sentimento della morte: ora, questo sentimento, nella tradizione precedente ad Heidegger era per lo più stato considerato come distruttivo, dal momento che, in vista della morte, ogni nostra azione perde di significato e, non a caso, di fronte al senso di questo carattere distruttivo della morte l'uomo è ricorso alla religione, cioè al convincimento che la morte non sia la fine di tutto; così era anche per Platone, che concepiva la morte come apertura di una nuova e più alta prospettiva di vita. Per Heidegger, invece, con essa finisce tutto e vivere per la morte significa condurre la propria esistenza nella piena consapevolezza che il nostro orizzonte di vita è limitato, senza però far perdere di significato alla vita o approdare alla religione, come invece è sempre stato tradizionalmente. Heidegger dice infatti che sono proprio il carattere finito dell'esistenza e l'angoscia che ne deriva a conferire un senso alla vita: è proprio l'angoscia, ovvero l'aver sempre presente la finitudine della propria esistenza, a dare un senso autentico alle scelte che si compiono. Infatti, si può parlare di "esistenza autentica" solo nel caso in cui vi sia progettualità e libertà assoluta nelle scelte: ma le scelte, se inquadrate in un orizzonte di vita infinito, non hanno senso, non sono progettuali fino in fondo. In una prospettiva di vita eterna, le scelte perdono di significato perché sono sempre reversibili: supponendo di godere di una vita eterna, nel momento in cui scelgo un lavoro scartandone un altro, non sto compiendo una scelta totalmente libera e progettuale, perché se anche quel lavoro non mi piace, posso sempre sceglierne un altro, senza perdere mai tempo (visto che usufruisco di una vita eterna). Sembra quasi che Heidegger legga l'eventualità di una vita eterna come una condanna. E molti suoi lettori, riflettendo su queste sue considerazioni, hanno evocato a tal proposito la letteratura sui vampiri: essi esemplificano perfettamente la tematica heideggeriana dell'immortalità come condanna a vivere in eterno. Nell'ambito della vita finita, questo non avviene: il numero di anni di cui si dispone è finito, come anche il numero di scelte che si possono fare; e poi, oltre ad essere limitate, le scelte che si possono fare si escludono a vicenda e, spesso, non sono reversibili: come diceva Kierkegaard, la "logica" dell'esistenza è quella dell' "aut-aut", si sceglie liberamente o una cosa o l'altra, e il fatto stesso di compiere quella scelta esclude l'altra. Ecco perché per Heidegger l'esistenza è autentica quando è pervasa dall'angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della nostra finitudine: e il vivere-per-la-morte ha dunque una valenza altamente positiva, in quanto rende autentiche le scelte e, con esse, la vita; cosa che non potrebbe avvenire in una prospettiva di vita eterna. La conclusione provvisoria (in quanto l'opera resta incompiuta per la "mancanza di linguaggio" che impedisce all'autore di proseguire) di "Essere e tempo" concerne il carattere intrinsecamente storico dell'esistenza: le riflessioni sull'essere-per-la-morte suggeriscono efficacemente come l'esistenza non si collochi nell'eternità, ma in una dimensione storica e temporale; e Heidegger fa notare (sulla scia della constatazione epicurea che la morte non la incontriamo mai perché quando ci siamo noi non c'è lei e viceversa) che il fatto della morte non lo viviamo veramente mai, giacchè possiamo vivere come fatto solamente la morte altrui, mentre la nostra la viviamo sempre e soltanto come possibilità solo nostra, nella consapevolezza che, prima o poi, essa ci coglierà. Ne consegue che la morte ha per noi un significato non come fatto, ma come possibilità: e, a questo punto, Heidegger fa acutamente notare come nella società moderna, in cui non si parla ma si chiacchiera e non si aspira alla conoscenza ma alla curiosità, la morte è stata rimossa. E l'aspetto più inautentico dell'esistenza della società di massa risiede proprio nel fatto che si vive perfino la morte nel "Si": non più "io muoio", ma "Si muore", quasi come se la morte non ci coinvolgesse mai in prima persona; essa viene tragicamente inserita nel "Si" generico e, pertanto, perde il suo significato di possibilità: viene meno l'essere-per-la-morte e, con esso, la libertà di scelta. Heidegger contrappone quindi la posizione comune sulla morte a quella che il saggio deve far propria: l'opinione comune esorcizza l'idea della morte, ritiene pusillanime intrattenervisi, la lascia indeterminata e in realtà nasconde la paura effettiva che la certezza della morte suscita. Il saggio invece ignora la paura e affronta l'angoscia della morte, vi convive e anzi anticipa dentro di sé la possibilità che essa si verifichi; scopre così che " la morte è la possibilità più propria dell'esser-ci ", e in tal modo si sottrae alla schiavitù dell'opinione comune, aprendosi alla possibilità di essere autenticamente se stesso e liberandosi dalle illusioni e dagli autoinganni del "Si". Scrive Heidegger, in "Essere e tempo", sull'atteggiamento del "Si" verso la morte: " il Si ha già pronta un'interpretazione anche per questo evento. Ciò che si dice a questo proposito, in modo esplicito o sfuggente, come per lo più accade, è questo: una volta o l'altra si morirà, ma, per ora, si è ancora vivi. L'analisi del 'si muore' svela inequivocabilmente il modo di essere dell'essere-quotidiano-per-la-morte. In un discorso del genere la morte è concepita come qualcosa di indeterminato che, certamente, un giorno o l'altro, finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il 'si muore' diffonde la convinzione che la morte riguarda il Si anonimo. L'interpretazione pubblica dell'esser-ci dice: 'si muore'; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma del Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io ". Ma la morte è la cosa che più di tutte ci appartiene ed è nostra fino in fondo, tant'è che nessun altro può viverla al posto nostro: essa è anzi l'unica certezza della nostra esistenza, in quanto, pur non potendo sapere pressochè nulla di ciò che ci accadrà in futuro, ciononostante possiamo con certezza affermare che, prima o poi, ci toccherà morire. L'esistenza, nota Heidegger, è proiettata nel tempo e, soprattutto, nel tempo futuro, poiché essa è, per sua natura, progettualità; e nell'analisi che egli fa della temporalità , critica aspramente la tradizionale concezione che intende il tempo come una "cosa" divisa in tre parti (passato, presente, futuro): non si tratta di tre parti distinte, ma di tre aspetti della medesima cosa. A tal proposito, Heidegger fa notare come la parola tedesca che significa "storia" è molto simile al verbo "mandare" e, per questo motivo, egli tende ad interpretare la storia come destino; e questo, egli afferma, vale tanto per i popoli quanto per i singoli. Nel concetto di "storia come destino" Heidegger vede sintetizzata l'identità dei tre aspetti (passato, presente, futuro) che costituiscono il tempo: e dire che per ciascuno di noi la storia è destino implica che essa non sia solo il passato, né, tantomeno, semplicemente il futuro. Al contrario, l'idea che Heidegger evince dalla somiglianza della parola "storia" con la parola "mandare" è che il passato possa da noi essere vissuto in due maniere differenti: da un lato, lo si può accettare come un dato di fatto senza significati reconditi; ma, dall'altro lato, lo si può intendere come un "mandato", cioè come un destino. E così possiamo concepire il nostro passato come un incarico ricevuto e proprio nella possibilità che abbiamo nel presente di scegliere se vedere il passato come mero dato di fatto o come destino risiede la possibilità che secondo Heidegger abbiamo di scegliere, paradossalmente, il nostro passato: inoltre, se lo leggiamo come un "mandato", possiamo progettare in base ad esso il nostro futuro e, da questa stretta dipendenza fra le tre dimensioni temporali (passato, presente, futuro), si capisce benissimo come per Heidegger esse siano tre aspetti della medesima cosa. Infatti, l'io e i popoli compiono le loro scelte nel presente sulla base di un destino radicato nel passato e in vista di un progetto situato nel futuro. Sulla base di queste considerazioni, si può facilmente arguire perché Heidegger parli di " storicità dell'esistenza " : e con essa si chiude "Essere e tempo", questa lunga e complessa analisi dell'esser-ci come via per cogliere l'essere. L'opera si chiude con un avvertimento dell'autore: " il chiarimento della costituzione dell'essere e dell'esserci resta soltanto una via: il fine è l'elaborazione del problema dell'essere in generale "; non essendo riuscito a mantener fede al suo proposito di indagare sull'essere, egli si propone ora di impostare la sua indagine in una nuova maniera. Ed è per questo motivo che Heidegger, dalla storicità dell'esistenza, cercherà di passare alla "storicità dell'essere": i due concetti chiave del secondo Heidegger (quello del dopo la svolta) sono la metafisica e la verità. Egli opera una vera e propria distruzione della metafisica e un radicale stravolgimento della nozione di "verità", due operazioni che richiamano immediatamente alla mente la filosofia di Nietzsche. Tuttavia, siamo di fronte a prospettive assai diverse, quasi antitetiche: nel caso della distruzione della metafisica, la partita si gioca tutta sul significato da attribuire al termine "metafisica". Essa, per Nietzsche, altro non era se non un'ontologia, una pura e semplice pretesa di descrivere com'è il mondo; tant'è che, dichiarato il venir meno dell'essere, anche la metafisica, intesa appunto come descrizione dell'essere, perdeva ogni significato. Per Heidegger, però, la metafisica non è riducibile all'ontologia, in quanto non è il fare discorsi sull'essere, bensì è un certo modo di fare discorsi sull'essere: in particolare, la metafisica sarà quel modo specifico di fare discorsi sull'essere che smarrisce l'autentico significato dell'essere stesso, con il risultato che "ontologia" e "metafisica" sono due concetti antitetici. Detto un po' banalmente: l'ontologia fa discorsi sull'essere, la metafisica fa discorsi sballati sull'essere. E per Heidegger la distruzione della metafisica si configura come rivalutazione totale dell'ontologia, mentre invece Nietzsche, distrutta una, non poteva che far saltare anche l'altra. La caratteristica portante della metafisica è, dunque, di concepire l'essere in modo errato: il problema del fraintendimento dell'essere era già affiorato in "Essere e tempo", quando Heidegger faceva notare che l'essere non può essere studiato come un qualsiasi ente, in quanto, essendo impossibile individuarne i confini, non può diventare un oggetto di indagine. E il grande errore della metafisica sta proprio nel concepire l'essere come un qualsiasi altro ente: nel corso della storia, ora l'ha concepito come la somma di tutti gli enti, ora come l'ente supremo (il Dio della teologia, e Heidegger parla appunto di onto-teo-logia), ora, in maniera più raffinata, come aspetto comune a tutti gli enti (Aristotele l'aveva inteso così). La metafisica, dunque, ha concepito l'essere come un ente: ha cioè " smarrito la differenza ontologica ", cioè la differenza che sussiste tra essere e ente. A questo proposito, Heidegger distingue tra un livello "ontologico" proprio dell'essere e un livello "ontico" in cui l'essere viene confuso con gli enti e lo si abbassa al loro livello (che è appunto "ontico"), privandolo della sua specificità. E Heidegger si propone di rivendicare un'ontologia: quello della metafisica, però, non è solamente un errore, bensì è, dice Heidegger, un " erramento "; il che suggerisce, contemporaneamente, l'idea dell'errore e dell'andare vagando. Si tratta di capire che l'errore della metafisica, commesso molti secoli addietro da Platone e dalla sua "ontificazione" dell'essere (attuatasi attraverso l'indebita trasformazione dell'essere in idee), non è puramente accidentale; al contrario, si è da allora sempre più verificato un erramento, uno sbandamento continuo in virtù del quale l'essere è sempre stato interpretato scorrettamente. Si deve pertanto tornare all'epoca in cui per la prima volta si è commesso tale errore per porre ad esso un riparo: ma è, dice Heidegger, un qualcosa di ben più profondo di un semplice errore. Infatti, non solo è un errore dell'essere, ma è anche un erramento dell'essere, il quale ha una sua storia e che, quindi, non è definito una volta per tutte; viceversa, l'essere segue un suo percorso lungo il quale, di volta in volta, si manifesta in modo diverso e i modi in cui esso si manifesta all'uomo sono in continua trasformazione, sicchè ci si trova di fronte ad un erramento che è, al contempo, dell'essere e dell'uomo. E anche se la metafisica è stata un errore, cioè un modo errato di manifestarsi dell'essere, ciò non toglie che in determinate epoche storiche l'essere non poteva che manifestarsi in quel modo: in particolare, l'epoca della metafisica, iniziata con Platone e chiusasi con Nietzsche (compreso), è l'epoca in cui l'essere si è, paradossalmente, manifestato sotto forma di oblio e di smarrimento. Come senz'altro si ricorderà, Nietzsche non solo aveva mutato il contenuto della verità: ne aveva stravolto la nozione stessa. Heidegger, in modo analogo, compie un'operazione simile e mette in luce l'esistenza di due concetti diversi di verità: un concetto metafisico di verità, e uno ontologico. Il concetto metafisico intende la verità come correttezza, ossia corrispondenza tra ciò che abbiamo nella nostra mente e ciò che è presente nella realtà esterna. La verità metafisicamente intesa tende allora a configurarsi come dominio dell'oggetto da parte del soggetto. Questa concezione della verità, invalsa con Platone, si è protratta per tutto il corso della storia, fino a Nietzsche compreso: se infatti concepiamo la verità metafisica come controllo e dominio dell'oggetto, allora siamo indotti a interpretare in senso metafisico perfino il pensiero scientifico e tecnico. La scienza e la tecnica, infatti, si configurano come estremizzazione dell'atteggiamento metafisico, in quanto si propongono di dominare concettualmente e materialmente un oggetto esterno al soggetto. Nietzsche stesso (a cui Heidegger dedica due volumi intitolati "Nietzsche") appare come il prodotto estremo dell'era metafisica: lo si evince benissimo dalla nozione nietzscheana di "volontà di potenza", nozione secondo la quale viene meno l'importanza dell'essere e viene portato all'estremo il dominio concettuale del mondo da parte del soggetto; infatti, venendo a mancare l'essere, il soggetto si impone e propone interpretazioni potenti, che promuovono la vitalità e risultano sganciate dall'essere. Nietzsche stesso, del resto, dava un giudizio altamente positivo della tecnica, la quale, come abbiam visto, è un'espressione fortissima della metafisica. L'atteggiamento ontologico, invece, lo troviamo in un'altra accezione del termine verità: Heidegger, come suo solito, scava all'interno delle parole per riportare in superficie significati nascosti; la parola su cui egli compie ora tale operazione è la parola greca alhqeia ("verità"); essa, letteralmente, è costituita dall' a privativa e dal verbo lanqanw ("nascondere"), cosicchè la verità è ciò che non sta nascosto. Nell'interpretazione heideggeriana, l' alhqeia è il non-nascondimento dell'essere; ma non nel senso che sta all'uomo rimuovere il velo che occulta la verità (cioè l'essere), come invece era per Schopenhauer. Al contrario, è l'essere stesso che si disvela: e non è un caso che l'ontologo per eccellenza, Parmenide, nel suo ipotetico viaggio narrato nel testo " Peri fusewV " incontrava diverse divinità (simboleggianti l'essere) che si toglievano da sole il velo che le copriva, senza che fosse il filosofo a compiere tale operazione. Con l'ontologia, dunque, la verità non è più concepita in funzione del soggetto, come invece avveniva con la metafisica: al contrario, il nuovo attore del processo non è più l'uomo, ma l'essere stesso, che si manifesta disvelandosi. La storia dell'essere, dice Heidegger, si articola in diverse tappe, ciascuna delle quali è caratterizzata da un modo particolare di manifestarsi dell'essere: ad ogni epoca storica corrisponde una particolare manifestazione dell'essere. Sorge però spontaneo un quesito: se l'essere è ciò che è, ovvero se l'essere è sempre quello, allora che senso ha parlare di una "storia" dell'essere? A questo punto Heidegger compie un nuovo scavo nelle parole: il termine "epoca" deriva dal greco epoch , con il quale gli scettici designavano la sospensione di giudizio sul mondo; Husserl stesso aveva impiegato tale termine per indicare l'atto con cui poneva il mondo "tra parentesi". Ogni epoca, secondo Heidegger, è una sospensione della manifestazione dell'essere; ciò significa che il manifestarsi dell'essere come alhqeia implica che esso si disveli ma anche che sia un venir fuori da un nascondimento che fa parte della natura stessa dell'essere; in altri termini, quest'ultimo presenta nella sua natura sia il disvelamento sia il nascondimento, cosicchè in ogni epoca l'essere è disvelato ma, al contempo, resta in qualche misura nascosto. E i diversi equilibri, in continua trasformazione, che si instaurano nell'essere tra il venir fuori e lo stare nascosto rappresentano le epoche storiche. Ne consegue che ogni epoca è diversa dalle altre perché in ogni epoca l'essere si manifesta diversamente, rimanendo in sospeso ( epoch ) tra l'uscir fuori e il restar nascosto. Ma ogni epoca, dice Heidegger, si manifesta anche come pensiero: il filosofo tedesco, da un certo momento in poi, abbandona il termine "filosofia", intriso di concezioni metafisiche accumulatesi nei secoli, e sceglie il termine "pensiero", più rispettoso nei confronti dell'essere. In questa fase della riflessione heideggeriana, successiva alla "svolta", l'uomo non è più l'attore della conoscenza, ma assume un atteggiamento collaborativo con l'essere. L'uomo deve infatti mettersi " in ascolto dell'essere " , quasi come se in attesa di una rivelazione improvvisa, e allora con l'espressione "pensiero dell'essere" si designano, contemporaneamente, l'attività con cui l'uomo riflette sull'essere sia l'attività con cui l'essere riflette su se stesso. L'uomo non è più il protagonista (come invece era in "Essere e tempo"), ma è il collaboratore dell'essere; o, per usare un'espressione heideggeriana divenuta celebre, l'uomo è il " pastore dell'essere ": e il pastore non è il proprietario del gregge, ma è semplicemente colui che lo custodisce. Allo stesso modo, l'uomo è tenuto a custodire l'essere senza per questo divenirne il padrone. Questa nuova posizione affiora soprattutto nella "Lettera sull'umanismo" (1947), con la quale Heidegger capovolge la prospettiva sartreana emersa in "L'esistenzialismo è un umanismo" e interpreta il compito del pensiero come impegno non per l'uomo (come invece violeva Sartre), ma per l'essere. In questo modo, il pensatore tedesco prende le distanze dall'esistenzialismo, a cui rinfaccia di assegnare il primato a quell'ente che è l'uomo, dimenticandosi dell'essere; l'uomo, dice Heidegger, è solo il " pastore dell'essere ", colui al quale è affidato il compito di salvaguardare e custodire nel pensiero la verità dell'essere. Con un'altra espressione divenuta altrettanto famosa, Heidegger sostiene che " il linguaggio è la casa dell'essere " : ed è in questa casa che l'uomo conduce la propria esistenza come inquilino, non come possessore, giacchè la casa appartiene all'essere. L'espressione heideggeriana rimanda inevitabilmente alla convinzione degli antichi secondo la quale il tempio è la casa di Dio, nel senso che è il luogo in cui Dio si manifesta meglio. Similmente, nella prospettiva heideggeriana, l'essere si manifesta al meglio nel linguaggio, che dell'essere costituisce appunto la casa: con quest'idea ritorna la tesi, già emersa in "Essere e tempo", secondo la quale, per indagare l'essere, si deve indagare quell'ente particolare che sa riflettere sull'essere stesso; è solo nell'uomo che, attraverso il linguaggio, l'essere si manifesta al meglio. Ma Heidegger stravolge la nozione di linguaggio: infatti, il linguaggio che esprime il pensiero dell'essere non è un modo per comunicare, ma è il modo in cui l'essere si manifesta, ed è solo mettendosi in ascolto che si entra in contatto con esso. E dire che l'uomo abita nella casa dell'essere, cioè nel linguaggio, significa riconoscere che il linguaggio non è uno strumento che l'uomo si dà: al contrario, egli nasce e vive nel linguaggio, giacchè la sua vita è calata in esso, dall'inizio alla fine. E questo è vero per il linguaggio ma, più ancora, per l'essere: nella concezione ermeneutica si sottolinea, appunto, l'impossibilità di staccarsi dall'oggetto e di vederlo in modo distaccato, cosicchè non si può ipotizzare una conoscenza veramente oggettiva, bensì una comprensione dall'interno. Da tutte queste considerazioni emerge come sia impossibile parlare del linguaggio e dell'essere in modo oggettivo e distaccato: a rigore, anzi, non si può neanche mai parlare del linguaggio, in quanto ci si trova sempre e comunque a parlare nel linguaggio. Allo stesso modo, non si può parlare dell'essere in modo distaccato, poiché, in quanto enti, siamo parti in causa: ma è possibile diventare strumenti in cui l'essere si manifesta attraverso il linguaggio; si può cioè lavorare sull'essere dall'interno, in modo ermeneutico, ed è ciò che si propone di fare soprattutto Gadamer, l'allievo di Heidegger. Molto rilevante è una raccolta di saggi il cui titolo è traducibile tanto con "Sentieri del bosco" quanto con "Sentieri interrotti": Heidegger si serve infatti di una parola tecnica che indica quei sentieri del bosco che non portano da nessuna parte, ma che permettono solo di addentrarsi nel bosco. Con quest'immagine, Heidegger vuole dirci che l'essere è come un bosco e che i sentieri non sono strade verso l'essere, ma strade all'interno di esso, cosicchè si può girovagare all'interno dell'essere, senza un criterio che ci permetta di attingerlo; ed è anche in virtù di questa amara constatazione che Heidegger si allontana sempre più dalla filosofia per accostarsi alla poesia (intesa come manifestarsi dell'essere nel linguaggio) e al mettersi a disposizione dell'essere. Heidegger parla esplicitamente di " pensiero rammemorante ": in ogni epoca l'essere si manifesta e, al contempo, si nasconde (la metafisica stessa è un modo di manifestarsi) e questo viene espresso dallo stesso pensiero dei grandi filosofi, attraverso i quali l'essere si manifesta e si nasconde. Dunque, nelle pagine scritte dai vari filosofi e pensatori della storia c'è un detto (manifestarsi dell'essere) e un non-detto (tenersi nascosto dell'essere), presente ma nascosto dalle parole; e noi moderni possiamo approfittare del fatto che viviamo in un'altra epoca, in cui l'essere si manifesta diversamente, per far emergere dal pensiero degli antichi il loro non-detto: in questo consiste appunto il pensiero rammemorante. Grazie alle nuove disvelazioni dell'essere realizzatesi nelle nuove epoche storiche, possiamo in altri termini far emergere cose che i pensatori del passato hanno detto senza saperlo, inavvertitamente. Per rimanere all'immagine del bosco, Heidegger usa un'antica parola tedesca che significa, contemporaneamente, "illuminazione" e "radura"; la radura, quella parte del bosco in cui non vi sono piante, è dunque il luogo in cui si realizza una vera e propria illuminazione; questo significa che se è vero che i sentieri del bosco non portano da nessuna parte e, meno che mai, all'essere, è anche vero che possono condurre a radure in cui l'essere si illumina, in cui cioè si può far luce su di esso. Molto hegelianamente, heidegger sostiene che ogni manifestazione dell'essere è legittima: anche la tecnica , dunque, ha, in quanto espressione dell'essere, una sua legittimità, ma tuttavia essa è, come la scienza, una forma esasperata della metafisica. Proprio perché espressione della metafisica, dunque, la tecnica non può certo essere assolutamente positiva: ma, dice hegelianamente Heidegger, è necessario che gli aspetti negativi vengano vissuti fino in fondo per poter sperare in un cambiamento radicale; tanto più che Hölderlin (il poeta preferito di Heidegger) ha insegnato che " dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva ". Il vantaggio della tecnica, se proprio vogliamo vedere come Hegel " la rosa nella croce ", sta nel far emergere la vera e profonda natura della metafisica e del suo tipico dominio dell'uomo sull'essere. Solo se si prende coscienza dell'erramento della metafisica con la tecnica si prospetta anche la possibilità di un nuovo e più corretto cominciamento filosofico. E qualcosa di simile Heidegger lo pensava anche del nazismo: dopo averlo letto, in un periodo in cui simpatizzava ancora per esso, come destino scelto attivamente dal popolo tedesco, egli maturò sempre più la convinzione che il nazismo non fosse positivo in sé, ma solo nella misura in cui, come la tecnica, faceva emergere in una forma estrema l'errore/erramento della metafisica. Anche nell'opera d'arte (soprattutto i quadri) assistiamo sempre ad un gioco tra il detto e il non-detto, cosicchè si cerca di far emergere dalla materia qualche significato, come se l'artista si facesse portavoce dell'essere. E nell'epoca d'arte l'essere si manifesta e si nasconde contemporaneamente: sicchè il critico di oggi può leggere in essa dei significati che l'autore non sapeva di averci messo. Questo giustifica anche il fatto che spesso il critico tira fuori concetti che l'artista non conosceva, ma che ciononostante erano presenti nell'opera d'arte. In questo modo, viene anche giustificata la pluralità delle interpretazioni della medesima opera.
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GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL
1. Il periodo giovanile a Stoccarda (1770-1788)
1770 Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce il 27 agosto 1770 a Stoccarda, capitale del ducato del Wuerttemberg, primo di tre figli di Georg Ludwig Hegel, segretario ducale della camera finanziaria e in seguito capo della cancelleria, e di Maria Magdalena Fromm. Gli Hegel, originari della Carinzia, erano trasmigrati nel Wuerttemberg nel XVI secolo a causa della persecuzione contro i Protestanti.
1775 Dopo i tre anni della scuola elementare (Deutsche Schule), frequenta a Stoccarda per due anni la cosiddetta "Scuola latina" (Lateinische Schule).
1777 Passa, sempre nella città natale, al Realgymnasium o Gymnasium Illustre, di carattere umanistico-religioso, dove si svolge tutto il ciclo dei suoi studi medi e si dimostra uno scolaro modello; prende anche lezioni private di geometria, astronomia e agrimensura da un colonnello d'artiglieria, C.Fr. Duttenhofer.
1784 Muore la madre durante un'epidemia di dissenteria. La sua educazione, come pure quella dei più piccoli Ludwig e Christiane, ricade interamente sulle spalle del padre.
1785 Inizia, proseguendolo fino al 1787, un diario in tedesco e latino da cui e' possibile farsi un'idea della sua formazione e cultura giovanile: buona conoscenza delle lingue e del mondo classico (Omero, Sofocle e Euripide; Socrate, Platone, Aristotele; Livio e Cicerone; Longino, Longo e Epitteto), studio del Vecchio e del Nuovo Testamento, lettura di autori moderni tra cui Mendelssohn, Lessing, Goethe, Schiller, e di romanzi allora in voga (J.T. Hermes, T.G. von Hippel).
2. L'universita' di Tubinga e lo Stift (1788-settembre 1793)
1788 Ottenuta la maturità, il 27 ottobre si iscrive all'universita' di Tubinga per studiarvi teologia, ed è ospite come borsista in un ex monastero di agostiniani, lo Stift, allora collegio teologico in cui ricevevano la loro formazione i futuri ecclesiastici protestanti e gli insegnanti del ducato. Segue le lezioni di C.Fr. Schnurrer sull'esegesi biblica, di C.Fr. Roesler sulla storia della filosofia, di J.Fr. Flatt sulla metafisica e la teologia naturale, e, soprattutto, di J.C. Storr sulla teologia dogmatica. Tuttavia, non si dichiara molto soddisfatto dell'insegnamento accademico, specie perchè l'atmosfera ufficiale dello Stift e' quella dell'ortodossia luterana. Comincia una serie di infrazioni alla disciplina (assenze alle lezioni e alle preghiere, trascuratezza nella divisa) che gli fruttano molte punizioni e che nel 1791, per un ritardo nel rientro da un permesso, culmineranno nella prigione d'isolamento.
1790 A partire dal semestre invernale 1790-91, divide la stessa camera dello Stift con Hölderlin e con Schelling, ai quali si lega in stretta amicizia; insieme celebrano entusiasticamente gli anniversari della Rivoluzione francese innalzando alberi della libertà. Il suo studio procede incostante, con vaste letture non sistematiche e un continuo spostamento di interessi (autori preferiti sono Aristotele, Platone, Spinoza, Jacobi, Herder e soprattutto Rousseau); la sua oratoria debole e incerta, unita alla pronunciata goffaggine nei movimenti, non lascia ben sperare per una futura carriera di pastore. Il 27 settembre, discutendo la dissertazione del professore A.Fr. Boeck De limite officiorum humanorum, consegue il titolo di Magister philosophiae, che concludeva il primo biennio di studi.
1793 Il 20 settembre, difendendo una tesi scritta dal cancelliere universitario J.Fr. Le Bret dal titolo De Ecclesiae Wirtembergicae Renascentis Calamitatibus, conclude il ciclo di studi allo Stift superando l'esame concistoriale che conferiva il titolo di Kandidat, con il quale ci si poteva avviare alla carriera ecclesiastica. Nell'attestato finale si legge, tra l'altro, che Hegel è Philologiae non ignarus e che Philosophiae nullam operam impendit, cioè: non e' ignorante di filologia e non ha mostrato alcuna diligenza in filosofia. Non volendo intraprendere la via ecclesiastica, in ottobre Hegel accetta un posto di precettore che alcuni conoscenti, già prima che egli concludesse gli studi, gli avevano procurato a Berna, presso l'aristocratico Karl Friedrich von Steiger.
3. Il precettorato di Berna (ottobre 1793-1796)
e di Francoforte (1797-1800)
1795 A Tschugg, nella tenuta della famiglia von Steiger in cui ha a disposizione una grande biblioteca, tra il 9 maggio e il 24 luglio scrive una Vita di Gesu' (Leben Jesu, pubbl. postumo a cura di P.Roques, Jena 1906), in cui riassume ricerche di stampo illuministico condotte nel biennio 1793-94 e pervenuteci sotto forma di Frammenti su religione popolare e Cristianesimo (Fragmente ueber Volksreligion und Christentum). Dall'inizio dell'anno, intanto, la lettura di Kant (soprattutto dell'opera La religione entro i limiti della semplice ragione) e' divenuta il centro dei suoi studi privati.
1796 Porta a compimento lo scritto La positivita' della religione cristiana (Die Positivitaet der christlichen Religion, pubbl. post., insieme ai Frammenti gia' citati, in: Hegels Theologische Jugendschriften, a cura di H.Nohl, Tuebingen 1907) e inizia anche la traduzione in tedesco delle Lettere confidenziali sul rapporto costituzionale del cantone di Vaud con la citta' di Berna dell'avvocato bernese J.-J. Cart, traduzione che sarà poi pubblicata anonima a Francoforte nel 1798 (col titolo Vertrauliche Briefe ueber das vormalige staatsrechtliche Verhaeltnis des Waadtlandes zur Stadt Bern). Pur mantenendo i contatti epistolari con Hoelderlin e Schelling, Hegel si sente isolato e aspira a una nuova sistemazione; attraversa profonde fasi depressive che torneranno a ripetersi anche in seguito. Lo stesso Hölderlin, a cui Hegel indirizza in agosto l'inno Eleusis, riesce infine a procurargli un posto di precettore presso il ricco commerciante J.N. Gogel a Francoforte.
1797 In gennaio si trasferisce a Francoforte sul Meno, dove frequenta intensamente Hölderlin e la sua cerchia di amici (tra cui Isaak von Sinclair, che sara' sempre vicino al poeta). Continua le letture economiche e politiche inaugurate a Berna (notevole il suo interesse per i giornali inglesi), e approfondisce in senso religioso e speculativo i temi dell'amore e della conciliazione.
1798 Redige un "commentario", oggi perduto, sulla Metafisica dei costumi di Kant, e scrive il saggio politico Sulle piu' recenti vicende interne del Wuerttemberg (Ueber die neuesten inneren Verhaeltnisse Wuerttembergs, besonders ueber die Gebrechen der Magistratsverfassung, pubbl. post. in: Hegels Saemtliche Werke, Bd.7: Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, a cura di G.Lasson, Leipzig 1913), in cui lamenta la crisi interna della sua patria e propone l'elezione diretta dei magistrati da parte dei cittadini (in un primo tempo, aveva scritto vom Volk, "dal popolo", poi cancellato e sostituito dall'espressione vom Buergern). Insieme a Hoelderlin, e in continuo scambio epistolare con Schelling, dà stesura definitiva al Programma di sistema (Systemprogram), "manifesto" dell'Idealismo tedesco progettato nell'aprile 1796 dai tre ex camerati dello Stift di Tubinga. In settembre, Hoelderlin e' costretto ad allontanarsi da Francoforte a causa dello scandalo per la relazione con Diotima-Susette sposata Gontard, madre dei bambini di cui era precettore: Hegel funge da messaggero tra i due innamorati.
1799 Il 14 gennaio muore il padre e il 9 marzo si reca a Stoccarda per la divisione dell'eredita'. Adesso dispone di un piccolo patrimonio che puo' dare una svolta alla sua vita; per il suo carattere esistante, pero', passeranno quasi due anni prima che si decida a partire da Francoforte. A questo periodo risale la lettura e il commento della traduzione tedesca dell'Indagine sui principi dell'economia politica, dell'economista inglese James Steuart.
1800 Porta a compimento lo scritto, iniziato in Svizzera, Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (Der Geist des Christentums und sein Schicksal, pubbl. post. in: Hegels Theologische Jugendschriften, cit.). In settembre scrive il celebre Frammento di Sistema (Systemfragment), in cui annuncia la "fine" della religione e la transizione alla filosofia, e il 29 dello stesso mese conclude la nuova introduzione alla Positivita' della religione. Dopo molto temporeggiare, decide infine di trasferirsi a Jena, confidando nell'aiuto accademico di Schelling, che gia' da due anni insegna nella locale universita'. Jena e' a quell'epoca la roccaforte della filosofia critica e trascendentale e la capitale del nascente Romanticismo: qui hanno insegnato Reinhold (1787-94) e Fichte (1794-98) e brilla attualmente l'astro di Schelling; qui veniva spesso Novalis a trovare l'amata Sophie von Kuehn, morta di tisi nel 1797; qui si sono stabiliti per un certo tempo Tieck, il traduttore tedesco di Shakespeare, e August Wilhelm Schlegel con la bellissima moglie Caroline Michaelis, divenuta poi l'amante di Schelling; qui prende l'abilitazione all'insegnamento Friedrich Schlegel e tiene i suoi famosi corsi sull'estetica. L'universita' di Jena, inoltre, e' strettissimamente legata alla vicina Weimer, centro culturale di prim'ordine da quando il granduca Karl August ha scelto Goethe come consigliere segreto di corte e si e' circondato di uomini come Schiller, Wieland e Herder.
4. Il periodo di Jena (1801-febbraio 1807) e di Bamberga (marzo 1807-novembre 1808)
1801 Hegel arriva a Jena in gennaio, e per quasi un anno prende alloggio da Schelling, in cui vede il suo protettore. In luglio pubblica lo scritto che deve aprirgli la carriera accademica: la Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie in Beziehung auf Reinholds Beitraege zur leichtern Uebersicht des Zustand der Philosophie zu anfang des neunzehnten Jahrhunderts). L'abilitazione vera e propria consiste nella stesura della dissertazione De Orbitis Planetarum, la cui discussione avviene il 27 agosto alla presenza di Karl Schelling, fratello di Friedrich, e di Immanuel Niethammer, al quale sara' legato da un'amicizia intensa e duratura. Inizia le lezioni come libero docente a partire dall'autunno: i suoi proventi sono magri, e consistono unicamente negli onorari pagati dagli studenti (il cui numero, a Jena, non supererà mai i trenta). Il 21 ottobre, per intercessione di Schelling, ottiene un incontro con Goethe a Weimer: comincia cosi' un sodalizio destinato a durare trent'anni. Conosce anche il conterraneo Schiller.
1802 Si trasferisce nell'alloggio in Klipsteinischer Garten, da cui non si muovera' piu' fino alla partenza da Jena. Il perfetto accordo con Schelling sulle questioni filosofiche fondamentali si traduce nella pubblicazione di un "Giornale critico della filosofia" ("Kritisches Journal der Philosophie") presso l'editore Cotta di Tubinga; il periodico, che chiuderà l'anno seguente con la partenza di Schelling per Wuerzburg, vede i due amici come redattori unici, e gli articoli dei sei volumi usciti, non essendo firmati, non sempre possono essere univocamente attribuiti. Frutto comune e' il saggio di presentazione della rivista dal titolo Sull'essenza della filosofia critica in generale (Einleitung. Ueber das Wesen der philosophischen Kritik ueberhaupt und ihr Verhaeltnis zum gegenwaertigen Zustand der Philosophie insbesondere). Sono di mano hegeliana i seguenti saggi: Come il senso comune comprende la filosofia (Wie der gemeine Menschenverstand die Philosophie nehme – dargestellt an den Werken des Herrn Krug's); Rapporto dello Scetticismo con la filosofia (Verhaeltnis des Skeptizismus zur Philosophie. Darstellung seiner verschiedenen Modifikationen und Vergleichung des neuesten mit dem alten); Fede e sapere (Glauben und Wissen oder die Reflexionsphilosophie der Subjektivitaet in der Vollstaendigkeit ihrer Formen als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie); Sulle maniere di trattare scientificamente il diritto naturale (Ueber die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, seine Stelle in der praktischen Philosophie und sein Verhaeltnis zu den positiven Rechtswissenschaften). Inoltre, riprendendo abbozzi che risalgono al periodo di Francoforte, porta a compimento La costituzione della Germania (Die Verfassung Deutschlands, pubbl. post. col titolo Kritik der Verfassung Deutschlands, a cura di G. Mollat, Kassel 1893), in cui anticipa il crollo dell'impero.
1803 Conclude lo scritto sul Sistema dell'eticita' (System der Sittlichkeit, pubblic. post. a cura di G. Mollat, Osterwieck 1893). Da questo periodo fino alla pubblicazione della Fenomenologia egli traccia la maggior parte degli "abbozzi di sistema" relativi alla logica e alla metafisica, alla filosofia della natura e alla filosofia dello spirito. Tra l'altro, frequenta assiduamente Goethe durante i frequenti soggiorni di questi a Jena. In una lettera del 27 novembre a Schiller, Goethe conferma la sua alta stima per il giovane filosofo e sottolinea un "difetto" oggettivo da cui Hegel non riuscira' mai a liberarsi completamente: il non saper parlare scioltamente nelle conversazioni in privato; dalle testimonianze degli allievi risulta che anche nelle lezioni la sua oratoria fosse piuttosto incespicante.
1805 Grazie all'interessamento di Goethe, in febbraio viene nominato professore straordinario, ma ancora senza stipendio. Da Schelling apprende con tristezza che le condizioni di Hoelderlin vanno progressivamente peggiorando. Nella seconda meta' dell'anno, con l'aiuto di Niethammer – che nel frattempo si e' stabilito a Bamberga -, prende contatti con l'editore J.A. Goebhardt per la pubblicazione del suo prossimo manoscritto.
1806 Ha una relazione amorosa con la sua affittacamere e governante, Christiane Charlotte Fischer sposata Burckhardt. Precipitano gli eventi politico-militari: il 13 ottobre l'esercito francese entra a Jena, e il giorno dopo, nel corso della famosa battaglia, Hegel e' costretto a spostarsi dall'amico G.A. Gabler perche' il suo domicilio viene requisito dalle truppe di occupazione. In novembre si mette in viaggio per Bamberga, per regolare tutte le questioni contrattuali pendenti con l'editore Goebhardt.
1807 Ritornato a Jena, il 16 gennaio consegna la "Prefazione" della Fenomenologia dello Spirito (Phaenomenologie des Geistes), la quale vedrà la luce alla fine di marzo. Il 5 febbraio nasce Ludwig, frutto della relazione con Christiane: questo figlio illegittimo gli dara' in seguito parecchie preoccupazioni. Accogliendo un invito di Niethammer, Hegel abbandona definitivamente Jena e si trasferisce a Bamberga, dove l'1 marzo assume l'incarico di caporedattore giornalistico della "Bamberger Zeitung"; si tratta di un quotidiano dalla veste editoriale assai modesta e con notizie di seconda e terza mano; il compito di Hegel consiste nel raccogliere e redigere queste notizie secondo i dettami della censura. Migliora cosi' la situazione economica personale. Nella lettera del 2 novembre, Schelling gli comunica le prime impressioni sulla Fenomenologia: al di la' delle caute parole, la rottura e' irrevocabile.
1808 Malgrado la prudenza, sono frequenti gli interventi della censura sugli articoli pubblicati dal quotidiano. Alla fine di ottobre, Niethammer, che e' stato nel frattempo nominato consigliere centrale per l'istruzione a Monaco, annuncia a Hegel la sua nomina a professore di scienze filosofiche propedeutiche e, nel contempo, a rettore dell'Aegidiengymnasium di Norimberga. Lasciata Bamberga, Hegel si insedia ufficialmente nella sua carica di rettore il 6 dicembre 1808.
5. L'insegnamento ginnasiale a Norimberga (dicembre 1808-ottobre 1816)
e quello universitario a Heidelberg (ottobre 1816-settembre 1818)
1809 Nonostante l'irregolarità con cui percepisce lo stipendio, Hegel prende molto sul serio la sua mansione di funzionario e cura assai l'autorevolezza esteriore della sua carica. I manoscritti che gli servono di base per le lezioni verranno pubblicati postumi nel 1840 col titolo Propedeutica filosofica (Philosophische Propaedeutik).
1811 In settembre, si sposa con la ventiduenne Marie von Tucher, appartenente a una famiglia patrizia della vecchia Norimberga, e da cui avrà due figli: Karl (1813-1901) e Immanuel (1814-1891).
1812 Esce il primo tomo del primo volume della Scienza della Logica (Wissenschaft der Logik); il secondo tomo e il secondo volume saranno pubblicati rispettivamente nel 1813 e nel 1816.
1813 Agli incarichi amministrativi aggiunge anche quello di Schulrat, cioe' sovrintendente alle scuole elementari di Norimberga.
1816 In agosto e' nominato professore di filosofia all'universita' di Heidelberg, e il 28 ottobre inizia le lezioni.
1817 A Heidelberg puo' finalmente accogliere in famiglia suo figlio Ludwig, la cui madre e' morta. Come co-redattore degli annali dell'universita' (gli "Heidelbergische Jahrbuecher der Literatur"), respinge un articolo del vecchio amico H.E.G. Paulus sul conflitto costituzionale in atto nel Wuerttemberg; egli stesso scrive sull'argomento un lungo saggio dal titolo Valutazione degli atti a stampa dell'assemblea dei deputati del regno del Wuerttemberg negli anni 1815 e 1816 (Beurteilung der im Druck erschienenen Verhandlungen in der Versammlung der Landstaende des Koenigsreichs Wuerttemberg im Jahre 1815 und 1816), in cui prende le parti del sovrano contro gli stati generali, attirandosi cosi' le prime ostilità dei liberali. Sempre negli annali, pubblica una recensione sul terzo volume delle opere di Jacobi: i giudizi sul vecchio avversario appaiono piu' favorevoli rispetto a quelli del "Giornale critico". In giugno pubblica l' Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (Enzyklopaedie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse), della quale usciranno due edizioni accresciute nel 1827 e nel 1830. Fa la conoscenza di Jean Paul – ne resta cosi' affascinato da proporre di conferirgli una laurea ad honorem – e del filosofo francese Victor Cousin, che diverrà un grande estimatore della filosofia hegeliana. In dicembre, il barone von Stein zum Altenstein, capo del ministero prussiano per l'istruzione e gli affari di culto, offre a Hegel la cattedra di filosofia all'universita' di Berlino; egli accetta il 24 gennaio successivo, e cosi' la Prussia si assicura il suo futuro "filosofo di Stato".
6. L'universita' di Berlino e i viaggi attraverso l'Europa (settembre 1818-ottobre 1829)
1818 Hegel entra in servizio l'1 ottobre e inaugura i suoi corsi il 22 ottobre con una prolusione in cui riconosce allo Stato prussiano il massimo peso nella Germania post-napoleonica e fissa per la filosofia un posto di rilievo al centro di questo stesso Stato. Non tarderanno a verificarsi conflitti accademici con il giurista von Savigny e, soprattutto, con Schleiermacher, considerato all'epoca il piu' importante teologo protestante dopo Lutero; proprio il veto di Schleiermacher sara' decisivo per impedire a Hegel, che pure e' il protetto di Altenstein, di far parte dell'Accademia prussiana delle Scienze. Terra' regolarmente due corsi per semestre, dedicandovi da sei a dieci ore settimanali di lezione; l'argomento dei corsi a Berlino coprira' tutte le discipline filosofiche, dalla logica alla filosofia del diritto, dalla filosofia della storia a quella della religione, dalla storia della filosofia all'estetica. Tutte le Lezioni (Vorlesungen) verranno poi pubblicate dai discepoli.
1819 Il 23 marzo lo studente di teologia C.L. Sand, un estremista membro della Burschenschaft, l'associazione patriottica e radicale delle corporazioni studentesche tedesche, uccide a Mannheim per motivi politici A. von Kotzebue, drammaturgo tedesco che, in qualita' di consigliere di Stato della Russia, svolgeva attiva propaganda reazionaria per il regime zarista: in Prussia questo atto costituisce il punto di svolta decisivo tra il Congresso di Vienna e la Rivoluzione di Luglio del 1830. Hegel e' considerato come una delle guide spirituali della Burschenschaft, insieme a Schleiermacher, Fries, W.M.L. de Wette e F.L. Jahn. In luglio inizia la "persecuzione dei demagoghi" da parte delle autorita' prussiane, nel corso della quale vengono imprigionati diversi allievi ed ex-allievi di Hegel (K. Ulrich, L. v. Henning, G. Asverus, F. Foerster, F.W. Carove'). Il 18 ottobre entrano in vigore in Prussia i Decreti di Karlsbad, con cui si limita soprattutto la liberta' di stampa e d'insegnamento: Hegel, dopo aver preso nettamente le distanze dal movimento della Burschenschaft (il 9 febbraio e il 2 maggio aveva accettato l'invito a prender parte a due raduni delle corporazioni studentesche berlinesi), e' costretto a rielaborare il manoscritto, gia' praticamente terminato alla fine dell'estate, della Filosofia del Diritto.
1820 Il 23 marzo Hegel fa parte della commissione che deve conferire l'abilitazione alla libera docenza a un giovane proveniente da Dresda: Arthur Schopenhauer, il quale, per mancanza di uditori alle lezioni, rimarrà a Berlino solo due semestri. In giugno Hegel e' nominato membro ordinario della "Regia commissione esaminatrice scientifica" della provincia di Brandeburgo, incarico che terra' fino al 1822. In luglio fa un breve viaggio a Dresda, con l'intento di visitare la galleria che ospita la "Madonna Sistina" di Raffaello. La sua posizione nell'universita' di Berlino comincia a consolidarsi ed e' palpabile il crescente successo delle sue lezioni presso gli studenti. In ottobre cominciano gia' a circolare i primi esemplari a stampa della Filosofia del Diritto.
1821 Escono i Lineamenti di filosofia del Diritto (Grundlinien der Philosophie des Rechts), i quali, specie con la prefazione, suscitano polemiche per l'apparentemente esplicita adesione all'ordinamento statuale prussiano e ai princi'pi della Restaurazione. Si aggravano intanto le condizioni psichiche della sorella Christiane, la quale in seguito verrà internata in diverse cliniche psichiatriche.
1822 Nella prefazione a un'opera del suo discepolo di Heidelberg H.F.W. Hinrichs dal titolo La religione nel suo intimo rapporto con la scienza (Die Religion im inneren Verhaeltnisse zur Wissenschaft), attacca aspramente la teologia del sentimento sostenuta da Schleiermacher. In settembre visita i Paesi Bassi dietro invito del suo vecchio discepolo di Jena, l'olandese P.G. van Ghert: resta impressionato dal benessere e dall'abbondanza di merci in Olanda e dalla pittura fiamminga (in particolare da van Eyck).
1824 In settembre si reca a Praga e, soprattutto, a Vienna, dove mostra di apprezzare moltissimo l'opera lirica italiana (ascolta addirittura due volte il Barbiere di Siviglia di Rossini).
1825 In seguito all'appropriamento indebito di una modica somma di denaro paterno, il giovane Ludwig viene cacciato di casa e mandato a Stoccarda; qui vive come commesso di negozio, ma dopo una lite col proprietario da' le dimissioni, e questo fatto provoca la rottura definitiva col padre: Hegel gli impone di non portare piu' il suo cognome. Ludwig Fischer – dal cognome da nubile della madre – si arruola allora nell'esercito olandese e il 29 agosto parte da Ostenda in direzione Giava. Morira' di malaria a Giakarta il 28 agosto 1831, e Hegel non sapra' mai di questa morte che anticipava di appena tre mesi la propria.
1826 In settembre fa la conoscenza del drammaturgo austriaco Franz Grillparzer.
1827 Inizia la pubblicazione della rivista "Annali berlinesi per la critica scientifica" ("Jahrbuecher fuer wissenschaftliche Kritik"), che viene considerato l'organo ufficiale dello hegelismo; tra gli altri, vi collaborano Goethe, i due fratelli Humboldt, il classicista P.A. Boeckh e l'archeologo A. Hirt; la prima recensione hegeliana riguarda l'opera di W. von Humboldt Sull'episosodio del Mahabharata noto col nome di Bhagavad-Gita (Ueber die unter dem Namen Bhagavad-Gita bekannte Episode des Mahabharata, Berlin 1826). Alla meta' di agosto si mette in viaggio verso Parigi, accogliendo finalmente l'insistente invito di Cousin; ha a disposizione lo studio e la biblioteca di quest'ultimo, e, come gia' durante il soggiorno a Vienna, va regolarmente a teatro. Sulla via del ritorno, il 18 ottobre avviene il famoso incontro con Goethe a Weimer (il dialogo e' tramandato da J.P. Eckermann nei suoi Colloqui con Goethe).
1828 Nei primi mesi dell'anno, a causa di un fastidioso "mal di petto", deve interrompere le lezioni per un certo tempo; il medico gli consiglia una cura termale. Escono negli "Annali" le sue recensioni agli Scritti postumi (Nachgelassene Schriften, Leipzig 1826) di K.W.F. Solger e agli Scritti (Schriften, Berlin 1821-25) di J.G. Hamann. Verso la fine di novembre riceve la tesi di laurea De ratione una, universali, infinita di un giovane bavarese, il quale nella lettera di accompagnamento riassume le proprie vedute sulla religione: si tratta del ventiquattrenne Ludwig Feuerbach; non e' sicuro che Hegel abbia letto la dissertazione e la lettera allegata.
1829 Escono, sempre negli "Annali", le sue recensioni a tre opere appena pubblicate: Aforismi sul non-sapere e sul sapere assoluto (Aphorismen ueber Nichtwissen und absolutes Wissen im Verhaeltnisse zur christlichen Glaubenserkenntniss, Berlin 1829), di C.F. Goeschel; Sulla dottrina hegeliana, ovvero sapere assoluto e panteismo moderno (Ueber die Hegelsche Lehre oder absolutes Wissen und moderner Pantheismus, Leipzig 1829), di un anonimo; Sulla filosofia in generale e sull'Enciclopedia hegeliana in particolare (Ueber Philosophie ueberhaupt und Hegels Enzyclopaedie der philosophischen Wissenschaften insbesondere, Berlin 1829), di K.E. Schubarth e L.A. Carganico. Alla fine di agosto si reca alle terme di Karlsbad, e qui incontra casualmente Schelling: nonostante il profondo dissidio filosofico fra i due, l'incontro e' per entrambi cordiale e perfino piacevole. In ottobre Hegel viene eletto rettore dell'universita' di Berlino, e durera' in carica fino all'ottobre successivo; nella sua prolusione tenuta in latino il 18 ottobre, egli celebra l'accordo tra la legge dello Stato e la liberta' accademica di insegnamento e di apprendimento.
7. Il rettorato e la reazione alle rivoluzioni liberali (ottobre 1829-1831)
1830 Le rivoluzioni liberali in Francia e in Belgio lo riempiono di orrore, ma a Berlino riesce a tenere lontane dall'universita' tutte le agitazioni politiche: egli si attiene ancora scrupolosamente ai Decreti di Karlsbad, i decreti statali che hanno stabilito lo scioglimento delle corporazioni studentesche, la censura sulla stampa e il controllo sulle universita'. Il 25 giugno pronuncia il discorso commemorativo del terzo centenario della Confessione di Augusta (Augsburgische Konfession), la "carta costituzionale" della Chiesa protestante. In settembre si ammala ed e' costretto a letto, ma e' di nuovo in forze al momento di inaugurare il semestre invernale.
1831 Escono negli "Annali" le recensioni ai volumi di A.L.J. Ohlert, L'idealrealismo (Der Idealrealismus, Neustadt 1830), e di J. Goerres, Sul fondamento, la struttura e la successione delle epoche della storia del mondo (Ueber die Grundlage, Gliederung und Zeitenfolge der Weltgeschichte, Breslau 1830). In aprile, la "Gazzetta ufficiale dello Stato prussiano" ("Allgemeine Preussische Staatszeitung") pubblica una parte dell'ultimo scritto di Hegel, il saggio Sul progetto inglese di riforma elettorale (Ueber die englische Reformbill), in cui egli polemizza contro il costituzionalismo e il parlamentarismo liberale. Finisce di rielaborare il primo tomo della Scienza della Logica (che uscira' postumo nel 1832), e termina di scrivere la prefazione alla seconda edizione dell'opera il 7 novembre. Il 14 novembre si spegne in poche ore, vittima di un'epidemia di colera – come risulta dagli atti – o di un disturbo gastrico – come sostiene la moglie.
Per proseguire la lettura consulta la pagina relativa ai filosofi del RomanticismoGIOVANNI GENTILE
Questo è il punto fermo, a cui si attacca l’idealismo attuale. La sola realtà solida, che mi sia dato affermare, e con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è cosí una realtà, soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o, tout court, all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto. (G. Gentile, Introduzione alla filosofia)
VITA E INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA
Gentile è stato, con Croce, l’esponente principale del neoidealismo italiano, ma la sua posizione filosofica è maturata attraverso esperienze in parte diverse da quelle crociane. Nato a Castelvetrano (Trapani) nel 1875, Giovanni Gentile si formò presso l’università di Pisa, dove ebbe come maestri soprattutto Alessandro D’Ancona e Donato Jaja, che lo avvicinò allo studio di Kant, di Rosmini e Gioberti, di Hegel. Il primo lavoro gentiliano, su Rosmini e Gioberti (1898), si colloca nella prospettiva di ripresa del pensiero criticistico-idealistico tedesco già avviata da Croce, e si ispira a una visione fortemente speculativa (teoretico-sistematica) della filosofia. Negli ultimi anni del secolo Gentile approfondisce, da un lato, Spaventa e, dall’altro, Marx, che esamina nel volume La filosofia di Marx (1899). A proposito del marxismo si tratta, per Gentile, di ritrovarne il nucleo speculativo più autentico e di affermarlo come una “filosofia della prassi” che unifica pensiero e azione e che occorre reinterpretare in termini idealistici. Ciò che viene a cadere, del pensiero di Marx, è proprio il materialismo. La realtà come materia viene interpretata come un residuo sensibile-oggettivo che limita l’attività creatrice della prassi umana. Ma è anche attraverso la nozione marxiana di prassi liberamente rivisitata (attraverso la lettura di Vico e degli idealisti tedeschi) che Gentile delinea la sua concezione della soggettività trascendentale intesa come ” attività creatrice ” per cui verum et factum convertuntur , come ” sviluppo necessario ” che collega soggetto e oggetto in un fare che ” è insieme conoscere ” e che si manifesta nella storia. In quegli stessi anni di fine secolo Gentile stringe con Croce un’amicizia che durerà fino a quando la differenza tra lo storicismo crociano e l’attualismo gentiliano si farà troppo vistosa. Nel 1903 Gentile, nella prolusione tenuta all’università di Napoli e dedicata a La rinascita dell’idealismo , delinea la propria posizione filosofica che prende il nome di attualismo e ch’egli svilupperà in una serie di saggi teorici fino al 1922. Contemporaneamente si dedica anche alla ricerca storico-filosofica con gli studi: Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1903-1914), Dal Genovesi al Galluppi (1903), Il pensiero italiano del Rinascimento (1920), Studi vichiani (1915), Gino Capponi e la cultura italiana del secolo decimonono (1922). Nello stesso periodo il filosofo affronta anche i problemi della pedagogia ( Sommario di pedagogia come scienza filosofica , 1913-14; La riforma dell’educazione , 1920; Educazione e scuola laica , 1921; Preliminari allo studio del fanciullo , 1924) e poco più tardi quelli estetici in Filosofia dell’arte (].931). E soprattutto tra il 1911 e il 1922, che la riflessione gentiliana si articola intorno a temi prevalentemente teoretico-sistematici. Nel 1911 esce L’atto del pensare come atto puro , nel 1913 La riforma della dialettica hegeliana , nel 1916 Teoria generale dello Spirito come atto puro e, infine, dal ’17 al ’22, il Sommario di logica come teoria del conoscere . Nel dopoguerra Gentile affronta i problemi politici in Guerra e fede (1919) e si avvicina sempre più al fascismo, fino a divenirne uno dei principali esponenti in campo intellettuale. Dopo la marcia su Roma viene nominato ministro della Pubblica Istruzione ed elabora, nel ’23, un’importante e discussa riforma della scuola. Negli anni successivi si occupa quasi esclusivamente di organizzazione della cultura, è direttore dell’Enciclopedia Italiana e presidente della Accademia d’Italia. Dopo la crisi del 25 luglio 1943 si apre ad un ripensamento in chiave sociale della sua filosofia che prende forma nell’opera Genesi e struttura della società (1946). Nel 1944 muore a Firenze, ucciso barbaramente dai partigiani antifascisti.
LA RIFORMA DELLA DIALETTICA HEGELIANA
Determinante, nella formazione filosofica di Gentile, fu l’insegnamento di Donato Jaja (1839-1914), seguace dell’hegelismo e, sulle orme di Spaventa, impegnato a fondare nel soggetto l’identità di pensiero ed essere. Attraverso quell’insegnamento Gentile maturò la sua prima adesione all’idealismo. Nella già ricordata prolusione-manifesto del 1903, intitolata proprio La rinascita dell’idealismo , Gentile rivendicava contro ogni dualismo e naturalismo da un lato la fondamentale unità di natura e spirito nella coscienza, dall’altro il primato ontologico e gnoseologico di quest’ultima. La coscienza, affermava Gentile, è ” sintesi di soggetto e oggetto “: ma una sintesi nella quale è il primo termine-concetto che ‘pone’ il secondo. Correlativamente, anche “atto”, e “fatto” sono strettamente uniti e in qualche modo complementari: ma solo nel senso che, se indubbiamente il fatto c’è ed è necessario, esso si dà solo nell’unità dell’ “atto” – che è sempre atto della coscienza. Nella prolusione del 1903 sono già contenute in nuce alcune delle tesi chiave dell’attualismo gentiliano. Ma la definitiva maturazione speculativa di Gentile passa (come quella di Croce) attraverso un serrato confronto con l’hegelismo. Di Hegel il giovane filosofo siciliano apprezza (a differenza di Croce) non tanto la prospettiva storicistica (cioè il suo voler cogliere lo Spirito nel divenire stesso della realtà storica) quanto l’impianto più direttamente coscienzialistico-idealistico. Per Gentile il massimo merito di Hegel è di aver posto una Coscienza (un Logos, un Pensiero) a fondamento e inizio di tutto il reale, contribuendo con ciò a edificare l’idealismo moderno nella sua fase più evoluta. Hegel ha anche elaborato una raffinata logica dialettica. Ma è proprio a proposito di questa dialettica che Gentile (come anche Croce, seppure per ragioni e in prospettive diverse) sente di dover muovere critiche radicali al maestro tedesco. In effetti il filosofo tedesco ha confuso due dialettiche, che invece per Gentile devono restare nettamente separate. Queste dialettiche non sono (come per Croce) la “dialettica degli opposti” e la “dialettica dei distinti”: sono quelle che Gentile chiama la ” dialettica del pensare “e la ” dialettica del pensato “. Se Hegel ha genialmente colto e individuato la , “dialettica del pensare” (ossia la dialettica della Coscienza o del Pensiero attivo e vivente), egli vi ha poi lasciato forti residui della “dialettica del pensato” (ossia la dialettica del pensiero determinato e delle scienze) – anzi, come si è detto, ha mescolato l’una con l’altra. E questo, per Gentile, è un errore: ” La dialettica del pensato è, si può dire, la dialettica della morte; la dialettica del pensare, invece, la dialettica della vita. Infatti il presupposto fondamentale della prima è la realtà o verità tutta quanta ab aeterno determinata in guisa che non sia più concepibile una determinazione nuova, come determinazione attuale della realtà […]. La dialettica, invece, del pensare non conosce un mondo che già sia, che sarebbe un pensato; non suppone una realtà al di là della conoscenza e di cui toccherebbe a questa d’impossessarsi, perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (il pensabile, i concetti dell’esperienza) presuppone l’atto stesso del pensare. E’ in questo atto vede perciò la radice di tutto “. (La riforma della dialettica hegeliana, I) Nella misura in cui Hegel ha confuso queste due dialettiche, la ‘sua’ dialettica va “riformata”. Va riformata soprattutto eliminando dalla “dialettica del pensare” ogni componente oggettivistica, statica, inerte (come ad esempio la struttura categoriale fissata in modo universale e rigido-astratto), e conferendo invece un’assoluta libertà al vivente “dialettismo” del concreto atto del pensiero: quel dialettismo che è la ricca, vera e inesauribile ” inquietezza del pensare “.
I PRINCIPI FILOSOFICI DELL’ATTUALISMO
L’attualismo gentiliano si costruisce intorno ad alcuni precisi nuclei teorici: 1. L’interpretazione di Hegel e la riforma della dialettica hegeliana; 2. La teoria dell’atto puro 3. Il rapporto tra logica del pensare e logica del pensato. Nella costruzione del suo sistema Hegel ha perduto, secondo Gentile, l’unità di soggetto e oggetto raggiunta nella Fenomenologia . L’Idea hegeliana infatti, si articola nei momenti della logica e della filosofia della natura concepiti come anteriori alla filosofia dello spirito, il che ripropone un sostanziale e inammissibile dualismo. Inoltre Hegel separa l’ “intelletto che concepisce le cose, dalla ragione che concepisce lo spirito “. Da questo dualismo viene caratterizzata anche la concezione della dialettica, irrigidita in concetti “astratti” e “immobili” che non rendono ragione della dinamicità del reale. La dialettica va invece riformata attraverso la lezione di Spaventa, che ha saputo cogliere l’unità viva e concreta delle categorie nell’atto del pensiero. Attraverso Spaventa Gentile risale a Fichte e afferma, in parte sulle orme del filosofo tedesco, la priorità dello spirito inteso come pensiero in atto e come unità di coscienza e autocoscienza. ” La dialettica del pensare non conosce un mondo che già sia, che sarebbe un pensato; non suppone una realtà, al di là della conoscenza, e di cui toccherebbe a questa impossessarsi; perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (il pensabile, i concetti, l’esperienza) presuppone l’atto stesso del pensare. E in questo atto vede perciò la radice di tutto. ” (La riforma della dialettica hegeliana, I) L’atto del pensiero pensante, o Atto puro, è dunque per Gentile il principio e la forma della realtà in divenire. Esso è ” autoctisi ” (ossia creazione di sé) e sintesi a priori: crea se stesso, ma attraverso un oggetto che è (fichtianamente) condizione necessaria della sua attività e non può essere separato da essa. Ove lo fosse, infatti, l’oggetto decadrebbe a “natura”, a “pensato”, a “passato”, assumendo un aspetto dogmaticamente oggettivo e inerte. La dialettica dell’atto puro è, per Gentile, triadica e si articola nei due momenti della tesi e dell’antitesi, ambedue unilaterali e astratti, e nel terzo momento della sintesi. Il momento astratto della soggettività (tesi) è rappresentato dall’arte, quello dell’oggettività (antitesi) dalla religione, mentre la sintesi è propria della filosofia. Il compito della filosofia è, da un lato, quello di rendere autocosciente questa dialettica dell’atto e, dall’altro, di opporsi ad ogni interpretazione dell’attività dello spirito suscettibile di reintrodurre rigidi dualismi e dogmatismi. In particolare Gentile sottolinea la netta distinzione della filosofia dalla scienza, in quanto quest’ultima è dogmatistica ( ” presuppone il suo oggetto “), naturalistica e priva di storia (” non può avere svolgimento, perché presuppone una verità perfetta “). La filosofia, invece, coincide con la storia della filosofia poiché ogni posizione filosofica realizza, nella sua forma specifica, l’autocoscienza dello spirito in un dato momento storico. ” La nostra dottrina dunque è la teoria dello spirito come atto che pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, e insieme risolve la loro molteplicità e oggettività nell’unità dello stesso soggetto. Teoria che sottrae lo spirito a ogni limite di spazio e di tempo e da ogni condizione esteriore; rende pure impensabile ogni sua reale moltiplicazione interna, per cui un momento suo possa dirsi condizionato da momenti anteriori; e fa quindi della storia, non il presupposto, ma la realtà e concretezza dell’attualità spirituale, fondando così la sua assoluta libertà. ” (Teoria generale dello spirito come atto puro, XVI) Un altro aspetto centrale dell’attualismo gentiliano è la dottrina del rapporto tra io empirico e io trascendentale. L’ io trascendentale è ” quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero quando il pensiero si consideri non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto “: un Io rispetto al quale la nostra individualità, con le sue caratteristiche psicofisiche, si configura come un oggetto finito e condizionato. In tal modo, l’autonomia e il valore del soggetto umano concreto risultano nell’attualismo largamente ridotti, e per lo stesso soggetto si delinea un preciso compito “educativo”: quello della propria autoelevazione all’universalità e all’autocoscienza dell’Io trascendentale. Infine, dal punto di vista gnoseologico, l’atto puro si fonda sull’opposizione Tra “logica del pensiero pensante” e “logica del pensiero pensato”, o tra “logo concreto” e “logo astratto. La prima è una logica filosofica, dialettica e attivistica; la seconda e una logica astratta, formale ed erronea. A questa seconda forma del pensiero appartengono le logiche formali, antiche e moderne, che rendono invariabili e definitive le forme del pensiero, fissandole come “cose” o “fatti”. Anche l’errore è legato alla “logica dell’astratto”, in quanto scambia il pensiero coi pensati, l’atto con le sue determinazioni, operando un’indebita astrazione dell’oggetto dal pensiero che lo pensa.
ESTETICA E RELIGIONE
Accanto all’aspetto teoretico-sistematico, l’attualismo gentiliano svolge anche alcune analisi concrete di momenti fondamentali dell’esperienza e della cultura. Ciò accade, in particolare, in relazione alla dimensione dell’arte e della religione, della pedagogia e della politica, che vengono indagate nelle loro strutture teoretiche fondamentali. In verità questo aspetto analitico dell’attualismo resta spesso sopraffatto dall’altro, più teoreticistico e astratto, e le indagini gentiliane si risolvono, a volte, in un gioco di puri concetti filosofici. Nell’opera dedicata all’arte Gentile si sofferma essenzialmente su due temi: la soggettività dell’arte e il suo rapporto con l’intera vita dello spirito (religione e filosofia). Sotto il primo aspetto, l’arte si manifesta come il momento soggettivo dell’io in quanto è legata al sentimento e alla sua immediatezza, ed esprime soprattutto l’individualità dell’artista. Sotto il secondo aspetto, essa è però anche un atto sintetico, che comprende tutti i momenti della vita dello spirito. L’arte, cioè, è sì immediatezza del sentimento: ma solo in quanto questo assume consapevolezza di sé e sa esprimere la complessità del mondo spirituale. L’arte acquista quindi anche alcuni caratteri propri del discorso razionale. L’estetica gentiliana si differenzia rispetto all’estetica di Croce su altri punti non meno rilevanti: il rapporto tra forma e contenuto viene considerato come inscindibile e non risolvibile in un privilegiamento della forma; il fondamento dell’arte è il sentimento e non l’intuizione-espressione; lo scopo dell’estetica è non già quello di ricavare una metodologia sulla base della quale formulare i giudizi sull’arte e la non-arte (poesia e non-poesia), bensì l’altro di definire il ruolo che l’esperienza artistica occupa nella dialettica del- lo spirito. Nelle opere dedicate all’ esperienza religiosa – Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909), Discorsi di religione (1920), la conferenza La mia religione (1943) – Gentile sviluppa una concezione della religione come momento dell’assoluta oggettività dello spirito, dell’unità oggettiva del reale; ma è un momento che si rivela ” unilaterale, astratto e falso “, alla luce della filosofia. Quest’ultima, infatti, dissolve i postulati dogmatici della religione e risolve lo stesso Dio nell’attività dell’io trascendentale. La religione viene così, ad un tempo, esaltata come la forma più alta della presa di coscienza del reale (prima dell’autocoscienza filosofica) e superata in quanto concepita come inferiore alla filosofia.
PEDAGOGIA E SCUOLA
Nell’importante saggio Il concetto scientifico di pedagogia (1900), Gentile avvia una rifondazione in senso idealistico della pedagogia, negandone i nessi con la psicologia e con l’etica. Affermato che l’oggetto specifico della pedagogia è l’educazione, egli sottolinea che questo processo, in quanto rivolto a “fare lo spirito”, si risolve nel “farsi dello spirito”, nella dialettica della vita spirituale – cioè nella filosofia. La pedagogia si identifica così con la filosofia, come l’educazione si esprime primariamente sotto forma di autoeducazione. Questi principi generali vengono poi svolti nelle loro implicazioni concrete. Di particolare rilievo sono le tesi sul rapporto tra maestro e scolaro. Esso è caratterizzato da un dualismo che deve risolversi in unità attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che, tramite la cultura, muove dall’educatore verso l’educando e lo riassorbe nell’universalità dell’atto spirituale. Nella vita della scuola il maestro occupa quindi il posto centrale e in lui si esprime il modello formativo spirituale e culturale che deve guidare l’alunno. Per quanto riguarda i suoi contenuti culturali, la scuola che emerge dalla dottrina pedagogica gentiliana è tanto legata alla tradizione umanistico- letteraria quanto sorda nei confronti del sapere scientifico. Relativamente alla sua organizzazione, essa è caratterizzata da un ordinamento gerarchico e centralistico. Si tratta anche di una scuola aristocratica, pensata per gli “studi di pochi, dei migliori”, e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per le classi dirigenti e in uno professionale per il popolo. Nella scuola, infine, viene introdotto l’insegnamento religioso a livello primario perché Gentile considera necessario che gli uomini, i cittadini abbiano una concezione religiosa della vita. Onde conseguire questo risultato ” è necessario insegnare la religione ai bambini. E dato che siamo in Italia, dove la religione cattolica è dominante, i bambini devono essere istruiti in essa “.
LO STATO ETICO E TOTALITARIO
La filosofia gentiliana, per la sua esigenza di collegare unitariamente tutti gli aspetti della vita pratica dell’uomo, oltre che per lo stretto legame mantenuto con il pensiero di Hegel e della destra storica, culmina in una dottrina etico-totalitaria dello stato . Lo stato è per Gentile il momento di unificazione della società. Davanti ad esso individui e gruppi sono il “relativo”, rispetto all'”assoluto”. La collettività nel suo insieme deve sentire e si deve ispirare agli stessi valori. Lo stato è la sorgente di elaborazione concreta di questi fini unitari della collettività: di qui il suo carattere morale. Alla luce di tale dottrina si comprende come il pensiero politico gentiliano possa essersi connesso strettamente col fascismo: con la visione autoritaria ed anti-individualistica dello stato, con la sua mistica della patria e della sua “missione” spirituale. Anche le ultime riflessioni del filosofo contenute in Genesi e struttura della società , pur abbozzando un “nuovo umanesimo del lavoro” che rivaluta in qualche misura il soggetto umano e l’interazione tra gli individui, rivelano che Gentile non esce mai dal quadro di una concezione centralistica e totalitaria della comunità politica.Una pur rapida menzione merita anche l’instancabile attività di Gentile come organizzatore di cultura. Tale attività si esplicò soprattutto in sede editoriale. Il padre dell’attualismo organizzò numerose collane (di contenuto prevalentemente filosofico) presso vari editori italiani. Inoltre fondò e diresse alcune importanti riviste, quali il “Giornale critico della filosofia italiana” (1920-1944), “Educazione fascista” (1927-1933) e “Civiltà fascista”. Attraverso queste attività Gentile tese a sviluppare la presenza dell’attualismo nella cultura filosofica italiana e a renderne espliciti i presupposti storici (da Vico a Gioberti) e le applicazioni nelle varie sfere della cultura (educazione, arte, religione). Ma la principale impresa culturale realizzata dal filosofo fu la promozione (con G. Treccani) e la direzione dell’Enciclopedia italiana, pubblicata dal 1929 al 1937 in 36 volumi. L’opera veniva in qualche modo a rappresentare la summa della cultura moderna, orientata secondo i princìpi dell’idealismo e dello storicismo. Attorno a questo ampio e ambizioso progetto culturale Gentile favorì la confluenza di intellettuali di vario orientamento (ivi compresi alcuni esponenti della cultura cattolica e perfino antifascista ) allo scopo non solo di realizzare un obiettivo di egemonia culturale, ma anche e soprattutto per promuovere il consenso degli intellettuali nei confronti del fascismo.
GLI STUDI SU MARX
Quello che può definirsi l’esordio filosofico di Gentile fu il suo studio sulla filosofia di Marx, una rielaborazione della sua tesi per l’abilitazione all’insegnamento secondario, dal titolo Una Critica del Materialismo Storico, che apparve a Pisa nel 1897. A questo testo seguì La filosofia della prassi che venne pubblicata , insieme al primo studio, nel 1899, nel volume, edito sempre a Pisa, dal titolo La filosofia di Marx. L’ incontro tra Gentile ed il pensatore tedesco si deve in gran parte alle sollecitazioni di Benedetto Croce, che in quegli stessi anni, sotto la spinta del suo maestro, Antonio Labriola, stava cercando di definire la sua posizione rispetto al dibattito sulla dottrina marxista, in un periodo in cui l’Italia era attraversata da forti tensioni sociali. La formazione del Partito Socialista nel 1892 e la diffusione dei testi di Marx e Engels all’interno della nuova componente politica avevano contribuito alla diffusione di studi e articoli sull’argomento. L’approccio di Gentile alla filosofia di Marx e alla “questione sociale”, fu però distaccato e, per alcuni versi, prevenuto (come ebbe modo di costatare lo stesso Croce); ciò dipese sia dalla noncuranza eccessiva nei confronti del clima che si respirava in Italia alla fine del secolo (peraltro dimostrata dagli scarsi accenni che Gentile fece nelle sue lettere) e sia dalla sua impostazione hegeliana, che gli fece vedere nella filosofia di Marx un mal riuscito tentativo di superamento della filosofia di Hegel. Il tono dei due studi appare ambivalente, perché, mentre entrambe le conclusioni risultano essere una stroncatura del marxismo, dal il corpo del testo, al contrario, si evince una certa ammirazione per le intuizioni filosofiche di Marx. Gentile rivendica, nel corso dei due saggi, la matrice hegeliana del pensiero di Marx contro l’interpretazione positivistica, e contro il dilettantismo filosofico di coloro che scrivono sull’argomento senza una reale preparazione filosofica. Il primo studio si occupa di rispondere alla domanda se il materialismo storico possa essere definito o no una filosofia della storia: secondo Gentile il pensiero di Marx può essere scisso in una visone storica, e quindi una filosofia della storia, e in una metafisica artificiosa su cui lo stesso Marx non insistette; mentre la seconda può considerarsi “una superfetazione del suo pensiero”, la prima ne rappresenta la vera essenza. La conclusione di Gentile è che la filosofia della storia di Marx sia mutuata da quella di Hegel, sia per quanto riguarda la forma, dialettica per entrambi, sia per quanto riguarda il contenuto: all’Idea hegeliana, Marx ha sostituito la Materia, ma facendo questo è incorso in una contraddizione, data l’impossibilità logica di una filosofia della storia del relativo, dell’ a posteriori; il materialismo storico quindi, secondo Gentile, altro non è se non “uno dei più sciagurati deviamenti dell’hegelismo”. Nel secondo studio, Gentile si sofferma su quello che giudica il maggior risultato della speculazione marxiana, e cioè il concetto di prassi, che elimina il dualismo tra teoria e pratica, conoscere e fare. Per il concetto di prassi la conoscenza non può mai essere disgiunta dell’esperienza, ogni conoscenza si scopre facendola. Ma questo concetto, come nota lo stesso Marx, è vecchio quanto l’idealismo stesso e Gentile ne traccia la storia partendo da Socrate fino a Hegel, passando per Platone e Vico. Il saggio gentiliano si sviluppa contro il materialismo dualista ( il testo si apre con le Undici Tesi di Marx a Feuerbach ed è un merito di Gentile averle pubblicate per la prima volta in Italia) e contro ogni metafisica dualista, rivendicando, come nel primo saggio, la paternità hegeliana del materialismo storico e, nella conclusione, asserendo la finale contraddizione di quest’ultimo. Malgrado il magro successo di pubblico che ebbero, e malgrado il fatto che solo nel 1932 furono pubblicati il Italia L’Ideologia Tedesca e I manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx ( due saggi importanti per l’interpretazione del pensiero marxiano), i due testi gentiliani offrirono un contributo importante al dibattito sul marxismo (Lenin ne terrà conto e lo giudicherà uno dei testi migliori di autori non marxisti), e offrono tutt’ora un importante spaccato sullo sviluppo del pensiero di Gentile, che in quel periodo, oltre agli scritti su Marx, pubblicava anche nel 1898 la sua tesi di laurea su Rosmini e Gioberti. Il testo La filosofia di Marx cerca di rispondere alla domanda se la concezione materialistica della storia sia o no una filosofia della storia: a questa domanda aveva risposto positivamente Labriola e negativamente Croce. Ad avviso di Gentile, come accennato, Marx desume da Hegel la forma dialettica, grazie alla quale si può determinare a priori il corso dello sviluppo storico nella sua necessità e formulare la previsione della sua direzione e dei suoi tratti generali essenziali. In questo consiste il carattere scientifico e non utopistico del materialismo storico, e così si può affermare, stando a Gentile, che, per quel che riguarda la forma, esso è una filosofia della storia. Ma, per Marx, quel che vi è di essenziale nel processo storico è la materia, cioè il fatto economico, non l’idea, come invece era per Hegel. Su questo punto, il marxismo, per Gentile, manifesta la sua inferiorità e insufficienza rispetto all’hegelismo: per Hegel, infatti, l’idea non è trascendente la materia, ma è l’essenza del reale, che comprende al suo interno la materia come un momento relativo. Ritenendo, invece, la materia, che è il relativo, diversa dall’idea, che è l’assoluto, e scambiando il relativo con l’assoluto, i marxisti hanno attribuito a quel che è relativo la funzione dell’assoluto e, dato che l’assoluto si sviluppa dialetticamente e questo sviluppo è determinabile a priori, come aveva dimostrato Hegel, sono giunti alla conclusione balzana di considerare determinabile a priori anche quel che è meramente empirico, cioè la materia, il fatto economico, e quindi a considerare prevedibile quel che non può esserlo e, così, non appartiene alla filosofia della storia. Il fatto è di pertinenza della storiografia, che si occupa del già accaduto, non della filosofia della storia. Dal punto di vista filosofico, il materialismo storico appare a Gentile una deviazione erronea del pensiero hegeliano (“uno dei più sciagurati deviamenti dell’hegelismo”), proprio perchè concepisce erroneamente “una dialettica, determinabile a priori, del relativo”. Certo Marx ha anche dei meriti, spiega Gentile: ha criticato il materialismo tradizionale poichè esso concepisce l’oggetto come un dato, non come un processo, e il soggetto come una visione o rappresentazione passiva di tale oggetto. Marx invece concepisce “l’oggetto intrinsecamente legato all’attività umana” : è la prassi umana che modifica e produce l’oggetto, il quale a sua volta modifica anche il soggetto, in modo che “l’effetto reagisce sulla causa e il loro rapporto si rovescia, l’effetto facendosi causa della causa, che diviene effetto pur rimanendo causa”. In questo consiste il cosiddetto rovesciamento della prassi: “la prassi che aveva come principio il soggetto e termine l’oggetto, si rovescia, tornando dall’oggetto (principio) al soggetto (termine)”. Per Marx reale è l’individuo sociale, che non può “sciogliersi dai vincoli della società che è effetto della sua prassi”, e lo studio della prassi è possibile a priori, in virtù del ritmo dialettico che la caratterizza: su questa base è appunto possibile determinare a priori lo sviluppo della storia, ossia costruire una filosofia della storia, cioè uno schema a priori. Lo sviluppo della prassi, infatti, non può non produrre divisioni nella realtà, cosicchè la lotta di classe non è un fatto accidentale ed ha, anzi, uno sbocco inevitabile: la filosofia della storia di Marx è dunque caratterizzata dal determinismo o teleologismo. Marx era stato “filosofo prima che rivoluzionario” e una filosofia è confutabile solo filosoficamente, a differenza di quel che pensava Croce, il quale voleva confutare empiricamente. Dal punto di vista filosofico, però, il marxismo presenta “il radical vizio” di un’indebita mescolanza di schema razionale a priori e di determinazione del contenuto della storia a posteriori, a partire dal fatto economico, che è puramente empirico. L’errore di Marx consisteva nell’aver preteso di trasportare la storia, che è propria dello spirito, nella materia, ma proprio il materialismo settecentesco stava a dimostrare l’inconciliabilità dei 2 princìpi, cioè della forma, identificata con la prassi, con la materia, che è inerte: il marxismo si configurava dunque come una concezione eclettica composta da elementi contradditori. L’errore di Marx era stato di considerare il pensiero “forma derivata e accidentale dell’attività sensitiva”. A questo Gentile opponeva una tesi, destinata ad essere il pilastro portante della sua filosofia: “il pensiero è reale, perchè e in quanto pone l’oggetto. O il pensiero è, e pensa; o non pensa, e non è pensiero. Se pensa, fa”. A ben vedere, il Marx teorico della prassi, a cui andava il consenso di Gentile, era già in qualche modo contenuta, e in forma migliore, nella tradizione idealistica di Fichte e di Hegel: il processo del reale tornava ad essere risolto nella coscienza che il soggetto ne ha. Il problema di Gentile, negli anni successivi, sarebbe stato di fare i conti con questa tradizione.
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GOTTFRIED LEIBNIZ
Se segnassimo a caso dei punti su un foglio di carta , si potrebbe individuare sempre e comunque un’equazione matematica tale da rendere conto di quanto fatto
LEIBNIZ
Goffredo (Gottfried) Leibniz lavora negli ultimi anni del 1600 e nei primi del 1700 ; figlio di un professore universitario , egli nasce a Lipsia , in Germania , nel 1646 . Il suo pensiero é per molti versi anomalo rispetto alle idee prevalenti all’epoca , un’epoca in cui dominava il rigido meccanicismo cartesiano . Leibniz é uno di quei pensatori che può essere definito “genio universale” nel vero senso della parola : é stato grande matematico , fisico , scienziato e filosofo . Scopritore del calcolo infinitesimale , creatore di una più complessa calcolatrice rispetto a quella inventata da Pascal , escogitatore di apparati per facilitare il lavoro dei minatori , Leibniz ebbe una cultura che spaziò nei campi più vasti . E non mancano gli aneddoti sulla sua vita : si racconta che per effettuare le osservazioni scientifiche sugli insetti , egli fosse solito raccoglierli , introdurli nel suo laboratorio e , una volta terminata l’osservazione al microscopio , riportarli laddove li aveva prelevati . Questo tra l’altro testimonia un diverso atteggiamento nei confronti del mondo animale rispetto a pensatori come Cartesio , convinto che gli animali altro non fossero che macchine . Anche Leibniz , come moltissimi altri pensatori del Seicento , tenta di trovare una soluzione al problema lasciato in eredità da Cartesio sul rapporto tra res cogitans ( spiritualità ) e res extensa (materialità ) : Leibniz risolverà la questione in modo diametralmente opposto a Hobbes , sostenendo che esista solo la res cogitans : l’unica realtà esistente , per il pensatore tedesco , finisce per essere la realtà spirituale e quella che comunemente chiamiamo “materia” non é altro che un modo di manifestarsi secondario della res cogitans . Tra gli interessi di Leibniz vanno sicuramente annoverati anche il diritto e la diplomazia ; quando il duca di Hannover divenne re di Inghilterra tradì il suo ex servitore Leibniz per premiare un inglese , Newton ; infatti in quegli stessi anni sia Leibniz sia Newton avevano scoperto il calcolo infinitesimale ; si doveva però decidere a chi attribuire la paternità e il nuovo re di Inghilterra , al fine di ingraziarsi gli Inglesi , scelse Newton , sebbene Leibniz avesse effettuato la scoperta un pò prima del pensatore inglese . Goffredo soffrì molto per l’ingiustizia patita , ma ciononostante rimase uno spirito essenzialmente ottimista , capace di vedere del bene in ogni cosa e sostenitore della teoria secondo la quale il nostro mondo sarebbe il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare . D’altronde egli era anche uno studioso di Dio , un teologo luterano , e tra i suoi interessi e progetti religiosi vi era quello di realizzare una vera e propria concordia religiosa a livello europeo : il principio sul quale voleva istituire questa concordia pacifica era quello dell’unità del molteplice , di ascendenza platonica ; questo progetto utopico dà poi l’idea della concezione leibniziana del mondo : esso , oltre ad essere il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare , é sì estremamente variegato e molteplice , ma tuttavia allo stesso tempo é anche in qualche misura unitario . Si ricorda sempre l’asserzione leibniziana : se segnassimo a caso dei punti su un foglio di carta , si potrebbe individuare sempre e comunque un’equazione matematica tale da rendere conto di quanto fatto : dietro l’apparente disordine e caos del mondo per Leibniz si nasconde sempre e comunque un grande ordine . Se il pensatore tedesco non scrive grandi trattati che fungano da compendi del suo pensiero filosofico lo fa esclusivamente per mancanza di tempo : era sempre indaffarato in esperimenti scientifici o calcoli matematici . Egli preferisce scrivere operette snelle , quali la Monadologia , optando sempre per la lingua francese , tipica dei personaggi colti . L’unico vero trattato corposo sono i Nuovi saggi sull’intelletto umano , contrapposti al Saggio sull’intelletto umano dell’inglese Locke : con quest’opera enciclopedica Leibniz muove una serrata critica contro l’empirismo lockiano , abbracciando posizioni innatistiche di forte sapore platonico . Ed é proprio in questo caso che emerge la grande correttezza dell’uomo Leibniz : poco tempo prima che potesse pubblicare i suoi saggi , moriva il suo avversario filosofico Locke e Leibniz si rifiutava di dare pubblicazione alla sua opera , proprio perchè l’ormai defunto Locke non avrebbe potuto difendersi . Questo episodio dimostra la grande correttezza di Leibniz , esempio di genialità intellettuale ma allo stesso tempo modello di humanitas e di rispetto . In ambito strettamente filosofico , i problemi cui Leibniz prova a dare una soluzione sono essenzialmente due : 1 ) in primo luogo egli intende dare una risoluzione definitiva alla questione delle due res , facendo scomparire la res extensa e dominare la res cogitans ; 2 ) in secondo luogo egli si occupa di gnoseologia , facendosi latore di tesi a favore dell’innatismo ; un innatismo che risente della tradizione platonica , ma che comunque presenta aspetti di modernità , che saranno poi spunti per Freud e per la psicologia moderna . Accennavamo al fatto che in fondo Leibniz é un pensatore anomalo se inserito nel contesto culturale del Seicento : in quegli anni , caratterizzati dall’imperare della fisica matematizzata e del cartesianesimo egli riduce tutto , materia compresa , a spiritualità ; le sue stesse origini tedesche contribuiscono a renderlo un pensatore difficilmente inseribile nel 1600 : la Germania dell’epoca era una realtà periferica e i suoi grandi pensatori risultavano sì interessati alle grandi tematiche del secolo , però allo stesso tempo nutrivano simpatia nei confronti della tradizione filosofica scolastica ; Leibniz stesso confessa di preferire Aristotele a Cartesio per quel che riguarda la fisica . Ma ciò che può sembrare un forte limite alle sue vedute culturali , in realtà si trasforma in un elemento a suo vantaggio : Leibniz vivendo in una realtà ancora legata alla tradizione scolastica quale é la Germania del 1600 , può vedere con nitidezza i limiti del cartesianesimo e del meccanicismo , riuscendo a cogliere con facilità i suoi elementi più bislacchi e stridenti con la realtà . Il nucleo ispiratore della filosofia leibniziana consiste nel non negare la validità del meccanicismo all’epoca imperante, bensì nel considerare la medesima come limitata ad una parte superficiale della realtà, al di sotto della quale vi é a sua volta un’altra realtà più profonda che va avanti con leggi che esulano dal meccanicismo. Per comprendere il ragionamento leibniziano é bene tenere a mente quello cartesiano , da cui Leibniz muove : penso dunque sono; dal fatto di intuire la mia esistenza dal fatto di pensare Cartesio concludeva in modo indebito di esistere come res cogitans , come cosa interamente spirituale , che non ha nulla a che vedere con la materia (res extensa) ; materia (res extensa) e spiritualità (res cogitans) sono due sostanze nettamente distinte, che vanno avanti ciascuna secondo le sue leggi. Nel mondo fisico della res extensa vige il meccanicismo più radicale, nel mondo spirituale predomina invece il libero arbitrio. Tuttavia il problema scaturiva dal dover ammettere un contatto tra i due mondi, spirituale e materiale, contatto che é inevitabile nel corpo umano: la res cogitans, con il suo libero arbitrio, decide di alzare il braccio e la res extensa braccio, seguendo le rigide leggi del meccanicismo, si alza. Ma come si può ammettere un contatto tra i due mondi? La prima grande aporia é che se il contatto può solo avvenire per urti materiali, come su un tavolo da biliardo, é evidente che tra anima (res cogitans) e corpo (res extensa) non ci potrà mai essere contatto proprio perchè é assurdo ipotizzare degli urti materiali tra un corpo e un’anima ; ma l’altro problema , altrettanto difficile da risolvere , é insito nell’eterogeneità tra le due sostanze: nella res cogitans vige il libero arbitrio , nella res extensa il meccanicismo : messe a contatto si inquinerebbero l’un l’altra ; eppure vanno messe a contatto altrimenti non si potrebbe spiegare l’alzarsi del braccio in seguito alla decisione presa . In fondo chi ammette il meccanicismo si vede costretto a negare la libertà e il finalismo, riconducendo tutto a cause efficienti e necessarie : ed é proprio quel che fa Spinoza . Cartesio , invece , in maniera alquanto ingenua vuole mantenere sia il meccanicismo sia la libertà umana ; tuttavia le difficoltà che derivano da questa riflessione ingenua sono insormontabili : se la res cogitans può influenzare la res extensa salta il meccanicismo perchè é come dire che l’anima decide così e il corpo si muove di conseguenza, in modo meccanico : é ridicolo proprio perchè vi é un accostamento impossibile tra finalismo e meccanicismo ; come può un atto libero del pensiero inserirsi nel più radicale meccanicismo fisico? La soluzione proposta da Leibniz a riguardo consiste essenzialmente nel dare ragione a Cartesio per quel che riguarda la validità di entrambe le concezioni (finalistica e meccanicistica) e nell’approdare ad una concezione dinamicistica della realtà , caratterizzata dalla convivenza di meccanicismo e libertà di perseguire i propri fini . Tuttavia il pensatore tedesco pone le due concezioni su diversi livelli, sostenendo che tutto dipenda dal livello di analisi della realtà : ciò che ad un certo livello di realtà risulta materiale e meccanicistico, se visto con maggiore attenzione e più in profondità (una profondità metafisica) risulterà spirituale e governato da leggi assolutamente aliene al meccanicismo. Ecco allora che il meccanicismo non é altro che una manifestazione secondaria di cose che , nella loro essenza più profonda, non funzionano meccanicamente . Lo stesso Immanuel Kant si muoverà in un’ottica piuttosto simile a quella di Leibniz arrivando a dire che per il fenomenico vale il meccanicismo, ma che per la cosa in sè, invece, valgono la libertà e il finalismo. In ambo i pensatori vi é l’idea che le cose a prima vista vadano in modo meccanico, ma che se osservate con maggiore attenzione e più in profondità siano rette dalla libertà e dal finalismo. Ma se per Cartesio erano leggi che investivano diversi ambiti della realtà, per Leibniz sono invece diverse leggi (viste in chiave più o meno complessa) che valgono negli stessi ambiti della realtà, proprio perchè egli non accetta l’esistenza della res extensa e riduce tutto a res cogitans , a spiritualità. Il concetto fondamentale dal quale si espande a raggiera l’intera filosofia di Leibniz è quello di monade , sebbene egli fino agli ultimi anni del 1600 abbia preferito impiegare quello di sostanza individuale . La monade o sostanza individuale che dir si voglia esprime unità, ma non si tratta di un’unità in senso matematico quanto piuttosto in senso metafisico . Leibniz mutua questo termine dal filosofo italiano Giordano Bruno , il quale , sulla scia degli antichi Pitagorici , si era ingegnato a trovare dappertutto valori simbolici, individuando per ogni ambito della realtà un elemento primario che fungesse da unità : nei numeri, per esempio, l’elemento unitario era costituito dall’ 1 , nel sistema solare dal Sole. In realtà in Leibniz il concetto di monade ha un’origine plurima, come se riflessioni di diverso tipo avessero portato il pensatore tedesco ad un’unica meta . Egli approda per la prima volta al concetto di monade ragionando in termini fisici : egli accetta la possibilità di conoscere a livello fisico l’intera realtà in termini meccanicistici, come realtà estese che si spostano nello spazio ; tuttavia é convinto che al di sotto di queste realtà che si muovono in termini meccanicistici vi sia qualcosa di più profondo, una forza che mette in moto ogni cosa: questa forza Leibniz la chiama monade . Tuttavia il pensatore tedesco perviene al concetto di monade anche attraverso un altro percorso, di tipo logico : egli distingue tra verità di fatto e verità di ragione ; le verità di ragione sono quelle che possono essere anche chiamate “verità espresse da proposizioni identiche”, quando cioè il predicato é già implicito nel soggetto. Se dico che la somma degli angoli interni di un triangolo é di 180 gradi, in realtà é già insito nell’essenza del triangolo l’avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi . Le verità di ragione sono dunque deducibili dall’essenza stessa del soggetto e il predicato non mi dice nulla di nuovo, anzi, esprime cose identiche a quelle espresse dal soggetto, é cioè una tautologia. Con questo però Leibniz non intende asserire che nelle verità di ragione i predicati sono inutili; al contrario egli era solito constatare amaramente che disprezziamo le cose ovvie, dalle quali tuttavia emergono cose che ovvie non sono : spernimus ovvia ex quibus tamen non ovvia secuntur . E in effetti enunciare verità implicite nel soggetto non può essere assurdo, altrimenti sarebbe assurda l’intera matematica, che altro non è se non un grande lavoro di esplicitazione . Per dirla con Aristotele , pensatore particolarmente caro a Leibniz, tutto ciò che nel soggetto é già presente potenzialmente deve essere portato in atto con i predicati . Le verità di fatto , invece, sono quelle del tipo : “Cesare attraversò il Rubicone” . A differenza delle verità di ragione, qui il predicato non dice ciò che é già nel soggetto e se sappiamo che Cesare ha varcato il Rubicone, lo dobbiamo solo agli storici che ce l’hanno testimoniato empiricamente . Il fatto che Cesare abbia varcato il Rubicone non deriva dall’essenza stessa di Cesare , come invece dall’essenza del triangolo derivava che la somma degli angoli interni é di 180 gradi ; nel caso delle verità di fatto come quella del passaggio del Rubicone da parte di Cesare occorre che si verifichi effettivamente : posso esaminare l’essenza di Cesare finchè voglio, ma fin tanto che non avrà varcato il Rubicone non posso dedurre dalla medesima che egli lo varcherà : occorre che si verifichi il fatto . Per le verità di ragione non é così, non occorre che si verifichino dei fatti : mentre Cesare potrebbe essere Cesare anche senza attraversare il Rubicone, il triangolo non potrebbe essere tale se non avesse la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi : se non l’avesse non sarebbe un triangolo. Vi é quindi una nettissima distinzione tra le verità empiriche di fatto e quelle logico-matematiche di ragione ; tuttavia é opportuno fare una precisazione : riduciamo il soggetto Cesare e il predicato “ha attraversato il Rubicone” ad una formulazione puramente logica : chiamiamo A Cesare e X l’aver varcato il Rubicone ; l’espressione “Cesare ha varcato il Rubicone” la si può anche esprimere come “Cesare é qualcuno che ha varcato il Rubicone” e , a sua volta, come “Cesare é Cesare che ha varcato il Rubicone” . Nella verità di fatto non posso però dare per scontato che X sia già implicito in A , ossia che l’aver varcato il Rubicone sia implicito nell’essenza del soggetto Cesare , altrimenti degenererei in una verità di ragione . Dunque Cesare (A) é Cesare(A) che ha varcato il Rubicone(X) ; A=A é valido per il principio di identità ; ma A=X non si può fare: la X é un qualcosa che si aggiunge alla A e non é implicita in essa ; l’espressione “Cesare é Cesare che ha varcato il Rubicone” diventa A=A+X , un’uguaglianza che ha senso solo nel caso in cui X=0 : ma se X=0 significa che l’aver attraversato il Rubicone non é avvenuto o che la X é già implicita in A . X deve sempre per forza essere diverso da 0 (so che Cesare l’ha varcato il Rubicone!) : l’espressione cui mi trovo di fronte é quindi A=A+X , che é inevitabilmente sbagliata perchè va contro il principio di identità . Dicendo che X é diverso da 0 bisogna ammettere che il fatto di aver attraversato il Rubicone si sia verificato e debba essere aggiunto all’essenza del soggetto Cesare. Dopo questo complesso ragionamento, Leibniz arriva alla conclusione che la differenza tra le verità di fatto e di ragione é più apparente che reale ; tuttavia entra ora in gioco l’atteggiamento che caratterizza la filosofia di Leibniz, quello scavare ininterrotto per arrivare a verità sempre più profonde, nella convinzione che le cose vadano diversamente da come sembrano andare. Le verità di fatto , come é logico pensare, possono essere o non essere : Cesare ha attraversato il Rubicone, ma avrebbe benissimo potuto non attraversarlo senza per questo mutare la sua essenza; questo discorso però non vale per le verità di ragione: la somma degli angoli interni di un triangolo é uguale a 180 gradi e non potrebbe essere altrimenti, perchè sennò non staremmo parlando di un triangolo. In fin dei conti, spiega Leibniz, la differenza tra i due tipi di realtà é solo apparente e se indaghiamo con accuratezza scopriamo che le verità di fatto non esistono : dire che A=A+X implica che X sia uguale a 0 ; X deve cioè essere già implicito in A, ossia deve essere lo sviluppo implicito di A , proprio come accade nelle verità di ragione. Non esiste la situazione con una sostanza cui accadono delle cose, ossia dove vi é la sostanza in sè e , successivamente, ad essa si aggiungono delle cose , come , nel caso della sostanza Cesare , l’aver attraversato il Rubicone. Occorre dunque interpretare il predicato “ha attraversato il Rubicone” come sviluppo dell’essenza del soggetto Cesare, un qualcosa senza cui Cesare non sarebbe Cesare : se Cesare non avesse attraversato il Rubicone sarebbe diverso e quindi non sarebbe Cesare, sarebbe altra cosa . L’aver attraversato il Rubicone è implicito nell’essenza di Cesare proprio come è implicito nell’essenza del triangolo l’avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi . Ma allora che cosa é che differenzia le verità di fatto da quelle di ragione, due tipi di verità che in principio ci parevano nettamente distinti ? La differenza sta nel fatto che mentre le verità di ragione hanno soggetti universali (il triangolo) , quelle di fatto hanno soggetto individuale (Cesare) . Ed é per questo che non é corretto affermare “l’uomo attraversa il Rubicone” , ma é giustissimo dire che “l’uomo é un animale razionale” : nel primo caso attribuisco all’insieme universale di tutti i singoli uomini un predicato non a tutti comune (l’aver varcato il Rubicone) ; nel secondo caso attribuisco all’insieme universale di tutti i singoli uomini una caratteristica a tutti comune (l’essere forniti di ragione) . Resta ora da chiarire in che senso faccia la differenza l’universalità o l’individualità del soggetto cui le verità si riferiscono ; per comprenderlo occorre riprendere il concetto di astrazione : per ottenere il triangolo astratto universale devo prendere degli oggetti individuali in carne ed ossa a forma di triangolo e devo spogliarli di ciò che li differenzia, togliendo ad esempio i colori, la materia, le scritte… in modo tale da ritrovarmi con il triangolo in sè, ossia il poligono a tre lati . Il triangolo astratto differisce da quelli materiali proprio per via delle pochissime caratteristiche che ad esso ineriscono ; esso é tutto contenuto in esse . Il triangolo in carne ed ossa, invece, (immaginiamo di avere un triangolo di legno) di caratteristiche ne ha parecchie, anzi ne ha infinite. Pensiamo a tutte le imprecisioni presenti nel legno, ai colori… Il triangolo universale cui perveniamo con il processo di astrazione , dunque, ha un numero limitato di caratteristiche ed é pienamente esauribile da una mente finita quale é la nostra ; il triangolo individuale, invece, possiede infinite caratteristiche non coglibili da una mente limitata come la nostra. Quindi potrò conoscere con la mia mente finita l’idea di triangolo, dotata di poche caratteristiche, alla pari di come la conosce Dio , ma delle infinite caratteristiche che ineriscono all’essenza di Cesare in carne ed ossa potrò conoscerne solo alcune , a differenza di Dio, il quale invece potrà conoscerle tutte , una ad una. Con le verità di ragione posso conoscere gli universali alla perfezione proprio perchè di essi posso cogliere tutte le caratteristiche : nel caso del triangolo, posso cogliere con facilità che ha 3 lati e che la somma degli angoli interni é di 180 gradi . Nel caso della verità di fatto, invece, se potessi conoscere tutte le caratteristiche che ad essa ineriscono, potrei anche conoscere tutto ciò che deriva da quella sostanza (Cesare) ; potrei dedurre dalla sostanza Cesare il fatto che abbia attraversato il Rubicone, che sia stato ucciso dai congiurati, che abbia conquistato la Gallia… però con la mia mente limitata posso solo conoscere le caratteristiche della sostanza Cesare (come l’aver varcato il Rubicone) sulla base dell’esperienza, grazie a qualcuno che me lo dice perchè l’ha visto coi suoi occhi , proprio perchè non posso conoscere tutte le caratteristiche che danno l’essenza. Mentre Dio sa a priori che Cesare attraverserà il Rubicone, io lo so a posteriori, ossia dopo che il fatto si é verificato empiricamente. Ed ecco che torniamo al punto di partenza : la differenza tra verità di ragione e di fatto é solo apparente ; certo per me l’espressione “la somma degli angoli interni di un triangolo é di 180 gradi” é una verità di ragione, mentre quella “Cesare ha attraversato il Rubicone” é di fatto ; ma se esamino più approfonditamente il tutto scopro che per Dio sono entrambe verità di ragione : ogni cosa per Lui é verità di ragione, ovvero il predicato é sempre implicito nel soggetto ed Egli può estrarlo da ogni essenza (sia universale sia individuale) senza problemi; noi invece possiamo estrarre il predicato solo dalle realtà universali, quale é il triangolo. Ritornando al problema iniziale riguardante le monadi, Leibniz sostiene metaforicamente che esse non abbiano finestre: le monadi si sviluppano tutte dal proprio interno, nel senso che non può succedere nulla a loro che provenga dall’esterno: tutto ciò che capita ad una monade é uno sviluppo della sua stessa potenzialità. Il fatto che Cesare abbia attraversato il Rubicone non è quindi un qualcosa che succede in un dato momento a Cesare, bensì é uno degli sviluppi tutti interni alla sostanza “Giulio Cesare” : fa parte della sua essenza l’attraversare ad un certo momento il Rubicone. A noi può sembrare una verità di fatto, ma questo é dovuto solo alla nostra visione limitata che vede le cose a posteriori e non riesce ad abbinare il passaggio del Rubicone all’essenza Cesare. Ecco allora che le cose che capitano ad ogni sostanza provengono interamente e necessariamente dall’interno della sostanza stessa, quasi come un’autoarticolazione. La monade, che finisce per essere ogni qualsivoglia sostanza individuale, si configura come un centro di forza capace di sviluppare tutta una serie di caratteristiche. E se per la realtà che ci circonda vale il meccanicismo, per le monadi esso non vale più proprio perchè esse diventano una sorta di centro di creazione di nuove caratteristiche, una sorta di tensione continua nella quale costruiscono continuamente se stesse, facendo emergere dalla propria natura tutte le caratteristiche che di volta in volta vengono ad assumere. Quindi non é un processo meccanico, é molto più simile allo svolgersi della nostra vita interiore: un continuo crearsi, aggiungersi , svilupparsi di cose insite nella nostra natura stessa. E in effetti per Leibniz le monadi (tutte quante) sono sempre rigorosamente entità spirituali, non res extensa, ma res cogitans : il fatto che siano spirituali deriva dal fatto stesso di essere, come suggerisce la parola stessa, un’unità : in Leibniz é radicata l’idea che al di sotto della realtà fisica che muove in termini meccanici vi sia una forza che dà il moto e anche l’idea che tutto avvenga all’interno, come un’autoarticolazione; da giovane egli aveva abbracciato con entusiasmo l’atomismo, che gli pareva essere una spiegazione valida dell’intera realtà, vista come l’aggregato di particelle elementari e che ciò che veramente esiste sono solo le caratteristiche quantitative. Poi aveva fatto una serie di considerazioni che lo avevano condotto a ritornare sui suoi passi e a mettere in discussione l’atomismo: in primo luogo, sotto il movimento meccanico del tutto deve esservi una forza (la monade) ; in secondo luogo il concetto stesso di atomo concepito come realtà materiale é inaccettabile: qualsiasi cosa materiale, ossia dotata di estensione, per quanto piccola possa essere sarà sempre e comunque ulteriormente divisibile in parti più piccole, magari non in termini materiali, ma comunque con l’immaginazione potrò sempre e comunque scomporre ulteriormente. Viene a cadere il concetto di atomo in senso materiale: con la parola atomo (a + temnw ) si indica appunto una porzione di materia non ulteriormente divisibile, ma é impossibile che esista. La concezione atomistica per poter funzionare fino in fondo non può appoggiarsi sugli atomi materiali (che Leibniz ha dimostrato sempre ulteriormente scomponibili) e deve rinunciare al materialismo: paradossalmente, l’atomismo per esistere deve per forza essere un atomismo spiritualistico: la monade é un atomo spirituale, l’unico che possa veramente esistere. La realtà nel suo complesso viene concepita dal pensatore tedesco come l’insieme di atomi che aggregandosi costituiscono il tutto e contemporaneamente si precisa che essi sono dei “punti” spirituali e non materiali. E la materialità allora che cosa è, visto che in ultima istanza tutto é spirituale? La risposta di Leibniz é che le monadi nella loro essenza profonda sono tutte spirituali, ma che non tutte sono ugualmente perfette: la forza, la creatività, la capacità produttiva di ogni singola monade é diversa, si colloca su una scala gerarchica. Vi saranno allora monadi più perfette e altre meno perfette e la materialità non é altro che il modo particolare con cui appaiono a noi le monadi meno perfette. La materialità è allora quel tasso di passività che caratterizza le monadi meno perfette. Tutte le monadi presentano un’attività, ciascuna di esse è lei stessa un centro di attività più o meno perfetto a seconda del tipo di monade che la svolge: quindi man mano che la monade é meno perfetta e dunque più passiva, tende a manifestare la sua attività sotto forma di materialità. Ora va senz’altro notata una cosa, già in parte accennata: se per Cartesio gli animali erano delle macchine prive di anima, per Leibniz invece essi sono degni di grande rispetto e interesse ; e questo interesse non può che derivargli dalla sua passione per Aristotele, il quale vedeva in ogni ente (anche il più infimo) esistente una combinazione proporzionata di materia e forma, senza porre differenze qualitative nette tra gli enti, nel senso che qualsiasi cosa é pur sempre una combinazione di materia e forma; certo negli uomini il tutto era più complesso e perfetto. Per Cartesio il mondo era spaccato in due: da una parte la res extensa , la pura materialità , dall’altra la res cogitans , pura spiritualità ; Aristotele , unendo ovunque materia e forma, presentava meno dualità. E non a caso lo Stagirita aveva elaborato la famosa scala naturae con la quale sottolineava come dalle realtà più basse fino all’uomo non vi fosse una distinzione netta, ma solo una crescente complessità della forma (l’anima) . E Leibniz é d’accordo con Aristotele sul fatto che vi siano diversi livelli della realtà più o meno complessi , ma che derivano bene o male dalla stessa cosa. Un animale o una pianta per il filosofo tedesco non sono poi radicalmente differenti da un essere umano, come aveva sostenuto Cartesio: tuttavia se per Aristotele la gradualità era data dal fatto che tutto fosse fatto da materia e forma combinate in modo più o meno complesso, per Leibniz la materia come realtà autonoma non esiste, esiste solo come infima manifestazioni della realtà spirituale costituita dalle monadi. Occorre a questo punto distinguere i due possibili monismi cui si può aderire: ve ne é uno che consiste nel dire che esiste un’unica sostanza, e un altro che sostiene che esiste un unico tipo di sostanza. Indubbiamente Giordano Bruno e Spinoza possono definirsi monisti sotto ambo gli aspetti, riconoscendo non solo l’esistenza di un’unica sostanza, ma anche l’esistenza di un solo tipo di sostanza. Il monismo di Leibniz consiste nell’ ammettere un unico tipo di sostanza, ma non un’unica sostanza, ve ne sono anzi una miriade (le monadi). Ma questa miriade di monadi per il pensatore tedesco é stata creata da una sola monade infinita, che é Dio. Si può effettuare un’ulteriore osservazione: se la realtà é costituita da monadi, ne deriva che una semplice penna é divisibile in un numero infinito di particelle, ciascuna delle quali é una sostanza, proprio perchè si dicono sostanze, secondo Leibniz, solo quelli che vengono comunemente intesi come atomi, porzioni di materia non ulteriormente divisibili. Ma ogni cosa materiale, per quanto piccola, sarà sempre ulteriormente divisibile: ne deriva che esistono sostanze solo microscopiche, a livello atomico, e tutto il resto é un composto di sostanze: la penna teoricamente non é una sostanza, ma un aggregato di sostanze microscopiche. Tuttavia c’é un problema di fondo: se divido una realtà inorganica come una pietra ottengo due pietre, tre pietre, quattro pietre… ma se divido una sostanza animata come un gatto non ottengo due gatti, tre gatti, quattro gatti! Per Leibniz questo fatto nasconde una verità metafisica recondita: le realtà inorganiche hanno un solo livello di sostanzialità,cioè hanno solo le monadi materiali , sono un semplice aggregato di monadi materiali: quella che chiamo comunemente pietra é un puro e semplice aggregato di tante monadi materiali pietre che mi generano la pietra che mi sta davanti; ma per il gatto le cose non stanno così: esso non é l’unione di tanti gatti microscopici! Certo esso é un aggregato di monadi materiali come la pietra, ma in più, come suggeriva già Aristotele, é dotato di un qualcosa che organizza le monadi materiali in maniera tale da farne un qualcosa di più che una semplice somma di monadi materiali, come invece é la pietra: il gatto sarà dunque la somma di particelle materiali organizzate dall’anima . Pare dunque che un certo conflitto tra materia e spiritualità sia in qualche misura presente anche nel pensiero di Leibniz: ma é un conflitto solo apparente perchè le particelle inorganiche e l’anima che costituiscono il gatto in fondo sono di natura sostanzialmente identiche, anche se uno (l’anima) ad un livello più elevato e complesso. Quell’elemento organizzativo che abbiamo chiamato “anima” Leibniz preferisce chiamarlo monade dominante : essa é ciò che caratterizza gli esseri animati e ne riorganizza le parti materiali. La monade dominante ha l’importante ruolo di dominio e di organizzazione delle altre monadi; ma per Leibniz in fondo é corretto parlare di sostanza anche quando ci si trova di fronte ad un aggregato di monadi retto dalla monade dominante. Anzi, a suo avviso un gatto é una sostanza (unità di monadi aggregate dalla monade dominante), una pietra no (un aggregato casuale di monadi prive di un qualcosa che le ordini e ne faccia una cosa sola). Nel caso della pietra la sostanza é reperibile esclusivamente nelle singole monadi che aggregate mi danno la pietra: ognuna di esse sarà una sostanza. Questo ci consente di comprendere l’esempio di Giulio Cesare e del Rubicone: la monade dominante (anima) riuniva e riorganizzava le altre monadi per dar vita alla sostanza Cesare; é detta dominante proprio perchè assurge ad un ruolo di dominio delle altre monadi che insieme ad essa compongono la sostanza in questione. Proprio in quegli anni si affermava il microscopio, strumento grazie al quale si potevano osservare gli insetti nella loro piccolezza e scoprire che vi é vita anche laddove non si pensava che vi fosse: si vedevano sempre animaletti e corpuscoli in movimento. Questo indusse Leibniz a ritenere che un qualche cosa di analogo alla vita sia bene o male presente dappertutto, anche nelle realtà più minute. E in effetti a confermare l’idea tipicamente leibniziana della continuità della realtà , senza differenziazioni tra umano e non umano, vivente e non vivente Leibniz afferma che tutte le monadi sono dotate di percezione e solo l’anima umana e alcune anime animali sono dotate di appercezione. Tutte le monadi, nel loro essere di natura spirituale sono dotate di percezioni: tuttavia occorre spiegare che cosa Leibniz intenda per “percezione di una monade”. Dire che si ha percezione di un libro vuol dire che nella propria mente si ha un’immagine di esso, ma un essere inanimato come una monade come può avere percezioni? Leibniz risponde a questa domanda sostenendo che ogni monade, essendo in rapporto con il mondo, é una rappresentazione di esso: immaginiamo di avere un atomo; esso é legato con rapporti di forza e di vicinanza ad altri atomi, i quali a loro volta sono legati ad altri: ebbene, se conoscessimo le caratteristiche e le relazioni di un atomo, allora potremmo conoscere l’intero mondo, di cui l’atomo stesso é una rappresentazione: il mondo infatti non é altro che un insieme di atomi tra loro uniti e conoscendone uno insieme ai suoi molteplici rapporti equivale ad avere una rappresentazione dell’intero mondo. In altre parole, dall’atomo considerato si arriva all’atomo del mondo a lui più distante. Allo stesso modo le monadi, che sono degli atomi spirituali, proprio in quanto legate le une con le altre, sono rappresentazioni e percezioni dell’intero universo: da una monade posso immaginare l’intero universo proprio perchè essa é legata ad altre monadi, le quali sono legate ad altre che sono legate ad altre ancora e la somma di questi legami mi dà proprio l’universo. Tuttavia vedere una monade e vedere l’universo non sono la stessa cosa: ogni monade, infatti, é l’intero universo da un unico e limitato punto di vista ; e l’universo in fondo non é altro che la somma di tutti i punti di vista delle singole monadi. Per spiegare il concetto Leibniz si avvale di un esempio significativo: immaginiamo di osservare una città dalle alture circostanti: avremo una veduta complessiva, che coinvolge l’intera città, ma si tratta comunque di un solo punto di vista. E la città in fondo, proprio come nel caso dell’universo, é l’insieme di tutti i punti di vista. Ecco allora che ogni monade é una rappresentazione dell’intero universo, da un limitato punto di vista però. Altra immagine che rende bene l’idea del rapporto monade-universo é quella della proiezione ortogonale: immaginiamo di avere più piani e un oggetto tridimensionale: proiettiamo i suoi punti su ciascun piano: ogni proiezione ortogonale é una rappresentazione, ovvero ogni punto dell’oggetto corrisponde ad un punto del piano, ma tutte le proiezioni ottenute, pur essendo del medesimo oggetto, risulterebbero tra loro differenti: così le monadi rappresentano in modi differenti lo stesso universo. Ne consegue che quello che avviene nella monade é esattamente quello che avviene nell’universo e nella realtà che ci circonda . Ora, se le monadi sono rappresentazioni della realtà, esse debbono per forza anche essere percezioni della realtà, ossia modi di cogliere quel che nella realtà avviene. Ogni monade, come dicevamo, ha percezione (perchè rappresenta) dell’universo sotto un unico punto di vista, ma la monade che conta più di tutte (Dio) raccoglie in sè tutti gli infiniti punti di vista sull’universo. Le appercezioni , invece, sono percezioni dotate di autocoscienza. Ne é dotato l’uomo, ma anche molti altri animali: per Leibniz non vi é quella netta distinzione sostenuta da Cartesio tra uomo e animale. In altre parole, chi ha appercezioni non solo si rappresenta il mondo, ma ha anche coscienza di percepirlo. Se Leibniz dice che ogni cosa ha percezioni, non vuole con questo degenerare nell’animismo, ossia nell’attribuire vita ad ogni cosa, anche agli enti inanimati: vuol semplicemente dire che la struttura di base é uguale per tutti (tutto ha percezioni), ma che le appercezioni le hanno solo le realtà dotate di anima, ossia quelle realtà che hanno la monade dominante, che unisce e regna sulle altre monadi. E d’altronde Aristotele aveva fatto un discorso analogo per quel che riguarda i tre tipi di anima da lui ravvisati: tutti, animali uomini e piante, hanno l’anima vegetativa; gli animali in aggiunta hanno quella sensitiva e l’uomo, oltre alla vegetativa e alla sensitiva, dispone pure della razionale. Discorso simile per Leibniz: tutti abbiamo le percezioni, ma non tutti le appercezioni: esse sono un qualcosa di più che si aggiunge alle percezioni, é l’avere coscienza di percepire. Tuttavia le monadi che hanno appercezioni sono dotate anche di livelli percettivi non riconducibili all’appercezione, ossia percepiscono cose senza averne coscienza: certamente ho appercezioni nel caso in cui percepisco un libro, ad esempio: percepisco il blu, la forma a parallelepipedo, le scritte e ne ho coscienza. Tuttavia secondo Leibniz percepiamo anche cose di cui non abbiamo coscienza, ossia riceviamo la percezione di certe cose senza neanche accorgercene. Questa concezione tutta leibniziana é di fondamentale importanza perchè porta il pensatore tedesco a prendere le distanze una volta per tutte da Cartesio e da Locke : per questi due pensatori, infatti, idea era ogni oggetto del pensiero e, di conseguenza, non erano ipotizzabili idee non pensate: se l’idea é l’oggetto del pensiero, un’idea non pensata non c’é . Per questi due pensatori dunque il contenuto del pensiero si identificava con quello di cui si ha coscienza: tutto ciò che percepisco, di quello ho coscienza perchè se non sapessi di percepirlo non potrebbe esistere come idea visto che l’idea é l’oggetto del pensiero. Tuttavia Leibniz nota, con due secoli di anticipo rispetto a Freud, che non é detto che di ogni contenuto del nostro pensiero dobbiamo avere coscienza. Freud parlerà di inconscio, alludendo ad una sorta di deposito di idee da cui attingiamo di continuo, ma a cui non pensiamo di continuo. E d’altronde non é per il fatto di pensare ad un libro che io ho percezione solo di quello: nel deposito della mia testa avrò mille altre idee, anche se al momento non ci sto pensando. Sia per Leibniz sia per Freud, dunque, non é vero che le idee o sono coscienti o non ci sono: anzi, si può giustamente affermare che la maggior parte delle idee non sono conscie. Leibniz queste idee di cui non si ha coscienza le chiama piccole percezioni , piccole nel senso che non sono abbastanza forti per superare la soglia della coscienza: le avrà l’uomo, ma anche le piante. D’altronde quando si ha la febbre e si prova dolore ovunque é per via dell’abbassamento della soglia del dolore, ovvero abbiamo coscienza di ciò di cui solitamente non abbiamo coscienza. Leibniz suffraga le sue tesi con diversi esempi: immaginiamo una persona che abita da molto tempo nei pressi di un corso d’acqua e una persona che ci abita da poco tempo: mentre la seconda sarà disturbata dal rumore dell’acqua corrente, la prima non se ne accorgerà neanche e non per via di un’improvvisa sordità, bensì per il fatto che ciò che nell’altra persona é appercezione in lei é solo percezione: a livello fisico la percepisce, ma rimane sotto la soglia della coscienza. Altra immagine di cui si avvale il pensatore tedesco é quella del mare: il suo rumore é causato dal rumore di ogni singola goccia che lo compone, però noi siamo coscienti del rumore delle onde, ossia del complesso, ma non di quello delle singole gocce d’acqua, che però ci deve comunque essere: altrimenti non vi sarebbero le onde. La concezione secondo la quale possiamo percepire cose senza averne coscienza (senza appercezione), consente a Leibniz di spiegare molte altre cose centrali nella sua filosofia: in primis se ne avvale per argomentare contro l’empirismo e a favore dell’innatismo . Leibniz, infatti, sulle orme di Platone, é convinto che la nostra mente non sia una tabula rasa (come credevano gli empiristi), bensì che essa, non appena nasciamo, porta già dentro di sè potenzialmente alcune informazioni. Ora, il ragionamento dell’empirista Locke era il seguente: un’ idea per definizione non può esistere se non pensata : esistono solo le idee nella misura in cui vengono pensate dalla mente umana . Ma con questa definizione di idea, diventa autocontradditorio parlare di innatismo ! Come si può infatti dire che da bambino ho nella mia testa certe idee che non conosco e alle quali non penso e poi, crescendo, le acquisisco portandole in atto con l’ esperienza? E’ contradditorio ammettere l’ esistenza di idee non pensate nella mia mente di bambino proprio perchè le idee esistono solo come oggetti della mente. Ora Leibniz con la distinzione tra percezioni e appercezioni ha già assestato un primo colpo al ragionamento dell’ampirista inglese: non di tutto ciò che percepiamo abbiamo coscienza e quindi possono esserci nella nostra mente idee che non sappiamo di avere. Certamente Leibniz é pienamente cosciente che sarebbe assurdo dire che si nasce con delle idee già in testa e pertanto risolve il tutto in un “innatismo virtuale”, facendo notare a Locke che ciò che intendono gli innatisti é diverso da quanto il filosofo inglese sostiene: non nasciamo con delle idee in testa, bensì con degli elementi di potenzialità e l’ esperienza serve proprio a far emergere, a chiarificare e a portare a coscienza le idee che potenzialmente erano già presenti nella mente fin dalla nascita e in tutti gli uomini: l’ idea di uguaglianza, spiega Leibniz, ce l’ abbiamo tutti insita nella nostra mente ma abbiamo bisogno di cose materiali che siano uguali per prendere coscienza di che cosa sia l’ uguaglianza, per portare cioè in atto quell’ idea che nella nostra testa era solo in potenza. Il pensatore tedesco riprende poi il motto di origine medioevale di cui si avvalevano gli empiristi: se essi dicevano che nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu , Leibniz corregge e dice che nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse: non c’é nulla nel nostro intelletto che non sia passato dall’esperienza, se non l’intelletto stesso. Apparentemente può sembrare una tautologia, ma, come Leibniz sempre sosteneva, dalle cose ovvie derivano cose che ovvie non sono: da pacifista e amante dell’armonia quale era, il pensatore tedesco vuole criticare (nei Nuovi saggi sull’intelletto umano) le tesi di Locke con garbo, facendogli notare come in realtà la pensino allo stesso modo. Certamente quel che riceviamo dall’esterno é il materiale della conoscenza, tuttavia l’intelletto, cui Locke stesso aveva attribuito grande importanza, non deriva dall’esterno, dall’esperienza sensoriale. Locke diceva che riceviamo idee semplici (blu, forma parallelepipedo, costituzione atomica…) tramite l’esperienza in modo passivo, e poi l’intelletto riorganizza attivamente il materiale per dar vita ad idee complesse (l’idea di libro). Ora, anche per Leibniz in fondo le cose vanno così, però egli é convinto che non sia corretto affermare che tutto deriva dalla sensazione: l’intelletto riceve il materiale della conoscenza e lo rielabora, ma l’intelletto é innato, non ci deriva dall’esperienza. Locke ha ragionato correttamente e ha solo sbagliato nel dichiararsi empirista: il suo ragionamento stesso é da innatista perchè riconosce l’esistenza di un qualcosa che non passa dall’esperienza (l’intelletto). Locke sarebbe un empirista, se non addirittura un sensista, se dicesse che tutta la conoscenza passa per i sensi, ma non lo dice: sarà poi Condillac nel periodo illuministico a sostenere questo. Ecco che allora nei Nuovi saggi sull’intelletto umano Leibniz, come aveva fatto Locke, sostiene che si nasca con un qualcosa (l’intelletto) che non si acquisisce con l’esperienza, ma é innato: d’altronde, se non vi fosse l’intelletto a riorganizzare le idee, nella nostra testa avremmo solo un’accozzaglia di impressioni sganciate tra loro e ricevute passivamente. Ma, per fortuna, siamo dotati dell’intelletto, che riorganizza le idee semplici percepite (colori, forme, suoni) in idee complesse (il libro, la casa…) : per usare un’espressione che verrà usata poi da Kant ma che esprime perfettamente la concezione leibniziana, pensare significa unificare . Come accennavamo, la soluzione gnoseologica di Leibniz consiste in un innatismo virtuale: egli non apporta modifiche di rilievo e in fondo la sua posizione é identica a quella assunta secoli addietro da Platone. Con innatismo non vuole dire che si nasce con delle idee presenti nella testa, altrimenti non si spiegherebbe l’acquisizione di conoscenze progressiva del bambino. Leibniz, proprio come Platone, sostiene che si possiedono sì delle idee a partire dalla nascita, ma solo a livello virtuale: Platone parlava di reminescenza, convinto che ognuno di noi nella vita passata abbia acquisito delle conoscenze ormai dimenticate e il conoscere in questa vita non é altro che ricordare le cose apprese nell’altra. Leibniz non parla di esistenza umana prenatale, ma tuttavia é convinto che si nasca con una potenzialità ideale nella mente, ossia con dei concetti innati virtualmente: perchè essi diventino coscienti occorre l’intervento dell’esperienza. Platone faceva l’esempio dell’idea di uguaglianza: vediamo due cose uguali perchè già conosciamo l’idea di uguaglianza ed é l’incontro di due cose uguali che ci fa ricordare l’idea di uguaglianza. E’ l’esperienza che fa emergere le idee innate: e Leibniz usa il concetto di percezione per spiegarlo. Le idee innate non sono altro che piccole percezioni di cui non abbiamo coscienza: nasciamo con l’idea di uguaglianza, però é evidente che quando siamo bambini appena nati non sappiamo cosa sia l’uguaglianza: perchè si renda conto di che cosa é l’uguaglianza la percezione deve varcare la soglia della coscienza, deve cioè diventare appercezione tramite l’esperienza. Leibniz si avvale dell’esempio della statua e del blocco di marmo: l’esperienza é esattamente come uno scultore che lavora il marmo: quando deve scolpire la statua, sceglie la pietra, il blocco in cui le forme da lui desiderate sono già implicite nelle venature del marmo stesso; lo scultore lavorando sul marmo fa emergere la statua a forma di uomo, tuttavia la forma del corpo é già presente nel blocco, ma non é pienamente manifesta: perchè passi ad un’esplicita manifestazione ci vuole lo scultore che tiri fuori definitivamente la forma. Così l’idea di uguaglianza, già insita nella nostra testa dalla nascita, per venir fuori ha bisogno dell’esperienza. Nel discorso di Leibniz vi é una novità interessante, che sembra anticipare il discorso che poi farà Kant: Kant si configurerà come risolutore del problema riguardante il rapporto innatismo-empirismo, rapporto che in fin dei conti finiva per diventare una guerra eterna e irrisolvibile proprio per le argomentazioni insmontabili che possono tutti e due usare: l’empirista dirà che le cose le acquisiamo dall’esperienza, l’innatista farà notare che l’attività conoscitiva parte da punti di partenza innati, e così via. L’idea di fondo che porterà Kant a trovare una soluzione é già in fondo implicita in Leibniz ed é la constatazione che nel processo conoscitivo agiscono due realtà diverse, la materia e la forma della conoscenza: e già Leibniz parlava di intelletto unificatore (innato) e materia conoscitiva (empirica): in fondo per Leibniz conoscere non é altro che ricevere materiale conoscitivo e ritrovarsi ad avere nella testa un insieme di dati organizzati in una certa maniera: se il materiale della conoscenza ce lo fornisce l’esperienza, lo strumento organizzativo di questo materiale (l’intelletto) é innato. E la spinosa questione verrà proprio risolta così da Kant, ossia rendendo conciliabili due cose che apparentemente non lo sono (innatismo ed empirismo) sottolineando come ciò che viene acquisito é diverso dal modo in cui viene acquisito. E, per tornare alla metafora dello scultore, la statua costruita era già tutta nella mente dello scultore o viene tutta dall’esterno? La risposta sta proprio nell’unione di innato ad empirico: la statua in parte stava già nella testa dello scultore (il modo in cui costruire) e in parte é derivata dall’esterno (il marmo con cui costruire). Ne consegue che la conoscenza é un processo di costruzione, ossia di raccolta materiale e rielaborazione del medesimo. Il merito di Kant é di aver chiarito una volta per tutte questo discorso, ma in fondo esso era già implicito in Leibniz, anzi lo era già in Platone. In realtà perfino un empirista Locke ci era arrivato e doveva riconoscere come nella teoria del suo avversario Leibniz vi fosse un pò di verità, così come Leibniz doveva riconoscere che nelle teorie empiristiche di Locke non tutto fosse sbagliato. Ecco allora che Leibniz fa notare che come concetti virtuali lui non intende concetti di contenuto, ma piuttosto concetti astratti, di tipo logico-matematico: é innato non il singolo contenuto di conoscenza (l’idea di uomo, di cavallo…), ma la struttura logica e formale, ad esempio il concetto di uguaglianza: esso acquisisce contenuto nel momento stesso in cui scorgo empiricamente due cose o più uguali. Questa idea, comunque, era già sullo sfondo anche nel periodo della maturità di Platone: nel Parmenide egli si diceva convinto che non potesse esistere l’idea di “uomo” o di “cavallo”, ma, al contrario, era convinto che esistessero le idee astratte come i numeri, l’uguaglianza, la giustizia… Sull’altro versante, quello dell’empirismo, Locke aveva fatto un discorso simile: conoscenza vuol dire riorganizzare le idee semplici con l’intelletto per dare vita ad idee complesse. Ed allora Leibniz gli fa notare che in fondo la pensano allo stesso modo: tutto deriva dall’esperienza tranne l’intelletto, che costituisce l’armamentario formale per acquisire la conoscenza. Emerge bene come empirismo e innatismo siano ambedue presenti nella conoscenza: l’intelletto é innato, ma il materiale su cui esso lavora no! Basta sintetizzare il tutto, come farà Kant, e il problema é risolto. Bisogna tuttavia fare una precisazione: conoscenza e monadi dominanti sono apparentemente in contrasto: infatti la monade dominante governa tutte le altre monadi materiali, noi abbiamo dei concetti (ad esempio l’uguaglianza) virtualmente presenti nell’anima (la monade dominante) e poi con l’esperienza portiamo a coscienza queste idee pervenendo alla conoscenza. Tuttavia così dicendo pare che si debba ammettere un rapporto tra monade ed esperienza, tra monade e monade: infatti la monade dominante ha delle strutture ed esse con l’aiuto e l’interazione dell’esperienza emergono. Ma le monadi non hanno finestre, la loro attività é tutta interna e non vi é contatto con l’esterno. L’apparente aporia viene superata se prestiamo attenzione alla solita divisione in livelli della realtà, tipica di Leibniz: c’é una monade dominante, poi ci sono monadi che ci danno l’esperienza e che ci portano alla conoscenza, ad idee chiare e distinte. Tuttavia non può esservi un rapporto causale tra monade dominante (anima) e monadi materiali (la realtà che ci circonda) proprio perchè ogni monade non ha finestre, é un’unica attività di coscienza. Tuttavia sappiamo che la conoscenza deve esserci. Ora, da un punto di vista più profondo, tra la monade dominante e quelle materiali del corpo, e tra le monadi dell’universo esterno e la mia mente che di esso ha percezioni, c’é corrispondenza ma non causalità: ecco allora che la monade dominante ha volontà di alzare il braccio, e le molteplici monadi materiali del braccio si alzano una ad una in modo tale che il braccio si alzi. Allo stesso modo, quando il libro é posto sul tavolo, corrispondentemente avviene una percezione nella mia mente, pur non essendovi causalità: non ho la percezione del libro a causa del fatto che il libro é posto sul tavolo! Il che ci porta ad una conclusione: l’innatismo virtuale vale fino ad un certo livello, ma se ci si spinge più in profondità perde il suo valore; si arriva ad un innatismo totale ed assoluto: se le monadi non hanno finestre, quel che avviene nella mente procede senza rapporti con l’esterno e quindi se percepisco il blu del libro non é per il fatto che il libro agisce sulla mia mente (le monadi non hanno finestre!), ma perchè nella mente si verifica qualcosa per cui ad un certo punto percepisco il blu: la causa non é l’azione del libro, é lo stato precedente nella mia mente. Queste considerazioni in primis portano Leibniz ad un innatismo assoluto, in secundis lo conducono ad avvicinarsi più del previsto all’Occasionalismo: infatti, se non può esservi rapporto causale tra monadi, come si giustifica la corrispondenza tra i fatti? Ossia, come mai quando il libro viene collocato sul tavolo, io lo percepisco? Tuttavia se il libro non é la causa del mio percepimento del suo blu, non é detto che non vi sia corrispondenza tra libro e percezione del blu: anzi, deve per forza essere così. Non é a causa del mio pensare di alzare il braccio che esso si alza: gli occasionalisti dicevano che é in occasione del mio pensare di alzare il braccio che Dio interviene e mi alza il braccio; Leibniz non arriva a tanto, e approda ad un occasionalismo generalizzato. Per spiegare le sue posizioni egli si serve del celebre esempio degli orologi: immaginiamo di avere due orologi che devono tra loro corrispondere proprio come devono corrispondere il fatto che penso di alzare il braccio ed esso si alza e il fatto che viene messo sul tavolo il libro e io lo percepisco: un orologio rappresenta il mio pensare di alzare il braccio, l’altro l’alzarsi del braccio: in altre parole, un orologio rappresenta la res extensa cartesiana (non libera, meccanica e materiale) , e l’altro la res cogitans (libera, spirituale e non materiale). Tuttavia , più in generale, i due orologi che devono tra loro corrispondere significa anche che ogni monade é una rappresentazione di tutte le altre, senza però che vi sia rapporto causale: senza interagire o toccarsi, esse si rappresentano a vicenda. In realtà Leibniz impiega questa strana metafora per far apparire meno bislacca la sua teoria e per far invece risultare ridicole quelle altrui, altrimenti più sensate. I due orologi (le monadi, che rappresentano sia la res extensa sia la res cogitans, visto che in ultima istanza tutto é riconducibile a monadi) vengono costruiti da Dio, il grande orologiaio, il quale vuole che segnino sempre la stessa ora, ossia che siano corrispondenti: Egli può fare tre cose diverse per adempiere il suo compito : 1 ) può stare sempre attaccato agli orologi per sincronizzarli di continuo, ossia per farli corrispondere: e questa é la tesi degli Occasionalisti, secondo i quali vi é un continuo intervento di Dio volto a far corrispondere res extensa a res cogitans e viceversa: decido di alzare il braccio e Dio, in occasione della mia decisione, mi alza il braccio. 2 )Dio può collegare i due orologi con una cinghia, in modo che le lancette di uno trainino quelle dell’altro: questa é la tesi di Cartesio, il quale voleva far corrispondere la res cogitans alla res extensa: decido di alzarmi con l’anima che é libera, e il corpo si muove secondo le regole del meccanicismo. E’ una cosa che ne produce un’altra. 3 ) Infine Dio può fare un’altra cosa, la più degna di un buon orologiaio come lui: costruire i due orologi in maniera perfetta, in modo che, dato l’impulso iniziale, vadano avanti sincronizzati all’infinito, senza dover ricorrere all’intervento di qualcosa o di qualcuno. Questa terza é la posizione di Leibniz, apparentemente molto strana, ma facilmente comprensibile con la metafora degli orologi: la tesi leibniziana é quella dell’ armonia prestabilita. Il pensatore tedesco ha già abbattuto il problema dell’eterogeneità delle due res, riconducendo tutto a res cogitans: la materia stessa é una forma meno raffinata di spiritualità. Ora per far sì che le monadi siano tra loro corrispondenti, senza ricorrere al rapporto di causalità, basta ammettere che siano state tutte preordinate in modo tale che si corrispondano perfettamente: Dio le ha create tutte in modo tale che, create come sostanze individuali, procedano per conto loro, senza finestre, corrispondendosi perfettamente. Ecco allora che penso di alzare il braccio con la monade dominante, ed esso si alza perchè le monadi son fatte in modo tale che al pensare quella cosa succeda quell’altra cosa. Allo stesso modo vedo una cosa e la conosco: il libro viene appoggiato sul tavolo e in corrispondenza a quel gesto vi é la mia percezione del colore blu presente nel libro. Certo, é una concezione alquanto bislacca, che comunque con l’immagine degli orologi risulta assai chiara e comprensibile, molto più persuasiva delle altre. Ora però emerge un nuovo livello di realtà: fino ad ora vi erano il mondo superficiale, che abitualmente chiamiamo “materiale”, ma che é fatto di res cogitans come tutto il resto: qui impera il meccanicismo e la non libertà, e quello più profondo, più spirituale, quello delle monadi come centri di forza che dal loro interno generano tutti i successivi stati di forza. Però adesso, continuando a scavare in profondità, viene fuori un altro livello: sotto il primo strato di necessità meccanica e sotto il secondo di libertà spirituale, ve ne é un altro in cui le monadi, a differenza della definizione data in precedenza, hanno una finestra aperta verso Dio: infatti, con l’immagine degli orologi abbiamo dimostrato la corrispondenza tra le monadi, ma essa funziona proprio perchè tutte quante sono in rapporto causale con Dio: é lui che le ha causate, in modo tale che vi sia corrispondenza reciproca. Questo nuovo strato, però, sembra caratterizzato, come il primo, dalla necessità: Dio ha fatto le monadi così proprio perchè abbiano corrispondenza, ossia ha prestabilito con una decisione di dare loro tale corrispondenza. Tuttavia Leibniz ci tiene a precisare che in questo livello, sul piano metafisico, la libertà non viene messa in discussione: da estimatore della Scolastica, egli riprende le parole di un grande pensatore medioevale, Duns Scoto: Se Dio non fosse libero, nulla al mondo lo sarebbe. Per Leibniz una cosa é libera se é contingente, ossia se c’é ma potrebbe anche non esserci. Per Duns Scoto la contingenza e la libertà procedono a cascata da Dio, ammesso che egli sia libero: se Egli é libero, tutto ciò che da Lui deriva non può che essere libero, ossia può esserci ma potrebbe anche non esserci, proprio perchè Dio é stato libero di farlo. Il che significa che il problema ultimo della libertà é vedere se Dio é libero oppure no: se Egli é libero lo é anche tutto il resto, quindi occorre indagare se Egli é libero, tralasciando tutto il resto. E’ quindi opportuno tralasciare gli altri livelli per esaminarne un quarto, quello di Dio. Vanno però effettuate alcune puntualizzazioni: cosa significa dire che una cosa é possibile? Per Leibniz la possibilità é la non contradditorietà logica: egli adduce l’esempio del peccato originale di Adamo: sarebbe stato possibile sia un mondo in cui Adamo peccasse, sia un mondo in cui Adamo non peccasse: non vi é alcuna contradditorietà logica. Sarebbe stato invece impossibile un mondo in cui Adamo peccasse e non peccasse. Per fare un esempio più ovvio: é impossibile che 2 + 2 = 5 , vi é un’enorme contraddizione logica alle leggi del pensiero. Tuttavia non é impossibile che un asino voli, proprio perchè non é una contraddizione logica, sebbene sia una cosa che si discosti molto dall’esperienza comune. In altri termini, si può pensare ad un asino volante, ma non che 2 + 2 = 5 : non potrà mai essere concepita come identità logica. Ciò che é impossibile é contradditorio e non é pensabile; ciò che invece é possibile é non contradditorio e quindi pensabile. Partendo da queste riflessione di origine medioevale, Leibniz ritiene che la mente di Dio sia la regione dei possibili, il luogo dove stanno i possibili. Se possibile é pensabile, allora le cose sono possibili nella misura in cui stanno e sono pensate da Dio. La differenza che intercorre tra noi e Dio, é che mentre noi la possibilità la riconosciamo pensandola, Dio pensandola la fonda. Ma dire che in Dio sono presenti tutti i possibili, non comporta che tutti i possibili siano reali: se é la sua mente a stabilire ciò che é possibile pensandolo, poi é la sua volontà a scegliere tra le possibili alcune cose cui dare esistenza. Ecco allora che nella mente di Dio stavano tutti e due gli Adami, quello che ha peccato e quello che non ha peccato e Lui ha dato esistenza a quello che ha peccato. A questo punto Leibniz arriva a dire che esistono infiniti mondi possibili, e che Dio ne ha realizzato solo uno: un mondo non é altro che un insieme di compossibili, ossia di cose possibili che non si escludono a vicenda: abbiamo una legge di gravità posta da Dio, ma Egli avrebbe potuto porne un’altra diversa, che tuttavia non era compossibile con la nostra: o l’una o l’altra. Ecco allora che il mondo é un insieme di cose possibili insieme; e Dio tra gli infiniti mondi possibili ha deciso di crearne uno soltanto, il migliore tra quelli possibili. Noi dunque viviamo nel migliore dei mondi possibili ; Leibniz non dice che sia un mondo perfetto, ma semplicemente che é il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare. D’altra parte il mondo non può essere perfetto perchè se lo fosse sarebbe Dio stesso, l’ente perfetto. Egli é perfetto e nella sua mente ha infiniti mondi possibili: decide nella sua infinita bontà di crearne uno (attribuire dell’essere é sempre positivo, per definizione). Sceglie di creare e crea tra tutti il migliore dei mondi che avrebbe potuto creare. Se l’avesse creato perfetto, avrebbe creato se stesso, ma non deve creare Dio, bensì il mondo, che é diverso da Dio: ma ciò che é diverso da Dio deve per forza essere imperfetto, perchè solo Dio é perfetto. Ma che il mondo sia imperfetto é intrinseco alla bontà di Dio: le stesse imperfezioni e lo stesso male di questo mondo sono espressioni della bontà divina. Già Platone, nella sua disperata ricerca dell’unità, diceva che il bene e il meglio consistono nel massimo di unità conciliabile con il massimo di ricchezza e di varietà. L’unità é unità della molteplicità, é una e ricca allo stesso tempo: anche Leibniz la pensa così, con spirito unificatore. D’altronde in quegli anni Newton dimostrava che la legge di gravità é unica in tutto il mondo, dando così qualche spunto a Leibniz per rintracciare una identità e un’unità occulte. Ma resta ora da chiarire se Dio sia libero o no, per vedere se tutto ciò che da lui deriva , a cascata, é libero oppure no. Apparentemente sembrerebbe proprio che Dio non sia libero perchè é vincolato dalla sua stessa bontà a creare il mondo, a scegliere il migliore tra quelli possibili, quasi come se la Sua bontà comportasse la perdita di libertà. Ma ecco che Leibniz distingue tra due tipi di necessità: vi é una necessità metafisica (la penna lasciata cade e non può fare diversamente: é impossibile il contrario) e una morale (gli studenti devono studiare). Ora, Dio ha l’obbligo morale di fare sempre il meglio, ma questa necessità morale non implica una necessità metafisica: resta nel campo dei possibili che egli non creasse il mondo o che lo creasse diverso da questo e quindi non il migliore. Dio dunque sul piano metafisico é totalmente libero, dotato di una libertà di gran lunga superiore rispetto a quella dell’uomo: é libero di scegliere e fa per forza sempre il bene. Ed ecco allora che a cascata la libertà di Dio investe l’intera realtà, che da Lui é stata generata. Ricapitoliamo brevemente i 4 livelli della realtà individuati da Leibniz, servendoci della tabella qua sotto:
1
Livello della MATERIA (monadi passive): meccanicismo, non libertà, leggi fisiche.La res extensa di Cartesio:però si tratta di monadi.
2
Livello delle MONADI come atomi spirituali,centri di forza senza finestre:attività solo interna.Nessun contatto con l’esterno.
3
Livello delle MONADI CON UNA FINESTRA aperta a Dio:esse sono tra loro coordinate da Dio che le ha create. .
4
Livello di DIO (grande monade):regione dei possibili,egli decide cosa realizzare:il migliore dei mondi possibili.E’ libero.
Resta ora da esaminare la concezione che Leibniz ha del tempo e dello spazio, una concezione totalmente opposta rispetto a quella cui in quegli stessi anni perviene il collega Newton. Lo spazio e il tempo per Leibniz sono l’ordine di coesistenza e l’ordine di successione delle monadi: concettualmente, prima ci sono le cose e il tempo e lo spazio nascono come relazione tra le medesime. Per Newton invece prima ci sono lo spazio e il tempo e poi, in un secondo tempo, le altre cose: e d’altronde é impossibile immaginare dei corpi senza ricorrere allo spazio, fa notare Newton. Lo spazio per il pensatore inglese finisce per essere una sorta di contenitore in cui stanno tutte le cose e i soggetti che le percepiscono, un contenitore che nasce prima e che continuerebbe ad esistere anche se non vi fossero più le cose e i soggetti che lo occupano. Per Leibniz invece prima dello spazio e del tempo ci sono le cose, che lui chiama monadi, e spazio e tempo sono semplicemente delle relazioni che si instaurano tra le medesime: sono le monadi materiali che stabiliscono relazioni reciproche dando vita allo spazio; allo stesso modo il tempo é il succedersi degli stati delle monadi. Nei secoli successivi prevarrà la concezione newtoniana, anche se la fisica moderna sembra aver rivalutato la prospettiva leibniziana: la teoria della relatività suggerisce che lo spazio non é indifferente alla presenza delle cose in esso, come invece sosteneva Newton.
LA MUSICA
Il ruolo che la musica gioca nella filosofia di Leibniz non è facilmente riassumibile o schematizzabile. Se da una parte è noto l’interesse del filosofo nei confronti di problemi molto specifici riguardanti la teoria musicale, l’acustica e le pratiche esecutive, la musica rientra d’altro canto nel suo sistema logico e metafisico come una sorta di termine di paragone privilegiato, di analogon del rapporto tra logico e sensibile. 1) Per quanto riguarda il primo aspetto, è di fondamentale importanza la corrispondenza di Leibniz con il matematico e musicologo Conrad Henfling sul problema del temperamento, e quella con Christian Goldbach, che verte invece sul problema del rapporto tra struttura matematica e fruizione estetica dell’oggetto musicale. In entrambe, ad una analisi algebrica delle strutture intervallari si accompagna la consapevolezza che tali strutture non rappresentano in sé la bellezza e la perfezione dell’oggetto musicale, e che questo esiste innanzitutto come oggetto uditivo, passibile di una fruizione estetica. Nella lettera a Goldbach del 17 aprile 1712 è contenuta la celebre definizione della musica come aritmetica incosciente: “musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi” (la musica è una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non si rende conto di calcolare). La definizione apre la strada ad una serie di nodi teorici fondamentali nel sistema leibniziano: in primo luogo, il legame tra musica e matematica non è visto, come nella tradizione pitagorico-cabalistica, in senso mistico o esoterico. La struttura numerica sottostante la musica è innanzitutto il suo principio costruttivo, il quale tuttavia non viene analizzato nella pratica dell’ascolto, ma solo intuito come molteplicità organizzata. In una tavola allegata alla corrispondenza con Henfling, risalente al 1709, troviamo una significativa definizione del bello musicale come “osservabilità del molteplice”, atto di sintesi che coglie una molteplicità strutturata aritmeticamente senza la necessità di analizzarne le singole componenti e le loro relazioni. L’analisi – compito del teorico della musica – non serve a disvelare verità rimaste occulte all’ascoltatore, ma a portare alla luce le ragioni che sottostanno al fatto uditivo. Nella definizione della musica come calcolo inconsapevole è inoltre contenuto un richiamo alla teoria delle piccole percezioni, che, non essendo esse stesse oggetto di esperienza cosciente, garantiscono la continuità dell’esperienza fornendole una struttura relazionale. L’analisi del teorico, che porta alla luce le regole del comporre, ha dunque una innegabile importanza per Leibniz, ma non nega la spontaneità della creazione artistica. Questa anzi, – fa notare il filosofo in un frammento preparatorio ai Preceptes pour avancer les sciences, del 1680 – è determinata da un’applicazione più o meno inconscia dei principi regolatori dell’arte musicale, da parte di un soggetto che si trova in una sorta di corrispondenza immediata con le regole dell’armonia: l’autentica opera d’arte è determinata dalla convergenza tra l’attività analitica della ragione e quella sintetica dell’immaginazione. 2) Gli studi filosofici e scientifici non devono riguardare, per Leibniz, solo i loro oggetti propri, ma mirare a universalità di ordine superiore. Fine della ricerca è, in ultima analisi, la comprensione di quel principio armonico che governa il mondo. Ecco quindi che la musica assume il ruolo di illustrazione privilegiata della struttura armonica dell’universo. Il bello musicale viene in ultima analisi a coincidere con la comprensione intuitiva dell’ordine sotteso alla composizione, e tale definizione si applica nella filosofia leibniziana al concetto generale di bellezza. Ciò che determina il piacere sensibile è “sentire harmoniam” (Confessio philosophi, 1672), e quest’ultima non è altro che il principio unificatore della varietà. L’armonia sarà peraltro tanto maggiore, quanto maggiore sarà la varietà delle componenti che essa struttura. Su questa base, dunque, come in una composizione tonale la presenza di dissonanze ha un fondamentale ruolo dinamizzatore, in quanto crea tensione verso la risoluzione consonante e con questa la possibilità di uno sviluppo armonico, così ogni contrasto interno all’armonia del mondo viene ricondotto da Leibniz ad una apparenza, originatasi da una concezione della realtà non abbastanza comprensiva. La varietà è condizione fondamentale dell’armonia, tanto sul piano estetico che su quello metafisico, e gli elementi apparentemente dissonanti contribuiscono al suo arricchimento. L’ars inveniendi che guida il compositore è analoga all’attività combinatoria che Dio esercita su una varietà infinita di elementi, obbligandoli “ad accordarsi tra di loro” (Discorso di metafisica). 3) Sia l’ars inveniendi sia l’arte combinatoria divina esprimono una analoga razionalità universale. La sua chiave viene rappresentata dalle leggi dell’ars combinatoria. Ed è proprio nei tentativi del giovane Leibniz di elaborare una lingua artificiale che la musica inizia ad assumere quel ruolo privilegiato che caratterizzerà il suo intero sistema filosofico. Importante, in questo senso, è la corrispondenza che il ventiquattrenne filosofo di Hannover intrattenne, nel 1670, con l’allora celebre teorico gesuita Athanasius Kircher, autore di una vasta opera di teoria musicale dal titolo Musurgia Universalis. Leibniz inviò a Kircher la sua opera giovanile De arte combinatoria, per ottenerne un giudizio che in realtà il religioso – per mancanza di tempo – non formulò che in modo vago. Più che il giudizio di Kircher su Leibniz, è interessante il fatto che il giovane filosofo conoscesse le opere del gesuita, ed in particolare apprezzasse il suo tentativo di elaborare un sistema combinatorio finalizzato alla composizione di contrappunti a più voci anche da parte di chi fosse totalmente sprovvisto di cognizioni specifiche di tecnica musicale (tale sistema, cui Kircher dà il nome di Arca musarithmica, è esposto nell’ottavo libro della Musurgia e rappresenta un interessante tentativo di applicazione di un sistema algoritmico alla composizione musicale). Il fondamentale punto in comune tra i due studiosi è costituito dalla nozione di simbolicità del linguaggio musicale, che rappresenta l’ordine dell’universo, e – conseguentemente – dalla concezione del bello musicale come percezione della struttura numerica costituente l’armonia. Strutturata aritmeticamente e dotata di una valenza simbolica che le deriva anche dalla sua natura espressiva (espressione, afferma Leibniz nello scritto Quid sit idea, del 1678, è “ciò in cui sussistono le strutture che corrispondono alle strutture analoghe della cosa da esprimere”), la musica ha dunque le caratteristiche che la rendono adatta a divenire strumento di costruzione della lingua universale, ovvero di un sistema logico relazionale, e non gerarchico, la cui base è costituita da pochi elementi da cui dedurne infiniti altri “come supplementi” sulla base di un metodo combinatorio. L’immagine principale di cui Leibniz si serve per illustrare tale sistema relazionale è quella dell’organo, che richiede per la propria costruzione calcoli matematici e dà origine a combinazioni contrappuntistiche molto complesse, realizzando una sorta di combinatoria dei timbri e delle qualità sonore. Dall’immagine dell’organo si passa sempre nel De Arte combinatoria, a tentativi di elaborazione della Characteristica universalis attraverso le note musicali. Nella sua opera giovanile, Leibniz adotta un modello aritmetico che si serve dei numeri primi a simbolizzare le nozioni semplici e della moltiplicazione per la formazione delle idee complesse. In seguito alla rilevazione di una non universale corrispondenza tra simboli e significati, pensò di integrare tale sistema esprimendo i numeri per mezzo degli intervalli musicali, integrando in tal modo il problema aritmetico con la valenza espressiva delle combinazioni degli intervalli In altri scritti di argomento logico, il linguaggio musicale viene strutturato al partire dal sistema binario (sistema che fa uso di due sole cifre: l’1 e lo 0): rappresentando l’1 con il tono e lo 0 con il semitono, si può esprimere il posto delle cifre con il posto di questi due elementi nella scala musicale. I tentativi di fare della musica una lingua universale vennero messi da parte, e la volontà di Leibniz di costituire un catalogo di nozioni primitive correlate ad una organizzazione sintattica in grado di far derivare da esse l’intero sapere venne meno con la crescente esigenza di specializzazione delle scienze. La musica, tuttavia, rimane la pietra di paragone del suo sistema logico e metafisico, la sola arte in grado di esprimere compiutamente la fitta tessitura che tiene insieme, nel sistema leibniziano, il piano della elaborazione razionale e quello della percezione sensibile, e il fatto che a quest’ultima è riservato, in ultima analisi, il coglimento della verità, come l’orecchio dell’ascoltatore attento coglie, in un brano musicale, la presenza di un ordine immanente.
LUDWIG WITTGENSTEIN
Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciň che puň dirsi: dunque, proposizioni della scienza naturale- dunque qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare-, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro- egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia-, eppure esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto. Le mie proposizioni illustrano cosě: colui che mi comprende infine le riconosce insensate, se č salito per esse- su esse- oltre esse; (Egli deve, per cosě dire, gettar via la scala dopo che v’č salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciň di cui non si puň parlare, si deve tacere. (Tractatus, 6.53-7)
VITA E OPERE
Nato a Vienna da una famiglia alto borghese di religione ebraica, Ludwig Wittgenstein (1889-1951) si trovò immerso sin dall’infanzia in un clima intellettuale molto vivace ed inquieto. Nel primo quindicennio del Novecento Vienna era uno degli epicentri della cultura europea d’avanguardia: Freud vi aveva aperto il proprio gabinetto medico, e di lì andava organizzando il movimento psicoanalitico. In ambito filosofico-scientifico, Mach vi aveva appena pubblicato Conoscenza ed errore (1905) e stava ulteriormente approfondendo la critica al positivismo e le sue originali tesi empiriocriticiste, che tanta influenza avranno di lì a poco sui fondatori della scuola neopositivistica (anch’essa di origine viennese). E uno dei tratti caratterizzanti della cultura viennese di questo periodo è il profondo interessamento per la problematica del linguaggio, centrale nell’arte non meno che nella filosofia e nella scienza: un interesse testimoniato dalla riflessione di tanti viennesi sulla crisi di certe forme espressive, dalla correlativa ricerca di nuove forme (la dodecafonia in ambito musicale) e, in sede più speculativa, da un rinnovato studio del linguaggio sia in sé e per sé, sia nel suo rapporto col sapere e col mondo. E il principale tema di indagine di Wittgenstein fu appunto il linguaggio. A partire dal 1908 egli trascorse lunghi periodi di studio in Gran Bretagna, dapprima come studente di ingegneria all’università di Manchester e poi, dietro consiglio di Frege, come studente di logica e filosofia a Cambridge, sotto la guida di Russell (che all’epoca stava ultimando i Principia mathematica ), al quale si legò profondamente. E non a caso proprio in questo ambiente Wittgenstein elabora il primo nucleo di quello che sarà il suo capolavoro: il Tractatus logico-philosophicus , l’unica opera che egli volle dare alle stampe (fu pubblicato prima in una rivista austriaca nel 1921 e poi, nel 1922, a Londra, con una lunga introduzione di Russell). Nonostante lo stile arduo e inconsueto, il Tractatus fu accolto con vivissimo interesse sia in Inghilterra (il titolo dell’opera era stato suggerito da Moore), sia in Austria, dove presto diverrà un testo di riferimento fondamentale per i membri del Circolo di Vienna. Ma Wittgenstei non partecipò quasi mai ai dibattiti divampati dalla sua opera, né tanto meno entrò nel gruppo dei “circolisti” viennesi (dai quali si sentiva assai distante). Per vari anni sembrò anzi volersi allontanare dalla filosofia stessa, insegnando come modesto maestro elementare in alcuni paesi austriaci. Solo alla fine degli anni ’20 si arrese alle insistenze pressanti degli amici uscendo dal suo volontario isolamento. Nel 1929 tornò a Cambridge, dove stette per il resto della sua vita, circondato da una nutrita schiera di fedeli discepoli. Pur non pubblicando nulla, Wittgenstein riprese intensamente la propria riflessione e ricerca filosofica. Il punto di partenza fu nuovamente la problematica del linguaggio e del suo rapporto col mondo: ma fin dall’inizio egli non tacque la sua insoddisfazione nei confronti di molte delle tesi esposte nel Tractatus . I numerosi appunti che lasciò manoscritti ( Osservazioni filosofiche , 1929-30; Grammatica filosofica , 1932-34; Libro blu , 1933-34; Libro marrone , 1934-35), e che vennero pubblicati postumi, attestano il rilievo della sua evoluzione teorica in questo periodo. Altro e più consistente materiale inedito, in parte risalente ad un’epoca posteriore, prova che Wittgenstein andava realmente disegnando le linee di una nuova filosofia (e così si è potuto parlare di un “secondo Wittgenstein”): una filosofia che, esposta nei celebri seminari wittgensteiniani in un modo che è stato definito “socratico”, ebbe una grande risonanza non solo entro la cerchia dei diretti discepoli ma anche in un’area non piccola del pensiero inglese del tempo. Una parte del materiale appena citato venne dato alle stampe nel 1953 sotto il titolo di Ricerche filosofiche . Nonostante lo stato relativamente incompiuto, questa nuova opera fu salutata come il secondo grande libro di Wittgenstein; essa ha esercitato una grande influenza sul pensiero novecentesco: un’influenza forse anche maggiore di quella del Tractatus . Altri testi rilevanti ricavati dagli scritti inediti del filosofo sono le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1937-44), le Osservazioni sui fondamenti della psicologia (seconda metà degli anni ’40), Zettel (1945-48), Della certezza (1950-51) e le Osservazioni sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer (composte nel 1931, ma con alcune aggiunte molto posteriori). Ulteriori pagine diaristiche e autobiografiche e altre di interesse etico, religioso ed estetico sono state pubblicate in tempi e luoghi diversi (molto importanti sono anche le epistole).
IL TRACTATUS : INTERPRETAZIONI E PRINCIPI
Il Tractatus logico-philosophicus è una delle opere più complesse e importanti del pensiero novecentesco, e anche una delle più enigmatiche e controverse: assunta in un primo tempo come uno dei principali testi ispiratori del movimento neopositivistico (e di quanti coltivavano, in generale, un ideale di “filosofia scientifica”), in anni successivi è stata letta in modi molto diversi, ora come un testo sostanzialmente kantiano (poiché volto alla ricerca delle condizioni di possibilità e di dicibilità delle cose), ora come una riflessione anti-razionalistica e a suo modo perfino mistica (poiché si sottolineano soprattutto i limiti del dicibile e il rilievo di ciò che sta oltre tali limiti, rilievo che non è razional-scientifico, ma etico). Lo stesso Wittgenstein non ha mai fatto granchè per facilitare la comprensione del suo testo: da un lato egli sembra incoraggiarne una lettura in chiave spiccatamente logico-epistemologico-scientifica; anzi, il modello di sapere valorizzato da certe sue dichiarazioni appare di tipo molto forte, oggettivo, assolutizzante (come quando, nella prefazione del Tractatus , asserisce che ” la verità dei pensieri qui comunicati ” è ” intoccabile e definitiva ” e che ritiene ” d’aver definitivamente risolto i problemi affrontati “). Da un altro lato stanno invece considerazioni di natura molto diversa, che enfatizzano la ristrettezza dell’ambito di praticabilità del pensare/parlare rigoroso e il peso di quanto si dà fuori di tale ambito. Ma questo non basta: in una famosa lettera a Ludwig von Ficker, Wittgenstein volle una volta sottolineare la natura fondamentalmente morale del Tractatus : scriveva che ” il senso del libro è un senso etico “. E più avanti aggiungeva: ” il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante “. La dichiarazione è indubbiamente sconcertante: ma l’apparente paradosso che contiene si scioglie se la si interpreta come un riferimento a tutto quel mondo di vita e di esperienza di cui il Tractatus non aveva parlato perché situato fuori da ben precise coordinate logico-linguistiche (e che invece era quello davvero “importante”). Al di là delle auto-interpretazioni di Wittgenstein, riconosciuta l’esistenza di svariati significati (e per di più non univoci) della sua opera, resta certo un fatto: il Tractatus si inserisce a pieno titolo in quell’intensa stagione di riflessioni e ricerche primo-novecentesche nella quale filosofi di diversa provenienza teorica si posero il problema di una rifondazione della conoscenza e del sapere. In quest’ottica, il lavoro wittgensteiniano, se certo preannuncia e prepara le grandi investigazioni neopositivistiche, è anche meno lontano di quanto si possa comunemente immaginare dai testi del primo Husserl: di quell’Husserl che a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento si era cimentato nella ricerca dei fondamenti dell’aritmetica, nella riflessione su una logica “pura” e nella costituzione della filosofia come “scienza rigorosa”. Gli antecedenti più prossimi di Wittgenstein sono però altri: Frege, Mach e, in misura ancora maggiore, Russell. Anche indipendentemente dai temi particolari che legarono il giovane pensatore austriaco al più maturo filosofo inglese, ciò che è bene sottolineare è la sostanziale sintonia tra molti loro presupposti e ambizioni generali. A tal proposito, le caratteristiche e i propositi che accomunano i due filosofi (pur tenendo presenti le differenze, in primis l’attenzione wittgensteniana per quanto sta oltre le strutture logico-linguistiche del sapere rigoroso) sono i seguenti:
1) il progetto di rifondare il sapere, con l’ambizione di indicarne le strutture universali e oggettive;
2) la credenza nella validità esemplare e paradigmatica della scienza (per l’esattezza, della scienza formale) per ogni conoscenza che ambisca ad essere veritiera e rigorosa;
3) il correlativo atteggiamento ambivalente nei confronti della filosofia: per un verso praticata come indispensabile strumento della riflessione critico-rifondatrice del sapere, per un altro considerata una disciplina impura, non rigorosa, richiedente una specie di inveramento scientifico;
4) il convincimento che si danno “fondamenti” del sapere, o almeno dei princìpi meta-empirici generali, che è necessario cogliere al di là della molteplicità delle esperienze cognitive;
5) l’ulteriore convincimento che tale traguardo sia raggiungibile solo attraverso l’impiego di una complessa indagine logica;
6) l’assunto che il sapere si configura essenzialmente come un sistema di enunciati linguistici;
7) il principio che un’analisi del “sapere come linguaggio” è, insieme, un’analisi della realtà dal punto di vista gnoseologico, poiché quest’ultima si dà solo in quanto “detta” da uno strumento espressivo adeguato;
8) la correlativa tesi tra linguaggio e mondo vige una relazione di corrispondenza o isomorfismo;
9)l’ulteriore tesi che sia il linguaggio sia il mondo sono degli aggregati composti riducibili a determinazioni semplici e che su tali determinazioni è possibile (almeno idealmente) riconoscere un sapere rigoroso.
LINGUAGGIO E MONDO NEL TRACTATUS
Nella prefazione del Tractatus , Wittgenstein chiarisce qual è l’intento del libro: ” il libro tratta i problemi filosofici e mostra, credo, che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere…la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono dunque dell’avviso d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi “. Sulle orme dello stile adottato da Spinoza nell’ Etica , il Tractatus si presenta non come un’opera in qualche modo discorsiva, ma come un insieme di enunciati numerati (a volte abbastanza ampi e argomentati, a volte molto brevi e talvolta addirittura brevissimi) e legati tra loro da determinate connessioni logiche (corollari, deduzioni, inferenze, ecc). Più precisamente, esso muove da una matrice generativa costituita da 7 proposizioni centrali, dalle quali dipende tutta una serie di ulteriori proposizioni riguardanti questioni di logica, ontologia e filosofia del linguaggio e della matematica: 1) Il mondo è tutto ciò che accade; 2) Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose; 3)L’immagine logica dei fatti è il pensiero; 4) Il pensiero è la proposizione munita di senso; 5) La proposizione è una funzione di verità elle proposizioni elementari; 6) La forma generale della funzione di verità è: [px N(x ) ]; 7) Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Su un piano generale, il Tractatus contiene una concezione della realtà dal punto di vista conoscitivo strettamente intrecciata (fino a identificarvisi) con una concezione del linguaggio. Si deve idealmente partire da una cosa: il darsi del mondo. E il mondo è tutto ciò che accade e questo mondo, ovvero questa serie di accadimenti, è costituito interamente da fatti: ogni fatto (complesso) si compone di una pluralità di fatti elementari, detti da Wittgenstein ” stati di cose “, i quali a loro volta sono connessioni di ” oggetti semplici “. Questi ultimi rappresentano la ” sostanza del mondo ” e si possono aggregare in svariate composizioni o ” configurazioni “. Se è vero che l’esperienza gnoseologica si riferisce essenzialmente a tali configurazioni complesse, è anche vero che la sostanza del mondo è quella che si è detto: anzi, Wittgenstein sottolinea significativamente che “ l’oggetto [semplice] è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l’incostante ” (2.0271). A questa concezione del mondo corrisponde (in un senso molto organico) una concezione del linguaggio. La prima teoria radicale enunciata in merito da Wittgenstein riguarda il rapporto linguaggio-pensiero: si potrebbe infatti ritenere che dinanzi al mondo stia prima di tutto il pensiero. Ma non è così: nei riguardi del pensiero, Wittgenstein assume un atteggiamento anti-materialistica, anti-interioristica e anti-soggettivistica che non abbandonerà, grosso modo, mai. Anzi, nel Tractatus tale posizione è espressa in un modo particolarmente radicale, che in un secondo tempo verrà modificato. In primis, Wittgenstein dichiara che il pensiero è essenzialmente ” l’immagine logica dei fatti ” (proposizione 3): dove è da notare il privilegiamento ideale del fatto e la relativa subordinazione ad esso del pensiero, sia la natura logica che il pensiero degno del nome deve avere. In secundis, si afferma che il pensiero si dà tutto e soltanto nella sua espressione linguistica; più precisamente, il pensiero è linguaggio organizzato secondo una determinata forma; esso è, come recita l’enunciato 4, ” la proposizione munita di senso “. Dinanzi al mondo, quindi, sta il linguaggio . Occorre domandarsi come vada interpretata questa seconda polarità o dimensione: enunciando una tesi che Russell farà integralmente sua, Wittgenstein asserisce che il linguaggio è costituito da ” proposizioni molecolari ” complesse, riducibili a ” proposizioni atomiche ” elementari, non ulteriormente scomponibili. Queste ultime proposizioni sono gli enunciati linguistici più semplici, dei quali si può predicare il vero e il falso. In linea di massima, le proposizioni atomiche sono combinazioni di nomi corrispondenti agli oggetti: ” il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato ” (3.203).
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SIGMUND FREUD
Se l’uomo distoglierà dall’aldilà le sue speranze e concentrerà sulla vita terrena tutte le forze rese così disponibili, riuscirà probabilmente a rendere la vita sopportabile per tutti e la civiltà non più oppressiva per alcuni.
BREVE INTRODUZIONE
Sigmund Freud, filosofo tedesco, oggi è noto essenzialmente per la psicanalisi. Ebreo, fu perseguitato dai nazisti, che bruciarono i suoi testi insieme a quelli di Albert Einstein . Morì nel 1939. Freud più che filosofo lo possiamo definire un medico psicanalista, che ha studiato i meccanismi della mente umana, dando una interpretazione scientifica del sesso e scoprendo e teorizzando “l’inconscio” (in passato intuito da Gorgia ed analizzato in parte da Galeno). L’inconscio è la parte irrazionale della psiche; per i cattolici e gli illuministi non esiste, perché per i primi esistono solo gli istinti e per i secondi esiste solo la ragione.
La psiche umana è divisa in tre parti : l’Esse, che è scaturita dall’ambiente sociale in cui si nasce o da una eredità genetica, l’Io, che è regolato dal rapporto che si ha con la realtà, il Super Io, la parte più nobile della nostra psiche che si plasma in base alla coscienza, ai modelli e agli ideali di una persona.
Freud lo possiamo definire sia positivista che antipositivista. E’ ottimista in quanto crede che l’uomo sia capace di sublimare gli istinti, quindi positivista, ma scopre l’inconscio o Esse, e quindi è antipositivista perché non ammette la sola ragione nei meccanismi psichici. Freud per arrivare a scoprire la psicanalisi lavorò tanti anni su dei malati, e dedusse che la differenze fra il malato ed il sano è un fatto di quantità di istinti, il sano riesce a mantenere l’equilibrio fra esse, io, e Super-io. La psicanalisi è essenzialmente un metodo di cura contro le nevrosi, il malato fa un compromesso con il medico, per poter essere guarito, questo deve assolutamente lasciarsi andare per sciogliere le resistenze dell’ Io e far emergere l’inconscio, questi sono in perenne lotta, solo con l’emergere dell’inconscio il malato può guarire. Il momento in cui il malato molla le forze mentali viene chiamato “transfert” , poi si ha la “rimozione” in cui l’Io del malato crolla e vengono esternati gli istinti nella “abreazione”. A questo punto la questione diviene molto delicata, lo psicanalista per poter procedere deve essere molto competente, non deve permettere che avvenga l’incrocio di sguardi con il paziente, questo potrebbe provocare lo stop dei processi di abreazione. In genere i malati più intelligenti guariscono prima, perché avviene prima in loro il fenomeno della “associazione libera”, ossia il malato si rende conto della sua malattia ed è più facile guarire. La psicanalisi rimane ancora oggi una pratica molto costosa che in poche si possono permettere. L’isteria, la nevrosi e in alcuni casi le paralisi sono conseguenza di un’attività psichica instabile. La migliore soluzione di una psicanalisi è la sublimazione, ovvero la trasformazione di istinti sessuali in qualcosa di produttivo (es: un uomo sublima i suoi istinti sessuali nello studio).
Alla psicanalisi, però vengono spesso associati fatti di cronaca incresciosi, infatti, in passato in America, vigeva una moda squallida, gli psicanalisti abusavano sessualmente dei loro pazienti, in quanto in cura il malato si affida totalmente allo psicanalista instaurando un rapporto di odio – amore, che alcune volte porta all’aggressione dello psicanalista. Molti uomini della politica, invece, si sono sottoposti alla psicanalisi per intenti utilitaristici, infatti, chi effettua la psicanalisi, impara a conoscere la sua psiche ed automaticamente è capace di capire i comportamenti di qualsiasi altra psiche, divenendo così quasi un’arte da sofisti. Tutto questo Freud lo escludeva, per lui la psicanalisi doveva essere semplicemente una cura.
Freud ha analizzato anche il sogno. Egli ha detto che nel sogno c’è un contenuto onirico, proprio del sogno, e un contenuto latente, generato dall’inconscio. L’Io nel sogno si allenta, ma non sproporzionatamente tanto da fare emergere l’esse, si accede all’inconscio, tendiamo a trasferire un oggetto su un altro corpo. Lo psicanalista ebreo, ha anche analizzato i vari stadi della sessualità, dividendoli in quattro fasi : la prima è quella orale, il bambino prova piacere ad allattare dal capezzolo della madre, la seconda è quella sadico-anale, il bambino prova piacere nell’escrezione delle proprie feci, la terza è quella fallica, in cui l’adolescente pratica autoerotismo (masturbazione), la quarta ed ultima fase è quella genitale, in cui l’uomo ha dei rapporti sessuali con il sesso opposto. Freud afferma che si è normali per convenzione, in queste fasi, afferma lo psicanalista, si possono avere parecchi traumi o complessi, come i complessi di Edipo ed Elettra; questi si fanno alla mitologia greca, Edipo uccise il padre per l’amore per la madre, al contrario fece Elettra. L’essere omosessuale è dovuto al fatto che nella fase fallica si pensa al proprio sesso. Il feticismo invece colpisce il bambino che non convincendosi che la donna è senza pene, vede peni da per tutto. Freud divide la psicologia in tre parti : dinamica, Thanatos ed Eros (libidine e natura inorganica), economica (piacere e dispiacere), topica (esse, io e Super-io). Karl Popper, filosofo liberale del novecento, affermerà che Freud per la scoperta dell’inconscio e quindi della debolezza umana sarà insieme a Darwin e Galileo, colui che ha umiliato l’uomo.
RIASSUNTO SU FREUD Freud e Nietzsche vengono solitamente accostati perchè entrambe, seppur in modi diversi, sul finire dell’Ottocento scardinano alcune certezze fondamentali della civiltà occidentale: se Nietzsche aveva “trasvalutato” tutti i valori fondamentali dell’Occidente, ora Freud distrugge la certezza dell’Io, sulla quale si è costruita la nostra civiltà e che, a seconda delle epoche storiche, è stata definita “Io”, “Spirito”, “Anima”, ecc. E non a caso l’intera filosofia moderna, dal Medioevo fino all’Ottocento aveva fatto perno sulla nozione di Io, dal cogito cartesiano all’ Io penso kantiano allo spirito hegeliano, e tale nozione era stata scoperta, molti secoli prima, da Socrate, dato che, prima di lui, l’anima restava un qualcosa di sfumato che non si identificava con la persona, tant’è che per gli Orfici essa era la parte divina presente in noi. Ed è proprio con Socrate che l’Io viene ad identificarsi con la coscienza, a tal punto che “Io” arriva a significare “ciò di cui ho coscienza” (pensiamo alla res cogitans di Cartesio) mentre, sempre gli Orfici, in direzione opposta a Socrate, avevano prospettato l’idea che quello che loro definivano “demone” si manifestasse nei momenti di minor coscienza (il sonno, lo svenimento, ecc). L’idea dell’identificazione Io/coscienza, affiorata con Socrate, è diventata uno dei pilastri della civiltà occidentale e solo in pochi hanno avuto l’ardire di metterla in discussione: tra questi, merita di essere ricordato Plotino, il quale aveva colto, per così dire, diversi livelli della coscienza, cosicchè, oltre al livello ordinario, vi era anche quello sovrarazionale, in grado di attingere l’Uno neoplatonico; dalla prospettiva plotiniana emerge, seppur timidamente, l’idea che la mente non si identifichi con l’Io e quest’idea è stata ripresa e perfezionata, nel Seicento, da Leibniz, il quale parlava espressamente di “piccole percezioni” e di “innatismo virtuale”, convinto che nella testa dell’uomo esistessero nozioni di cui non si ha coscienza, quasi come se la nostra mente contenesse qualcosa che va al di là della coscienza. Anche Hume, nell’età dell’illuminismo, smontando il concetto di sostanza, aveva finito per distruggere insieme ad esso anche quella particolarissima sostanza che siamo noi: in altri termini, il pensatore scozzese si era chiesto se, svuotata la mente dai contenuti della coscienza, sarebbe potuto rimanere qualcosa ed aveva argutamente risposto che l’Io, in fin dei conti, altro non era se non un fascio di percezioni ed era così giunto alla conclusione che non siamo altro all’infuori della somma delle nostre percezioni. Schopenhauer stesso leggeva l’Io come manifestazione particolarissima e superficiale di quella realtà unitaria e profonda che lui definiva “volontà”; tutti questi pensatori controcorrente, però, non sono bastati per impedire che si affermasse sempre più l’idea di un Io unitario, cosciente e razionale e che le passioni venissero considerate come elementi quasi estranei alla nostra vera personalità. Se Schopenhauer si era acutamente accorto che la vera natura dell’uomo, in realtà, non è la ragione, ma la sfera passionale (tant’è che la ragione, secondo Schopenhauer, è una specie di organo che la passione si conferisce per potersi realizzare), con Nietzsche ci troviamo di fronte ad una vera e propria ripresa dell’idea humeana. Anche se dal concetto di “volontà di potenza” sembra trasparire l’assoluta centralità dell’individuo, Nietzsche smonta radicalmente la nozione di sostanza ( ” l’essere manca ” afferma Zarathustra) e dal suo venir meno si sgretola pure quella particolarissima manifestazione di essa che siamo noi (l’Io) e Nietzsche avanza (in Umano, troppo umano ) l’inquietante quesito se sia vero che siamo noi a pensare le idee o, piuttosto, sono le idee che si pensano, che vanno e vengono, attratte da processi quasi chimici, senza che vi sia un Io. Il grande merito di Freud risiede nell’aver ricucito tutti questi duri colpi assestati alla nozione di Io e nell’aver dato la formulazione migliore di questo pensiero “controcorrente”. L’Io, nota Freud, non è che non ci sia, ma, semplicemente, è una realtà infinitamente più marginale di quel che si è creduto da Socrate in poi . E’ come se fossimo tutti, coscientemente o meno, cartesiani, poichè se vi sono cose di cui non abbiam coscienza è come se per noi non ci fossero; ma non è vero che la mente si identifica in tutto e per tutto con la coscienza; viceversa, la coscienza è una piccola porzione della mente , una porzione traballante per molti versi, e l’Io stesso è un punto di contatto tra cose ben più importanti. Ben emerge, da queste considerazioni, come per Freud la mente sia altra cosa rispetto all’Io o alla coscienza. La psiche è, invece, la mente nel suo complesso e in essa trova spazio l’Io (che Freud chiama anche “Ego”), il quale si configura come parte cosciente della psiche. Ed è molto curioso come Freud non sia, propriamente, un filosofo a pieno titolo, ma un medico che si interessa di psichiatria nel tentativo di curare alcune patologie precise ed è altrettanto curioso come, da buon medico di fine Ottocento, fosse convinto dei postulati del Positivismo materialista e ritenesse che per spiegare fatti psichici si dovesse ricorrere ad eventi materiali, come se ogni attività della mente fosse legata ad una parte del cervello. Man mano che Freud matura il suo pensiero, però, prende sempre più le distanze da queste idee, a tal punto che riterrà che un giorno, quando vi saranno gli strumenti adatti per farlo, sarà necessario individuare le cause materiali della patologia psichica, ma, poichè al momento non vi è disponibilità di tali strumenti, bisogna proiettare la propria indagine (ed è ciò che egli fa) su ciò che è indagabile, ovvero sui rapporti tra fatti psichici, trascurando quelli materiali. E’ come se Freud, da sempre considerato un anti-positivista, fosse in realtà un “positivista mancato”: ed egli comincia a praticare in una prima fase della sua attività, insieme ad altri medici, la tecnica dell’ipnosi per curare certe patologie, nella convinzione che tramite essa si possa regredire ad eventi del passato rimossi e, facendoli riemergere, si può capire l’origine di determinate “nevrosi” derivanti da conflitti interiori; si deve, cioè, far emergere ciò che è stato rimosso per poterlo così curare. E qualcosa di questa teoria originaria resterà sempre presente nel suo pensiero: in particolare, Freud sarà sempre convinto che le patologie psichiche abbiano origine in traumi e conflitti psichici irrisolti e tali conflitti vengono spesso rimossi , ossia tolti dallo stato di coscienza e riposti altrove: la diagnosi/terapia consiste nel farli riemergere e la diagnosi, pertanto, è anche la cura della malattia. Ma Freud, nel corso della sua maturazione, tende sempre più a concepire quelli che in origine chiamava “traumi reali” come “traumi virtuali”, cioè non effettivi: solo in rarissimi casi il trauma è legato ad un fatto della vita reale, mentre nella stragrande maggioranza dei casi avvengono all’interno della psiche umana e, in questa nuova prospettiva, Freud tende a respingere ora l’ipnosi, poichè ha la funzione di far crollare le barriere. Dato che con la rimozione certi eventi vengon fatti passare dalla coscienza alla non-coscienza, è evidente che non possano emergere attraverso una prassi razionale (visto che si trovano nascosti alla ragione) e l’ipnosi allora non serve più ad abbattere gli ostacoli aggirandoli (perchè è troppo “artificiale”), bensì si punterà sulla distruzione dei processi di rimozione, visto che essi hanno delle falle, ad esempio i sogni e i lapsus, quando cioè si dice una parola per un’altra (e per Freud la parola “scappata” inavvertitamente è quella che per davvero si voleva dire). Si deve pertanto badare a ciò che le persone dicono o fanno al di là della coscienza e, proprio come nel caso dei lapsus si pronuncia una parola anzichè un’altra, così è anche per i comportamenti: ci sono cose che facciamo senza rendercene conto (ad esempio, i tic) e scavando in essi si coglie la verità della natura umana. Tuttavia, ciò non implica che non tutte le azioni che compiamo inconsciamente abbiano un significato: ad esempio, non tutto ciò che è presente nei sogni ha un significato inconscio. Accettata l’idea di non poter spiegare e curare i disagi psichici attraverso pratiche materiali, Freud si propone di lavorare su un piano psicologico e il concetto fondamentale che emerge da questo nuovo lavoro è quello di rimozione : esso implica che determinate situazioni conflittuali che, proprio perchè tali, sono pesanti per la coscienza, vengano “rimosse”, senza però esser fatte sparire del tutto; vengono cioè nascoste e collocate in quel vastissimo serbatoio della psiche che freud chiama ” l’inconscio “. Esistono dunque cose che la nostra psiche tende a considerare da evitarsi a livello conscio e per questo motivo le rimuove, ma questa rimozione crea disagi che si manifestano in estrinsecazioni psichiche e psicosomatiche (Freud concentra la propria attenzione soprattutto sulla paralisi isterica) che scaturiscono appunto da conflitti psicologici irrisolti che, per poter essere curati, devono in qualche misura essere fatti emergere e dal fatto stesso di prenderne coscienza, magari dolorosamente, nasce anche la cura. Il problema è che, siccome la psiche ha riposto queste cose a livello di inconscio, è impensabile strapparle in modo coercitivo all’inconscio; si dovrà cercare piuttosto di aggirare le “barriere” che proteggono l’inconscio e, per poter fare ciò, vi sono svariati modi, in particolare tutte quelle situazioni in cui la coscienza è più tenue e gli aspetti irrazionali della mente sono in primo piano (i lapsus, i sogni, i tic, ecc); il lettino dello psicanalista rende bene l’idea, in quanto il paziente disteso su di esso parla spontaneamente abbassando le barriere dell’inconscio. Sempre in quest’ottica, Freud usò molto il meccanismo del transfert , ovvero l’innamoranto del paziente verso lo psicanalista: Freud si accorgeva, infatti, di come molte sue pazienti finissero per innamorarsi di lui (in quanto provavano un senso di necessità del suo aiuto e, in definitiva, della sua persona) e, in un primo tempo, pensò che questo imprevisto potesse interferire con la cura, ma poi notò come, invece, fosse d’aiuto, poichè tende a far crollare le barriere dell’inconscio e permette di entrare nelle profondità della psiche. Un altro sistema di cui si avvale Freud per penetrare nella mente è quello della libera associazione di idee , il quale consiste, essenzialmente, nel porre il paziente di fronte ad un’immagine o ad una parola e nell’invitarlo a dire tutto ciò che gli viene in mente. Ma il metodo più importante e più impiegato dallo psicologo austriaco è quello dell’ interpretazione dei sogni (a cui dedica il suo scritto forse più famoso): nel sogno sono presenti contenuti rimossi, ma la mente umana non è così ingenua da far affiorare nel sogno ciò che tiene nascosto durante la veglia e pertanto ciò che vediamo nei sogni non è, banalmente, ciò che è stato rimosso; bensì emergono contenuti rimossi ma in forma rielaborata e in un linguaggio che dice e nasconde contemporaneamente, in quanto dà contenuti ma li esprime in maniera enigmatica. Sarà pertanto sbagliato, nota Freud, dire che ho sognato di volare e che dunque voglio a tutti i costi volare; il lavoro che Freud si propone di fare è appunto quello di provare a decifrare le regole sintattiche del linguaggio dei sogni, distinguendo tra significato latente (cioè il vero significato, nascosto) e significato manifesto (quello apparente, così come ci appare nel sogno). Già Platone aveva a suo tempo notato come nei sogni spesso facciamo cose che nella realtà mai faremmo nè penseremmo di fare: così, dopo che il paziente avrà sognato di volare, si potrà dire che il significato manifesto era appunto di volare, ma quello latente era un altro; molto spesso, infatti, il sogno procede per immagini e, dunque, i contenuti vengono espressi attraverso simboli e oggetti (animali, cose, persone, ecc) di cui non si è in grado di spiegare il vero significato (che perciò resta “latente”). Tanto più che secondo un meccanismo di condensazione in un unico oggetto sono cristallizzati molteplici contenuti e significati. Ma non solo: attraverso il meccanismo di spostamento il contenuto si sposta e slitta su oggetti che non c’entrano nulla, per cui magari si sogna un gatto ma esso non ha nulla a che vedere con il contenuto. E’ curioso come Freud, partito da una questione terapeutica, si sposti sempre più, in modo graduale, verso una sistematizzazione del suo pensiero e venga elaborando un’interpretazione generale della psiche umana e così il suo discorso si allarga, da medico che era, verso l’antropologia. Ne nasce una metapsicologia , ossia una psicologia che da mero strumento per risolvere problemi diventa una teoria generale sull’uomo: e Freud scopre, in quest’ottica, la sessualità infantile , uno degli aspetti che maggiormente scandalizzarono la società del tempo. In particolare, egli sostiene la centralità della sessualità nella vita umana, mettendo in evidenza come le pulsioni che stanno alla base della vita siano sessuali e come dal sesso derivino perfino la civiltà e molte altre cose. E per poter conferire tale carattere fondativo alla sessualità, Freud si vede costretto a concepirla in un’accezione piuttosto ampia e arriva a proporre la tesi secondo cui la rimozione graduale della sessualità dalla società sia da attribuirsi al fatto che è sempre stata concepita in maniera troppo ristretta per poi inquadrarla in rigide regole che la attenuassero: non potendola eliminare, la si restringe all’ambito della sessualità volta alla procreazione nell’ambito matrimoniale, sicchè si arrivano a considerare moralmente inaccettabili forme di sessualità “diversa” (come quella non volta alla procreazione, quella omosessuale, quella extramatrimoniale) e per di più viene eliminato quel carattere di sessualità che in realtà molte cose hanno, tra cui i bambini. Il bambino, infatti, ha una sua sessualità e, in forma volutamente provocatoria, Freud lo definisce come un ” essere perverso poliformo “: quando si nasce, si ha una forma di sessualità a trecentosessanta gradi, una sessualità diversa da come la intende e ci impone di intenderla la civiltà di cui siamo figli: la sessualità, secondo Freud, coincide con la capacità di provare piacere col corpo attraverso funzioni che non siano strettamente fisiologiche e, pertanto, il bambino prova sì piacere nel prendere il latte materno perchè soddisfa la sua esigenza di cibo, ma è anche vero che prova piacere a succhiare il seno materno (e il ciucciotto nasce da questa considerazione), il che è una forma di sessualità. Il bambino dunque è “polimorfo” perchè in lui la limitazione della sessualità imposta dalla civiltà non c’è ancora e la sua sessualità non è ancora orientata ad una sola “zona erogena”; man mano che egli cresce, tuttavia, subisce l’influenza della società e finisce per identificare la sessualità solo con la zona erogena genitale; e quindi, oltre ad essere “polimorfo”, il bambino è anche “perverso” perchè in lui ci sono tutte quelle forme di sessualità che un pò alla volta vengon tagliate fuori dalla società in cui vive perchè le ritiene perverse. All’interno di queste fasi di maturazione del bambino, è molto importante il rapporto coi genitori e, soprattutto, col padre (l’attenzione di Freud è sempre riservata, per lo più, al sesso maschile): ed è a questo punto che Freud tratta del celebre complesso di Edipo ; man mano che la sua psicologia sfuma nell’antropologia, egli tende a stravolgere (un pò come aveva fatto Bruno col mito di Atteone) il significato dei miti classici. Più nel dettaglio, egli scorge nelle vicende di Edipo una trasposizione mitologica della vita del bambino: la madre costituisce per il bambino, proprio come per Edipo, il primo individuo con cui si rapporta e a cui rivolge la sua attenzione sessuale e, in questa prima fase, concepisce il padre come avversario e ne nasce una conflittualità per il possesso della madre; tale fase, però, sarà superata e si arriverà all’identificazione con il padre. La famiglia e, soprattutto, la figura del padre diventano per Freud la chiave di lettura di tutto: tutte le tappe che si percorrono nel processo di crescita sono necessarie, l’importante è non restare bloccati ad una tappa (magari quella del complesso di Edipo) senza superarla; se non la si supera, si ha la “regressione” e nascono disagi e patologie che la psicanalisi deve risolvere. Il presupposto del discorso è che, in assenza di riscontri fisiologici, la vita psichica deve essere interpretata sulla base di una forte pulsione interna che va scaricata, quasi come se esistesse un flusso di energia interiore che finchè non è scaricato fa star male; e, secondo Freud, tale energia interna è soprattutto una pulsione sessuale, che lui chiama libido . Il medico austriaco tende sempre più ad elaborare quella che lui stesso chiama “metapsicologia” e nell’ambito di questa elaborazione meritano di essere esaminati alcuni concetti centrali delle sue opere: un primo tentativo di spiegare il conflitto che travaglia la psiche umana risiede nell’osservare due princìpi opposti fra loro, che Freud chiama principio del piacere e principio di realtà . L’uomo, di per sè, tenderebbe sempre a soddisfare all’istante il piacere che prova, per poter così trovare una forma di equilibrio interno; e tuttavia a questo “principio del piacere”, per cui si sarebbe indotti a realizzare sempre e comunque il piacere, si oppone il “principio di realtà”, ovvero la consapevolezza delle richieste provenienti dall’ambiente circostante: se, infatti, tutte le pulsioni fossero immediatamente realizzate, non solo ciò sarebbe incompatibile con le regole della società, ma perfino con la semplice sopravvivenza fisica dell’individuo, e non a caso ciascuno di noi tende a reprimere parzialmente il principio di piacere in funzione del fatto che deve vivere. Secondo quest’interpretazione freudiana, l’uomo vive in una perenne tensione ineliminabile per cui nessuno dei due princìpi (di piacere e di realtà) può venir meno: le pulsioni devono essere scariocate ma tenendo conto della realtà circostante e da ciò sorge, gradualmente, un conflitto interiore, proprio come nei sogni emergevano cose rimosse dalla coscienza. Ed è curioso notare come questa distinzione tra i due princìpi rievochi fortemente quella nietzscheana tra apollineo e dionisiaco: come per Nietzsche, anche per Freud alla base dell’uomo vi sono pulsioni irrazionali e vitalistiche (ovvero dionisiache), che però vengono ridimensionate dall’apollineo, cioè dalle regole imposte dalla società e dalla razionalità. In alcune opere più mature, Freud dichiara apertamente di essere andato al di là del principio di piacere: si rende cioè conto che solo in apparenza il principio di realtà e quello di piacere sono tra loro opposti; se meglio analizzati, essi risultano anzi essere due facce della stessa medaglia, proprio come l’utile, se esaminato in profondità, non è in contrapposizione con il piacere, ma è anzi un modo per realizzarlo utilmente; così il principio di realtà altro non è se non una manifestazione del principio di piacere, più precisamente consiste nell’esprimere il piacere in forma mediata. E poi Freud si rende conto che contro questo principio bipolare che è il principio di piacere (comprendente, come abbiamo appena detto, anche quello di realtà) vi è un altro principio ad esso opposto e consiste in una tendenza all’autodistruzione. Ora Freud al principio vitale (piacere + realtà) contrappone quello di morte, sotto forma di autodistruzione e per esprimere il conflitto tra questi due princìpi riprende il binomio, tipicamente romantico, eroV kai qanatoV , “amore e morte”: paradossalmente, nell’uomo troviamo una tendenza vitalistica che si esprime nel principio di piacere ( eroV ) contrapposta a quella autodistruttrice ( qanatoV ) e Freud afferma che le pulsioni devono assolutamente essere scaricate e che il piacere consiste appunto nello scaricarle, ma aggiunge che se un relativo scaricamento di esse ridà l’equilibrio e coincide con l’ eroV , a volte vi è una tendenza esasperata ad uno scaricamento totale delle pulsioni e della vitalità: in ciò risiede qanatoV . Dove emerge questo secondo impulso che tende ad annullare la vita? Lo si scopre, dice Freud, soprattutto nell’aggressività verso l’esterno e verso se stessi e, ancora di più, nella coazione a ripetere , cioè nei tic con carattere fortemente ripetitivo: infatti, il fatto stesso che tendano a ripetersi all’infinito dà un senso di morte, perchè implica l’abolizione della creatività vitalistica e riduce la vita ad un meccanismo inanimato, quasi come se si provasse nostalgia per gli esseri privi di vita. Sempre nell’ambito della metapsicologia, Freud elabora due celebri teorie, dette della ” prima topica ” e della ” seconda topica “: il termine “topico” è desunto dal greco topoV , “luogo”, e Freud lo impiega perchè tende ora a leggere la psiche umana come se divisa in diverse regioni e regni, anche se, è bene ricordarlo, egli ha rinunciato all’interpretazione materialistica e pertanto per “luoghi” non si devono intendere letteralmente zone fisiche del cervello, ma piuttosto, metaforicamente, zone con caratteristiche diverse dalla cui interazione deriva il comportamento umano. Se Nietzsche aveva messo in dubbio, riprendendo le tesi humeane, la compattezza della nozione di Io, ora Freud con le “topiche” la sfalda del tutto: egli, infatti, suggerisce l’idea che non vi sia una personalità ben definita e dotata di svariate manifestazioni, ma, viceversa, propone l’ipotesi che vi siano “regni” separati di cui il nostro Io è solo un aspetto. Nella “prima topica” individua tre ambiti della psiche: 1) “conscio” è ciò di cui abbiamo effettivamente coscienza; 2) “preconscio” è quel serbatoio a cui il conscio attinge: se, ad esempio, sto parlando, le cose che dico ora consciamente, ieri erano già nella mia testa ma non stavo pensando ad esse e dunque erano a livello subconscio, bastava allungare la mano per prenderle; 3) “inconscio” è tutto ciò che è stato rimosso dalla coscienza, cosicchè si crea una barriera assai solida che impedisce l’accesso. Nella “seconda topica”, invece, che è di gran lunga più famosa, incontriamo tre elementi diversi: a) l’Io (o Ego) è la personalità cosciente, b) il Superio (o Superego) è la coscienza che si sovrappone alle decisioni dell’Io, c) l’Es (o Id) non è identificabile con la personalità individuale, ma è l’insieme delle pulsioni irrazionali e proprio per questo viene espresso con il pronome neutro “Es” (“Id” in latino). L’Io corrisponde alla dimensione conscia, a quelli che nella “prima topica” Freud aveva definito come “conscio” e “subconscio”; l’Es, invece, corrisponde all’inconscio della “prima topica” ed è, in sostanza, ciò che influenza pesantemente il comportamento. Ciò che però non trova un corrispettivo nella “prima topica” è il Superio, che, essenzialmente, si identifica con quella che solitamente definiamo voce della coscienza, quel senso del dovere che impone all’Io un comportamento che lui, di per sè, non adotterebbe, proprio come in Kant il dovere (Superio) impone di non fare ciò che l’Io vorrebbe fare. Il riferimento a Kant non è casuale: quando il pensatore tedesco parlava di imperativo categorico, diceva espressamente che si deve saper riconoscere ciò che effettivamente è un dovere proveniente dall’interno (magari aiutare gli altri), senza alcuna motivazione eteronoma. Kant però non era arrivato a ipotizzare, come invece fa Freud, che quella che solitamente consideriamo la voce della coscienza abbia anch’essa un’origine eteronoma o, per dirla con Nietzsche, umana, troppo umana; in altri termini, per Freud la voce della coscienza è l’insieme delle norme comportamentali che la società in cui viviamo ci impone di interiorizzare e di far diventare doveri morali; secoli prima, il sofista Crizia aveva sostenuto la teoria secondo cui la religione sarebbe stata inventata da un legislatore intelligente che, resosi conto che gli uomini si comportano bene solo se controllati, creò il concetto di Dio, una sorta di poliziotto che ci controlla tutti quanti ventiquattr’ore su ventiquattro. E anche quando respingiamo l’eventualità di un Dio, nota Freud, resta comunque la coscienza, che in fondo, come già aveva detto Hegel, è un Dio interiorizzato. Il bambino, dunque, nasce con tutte le pulsioni dell’Es che tenderebbero immediatamente a realizzarsi (per il principio del piacere): poi, però, la famiglia le limita vivamente e la prima autorità con cui il neonato entra in contrasto è la figura paterna, in quanto rappresenta un’autorità esterna che impone regole e che si pone come rivale nel possesso della donna (complesso di Edipo); tuttavia, questa autorità, originariamente intesa come nemica, tende a poco a poco ad essere interiorizzata a tal punto che il ragazzo finisce per identificarsi col padre; e quando poi l’individuo si allontana dalla famiglia per entrare a far parte della società, si imbatte in nuove autorità, cosicchè le leggi vengono rispettate perchè si teme la punizione che deriva dal trasgredirle e, soprattutto, perchè le si hanno interiorizzate come valori, si dimentica cioè che sono regole umane e le si concepiscono come valori assoluti dettati dalla voce della coscienza (il “dovere” di cui parlava Kant). In questa prospettiva, il Superio corrisponde un pò al principio di realtà, in quanto altro non è se non l’insieme delle regole imposte dall’esterno che vengono interiorizzate e diventano una parte di noi. Dopo aver detto che l’Es costituisce l’insieme delle pulsioni che stanno alla base dell’uomo e che il Superio è la cosiddetta voce della coscienza, non resta che chiedersi in che cosa consista l’Io: ad esso Freud riserva un destino alquanto disgraziato, poichè costituisce una sorta di terreno di confine tra l’Es e il Superio. A tal proposito, Freud cita esplicitamente la commedia “Arlecchino servitore di due padroni”, dove Arlecchino è l’Io e i due padrono sono, rispettivamente, l’Es e il Superio. L’Io/Arlecchino è tenuto a soddisfare la nostra essenza pulsionale e, nel contempo, a rispondere alle leggi dettate dal Superio, e ciò che prescrive il Superio è in netto contrasto con quanto prescritto dall’Es, visto che il primo tende a ingabbiare le pulsioni sessuali del secondo, e, in quest’ottica, il vestito a pezze ritagliate di Arlecchino simboleggia il fatto che l’Io è lacerato da questo conflitto. Nell’ultima fase del suo pensiero, Freud estende il suo discorso all’ analisi della civiltà umana e dei suoi costi : il Superio, egli nota, ha a che fare coi costi della società, in quanto placa gli impulsi senza lasciarli affiorare in superficie; sotto questo profilo, assume un’importanza sempre maggiore la nozione di sublimazione . Freud non rinuncia mai e poi mai alla centralità delle pulsioni all’interno della vita umana e fa notare come la civiltà sia sempre stata un tentativo di governarle, un tentativo che si è realizzato secondo due differenti modalità: da un lato, riduce a spazi e modi limitati l’espressione sessuale della libido, ma poi tutte le libido che non sono orientate in senso sessuale non spariscono, ma vengono piuttosto “sublimate”, ossia reindirizzate ad altri scopi creativi, come se evaporassero per poi ricondensarsi in un’altra maniera. Ed è così, come sublimazione delle pulsioni sessuali, che sono nate nella nostra civiltà la cultura, l’arte e il lavoro; dopo di che, Freud, riprendendo ed estendendo il concetto del complesso edipico, tratteggia l’origine dei totem e dà un’interpretazione dell’eucarestia cristiana: le società primitive si costruiscono sulla base di un parricidio originario con cui si elimina il padre ma, dopo aver compiuto tale gesto efferato, si prova rimpianto e, perciò, la figura paterna viene divinizzata attraverso il totem o, nel mondo cristiano, con l’eucarestia. Fatte queste considerazioni sulla religiosità delle diverse civiltà, Freud arriva esplicitamente ad affermare che la religione non ha futuro e che dovrà esaurirsi: molto significativo, a tal proposito, è il titolo di uno scritto del 1927, L’avvenire di un’illusione . In Il disagio della civiltà (1930) Freud afferma invece che la civiltà è un male inevitabile: è un male, perchè reprime e devia gli impulsi libidici e, proprio per questo motivo, l’intera società può essere considerata malata, anche se di una malattia generica: seppur non vi è sofferenza, regna ciononostante il disagio per il fatto che le pulsioni vengono repressivamente soffocate ma si continua lo stesso a sentire il bisogno della civiltà. Quest’idea di una società a disagio per un eccesso di apollineo rievoca fortemente il pensiero di Nietzsche, anche se per il profeta del Superuomo questo disagio è eliminabile nel momento in cui si giunge al nichilismo attivo; per Freud, invece, non ci si può in nessun caso liberare dal Superio e ne nasce una mesta prospettiva di accettazione di un male necessario. Nonostante queste considerazioni, Freud non è così pessimista come possa sembrare, in quanto, sebbene rifiuti la possibilità ammessa da Nietzsche di schizzare via dalla società, non rifiuta quella secondo cui è possibile migliorare la società ed è per questo che scorge nel movimento socialista non un modo per realizzare il paradiso in terra, ma per ridurre il disagio che opprime la nostra società; ancora una volta, Freud, nella convinzione che la società possa guarire un poco alla volta attraverso l’assunzione di medicine adeguate, rivela di essere forse più medico che filosofo.
L’EDIPO RE di SOFOCLE
1-116 Prologo
La tragedia inizia con l’apparizione di Edipo sorretto da una fanciulla, Antigone, sua figlia-sorella. In prossimità di Atene chiedono informazioni su dove si trovino ad un passante: questi li invita ad allontanarsi: il luogo è consacrato alle dee Eumenidi, dee terribili, dal cui nome Edipo è colpito. Apprende dallo stesso di essere a Colono, il cui re è l’ateniese Teseo. Già da qui si nota la stanchezza per la vita di Edipo, la sua voglia di porle fine. Il prologo anticipa il motivo conduttore della tragedia: il contrasto fra il crudo passato del protagonista e la quiete estrema, verso la quale tende e dalla quale finirà per essere assorbito.
117-253 Parodo
Qui troviamo un canto del coro: al sopraggiungere degli abitanti Edipo si era nascosto, quando si fa avanti, il coro prova un sentimento misto di pietà e di orrore. Dopo averlo invitato ad uscire dal sacro recinto, il coro vuol conoscere l’identità dello straniero, quando la scoprono gli intimano di allontanarsi, ma servirà l’intervento di Antigone per farlo restare.
254-667 Primo Episodio
Mentre tutti aspettano l’arrivo del re Teseo, la figlia di Edipo, Ismene, arriva da Tebe per avvertirlo dei disordini generati dai due figli maschi, entrambi ambivano al trono: il minore l’ha usurpato, ed il maggiore sta muovendo un esercito contro di lui. Ora entrambe le parti cercano Edipo, perché un oracolo ha predetto che la vittoria sarà destinata a chi lo avrà con sé, vivo o morto. Non è loro intenzione, però, riportarlo ai confini della patria, bensì lasciarlo ai margini di essa. Quindi Edipo, dopo aver maledetto i figli, viene aiutato e curato da due fanciulle. Il coro allora gli consiglia di offrire una libagione alle dee a cui è sacro il territorio. Sarà Ismene ad occuparsene. Interrogato dal coro sul suo passato, egli risponde che le sue presunte colpe si sono verificate per via della sorte. Al sopraggiunto Teseo egli chiede di poter essere seppellito in quel luogo stesso.
668-719 Primo Statismo
Qui il coro inneggia a Colono e a tutta la Grecia, ed Edipo ricorda la sua giovinezza.
720-1043 Secondo Episodio
Si presenta il figlio Creonte, che con una ipocrita proposta cerca di soccorrere il padre interessatamente, egli pensa che è in grado di costringerlo, sia lui che le sue figlie, a venire con sé, nonostante il rifiuto del padre. Gli strappa Antigone dalle braccia, e, nonostante le proteste del coro, usa la violenza anche sul padre. Accorso Teseo, lancia un esercito contro i rapitori. Mentre Edipo e Creonte discutono sull’uccisione del padre da parte del primo, Teseo trascina Creonte per liberare gli altri prigionieri. Prima della pace estrema egli deve ripercorrere con la memoria e le parole il suo cruento passato. Si sente immune da colpa, perchè tutto è dipeso dal volere degli dei.
1044-1095 Secondo Statismo
Il coro immagina di assistere al propizio scontro tra Teseo ed i tebani, ringraziando gli dei per questo.
1096-1210 Terzo Episodio
Quando Teseo riporta le figlie al padre, già l’altro figlio ottiene di parlare con lui.
1211-1248 Terzo Statismo
Il coro racconta che Edipo non è più perseguitato dagli dei e dal destino, è solo un vecchio. Si accorge quindi che lo stesso morire sarebbe un peccato: qui cita una frase di Sileno rivolto al Re Mida: “Meglio di ogni cosa è non essere nati, e dopo di ciò morire subito dopo la nascita”.
1249-1555 Quarto Episodio
Arriva ora Polinice, primo figlio di Edipo, che, diversamente dal fratello, chiede gentilmente aiuto al padre: qui si scatena l’ira di Edipo, il quale fa notare al figlio come sia ancora vivo per merito di Antigone e le sue sorelle, non di lui e del fratello: su questi ultimi cadrà la sua maledizione! Polinice rimane allora deluso, e non tenta alcuna replica. Mentre il coro lamenta la vicenda, si ode un tuono: segno che per Edipo si sono aperti i passaggi per l’aldilà, egli ordina di far accorrere Teseo, ed il coro si spaventa per quello che sta avvenendo. Quando Teseo arriva, Edipo si accinge a portarlo nel luogo della sua morte, e invita anche le figlie a venire. Dice a Teseo di cercare di mantenere tranquilla la sua città.
1556-1578 Quarto Statismo
Non resta che pregare gli dei dell’oltretomba, perchè concedano il lieve trapasso al morituro. La sua morte non è comune: è come una discesa dall’Ade.
1579-1779 Esodo
Teseo racconta al coro la scomparsa di Edipo: “Il vecchio si inoltrò nel bosco, e giunto alla sacra voragine compì i riti di purificazione. Poi prese commiato dalle figlie, e le fece allontanare, solo io restai ad apprendere le sue ultime parole: e poco dopo, voltandosi, essi mi videro come percosso da una vista arcana e tremenda – nessuno sa come sia morto Edipo, solo si sa che gli sono state risparmiati pianto e dolore”. Teseo conferma il desiderio di Edipo che nessuno si avvicini al suo sepolcro, e acconsente a quello di Antigone di poter andare a Tebe per tentare d’impedire lo scontro tra i due fratelli.
L’INTERPRETAZIONE DI FREUD E QUELLE SUCCESSIVE
La più famosa -seppur contestatissima- interpretazione dell’Edipo Re sofocleo si deve a Freud, che dalla tragedia fece derivare il nome del complesso maschile infantile per cui il bambino viene portato ad odiare il padre e ad attaccarsi morbosamente alla madre. Ciascuno di noi, in sostanza, vorrebbe da bambino sbarazzarsi del padre per poter possedere la madre, dalla quale è sessualmente attratto. Sul versante femminile, si ha il complesso di Elettra, ovvero la bambina vorrebbe sbarazzarsi della madre per possedere sessualmente il padre. Certo l’Edipo re assurse per Freud e per la psicoanalisi a paradigma del fenomeno psicologico, ma non solo, perché Freud stesso spiegò l’efficacia della tragedia in questo modo:
Il suo (di Edipo) destino ci commuove soltanto perché sarebbe potuto diventare anche il nostro, perché prima della nostra nascita l’oracolo ha decretato la medesima maledizione per noi e per lui. Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il nostro primo impulso sessuale alla madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza contro il padre: i nostri sogni ce ne danno convinzione. (…) Davanti alla persona in cui si è adempiuto quel desiderio primordiale dell’infanzia indietreggiamo inorriditi, con tutta la forza della rimozione che questi desideri hanno subito da allora nel nostro intimo. Portando alla luce della sua analisi la colpa di Edipo, il poeta ci costringe a prendere conoscenza del nostro intimo, nel quale quegli impulsi, anche se repressi, sono pur sempre presenti. Sigmund Freud, da Interpretazione dei sogni, 1900 |
In parecchi testi, Freud riprende questa tesi e cita il mito di Edipo (la lezione XXI del ciclo di lezioni di Introduzione alla psicoanalisi, la lettera a Wilhelm Fliess del 15 ottobre 1897…). Scrive ancora Freud:
Se Edipo Re è in grado di scuotere l’uomo moderno come ha scosso i greci suoi contemporanei, ciò non può che significare che l’effetto della tragedia greca non è basato sul contrasto tra destino e volontà umana, ma sulla particolarità della materia sulla quale questo contrasto viene mostrato. Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere nell’Edipo la forza coercitiva del destino, mentre soggetti come quello della Bisavola o di altre simili tragedie del destino ci fanno un’impressione di arbitrarietà, e non ci toccano. Ed effettivamente nella storia di Re Edipo è contenuto un tale motivo. Il suo destino ci scuote soltanto perché avrebbe potuto diventare anche il nostro, perché prima della nostra nascita l’oracolo ha pronunciato ai nostri riguardi la stessa maledizione. Forse è stato destinato a noi tutti di provare il primo impulso sessuale per nostra madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza per nostro padre; i nostri sogni ce ne convincono. Re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e che ha sposato sua madre Giocasta, è soltanto l’adempimento di un desiderio della nostra infanzia. Ma a noi, più felici di lui, è stato possibile, a meno che non siamo diventati psiconevrotici, di staccare i nostri impulsi sessuali dalla nostra madre, e dimenticare la nostra invidia per nostro padre. Davanti a quel personaggio che è stato costretto a realizzare quel primordiale desiderio infantile, proviamo un orrore profondo, nutrito da tutta la forza della rimozione che da allora in poi hanno subito i nostri desideri. Il poeta, portando alla luce la colpa di Edipo, ci costringe a conoscere il nostro proprio intimo, dove, anche se repressi, questi impulsi pur tuttavia esistono. Il canto, con il quale il coro ci lascia:
…”Vedete, questo è Edipo, i cittadini tutti decantavano e invidiavano la sua felicità; ha risolto l’alto enigma ed era il primo in potenza, guardate in quali orribili flutti di sventura è precipitato!”
è un’ammonizione che colpisce noi stessi e il nostro orgoglio, noi che a parer nostro siamo diventati cosi saggi e così potenti, dall’epoca dell’infanzia in poi. Come Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri che offendono la morale, di quei desideri che ci sono stati imposti dalla natura; quando ci vengono svelati, probabilmente noi tutti vorremmo distogliere lo sguardo dalle scene dell’infanzia
A questo proposito bisogna ricordare quanto fosse importante per Freud e quanto lo sarà per la psicoanalisi (in particolar modo il filone junghiano) ricorrere al mito: un po’ come nella filosofia platonica, il mito diviene paradigma, exemplum, una via efficace per spiegare, più precisamente per far affiorare dall’inconscio ciò che abbiamo rimosso. L’importanza dell’arte per Freud sta anche in questo: egli stesso sostiene che “noi e lui [Freud e il poeta] attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso soggetto, ciascuno di noi con metodo diverso”.
Riprendendo il discorso della critica freudiana, oltre il passo sovracitato egli inserisce una serie di versi, dalla tragedia stessi, sui quali fa poggiare trionfante la propria interpretazione:
dall Edipo Re di Sofocle, vv.977-983 GIOCASTA: Ma perché sgomentarsi, se in balìa della fortuna sono i casi umani, che l’uomo non potrà mai preconoscere? E’ più saggio affidarsi alla ventura, come si può; né tu temere le nozze con tua madre. Non giacquero molti in sogno con la loro madre? E vivono sgomenti forse per i loro sogni? No, se vogliono condurre la vita senza troppi affanni. |
Freud nega l’interpretazione della tragedia secondo la quale la morale sta nell’accusa degli dei e del Fato, anzi nega che sia questa a causare l’effetto tragico. Piuttosto il successo della tragedia sta nel riconoscimento del lettore nell’Edipo, perché la tragedia stessa indica esplicitamente (nei versi sopra citati) che la leggenda è tratta da un primordiale materiale onirico.
La critica successiva ha negato l’interpretazione freudiana, un po’ troppo semplicistica, non sottile forse perché priva del materiale filologico e storico di cui necessitava. L’intuizione freudiana sta nell’aver percepito l’importanza della tragedia quale analisi dell’animo, del conflitto interiore di Edipo che cammina verso la verità, pronta ad accecarlo: quando l’ubriaco alla festa gli confida la sua vera identità, Edipo sente qualcosa insinuarsi nel profondo, pungergli qualcosa che aveva rimosso (vv.779-786). Inoltre nella affannata ricerca di Edipo, Freud vede un paragone col processo di analisi della psiche da lui stesso affrontato: Edipo solleva il velo che gli nasconde la verità, la sua identità parricida e incestuosa, come lo psicoanalista attraverso il dialogo “scopre” al di là della dimensione conscia, L’Edipo Re è la parabola di un uomo riconosciuto come uguale agli dei dal punto di vista degli uomini, ma pari a nulla, cieco, per gli dei (cfr. Vernant, Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell’Edipo Re).
Chi nega il senso di colpa di Edipo è Jean Pierre Vernant stesso ( Edipo sans complexe è appunto il titolo di un suo saggio del 1979): dimostra quanto e come sia errata la prospettiva freudiana, poiché si propone in forma assiomatica e non scaturisce quale esito di una corretta e integrale analisi di tutti gli aspetti del testo. Come può un’opera letteraria che appartiene alla civiltà ateniese del V sec. a C. e che traspone essa stessa in maniera molto libera una leggenda tebana molto più antica, anteriore al regime della polis, confermare le osservazioni di un medico degli inizi del XX secolo sulla clientela di malati che frequentano il suo studio?: sono queste le parole di critica più diretta all’interpretazione freudiana, che – secondo Vernant – non è credibile anche perché non poggia su un lavoro minuzioso di analisi. Questo avviene perché Freud trascura la storicità del pubblico che fruisce dell’opera; egli procede nel senso opposto della psicologia storica, che prima ancora di analizzare contenuto, tema, lingua, si occupa del contesto in cui avviene la performance. Una volta analizzato il contesto storico dell’Atene del V sec. a C., rendendosi conto di come si trattasse di un ambiente politicamente e socialmente diverso, per esempio, dalla Siracusa del XX sec. d.C., dove in questi giorni la tragedia è ripresa, è possibile rendersi conto dell’intima reazione del pubblico. Vernant ammette come già la Poetica di Aristotele, seppur solo un secolo dopo, non sia in grado di interpretare la tragedia, che appartiene ormai ad un’epoca trascorsa, un’epoca in cui il sorgere del principio di responsabilità nel campo del diritto aveva posto il problema della misura in cui l’uomo fosse responsabile delle proprie azioni.
Una posizione intermedia è quella di Paduano, che nell’introduzione a Sofocle, Tragedie e Frammenti, in un microsaggio intitolato Sulla diversità, del 1982, sostiene che l’Edipo Re sia una struttura teatrale che non trascriva direttamente nè sia estranea al complesso di Edipo: anzi lo rappresenta attraverso un rovesciamento e uno spostamento. Se lo spostamento è quello dalla dialettica psichica tra conscio e coscienza alla dialettica sociale uomo-dio, il rovesciamento è quello che nella sovracitata dialettica psichica scambia tra di loro desiderio represso e repressione. Infatti Edipo desidera la normalità, ma la realtà si è già organizzata in forme opposte alla volontà del soggetto: l’evento tragico avviene prima dell’azione tragica. Da questo Paduano fa derivare l’uso, in Sofocle, di un’ironia tragica che si discosta dalla sua forma tradizionale. Infatti, se di solito l’ironia tragica, quale convergenza di due significati sullo stesso significante, viene usata per “prevedere” ciò che accadrà, qui non ha la stessa funzione: un’ironia tragica che troviamo anche in Euripide, quando (nell’”Elettra”) i due fratelli, prossimi al matricidio, appellano la madre “la generatrice” (thn tekousan). L’evento tragico è già stato, appunto, dunque l’ironia ha solo la funzione di confrontare l’immagine del DESIDERIO con quella della REALTA’. Dunque è come se due dimensioni si accostassero parallele: e così se nell’universo simulato Edipo possiede l’autorità, nell’universo reale le stesse valenze autoritarie trasformano il soggetto in oggetto. In entrambi i casi è fondamentale il rapporto con Laio: nella dimensione simulata esiste una filialità solo metaforica, quando per esempio Edipo dice del re “come se fosse mio padre”, e si identifica in lui con una serie di punti di contatto (il potere, i possibili figli, la moglie); finché nella dimensione reale la filialità diviene biologica.
Paduano rivaluta poi, in un certo senso, il tema della conoscenza: non è infatti importante come potrebbe sembrare la differenza tra sapere umano e oracolo divino, vista l’ambiguità di quest’ultimo. Anzi, la conoscenza, come il potere, rientra nei desideri di Edipo: l’intellettualismo di Edipo fa parte dell’insieme compatto dei suoi desideri autoritari e normativi, citando da Paduano stesso. Ma questa conoscenza, che pur uscirà sconfitta dalla rivelazione, è una forma di eroica tlhmosunh, di sopportazione: “Ahimè, sto per dire la cosa tremenda”, gli dice il pastore. Risponde Edipo: “E io per sentirla. Ma sentirla bisogna“.
Secondo Paduano il primo di molti Edipi non più senza complesso è quello di Seneca, dove il parricidio e l’incesto vengono assunti come ossessione non risolta. Il complesso esclude tuttavia l’aspetto libidinale e investe unicamente quello autopunitivo dell’angoscia. L’Edipo di Seneca è il primo Edipo freudiano, già vicinissimo alla verità.
Un’analisi interessante è quella di Fromm ne “Il linguaggio dimenticato”, dove il mito viene inteso come ribellione del figlio contro l’autorità del padre nella famiglia patriarcale (e la teoria trova supporto nelle altre due tragedie della trilogia, Edipo a Colono e Antigone, nelle quali ricorre il rapporto padre-figlio).
L’ultima interpretazione è quella dello psicologo Franco Maiullari, che nel suo ultimo saggio, L’interpretazione anamorfica dell’Edipo Re. Una nuova lettura della tragedia sofoclea, propone appunto una nuova lettura in chiave psicoanalitica secondo cui l’indagine di Edipo non sia rivolta alla ricerca di sapere ma alla ricerca di potere, e spinge l’accecamento di Edipo come mezzo per andare oltre i propri limiti, divenendo così potente come Tiresia. Viene inoltre evidenziata la funzione ambigua di Giocasta, la cui preoccupazione è quella di mantenere l’omertà sui fatti del palazzo. In “Il linguaggio dimenticato” (trad. it. di G. Brianzoni, Bompiani, Milano, 1962, pp. 188-193), scrive Fromm:
II mito di Edipo offre un eccellente esempio dell’applicazione del metodo freudiano e allo stesso tempo un’ottima occasione per considerare il problema sotto una prospettiva diversa, secondo la quale non i desideri sessuali, ma uno degli aspetti fondamentali delle relazioni tra varie persone, cioè l’atteggiamento verso le autorità, è considerato il tema centrale del mito. Ed è allo stesso tempo una illustrazione delle distorsioni e dei cambiamenti che i ricordi di forme sociali e di idee più antiche subiscono nella formazione del testo evidente del mito. […]Il concetto del complesso di Edipo, che Freud ha così efficacemente espresso, divenne una delle pietre angolari del suo sistema psicologico. Egli credeva che esso fosse la chiave per comprendere la storia e l’evoluzione della religione e della morale e che costituisse il meccanismo fondamentale dello sviluppo del bambino. Sosteneva inoltre che il complesso di Edipo è la causa dello sviluppo psicopatologico e il ” nocciolo della nevrosi “.
Freud si riferiva al mito di Edipo secondo la versione contenuta nell’Eco Re di Sofocle. La tragedia ci racconta che un oracolo aveva predetto a Laio, Re di Tebe, e a sua moglie Giocasta, che se essi avessero avuto un figlio, questi avrebbe ucciso il padre e sposato la propria madre. Quando nacque Edipo, Giocasta decise di sfuggire alla predizione dell’oracolo, uccidendo il neonato. Ella consegnò Edipo a un pastore, perché lo abbandonasse nei boschi con i piedi legati e lo lasciasse morire. Ma il pastore, mosso a pietà per il bambino, lo consegnò a un uomo che era a servizio del Re di Corinto, il quale a sua volta lo consegnò al padrone. Il Re adotta il bambino e il giovane principe cresce a Corinto senza sapere di non essere il vero figlio del Re di Corinto. Gli viene predetto dall’oracolo di Delfi che è suo destino uccidere il proprio padre e sposare la propria madre e decide quindi di evitare questa sorte non ritornando più dai suoi presunti genitori. Tornando a Delfi egli ha una violenta lite con un vecchio che viaggia su un carro, perde il controllo e uccide l’uomo e il suo servo senza sapere di aver ucciso suo padre, il Re di Tebe.
Le sue peregrinazioni lo conducono a Tebe. In questa città la Sfinge divora i giovinetti e le giovinette del luogo e non cesserà finché qualcuno non avrà trovato la soluzione dell’enigma che essa propone. L’enigma dice: ” Che cos’è che dapprima cammina su quattro, poi su due e infine su tre? ” La città di Tebe ha promesso che chiunque lo risolva e liberi la città dalla Sfinge sarà fatto Re e gli sarà data in sposa la vedova di Laio. Edipo tenta la sorte. Trova la soluzione all’enigma cioè l’uomo che da bambino cammina su quattro gambe, da adulto su due e da vecchio su tre (col bastone). La Sfinge si getta in mare urlando, Tebe è salvata dalla calamità, Edipo diviene Re e sposa Giocasta, sua madre.
Dopo che Edipo ha regnato felicemente per un certo tempo, la città viene decimata dalla peste che uccide molti cittadini. L’indovino Tiresia rivela che l’epidemia è la punizione del duplice delitto commesso da Edipo, parricidio e incesto. Edipo, dopo aver disperatamente tentato di ignorare la verità, si acceca quando è costretto a vederla e Giocasta si toglie la vita. La tragedia termina nel punto in cui Edipo ha pagato il fio di un delitto che ha commesso a sua insaputa, nonostante i suoi consapevoli sforzi per evitarlo.
È giustificata la conclusione di Freud secondo la quale questo mito conferma la sua teoria che inconsci impulsi incestuosi e il conseguente odio contro il padre-rivale sono riscontrabili in tutti i bambini di sesso maschile? Invero sembra di sì, per cui il complesso di Edipo a buon diritto porta questo nome. Tuttavia, se esaminiamo più da vicino questo mito, nascono questioni che fanno sorgere dei dubbi sull’esattezza di tale teoria. La domanda più logica è questa: se l’interpretazione freudiana fosse giusta, il mito avrebbe dovuto narrare che Edipo incontrò Giocasta senza sapere di essere suo figlio, si innamorò di lei e poi uccise suo padre, sempre inconsapevolmente. Ma nel mito non vi è indizio alcuno che Edipo sia attratto o si innamori di Giocasta. L’unica ragione che viene data del loro matrimonio è che esso comporta la successione al trono. Dovremmo forse credere che un mito, il cui tema è costituito da una relazione incestuosa fra madre e figlio, ometterebbe completamente l’elemento di attrazione fra i due? Questa obiezione diventa ancora più valida se si considera che la profezia del matrimonio con la madre è ricordata una sola volta da Nicola di Damasco, che secondo Cari Robert attinge a una fonte relativamente tarda.
Come possiamo concepire che Edipo, descritto come il coraggioso e saggio eroe che diviene il benefattore di Tebe, abbia commesso un delitto considerato orrendo agli occhi dei suoi contemporanei? A questa domanda si è talvolta risposto, facendo notare che per i greci il concetto stesso di tragedia stava nel fatto che il potente e forte venisse improvvisamente colpito da sciagura. Rimane da vedere se una tale risposta sia sufficiente o se ne esista un’altra più soddisfacente.
Questi problemi sorgono dall’analisi di Edipo Rè. Se consideriamo soltanto questa tragedia senza tenere conto delle altre due parti della trilogia, Edipo a Colono e Antigone, non è possibile dare una risposta definitiva. Ma siamo almeno in grado di formulare una ipotesi e cioè: che il mito può essere inteso come simbolo non dell’amore incestuoso fra madre e figlio, ma della ribellione del figlio contro l’autorità del padre nella famiglia patriarcale; che il matrimonio fra Edipo e Giocasta è soltanto un elemento secondario, soltanto uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto di suo padre e con questo tutti i suoi privilegi.
La validità di questa ipotesi può essere verificata coll’esame del mito di Edipo nel suo complesso, specialmente nella versione di Sofocle contenuta nelle altre due parti della sua trilogia, Edipo a Colono e Antigone.
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