Nature

FILOSOFI MORTI PER LE LORO IDEE

“Io sogno di un intellettuale distruttore delle evidenze e di tutto ciò che si pretende universale”. (M. Foucault)





Presentiamo qui una galleria di pensatori che hanno sacrificato la loro vita in nome delle loro idee, giuste o sbagliate che fossero. Una cosa è certa: meritano il nostro rispetto per la passione e la coerenza che ha caratterizzato la loro scelta. Piuttosto che rinunciare ai loro ideali, han preferito correre incontro alla morte. Ci scusiamo fin da adesso se abbiamo tralasciato alcuni martiri della filosofia: non era nelle nostre intenzioni, davvero.


“Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità. Inoltre è colpevole di avere corrotto i giovani. Si richiede la pena di morte “. Questa era l’infamante accusa che Anito e quelli del suo seguito presentarono ai danni di Socrate. Gli accusatori contavano probabilmente in un esilio volontario da parte del filosofo, com’era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora, ma egli non abbandonò la città e si sottopose al processo. Anche quando il suo discepolo Critone gli propose la fuga dal carcere in cui era rinchiuso nell’attesa di essere giustiziato, egli si oppose duramente: una legge ingiusta quale è quella che mi condanna, diceva Socrate, non va infranta; viceversa, bisogna battersi per farla cambiare. E così egli accettò la sua sorte: morì dopo aver trangugiato la cicuta e divenne il simbolo della libertà di pensiero. Era il 399 a.C.


Accettata l’ospitalità del nobile veneziano Giovanni Mocenigo nel 1592, Giordano Bruno fu da questi denunciato all’Inquisizione e fatto arrestare per i suoi dubbi sulla funzione della religione e i sospetti di eterodossia gravanti sulle sue dottrine. In un primo tempo riuscì ad evitare la condanna con una parziale ritrattazione, ma nel 1593 fu trasferito all’ Inquisizione di Roma e, dopo sette anni di carcerazione, fu condannato a bruciare sul rogo a Campo dei Fiori (Roma) il 17 febbraio del 1600: l’imputazione mossagli fu di dubitare della trinità, della divinità di Cristo e della transustanziazione, di voler sostituire alle religioni particolari la religione della ragione come religione unica e universale e di affermare che il mondo é eterno e che vi sono infiniti mondi. Più volte gli fu proposto di abiurare e di dichiarare false le sue idee: ma egli non accettò di scendere a compromessi e di rinunciare ai suoi ideali. Così fu bruciato vivo sul rogo. Correva l’anno 1600.


Nato nel 106 a.C. ad Arpino, nei pressi dell’attuale Frosinone, Marco Tullio Cicerone fu probabilmente la figura più poliedrica della cultura latina. Avvocato di successo, grande oratore e divulgatore della filosofia greca presso i Romani, attento custode del “mos maiorum” e propugnatore del “consensus omnium bonorum”, l’Arpinate compose una miriade di scritti sui più svariati argomenti. Ben presto, però, si inimicò l’influente Antonio, astro nascente della politica romana, a cui indirizzò le Filippiche: Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone, il cui nome venne inserito nelle liste di proscrizione. Venne raggiunto dai sicari presso Formia, dopo che aveva intrapreso un tentativo di fuga, ai primi di dicembre del 43 a.C.; pare che le sue mani, autrici di una miriade di scritti, siano state appese nel foro.


Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., Seneca visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre, celebre retore, e in seguito abbracciando lo stoicismo. Diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilizione per le arti, che per la filosofia: la collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l’uccisione di Burro, che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l’alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l’esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto, fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio. Come ci narra Tacito, si tagliò le vene e immerse i polsi nell’acqua calda.


Anicio Manlio Severino Boezio nacque a Roma verso il 480 dalla illustre famiglia degli Anicii. Rimasto presto orfano, ad educarlo provvide il tutore Aurelio Simmaco, di cui in seguito sposò la figlia. Nel 493 gli ostrogoti – sotto Teodorico – conquistano l’Italia e si stabiliscono a Ravenna, già sede imperiale. Teodorico, vissuto come ostaggio per una decina di anni alla corte di Bisanzio, ama circondarsi di membri dell’aristocrazia senatoria, e di questi fa parte anche Boezio, che nel 510 é eletto console e nel 522 nominato magister officiorum, cioè responsabile dell’amministrazione del regno, ma poco dopo é (ingiustamente) accusato di tramare con la corte di Bisanzio contro il dominio di Teodorico in Italia. Incarcerato a Pavia, Boezio scrive la sua opera più famosa, “La consolazione della filosofia” (De consolatione philosophiae), e verso il 524 é condannato a morte, con una sorte comune a quella di Socrate e di Seneca (come egli stesso ricorda nel suo scritto).


Vivace ingegno della cultura inglese rinascimentale, Thomas More (latinizzato in Tommaso Moro) conseguì la fama con “Utopia” (1517), in cui delinea, sulla scia di Platone, il suo ideale politico, un mondo più vivibile per tutti. Volle sempre promuovere un fattivo impegno nella realtà civile. E questo impegno More lo testimoniò con la vita: cancelliere del regno, egli fu condannato a morte (1535) da Enrico VIII per essere rimasto fedele alla Chiesa cattolica, quando il re, per risposarsi, chiese al papa, senza ottenerlo, l’annullamento del precedente matrimonio.


Filosofo di ispirazione marxista, eletto deputato al Parlamento nel 1924, Antonio Gramsci nello stesso anno divenne segretario del Partito comunista e fondò il giornale “L’ Unità”. Ma poco tempo dopo, nel 1926, fu arrestato dalla polizia (sebbene godesse dell’immunità parlamentare) e successivamente (1928) condannato dal tribunale speciale fascista a vent’ anni di reclusione. è rinchiuso a Regina Coeli. Al processo, tenuto a Roma nel maggio-giugno 1928, fu condannato a oltre vent’anni di reclusione. Il 18 novembre Gramsci è assegnato al confino per cinque anni a Ustica, dove giunge dopo soste nelle carceri di San Vittore a Milano e in quelle di Napoli e di Palermo. A Ustica abita in una casa privata con altri condannati politici con i quali organizza corsi di cultura differenziati a seconda del grado di preparazione dei partecipanti, allo scopo di educare i proletari, per i quali è un dovere, dice, non essere ignoranti, se vogliono essere protagonisti della politica e creatori di una nuova società. Per espiare la pena, Gramsci è poi destinato alla casa penale di Turi (Bari): vi rimane fino al dicembre 1933. Terminato il periodo di libertà condizionale concessagli, Gramsci riacquista la piena libertà, ma è in clinica ormai morente. Muore per emorragia cerebrale il 27 aprile. Il giorno seguente si svolgono i funerali. Le sue ceneri vengono inumate al cimitero del Verano a Roma e trasferite, dopo la Liberazione, al Cimitero degli Inglesi.


Pensatore liberale e studente universitario di acuta intelligenza, Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista. Nel 1922 promuove la nascita della rivista Rivoluzione Liberale che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberale. Nel settembre del ’25 è vittima di un atroce pestaggio fascista a Torino, lasciato esanime sulla porta di casa, con gravi ferite invalidanti. Costretto a espatriare in Francia, mai più riavutosi dalle ferite, muore esule a Parigi nel febbraio del 1926.

 

Filosofo siciliano di ispirazione hegeliana, Giovanni Gentile aderì con entusiasmo al fascismo, di cui fu uno dei padri spirituali. Promotore della riforma scolastica del 1923-24 che porta il suo nome, egli restò sempre fedele al regime: la sua fedeltà al partito fascista, in cui vide sempre l’espressione del moto risorgimentale di unità nazionale, lo portò ad aderire nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana; benché ormai confinato dallo stesso regime ad un ruolo politico pressoché nullo, questo non gli evitò di essere ucciso il 15 aprile del 1944 sulla soglia della sua abitazione a Firenze: fu trucidato barbaramente da un gruppo di partigiani.

 

Nata nel 1871 a Zamosc, nella Polonia russa, Rosa Luxemburg abbracciò fin dalla gioventù l’ideologia marxista e fu sempre contraria alla guerra, a tal punto da abbandonare nel 1914 la SPD tedesca perchè favorevole allo scontro bellico. Aderì dunque, con il compagno Karl Liebknecht, alla Lega di Spartaco, movimento rivoluzionario tedesco: criticò l’involuzione autoritaria e dittatoriale che aveva assunto la Russia di Lenin e proprio per questo è diventata patrimonio culturale tanto del comunismo quanto del socialismo. Nel gennaio 1919, dopo l’insurrezione “di Spartaco”, i socialdemocratici posero una taglia di 100.000 marchi su Luxemburg e Liebknecht. Arrestati entrambi il 15 gennaio, furono assassinati durante il trasporto in auto al carcere. Rosa Luxemburg aveva 48 anni. Il suo corpo, gettato in un canale, fu trovato solo alcuni mesi dopo; le autorità riuscirono a impedire che fosse sepolto a Berlino, per timore di manifestazioni e incidenti.


Pur non rientrando propriamente nel novero dei filosofi canonici, ci piace ricordare anche le travagliate vicende di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Essi hanno una storia analoga a tanti altri emigranti: partiti per gli USA alla ricerca di una terra promessa che si rivela fatale, la loro professione anarchica e atea è una delle cause, oltre alla miseria, della loro partenza per quel continente carico di speranze e aspettative. A loro, purtroppo, toccò la condanna più infamante per qualsiasi lavoratore o lavoratrice: furto e omicidio. L’omicidio del ragioniere che consegnava le paghe il 15 aprile 1920, è ormai cosa certa, non fu mai commesso dai due compagni; i capi d’accusa furono vagamente ricostruiti su testimonianze incerte ed approssimative: l’obiettivo della giustizia americana era tutt’altro: colpire due persone, anche innocenti, non per il reato imputatogli, ma per la loro attività politica pubblicamente nota. Gli USA negli anni ’20 erano un paese teso ed infestato da “sporchi rossi”, come espicitamente ammise uno dei giudici popolari, dunque era necessario creare il precedente, far capire a tutti e tutte che la giustizia si sarebbe mossa in maniera implacabile contro ogni oppositore del sistema. Il processo durò solo sette settimane ed a questo seguirono numerosi appelli di clemenza, ma la sorte di Nicola e Bartolomeo era segnata dal giorno in cui iniziò la loro odissea. “Ora ho capito, invece, che soffro perchè sono colpevole. Sto soffrendo perchè sono colpevole di essere un rivoluzionario, ed indubbiamente lo sono; sto soffrendo perchè sono italiano, ed indubbiamente ero e sono un italiano; sto soffrendo molto più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono sinceramente convinto di aver ragione, al punto che se mi condannassero due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei nello stesso modo, come ho fatto fino ad oggi”, scrisse Bartolomeo. Nel 1977 lo stato del Massachusetts ha riabilitato i due anarchici, mettendo in dubbio la correttezza del procedimento, ma non dichiarandone l’illeggittimità di fondo. Ad ogni modo ciò non serve a riportare in vita Nick e Bart, come erano chiamati dai loro compagni statunitensi, e non riduce minimamente la colpevolezza di una potenza che ancora oggi fa della morte uno strumento di giustizia.

“Se non fosse stato per quest’evento, avrei vissuto la mia vita tra gli uomini disprezzati. Sarei morto ignoto, sconosciuto, un fallito. Questa è allo stesso tempo la nostra carriera ed il nostro trionfo. Mai in tutta la nostra vita, abbiamo sperato di lavorare per la tolleranza, per la giustizia, per la comprensione tra gli uomini, come invece ci capita di fare in questo momento. Le nostre parole, le nostre vite, i nostri dispiaceri… di colpo il nulla! La fine delle nostre vite – la vita di un buon calzolaio e di un povero pescivendolo – è tutta qui!” (Nicola Sacco)

 

Citazioni

"La retorica, dunque, a quanto pare, è artefice di quella persuasione che induce a credere ma che non insegna nulla intorno al giusto e all'ingiusto". (Platone, "Gorgia")
(Visualizzazioni 219 > oggi 1)