FILOSOFIA DEL ‘900 – Parte 2
“La sola realtà solida, che mi sia dato affermare, e con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è cosí una realtà, soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o, tout court, all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto” (G. Gentile, Introduzione alla filosofia)
ROSS
A cura di F. Allegri
Sin dai suoi esordi l’etica teorica di W. D. Ross (1877-1971) si presenta come una terza via rispetto a forme rigide di deontologismo (che lui denomina con l’etichetta out-and-out intuitionism) e rispetto all’utilitarismo (che, a suo avviso, ha raggiunto la forma più equilibrata nella versione agatistica o ideale di G. E. Moore). Le forme rigide di deontologismo a cui si contrappone Ross sono sia quelle che negano alcuna rilevanza agli effetti delle azioni in termini di beni e mali (il cosiddetto deontologismo puro), sia quelle che si esprimono in termini di doveri (e, più spesso, di divieti) assoluti (il `deontologismo assolutista’); due forme strettamente connesse, com’è ovvio, ma da tenere distinte (e forse non solo in linea teorica): è del tutto possibile che un deontologo puro non sia assolutista, ossia non ammetta doveri incondizionati, e che un deontologo assolutista non sia puro, ossia disponga di un principio che prescrive di considerare gli effetti positivi e negativi delle azioni. Un esempio di deontologismo puro (o quasi puro) ma non assolutista può essere considerato Prichard; un esempio di deontologo assolutista ma non puro può essere forse costituito da Kant. Nonostante che un atteggiamento del tutto anticonseguenzialista e antiassiologista sia manifestato dal suo maestro Prichard, perlomeno nel suo saggio più celebre, e uno dei pochi pubblicati, (Does Moral Philosophy Rest on a Mistake?), Ross mostra un’evidente avversione per l’out-and-out intuitionism. Questo è un’importante segno di distinzione da Prichard, il quale ispira sì, per la stessa ammissione di Ross, alcune delle sue tesi, ma di cui non può essere considerato un semplice epigono, come talvolta capita di leggere, quasi che Ross non abbia formulato tesi originali e si sia limitato a riproporre le idee del suo maestro. Le forme rigide di deontologismo possono avere il problema logico di implicare che una medesima azione sia nel contempo giusta ed ingiusta (se assumono una pluralità di doveri o divieti assoluti) e presentano elementi di indubbia controintuitività (asseriscono che non esiste circostanza alcuna che possa giustificare una o più modalità di azioni, oppure che le conseguenze catastrofiche di un atto non hanno alcun peso sullo status deontico o normativo dell’atto). Il simbolo filosofico dell’out-and-out intuitionism è visto da Ross nell’etica di Kant. Se sulla purezza del deontologismo kantiano è lo stesso Ross ad avanzare dei dubbi, sul carattere assolutista dell’etica deontologica di Kant Ross non transige: è convinto che Kant abbia sostenuto che si danno almeno alcuni doveri che non conoscono eccezioni. La sua convinzione si fonda principalmente sull’idea che la distinzione kantiana tra `doveri perfetti’ e `doveri imperfetti’, vada interpretata come una distinzione tra doveri incondizionati (che non cedono mai la precedenza) e doveri condizionati (che talvolta cedono la precedenza). Anche se nella Grundlegung zur Metaphysik der Sitten e nella Kritik der praktischen Vernunft non vi sono appigli espliciti per una tale interpretazione (che però non è neppure esclusa, perché le applicazioni del test di universalizzazione da parte di Kant possono lasciare l’impressione che doveri come `dire la verità’, `mantenere le promesse’, `pagare i propri debiti’ ecc. non conoscano deroghe), la pratica operativa di Kant sembra confermare in più occasioni la tesi di Ross (ribadita da quest’ultimo anche nel suo commentario esegetico della Grundlegung dal titolo Kant’s Ethical Theory, uscito alla metà degli anni Cinquanta). Kant quando si impegna in discussioni di etica pratica sostiene a spada tratta e con una buona dose di dogmatismo il carattere incondizionato di taluni divieti, mostrando una totale conformità ai dettami della morale giudaico-cristiana (si veda la posizione assolutista di Kant a proposito del suicidio, sia in Die Metaphysik der Sitten che nel testo postumo che raccoglie le sue Lezioni di etica, e la ben nota quanto stupefacente presa di posizione sulla menzogna nella replica a Benjamin Constant). In questi scritti minori (e forse non solo in questi) sembra che Kant confonda la categoricità del dovere con la sua assolutezza e l’universalità di una massima con la sua generalità, ossia col fatto di non essere specifica. Né serve a chiarire l’incongruenza la formula un po’ `bizantina’ adottata in proposito da Landucci, per il quale secondo Kant “tutti i doveri sono sì parimenti assoluti ed inderogabili, se considerati in se stessi, e nondimeno uno può avere il sopravvento sull’altro, nelle situazioni concrete in cui un soggetto venga a trovarsi”, perché sembra un vano esercizio di quadratura del cerchio (se un dovere è assoluto allora non può essere sopravanzato da altri, pena la perdita della sua assolutezza; e se può essere sopravanzato da altri allora non è assoluto; che sia assoluto in se stesso e non in rapporto agli altri è scontato e pleonastico). L’etica dei doveri assoluti attaccata da Ross ha comunque indubbie esemplificazioni nella tradizione filosofica (basti pensare all’etica tomistica) e sopravvive sicuramente anche oggigiorno, sia nelle forme non filosofiche del magistero ecclesiastico, sia in quelle filosofiche dei cosiddetti neo-deontologi contemporanei (Anscombe, Fried, Donagan ecc.). Sull’altro versante anche l’utilitarismo, secondo Ross, non si accorda pienamente con le nostre intuizioni più ponderate. Esso non coglie il carattere altamente personale di una parte dei nostri doveri (fedeltà, gratitudine, riparazione) e sembra ridurre le nostre relazioni morali con gli altri a quella tra benefattore e beneficiario. Per dirla con la terminologia oggi in voga, l’utilitarismo si muove in una prospettiva interamente agente-neutrale, mentre invece la moralità consta anche di elementi agente-relativi. Sin dai tempi di Butler e di Richard Price (il primo è richiamato espressamente da Ross a tal proposito) è stato messo a punto un modello di critica all’utilitarismo che tuttora non conosce controrepliche convincenti, e che Ross ripropone e amplia rispetto alle formulazioni settecentesche. Tale modello si basa sul metodo che oggi si chiama dell’equilibrio riflessivo, per il quale le implicazioni di un principio morale devono essere coerenti con i nostri giudizi ponderati riguardo a casi particolari. Quando una teoria si trova in conflitto con le nostre convinzioni riflessive su un caso particolare, questo è un buon motivo per abbandonarla o per correggerla. Anche se la dimostrazione della semplice equivalenza estensionale tra `giusto’ e `che massimizza l’utilità generale’ non proverebbe ancora che il bilancio comparato degli effetti è il fondamento della giustezza delle azioni (in quanto per dimostrare ciò non è sufficiente mostrare che tutti gli atti giusti massimizzano l’utilità e tutti gli atti che massimizzano l’utilità sono giusti, ma che tutti gli atti che sono giusti sono tali perché massimizzano l’utilità generale), il problema non si pone neppure secondo Ross poiché si può far vedere che l’equivalenza estensionale tra `giusto’ e `che massimizza l’utilità generale’ non si dà. Se fosse vero che l’unica considerazione rilevante per stabilire se un’azione è giusta o meno è data dalla totalità delle sue conseguenze in termini di beni e mali prodotti sulla totalità degli esseri senzienti, comparate con le conseguenze di ciascuna delle azioni alternative alla portata dell’agente, allora se le due azioni alternative A e B più benefiche (o meno dannose) producessero le medesime conseguenze in termini di beni e mali sulla totalità degli esseri senzienti, la loro qualità morale non potrebbe che essere la stessa, sarebbero giuste allo stesso modo, sarebbe indifferente optare per l’una o per l’altra purché si opti per una delle due. Nessun altro fattore concernente le due azioni sarebbe rilevante. Ma mettiamo che mentre la prima (A) comporta o la violazione di una promessa, o la mancata riparazione di un danno procurato o, ancora, la mancata restituzione di un favore ricevuto, la seconda (B) consista proprio nell’adempimento a tale promessa o nella riparazione del danno procurato, o, ancora, nella restituzione del favore ricevuto. Non diremmo che questo elemento differenzia moralmente le due azioni a vantaggio della seconda? Non risulta chiaro che non è indifferente optare per l’una o per l’altra (visto che massimizzano l’utilità allo stesso modo), ma che invece è sicuramente B l’azione da mandare ad effetto dal punto di vista morale, perché a parità di beni e mali prodotti non comporta la trasgressione di una promessa o la mancata riparazione di un danno procurato o la mancata restituzione di un favore ricevuto? Analogamente, nel caso in cui, ferme restando le altre condizioni dell’esempio, la somma algebrica risultante dalle conseguenze di A superasse solo lievemente (di un’infinitesima parte) la somma algebrica delle conseguenze di B, davvero sarebbe obbligatorio come implica l’utilitarismo eseguire l’azione A? Non sarebbe doveroso invece, o perlomeno lecito, mandare ad effetto B? Non sarebbe necessario, si chiede Ross, un maggior divario tra la somma algebrica risultante da A e quella risultante da B per giustificare, rispettivamente, la trasgressione della promessa, la mancata riparazione del danno procurato, la mancata restituzione del favore ricevuto, comportata dall’esecuzione dell’azione A? L’aspetto interessante è che Ross non utilizza affatto un metodo nuovo per confutare l’equivalenza estensionale tra `giusto’ e `che massimizza l’utilità’, ma esattamente lo stesso test adottato da Moore per dimostrare l’erroneità di una teoria monista del valore intrinseco. Nel settimo e ultimo capitolo di Ethics (1912), Moore aveva individuato quale punto debole delle teorie utilitariste a lui precedenti la tesi per cui l’unica cosa che ha valore intrinseco è il piacere. A suo avviso tale tesi implica conseguenze paradossali. L’edonismo assiologico comporta che due ipotetici mondi che contengano la medesima quantità di piacere abbiano lo stesso valore intrinseco (l’uno non sia in alcun modo preferibile all’altro), anche se nel primo gli individui possedessero una serie di conoscenze enormemente superiore a quelle degli individui del secondo e vivessero una serie di esperienze estetiche e sentimentali non sperimentate dagli individui del secondo mondo. Comporta inoltre che se la quantità di piacere esperita nel primo mondo fosse appena superiore a quella esperita nel secondo, il primo mondo avrebbe un valore intrinseco superiore al secondo, pur non contenendo tutte le conoscenze scientifiche e le esperienze estetiche e sentimentali contenute nel secondo. A Moore questo test appare una reductio ad absurdum dell’edonismo assiologico e la base per confutare qualsiasi altra teoria monista del valore.
Ma non sembra rendersi conto che questo stesso esperimento mentale (il test dei due mondi), che lui adotta per criticare una forma di monismo assiologico, poteva essere benissimo usato contro di lui, come fa Ross, ossia poteva essere rivolto contro la sua teoria monista dell’obbligo. Si potrebbe dire che lo stesso argomento che Moore adotta contro l’edonismo gli si ritorce contro per quel che riguarda il suo conseguenzialismo, ossia per l’idea che conti solo la produzione di beni e di mali per rendere giusta un’azione. Ross, seguendo Sidgwick e Broad, estende questo modello anche alla sfera della giustizia distributiva, avendo buon gioco nel far vedere come l’utilitarismo classico (cioè l’utilitarismo dell’atto, edonista e del totale) e quello ideale nella versione di Moore non forniscono risposte soddisfacenti a due problemi che sorgono in tale ambito. Innanzitutto essi implicano quella che Parfit cinquant’anni dopo avrebbe chiamato la `conclusione ripugnante’, che forse esposta in termini di sofferenze è ancor più efficace della versione presentata da Parfit per mettere in luce l’inadeguatezza dell’utilitarismo classico e di quello di Moore. Supponiamo di essere posti di fronte a due politiche demografiche alternative, la prima che dà origine ad un mondo A popolato da pochissime persone (mettiamo 4) che vivono una vita fatta esclusivamente di stenti e sofferenze e la seconda che dà origine ad un mondo B popolato da moltissime persone (supponiamo 600) che soffrono solo lievemente, ma in maniera tale, dato l’ampio numero degli abitanti in esso presenti, da rendere la sofferenza totale di B maggiore di A. La situazione è ben illustrata dal seguente grafico, dove S1 … Sn indicano gli individui del primo mondo, T1 …Tn quelli del secondo e i valori numerici incolonnati sotto A e B indicano, rispettivamente, il grado di malessere sopportato da ciascun individuo di A (-100) e il grado di malessere sopportato da ciascun individuo di B (-1).
S1 – 100 T1 -1
S2 -100 T2 -1
S3 – 100 T3 -1
S4 – 100 T4 -1
———- . .
– 400
. .
T600 -1
———-
– 600
Se guardiamo solo all’utilità totale, come implicano sia l’utilitarismo classico che quello di Moore, allora siamo costretti a dire che è obbligatorio optare per A perché minimizza le sofferenze totali. Ma credo invece risulti evidente che sarebbe molto più ragionevole optare per il mondo B. Già Sidgwick aveva presente il problema, ma gli sembrava che fosse più conforme allo spirito utilitaristico puntare alla massimizzazione dell’utilità totale. Per replicare a questa critica di Ross e di Broad non è necessario fuoriuscire dall’utilitarismo. Come è noto, il cosiddetto utilitarismo della media viene incontro proprio a questo tipo di problema, asserendo che per avere dei responsi equilibrati è necessario suddividere l’utilità totale di ciascuna alternativa di azione per il numero di individui coinvolti. In questo modo è possibile incidere significativamente in quei contesti in cui linee di azione alternative hanno a che fare con quantità diverse di persone, come nel caso delle politiche demografiche. Riguardo all’esempio precedente, l’utilitarismo della media prescriverebbe come doverosa la politica che dà vita al mondo B e non più quella che dà origine al mondo A perché, come è facile constatare, l’utilità media di B (-1) è nettamente più alta di quella di A (-100). Ma neppure una tale versione di utilitarismo riesce a parare l’obiezione più classica rivolta alle teorie utilitariste sulla giustizia distributiva. Essa consiste nell’applicare il modello `a due versioni’ presentato precedentemente (due linee di azione A e B che producono grosso modo la medesima somma algebrica) in cui all’alternativa `mantenere-non mantenere la promessa fatta’, `riparare-non riparare il torto procurato’ ecc. si sostituisce l’alternativa `distribuire ugualmente o non ugualmente la medesima quantità di beni’. Se il numero di individui coinvolti è il medesimo, l’utilitarismo della media si presenta come estensionalmente equivalente a quello del totale. Essi implicano che nel caso in cui due azioni A e B producano la medesima eccedenza di bene sul male e A la distribuisce in maniera uguale a tutti mentre B la distribuisce in maniera disuguale, sia soltanto lecito moralmente eseguire A e non obbligatorio, quando invece è più plausibile pensare che A sia obbligatoria e non semplicemente lecita. E anche nel caso in cui l’utilità prodotta da A sia lievemente inferiore a quella prodotta da B, ma contrariamente a quest’ultima sia distribuita ugualmente, risulta A l’azione obbligatoria o perlomeno lecita, mentre per l’utilitarismo è obbligatoria (e non solo lecita) l’azione alternativa B. L’argomento viene invece preso sul serio da Pontara, ma non mi sembrano convincenti le repliche da lui avanzate dal punto di vista dell’utilitarismo classico. Esse si basano principalmente su due argomentazioni: la prima è che non si danno parametri adeguati per misurare distribuzioni disuguali di beni; la seconda è che se aggiungiamo al valore dei benefici anche quello della loro distribuzione, non disponendo di un modello che ci dica quando ha la precedenza l’uno e quando ha la precedenza l’altro, la teoria dell’obbligo perde la sua completezza. Riguardo alla prima argomentazione, Pontara mette in luce molto seriamente, avvalendosi dei contributi più recenti delle scienze economiche, quanto sia problematico individuare una misura della disuguaglianza, ossia un criterio per confrontare e valutare distribuzioni disuguali. Egli analizza ben 15 possibili metodi di misurazione della disuguaglianza e nessuno di essi soddisfa ragionevoli criteri di idoneità. Ragion per cui fra due distribuzioni disuguali degli stessi beni è estremamente difficile stabilire quale sia la più equa, la meno disuguale. Ma la sua replica non sfiora minimamente il caso in cui una delle due distribuzioni, a parità di utilità prodotta, è ugualitaria. Ossia, rimane il fatto che nel caso in cui due azioni A e B producano la medesima somma algebrica e A la distribuisce in maniera uguale a tutti mentre B la distribuisce in maniera disuguale, l’utilitarismo ritiene soltanto lecito moralmente mandare ad effetto A e non obbligatorio, quando invece è più plausibile pensare che A sia obbligatoria e non semplicemente lecita. E anche nel caso in cui l’utilità prodotta da A sia lievemente inferiore a quella prodotta da B, ma contrariamente a quest’ultima sia distribuita ugualmente, risulta più plausibile considerare A se non l’azione obbligatoria perlomeno lecita, mentre per l’utilitarismo è obbligatoria (e non solo lecita) l’azione alternativa B. Quindi anche concedendo a Pontara (ma è una concessione che si può provare perlomeno a scalfire, anche se questa non è la sede perché richiederebbe troppo tempo) che non esiste una misura plausibile della disuguaglianza (che non si possono confrontare, dicendo qual è più equa, due azioni che distribuiscono in modo disuguale gli stessi beni), l’obiezione costruita sul modello in questione mantiene una parte consistente della sua forza. Perché essa è rivolta anche e soprattutto a quei casi in cui due azioni alternative non distribuiscono in maniera disuguale la stessa quantità di beni, ma l’una li distribuisce in maniera ugualitaria e l’altra no. E per tali casi l’utilitarismo (del totale e della media) continua a mostrare tutta la sua inadeguatezza. Quanto alla seconda argomentazione, è dubbio, al contrario di quello che pensa Pontara, che la completezza sia un requisito fondamentale per le teorie morali. In proposito si possono registrare le opinioni negative di molti filosofi morali. Pontara e gli utilitaristi classici sembrano pretendere troppo da una teoria morale. Essa invece non può e non deve fornirci un prontuario di risposte da applicare meccanicamente. Direi anzi che negli ultimi vent’anni tra sostenitori delle etiche della virtù, anti-teorici (cioè, coloro che ritengono che le teorie morali non svolgono alcuna funzione) e particolaristi etici, la posizione di Pontara è largamente minoritaria. Non solo la completezza non viene considerata un requisito fondamentale per un sistema morale, ma addirittura viene giudicata una caratteristica negativa, in quanto lede l’autonomia di giudizio del singolo nelle situazioni particolari. Quindi l’incompletezza non è necessariamente un difetto, come Pontara sembra ritenere. La completezza sarà semmai un requisito irrinunciabile per le teorie utilitariste, che sin dalle origini vi ambiscono. Ma allora la questione che pone Pontara sarà un problema per il cosiddetto `utilitarismo esteso’, che prova a coniugare insieme in un sistema di calcolo felicità ed uguaglianza, non tanto per le teorie che si chiamano fuori dalla sfera utilitarista. E in ogni caso, anche considerando la completezza un requisito positivo ed importante in un sistema morale, a me pare che sia preferibile tenersi l’incertezza sul conflitto tra un principio di utilità e un principio di distribuzione uguale piuttosto che disporre di un sistema completo che però sull’altare della completezza sacrifica le esigenze della giustizia. Come ho già sottolineato, il presupposto di questo test delle due linee di azione o dei due mondi sta nell’idea rossiana (solo implicita e non teorizzata in Butler e Price) che le teorie morali debbono accordarsi alle nostre intuizioni ponderate e non viceversa (come ai nostri giorni sembra invece sostenere P. Singer). Questa tesi è stata spesse volte stravolta da alcuni utilitaristi, come se quello di Ross fosse un mero appello all’uomo della strada, pieno di quei pregiudizi (quei tabù, quelle superstizioni) che si leggono nelle rubriche di lettere ai giornali. È vero che in Ross vi è più di un passaggio che fornisce un alibi a quest’atteggiamento, ma quando la questione è posta in termini approfonditi), allora emerge limpidamente che il richiamo di Ross è rivolto alle convinzioni riflessive delle persone lucide e ben informate. E inoltre non si dovrebbe dimenticare che la pratica operativa di Ross va quasi sempre in questa direzione (l’utilitarismo non è certo criticato tramite un semplice appello all’uomo comune). Mentre Moore è convinto che l’unica alternativa all’idea di doveri assoluti sia costituita da un appello esclusivo alle conseguenze e assimila le nozioni di `azione assolutamente giusta’ e `azione intrinsecamente giusta’), Ross ritiene che si dia una terza possibilità, che consiste appunto nel tenere distinte le due locuzioni fatte collassare da Moore. Che vi siano classi di azioni intrinsecamente giuste non implica che esse siano assolutamente giuste, ossia che debbano essere eseguite incondizionatamente. È possibile che si diano generi di azioni giusti di per sé, senza che questo significhi che ogni qualvolta essi sono coinvolti in una situazione debbano essere eseguiti. I doveri a cui tali generi di azioni danno origine non sono quindi
doveri assoluti, ma doveri relativi, che Ross denomina con l’etichetta `doveri `prima facie’ (un’espressione infelicissima anche se storicamente ha vinto su locuzioni più adeguate; essa va concepita come una formula tecnica che non ha il valore semantico della locuzione latina che la esprime). Moore non comprende che se il conseguenzialismo è una condizione sufficiente per negare che ci siano azioni assolutamente giuste e quindi per risolvere il problema del conflitto logico tra doveri, non è una condizione necessaria. Per Ross, oltre alla valutazione delle conseguenze, vi sono tipi di azioni (come mantenere le promesse, restituire un favore ricevuto
ecc.) i quali danno origine ad obblighi indipendenti dalle conseguenze (lo abbiamo visto con il test delle due linee di azione), ma che non per questo sono improrogabili, ossia debbono essere eseguiti sempre, senza che vi sia circostanza alcuna che ne giustifichi la trasgressione. È questo un altro modo per risolvere il problema della potenziale incoerenza logica delle teorie deontologiche assolutistiche. Ma la prospettiva di Ross si rivela ancora più radicale dell’utilitarismo nel rifiuto di doveri assoluti, perché se tale rifiuto è condiviso con l’utilitarismo a livello di classi di azioni, non è più condiviso a livello di princìpi. Anche l’utilitarismo ritiene
che non vi sia una classe di azioni (dire la verità, mantenere gli impegni, non uccidere ecc.) che debba sempre essere eseguita senza eccezioni, ma a livello di princìpi l’utilitarismo si presenta come una nuova forma di assolutismo, secondo Ross, perché ammette come assoluto e non derogabile il principio che prescrive di massimizzare l’utilità collettiva. Per Ross anche il dovere di massimizzare il benessere e minimizzare i danni va concepito come un dovere prima facie e come tale talvolta deve cedere la precedenza agli altri doveri. Da questo punto di vista Ross ritiene che il suo sistema, anche se meno elegante e semplice, sia più equilibrato di quello kantiano in cui gli obblighi perfetti hanno sempre la precedenza sugli obblighi imperfetti e di quello utilitarista in cui l’istanza di massimizzazione regge e governa tutte le altre norme.
PAUL TILLICH
” Chi è nella morsa del dubbio e della mancanza di significato non può liberarsene; ma cerca una risposta che sia valida dentro lo stato della sua disperazione, e non al di fuori. Cerca il fondamento assoluto di quello che abbiamo chiamato il ‘coraggio della disperazione’. Esiste una sola risposta possibile, se non si cerca di evitare la domanda; cioè che l’accettazione della disperazione è in se stessa fede e si trova sulla linea di confine del coraggio di esistere. In questa situazione il significato della vita si riduce alla disperazione del significato della vita. Ma finchè è un atto di vita, questa disperazione è positiva nella sua negatività. ” (Il coraggio di esistere, cap. VI)
Paul Tillich (1886-1965) elaborò una teologia che si colloca in una prospettiva per molti aspetti antitetica rispetto a quella elaborata da Karl Barth. Anch’egli convinto del tramonto del compromesso tra cristianesimo e filosofia ottocentesca (convinto anche attraverso l’esperienza della prima guerra mondiale vissuta in prima persona come cappellano dell’esercito tedesco) militò dapprima nella corrente del “socialismo religioso”, insegnando in diverse università della Germania; quindi, all’avvento del nazismo, fu rimosso dalla cattedra e riparò negli stati Uniti d’America, dove operò fino alla morte nelle università di Columbia, Harvard e Chicago. Come ricorda egli stesso nello scritto autobiografico dal titolo significativo ” Sulla linea di confine “, la doppia esperienza di vita in mondi così diversi fece di lui un teologo “alla frontiera” : immagine che esprime anche lo spirito di tutta la sua teologia, imperniata appunto sul vedere tra l’uomo e Dio un “confine” che, proprio in quanto tale, mentre li separa, li unisce e fonda la loro relazione. Infatti, nella sua opera principale elaborata per più di quarant’anni, la ” Teologia sistematica “, così come negli scritti minori che l’accompagnano, Tillich elabora una prospettiva teologica fondata su quello ch’egli chiama il principio della correlazione : non il “salto” di Barth, che relega Dio in una lontananza inaccessibile, bensì una “mutua relazione” in cui Dio stesso è scorto come la profondità dell’essere. Non si tratta, dunque, di insistere sul tema della radicale incompatibilità tra teologia e filosofia, quanto di saper scorgere tra di esse, dopo la crisi che ne ha spazzato le vecchie forme, un nuovo e più autentico nesso che risponda ai problemi dell’uomo moderno. Il messaggio cristiano, per essere valido per le generazioni di tutti i tempi, deve poter essere mediato, pur preservando la sua verità intemporale, con le differenti forme di pensiero e di espressione che sono specifiche delle diverse epoche, in modo da essere in grado di instaurare un dialogo anche e soprattutto con i non credenti . Tale compito “apologetico”, misurandosi con l’oggi, potrà anche trovarsi a dover rinunciare alla parola “Dio”, qualora questa appaia troppo sospetta o insignificante, poiché incapace di esprimere ” gli abissi della vita “, la sorgente dell’essere e la sua profondità: in questi elementi risiede infatti la base del dialogo e della possibilità d’intendersi, e chi è attento alle sfere profonde della realtà non potrà dirsi veramente ateo. In ultima analisi (afferma Tillich di fronte al clima esistenzialistico a cui si mostra estremamente attento) il nome “Dio” deve indicare il luogo di una possibile risposta alle domande dell’uomo, alla sua angoscia e alla sua crisi, e suggerirgli il ” coraggio di esistere “. Tillich rivendica la dimensione “ontologica” della fede , non risolvibile in affermazione teorica né, tanto meno, in esperienza psicologica. Essa è piuttosto incondizionata accettazione esistenziale del trascendente, e pertanto non è un’opinione, ma lo stato di chi si lascia afferrare dall’essere e solo perciò è in grado di affermare se stesso. Ciò significa che essa è in fondo l’unica possibilità autentica in un’epoca segnata dalla frammentazione, dall’angoscia e dalla mancanza di significato. Questa possibilità non consiste in una velleitaria pretesa di vincere la disperazione, ma nell’accettazione piena della disperazione stessa, che si rivela paradossalmente positiva proprio nella sua negatività: è cioè riconoscimento del potere dell’essere nel pieno della stretta del non-essere.
“ La fede che rende possibile il coraggio della disperazione è l’accettazione del potere dell’essere, anche nella morsa del non-essere. Anche nella disperazione del significato l’essere si afferma per mezzo nostro. L’atto di accettare la mancanza di significato è in se stesso un atto significativo. E’ un atto di fede. Abbiamo visto che chi ha il coraggio di affermare il suo essere nonostante il fato e la colpa, non elimina affatto il fato e la colpa. Continua a essere minacciato e colpito. Ma accetta la sua accettazione grazie al potere dell’essere in sé, al quale partecipa e che gli dà il coraggio di prendere su di sé le angosce del fato e della colpa. Lo stesso si può dire del dubbio e della mancanza di significato. La fede che crea il coraggio di includerli non ha un contenuto speciale. E’ semplicemente fede, indiretta, assoluta. E’ indefinibile, poiché tutto ciò che è definito è dissolto dal dubbio e dalla mancanza di significato […]. Il coraggio di esistere ha le sue radici in quel Dio che appare quando Dio è scomparso nell’angoscia del dubbio “.
Questo è quanto mostra appunto il “principio di correlazione”, che consente di pensare il rapporto fra la domanda dell’uomo e la risposta di Dio. Si può anche dire che l’uomo sia, essenzialmente, una domanda la cui esistenza non è che la tensione a una possibile risposta che Dio liberamente gli dona, ma nelle forme che via via, nelle diverse condizioni storiche e culturali, l’aspettativa umana è in grado di recepire. Ciò non vuol dire certamente che tale correlazione sia per Dio necessaria (ciò vorrebbe dire dissolverne la libertà e farlo dipendente dall’uomo) né che la sua risposta sia in qualche modo forzata dalla domanda umana. Domanda e risposta restano assolutamente indipendenti, né l’una può essere inferita dall’altra, pur essendole correlativa. E’ dunque necessario esplorare le correlazioni sia dal punto di vista della domanda, sia, per quanto è possibile, da quello della risposta; e in ciò consiste l’intero movimento della teologia che, recuperando un fecondo rapporto con la filosofia nell’orizzonte della domanda sull’essere dell’uomo, riconosce al contempo il suo fondamento nella rivelazione come luogo della risposta divina. Il nesso di “domanda” e “risposta” si svolgerà allora comprendendo che la rivelazione è la risposta alle questioni poste dalla ragione , e scorgendo in Dio la risposta al problema dell’essere, in Cristo la risposta al problema dell’uomo, nello Spirito Santo al risposta al problema della vita, nel regno la risposta al problema della storia. La polarità fondamentale viene ovunque riproposta e mantenuta nella sua tensione, sulle orme della visione scissa e problematica dell’uomo che Tillich eredita dall’esistenzialismo e che comunque è tipica del Novecento. In particolare, bisogna notare che nel trattare della polarità tra essere e Dio Tillich si richiama alla tradizione della mistica tedesca e al pensiero dell’ultimo Schelling. La concezione dell’essere come precarietà e angoscia (quale emerse dall’analisi dell’esistenza umana) e quindi come costitutiva finitezza, non consente più di conferire a Dio il tradizionale attributo dell’essere. Se tuttavia è necessario vedere in lui la risposta al problema ontologica, alla domanda fondamentale dell’uomo, Dio non potrà dirsi “totalmente altro” dall’essere, quanto piuttosto il suo fondamento, cioè colui che pone l’essere stesso e ne è Signore. Solo in quanto tale Dio può fornire una risposta al problema dell’essere, risposta che però deve inscriversi, per poter essere colta dall’uomo, nelle condizioni della sua esistenza. Questo il fondamento della Cristologia di Tillich, che vede in Cristo la realizzata unità del divino e dell’umano in una vita storica concreta e data nel tempo, quindi la risposta suprema, ma accessibile a ogni uomo, perché data nella dimensione dell’umano, in una persona. Se Cristo è la risposta alla domanda dell’esistenza, il cristianesimo si distingue da ogni limitata forma di religione ed è anzi ben più di una religione: l’incarnazione è la chiave di volta del senso della storia, il cui culmine, il regno di Dio, non è da vedersi come “altro” dal tempo, ma come la sua realizzazione più profonda. La teologia di Tillich confluisce pertanto in una visione escatologica che non annulla la storia, ma che vede nella “vita eterna” l’immanente riscatto del male e della negatività storica.
HANS GEORG GADAMER
L’esperienza di verità si dà solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione.
VITA E OPERE
Hans Georg Gadamer (1900-2002), allievo di Heidegger a Marburgo, ha sviluppato alcuni aspetti del suo pensiero elaborando un’ermeneutica filosofica. Tradizionalmente, con ermeneutica ( dal greco hermeneus , che vuol dire colui che fa da interprete e media fra chi enuncia un messaggio e chi lo riceve ) s’intende la tecnica dell’interpretazione, elaborata e impiegata in discipline come la teologia, la filologia classica e la giurisprudenza, allo scopo di comprendere il significato di testi sacri o profani o delle leggi. Nell’Ottocento l’ermeneutica si era posta l’obiettivo di capire un autore meglio di quanto si fosse egli stesso compreso (caso tipico era stato quello di Schleiermacher con Platone). Per far questo si riteneva necessario riprodurre il passato in modo da riviverlo. La comprensione di un testo era vista come condizionata da un circolo fra la totalità del testo e le sue singole parti: il senso del tutto è ricostruibile a partire da quello delle parti, ma quest’ultimo, a sua volta, presuppone che sia conferito un significato preliminare al tutto. In queste prospettive il problema dell’interpretazione era concepito come proprio delle cosiddette scienze dello spirito, in primis della storiografia. In Essere e tempo Heidegger aveva, invece, mostrato che la comprensione è costitutiva della struttura dell’esistenza: l’esserci ha la prerogativa di comprendere se stesso e l’interpretazione è l’articolazione di questa comprensione, consistente nell’appropriarsi di quel che si è compreso. In tal modo, l’interpretazione cessava di essere soltanto un problema metodico e gnoseologico delle cosiddette scienze dello spirito, ma si trasformava in un più generale problema ontologico. Anche nella prospettiva di Heidegger essa appariva caratterizzata da un circolo: la comprensione, infatti, è sempre condizionata da una pre-comprensione, che si è venuta costruendo storicamente e nella quale l’esserci che comprende si trova situato, ma a sua volta la pre-comprensione è anche sempre messa in gioco e modificata attraverso la comprensione. Questo è il punto di partenza, che determina l’obbiettivo dell’ermeneutica filosofica di Gadamer: mettere in chiaro le strutture della comprensione e dell’interpretazione come strutture proprie dell’esistenza storica dell’uomo. Nato l’11 febbraio 1900 a Marburgo, Gadamer, la cui vita ricopre tutto il Novecento, ha studiato nell’università della città natale, dove nel 1922 ha conseguito il dottorato in filosofia con Natorp e nel 1929 la libera docenza con Heidegger. A Margurgo egli ha studiato anche filologia classica soprattutto con Paul Friedlander, che avrebbe poi scritto un ampio studio su Platone, e inoltre ha seguito le lezioni di storia delle religioni e di teologia tenute rispettivamente da Walter Otto e Rudolf Bultmann. Gadamer ha viaggiato molto anche per l’Italia (era cittadino onorario di Napoli, città di cui era innamorato); egli rievoca il suo primo impatto con Napoli scrivendo: ” in uno dei quartieri popolari dove arrivai bighellonando vidi la seguente scena: da una stanza all’ultimo piano di un palazzo, si aprì una finestra e una vecchia signora calò una lunga fune con un cesto dal quale alcuni bambini che giocavano presero dei pupazzi ritagliati dalla carta colorata, con una gioia che mi commosse fino alle lacrime. Imparai che la povertà non esclude la gioia “. Convinto che ” l’intesa tra gli uomini avviene sulla base di un orizzonte comune che vive nella lingua che parliamo, e nei testi eminenti che costituiscono il patrimonio di questa lingua ” e che ” l’esperienza di verità si dà solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione ” , Gadamer intitolò il suo primo scritto l’ Etica dialettica di Platone. Interpretazioni fenomenologiche del Filebo (1931). Dopo un periodo di insegnamento a Marburgo, Gadamer passa all’università di Lipsia, dove, con l’approvazione dell’autorità sovietiche di occupazione, è nominato rettore nel 1946-47. Successivamente passa a insegnare e Francoforte e poi, nel 1949, a Heidelberg, sulla cattedra tenuta da Jaspers; dal 1953 è direttore della “Philosophische Rundschau” e nel 1960 pubblica la sua opera più importante, Verità e medoto. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica. Altri scritti, che illustrano e approfondiscono i temi della sua opera maggiore sono: Il problema della coscienza storica (1963, in francese); La ragione nell’età della scienza (1976); L’idea del bene in Platone e Aristotele (1978). A partire dal 1985 è in corso di pubblicazione l’edizione completa delle sue opere. A conferma del fatto che Gadamer fosse un ottimista, si può ricordare quanto egli affermò in un’intervista: ” lei dice che sono troppo ottimista. Ma l’ottimismo non è una pecca. E neppure una virtù. E’ un bisogno connaturato alla natura dell’uomo. Il pessimismo, invece, quello sì che è un lusso. Soltanto due ‘borghesi’ come Schopenhauer e Leopardi se lo potevano permettere… “.
ESTETICA ED ERMENEUTICA
Intento di Gadamer non è di costruire un metodo, concepito come insieme di regole da applicare nel dominio delle scienze dello spirito, ma di portare alla luce l’esperienza di verità, che avviene nella comprensione e nell’interpretazione, ” di là dal nostro volere e dal nostro fare “. Riprendendo Heidegger, Gadamer ritiene che il comprendere non sia uno dei possibili atteggiamenti del soggetto, limitato soltanto ad ambiti particolari della sua esperienza: esso invece caratterizza ” il modo di essere dell’esistente stesso come tale “. L’ermeneutica, dunque, non è una semplice tecnica interpretativa, ma il ” movimento fondamentale dell’esistenza “, nella sua finitezza e nella sua storicità, il quale abbraccia l’intero campo dell’esperienza umana del mondo. Per questo aspetto si può dunque parlare di universalità dell’ermeneutica . Essendo costitutivo dell’esistenza stessa, il comprendere non è mai atteggiamento meramente teoretico, coma già aveva mostrato Heidegger, e dunque non si realizza sulla base di una distinzione tra soggetto che comprende e oggetto che viene compreso. Contro queste forme di oggettivismo, che sono alla base dell’impostazione tipica delle scienze umane, non soltanto di quelle naturali, Gadamer intende sottolineare che ci sono ambiti in cui accadono esperienza di verità, le quali si collocano fuori dai metodi propri delle varie scienze: se ci si attiene esclusivamente a questi metodi, tali esperienze non sarebbero possibili. Per esperienza si deve pertanto intendere non un rispecchiamento oggettivo e distaccato dell’oggetto, ma un essere toccati e modificati. Nella sua opera maggiore Gadamer studia tre ambiti nei quali avviene un’esperienza di verità di questo tipo: l’arte, la storia, il linguaggio, L’esperienza dell’ arte è abitualmente dominata, soprattutto a partire da Kant, da quella che Gadamer chiama differenza estetica . Si tratta di un’operazione, di astrazione, con la quale si prescinde da tutto quel che radica un’opera d’arte nel suo contesto vitale originario e, quindi, da tutte le funzioni religiose o profane che essa vi assolveva e dalle quali traeva il suo significato, per rendere visibile l’opera come pura opera d’arte, nella sua autonoma sussistenza. Un’ espressione concreta di questa operazione è data dal museo, in cui l’opera d’arte è per definizione strappata al suo mondo originario di appartenenza, per appartenere soltanto alla coscienza estetica. In tal modo l’opera d’arte è colta esteticamente come qualcosa di semplicemente presente, oggetto di un puro vedere o di un puro udire, ma questo non costituisce per Gadamer la vera e propria esperienza estetica. Questa è data, invece, dall’incontro con l’opera d’arte e con il mondo contenuto in essa, che non ci resta estraneo: nel rapporto con l’opera d’arte, infatti, si impara anche a comprendere se stessi. L’esperienza estetica è, dunque, un modo dell’ autocomprensione. Questo è possibile in quanto l’arte è conoscenza, secondo Gadamer, e l’esperienza dell’opera d’arte fa partecipi della conoscenza. Per cogliere questo punto, bisogna dunque fare riferimento a un concetto di esperienza più ampio dei concetti di conoscenza e di realtà, propri delle scienza della natura. L’esperienza dell’opera d’arte, infatti, instaura un rapporto non con un oggetto semplicemente presente, ma con un evento che non è concluso e di cui si entra a far parte. Per chiarire che cosa sia questo evento, Gadamer parte dal concetto di gioco , ma spogliato da ogni arbitrarietà e soggettività. Il gioco, infatti, ha un’ essenza propria, indipendente dalla coscienza dei giocatori, che lo avvertono come una realtà che li trascende: esso si produce attraverso i giocatori, che partecipano del gioco, sicché ogni giocare è al tempo stesso un esser-giocato. Anche l’opera d’arte, secondo Gadamer, è gioco e, quindi, un evento che non è separabile dalla sua rappresentazione: il modo di essere dell’opera d’arte è gioco, che si compie solo temporalmente con la fruizione e comprensione degli spettatori. Il problema è come sia possibile l’identità dell’opera d’arte, che si presenta diversa nel cambiare dei tempi a quelli che, di volta in volta, cercano di comprenderla. Per illustrare questo punto, Gadamer ricorre ad un’altra analogia, con la festa: anche la festa è sempre identica, ma al tempo stesso esiste soltanto in quanto è celebrata ogni volta nel mutare delle circostanze storiche. In ciascuna di queste circostanze si tratta di mediare quel che è identico con il presente, che è sempre storicamente mutevole. Alla festa si assiste in quanto si partecipa: essa ha il carattere delle contemporaneità. Kierkegaard aveva dimostrato che nell’esperienza religiosa la contemporaneità è il compito che la coscienza deve realizzare, mediando il proprio presente con l’azione salvifica di Cristo, in modo che questa non rimanga un fatto storicamente remoto: si tratta dunque di partecipare nel presente all’evento della salvezza. Così è anche, secondo Gadamer, per l’esperienza dell’arte: fare in modo che l’opera d’arte non sia un fatto meramente passato, ma sia mediata con il presente, tornando di volta in volta a rivivere.
STORIA E TRADIZIONE
Tali considerazioni valgono anche per l’esperienza d verità che ha luogo nella storia: anche in questo caso compito dell’ermeneutica è la mediazione del passato con il presente. L’eremeneutica di Schleiermacher riponeva questa mediazione in una ricostruzione della fisionomia originaria del passato, in base al presupposto che il vero significato di esso può essere compreso soltanto in riferimento al suo modo originario. A questa impostazione Gadamer muove l’obiezione, già avanzata da Hegel, che il passato restaurato non è più quello originario e bisogna, invece, percorrere la via dell’integrazione del passato nella vita del presente. L’ermeneutica tradizionale era condizionata dal miraggio dell’oggettività e, quindi, non riconosceva pienamente il carattere storico del comprendere, che si costituisce, come aveva mostrato Heidegger, a partire da una pre-comprensione che anticipa il senso di quel che dev’essere interpretato. L’interpretazione consiste allora nel mettere alla prova la legittimità della propria pre-comprensione nel rapporto che di volta in volta si istituisce con il passato, rendendosi disponibili a lasciarsi dire qualcosa da esso e mettendosi, quindi, in ascolto di esso. In questo consiste il cosiddetto circolo ermeneutico , che include, dunque, come costitutivo e dotato di funzione positiva, il pre-giudizio. Era stato l’Illuminismo a svalutare i pregiudizi, considerati frutto di precipitosità o abdicazione all’autorità, ma a anche l’Illuminismo, secondo Gadamer, aveva finito per soccombere al pregiudizio contro i pregiudizi e, in generale, contro la tradizione. Di per sé, invece, il termine pregiudizio significa solo un giudizio pronunciato prima di aver effettuato un esame completo e definitivo di tutti gli elementi rilevanti, ma questo non significa che necessariamente questo giudizio sia falso o infondato. In quanto essere finiti, gli uomini sono sempre inseriti in un orizzonte di pregiudizi e, quindi, entro una tradizione. Ma pregiudizi e tradizioni non sono sempre entità negative, delle quali sia possibile e necessario liberarsi totalmente: essi possono, invece, rappresentare possibilità positive. L’ideale di una ragione assoluta non rientra tra le possibilità degli uomini, i quali sono sempre legati a un momento storico, cosicché la ragione non è mai totalmente padrona di sé, ma sempre subordinata a situazioni entro la quali agisce. L’illuminismo aveva escluso che l’autorità potesse anche essere fonte di verità, ma l’autorità, secondo Gadamer, si fonda su un riconoscimento e, quindi, richiede un’azione della ragione stessa, la quale non si sottomette ad essa ciecamente, ma, ” consapevole dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio di altri “. La rivalutazione del pregiudizio e della tradizione spiegano perché Gadamer non proceda a quella distruzione e superamento della metafisica, progettati da Heidegger, e ritenga invece di poter instaurare un proficuo legame di continuità con le filosofie di Platone e Aristotele, alle quali ha dedicato numerosi saggi. In questo senso la posizione di Gadamer verso la tradizione filosofica è meno radicale di quella heideggeriana e anzi si è potuto dire che Gadamer ha ” urbanizzato la provincia heideggeriana ” (Habermas). Il rapporto col passato, per Gadamer, non è definito in primo luogo dall’esigenza di staccarsi e liberarsi da esso: noi siamo costantemente dentro tradizioni e anche le rivoluzioni conservano molto del passato. Il che non significa che si debba ripetere l’errore inverso, compiuto dai Romantici, i quali, nel difendere la tradizione, la concepirono come un dato oggettivo e immodificabile, alla pari delle entità naturali. Si tratta, invece, di vedere il passato come qualcosa di vivo, che continua ancora a parlare e interpellare, cosicché comprendere il passato significa inserirsi nel vivo del processo storico, che lo trasmette sino a noi. Questa trasmissione è caratterizzata dal fatto che, in ciascun momento di essa, passato e presente continuamente si sintetizzano. L’interpretazione emerge, infatti, dall’incontro di due movimenti, quello della trasmissione storica e quello dell’interprete, anch’esso mobile nella sua storicità. La distanza temporale fra il resto del passato e l’interprete non è un ostacolo che deve essere superato; anzi essa è la condizione di possibilità dell’esperienza della verità nell’incontro col passato. Questa distanza non è qualcosa di statico, ma è in movimento, porta all’eliminazione di alcuni pregiudizi e fa emergere quelli che aiutano una vera comprensione. Nell’incontro con l’altro, che dal passato avanza una pretesa di verità, noi, prendendo sul serio questa pretesa, poniamo in questione i nostri pregiudizi. Questo incontro non avviene fuori dal tempo, ma si colloca in quella che Gadamer chiama Wirkungsgeschichte , “storia degli effetti” , la quale non è solo la storia della fortuna di un testo nei secoli, ma la catena delle interpretazioni passate, le quali condizionano e mediano la pre-comprensione che l’interprete ha dell’oggetto da interpretare, senza che egli se ne renda sempre conto. Noi siamo già sempre sottoposti agli effetti di questa storia, che decide anticipatamente di quel che si presenta a noi come problematica e come oggetto di ricerca. L’inserimento nel vivo di questa trasmissione storica è chiamato da Gadamer fusione di orizzonti . Essa emerge dall’incontro tra due orizzonti storici, quello del testo da interpretare e quello dell’interprete: quando questo avviene, l’interpretazione si configura come un intendersi sulla verità della cosa detta nel testo e non nel solo capire le intenzioni dell’autore. A sua volta, questa nuova interpretazione viene ad inserirsi come un ulteriore anello nella catena della Wirkungsgeschichte : il comprendere è, dunque, un processo mai concluso e definitivo, perché nel corso storico si possono aprire, nel rapporto con ogni nuovo interprete, sempre nuove possibilità di senso di quel che è tramandato nei testi del passato. Problema generale di ogni ermeneutica è, secondo Gadamer, l’ applicazione , consistente nel porsi al servizio del testo sacro o profano e delle leggi, per applicare al caso particolare ciò che di universale essi contengono. Il modello di questa procedura è ravvisato fa Gadamer nella fronhsiV descritta da Aristotele nell’ Etica Nicomachea : essa, infatti, non è scienza, ma saggezza pratica legata alle situazioni particolari. L’applicazione non è un momento successivo alla comprensione, in quanto nella comprensione avviene anche sempre un’applicazione del testo da interpretare alla situazione particolare dell’interprete. Il modello è dato dalla l’ struttura dialogica della domanda e della risposta , elaborata da Platone. Per comprendere questo punto bisogna tener presente il fatto che la tradizione, per Gadamer, non è semplicemente un insieme di oggetti o fatti del passato da conoscere o padroneggiare: la tradizione è, in primis, un linguaggio che si rivolge a noi come l’interlocutore in un dialogo e con la quale, pertanto, si può instaurare un rapporto vivente, diventando consapevoli della propria finitudine e storicità. Solo in quanto fra l’interprete e il testo non sussiste già un rapporto armonico, ma il testo pone un problema e deve essere trasformato da qualcosa di estraneo in qualcosa di familiare, allora può aver luogo un’esperienza ermeneutica, nella quale la fusione di orizzonti si articola come struttura dialogica. ” Condurre un dialogo significa mettersi sotto la guida dell’argomento che gli interlocutori hanno di mira “, asserisce Gadamer, ma all’inizio del dialogo c’è la domanda che il testo pone a noi, che siamo così chiamati in causa dalla parola del passato. Di qui scaturisce se la necessità di pensare, come aveva mostrato Heidegger, quel che per l’autore del testo era rimasto non problematico e pertanto non era stato da lui pensato: questo vuol dire che l’interpretazione non è soltanto la ricostruzione e riproduzione dell’opinione altrui, ma è integrazione rispetto a quel che è detto nel testo. Infatti, un dialogo, quando è autentico, non riesce mai come vogliono gli interlocutori, i quali, più che guidarlo (cfr. il modello del gioco), sono guidati da esso: il risultato di un dialogo non può mai essere conosciuto in anticipo. Nel dialogo viene, dunque, ad espressione qualcosa che non appartiene soltanto ad uno dei due interlocutori, all’autore del testo o a chi lo interpreta: si tratta, invece, di qualcosa di comune che li unisce. In tal modo ha luogo la fusione di orizzonti che accade nella comprensione: essa si dispiega nel l’ linguaggio , è sempre un fatto linguistico. Per questa attenzione particolare rivolta al linguaggio Gadamer si può richiamare ancora una volta a Heidegger: il linguaggio non è uno strumento di cui si possa disporre arbitrariamente, ma è il luogo in cui l’essere e le cose si danno all’uomo. L’uomo non può fare esperienza del mondo se non attraverso il linguaggio, è attraverso il linguaggio che egli è interpellato dalla tradizione. Ma il linguaggio non è un’entità semplicemente presente e disponibile all’uomo, bensì ha il carattere dell’evento, attraverso il quale quel che è detto nei testi della tradizione afferra e trasforma l’interprete. Questa è la struttura fondamentale di tutto quel che in generale può essere oggetto del comprendere, cosicché Gadamer può concludere che ” l’essere, che può venire compreso, è linguaggio “. Linguaggio e comprensione sono, dunque, costitutivi di ogni rapporto dell’uomo col mondo; il linguaggio assume una portata ontologica universale, è il luogo in cui può avvenire ogni esperienza della verità, cosicché l’ermeneutica, portando alla luce questa struttura fondamentale del rapporto dell’uomo col mondo, ha anch’essa una dimensione di universalità.
ENZO PACI
A cura di Antonino Magnanimo
” Ogni problema risolto non segna mai una conquista definitiva ma pone sempre nuovi problemi .”
SUL “DIARIO FENOMENOLOGICO” DI ENZO PACI
Enzo Paci è nato a Monterado in provincia di Ancona nel 1911 ed è morto a Milano nel 1976. Nel 1951 ebbe la cattedra di filosofia teoretica a Pavia, nel 1958 passò all’Università statale di Milano. Aveva un ottimo rapporto con i suoi studenti: le lezioni non finivano in aula. Si continuava a parlare fuori, nei giardini dell’Università. Sentiva di avere sempre ” un discorso da verificare “, da sostenere, da proteggere. Paci è stato uno dei più significativi rappresentanti dell’ esistenzialismo italiano . Ha fondato la rivista “Aut-aut “, che ha diretto dal 1951 alimentando e stimolando numerosi dibattiti e approfondimenti su molte aree disciplinari. Amava in ogni occasione difendere le proprie tesi con una forte passione polemica rivelando sempre, però, soprattutto a chi gli stava vicino, una profonda ansia e insicurezza. L’ ansia del dubbio era forse alla base del suo modo di conoscere, di comunicare, anche di scrivere; era attento al significato delle cose, diffidente delle definizioni e dei giudizi assertori. L’ assoluta mancanza di sistematicità delle sue opere e una grande apertura e disponibilità di fronte ai fatti del mondo segnano la storia dell’uomo e della sua filosofia. Paci è stato allievo di Banfi nella cui scuola era rimasto aperto, senza nessuna enfasi retorica, il dibattito culturale di un’ Europa in crisi, attraversata dallo scontro tra il nazifascismo, le democrazie occidentali, il socialismo sovietico. Paci si forma a questa scuola e la sua tesi di laurea (poi pubblicata con il titolo ” Il significato del ‘Parmenide’ nella filosofia di Platone “, 1938) è sulla dialettica di Platone interpretata secondo una prospettiva neokantiana (in sintonia con la filosofia di Banfi) che rimarrà un filo sotterraneo del suo pensiero. In questo lavoro sono messi in luce significati affini nella relazione, anziché nella separazione, tra divenire ed essere, tra il mondo dell’esistenza e quello dell’essenza. Importante è stata anche la sua iniziativa di pubblicare presso la casa editrice Bompiani autori stranieri poco conosciuti in Italia. Nel 1951 pubblica a puntate su ” Aut-aut ” ” Fondamenti di una sintesi filosofica “, che è un’esposizione sintetica del suo pensiero. I movimenti studenteschi e operai del 1968-69 rappresentano per Paci l’esplosione nel sociale dei bisogni, dei desideri, delle speranze di cambiamento dell’uomo. Aderisce con entusiasmo a questo periodo di tensioni innovatrici che, con matrici diverse, percorrono il mondo, sollecitato come sempre dalla ricerca del significato dell’ uomo nuovo e della scienza nuova. Tra le opere principali segnaliamo: ” Il significato del ‘Parmenide’ nella filosofia di Platone “(1938); ” Princìpi di una filosofia dell’essere ” (1938); ” Pensiero, esistenza, valore ” (1940); ” Nietzsche ” (1941); ” Thomas Mann e la musica ” (1947); ” Esistenza ed immagine ” (1947); ” Esistenzialismo e storicismo ” (1950); ” Studi di filosofia antica e moderna ” (1950); ” Il nulla e il problema dell’uomo ” (1950-67); ” L’Esistenzialismo ” (1952); ” Tempo e relazione ” (1954); ” Ancora sull’Esistenzialismo ” (1952); ” La filosofia contemporanea ” (1957); ” Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl ” (1961); ” Funzione delle scienze e significato dell’uomo ” (1964); ” Relazioni e significati, I : Filosofia e fenomenologia della cultura ” (1965); ” II, Kierkegard e Thomas Mann ” (1965); ” Critica e dialettica ” (1966); ” La formazione del pensiero di Husserl e il problema della costituzione della natura materiale e della natura animale ” (1967). Paci guarda alla filosofia come molteplice possibilità di analisi e problematizzazione del rapporto fra vita e ragione. La sua vicenda filosofica muove dall’Esistenzialismo per passare successivamente a un Relazionismo ispirato da Whitehead e Dewey e infine alla Fenomenologia; egli asserisce che ” la filosofia ha il compito critico primario di far cadere ogni barriera fra i diversi campi della cultura e affermarsi come ricerca aperta e antidogmatica “. Seguiamo con attenzione il suo tortuoso itinerario filosofico. L’esistenzialismo esercitò il suo fascino anche sugli intellettuali italiani trovando facile terreno nell’opposizione, già largamente serpeggiante, all’idealismo ma non assunse nessuna forma nichilistica, alla Heidegger, e nessun tono metafisico o intimistico, anzi, si aprì anche alle molteplici istanze delle nuove filosofie del Novecento e ai contributi che le scienze offrivano per una comprensione più piena dell’esistenza umana. Si tratta pertanto di un esistenzialismo positivo i cui elementi caratterizzanti sono stati enunciati da Abbagnano che fu uno dei protagonisti di quel fenomeno: chiarimento dell’orizzonte logico della filosofia esistenziale, riconoscimento della validità delle scienze (negli stessi limiti che esse prescrivono a se stesse), riconoscimento della vanità del tentativo di sottrarsi alla alienazione tecnologica mediante la fuga di fronte alla tecnica, accentuazione naturalistica dell’analisi esistenziale e rifiuto di rifugiarsi nell’interiorità spirituale e di presupporre come valida l’antitesi spirito-corpo. L’Esistenzialismo iniziale di Paci è stato influenzato dal razionalismo critico di Banfi e non dalle tendenze del nichilismo, che egli ha sin dall’inizio criticato aspramente. Si è, cioè, sforzato sempre di collegare le tendenze oscure e non-razionali dell’esistenza alle istanze di ordinamento razionale del mondo. Insoddisfatto dell’Esistenzialismo, Paci ha sostituito la centralità del concetto di esistenza con il rilievo dato a quello di relazionalità dell’esperienza . In questo modo l’esperienza stessa viene a configurarsi soprattutto come processo e interazione. Per Paci l’esistenza è finita, delimitata dalla nascita e dalla morte, è un momento della temporalità, non solo inarrestabile, ma anche irreversibile. L’esistenza si presenta in tal modo come un momento del tempo, ” un’ occasione attuale, una goccia di esperienza “, in una parola un evento . L’evento, in tanto avviene come attualità di un processo in quanto è sempre in comunicazione, o meglio in relazione con gli altri eventi. Nessun evento è autosufficiente, nessun evento è sostanza. La non sostanzialità dell’evento implica quindi un principio di relazione tra gli eventi, il principio cioè, dell’interrelazione universale. Si capisce facilmente perché quello di Paci è definito esistenzialismo relazionistico . L’esistenza è dunque evento e non sostanza; e se non è sostanza è nulla. Questo spiega il trascendimento dell’uomo verso qualcuno e qualcosa, un trascendimento come possibilità di essere. Inoltre, nulla nell’universo è “essere”; pertanto la domanda filosofica sull’essere non può avere come risposta se non il silenzio, perché non esiste realtà assoluta. Ogni essere è costituito dalle relazioni reciproche con gli altri esseri; tali relazioni formano il tessuto della realtà e del mondo umano. E poiché questo tessuto è dinamico, la caratteristica del reale è la temporalità. La categoria della relazione è strettamente connessa alla concezione dell’esperienza come temporalità e storia e quindi alla categoria della possibilità. Là dove ci sono soltanto sostanze non c’è esperienza storica, proprio perché c’è l’isolamento, l’identità della sostanza con se stessa. Nella sua forma più semplice la relazione afferma che non c’è esperienza dove c’è identità e dove non ci sono diverse situazioni spazio-temporali, distinte proprio dalla forma dinamica della loro posizione relazionale nello spazio e nel tempo. Le relazioni non sono informi perché sono irreversibili e temporali: le cose si risolvono dunque condizionate dal processo passato di cui permangono gli effetti e dalle possibilità di sviluppo. La risoluzione delle cose in “centri di relazionalità” dà luogo alle forme che sono aperte e sempre in formazione se determinate dal processo che le ha costituite. In ultima analisi, la determinazione, la forma di un campo di relazione, è sempre mutevole e può variare a seconda delle vie scelte nel campo della possibilità e quindi, per l’uomo, è in funzione del suo comportamento, dei suoi progetti, dei suoi risultati e delle applicazioni delle sue ricerche. Paci intende l’Esistenzialismo in senso positivo come la necessità di superare il dolore, il male e le situazioni storiche negative in una concezione umanistica nella quale filosofia e scienza devono rapportarsi fra gli uomini sia sul piano personale che su quello sociale. Per Paci il problema fondamentale riguarda proprio la relazione tra gli uomini e tutte le relazioni possibili, da quelle logiche a quelle cosmologiche. Nasce così il relazionismo che considera tutte le relazioni cosmologiche, sociologiche, umane e che apre il grande problema degli uomini come centri di relazioni. Base dell’Esistenzialismo di Paci, intensamente dinamico e fortemente permeato di eticità, è quindi la relazione, per cui la sua sintesi filosofica potrebbe qualificarsi come relazionismo o se si vuole come relazionismo etico . La relazione è innanzitutto condizione esistenziale nel senso che tutti gli eventi si manifestano in virtù di un rapporto di reciproca interazione. Evento è tutto ciò che avviene o si trova nel mondo, evento è anche l’io che si conosce come esistenza finita ed empirica in rapporto ad altre esistenze. La relazione passa così dal campo esistenziale al campo conoscitivo e ” diviene condizione dell’essere e del conoscere “. La relazione, irreversibile e in quanto tale necessaria per la conoscenza, è la legge della conoscenza e del pensiero. Così come ogni problema risolto non segna mai una conquista definitiva, ma pone sempre nuovi problemi, il realizzarsi dell’esistente uomo nella forma avviene per un processo continuo reso possibile dalla relazione, comunicazione e interazione degli esistenti che zampilla e scorre dal passato irripetibile, ma non cancellato nel presente, verso il futuro, nell’inesorabile fluire del tempo. Non realizzarsi in questa forma, non seguire il processo, arrestarsi a una forma di ordine inferiore: questo è l’immoralità, il male . L’uomo, libero e responsabile della propria scelta può anche prediligere questa via ma allora rinuncia a realizzarsi come uomo, si nega, si auto distrugge. La Fenomenologia è stata conosciuta in Italia grazie ad Antonio Banfi ed ha avuto come uno dei suoi maggiori esponenti Enzo Paci. Con il termine “fenomenologia” si indicava, in tutto il pensiero filosofico precedente, la descrizione dei “fenomeni”, cioè di ciò che si manifesta, che appare immediatamente. Husserl arricchisce il concetto tradizionale di fenomenologia, facendone la scienza filosofica fondamentale: la filosofia deve essere fenomenologia, deve cioè descrivere ed analizzare i fenomeni in modo tale da farne emergere l’essenza. In questo senso, la fenomenologia è scienza di essenze. Le essenze non vanno indagate astrattamente, ma sempre a partire dalla concretezza dei fenomeni, del mondo reale. La Fenomenologia si distingue nettamente dalla logica perché quest’ultima opera con simboli che rappresentano proposizioni e concetti senza occuparsi dei loro rapporti con la realtà. La Fenomenologia, invece, indaga da quali dati effettivi traggono valore gli elementi del pensiero umano e, quindi, anche i simboli della logica. L’imperativo della fenomenologia è “andare verso le cose stesse”, cioè sostituire ai simboli ed ai concetti astratti gli oggetti concreti ed immediati della conoscenza. L’analisi del mondo oggettivo compiuta dalla Fenomenologia serve a metterne in luce i fondamenti, le sue modalità di costruzione, in modo da fornire un terreno più saldo a tutte le scienze che al mondo oggettivo fanno riferimento. La filosofia fenomenologica, secondo Paci, ha un compito critico primario da assolvere: individuare e precisare le connessioni che esistono fra i diversi saperi e aspetti dell’esperienza umana, far cadere ogni barriera fra i diversi campi della cultura, affermarsi come ricerca aperta e antidogmatica. In altri termini, la Fenomenologia viene intesa come riflessione critica e ricerca di senso della realtà e della cultura, come indagine sulle connessioni profonde che esistono fra il mondo precategoriale (cioè il mondo della vita) e il mondo categoriale (quello del pensiero). Proprio nel corso di tale riflessione Paci vede nel marxismo una possibilità di arricchimento e di sviluppo sia del tema del precategoriale sia di quello della relazionalità, cercando di innestarvi i motivi (propri del marxismo e da lui ripensati come un approccio che non intende essere dogmatico) dei bisogni umani e delle forme concrete, storicamente determinate, di alienazione che riducono l’uomo da persona a categoria astratta. Marx parla di uomini e di classi e a Paci interessa comprendere le relazioni tra gli uomini e le classi. Ne viene fuori lo sfruttamento del soggetto da parte di un altro soggetto; il soggetto diventa oggetto o cosa materiale. Alla fine degli anni cinquanta Paci cercò di coniugare Husserl con Marx , sempre spinto dall’esigenza di approfondire le relazioni concrete degli uomini nella società e nella storia. Nonostante il modo di scrivere spesso complesso e difficile, le pagine di Paci su Marx e Husserl sono tra le più chiare: il significato dell’uomo si determina nella prassi soggettiva, nella sfera dei bisogni che fonda la dinamica dei rapporti sociali in un mondo dove scienza e tecnica non sono forme di sopraffazione dei bisogni dell’uomo, ma il risultato di consapevoli operazioni compiute in funzione della società civile.
A cura di Antonino Magnanimo
” Ogni problema risolto non segna mai una conquista definitiva ma pone sempre nuovi problemi .”
Enzo Paci è nato a Monterado in provincia di Ancona nel 1911 ed è morto a Milano nel 1976. Nel 1951 ebbe la cattedra di filosofia teoretica a Pavia, nel 1958 passò all’Università statale di Milano. Aveva un ottimo rapporto con i suoi studenti: le lezioni non finivano in aula. Si continuava a parlare fuori, nei giardini dell’Università. Sentiva di avere sempre ” un discorso da verificare “, da sostenere, da proteggere. Paci è stato uno dei più significativi rappresentanti dell’ esistenzialismo italiano . Ha fondato la rivista “Aut-aut “, che ha diretto dal 1951 alimentando e stimolando numerosi dibattiti e approfondimenti su molte aree disciplinari. Amava in ogni occasione difendere le proprie tesi con una forte passione polemica rivelando sempre, però, soprattutto a chi gli stava vicino, una profonda ansia e insicurezza. L’ ansia del dubbio era forse alla base del suo modo di conoscere, di comunicare, anche di scrivere; era attento al significato delle cose, diffidente delle definizioni e dei giudizi assertori. L’ assoluta mancanza di sistematicità delle sue opere e una grande apertura e disponibilità di fronte ai fatti del mondo segnano la storia dell’uomo e della sua filosofia. Paci è stato allievo di Banfi nella cui scuola era rimasto aperto, senza nessuna enfasi retorica, il dibattito culturale di un’ Europa in crisi, attraversata dallo scontro tra il nazifascismo, le democrazie occidentali, il socialismo sovietico. Paci si forma a questa scuola e la sua tesi di laurea (poi pubblicata con il titolo ” Il significato del ‘Parmenide’ nella filosofia di Platone “, 1938) è sulla dialettica di Platone interpretata secondo una prospettiva neokantiana (in sintonia con la filosofia di Banfi) che rimarrà un filo sotterraneo del suo pensiero. In questo lavoro sono messi in luce significati affini nella relazione, anziché nella separazione, tra divenire ed essere, tra il mondo dell’esistenza e quello dell’essenza. Importante è stata anche la sua iniziativa di pubblicare presso la casa editrice Bompiani autori stranieri poco conosciuti in Italia. Nel 1951 pubblica a puntate su ” Aut-aut ” ” Fondamenti di una sintesi filosofica “, che è un’esposizione sintetica del suo pensiero. I movimenti studenteschi e operai del 1968-69 rappresentano per Paci l’esplosione nel sociale dei bisogni, dei desideri, delle speranze di cambiamento dell’uomo. Aderisce con entusiasmo a questo periodo di tensioni innovatrici che, con matrici diverse, percorrono il mondo, sollecitato come sempre dalla ricerca del significato dell’ uomo nuovo e della scienza nuova. Tra le opere principali segnaliamo: ” Il significato del ‘Parmenide’ nella filosofia di Platone “(1938); ” Princìpi di una filosofia dell’essere ” (1938); ” Pensiero, esistenza, valore ” (1940); ” Nietzsche ” (1941); ” Thomas Mann e la musica ” (1947); ” Esistenza ed immagine ” (1947); ” Esistenzialismo e storicismo ” (1950); ” Studi di filosofia antica e moderna ” (1950); ” Il nulla e il problema dell’uomo ” (1950-67); ” L’Esistenzialismo ” (1952); ” Tempo e relazione ” (1954); ” Ancora sull’Esistenzialismo ” (1952); ” La filosofia contemporanea ” (1957); ” Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl ” (1961); ” Funzione delle scienze e significato dell’uomo ” (1964); ” Relazioni e significati, I : Filosofia e fenomenologia della cultura ” (1965); ” II, Kierkegard e Thomas Mann ” (1965); ” Critica e dialettica ” (1966); ” La formazione del pensiero di Husserl e il problema della costituzione della natura materiale e della natura animale ” (1967). Paci guarda alla filosofia come molteplice possibilità di analisi e problematizzazione del rapporto fra vita e ragione. La sua vicenda filosofica muove dall’Esistenzialismo per passare successivamente a un Relazionismo ispirato da Whitehead e Dewey e infine alla Fenomenologia; egli asserisce che ” la filosofia ha il compito critico primario di far cadere ogni barriera fra i diversi campi della cultura e affermarsi come ricerca aperta e antidogmatica “. Seguiamo con attenzione il suo tortuoso itinerario filosofico. L’esistenzialismo esercitò il suo fascino anche sugli intellettuali italiani trovando facile terreno nell’opposizione, già largamente serpeggiante, all’idealismo ma non assunse nessuna forma nichilistica, alla Heidegger, e nessun tono metafisico o intimistico, anzi, si aprì anche alle molteplici istanze delle nuove filosofie del Novecento e ai contributi che le scienze offrivano per una comprensione più piena dell’esistenza umana. Si tratta pertanto di un esistenzialismo positivo i cui elementi caratterizzanti sono stati enunciati da Abbagnano che fu uno dei protagonisti di quel fenomeno: chiarimento dell’orizzonte logico della filosofia esistenziale, riconoscimento della validità delle scienze (negli stessi limiti che esse prescrivono a se stesse), riconoscimento della vanità del tentativo di sottrarsi alla alienazione tecnologica mediante la fuga di fronte alla tecnica, accentuazione naturalistica dell’analisi esistenziale e rifiuto di rifugiarsi nell’interiorità spirituale e di presupporre come valida l’antitesi spirito-corpo. L’Esistenzialismo iniziale di Paci è stato influenzato dal razionalismo critico di Banfi e non dalle tendenze del nichilismo, che egli ha sin dall’inizio criticato aspramente. Si è, cioè, sforzato sempre di collegare le tendenze oscure e non-razionali dell’esistenza alle istanze di ordinamento razionale del mondo. Insoddisfatto dell’Esistenzialismo, Paci ha sostituito la centralità del concetto di esistenza con il rilievo dato a quello di relazionalità dell’esperienza . In questo modo l’esperienza stessa viene a configurarsi soprattutto come processo e interazione. Per Paci l’esistenza è finita, delimitata dalla nascita e dalla morte, è un momento della temporalità, non solo inarrestabile, ma anche irreversibile. L’esistenza si presenta in tal modo come un momento del tempo, ” un’ occasione attuale, una goccia di esperienza “, in una parola un evento . L’evento, in tanto avviene come attualità di un processo in quanto è sempre in comunicazione, o meglio in relazione con gli altri eventi. Nessun evento è autosufficiente, nessun evento è sostanza. La non sostanzialità dell’evento implica quindi un principio di relazione tra gli eventi, il principio cioè, dell’interrelazione universale. Si capisce facilmente perché quello di Paci è definito esistenzialismo relazionistico . L’esistenza è dunque evento e non sostanza; e se non è sostanza è nulla. Questo spiega il trascendimento dell’uomo verso qualcuno e qualcosa, un trascendimento come possibilità di essere. Inoltre, nulla nell’universo è “essere”; pertanto la domanda filosofica sull’essere non può avere come risposta se non il silenzio, perché non esiste realtà assoluta. Ogni essere è costituito dalle relazioni reciproche con gli altri esseri; tali relazioni formano il tessuto della realtà e del mondo umano. E poiché questo tessuto è dinamico, la caratteristica del reale è la temporalità. La categoria della relazione è strettamente connessa alla concezione dell’esperienza come temporalità e storia e quindi alla categoria della possibilità. Là dove ci sono soltanto sostanze non c’è esperienza storica, proprio perché c’è l’isolamento, l’identità della sostanza con se stessa. Nella sua forma più semplice la relazione afferma che non c’è esperienza dove c’è identità e dove non ci sono diverse situazioni spazio-temporali, distinte proprio dalla forma dinamica della loro posizione relazionale nello spazio e nel tempo. Le relazioni non sono informi perché sono irreversibili e temporali: le cose si risolvono dunque condizionate dal processo passato di cui permangono gli effetti e dalle possibilità di sviluppo. La risoluzione delle cose in “centri di relazionalità” dà luogo alle forme che sono aperte e sempre in formazione se determinate dal processo che le ha costituite. In ultima analisi, la determinazione, la forma di un campo di relazione, è sempre mutevole e può variare a seconda delle vie scelte nel campo della possibilità e quindi, per l’uomo, è in funzione del suo comportamento, dei suoi progetti, dei suoi risultati e delle applicazioni delle sue ricerche. Paci intende l’Esistenzialismo in senso positivo come la necessità di superare il dolore, il male e le situazioni storiche negative in una concezione umanistica nella quale filosofia e scienza devono rapportarsi fra gli uomini sia sul piano personale che su quello sociale. Per Paci il problema fondamentale riguarda proprio la relazione tra gli uomini e tutte le relazioni possibili, da quelle logiche a quelle cosmologiche. Nasce così il relazionismo che considera tutte le relazioni cosmologiche, sociologiche, umane e che apre il grande problema degli uomini come centri di relazioni. Base dell’Esistenzialismo di Paci, intensamente dinamico e fortemente permeato di eticità, è quindi la relazione, per cui la sua sintesi filosofica potrebbe qualificarsi come relazionismo o se si vuole come relazionismo etico . La relazione è innanzitutto condizione esistenziale nel senso che tutti gli eventi si manifestano in virtù di un rapporto di reciproca interazione. Evento è tutto ciò che avviene o si trova nel mondo, evento è anche l’io che si conosce come esistenza finita ed empirica in rapporto ad altre esistenze. La relazione passa così dal campo esistenziale al campo conoscitivo e ” diviene condizione dell’essere e del conoscere “. La relazione, irreversibile e in quanto tale necessaria per la conoscenza, è la legge della conoscenza e del pensiero. Così come ogni problema risolto non segna mai una conquista definitiva, ma pone sempre nuovi problemi, il realizzarsi dell’esistente uomo nella forma avviene per un processo continuo reso possibile dalla relazione, comunicazione e interazione degli esistenti che zampilla e scorre dal passato irripetibile, ma non cancellato nel presente, verso il futuro, nell’inesorabile fluire del tempo. Non realizzarsi in questa forma, non seguire il processo, arrestarsi a una forma di ordine inferiore: questo è l’immoralità, il male . L’uomo, libero e responsabile della propria scelta può anche prediligere questa via ma allora rinuncia a realizzarsi come uomo, si nega, si auto distrugge. La Fenomenologia è stata conosciuta in Italia grazie ad Antonio Banfi ed ha avuto come uno dei suoi maggiori esponenti Enzo Paci. Con il termine “fenomenologia” si indicava, in tutto il pensiero filosofico precedente, la descrizione dei “fenomeni”, cioè di ciò che si manifesta, che appare immediatamente. Husserl arricchisce il concetto tradizionale di fenomenologia, facendone la scienza filosofica fondamentale: la filosofia deve essere fenomenologia, deve cioè descrivere ed analizzare i fenomeni in modo tale da farne emergere l’essenza. In questo senso, la fenomenologia è scienza di essenze. Le essenze non vanno indagate astrattamente, ma sempre a partire dalla concretezza dei fenomeni, del mondo reale. La Fenomenologia si distingue nettamente dalla logica perché quest’ultima opera con simboli che rappresentano proposizioni e concetti senza occuparsi dei loro rapporti con la realtà. La Fenomenologia, invece, indaga da quali dati effettivi traggono valore gli elementi del pensiero umano e, quindi, anche i simboli della logica. L’imperativo della fenomenologia è “andare verso le cose stesse”, cioè sostituire ai simboli ed ai concetti astratti gli oggetti concreti ed immediati della conoscenza. L’analisi del mondo oggettivo compiuta dalla Fenomenologia serve a metterne in luce i fondamenti, le sue modalità di costruzione, in modo da fornire un terreno più saldo a tutte le scienze che al mondo oggettivo fanno riferimento. La filosofia fenomenologica, secondo Paci, ha un compito critico primario da assolvere: individuare e precisare le connessioni che esistono fra i diversi saperi e aspetti dell’esperienza umana, far cadere ogni barriera fra i diversi campi della cultura, affermarsi come ricerca aperta e antidogmatica. In altri termini, la Fenomenologia viene intesa come riflessione critica e ricerca di senso della realtà e della cultura, come indagine sulle connessioni profonde che esistono fra il mondo precategoriale (cioè il mondo della vita) e il mondo categoriale (quello del pensiero). Proprio nel corso di tale riflessione Paci vede nel marxismo una possibilità di arricchimento e di sviluppo sia del tema del precategoriale sia di quello della relazionalità, cercando di innestarvi i motivi (propri del marxismo e da lui ripensati come un approccio che non intende essere dogmatico) dei bisogni umani e delle forme concrete, storicamente determinate, di alienazione che riducono l’uomo da persona a categoria astratta. Marx parla di uomini e di classi e a Paci interessa comprendere le relazioni tra gli uomini e le classi. Ne viene fuori lo sfruttamento del soggetto da parte di un altro soggetto; il soggetto diventa oggetto o cosa materiale. Alla fine degli anni cinquanta Paci cercò di coniugare Husserl con Marx , sempre spinto dall’esigenza di approfondire le relazioni concrete degli uomini nella società e nella storia. Nonostante il modo di scrivere spesso complesso e difficile, le pagine di Paci su Marx e Husserl sono tra le più chiare: il significato dell’uomo si determina nella prassi soggettiva, nella sfera dei bisogni che fonda la dinamica dei rapporti sociali in un mondo dove scienza e tecnica non sono forme di sopraffazione dei bisogni dell’uomo, ma il risultato di consapevoli operazioni compiute in funzione della società civile.
SUL DIARIO FENOMENOLOGICO DI ENZO PACI
di Roberto Taioli
Scorrendo le pagine del Diario fenomenologico (1) di Enzo Paci si avverte tangibilmente la traccia di un pensiero che tende radicalmente ad essere sempre introduzione a se stesso, nel senso che l’autore chiarisce nelle pagine introduttive al Diario. Il Diario, scrive Paci, non è ancora una fenomenologia ma può essere “l’introduzione ad una fenomenologia”(2) che trova il senso nel suo farsi ed incarnarsi e che mai si compie. Essa è sempre al di là dei risultati cui la ricerca perviene e sempre sospende gli esiti del lavoro del filosofo che non sono mai definitivi. Il filosofo stesso introietta lo stile della fenomenologia e sempre ritematizza il suo pensiero, pronto a ritornare da capo, a riconsiderarsi e a riconsiderare l’orizzonte della filosofia. Vita e pensiero non procedono mai separati ma si avvolgono e si contaminano in una feconda seppur sofferta osmosi:
Piazza Leonardo da Vinci, isolata, quasi chiusa. Le torri medievali, scabre, rosseggianti. Le rondini le circondano. Silenzio di secoli. Mi siedo su una panchina isolata, dopo le lezioni all’Università. Sento di dover ricominciare, di aver sbagliato, di non aver perseguito con chiarezza, con tenacia, con profondità quello che cercavo. E’ vero: in ogni fatto, in ogni cosa isolata, si rivelano legami con tutte le cose, con tutti gli altri fatti. Nel tempo, nel tempo della natura e della storia. Ed ogni fatto è individuato anche se ha la forma di tutti gli altri fatti del suo tipo. […] La filosofia comincia quando questo uomo-singolo scopre che ha in sé relazioni tipiche essenziali con tutto il resto (3).
Nel Diario la scrittura di Paci (ancor più che in altri luoghi della sua produzione teorica) incarna e interiorizza lo stato del trovarsi sempre ad una soglia iniziale della riflessione e della vita che si espande nel pensiero. Riprendendo l’amato Proust, Paci scrive di “ce plaisir special” (4) per indicare il legame che si dà tra noi e le cose, un legame misterioso, umbratile, mai evidente e che l’analisi fenomenologica tenderà a rischiarare. La fenomenologia agisce come un temps retrouvé, un risveglio dal sonno della sedimentazione e che dalla latenza tende all’espressione e manifestazione di un senso non ancora esaurito, non pienamente compiuto. L’evidenza, anche nel Diario, è sempre il frutto di un processo, di un manifestarsi attraverso l’ombra, l’opacità, il dubbio, nel riattuarsi e apparentemente ripetersi della vita quotidiana, secondo un telos risorgente come vita che vince la morte, nuova nascita, e in Rainer Maria Rilke (poeta tra i più cari a Paci) immer wieder, sempre di nuovo. Così il Diario di Paci infrange il ripetersi di un tempo anonimo e astratto, restituendoci un tempo vissuto, scandito e ritmato, nel tempo della vita, nel paradosso dell’esistenza che si consuma e rincomincia. Tutta la traiettoria temporale del Diario fenomenologico (dal marzo 1956 al maggio 1961) riflette l’aprirsi del pensiero di Paci ai temi più vivi della fenomenologia, assunta non come mera adesione alla lectio husserliana, ma rivissuta in prima persona, in un forte impegno etico, nelle forme del modificarsi costante dell’orizzonte prospettico e nella problematizzazione della stessa nozione di filosofia. Paci nelle pagine dei Diario esprime più volte questo status inquieto del pensiero che è sempre labirintico, attraverso una scrittura nervosa che mai approda ad una conclusione. Ogni pagina va letta come profondamente incompiuta, abbozzata, che si prolunga non in quella immediatamente successiva secondo una ingenua linearità, ma disperde e ritrova il suo senso incastrato in altri temi, in altre pagine, in altre parole. Ne esce, anche letterariamente, una tessitura complicata di molte tonalità, affollata di svariate maschere della cultura, della vita. Il legame profondo che sostiene l’impianto delle pagine, agendo come un basso continuo sempre desto, è il senso dell’intersoggettività che Paci riprende e rimodula dalla Quinta meditazione cartesiana di Husserl. Senza intersoggettività l’ego vive nella condizione della solitudine, imprigionato nei dilemmi della propria costituzione autoreferenziale:
Tutto è legato ad una prospettiva cosmica. L’universo emerge in me come un bisogno, come un progetto, come una via nella quale può procedere e nella quale, in quel punto focale di cui l’uomo costituisce la tensione e l’intenzionalità, pone in gioco tutto se stesso. L’uomo che si riconosce investito del significato del cosmo, che sente la propria responsabilità per il senso del processo universale, riconosce la dignità di ogni prospettiva e di ogni forma, dei minerali, dei vegetali, degli animali, delle cose e delle persone. E’ questa la pietas verso l’intenzionalità, l’accettazione del misterioso piacere che ci lega alle cose, nel quale vibra sempre la ricerca dell’essenza, della continua correzione, dell’armonia (5).
Paci considera la fenomenologia come un radicale relazionismo che ricomprende la realtà come organismo e processo (in ciò riecheggiando anche i temi del pensiero di Whithead che Paci ebbe sempre presente), e che evita le divisioni dell’atteggiamento dicotomizzante che ha come fine la separazione della parte dal tutto. Il Diario ci offre pagine dello sguardo di Paci sempre attento alla sintesi, alla interazione, alla osmosi che lo spettacolo del mondo esibisce impresso nella sua intelaiatura, anche se non sempre questa forma della relazione si legge evidente, ma si occulta, si nasconde, pare addirittura non esserci. Ma non è l’occhio del filosofo che la applica dall’esterno artificialmente, il filosofo vede ciò che c’è già, che già esiste come tessuto fungente della natura e della vita e che sfugge alla visione ordinaria incardinata in un sapere categoriale. Per questo Paci con Husserl parlò dell’epoché come “nuova volontà di vita”(6), dopo la quale il mondo non è più come prima perché translucide si danno le relazioni, i nessi che prima erano confusi, nascosti. Lo stesso problema della tecnica già nel 1956 Paci lo vedeva all’interno di un processo ove tecnica e vita non sono separati, perché “nella tecnica si continua il processo della vita, l’emergenza dell’intenzionalità. L’errore della civiltà moderna è di aver separato la tecnica dalla vita, per non rispondere alla perentoria richiesta di giustizia e di armonia che la vita avanza proprio con la tecnica”(7). Dovremmo dire, di aver dimenticato e rimosso Leonardo e drammaticamente cancellato il senso del mondo, della visione, del tutto, dell’enciclopedia universale. La tecnica non può non porsi il problema del senso complessivo del mondo, del telos del tutto, dell’armonia universale. Le stesse forme in cui è depositata la vita e quelle modificate o artefatte dall’uomo, devono tendere a ricomporre uno sguardo universale ove razionalità e armonia non siano disgiunte. Questo senso dell’armonia, dell’ordine profondo riaffiora anche nella vita personale, in quanto il filosofo non smette di essere tale nelle contingenze del mondo:
Sono le tre e mezzo della notte. Mi affaccio alla finestra. Rumorio lontano di camion. Le case sono incomprensibili. Mi sembra impossibile che restino lì, indifferenti, con tanta vita umana rinchiusa tra le mura. Passa un ubriaco. Grida. Il filosofo: non solo pensa sempre il mondo, ma lo vive, lo percepisce sempre di nuovo con tutti i suoi sensi, come un problema incombente. Parole e grida che vogliono una soluzione impossibile? Poi viene il silenzio. Un silenzio pieno, vibrante. Uno sfondo sul quale le cose si disegnano vergini, nate proprio ora, in questo momento. Ed acquistano un significato, diventano translucide, lasciano intendere il loro senso di verità. Perciò stai tranquillo. Non forzare le cose. Lascia che si presentino. Non sei il loro padrone (8).
Siamo al cuore di quel pensiero notturno (9) e di quella scrittura notturna che caratterizzarono non poco della riflessione di Enzo Paci che è anche un modo di affidarsi senza riserve alla indistinzione del flusso della vita per poi riprendere in forma di pensiero quei tranches de vie che hanno animato la percezione. La scrittura del Diario fenomenologico (che raccoglie solo una parte dei quaderni paciani) si muove sul filo sottile del crinale tra oralità e appunto, in una sorta di stenografia filosofica che la pagina fissa davanti allo scorrere degli eventi, come un’agenda di appuntamenti interiori di cui il Diario a volte anticipa o prepara lo svolgimento. Su questa soglia mobile tra stato di veglia e sonno, il Diario fenomenologico gioca la sua cifra filosofica ed umana. Tutti i temi paciani vi sono riflessi, quasi ripescati dal denso tessuto precategoriale della coscienza e rimessi in superficie, rivisitati e riesplorati con l’inquietudine di una sonda mai ferma. Le pagine ci restituiscono molto del Paci uomo mai disgiunto dal pensatore. Sono le pagine di una philosophia perennis, come Paci soleva spesso dire, e che in ogni filosofo si configura e rivive con la presenza di un’ombra, di un dato non rischiarato, scriveva ricordando la morte di Merleau-Ponty:
In ogni filosofo c’è un orizzonte di pensiero che implica uno sfondo che non è stato reso esplicito, un’ombra. Anche noi dovremmo appellarci allo sfondo implicito nell’orizzonte filosofico di Merleau-Ponty. E’ lo sfondo assopito che sempre permane nel fondo della veglia, della ragione esplicita. La continuità degli ego ammette delle pause, delle interruzioni. Le pause del sonno, le pause della morte (10).
L’ombra, il dato irriducibile a ragione, che sempre accompagna il cammino del pensiero, si esprime spesso nel Diario nel paesaggio e nel timbro della notte come estasi temporale e kairòs per il filosofo che recupera nel notturno il fluire della vita irriflessa, ma con la lentezza di un varco profondo che invece pare chiudersi nelle accelerazioni del tempo diurno. Tra oscurità e chiarità non si pongono solo i ritmi dell’avvicendarsi e alternarsi del chronos, del buio e della luce, del giorno e della notte, ma più profondamente e fenomenoligicamente, si coglie la soglia sottile tra emergenza e permanenza, tra mithos e logos, tra vita e ragione. Alcune delle pagine più intense del Diario di Paci vibrano attorno a questo sfondo, a questo telos del tempo che pur incarnandosi non è mai reale, perché la presenza si decentra, si depresentifica, rendendosi recettiva, capace di captare i suoni, le voci, i rumori, i silenzi del mondo. La pagina risuona di una sinfonia e al suo fondo si percepisce un concerto, una germinazione comune. La scrittura fenomenologica (11) asseconda questo moto, ove il soggetto è ad un tempo sorgente e punto di incontro delle percezioni, interno ed esterno, una finestra aperta sul mondo:
Nel vento fresco che s’alza nella notte – e le nostre speranze e i nostri dolori son talvolta legati alla stagione e sembrano fondersi con la pioggia, con la neve, col risveglio della primavera – si ravviva forse un filo di fiducia: che gli orrori della vita possano essere dimenticati, e i suoi problemi labirintici e tormentosi trasformati in valore, col passare del tempo, con la sopportazione, con la pazienza, nel lento e irreversibile cammino verso la morte. Un sorriso ti consola, un moto di affetto ti raggiunge, anche se ignora la tua angoscia (12).
Quando uso il verbo “sentire” penso all’Einfuhlung di Husserl. La filosofia nasce dallo stupore che l’Einfuhlung esista, dal fatto meraviglioso che noi viviamo negli altri e sentiamo il loro soffrire e tutta la loro vita che li conforma nel presente, nel loro percepire, vedere ed udire, nella loro Stimmung che si accorda con la nostra. Così noi viviamo – con gli altri in noi. Si può non lasciare che in noi avvenga questa Stimmung, questo accordo profondo – si può farlo per difendersi, per non far nostro il dolore altrui. Forse l’ego è costituito anche dalla difesa? Oppure nel chiudersi all’Einfuhlung noi perdiamo, alla fine, noi stessi, così come ci perdiamo se ci annulliamo nell’altro? (13)
Ma il Diario è anche, più strettamente in senso filosofico, un libro particolare di filosofia, ove apprendiamo lo scorrere della vita intellettuale, in un periodo cruciale per il rinnovamento della cultura italiana (14) che trovò in Paci un interprete sensibilissimo, capace di sentire e di aprirsi nel profondo alle linfe più vive di quel tempo che ancora non ha esaurito la sua influenza nella nostra epoca e nella nostra cultura. Vediamo così sfilare nel Diario alcune delle figure intellettuali più rilevanti del tempo, come Antonio Banfi che introdusse in Italia la fenomenologia di Husserl, il maestro da cui Paci andò gradatamente differenziandosi in una dialettica di assunzione/superamento del suo pensiero ma nel riconoscimento della crucialità della sua riflessione: (“Oggi è morto Banfi. Mi hanno telefonato all’improvviso. Ho trovato nella clinica gli altri amici. Pensavo a tutti noi – a tutti noi di fronte a questa morte. Sarà difficile rendersene conto. Tutta la sua opera da ora cambia significato e sento che esige una nuova valutazione”) (15). Di Banfi Paci ricorderà in pagine successive l’insegnamento maieutico radicato nell’esperienza diretta, rievocando un incontro personale con il pensatore, sul senso profondo della fenomenologia e su come essa sia in qualche modo trasmissibile. Come insegnare la fenomenologia? Non certo solo sui libri “perchè le parole scritte (mito di Theut nel Fedro di Platone) hanno il lor lato negativo se non producono un discorso nuovo, se non vengono ridestate e rese presenti”(16). La fenomenologia è infatti, annota Paci, un “invito alla descrizione” (17) nel senso della domanda di Banfi posta a Paci (“Vede questo vaso di fiori? Provi a dire, a descrivere quello che veramente vede”) (18), una scienza delle modalità, del darsi, del come. Essa richiede una continua correzione del punto di vista e pertanto sempre si pone come infinita introduzione. E poi le annotazioni, quasi appunti di lavoro, note a margine, spunti e rilievi consegnati alla pagina per essere in altre sedi ripresi, come per l’incontro con il Sartre della Critique de la raison dialectique, che Paci legge e vede opera profondamente innovativa che mette al centro della riflessione il concetto di insieme, ricavato dalla matematica, ma usato in senso tendenzialmente fenomenologico come insieme pratico, luogo radicale della soggettività e della intersoggettività.
Nella rassegna di personaggi, con i quali Paci intrattenne feconde frequentazioni, ritorna poi il già citato Merleau-Ponty, il fenomenologo francese il cui pensiero Paci diffuse in Italia; ma nel Diario va ricordato il tono dolente e commosso con cui Paci parla della sua morte e del dialogo con i morti che non si interrompe:
Ieri è morto Merleau-Ponty. “La tradition est oubli des origines, disait le dernier Husserl. Justement si nous lui devons beaucoup, nous sommes hors d’état de voir au juste ce qui est à lui » . Con queste parole egli iniziava il suo bel saggio : Le philosophe et son ombre. Non sapevo che le avrei lette pensando, in un rapporto così diretto e concreto, alla comunicazione tra i vivi ed i morti, al “dialogo con i morti” di cui parla Husserl (19).
In questa sede di scrittura, Paci avverte il senso di una concatenazione, di una empatia tra tutti i filosofi che si rifanno in vario modo ad Husserl, come se, al di là delle diverse sensibilità, la fenomenologia fosse una stoffa comune e collegasse in un lavorio ininterrotto quanti si muovono nel suo solco: “In Husserl, in Merleau-Ponty, in noi, una continua correzione”(20). Husserl stesso nella Krisis e nelle Appendici alla sua ultima opera rimasta incompiuta, si interrogava problematicamente sul senso della storia della filosofia. Così emerge anche la figura di Padre Hermann Leo Van Breda, il fondatore degli Archivi Husserl di Lovanio, cui si deve il primo fondamentale slancio nella conservazione e pubblicazione degli inediti husserliani, che Paci incontrò nel giugno 1961 a Milano, annotando sul Diario il nodo teoretico dell’accordo tra i due sul tema centrale della fenomenologia come filosofia non dell’ens qua ens (che la sospingerebbe nel gorgo della metafisica) ma dell’ens qua verum, cioè del significato che non è dato in partenza; esso va riscoperto e risvegliato in uno sforzo per la verità che non trova fine (21).
Anche riguardo a Paul Ricoeur il Diario ci apre qualche rapido ma vivo squarcio sul contatto tra i due fenomenologi. La annotazione del 30 marzo 1960 è quasi furtiva nel ricordo di un incontro precedente solo ora riannodato:
Ho trovato Ricouer alla Gare del Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane sul mio giaciglio. Professore a Strasburgo e io a Pavia. Poi a Parigi e io a Milano. Quindici anni fa stava traducendo Ideen I di Husserl e se oggi lo ritrovo è perché mi sono rimesso a studiare Husserl (22).
Ancora con Ricoeur, a passeggio al Bois de Boulogne:
Passeggiata con Ricoeur al Bois de Boulogne. Non è convinto del mio modo di ricostruire la fenomenologia. Letture diverse di Ideen I in Merleau-Ponty e in Ricoeur. Ricoeur mi sembra troppo legato a Ideen I. Ha una grande ammirazione e un grande rispetto per Sartre, ma è certo che non ama l’ontologia di Sartre (se si tratta della prima parte di L’etre et le néant, siamo d’accordo). Ipotesi su quello che ci sarà nella Critique de la raion dialectique. Problema dell’evidenza. Evidenza sensibile. Ricoeur mi ricorda questa frase di Nietzsche: “Un suono non si può confutare” (23).
Lo stile diaristico favorisce il recupero del presente nel suo inesauribile scivolare nel passato. Esso ripresentifica non solo la presenza vivente degli interlocutori reali del dibatttito, dell’amicizia, dell’incontro, ma anche di quelli che non sono più e che parlano attraverso la loro opera, che vivono in noi in una esperienza non immediata, e che si installa come voce profonda del tempo che si è fatto significato, telos. Non solo Husserl, sempre presente anche quando non espressamente nominato, ma i grandi poeti e la grande musica, la pittura, l’arte che Paci interrogò non con le categorie del critico, in qualche modo già oggettivate e talora feticistiche; la scrittura del Diario, mai definitoria ma allusiva, maieutica, lontana da una scrittura specialistica, non si limita a registrare il presente, lo offre nella sua ambiguità, nel suo eterno impasto di temporalità e materialità. Le torri di Pavia si sedimentano come documenti viventi perché noi non siamo mai separati dalle cose:
Le torri. Il passato. Sentire il loro senso la loro ragione. La loro storia nel mondo nel quale hanno vissuto e vivono, nelle relazioni che le costituiscono e mi costituiscono. Lasciare che diventino documenti, che il loro silenzio maturi in un nome. Risvegliarle, risvegliarsi (24).
Quelle antiche torri medievali, questo solido passato. Dura ed impenetrabile alterità dell’oggetto. Sono irrisolvibili nella mia soggettività? Ma la natura e la storia non sono separate da noi. Siamo noi in esse, addormentati, oggettivati. Noi che attendiamo di svegliarci (25).
La stessa poesia, movimento ed arte sottile di interiorizzazione della esteriorità e di esteriorizzazione dell’ interiorità, come Paci ebbe modo di sentirla (26), convoca in superficie il terreno del precategoriale su cui essa si costituisce prima di convogliarsi nel guscio della parola. E’ questo il terreno di fondo anche del Diario fenomenologico e del richiamo ai poeti che in alcune delle sue pagine risuona, come Valéry riaffiorato insieme a Schelling, a Bohme, a Husserl, in una fitta architettura di collegamenti e rilievi:
Riflessioni stranamente collegate. Il richiamo di Schelling a Bohme non è il richiamo ad un fondamento ambiguo dove bene e male, luce e tenebre, si confondono? La libertà dell’uomo è la possibilità di vincere l’ambiguità? Su questo fondo ambiguo mi appare il senso positivo della Lebenswelt di Husserl in quanto congiunta, nella presenza, con l’evidenza. Trasformazione del mondo in essenze visibili nelle quali tutto, anche il fantastico, anche il sogno, può diventare verità. Forse sono stati questi pensieri che mi hanno fatto ritrovare l’eco del Cimetière Marin di Valèry: “Le temps scintille et le songe est savoir”. Il piccolo cimitero di Sori, presso Camogli, felicità del mare: “changement des rives en rumeur”. Connessione di queste impressioni coi i miei pensieri sulla vita come risposta ad un problema inesauribile. Valèry reagisce all’idea che la vita nasca dalla morte. Non dunque la “magre immortalité noire et dorée”, ma il senso che ogni risposta viva, proprio nella sua finitezza e nella sua temporalità, proprio perché è irripetibile, è eterna. Passione per il mare. Non solo “ricompense après une pensée”, ma rottura, epochizzazione del sistema, dei libri, della cristallizzazione del mondo in pensieri astratti:
Envoulez-vous, pages toutes éblouies
Rompez, vagues ! Rompez eaux réjoies,
ce toit tranquille ou picoraient des focs (27).
I libri sono, come per Sartre la sua autobiografia Les mots (28), non la vita ma una forma della vita; così la fenomenologia non si trova soltanto nelle pagine. E’ prima e oltre e semmai confina con le pagine di un diario che ritrova nel succedersi ritmato della vita e del tempo il suo fondamento. Il diario infatti non è mai concluso, anche quando subisce una interruzione o sembra esaurirsi nell’orizzonte di un problema o nei confini labili di un giorno. Epochizzare il sistema dei libri, sembra voler dire Paci, non per negarli ma per ritrovare la loro inerenza nella carne del mondo, per radicarli nell’interoggettività. I libri, le opere dei poeti e degli scrittori, dei pensatori non sono staccati dal mondo anche se isolandoli e atomizzandoli lo sembrano. Il Diario li ricongiunge e riconnette al l’insieme vasto e sempre incompiuto delle relazioni, agli incroci e alle linee oblique della vita, della cultura, dell’umanità. E’ possibile una nuova enciclopedia (29), (tema al quale Paci lavorò convintamene) se ogni scienza, ogni sapere, pur non venendo meno alla propria specificità, rinuncia ad ergersi isolato ed autonomo, refrattario a contaminarsi e ad incontrarsi con altre forme e figure della cultura, della civiltà, della storia, disponendosi nella correlazione universale, le cui leggi e segreti non sono completamente evidenti. Chi crede di vedere, forse non vede, annota Paci riprendendo il vangelo giovanneo (IX, 41) nelle parole di Gesù “ ’Se voi foste ciechi non avreste alcun peccato, ma voi dite vediamo, e perciò il vostro peccato rimane’. Aprire gli occhi. Imparare a vedere. Non credere di vedere già”(30).
Il Diario di Paci nell’insieme svela la fenomenologia nel suo proporsi come introduzione al vedere, ad un senso che esiste e che si cela e che ci manca perché rifiutiamo di apprenderlo tra le maschere labirintiche del quotidiano. La vita quotidiana nel suo anonimo reiterarsi, nel suo affollarsi e riempirsi di oggetti, di volti e di gesti, sembrerebbe cacciare indietro la nostra lotta per il senso, per il significato. Ne usciremmo sconfitti, schiacciati e talora ciò sembra il nostro destino, la nostra condanna. Avremmo quindi perduto il senso del risveglio e della nascita, del riaprirsi e del riaffiorare anche dentro le viscere del torpore, della luce anche nel buio della cecità. Ma la seconda nascita, come Paci scrisse sull’episodio evangelico dell’incontro tra Gesù e Nicodemo a proposito della nascita dall’alto, non solo è possibile ma è reale. Ci è data la possibilità del riscatto, di fermare il raggrumarsi dell’inerzia e della passività in noi e fuori di noi, di una conversione alla vita:
Non la vita, non la vita semplicemente subita, la vita prima della riduzione, ma il significato della vita. Ogni giorno questo significato si perde e deve essere riconquistato. Non si perde soltanto per mancanza di attenzione e di riflessione. Si Perde nei compiti minori che crediamo decisivi, nella lotta stupida, nel compromesso, nella “malafede”. Continuo riscattarsi. C’è una specie di ardore nel voler bruciare l’errore. Un senso di ribellione per l’ipocrisia, per l’illusione quotidiana, per il bisogno di possedere le cose, le idee. Noia, stanchezza. Se il senso. Se il senso intenzionale della verità non vivifica i nostri gesti, la stanchezza li consuma. Le ambizioni, nella loro vera natura, sono noiose. Il cielo è indifferente, gli alberi diventano figure approssimative, tutto perde la sua espressione. Poi sopravviene il senso del rifiuto, il bisogno di un atto che faccia scaturire nuovi colori, che faccia vivere le cose, trasformandole in sensazioni vere, in percezioni vere, in figure vere, in espressioni del logos (31).
Le maschere del negativo sono incombenti ma non invincibili; nell’introduzione al Diario Paci parla di salvezza possibile per l’umanità, possibile come la sua distruzione; “il diario è un modo individuale per vivere la crisi e per trovare le direzioni della dialettica. E’ una critica della comunità, ma è una critica di ciascun individuo. […] E’ una riflessione vissuta che ha i suoi limiti, ma che cerca un incontro e vuol realizzare concretamente una via” (32).
N O T E
1. E. Paci, Diario fenomenologico, Milano, Bompiani, 1973. D’ora in poi riportato con la sigla DF.
2. p. 6. Il tema dell’introduzione come stile della fenomenologia ricorre frequentemente nel pensiero di Paci. La filosofia stessa va intesa con una continua preparazione e mai come risultato. Essa si offre in un orizzonte aperto e detotalizzato. In particolare vedasi la voce introduzione che Paci elaborò per la rubrica Il senso delle parole della rivista “aut aut” da lui fondata. La fenomenologia “è per essenza introduttiva. Come riflessione sulla realtà, o sull’esperienza nella quale noi siamo sempre, la fenomenologia è la ricerca del senso e del fine delle situazioni che via via concretamente si determinano nell’esperienza stessa, senso e fine che, pur essendo specifici, si ordinano rispetto ad un orizzonte infinito”. Essa si dà come una perenne ascesi, un esercizio che non è mai precostituito e “non è mai nei libri o nelle parole dei libri” (in E. Paci, Il senso delle parole (1963-1974), a cura di Pier Aldo Rovatti, Milano, Bompiani, 1987, pp. 74-75). Originariamente le note paciane uscirono in “aut aut”, n. 83/1964.
3. Pagina datata Pavia, 14 marzo 1956, DF, p. 11. I corsivi sono di Paci.
4. L’espressione di Proust si riconnette ad un’ampia citazione dello scrittore francese ripresa da Paci nelle note diaristiche del 12 aprile 1956; parlando dei campanili di Martinville, Proust osserva: “En constatant, en notant le forme de leur flèche, le déplacement de leurs lignes, l’ensoleillement de leur surface, je sentais que je n’allais pas au bout de mon impression, que quelque chose était derrière ce mouvement, derrière cette clarté, quelque chose qu’ils semblaient contenir et dérober à la fois », in DF, p. 13.
5. p. 14 (15 aprile 1956). I corsivi sono di Paci.
6. E. Paci, Epochè, in Il senso delle parole, cit., p. 30. Originariamente in “aut aut”, n. 73/1964.
7. DF, p. 15 (26 aprile 1956).
8. p. 25 (18 maggio 1957).
9. Di questa peculiarità dell’atteggiamento di Paci e del suo pensiero ha parlato Pier Aldo Rovatti
nella sua Introduzione a Il senso delle parole, cit., facendo riferimento a tre livelli o strati del lavoro filosofico di Paci, il primo raccolto nei libri e nei saggi pubblicati, il secondo consistente nell’attività maieutica orale delle lezioni, delle conversazioni, il terzo condensato nell’attività “notturna” di scrittura e di incessante ripensamento dei temi filosofici, propria degli appunti, delle pagine di diario, delle note brevi. Scrive Rovatti a proposito: “Chi ha avuto modo di ascoltare qualche lezione di Paci, ricorderà come l’argomento di partenza lasciasse filtrare ogni volta molteplici trame, rimandi, deviazioni: come se Paci non potesse trattenersi dal far irrompere il denso pensiero notturno, che ancora lavorava in lui e forse era appena stato interrotto, nella comunicazione diurna rivolta ai suoi studenti” (p. 5).
10. DF, p. 115 (4 maggio 1961).
11. Sul tema della scrittura in Paci, vedasi il mio saggio, R. Taioli, Scrittura, pensiero, vita in Enzo Paci, “Bloc notes”, n. 35, 1996, pp. 61-79.
12. p. 52 (3 giugno 1958).
13. p. 46 (16 marzo 1958).
14. Vedansi a questo proposito i volumi: F. Papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano. Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Guerini, Milano, 1990 e G. Scaramuzza, Crisi come rinnovamento. Scritti sull’estetica della scuola di Milano, Edizioni Unicopli, Milano, 2000 e i saggi di Silvia Arzola, Il “bisogno d’arte” nel pensiero del primo Enzo Paci, pp. 172-190, Davide Malvestiti, Paci e l’idea di rinascita, pp. 231-244 in La vita irrimediabile. Un itinerario tra esteticità, vita e arte, a cura di G. Scaramuzza, Alinea Editrice, Firenze, 1997. Vedansi inoltre in “Materiali di Estetica”, n. 9/2003 i saggi di G. Scaramuzza, Letture di Dostoevskij nella Scuola di Milano, pp. 53-87, e di R. Taioli, Il problema del significato nella filosofia di Enzo Paci, pp. 230-255.
15. DF, p. 36 (22 luglio 1957).
16. p. 84 (30 0ttobre 1958).
17. ibidem.
18. p. 84.
19. p. 114 (4 maggio 1961).
20. p. 115.
21. p. 115 (10 giugno 1961). Della figura di Hermann Leo Van Breda Paci scrisse, poco dopo la sua morte nel 1974 alcune pagine dal titolo Husserl e il cristianesimo apparse nella rubrica Il senso delle parole nel n. 141/1974 di “aut aut”, poi confluite nel volume, cit, pp. 296-298. Le riflessioni paciane, condotte con senso interrogativo e dilemmatico, si pongono il problema che aveva assillato Van Breda per tutta la sua vita, cioè l’inerenza del cristianesimo alla fenomenologia, soprattutto sulla crucialità del legame cristiano Padre/Figlio. Paci annota: “Husserl fonda la sua filosofia sulla presenza. Ma Van Breda si chiedeva: fino a che punto la presenza del Figlio è anche la presenza del Padre e fino a che punto ciò esige la crocifissione e cioè una funzione del negativo? Per quanto riguarda il Padre, Husserl lo sentiva certamente come il logos del Vangelo di Giovanni. Ma tutta la fenomenologia teorizza il problema della creatività divina, il problema della origine paterna. […] La dipendenza dal Padre è intesa dalla fenomenologia come un dato da porre sotto epochè e forse è proprio questo che Van Breda non poteva accettare” (p. 296).
22. DF, p. 96 (30 marzo 1960- Parigi).
23. p. 97 (3 aprile 1960 – Parigi).
24. p. 13 (2 aprile 1956).
25. ibidem, (10 aprile 1956).
26, E. Paci, Dialettica e intenzionalità nella critica e nella poesia, in E. Paci, Relazioni e significati, vol. III, Lampugnani Nigri, Milano, 1966, p. 300.
27. DF, pp. 57-58 (1 luglio 1958 – Camogli ). I corsivi sono di Paci.
28.Sul tema dell’alienazione delle parole e dei libri, vedasi il saggio di Paci dedicato all’autobiografia sartriana Les mots; Le parole, in “aut aut”, n. 82/1964.
29. Sul tema della nuova enciclopedia vedasi il volume di Paci, Idee per una enciclopedia fenomenologia, Bompiani, Milano, 1973.
30. DF, p. 45 (14 marzo 1958).
31. p. 90 (4 giugno 1959).
32. DF, Introduzione 1973, cit. , p. 9.
PIERO MARTINETTI
VITA E OPERE
Pier Federico Giuseppe Celestino Mario Martinetti nasce a Pont Canavese (allora in provincia di Aosta, oggi di Torino) mercoledì 21 agosto 1872 dall’avvocato Francesco e da Rosalia Bertogliatti, di famiglia notarile, fervente anticlericale. È il primo di cinque figli: due morranno in tenera età, Lorenzo (1882-1946) diverrà avvocato a Torino, e Teresa (1875-1954), insegnante di tedesco, rimarrà accanto al fratello fino alla morte. Dopo aver frequentato il liceo di Ivrea, si iscrive alla Regia Università degli Studi di Torino, dove si laurea in filosofia nel 1893 con una tesi indologica su “Il sistema Sankhya” (99/110: in commissione v’erano Arturo Graf, Pasquale D’Ercole e Giuseppe Allievo; ma 101/110 secondo [BS] 14), che verrà pubblicata nel 1897 e che riceverà il Premio Gautieri. Dopo un soggiorno all’Università di Lipsia, inizia a lavorare come insegnante di filosofia nei licei di Avellino, Vigevano e Ivrea. Nel 1902 riesce a dare alle stampe un suo lavoro monumentale, la prima parte di una “Introduzione alla metafisica” (Premio Gautieri ex-aequo con gli “Elementi di filosofia per le scuole secondarie”: II. Psicologia di Filippo Masci), lavoro che gli permetterà di concorrere e di vincere le cattedre di Filosofia teoretica e morale all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, dove lo troviamo ininterrottamente dal 1906 al 1931 (dal 1923 verrà denominata Università Statale). Nel 1926 presiede, sempre a Milano e non senza riluttanza, visto il suo carattere schivo e riservato, il VI Congresso Nazionale di Filosofia, o almeno tenta di farlo, dato che, per alcune polemiche sorte con agitatori politici fascisti (Armando Carlini) e cattolici (padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università Cattolica), è costretto a ritirarsi e a sciogliere il congresso dopo soli due giorni (al congresso avrebbe dovuto partecipare anche padre Ernesto Buonaiuti, al centro delle polemiche moderniste e macchiato dalla scomunica maggiore vietando il 25 gennaio di quell’anno). Martinetti rappresenta, nei tormentati anni ’20, una singolare figura di intellettuale “laico”, distante tanto dalla filosofia accademica ufficiale, l’attualismo di Giovanni Gentile, quanto dalla caleidoscopica mappa politico-religiosa imperante, ovvero la Chiesa cattolica da una parte, i neonati fascisti e le opposizioni socialiste e comuniste dall’altra. Egli non si preoccupa di apparire favorevole all’uno o all’altro schieramento in campo. Si occupa solo di filosofia “teoretica”, in particolare “religiosa”, ma con un détachement cosmopolitico e razionalistico che non può trovare compromessi con qualsivoglia “fede”, materialistica come irrigidita dalla tradizione dogmatica ecclesiastica. E fu così che, quando il ministro dell’educazione nazionale Balbino Giuliano nel dicembre 1931 impose ai professori universitari il giuramento al regime fascista, Martinetti fu tra i dodici che si rifiutarono recisamente fin dal primo momento (su 1225: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Bartolo Nigrisoli, Edoardo e Francesco Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra; ricordiamo che Benedetto Croce non insegnava e che si ritirò da ministro della pubblica istruzione nel 1921 proprio per non aderire al fascismo, posizione rinsaldatasi ancora maggiormente dopo il delitto Matteotti del 1924; a Pisa nel 1933 Gentile impone la tessera ad Aldo Capitini, segretario della Scuola Normale: egli rifiuta e viene cacciato), ed egli “per un motivo religioso, per non subordinare le cose di Dio alle cose della terra: dove sta per andare il rispetto della coscienza? Ciò è triste ed annunzia oscuramente un avvenire triste per tutti, anche per i persecutori” (da una lettera ad Adelchi Baratono). “Ho sempre ritenuto assurdo giurare fedeltà alla Chiesa; a maggior ragione non giurerò fedeltà a un regime politico”. Così può essere espressa la motivazione profonda che spinse Piero Martinetti, nel 1931, a non piegarsi al nuovo regolamento universitario voluto dal fascismo. Pare che abbia anche accennato al fatto di non essersi sposato per lo stesso motivo: che il giuramento implicito nel matrimonio, di fedeltà e di amore eterno, è paradossale e impronunciabile quanto gli altri due. Ma questo forse fa solo parte di quel poco di leggenda che si è tramandata su di lui. “Io non ho voluto giurare […] – scrive in una lettera a un amico – per un motivo religioso, per non subordinare le cose di Dio alle cose della terra”. Al contrario di altri tipi di giuramento, attinenti alla sfera giuridica, “inammissibile”, immorale e indice di una religiosità immatura, è infatti giudicato quel tipo di giuramento “per cui l’uomo si impegna a regolare la propria condotta secondo la volontà altrui, cioè a non tenere conto dei comandamenti della propria coscienza”. “Ieri sono stato chiamato dal Rettore di questa Università che mi ha comunicato le Sue cortesi parole, e vi ha aggiunto, con squisita gentilezza, le considerazioni più persuasive. Sono addolorato di non poter rispondere con un atto di obbedienza. Per prestare il giuramento richiesto dovrei tenere in nessun conto o la lealtà del giuramento o le mie convinzioni morali più profonde: due cose per me egualmente sacre. Ho prestato il giuramento richiesto quattro anni or sono, perché esso vincolava solo la mia condotta di funzionario: non posso prestare quello che oggi mi si chiede, perché esso vincolerebbe e lederebbe la mia coscienza. Ho sempre diretta la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere. Così, ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita, è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto, io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a smentire con esse tutta la mia vita; l’Eccellenza Vostra riconoscerà che questo non è possibile. Con questo io non intendo affatto declinare qualunque eventuale conseguenza della mia decisione: soltanto sono lieto che l’Eccellenza Vostra mi abbia dato la possibilità di mettere in chiaro che essa procede non da una disposizione ribelle e proterva, ma dalla impossibilità morale di andare contro ai princìpi che hanno retto tutta la mia vita”. (lettera al ministro Giuliano, in “Il Ponte”, VII, Nuova Italia, Firenze 1951: 342-3). Dal 1932 fino alla morte Martinetti si dedica esclusivamente allo studio personale della filosofia, ritirandosi nella casa di Spineto di Castellamonte (sul cancello v’era scritto: “Piero Martinetti agricoltore”), collaborando con vari articoli alla “Rivista di Filosofia”, traducendo i suoi classici preferiti (Kant, Schopenhauer, lo storico della filosofia Harald Höffding, il premio Nobel Rudolph Eucken), scrivendo i suoi capolavori (la cosiddetta “trilogia” iniziata con l'”Introduzione alla metafisica” e continuata nel 1928 con “La libertà” termina nel 1934 con “Gesù Cristo e il cristianesimo”), ormai tutti afferenti a tematiche filosofico-religiose (“Il Vangelo” è del 1936, “Ragione e fede” viene completata nel 1942; [GC], [V] e [RF] sono all’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica, decreto 3 dicembre 1937, un altro punto di contatto con l’amico Aldo Capitini: anche “Religione aperta” finì all’Indice nel 1955), dedicandosi inoltre ad antologie e compendi su Platone, Spinoza, Kant, Hegel e Schopenhauer. Conosce il carcere dal 15 al 20 maggio 1935 per la sua sospetta corrispondenza con intellettuali invisi al regime, in particolare con alcuni esponenti del movimento clandestino “Giustizia e Libertà” a cui naturalmente non fece mai parte. Solo, ma sorretto dall’amicizia di alcuni ammiratori, colleghi, discepoli ed ex-studenti (oltre che dall’affetto dei suoi numerosi gatti), morì nel vicino ospedale di Cuorgnè martedì 23 marzo 1943 all’età di 70 anni, verosimilmente di polmonite.
CRONOLOGIA
1872: 21 agosto, Piero Martinetti nasce a Pont Canavese.
1893: si laurea in filosofia a Torino su “Il sistema Sankhya”.
[SS] Il sistema Sankhya (Torino : Lattes, 1897).
[IM] Introduzione alla Metafisica (Torino : Bona, 1902; Torino : Clausen,
1904; Genova : Marietti, 1987).
1906: vince le cattedre di filosofia teoretica e morale all’Università di
Milano.
[CU] Corso universitario 1918/’19 (manoscritto dell’Archivio Martinetti: 5,
II, 1, per gentile concessione dell’Accademia delle Scienze di Torino).
[PA] Pietà verso gli animali (1920; Genova : Melangolo, 1999).
[BS] Breviario spirituale (Milano : Isis, 1923; Torino : Bresci, 1972).
[AK] Antologia kantiana (Torino : Paravia, 1925).
1926: presiede a Milano il turbolento VI Congresso Nazionale di Filosofia.
[D] Discorso di Piero Martinetti agli Universitari Canavesani (19-IX-1926;
Castellamonte : Lions Club Alto Canavese, 1984).
[SD] Saggi e discorsi (Torino : Paravia, 1926).
[L] La libertà (Milano : Libreria Editrice Lombarda, 1928; Torino :
Boringhieri, 1965. – Con indici).
1931: rifiuta il giuramento al regime fascista e si ritira a Spineto di Castellamonte. [GC] Gesù Cristo e il cristianesimo (Milano : Rivista di Filosofia, 1934). 1935: dal 15 al 20 maggio incarcerato a Torino per la sospetta appartenenza a Giustizia e Libertà. [V] Il Vangelo (Modena : Guanda, 1936; Genova : Melangolo, 1998. – Con indice biblico). [A] L’amore (1938; Genova : Melangolo 1998. – Con indici). [AP] Antologia platonica (Torino : Paravia, 1939). [SP] Spinoza (1939; Napoli : Bibliopolis, 1987. – Con indici). [SCH] Schopenhauer (Milano : Garzanti, 1941; Bologna : Patron, 1973). [RF] Ragione e fede (Torino : Einaudi, 1942). [H] Hegel (Milano : Bocca, 1943; Milano : Celuc, 1985). [K] Kant (Milano : Bocca, 1943). 1943: 23 marzo, muore a Cuorgnè. [Ep] Lettere inedite di Piero Martinetti (“Giornale di metafisica”,
5-6/1972, Torino : SEI, 1972).
[SFR] Saggi filosofici e religiosi (Torino : Bottega di Erasmo, 1972).
[SMFR] Scritti di metafisica e di filosofia della religione (Milano :
Comunità, 1976. – Con indici).
[SI] La sapienza indiana (Milano : Celuc, 1981).
IL PENSIERO
Strenuo sostenitore di una religiosità laicamente intesa e instancabile propugnatore della forza della ragione quale prerogativa più genuinamente umana, Pietro Martinetti si formò a Lipsia nel clima culturale che aleggiava nella Germania ottocentesca: in particolare, egli si sostanziò di Kant e, soprattutto, di Schopenhauer (al quale lo legava anche l’ammirazione per la riflessione indiana), pensatori con i quali ebbe modo di condividere la convinzione che la realtà quale ci appare non corrisponda alla realtà nel suo essere-in-sé. Proprio sulla divisione kantiana tra “noumeno” e “fenomeno” poggia il primo grande scritto di Martinetti, risalente al 1904 e significativamente intitolato “Introduzione alla metafisica”: il nucleo portante dell’opera può essere agevolmente rintracciato nelle contraddizioni che dilaniano la realtà fenomenica, ossia la realtà quale si configura alla nostra percezione, frantumata in una molteplicità indefinita. Le molteplici contraddizioni che caratterizzano tale realtà rimandano ad una realtà assoluta ed incondizionata (o – per usare una categoria kantiana – “noumenica”), la cui esistenza è peraltro attestata a viva voce dall’incondizionatezza dell’imperativo categorico e del dovere morale. La realtà che appare plurale è pertanto, se letta in profondità, unitaria, così come l’aveva concepita Spinoza, cui Martinetti espressamente si richiama in antitesi con l’immanentismo proposto invece dall’avversato Hegel. L’ufficio della filosofia, in quest’ottica, sarà allora quello di risalire – mediante sintesi graduali – dalla realtà molteplice all’unità assoluta, cosicchè la filosofia viene a prospettarsi – schopenhauerianamente – come un cammino di ascesa personale verso una sempre più perfetta conoscenza (razionale) di Dio. Martinetti resta saldamente legato ai princìpi kantiani della religione entro i soli limiti della ragione: travalicare tali confini equivale a commettere un errore imperdonabile; le religioni positive (e Martinetti ha in mente soprattutto il cattolicesimo), che raggiungono Dio non con la ragione ma con rappresentazioni simboliche imperfette e inadeguate sono nettamente inferiori rispetto alla filosofia, capace – attraverso procedimenti argomentativi – di conoscere ogni cosa. Con queste riflessioni sullo sfondo, Martinetti scrive nel 1934 una monografia su “Gesù e il cristianesimo”, che fu però immediatamente sequestrata e tolta dalla circolazione. Il cammino razionale verso l’unità divina produce una forma di saggezza che porta a considerare le cose della vita – soprattutto di quella morale – “dal punto di vista dell’eternità”, in maniera non del tutto differente dal “sub specie aeternitatis” di Spinoza. Naturalmente, questa considerazione implica la consapevolezza che le azioni umane non pervengono mai a realizzare pienamente questo fine, ovvero che il kantiano “regno dei fini” non appartiene a questo mondo, ma è un ideale posto nell’infinito (quasi un’ “idea” nel senso kantiano), al di là di ogni ingannevole molteplicità empirica e richiedente una dedizione totale. Stando a questa prospettiva martinettiana, il risultato positivo della filosofia consisterà non tanto nell’edificare costruzioni teoriche, ma, piuttosto, “nell’educazione religiosa dell’umanità”: già nel suo scritto pubblicato anonimo del 1922 – “Breviario spirituale” – Martinetti fa leva sul carattere sacro degli altri e sul fatto che giustizia e carità, in qualche misura, già rivelano questo regno dei fini. E’ da qui che nasce l’intransigenza morale del dovere per il dovere e dell’amore per gli altri e, in contemporanea, la lotta contro il fanatismo (non solo religioso) in nome della ragione, nemica di ogni intolleranza e intransigenza. Additando nell’amore per la libertà l’amore più elevato, nel volume per l’appunto intitolato “La libertà” (1928), Martinetti venne paradossalmente a trovarsi in maniera impressionante vicino alle posizioni che andava a quel tempo elaborando Benedetto Croce con la sua “religione della libertà”, anche se il filosofo canavese non arrivò mai a condividere la filosofia ottimistica che informava il pensiero crociano. Contrapposti a tutti coloro che – in un’ottica spinoziana – sono padroneggiati dalle passioni, sono quelli che, invece, sanno signoreggiarle razionalmente, in nome di una ragione che legge la realtà nella sua unitarietà noumenica: personaggi di questo tipo sono, oltre ai filosofi e ai sapienti, gli uomini semplici e umili che figurano nei Vangeli, di cui Martinetti è attento conoscitore.
Piero Martinetti, fra il 1924 e il 1927, tenne all’Università di Milano una serie di lezioni su Kant; dal volume che raccoglie quelle lezioni sono tratte le considerazioni che seguono. Martinetti avanza una interpretazione “idealistica” del concetto di noumeno: esso non può avere una funzione esclusivamente “negativa” e di “limite”; in qualche modo il noumeno esprime un contenuto positivo, una forma di realtà che trascende – è vero – la nostra facoltà di conoscere, ma che apre anche alla ragione una possibilità di agire, di avere un “oggetto” suo che è seppure ignoto è evoca l’esistenza di un “mondo perduto” verso cui dirigerci.
“Non si può dire che il concetto del noumeno sia puramente negativo: una pura negazione sarebbe l’ignorare questo concetto e il porre, esplicitamente o non, il mondo fenomenico come solo esistente. Non è dunque una pura negazione l’atto per cui apprendiamo; non è un atto che elimini da sé ogni traccia d’una qualche affermazione positiva: è un atto che negando il carattere assoluto della realtà sensibile pone qualche cosa d’altro, il noumeno. La forma negativa dell’espressione cela un contenuto positivo. […] La morale di Kant è innanzitutto una metafisica della morale, cioè un capitolo di metafisica; e, solo in via secondaria, è una morale. Laddove, per esempio, Spinoza parte dalla considerazione del nostro conoscere in genere e dalle sue esigenze per elevarsi al concetto (simbolico) della sostanza e da questo punto di vista ricostruire poi dinanzi ai nostri occhi il mondo, Kant respinge (se a torto o a ragione non dobbiamo qui decidere) ogni possibilità di questo genere: il conoscere in genere non porta ad alcun risultato oggettivo, in riguardo alla realtà assoluta, e perciò non potrebbe da sé solo condurci al di là di una sterile negazione [della possibilità della ragione di conoscere alcunché e quindi di legiferare in campo morale]. Noi ci troveremmo, secondo Kant, se fossimo abbandonati alla sola nostra conoscenza generica del mondo, come anime immerse in una tenebra impenetrabile e dotate della reminiscenza di un perduto mondo della luce: ma cosí vaga che non condurrebbe ad altro risultato se non alla coscienza che esse non appartengono e non sono nate per questa realtà tenebrosa. Secondo la metafisica invece, anche questa sola reminiscenza basta all’anima per ricostruirsi almeno in modo approssimativo una pallida immagine del mondo perduto che le serve per dirigersi e fare ad esso ritorno. Ma, secondo Kant, noi non siamo limitati alla conoscenza della realtà esteriore, che è per Kant la conoscenza in genere, oggetto delle scienze e della metafisica (nel senso che egli dà a queste parole); noi abbiamo, in mezzo a queste tenebre, un punto luminoso: un punto solo, ma che ci basta per dirigerci e per ricostruirci anche il mondo in cui viviamo, cosí almeno come è necessario per dirigerci. Questo punto luminoso è la conoscenza del nostro essere come operante moralmente. Qui, e qui soltanto, discende un raggio della realtà divina: questo è il punto che dobbiamo chiarire a noi medesimi come il solo e vero sapere che abbiamo della realtà assoluta: non tanto per conoscere alla luce sua il mondo (perché ciò non sarebbe una estensione del conoscere), quanto per poterci guidare nella vita in modo da elevarci verso questa realtà divina nella misura in cui a noi è possibile qui, nella nostra condizione presente. La morale di Kant è quindi la sua vera metafisica. La metafisica di Kant, potremmo dire, è divisa in due parti. La prima ci mostra che tutta la realtà data alla nostra conoscenza non è la vera realtà: ma non va oltre al punto limite di questa negazione. La seconda ci mostra che la vera realtà ci traluce in un punto solo, nella nostra attività morale: ed anche qui ci è data non come conoscenza, ma come direzione; vale a dire (per servirci di una immagine) come un vero punto, che non ha estensione alcuna la quale si presti ad un conoscere oggettivo, ma che ci serve almeno per riconoscere la realtà positiva di ciò che è al di là di quella negazione e per servircene come orientamento”. (P. Martinetti, Kant, parte I, cap. IV; parte II, Introduzione)
LA CONCEZIONE RELIGIOSA
Pensatore di netta ispirazione neokantiana, Martinetti (in sintonia con il Kant della religione ricondotta entro i confini della ragione) riduce il Vangelo a legge morale e il Salvatore a una figura profetica. Già il volume del 1928, “La libertà”, limita fortemente il pur affascinante tema. Ma è con “Gesù Cristo e il Cristianesimo” del 1934 e nel 1936 con l’antologia introdotta e commentata “Il Vangelo”, che il progetto del compiersi religioso della filosofia mostra la limitatezza dei suoi esiti nell’applicarlo all’interpretazione della “più grande religione dell’Occidente”. Non stupisce né scandalizza quindi la condanna, all’epoca, da parte della congregazione del Santo Uffizio. Pur mosso dal nobile intento di salvare la eccelsa moralità e profonda spiritualità del messaggio di Gesù Cristo, Martinetti riduce a “elemento leggendario”, “particolari leggendari”, nascita, miracoli e resurrezione di Gesù. Espungendo dal Nuovo Testamento la fede nella resurrezione di Gesù, non solo elimina ogni fondamento alla comunità ecclesiale, ai dogmi teologici, alla sacramentalità liturgica, ma innanzitutto deve limitare la propria antologia ideale ad alcuni passi dei Vangeli sinottici, a quelli cioè conformi, anzi non contraddittori con i presupposti razionali della fede razionale, coscienzialista, morale proposta. L’antologia – dichiara Martinetti – “lasciando da parte l’elemento leggendario e dogmatico, cerca di disporre il materiale evangelico nell’ordine logicamente più appropriato. Tutto quello che i vangeli contengono di essenziale per la nostra coscienza religiosa è stato qui conservato”. Il risultato di questo ordinamento logico è l’espunzione, in quanto elaborazione teologica successiva agli “ipsissima verba” di Gesù di Nazareth o ancora propria all’ebraismo da cui Gesù stesso non è immune, del Vangelo di Giovanni, degli Atti degli Apostoli, delle Lettere di Paolo e non, dell’Apocalisse. Gesù di Nazareth, e non di Betlemme, è un profeta ebraico, l’ultimo e il più grande dei profeti. Non quindi Figlio di Dio, nemmeno resuscitato dalla morte, né apparso realmente ai suoi, Gesù in quanto Messia annuncia un regno messianico a cui succederebbe escatologicamente il regno dei cieli, quello di Dio. Tuttavia non chiarendo tale avvento escatologico, di fatto Gesù è storicamente soltanto maestro di dottrina morale: rinunciare al mondo per unirsi spiritualmente e interiormente a Dio, il bene supremo, e amare il prossimo. Riducendo la religione a intenzione morale e la fede a ragione pratica, Martinetti affronta il Nuovo Testamento e gli stessi Vangeli sinottici con categorie forse logiche, ma atte a comprendere come atti reali solo i dati della coscienza, il dato di fatto fondamentale della ragione umana inteso kantianamente come legge morale. Quando invece la teologia non solo di san Paolo e di san Giovanni o degli antri evangelisti, ma la teo-logia che Gesù Cristo stesso è, incarna, rivela e vive, nella parola non esaurisce l’evento, nel verbo non annulla la soggettività del fatto storico e sovrannaturale, nella universalizzazione filosofica e razionale ascolta e comunica amorevolmente la trascendenza continua e la libertà che è Dio. In Martinetti accade così che una pura, autentica religiosità coincida con la più perfetta laicità. Morale e religione, nel suo pensiero, sono lo stesso: la religione non è autentica, ma volgare e ipocrita, se non è fondata su una morale che mette al primo posto l’autonomia del giudizio e la libertà di coscienza, la quale non può essere – per definizione – messa al servizio di nessuno, né di un partito, né di una patria, né di una chiesa. Soprattutto di una chiesa. E lo si vede bene dalla sua guida ai Vangeli, che uscì nel 1936, che incorse – come già il volume su Gesù Cristo e il Cristianesimo, del ’34. Martinetti legge il Vangelo cercando di separare gli aspetti leggendari, aggiunti dai discepoli, dalla verità storica e da ciò che è ragionevole attribuire allo stesso Gesù. Nel suo tentativo piano e pacato di assegnare alle diverse fonti – in primis ai Vangeli ufficiali – il giusto grado di affidabilità, una delle cose che agli occhi di Martinetti appaiono più certe è appunto che Gesù non aveva nessuna intenzione di fondare una Chiesa: questa gli è stata attribuita più tardi, insieme a una serie di elementi dogmatici che nei Vangeli si mescolano con la narrazione, rendendoli spesso oscuri e talvolta inintelligibili. Nel Vangelo di Giovanni l’elemento dottrinale e teologico prevale decisamente, e viene preso in considerazione solo nella parte relativa alla passione e morte. Più vicino ai fatti è quello di Marco, scritto nel 70 d.C. circa, a quarant’anni dalla morte di Cristo, quando già erano circolate molte leggende, delle quali sono ancor più ricchi quello di Matteo e Luca, scritti intorno all’anno 100. Per esempio, essi sentono l’esigenza di far nascere Gesù a Betlemme (e non a Nazareth, la sua città) perché il Messia, secondo le profezie, doveva venire da lì. E così è nata tutta la storia di un censimento mai verificatosi, di Erode, dei re magi, e via dicendo. Anche la natura divina di Gesù e la sua vita soprannaturale sono per Martinetti un complemento dogmatico, perché il “Messia era agli occhi di Gesù solo un inviato di Dio, non un Dio”. Né le guarigioni prodigiose di Gesù possono essere considerate miracoli. E i veri e propri miracoli (la moltiplicazione dei pani, il cammino sulle acque, il disseccamento del fico, ecc.) sono “talmente miserandi” da essere indegni di un “uomo divino”; inoltre sono spesso ricalcati su parabole, il che fa pensare che siano pure invenzioni. Altrettanto infondate dal punto di vista storico sono le vicende successive alla morte di Gesù e relative alla resurrezione. Assai forzata è l’idea che egli si sarebbe consapevolmente autoimmolato, che non abbia opposto resistenza al suo arresto, che Pilato sia stato indulgente con lui, che il popolo sia stato convocato e che abbia scelto Barabba, ecc. ecc. Tutte cose palesemente false, secondo Martinetti, che oscurano il vero messaggio di Gesù, che non ha bisogno di mediazioni perché è rivolto direttamente al cuore e alla mente degli uomini, ed è fondato sulla pietà, la carità, l’eguaglianza tra gli esseri umani, la coerenza tra parole e azioni e sull’affermazione della bontà di Dio: elementi di un cristianesimo interiore che ogni pensiero libero dovrebbe portare con sé.
L’AMORE
“L’amore” è un testo di Martinetti che, ultimato nel ’38, non fu pubblicato: presenta un volto nuovo e per molti lati inaspettato del filosofo canavesano, noto per i suoi studi di afflato etico-religioso, sia pure di una religiosità alquanto ostile ad ogni comunione ecclesiale. La sua prospettiva trae alimento da autori quali Platone, Plotino, Spinoza, Kant, Schopenhauer. Si avverte invece la mancanza di riferimenti a Vladimir Solov’ev, che su taluni punti, soprattutto sull’amore quale fattore di unità, esprime una posizione affine a quella martinettiana Il volto inaspettato di “L’amore” risiede nella approfondita, analitica considerazione dell’amore erotico, fortemente radicato nella sessualità ma non riducibile soltanto a questa. In una prima parte, l’autore riflette sul fatto erotico, considerandolo in rapporto alla donna, all’amore fisico, a quello sentimentale e infine spirituale. Nella seconda sono considerate le “istituzioni erotiche” quali il matrimonio e la prostituzione. Se si decide di lasciar da parte giudizi alquanto pesanti sulla donna – tra cui quello per cui sarebbe strutturalmente inidonea a svolgere taluni compiti – e sul femminismo, nell’autore è presente una visione vivida e sostenuta da un’ampia documentazione della straordinaria complessità del fatto sessuale erotico-unitivo nella vita umana, in rapporto al quale viene fatto cenno a numerosi temi di permanente attualità: unioni matrimoniali stabili, convivenza, concubinato, “unioni erotiche o di prova”, divorzio, piaga della prostituzione e metodi per limitarla Pur nella varietà dei temi, una prospettiva sostanzialmente unitaria sostiene l’ordito dell’opera e si intreccia nell’idea che l’amore sessuale sia capace, se non si blocca al solo livello dell’istinto, di creare unità tra gli amanti, da esso proiettati verso una creazione spirituale-ideale che non è il figlio ma qualcosa d’altro, a cui anche il figlio può eventualmente servire: “l’individuo a cui l’amore tende non è il figlio, ma l’individuo ideale risultante dall’unione degli amanti” Tale unità è lo scopo vero dell’amore sessuale, e l’elemento di ascensione della vita: l’apparizione del figlio, non esclusa appare come fatto secondario eppure spesso importante, rispetto al fine fondamentale stabilito nell’unità della coppia. L’unione sessuale intesa come la prima forma di unità morale degli uomini: “l’unione erotica è il primo anello verso una sublimazione sempre più perfetta della vita, che raggiunge i suoi gradi più alti nella vita morale e religiosa”. In tal senso, sono per Martinetti (sotto questo profilo molto poco aperto di vedute) da condannarsi la poligamia e l’omosessualità. Nel filosofo canavesano, si riscontra una posizione polare rispetto a quella di Schopenhauer: se per il pensatore tedesco il fine unico dell’amore sessuale è la perpetuazione della specie (“dietro l’alato e sorridente dio d’amore sta nascosto l’inesorabile genio della specie”), per Martinetti lo scopo dell’amore consiste nella creazione dell’unità tra gli amanti. Nell’ordine morale l’unione dell’uomo e della donna possiede un autonomo valore in sè completato dall’unità familiare. Ne consegue, che salvo rari casi, il matrimonio è superiore al celibato “l’amore puro e profondo di una donna non toglie mai la vista di Dio” Taluni studiosi del pensiero martinettiano vi trovano cenni gnostico-dualistici e catari, che per altro sembrano bilanciati dalla forte considerazione di Eros e dal rifiuto della continenza sessuale assoluta, quale era invece praticata nelle sette gnostiche radicali. A ciò si aggiunge in Martinetti l’adozione di una morale anti-scettica, basata sull’irriducibile diversità tra bene e male.
EMILE MEYERSON
Polacco di origine e naturalizzato francese, Émile Meyerson (1859-1933) giunge alla filosofia attraverso lo studio delle scienze naturali. Dei suoi scritti meritano di essere ricordati: Identité et réalité (1908), De l’explication dans les sciences (1921), La déduction relativiste (1925), Du cheminement de la pensée (1925). In essi risulta evidente l’influenza esercitata dalla tradizione francese della critica delle scienze, da Poincaré e da Duhem a Boutroux e a Bergson. Meyerson si oppone alla prospettiva fenomenologia ve positivista secondo cui le scienze della natura, nel loro stadio puù evoluto, devono rinunciare ad ogni spiegazione causale dei fatti nella loro realtà ontologica e limitarsi ad indagare solamente sulle uniformità (o leggi fenomeniche). La scienza, invece, è ai suoi occhi essenzialmente ontologica ed esplicativa: “ontologica” nel senso che non può accontentarsi di meri rapports sans supports, quali sarebbero quelli che il fenomenismo stabilisce tra i dati della sensazione, ma richiede fondamenti stabili, oggettivi, delle cose, il più possibile indipendenti dalle condizioni soggettive delle percezioni; ed è “esplicativa” nel senso che la scienza ha di mira non solo la legalità, ma anche (e ancor di più) la causalità dei fenomeni, la quale ci fornisce il perché delle loro connessioni. Nondimeno, proprio per l’istanza ontologica immanente alla scienza, le cose, che essa tende a determinare nel modo più indipendente dalle condizioni soggettive della percezione, si fanno via via così lontane dalla sensibilità da risolversi alla fine in meri enti di ragione (atomi, etere, ecc). Il progresso della scienza consiste per l’appunto in questa epurazione degli elementi, che può sembrare come una materializzazione degli oggetti: così, l’abbandono del vecchio atomismo ha la sua ragione intrinseca nell’eccessiva corpulenza dei suoi atomi, che trascinava con sé troppi detriti di qualità sensibili; e il successivo polverizzamento degli atomi in entità ancora più elementari (gli elettroni), l’assunzione dell’etere come un’espressione fisica dello spazio matematico, e, infine, il principio di relatività che rende superfluo anche l’etere, riducendo la fisica a una geometria superiore, obbediscono alla costante esigenza realistica della scienza di porre delle entità per sé sussistenti e non modificabili dai nostri sensi. Tale processo, che può essere detto razionalistico, è il processo in virtù del quale la scienza moderna tende sempre più a semplificare tutte le varietà e le differenziazioni della realtà naturale, tende cioè a ridurle o a ricondurle nell’ambito di un solo principio. Del principio di identità, inteso in senso attivo e sintetico come principio di identificazione. In virtù di tale principio, infatti, non soltanto riconosciamo l’identico là dove esso esiste, ma riconduciamo all’identico ciò che dapprima non ci era parso tale: in ciò consiste propriamente l’istanza esplicativa della scienza. E invero la spiegazione causale dei fenomeni non è, nell’ambito dell’indagine scientifica, se non un modo di ricondurre all’identico: la spiegazione, mediante la quale mostriamo che ciò che esisteva prima sussiste dopo, che niente s’è creato e niente s’è perso; in altri termini, la spiegazione del mutevole col persistente. Ne segue che, in forza dell’identità perfetta tra la causa e l’effetto postulata dalla tendenza causale, si rende possibile, nella ricerca scientifica, rovesciare il fenomeno, ricostruire la causa con l’effetto, giungere cioè all’antecedente partendo dal seguente. E tale è, in realtà, la tendenza esplicativa della scienza, come si osserva nella meccanica razionale, nella quale tutti i movimenti sono reversibili. Ma, proprio quando in forza di tale procedimento, la scienza razionale crede di poter celebrare i suoi maggiori trionfi, proprio allora quella realtà che alla scienza è parso di aver determinato nella sua intima essenza, sembra svanire nel nulla. Col sostituirsi dell’identico al diverso e con l’assottigliarsi degli elementi delle cose fino a diventare meri enti di ragione, il mondo oggettivo sconfina nell’astratto; e il più strano è che questo annientamento progredisce a misura che l’ontologismo scientifico si consolida e si purifica delle scorie sensibili, in modo che gli ultimi enti della scienza sono, a un tempo, più sostanziali delle cose dell’esperienza comune e più inconsistenti ed inafferrabili. Se siffatta tendenza identificatrice non incontrasse ostacoli nella resistenza degli oggetti, il progresso della scienza ci porterebbe ad una specie di acosmismo concettuale, distruttivo di quelle esigenze empiriche e realistiche che la scienza non può fare a meno di riconoscere e di fare sue. Invece la realtà (che è, di per sé, diversità e novità e molteplicità) resiste allo sforzo riduttivo del nostro procedimento razionale, cosicché la sua resistenza ci costringe a constatare qualche cosa di irriducibile, a cui diamo perciò il nome di irrazionale (proprio perché antitetico alla razionalità). Di qui deriva il celeberrimo paradosso epistemologico cui approda Meyerson e in cui, in definitiva, si sintetizza il suo pensiero. Riprendendo il testè esaminato contrasto tra il razionale e l’irrazionale, egli asserisce che la scienza studia i fenomeni, i quali non sono che mutamento, con l’aiuto di un principio che mira ad affermare l’identità dell’antecedente e del conseguente, che mira cioè a negare che le cose mutino. Nel fare ciò, nel tentar di penetrare l’essenza delle cose di cui afferma la realtà, si avvale di una concezione che annulla tutta la loro varietà; e (cosa ancora più bizzarra e contraddittoria) riesce in qualche misura in questa sua impresa, siccome la natura, benché limitatamente, sembra mostrarsi penetrabile ad una teoria che mira a dimostrarla insussistente. Tale dualità (d’identità e di realtà, di unità e di molteplicità, di razionalità e di irrazionalità) non vuole tuttavia essere per Meyerson una dualità di ordine metafisico, ma piuttosto di ordine meramente epistemologico: vuole cioè essere una dualità che sorge in seno alla scienza stessa e che, in forza di ciò, lascia impregiudicata (e cioè insoluta) la questione metafisica sulla natura della realtà in se stessa. Di qui riaffiora, pertanto, l’ombra del mistero o dell’inconoscibilità della kantiana cosa in sè. La ragione, egli dice, mira a scoprire quell’unità, quell’identità dell’essere con se stesso di cui ha parlato Parmenide. Perciò ogni attività scientifica dev’essere coerente con gli scopi propri della ragione: deve spiegare razionalmente i fatti percepiti riportando la molteplicità e il mutamento – percepiti – all’identità; cioè deve unificare il molteplice, individuando l’identico ed escludendo il diverso. Ciò evidentemente, osserva Meyerson, non significa che la scienza non trovi nel suo cammino degli irrazionali, dei fatti irriducibili all’identità, come ad esempio la discontinuità dell’energia scoperta da Planck. Ma questi irrazionali, ponendo la ragione di fronte ai suoi limiti scientifici, l’autorizzano a camminare per le vie della filosofia, che, anch’essa attività razionale, è accomunata alla scienza dallo stesso scopo, l’individuazione dell’identità, dallo stesso punto di partenza, il mondo percepito, e dallo stesso procedimento, quello dell’unificazione. A differenza della scienza (che realizza l’identificazione in via provvisoria e in modo parziale, accogliendo come “fatti” gl’irrazionali) la filosofia mira invece all’identità totale e stabile, dando spiegazione anche di quello che per lo scienziato è l’irrazionale.
MACINTYRE
“Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio assai diverso“. (“Dopo la virtù”)
Alasdair MacIntyre nasce a Glasgow nel 1929: dopo aver studiato a Londra e a Manchester, è diventato professore di Filosofia e di Sociologia nel 1951. Ha mantenuto tali ruoli fino al 1970, anno in cui si è trasferito negli Stati Uniti: qui è diventato docente prima a Boston, poi alla Vanderbilt University del Tennessee. A partire dal 1988, è stato docente presso l’Università di Notre Dame nell’Illinois. Tra le sue opere principali meritano di essere ricordate A short History of Ethics (1966), Against the Self-Image of the Age (1971), Whose Justice? Which Rationality? (1988), Three Rival Version of Moral Enquiry (1990). Ma la sua opera più famosa, alla quale è legato il suo nome, è After vitue: a Study in Moral Theorie (1981).
In questo scritto di importanza capitale, MacIntyre sostiene la tesi secondo cui, al giorno d’oggi, ci troveremmo in una situazione critica, simile a quella che portò al crollo dell’Impero Romano: si tratta di una crisi sia dei valori, sia della politica. Essa si prospetta come una vera e propria catastrofe, e non è che il necessario esito delle arroganti pretese (fatte valere soprattutto dall’Illuminismo) di innalzare la ragione umana individuale a legislatrice assoluta, a unica determinatrice della condotta morale. La Modernità, da Hume a Kant, s’è proposta di liberare l’uomo da ogni autorità religiosa e politica, fondando la morale sulla coscienza individuale: la società stessa, in questa prospettiva, viene a prospettarsi come il teatro in cui le singole volontà individuali, esistenti in maniera atomica, vengono a incontrarsi, ognuna col proprio insieme di preferenze e di atteggiamenti. In questo senso, il risultato è che il mondo diventa “l’arena dove combattere per il raggiungimento dei propri scopi personali”, intendendo la realtà come una serie di occasioni per il proprio godimento personale.
L’esito ultimo di questa situazione catastrofica è dato, secondo MacIntyre, dal fatto che alla questione riguardante i fini si è sostituita la razionalità burocratica, che (secondo la precisa diagnosi di Weber) consiste nell’adeguare i mezzi agli scopi in maniera economica ed efficace. Del resto, le questioni inerenti i fini della convivenza umana sono questioni di valori e, per ciò stesso, di fronte ad essi la ragione non può far altro che tacere. Se intendiamo i valori come il frutto di decisioni soggettive e mai assolute (come aveva insegnato Weber stesso), allora ne seguirà necessariamente che ogni scelta individuale è buona. Sciolte da ogni vincolo oggettivo, tutte le fedi e le valutazioni sono infatti ugualmente irrazionali, perché puramente soggettive. È per questo motivo che, secondo MacIntyre, la coscienza moderna è soggettivista, relativista ed emotivista. La stessa battaglia senza sosta combattuta dai difensori della libertà individuale (i liberali) contro i difensori della regolamentazione e della pianificazione (i comunisti) è più apparente che reale, giacché i due schieramenti si trovano poi d’accordo sul fatto che siano possibili soltanto due forme di vita sociale, delle quali l’assunzione dell’una esclude l’altra. Queste due forme sono appunto quella delle libere scelte individuali (è la forma propugnata dai liberali) e quella della burocrazia (difesa dai comunisti). Ciascuna non è che la negazione dell’altra: la forma liberale (ad esempio quella di Nozick) è negazione di quella comunistica, e viceversa. Ciò induce MacIntyre a concludere che “burocrazia e individualismo sono tanto alleati quanto antagonisti. Ed è nel clima culturale di questo individualismo burocratico che l’io emotivista si trova nel proprio ambiente naturale”.
Come antidoto a questo dualismo manicheo fra burocrazia e individualismo, MacIntyre propone un recupero della filosofia pratica di Aristotele, incentrata sulla nozione di “saggezza pratica” (phrònesis), sulla solidarietà all’interno della comunità e sull’impossibilità di ogni discorso etico che prescinda dai valori. È questo l’ambizioso progetto che MacIntyre porta avanti nel suo scritto Dopo la virtù: in particolare, egli distingue tra virtù e verità. La virtù è quella teorizzata dagli antichi, in particolare da Platone e da Aristotele: essa (declinata ora come giustizia, ora come amicizia, ora come coraggio, e così via) è un tipo di condotta radicato nella comunità a cui il singolo appartiene e nei valori della tradizione. Del tutto diversa è la virtù dei moderni, che si configura come una astorica astrazione (di marca illuministico/kantiana), un metacontestuale ente di ragione (ens rationis) a cui il singolo individuo, indipendentemente dal suo specifico progetto di vita e dalla sua concreta identità personale, deve obbedire. La virtù antica è assolutamente concreta, calata nella comunità; quella moderna, al contrario, è quanto di più astratto possa essere concepito. Si tratta di una vera e propria catastrofica sostituzione delle tante virtù con una sola virtù: a questa sostituzione sono seguiti molteplici sforzi di fondazione dell’etica sulle passioni (Hume e Diderot), sulla ragione universale (Kant) e sulla scelta (Kierkegaard). Questi sforzi si sono conclusi con un clamoroso fallimento della pretesa di dare una giustificazione razionale pubblicamente condivisibile dell’etica. La posizione di Kant poggia infatti sulla confutazione di quella di Hume; e quella di Kierkegaard sulla confutazione di quella di Kant: sicché, dalla critica efficace che ciascuna posizione fa delle altre, risulta il fallimento complessivo di tutte. Proprio a questo fallimento epocale è dovuta la progressiva marginalizzazione a cui è andata incontro la filosofia, che è ormai – agli occhi di MacIntyre – soltanto più un argomento accademico, privo di relazioni con la vita. Il culmine di questo incessante e nefasto processo di egemonizzazione dell’individuo è rappresentato prima dal Superuomo di cui parla Nietzsche e, in seguito, dal soggettivismo emotivista di tendenza analitica (ad esempio, Russell).
All’analisi del pensiero di Nietzsche, MacIntyre dedica un capitolo del suo Dopo la virtù: il capitolo si propone come un invito a scegliere tra Aristotele e Nietzsche (ed è perciò significativamente intitolato Nietzsche o Aristotele). Commentando l’aforisma 335 de La gaia scienza nietzscheana, mostra come Nietzsche smascheri l’illusorietà del progetto illuministico (specialmente kantiano) di fondare la morale sulla ragione universale e oggettiva e affermi una “nuova tavola dei valori”, prodotta dalla volontà di potenza del soggetto. Se infatti la morale non è che una serie di espressioni della volontà, ne segue allora che la mia morale potrà solo essere ciò che la mia volontà crea: ecco perché Nietzsche invita a diventare ciò che già si è, ad essere i legislatori e i creatori di sé. Alla ragione egli ha sostituito la volontà e, così facendo, ha proposto una morale alternativa a quella fatta valere dall’Illuminismo e incentrata sulla ragione. Ma la grandezza di Nietzsche, per MacIntyre, si esaurisce nella demolizione che egli ha fatto delle morali illuministiche: le soluzioni che ha proposto sono da buttare a mare, in quanto frivole e inconsistenti. In particolare, esse sono assurde nella misura in cui si illudono di creare una nuova tavola di valori fondata sulla volontà e sulla soggettività, che della Modernità sono i massimi mali. In sostanza, Nietzsche ha preso il male per un rimedio. A lui dev’essere contrapposto Aristotele, con la sua nozione solidaristica e comunitaria di virtù: il filosofo greco, infatti, è “filosoficamente la più potente forma premoderna di pensiero morale”. Contro la virtù indebitamente intesa come espressione di individui separati, dobbiamo far valere, con Aristotele, la più alta forma di una virtù intesa come manifestazione di tradizioni collettive. Egli è il massimo rappresentante della “visione classica dell’uomo”, la quale sorge nell’Iliade, prosegue nella polis greca (la cui etica è quella esposta da Aristotele stesso) e trova la sua estrema propaggine nell’etica della virtù di Benedetto da Norcia, incentrata sulla comunità e sui valori religiosi. Nelle antiche culture greche, medievali e rinascimentali il pensiero e l’azione morali sono solidali con l’organizzazione sociali, e ogni individuo riveste un ruolo e un rango prestabilito entro un sistema ben definito, che trova nelle categorie del casato e della parentela le sue più alte espressioni. In tali strutture, ogni uomo sa chi è proprio perché conosce il proprio ruolo sociale e, in forza di ciò, sa anche che cosa deve e che cosa gli è dovuto nell’ambito della comunità di cui fa parte: in questo caso, la virtù è il frutto dei valori tradizionali e della comunità. In società di questo tipo (emblematico è il caso della Grecia) l’ospite ha un suo statuto specifico, ha il diritto di essere ricevuto con ospitalità (non a caso, in greco xènos significa sia ospite sia straniero). La grande lezione che dobbiamo apprendere da queste società antiche è che, senza una comunità, non esistono né la vera libertà né la vera virtù. MacIntyre nota come non tutto il mondo moderno sia stato contagiato dagli infausti effetti del progetto illuministico: qua e là sono sopravvissute e sopravvivono (anche solo in certe opere) nicchie incontaminate in cui sopravvive la nozione tradizionale di virtù: è il caso dei giacobini (che veicolavano valori di fraternità, uguaglianza, libertà, famiglia, patriottismo), di William Cobbett (e delle virtù praticate nelle comunità contadine), di Jane Austen (e delle virtù coltivate nel microscopico piano dei suoi spazi sociali e culturali). Ma si tratta di episodi del tutto marginali, che non possono contenere lo strabordare del progetto illuministico: da esso, come male estremo, è derivato lo stato laico e neutrale. Dopo aver sottoposto a dura critica l’Illuminismo e dopo aver ad esso contrapposto Aristotele come eroe della virtù, MacIntyre chiude l’opera con un appassionato appello (sia etico sia politico) a ritornare alle antiche comunità, basandosi sull’analogia che intercorre tra la nostra situazione e quella tardoromana: “stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio assai diverso”.
Nelle sue opere successive (soprattutto in Whose Justice? Which Rationality? e in Three Rival Version of Moral Enquiry), MacIntyre ha ribadito i concetti espresso in Dopo la virtù, ma approfondendoli con più rigore e maggiore acribia: egli ha, ad esempio, individuato quattro principali tradizioni etico/politiche dell’Occidente: a) aristotelica; b) agostiniana; c) scozzese; d) liberale moderna. Ad esse ha poi fatto seguire quella ebraica, quella luterano/kantiana, quella islamica, quella indiana e quella cinese. MacIntyre è assolutamente convinto dell’inesistenza di criteri obiettivi e neutrali che ci permettano di scegliere tra queste diverse tradizioni: dinanzi ad esse, l’unica possibilità è quella di parlare come attori e partecipanti di una di esse; oppure tacere.
WALTER BENJAMIN
“C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, al bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. ” (Tesi di filosofia della storia)
LA VITA
Walter Benjamin nasce a Berlino il 15 luglio 1892, da Emil, antiquario e mercante d’arte, e Paula Schönflies, di famiglia alto-borghese di origine ebraica. Dei suoi primi anni rimane il visionario scritto autobiografico degli anni Trenta Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Dal 1905 per due anni si reca al “Landerziehungsheim” in Turingia, dove fa esperienza del nuovo modello educativo impartito da Gustav Wyneken, il teorico della Jugendbewegung, il movimento giovanile di cui Benjamin farà parte fino alla scoppio della Grande Guerra. Nel 1907 torna a Berlino, concludendo gli studi secondari nel 1912. In quello stesso anno comincia a scrivere per la rivista “Der Anfang”, influenzata dalle idee di Wyneken. Dall’università di Berlino si trasferisce a quella di Friburgo in Bresgovia, dove, oltre a seguire le lezioni di Rickert, stringe un forte sodalizio col poeta Fritz Heinle, che morirà suicida due anni dopo. Scampato all’arruolamento dopo l’inizio della guerra, rompe con Wyneken, che aveva entusiasticamente aderito al conflitto. Nel 1915, trasferitosi a Monaco, dove segue i corsi del fenomenologo Moritz Geiger, conosce Gerschom Scholem, con cui inizia un’amicizia durata fino alla morte. L’anno dopo incontra Dora Kellner, che sposa nel 1917: dalla relazione nasce nel 1918 il figlio Stefan, quando la coppia si è ormai trasferita a Berna, dove Benjamin, già autore di importanti saggi ( Due poesie di Friedrich Hölderlin ; Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini ), l’anno seguente si laurea in filosofia con Herbertz discutendo una tesi sul Concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco . In Svizzera fa la conoscenza di Ernst Bloch, con cui avrà fino alla fine un rapporto controverso, tra entusiasmi e insofferenza. Nel 1920, tornato a Berlino, progetta senza successo la rivista Angelus Novus, scrive Per la critica della violenza e traduce Baudelaire. Nel 1923 conosce il giovane Theodor Adorno. Il suo matrimonio entra in crisi e nel 1924, durante un lungo soggiorno a Capri, conosce e s’innamora di Asja Lacis, una rivoluzionaria russa che lo induce ad avvicinarsi al marxismo. Pubblica un saggio su Le affinità elettive per la rivista di Hugo von Hoffmanstahl. Nel 1925 l’università di Francoforte respinge la sua domanda di abilitazione all’insegnamento accademico, accompagnata dallo scritto sull’Origine del dramma barocco tedesco, pubblicato infine tre anni dopo, insieme agli aforismi di Strada a senso unico. In questo periodo Benjamin si mantiene con la sua attività di critico e recensore per la “Literarische Welt” e traduttore (di Proust, con Franz Hessel) e viaggia tra Parigi e Mosca, cominciando a maturare il progetto (destinato a rimanere incompiuto) di un’opera sulla Parigi del XIX secolo (il cosiddetto Passagenwerk). Nel 1929 stringe un profondo rapporto con Brecht, che negli anni Trenta, dopo l’avvento del Terzo Reich, lo ospita a più riprese nella sua casa in Danimarca. Il 1933 segna infatti la definitiva separazione dalla Germania. Esule a Parigi, trascorre comunque lunghi periodi a Ibiza, Sanremo e Svendborg. Per la “Jüdische Rundschau” esce Franz Kafka, ma le sue condizioni economiche si fanno sempre più precarie: l’assegno garantitogli dallo “Zeitschrift für Sozialforschung” di Adorno e Horkheimer, per cui pubblica nel 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico nel 1937, diventa il suo unico mezzo di sussistenza. Nel 1938-39 lavora su Baudelaire (Di alcuni motivi in Baudelaire), ma lo scoppio della seconda guerra mondiale lo induce a scrivere di getto il suo ultimo testo, le tesi Sul concetto di storia. Internato nel campo di prigionia di Nevers in quanto cittadino tedesco, viene rilasciato tre mesi dopo. Abbandona tardivamente Parigi e cerca di ottenere un visto per gli Stati Uniti. Nel settembre del 1940 viene bloccato alla frontiera spagnola dalla polizia: nella notte tra il 26 e il 27 si toglie la vita ingerendo una forte dose di morfina. Ai suoi compagni di viaggio fu concesso di passare il confine il giorno seguente.
IL PENSIERO
Benjamin è scrittore asistematico, privilegia la forma del saggio e dell’aforisma, e concepisce come compito specifico del critico il prendere posizione e la negazione dell’ordine esistente. Nei suoi lavori di critica letteraria riprende la pratica del commentario ebraico, diretta a restituire all’originale la forza distruttiva di cui neppure l’autore di esso era stato cosciente. Il linguaggio, infatti, ha funzione espressiva, non strumentale: attraverso di esso, l’uomo deve dare voce alle cose mute. Dunque, teoria critico-materialistica e pensiero utopico-messianico si congiungono in modo originale nell’opera di Benjamin. Nella genesi del suo pensiero sono presenti motivi della filosofia romantica (alla quale è dedicata la sua tesi di laurea sul Concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco , del 1918), il pensiero nietzscheano (per le critiche alle pretese sistematico-totalizzanti della ragione, l’atteggiamento ermeneutico critico nei confronti della tradizione culturale e della realtà sociale, l’attenzione per il rapporto tra i contenuti del pensare e i suoi modi espressivi), l’esperienza delle avanguardie artistico-letterarie (per tutto ciò che di che di rivoluzionario e di dirompente hanno avuto nei confronti di una concezione ottimistica-retorica dell’uomo). Una componente essenziale della formazione e del pensiero di Benjamin è poi il suo ebraismo, rivissuto in molti suoi aspetti (a cominciare dalla lacerante tensione tra attesa messianica e valorizzazione della memoria storica) attraverso il rapporto con Gershom Sholem, un grande studioso della mistica ebraica. E’ al tema di una lingua pura, immediatamente simbolica (cui si oppone la violenza operata dall’astrazione e dal giudizio concettuale proprio delle moderne concezioni del pensiero e del linguaggio) che sono dedicati i primi saggi di Benjamin: Sulla lingua in generale e su quella degli uomini ( 1916 ); Per la critica alla violenza ( 1921 ); Il compito del traduttore ( 1923 ). Sull’interpretazione dell’opera d’arte è incentrato invece il Saggio sulle affinità selettive di Goethe ( 1924-1925 ). In esso s’annuncia un motivo decisivo della riflessione estetica di Benjamin: la conciliazione proposta o suggerita dall’opera d’arte è solo un’apparenza mistificante; quanto alla pretesa totalità essa è falsa e smentita dall’intima (benché talora non evidente) frammentarietà del prodotto artistico. Nell’opera d’arte non è immediatamente visibile una dimensione utopico-positiva. Questa semmai è presente nella forma dell’inespresso, “del non detto” dell’arte – ovvero in una speranza che peraltro possono solo cogliere solo coloro che ne sono radicalmente privi. L’opera più compiuta di Benjamin – la sola ch’egli potè portare a termine – è L’origine del dramma barocco tedesco ( 1928 ). Attraverso una ricca analisi delle forme e figure del dramma barocco (Trauerspiel) come impossibile tentativo di ripetere storicamente la tragedia greca, questo celebre saggio svolge un acuto e suggestivo discorso sui concetti di simbolo e allegoria – e più in generale sull’essere e sul conoscere umano. Benjamin presenta infatti l’allegoria barocca come critica dell’aspirazione classicista a riunificare la scissione originaria prodottasi nell’uomo ed espressa sia nella simbologia tecnologica (il creatore e la creatura, la caduta e la redenzione…), sia in alcune coppie antinomiche della tradizione occidentale (il finito e l’infinito, il sensibile e il sovrasensibile…). Sotto un diverso profilo, l’opera benjaminiana fornisce una chiave preziosa per interpretare anche alcune fondamentali aporie dell’arte (e della coscienza) moderna: Benjamin fa infatti vedere come la tensione a raggiungere nell’esperienza artistica il “simbolo” (e quindi l’unificazione effettiva di cosa, linguaggio e significato) esploda continuamente in “allegoria”, ovvero in una dialettica eccentrica (priva di centro) tra quanto è figurato nell’espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati. Per questo scacco del simbolico la malinconia diviene, nell’indagine di Benjamin, il sentimento fondamentale del soggetto moderno. A un altro livello, ciò che il trionfo dell’allegoria rivela è un’insanabile lacerazione, una sempre più radicale perdita di senso, un decadimento dell’umano e della storia. A partire dagli anni ’30 Benjamin si avvicinò in qualche misura alla “Scuola di Francoforte”: pur senza mai entrare a far parte organica del gruppo, egli collaborò con la “Rivista per la ricerca sociale” ed ebbe un’intensa, seppur travagliata, amicizia con Adorno. Le molteplici differenze tra i due pensatori non debbono far dimenticare (come talora è accaduto) certe loro innegabili prossimità di interessi e anche, entro certi precisi limiti, di convinzioni teoriche. Sia Adorno sia Benjamin respingono il privilegiamento dell’esistente, la ubriV della ragione positivistica, la barbarie dell’organizzazione capitalistica e della società. Entrambi (ma soprattutto Benjamin) rifiutano un’interpretazione e una pratica della riflessione come ricerca del sistema, del fondamento assoluto. La filosofia, secondo loro, deve soprattutto mettere in luce le contraddizioni celate sotto le ingannevoli apparenze della realtà e, insieme, il bisogno di felicità e di emancipazione insito nel mondo umano. Tale bisogno si esprime (spesso in modo cifrato) nelle situazioni, nei testi, negli eventi più disparati. Per questo, entrambi i pensatori fanno filosofia interrogando le testimonianze o i segni più eterogenei e talvolta sconcertanti. Sotto tale profilo, il più caratteristico e suggestivo saggio di Benjamin è l’incompiuta opera su Parigi come “ capitale del XIX secolo “, nella quale il pensatore ha cercato di afferrare il senso di un’intera epoca storica giustapponendo l’analisi della poesia di Baudelaire e quella dell’assetto urbanistico parigino, l’interpretazione di nuove figure psico-antropologiche (il “flaneur”, il “dandy”, la prostituta) e l’esame dei nuovi caratteri della produzione e della circolazione della merce. Molta attenzione egli dedica soprattutto alla figura di Baudelaire, di cui fu anche traduttore: in particolare, distingue il concetto di “esperienza” dal concetto di “esperienza vissuta”; la seconda permette di rielaborare razionalmente, attraverso la riflessione, gli “choc” della vita, così da impedirne la penetrazione nel profondo e da difenderne la coscienza dal loro assalto. La semplice “esperienza” è invece quella subita direttamente dallo choc, senza mediazione: è quest’ultimo il caso di Baudelaire, che nella vita cittadina subisce incessantemente l’esperienza degli choc prodotti dagli urti della folla, dalle luci, dalle novità dei prodotti e delle situazioni e insomma dall’esistenza stessa di una metropoli moderna. La folla sarebbe perciò la ” figura segreta ” (il suggello e insieme la potenza nascosta) della sua poesia: pur non essendo mai compiutamente rappresentata, tuttavia la folla è una presenza ossessiva nell’opera di Baudelaire e non va ricercata tanto nei temi e nei contenuti, quanto nella forma poetica, nel ritmo nervoso, ora ondulato, ora franto, del verso baudelairiano ( ” questa folla, di cui Baudelaire non dimentica mai l’esistenza, non funse da modello a nessuna delle sue opere. Ma essa è iscritta nella sua creazione come figura segreta “). Nella propria anatomia della modernità, Benjamin si è spesso rivelato più aperto e spregiudicato di Adorno: ora interrogandosi sul fenomeno della droga, ora analizzando con simpatia produzioni socio-culturali in apparenza ‘minori’, come la letteratura per l’infanzia e il “feuilleton”, la fotografia e i giocattoli. Un’altra e più sostanziale diversità fra i due filosofi è l’atteggiamento nei confronti dell’arte: convinto come Adorno che il fenomeno artistico sia un’esperienza particolarmente eloquente del disagio della civiltà, Benjamin ne ha una visione meno aristocratico-elitaria rispetto a quella dell’amico. Una significativa testimonianza di ciò è offerta dal saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37). In esso, Benjamin contrappone ad ogni interpretazione mistico-esoterica del fenomeno artistico una concezione in qualche modo secolarizzata di esso. Prodotto di uomini per altri uomini, l’arte va studiata ” materialisticamente ” sia nei suoi modi di elaborazione e di rappresentazione anche tecnica (non esclusi quelli fotografici e cinematografici) sai nelle particolari modalità percettive del suo fruitore. Lo sviluppo delle forze produttive, rendendo tecnicamente possibile la riproducibilità delle opere d’arte (pensiamo alla televisione, ai cd, alla radio, al computer, ecc), ha messo fine all’alone di unicità, originalità e irripetibilità dell’opera d’arte, ossia all’ ” aura ” che la circonda di sacralità agli occhi della borghesia, la quale proietta in essa i suoi sogni e ideali aristocratici: l’aura è quindi l’alone ideale che rende sensibile al fruitore l’unicità irripetibile dell’atto creativo. Nella società di massa, in cui regna la riproducibilità dell’opera d’arte, l’opera d’arte ” può introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia o del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venir ascoltato in una camera. Ciò che vien meno è quanto può essere riassunto con la nozione di ‘aura’ e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’aura dell’opera d’arte “. La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del ” sempre uguale “, per uomini rimasti privi di saggezza; ma in ciò, secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia, l’accesso all’arte e alle sue capacità di contestazione dell’ordine esistente. Solo attraverso la distruzione violenta di quest’ordine, ormai diventato inumano, si può aprire lo spazio per la redenzione e la felicità. Benjamin contesta le concezioni ottimistiche del progresso, condivise anche dal marxismo dei socialdemocratici tedeschi, secondo cui la storia è un cammino lineare di sviluppo crescente. Esse, infatti, si pongono dal punto di vista dei vincitori nella storia, anziché rimettere in questione le vittorie di volta in volta toccate alle classi dominanti. Si tratta, invece, di ” spazzolare la storia contropelo “, strappandola al conformismo delle classi dominanti, ovvero accostandosi al passato come profezia di un futuro e arrestando la continuità storica con un salto e una rottura. Nella storia, infatti, non c’è un teloV , un “fine” garantito: e infatti anche sugli sviluppi della società sovietica Benjamin è pessimista. Solo recuperando e prendendo al proprio servizio la teologia e il messianesimo sarà possibile liberarsi dalla fede cieca in un progresso meccanico. La differenza più sostanziale tra Benjamin e Adorno è l’atteggiamento nei confronti del pensiero dialettico : profondo conoscitore ed estimatore della cultura tedesca, Benjamin ‘ignora’ Hegel. Il suo silenzio esprime un rifiuto che, lungi dal condannare i soli aspetti conciliativi/totalizzanti dell’hegelismo criticati anche da Adorno, investe la stessa concezione hegeliana dell’immanenza della ragione nel reale e, soprattutto, della storicità dialettico-progressiva di quest’ultimo. La critica benjaminiana dello storicismo (e, più in generale, della concezione moderna della temporalità e del suo senso) è radicale: la sua condanna Benjamin la esprime in “Tesi di filosofia della storia” (1940). Per Benjamin ogni rappresentazione del tempo/storia secondo moduli fisico/lineari è fuorviante: è falso, inoltre, che la storia sia un processo continuo e uniforme nel tempo; che tale processo sia accrescitivo e progressivo; che, quindi, i traguardi e le aspirazioni degli uomini si debbano necessariamente ed esclusivamente collocare ‘davanti’. Alla redenzione umano/sociale si deve essere spinti, invece, dalla visione del passato, fatto di ” rovine su rovine ” e così orrendo da esercitare in chi (come l’ Angelus Novus raffigurato in un acquerello di Paul Klee molto amato da Benjamin) sa voltarsi a guardarlo una spinta irresistibile verso un futuro diverso. Se il rifiuto di un tempo/storia monodimensionale e spaziale fa pensare a certe analoghe posizioni assunte da Bergson o da Dilthey, occorre subito aggiungere che Benjamin polemizza aspramente con tutti e due i filosofi. A suo avviso, la storia, ben lungi dall’essere riconducibile ad un’ “Erlebnis” soggettiva, è qualcosa di estremamente oggettivo e corposo. Così oggettivo e corposo da costituire una realtà in larga misura estranea, o almeno ‘altra’ rispetto al soggetto. Sotto un certo aspetto, essa appare, come dicevamo, un ” cumulo di macerie ” , o anche un gioco di forze terribili, tanto più terribili in quanto sanno spesso mascherarsi sotto le forme di miti seducenti. Sotto un altro aspetto, essa contiene però princìpi e valori non solo preziosi, ma imprescindibili e insostituibili. Purtroppo, non sempre il presente vuole e sa interrogare il tempo che è stato: soltanto certe epoche riescono ad inoltrarsi per tale itinerario interrogativo; e solo in certi casi si riesce ad entrare in rapporto con ciò cui, più o meno consapevolmente, si tende. Ma la ricerca di questo rapporto è un compito al quale non ci si può e non ci si deve sottrarre: la decifrazione del passato consente infatti di cogliere e di rivitalizzare idee e “unità di senso” che erano rimaste come se sepolte e bloccate nei loro possibili sviluppi. Inoltre, le domande che rivolgiamo al passato sono in realtà le nostre domande: solo comprendendo il passato comprendiamo noi stessi. Solo liberandone le virtù nascoste liberiamo noi stessi. Il Novecento appare a Benjamin abitata da grandi potenzialità sia positive (le possenti spinte auto-emancipatorie degli oppressi) sia negative (i totalitarismi, il potere tecnologico non adeguatamente controllato). In veste di marxista sui generis , Benjamin sostiene la necessità che le classi rivoluzionarie sappiano svolgere approssimativamente il loro compito teorico e pratico: senza cullarsi nell’illusione di riforme graduali e indolori, senza sottomettersi ai miti del progresso e della tecnica, ma assumendo invece una responsabilità ‘epocale’: quella di capire e di far capire che viviamo in uno ” stato di emergenza “. Nelle Tesi di filosofia della storia , composte negli ultimi mesi della sua vita in Francia, Benjamin si richiama (a partire dal titolo) alle 11 Tesi su Feuerbach di Marx: in esse, Benjamin conduce una dura critica nei confronti dello storicismo, che giustifica gli eventi storici e assume quindi il punto di vista di coloro che hanno vinto nella storia. Egli indica, invece, una possibilità di vittoria per il materialismo storico, se questo ” prende al suo servizio la teologia “, che oggi ” è piccola e brutta “. Il recupero della tradizione messianica consente infatti di concepire il tempo come un processo non lineare, bensì solcato da improvvisi istanti rivoluzionari che frantumano la continuità storica: ” la coscienza di far saltare il ‘continuum’ della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un’immagine eterna del passato, il materialista storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie energie con la meretrice ‘C’era una volta’ nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il ‘continuum’ della storia “.
THEODOR WIESENGRUND ADORNO
Solo nel contrasto con la produzione, solo in quanto non sono ancora del tutto controllati e assorbiti dall’ordine, gli uomini sono in grado di creare un ordine più umano. (Minima moralia)
BREVE INTRODUZIONE AL PENSIERO
Nel febbraio del 1923 venne ufficialmente aperto a Francoforte, grazie ad una donazione privata, l’ Institut für Sozialforschung (Istituto per la ricerca sociale), di cui fece parte anche il grande pensatore Theodor Wiesengrund Adorno. Nato nel 1903 a Francoforte da un ricco commerciante ebreo e da una madre italiana, di cui assunse il cognome, Adorno iniziò da giovane a studiare pianoforte e composizione e nel 1924 si laureò a Francoforte con una tesi su Husserl, da cui sarebbe poi nato il volume Per la metacritica della gnoseologia. Studi su Husserl e le antinomie della fenomenologia , pubblicato nel 1956. Recatosi a Vienna, dove ebbe contatti con Alban Berg e con Schönberg, nel 1928 rientrò a Francoforte, dove cominciò la sua collaborazione con l’Istituto per la ricerca sociale. Il primo volume da lui pubblicato fu la tesi di abilitazione intitolata Kierkegaard e la costruzione dell’estetico (1933), dedicata al caro amico Siegfried Kracauer. Nei primi anni della dittatura nazista rimase in Germania, anche se andò spesso a studiare al Merton College di Oxford, ma in un secondo tempo si trasferì negli USA, dove, dal 1938 al 1941, diresse la sezione musicale della radio a Princeton. Durante la guerra scrisse la Dialettica dell’illuminismo in collaborazione con un altro grande filosofo dell’Istituto, Horkheimer, nonchè la Filosofia della musica moderna (1949), e fu in rapporto con Thomas Mann, al quale diede suggerimenti per la composizione delle parti di argomento musicale del romanzo Doctor Faustus . Tornato in Germania, fa dal 1951 vice direttore e dal 1958 fino alla morte, sopraggiunta nel 1969, direttore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte. A questo periodo risalgono Minima moralia (1951), Prismi Critica della cultura e società (1955), Introduzione alla sociologia della musica (1962), Dialettica negativa (1966) e Teoria estetica , pubblicata postuma nel 1970. Al principio della sua attività, Adorno mostra interesse per il problema della conoscenza : la fenomenologia di Husserl ha il merito, secondo adorno, di assumere un punto di vista antipsicologistico, ma tende ad annullare l’individuo contingente nel soggetto trascendentale e, muovendo alla ricerca di essenze immutabili, implicitamente accetta la realtà del mondo esistente così come è. Bisogna invece evitare, ad avviso di Adorno, di feticizzare la conoscenza, riducendo il soggetto all’oggetto o viceversa, e assumere piuttosto il metodo della dialettica di Hegel, in grado di cogliere il movimento del reale e di liberare dal falso presupposto ‘ che quel che perdura è più vero di quel che passa ‘. Hegel, però, partendo dall’assunto che fosse possibile cogliere con il pensiero il reale nella sua totalità, aveva congiunto strettamente la dialettica al sistema; Adorno, invece, capovolge il detto hegeliano secondo il quale il vero è nel tutto, asserendo nei Minima moralia che ‘ il tutto è il non vero ‘: la società esistente, infatti, nella sua totalità è falsa, non corrisponde al criterio della piena razionalità. Per questo Adorno rifiuta l’illusoria pretesa di costruire un sistema, attribuendo invece importanza a quanto è secondario, fuori dalla norma, negativo. Per cogliere questi aspetti della realtà, bisogna procedere per saggi, per tentativi capaci di non affogare le differenze nella totalità: sotto questo profilo, la forma letteraria più adeguata risulta l’ aforisma , più che il trattato corposo. Di aforismi è dunque costituito il libro più importante di Adorno, i Minima moralia , che hanno per sottotitolo ‘Riflessioni sulla vita danneggiata’: danneggiata appare ad Adorno la vita del presente, ridotta alla sfera del privato e del semplice consumo, priva di autonomia e sostanza propria. Una mentalità tragico-savia (come la definì Th. Mann, che si valse di Adorno per la parte musicologica del Doctor Faustus) si esprime in quello che è forse il suo capolavoro, Minima moralia (1951): raccolta di aforismi in cui sono analizzati il comportamento dell’individuo nella società borghese e le sue contraddizioni. Strumenti di quest’analisi, che si incentra sui gesti quotidiani e sulle motivazioni di essi, sono la psicoanalisi e il marxismo, ma il suo modello principale è l’Hegel della Fenomenologia dello spirito, in quanto le contraddizioni e la non verità del comportamento vengono evidenziate dall’interno, attraverso la semplice esposizione e descrizione. L’uno e l’altro aspetto, quello dell’analisi estetica e quello del moralista, sono accomunati da una stessa esigenza di fare emergere i nessi concettuali da una materia non filosofica. Non c’è altro modo, per la filosofia, di sopravvivere, all’infuori di questo abbandonarsi ai contenuti. Il punto di convergenza è bensì rappresentato dalla teoria critica della società, ma senza che ciò comporti una riduzione sociologistica. Dialettica dell’illuminismo (1947), scritta in collaborazione con Horkheimer, tenta di tracciare una genesi ideale dell’Aufklarung, della razionalità-civiltà. La ragione, fin dal suo remoto delinearsi storico, si intreccia con il dominio; la sua funzione liberante viene sempre più soffocata da un totalitarismo che, nelle società borghesi, si esprime direttamente (come fascismo) e indirettamente (come integrazione ferrea). Il tema, secondo un’altra angolatura, è affrontato nella ricerca sulla Personalità autoritaria (1950), diretta da Adorno nel periodo dell’esilio americano, e rivolta a individuare quali predisposizioni al razzismo, all’autoritarismo e perfino al fascismo, si nascondessero nella società statunitense. In questa situazione drammatica, l’unica via possibile e praticabile per la filosofia è quella della riflessione privata, che ha il compito di disturbare, più che di consolare. Questo implica che le cose siano considerate ‘ come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione ‘, cioè del loro riscatto dalla negatività presente. In questo panorama, la funzione determinante entro il pensiero dialettico viene rivestita dalla negazione : questo è il tema portante dello scritto più complesso sul piano teorico di Adorno, la Dialettica negativa . La dialettica di Hegel, per Adorno, è mistificata perchè considera il finito e il negativo come un momento meramente provvisorio, destinato a dissolversi nell’accostamento conciliatore finale e nella riconquistata identità di soggetto e oggetto, di razionale e reale. Essa commette lo stesso errore del pensiero tradizionale, che considera come proprio fine l’identità, la riduzione dell’altro e del diverso all’uguale. Intendendo la negazione come lo strumento per l’instaurazione del positivo, Hegel attribuiva alla negazione stessa un carattere affermativo, ma questo equivale ad introdurre un’identità tra negazione ed affermazione, cioè un principio formale antidialettico (l’identità) nel bel mezzo della dialettica stessa. Questo vuol dire, ad avviso di adorno, porre come elemento decisivo uno stato pacificato, non più antagonistico e, di conseguenza, instaurare una logica del dominio, legittimando l’esistente. Si tratta dunque di liberare la dialettica da questo carattere affermativo e di riconoscere che il momento positivo non è un risultato, ma solo la negazione determinata , cioè la critica. Marx aveva considerato la filosofia, in quanto speculazione contenta di sè, superata dalla prassi destinata invece a trasformare la realtà. Per Adorno questa trasformazione non è avvenuta, cosicchè la prassi oggi non è più l’istanza contraria alla filosofia: questa, anzi, continua a mantenersi in vita, ma non come contemplazione, bensì sotto forma di critica. L’esistenza di Auschwitz e dei campi di sterminio nazisti dimostrano che la cultura non è riuscita a cambiare gli uomini; dopo Auschwitz bisogna, dunque, ribellarsi ad ogni affermazione della positività dell’esistenza. La dialettica, in quanto coscienza della non identità e dell’alterità, deve allora lasciar vivere le contraddizioni, passando indenne dalle ammalianti sirene di una loro conciliazione e sintesi metafisica. La realtà non è come deve essere e così il compito dei filosofi, che si trovino nella fortunata condizione di non adattarsi del tutto alle norme in vigore, è di esprimere, in rappresentanza dei più, quel che questi, a causa delle costrizioni sociali, non sono in grado di scorgere, oppure, per realismo, si rifiutano di vedere. Contrariamente alla tesi fondamentale dell’intera filosofia tradizionale, da Platone in avanti, per la quale il criterio del vero è dato dalla comunicabilità immediata a tutti e, quindi, dalla trasmissibilità di quel che è già conosciuto come se si trattasse di un fatto, Adorno asserisce che la conoscenza non possiede del tutto nessuno dei suoi oggetti, ma sempre solamente frammenti parziali di una realtà incompiuta e che, pertanto, il pensiero critico consiste soltanto in ‘ bottiglie gettate in mare ‘per futuri destinatari ancora ignoti. Anche Adorno intende salvaguardare la contingenza e la libertà del soggetto: un’umanità liberata, a suo parere, non sarebbe per niente una totalità . Nella misura in cui, però, la società attuale non è libera, la totalità diventa uno strumento concettuale necessario per carpirne le contraddizioni. A partire da questo punto è nato un dibattito nella Germania degli anni ’60 sul metodo della sociologia, in cui sono intervenuti, tra i tanti, Adorno e Popper. Contro il culto dei fatti proprio del positivismo e della sociologia empirica, Adorno ribadisce che i fatti sono risultati di processi storici, cosicchè nessun fenomeno sociale può essere colto nel suo significato se ci si limita alla sua descrizione e non si fa riferimento al sistema della società nella sua totalità. Questo non vuol dire che questa totalità sia a sua volta descrivibile, una volta per tutte, nella globalità dei suoi aspetti e tratti particolari; essa può essere conosciuta solo nella misura in cui si manifesta nei fatti particolari. Sotto questo profilo, i fatti non sono identici alla totalità, ma la totalità non esiste al di là dei fatti. La pretesa che esista un metodo del tutto obiettivo, senza riferimento ai valori, è per Adorno del tutto illusoria: di fatto, date le contraddizioni presenti nella realtà storica, nessun metodo può essere in modo perfetto adeguato al suo oggetto: ‘ l’idea di verità scientifica non può essere scissa da quella di società vera ‘ asserisce Adorno. In questa situazione, l’unica fioca speranza è offerta dall’ arte , nella misura in cui essa riesce ad armonizzare forme e contenuti, elementi soggettivi e oggettivi. L’arte e la cultura, secondo Adorno, non sono riducibili ad un mero riflesso o rispecchiamento ideologico di classe, ma non per questo costituiscono sfere separate dalla società. La creazione artistica, infatti, non è meramente individuale, ma esprime tendenze sociali oggettive che l’autore stesso non sente profondamente; ma finchè la realtà oggettiva è contradditoria, la conciliazione delle contraddizioni sul piano estetico è sempre insufficiente. L’armonia realizzata sul piano artistico deve, dunque, sempre contenere un elemento di protesta nei confronti della realtà esistente e una dimensione utopica, come ‘promessa di felicità’ futura, secondo un detto di Stendhal, scrittore particolarmente caro agli autori della scuola di Francoforte. Tra le arti, quella meno caratterizzata da contenuti rappresentativi è la musica , la quale appare dunque, agli occhi di Adorno, come la più idonea ad esprimere, nella sua indeterminatezza, quel che è altro rispetto alla situazione presente. Molta musica è però ridotta a pura merce e oggetto di consumo; essa, come parecchie forme di cultura popolare, compreso il jazz, avversato da Adorno, contribuisce al rafforzamento degli atteggiamenti conformistici e assolve ad una mansione meramente ideologica di evasione ed emancipazione illusoria della realtà. Nell’industria culturale e nella riproducibilità delle opere d’arte, come nel cinema e nella fotografia, Adorno non ravvisa alcun potenziale rivoluzionario. Sono invece le avanguardie artistiche, in particolar modo la musica atonale dodecafonica di Schönberg, ad esprimere il rifiuto di scendere a compromessi con i dissapori e le contraddizioni, che rimangono irrisolte nella realtà. Con la sua Teoria estetica Adorno attribuisce all’arte un ruolo di contestazione della società esistente; l’arte contemporanea, sottraendosi ai canoni classici della bellezza, raffigurerebbe in pieno le disarmonie e l’infelicità della società, favorendo il sorgere della speranza in un’armonia del mondo.
JÜRGEN HABERMAS
L’Illuminismo è il progetto incompiuto della modernità.
VITA E OPERE
Nato a Gummersbach, vicino a Dusseldorf (Germania), nel 1929, Jürgen Habermas ha studiato filosofia, psicologia, storia, letteratura tedesca ed economia a Gottinga, Zurigo e Bonn, laureandosi nel 1954 con una tesi su Schelling. Nel 1959 è diventato assistente di Theodor W. Adorno all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, allorché questo fu riaperto in Germania dopo l’esilio americano. È rimasto assistente di Adorno fino al 1959: nel 1961 si è abilitato a Marburgo, ha insegnato a Heidelberg, e nel 1964 è diventato professore ordinario di Filosofia e Sociologia a Francoforte sul Meno. Dal 1971, Habermas ha diretto l’Istituto Max Planck per la Ricerca sulle Condizioni di Vita nel Mondo tecnico scientifico di Starnberg. Dal 1982, ha di nuovo insegnato alla Johann Wolfgang Goethe Universität di Francoforte sul Meno. Ha intrattenuto un proficuo dibattito coi principali filosofi del suo tempo (J. Derrida, R. Rorty, G. Vattimo), sostenendo la tesi – che costituisce il cuore del suo pensiero – secondo cui l’Illuminismo, lungi dall’aver fallito, è un progetto incompiuto. Le quattro grandi tesi sulle quali è costruito il pensiero di Habermas sono le seguenti: 1) dottrina della razionalità; 2) dottrina dell’agire comunicativo; 3) dottrina della razionalizzazione sociale; 4) dottrina della società come sintesi di sistemi e mondo della vita.Nel 2001, dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York, ha ragionato filosoficamente sull’evento insieme a Derrida: frutto ne è il testo Filosofia del terrore. Dialoghi con Habermas e Derrida. Habermas è autore di numerosissimi scritti, tra i quali ricordiamo:
Conoscenza e interesse [1968], Laterza, Bari, 1970
— Prassi politica e teoria critica della società, Il Mulino, Bologna, 1973
— Storia critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 1974
— La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari, 1975
— Per la ricostruzione del materialismo storico, Etas Libri, Milano, 1979
— Agire comunicativo e logica delle scienze sociali [1981 e 1967], Il Mulino, Bologna, 1980
— Cultura e critica, Einaudi, Torino, 1980
— Etica del discorso, Laterza, Bari, 1985
— L’eredità di Hegel, Liguori, Napoli, 1988 (con Gadamer)
— Il pensiero post-metafisico, Laterza, Bari, 1991
— Dopo l’utopia. Il pensiero critico e il mondo d’oggi, Marsilio, Padova, 1992
— Testi filosofici e contesti storici, Laterza, Bari, 1993
— Teoria della morale, Laterza, Bari, 1994
— Dialettica della razionalizzazione, Unicopoli, 1994
— L’inclusione dell’Altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998
— La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, Lavoro, 1998
— Profili politico-filosofici. Heidegger, Gehlen, Jaspers, Bloch, Adorno, Lowith, Arendt, Beniamin, Scholem, Gadamer, Horkheimer, Marcuse, Guerini e Associati, 2000
— Morale, Diritto, Politica, Edizioni di Comunità, Milano, 2001
— Verità e giustificazione, Laterza, Bari, 2001
— La costellazione postnazionale. Mercato Globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano, 2002
— Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino, 2002
— Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 2002
— L’occidente diviso, Laterza, Bari, 2005
Secondo l’autore, l’Occidente attuale non è stato diviso dal terrorismo, ma dalla politica irresponsabile degli USA, che ignora il diritto internazionale e mostra scarsa considerazione per il ruolo dell’ONU.
Joseph Ratzinger – Jürgen Habermas, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, 2005
RIASSUNTO GENERALE
Jürgen Habermas, nato a Gummersbach (Germania) nel 1929, fu assistente di Adorno presso l’ Institut für Sozialforschung di Francoforte; fu professore universitario ad Heidelberg dal 1961 al 1964 e poi passò all’università di Francoforte, fino al 1971. Dal 1971 al 1982 diresse il Max Planck Institut e dal 1983 tornò ad insegnare all’università di Francoforte. Nella prima fase del suo pensiero le sue fonti di ispirazione sono state prevalentemente Hegel e Marx, nell’interpretazione data dalla scuola di Francoforte. In svariati saggi, raccolti in Teoria e prassi (1963), oltrechè in Storia e critica dell’opinione pubblica (1962) e Sulla logica delle scienze sociali (1968), Habermas si domanda con insistenza che cosa significhi prassi , cioè l’agire politico nelle democrazie della seconda metà del Novecento, in cui il problema della pubblicità politica (Öffentlichkeit) si è trasformato in un’organizzazione del consenso coatto attraverso la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa. Tale principio è nato nell’era novecentesca e intende il pubblico come depositario dell’opinione pubblica, cui è attribuita una funzione critica, anche nei confronti del potere in vigore: il suo strumento e veicolo è la pubblica argomentazione razionale. Nella società novecentesca, tuttavia, il pubblico è diventato un puro e semplice consumatore di cultura, le opinioni sono manipolate e strumentalizzate attraverso i mass-media e si assiste pertanto ad un tramonto della sfera pubblica. Ecco perché Habermas condivide la drammatica diagnosi negativa (effettuata dalla Scuola di Francoforte) della moderna società amministrativa, ma non condivide affatto l’avversione di Benjamin e di Adorno nei confronti della nozione comunicativa della verità come costruzione che ha luogo attraverso l’interazione sociale: questo è il compito della sfera pubblica, che però ha perso nel Novecento (secondo Habermas) la sua funzione originaria. Chiedendosi quali siano le condizioni di possibilità della prassi in questa situazione è indispensabile (e anzi viene come conseguenza) fare riferimento al concetto di emancipazione rispetto all’assetto esistente, ad un interesse per tale emancipazione e ad una nozione di ragione consapevole di tale interesse. Solo così diventa possibile elaborare una teoria dell’emancipazione adatta alla specifica situazione storica del presente e, quindi, realizzare le condizioni di possibilità di un rapporto adatto fra teoria e prassi; per questo motivo e in vista di questo obiettivo, Habermas distingue radicalmente tra agire strumentale e agire comunicativo , sottolineando come l’agire strumentale sia basato su un sapere empirico, sia organizzato secondo regole tecniche e abbia il suo compito specifico di realizzazione nel lavoro: esso è razionale nella misura in cui realizza scopi definiti in condizioni date mediante mezzi adeguati a quei fini. Sull’altro versante, l’agire comunicativo consiste in un’interazione fra individui mediata simbolicamente, cioè tramite il linguaggio e organizzata sulla base di norme che definiscono aspettative reciproche di comportamento; queste norme devono essere comprese e riconosciute da due individui almeno e hanno carattere vincolante, cosicchè se non vengono riconosciute, intervengono sanzioni. La violazione delle regole dà luogo, nel caso dell’agire strumentale, ad un comportamento incompetente e, nel caso dell’agire strumentale, ad un comportamento deviante. Per poter costruire una teoria della società orientata alla prassi Habermas prende in esame la coppia di concetti lavoro-interazione più idonea di quella marxista forze produttive-rapporti di produzione, ma ritiene pure necessario far piazza pulita dei metodi erronei e inadatti e, soprattutto, da una parte, dell’oggettivismo delle teorie che riducono l’agire intenzionale a semplice comportamento elaborato come risposta a stimoli esterni e, dall’altra parte, dell’ermeneutica elaborata da Gadamer, la quale riduce l’area dei significati, cui si fa riferimento nella sfera dell’agire comunicativo, ai contenuti della tradizione culturale. Contro l’oggettivismo, Habermas schiera in campo la tesi secondo la quale l’agire intenzionale è una relazione partecipante tra soggetti, avente il suo modello nella psicoanalisi; per condurre l’attacco all’ermeneutica gadameriana, Habermas si avvale invece dell’obiezione che il linguaggio può anche essere strumento di dominio, cosicchè diventa fondamentale mettere in dubbio il consenso di fatto vigente e, di conseguenza, esercitare una critica dell’ideologia . In tale ottica, riveste un ruolo centrale la nozione di interesse , intesa come anello di congiunzione tra teoria e prassi, come Habermas mette magistralmente in evidenza nel volume Conoscenza e interesse (1968). Il positivismo, mirando ad un sapere oggettivo e radicalmente disinteressato, ha sconfessato la connessione tra conoscenza ed interesse, cioè quella che Haberma designa col nome di riflessione ; spetta, al contrario, ad Hegel il merito di aver posto al centro (nella Fenomenologia dello spirito ) ” l’esperienza della forma emancipativa della riflessione che il soggetto prova in sé nella misura in cui diventa trasparente a se stesso nella sua genesi “. Il che vuol dire che la conoscenza di se stesso e della propria particolare situazione storica coincide con l’interesse per la propria liberazione dalle costrizioni prodotte da quella situazione; alle riflessioni possono pertanto corrispondere gli atti emancipativi ed è così che si può realizzare quella saldatura fra prassi e teoria attuata da Marx. Però il limite di Marx sta nell’aver posto al centro ” l’autocostituzione del genere umano attraverso il lavoro ” e, di conseguenza, nell’aver dato maggior peso come interesse guida della conoscenza alla disponibilità di mezzi tecnici per padroneggiare la natura, ovvero all’agire strumentale. In realtà, tale agire è mediato da una interazione tra i soggetti appartenenti alle classi sociali, interazione che dà origine a costrizioni o antagonismi: in questo panorama, l’interesse emancipatorio si prospetta come un’autoriflessione critica orientata a costruire una società libera dall’acciecamento ideologico e, dunque, fondata solamente su ” una discussione libera dal dominio “. E così bisogna conciliare i due processi dell’autoproduzione degli uomini attraverso il lavoro e dell’autoriflessione che aspira a liberare da ogni forma di comunicazione distorta; l’unico esempio di interesse orientato, al tempo stesso, alla conoscenza di se stessi e della propria liberazione è dato, spiega Habermas, dalla psicoanalisi , che fa affiorare la dimensione inconscia e le connessioni simboliche, tramite cui un soggetto inganna e illude se stesso. Il che vuol dire che la struttura della comunicazione distorta non è un dato ultimo, ma presuppone una logica di comunicazione non distorta, ovvero che in ogni azione del parlare è immanente il teloV , il fine di raggiungere un’intesa reciproca, un consenso universale e libero. E ogni consenso raggiunto di fatto può ingannare, ma a fondamento della nozione di consenso illusorio o coatto deve già esserci quello di consenso razionale, spiega Habermas. L’intendersi è un concetto normativo a priori, conosciuto istintivamente da ciascuno: esso rimanda ad una forma di comunicazione in cui i partecipanti cercano argomentazioni per arrivare ad un consenso ottenuto liberamente e capace di valere come razionale, non come arbitrario o, peggio ancora, casuale. Le indagini di Habermas arrivano in questo modo a far leva sulla dimensione linguistica dell’agire e si avvicinano a quelle condotte, nello stesso tempo, dal contemporaneo Karl Otto Apel, nato nel 1922 a Düsseldorf e professore dal 1972 nell’università di Francoforte, autore di saggi raccolti in Trasformazioni della filosofia (1973) e in Discorso di responsabilità (1988). Secondo Apel, si tratta di pervenire ad una fondazione universale e razionale dell’agire partendo dall’analisi del linguaggio. In questo senso, egli tenta di coniugare la prospettiva trascendentale, propria della tradizione kantiana, con la cosiddetta svolta linguistica. Secondo Apel, chi parla avanza sempre di fatto pretese di comprensibilità (sulla base della correttezza grammaticale), di verità (in base ad un corretto rapporto semantico tra ciò che si dice e la realtà), di veridicità (come espressione linguistica non distorta di quello che è lo stato interno del parlante) e di giustezza (ossia di adeguamento alle norme della comunità dei parlanti). Queste pretese non possono non essere avanzate, se non altro, implicitamente, in qualunque atto linguistico: infatti, se non fossero avanzate, il parlante cadrebbe in quella che Apel chiama un’ autocontraddizione pragmatica o performativa . Tale è, per esempio, il caso di uno che affermi: “Dico che io non esisto”, questo enunciato produce una contraddizione pragmatica, in quanto il contenuto proposizionale di esso (“io non esisto”) contraddice l’atto stesso del dire. Infatti come sarebbe possibile che qualcuno parli senza esistere? L’insieme delle pretese, avanzate in ogni atto linguistico, forniscono dunque, secondo Apel, le condizioni formali minime per garantire, da punto di vista procedurale la comunicazione ideale . Tale comunicazione non è realizzata di fatto, ma funziona da principio regolativo delle comunicazioni che avvengono realmente: il rispetto di esso garantisce l’imparzialità della discussione e il raggiungimento di un’intesa e un consenso universali. Infatti, sono validi i princìpi e le norme dell’agire che vengono riconosciuti da chi argomenta in modo imparziale, ossia libero da interessi particolari. L’etica fondata su questi princìpi è pertanto valida per tutti gli esseri razionali, ma ha un carattere meramente formale, in quanto non descrive quali siano i contenuti della felicità, ma individua soltanto le condizioni formali per realizzare di comune intesa, in modo pacifico, i contenuti di una vita felice. Habermas riprende queste analisi di Apel: anche per lui si tratta di ricostruire il sistema di condizioni e regole che rendono possibile la partecipazione adeguata a quello che egli chiama discorso e che non deve essere confuso con il semplice scambio ingenuo di informazioni o di esperienze. A ciò Habermas provvede in vari scritti tra cui la Teoria dell’agire comunicativo (1981) e Coscienza morale e agire comunicativo . A differenza di Apel, tuttavia egli non parla di fondazione ultima delle regole morali, ma soltanto di pragmatica universale, avente per oggetto le strutture generali di possibili situazioni di discorso, senza per questo giungere a convalidare la concezione, propria dell’ermeneutica, del carattere puramente storico e relativo del linguaggio. Ogni discorso suppone una situazione linguistica ideale, nella quale ogni nonsenso conseguibile attraverso l’argomentazione razionale, da parte degli interlocutori assume il valore di consenso vero. E’ questo il nocciolo della cosiddetta teoria consensuale della verità . Condizione essenziale per questa situazione linguistica ideale è: ” l’esclusione sistematica di ogni deformazione della comunicazione “: solo in questo modo infatti, può dominare la pura cogenza dell’argomentazione migliore ed essere motivata razionalmente la decisione su problemi pratici. Esiste, dunque, un’etica del discorso, che consente, secondo Habermas, di superare ogni forma di irrazionalismo , relativismo o scetticismo: le questioni pratiche sono suscettibili di decisione razionale. Solo un’intesa razionalmente motivata. Ossia orientata verso pretese di validità, può fungere da alternativa a influenze reciproche più o meno violente. La regola argomentativa dei discorsi è data dal principio di universalizzazione , che rende possibile un accordo nelle argomentazioni morali. Un’obiezione scettica a questo principio è che esso si limiterebbe a generalizzare le intuizioni morali proprie di una certa cultura, ossia della cultura occidentale. Richiamandosi ad Apel, Habermas sostiene che anche questa obiezione scettica deve accettare di fatto alcuni presupposti inevitabili in ogni gioco argomentativo: infatti, se essa intende valere come una confutazione, avanza anch’essa una pretesa di verità, e quindi presuppone di fatto un principio di universalizzazione. In tal modo, anche Habermas, come Apel, fa proprio il progetto, di sapore kantiano, di una fondazione della possibilità di qualsiasi discorso comunicativo, attraverso l’individuazione delle condizioni minime, universali e necessarie per un’intesa possibile. A differenza di Apel, tuttavia, Habermas non ritiene che si tratti di una fondazione ultima, ma soltanto della dimostrazione che non sono possibili alternative rispetto a queste regole della prassi argomentativa. Il principio dell’etica del discorso può dunque essere formulato in questo modo: ” Possono pretendere validità soltanto quelle norme che trovano (o possono trovare) il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti ad un discorso pratico “. Tale principio è puramente formale, riguarda la procedura della discussione, non contenuti specifici di essa, ma può orientare l’azione politica, differenziando il consenso estorto con mezzi violenti da quello liberamente e razionalmente raggiunto negli interessi particolari da quelli universalizzabili. In questo senso, Habermas, soprattutto nell’opera Il discorso filosofico della modernità (1985), attribuisce alla filosofia la funzione di “custode della razionalità” e di difesa critica della modernità , contro le tendenze conservatrici dell’ermeneutica, il relativismo proprio dei teorici del post-moderno e le riduzioni della filosofia a una conversazione edificante che non mira alla soluzione dei problemi. Contrariamente anche a Horkheimer ed Adorno, Habermas ritiene che la modernità, come progetto di emancipazione che ha la sua matrice nell’illuminismo e nel marxismo, anche se storicamente ha dato e dà luogo a fenomeni di patologia sociale, non è un progetto fallito: è un “progetto incompiuto”. Nella modernità infatti, le basi universalistiche del diritto e della morale hanno trovato un’incarnazione, anche se incompleta e distorta, nelle istituzioni dello Stato costituzionale e nell’educazione democratica della volontà. Habermas rifiuta, quindi, le critiche alla razionalità, mosse da vari fronti, da Heidegger come da Adorno, da Foucault o da Derrida. Il modello dell’agire comunicativo poggia, invece, su un concetto di razionalità come ” disposizione di oggetti capaci di parlare e di agire ad acquisire e impiegare un sapere fallibile ” e, quindi orientati verso pretese di validità fondate sul riconoscimento intersoggettivo. I soggetti che partecipano a questa interazione, mediata linguisticamente, coordinano i loro piani di azione, intendendosi reciprocamente. Attraverso l’intreccio intersoggettivo di azioni strumentali e azioni comunicative diventa allora possibile la riproduzione, materiale e simbolica, delle concrete forme di vita. In una delle sue ultime opere, Il pensiero postmetafisico (1988), Habermas addita alla filosofia una terza via tra la metafisica e il relativismo: quella di una filosofia che non si considera detentrice ultima del sapere, ma non rinuncia alla ragione, assumendosi una funzione vicaria di mediazione tra i diversi ambiti della conoscenza. . Con i saggi raccolti in Verità e giustificazione ( 1999) si ha però il “ritorno” di Habermas alla teoresi, dopo circa un trentennio di sola filosofia pratica (si è trattato di ” una certa unilateralità strategico-teorica “, ammette l’autore). è un libro importante, per diverse ragioni. Anzitutto perché contiene una messa a punto sulla situazione attuale in filosofia che è di grande aiuto per predisporre un piano comune di discorso. Secondariamente perché Habermas con onestà e pazienza si misura, in questi saggi, con problemi classici ma entro certi termini inaggirabili, condivisi dalla filosofia contemporanea, ma anche dal pensiero comune, e da quello scientifico; per esempio: come definire i rapporti tra norme e natura? come fare i conti con la presunta impossibilità di una “presa diretta”, non mediata linguisticamente, sulla realtà? quale può essere il nesso tra rappresentazione e comunicazione (problema in cui secondo Habermas oggi si gioca la vecchia carta del rapporto tra teoria e prassi)? quale può essere il ruolo della filosofia nel mondo contemporaneo? Va subito detto che nonostante il grande dispiegamento davvero seducente di forze esplicative e razionalizzanti, i saggi del libro testimoniano il ritorno di un problema, più che l’avanzare di una soluzione. E in una certa misura sembra che sia Habermas stesso a pensarla così: sembra che Habermas sia incline a sottovalutare e ad ammorbidire lo stesso potenziale innovativo delle sue proposte. In effetti, il quadro teorico fondamentale a cui si fa riferimento nel libro è ancora di tipo kantiano, che vuol dire: profondamente orientato a un certo primato (anti-platonico) della pratica, e a una radicata antipatia nei confronti della metafisica, intesa come impresa di fondazione della conoscenza e delle norme in una visione dell’essere. Eppure, proprio il “paradigma linguistico”, pensato da Habermas fin dai tempi di Teoria dell’agire comunicativo (1981), e che qui viene riaffermato con particolare vigore, forse offriva strumenti per collocarsi più radicalmente al di là di simili contesti problematici: per ripensare la distinzione teoria-prassi, così come per ripensare la metafisica. Un eccessivo moderatismo in ambito filosofico impedisce a Habermas di vedere (o gli impone di misconoscere) queste differenze. Nel saggio introduttivo al libro, Habermas lamenta il primato della teoresi che vede affermarsi nell’ermeneutica e nella filosofia analitica, e si lancia subito in una nuova affermazione del primato della pratica. Eppure, lui stesso ammette: “la transizione dalla filosofia della coscienza alla filosofia del linguaggio”, rende “ovvio non già rovesciare, bensì livellare questa gerarchia delle fasi interpretative”; ossia: l’assunzione di un’ottica linguistica comporta una variazione nello stesso linguaggio teorico fondamentale, per cui non si dà più l’opzione a favore della pratica o della teoria, a favore dell’asserzione (rappresentazione) o della comunicazione, oppure a favore del naturalismo contro il normativismo o viceversa, ma tutte queste ipotesi si trovano nel linguaggio “livellate”. La differenza si sposta altrove. D’altra parte, se “metafisica” significa fare riferimento a un quadro generale esplicativo, o a una pre-descrizione della realtà e dell’essere, ci si chiede se sia davvero possibile fare a meno di tutto questo. Ci si chiede cioè se ogni teoria (inclusa la “pragmatica formale” di Habermas) non sia in realtà, e non possa che essere, metafisica, almeno in quanto aspira a una certa coerenza responsabile rispetto all’insieme complessivo dei problemi in gioco. E’ chiaro che Habermas non rinuncia, né ha mai rinunciato, al teorizzare (la cifra del suo lavoro filosofico è anzi proprio a mio avviso il rilanciare sempre la possibilità positiva del discorso teorico, in ogni contesto problematico): allora in quale senso il nuovo paradigma linguistico dovrebbe necessariamente ospitare, come Habermas vuole, un pensiero davvero “post-metafisico”? In quale senso non c’è già una scelta ontologica di fondo (e implicitamente la risoluzione a favore di una certa visione del mondo) nelle tesi habermasiane per un “naturalismo debole” o per un “realismo pragmatico”? L’ultimo saggio (“Ancora una volta: sul rapporto tra teoria e prassi”), forse il più semplice e riuscito del libro, aiuta a capire con chiarezza quale è il nodo da sbrogliare. Qui Habermas affronta il problema del ruolo attuale della filosofia, e con la consueta precisione e perspicacia distingue le tre funzioni del filosofo come “esperto scientifico”, come “mediatore terapeutico”, come “intellettuale pubblico”. In qualità di esperto scientifico, il filosofo viene interpellato in situazioni limite, in cui si presentano problemi di metodo e di critica della scienza, e soprattutto questioni concernenti l’impiego di nuove tecnologie. Ma ci si trova di fronte, allora, alla tensione irriducibile tra le competenze specifiche che si richiedono in queste sedi di filosofia applicata, e la “libera mentalità filosofica”, per sua natura insofferente alle costrizioni dei saperi specializzati. Come mediatore terapeutico, il filosofo non sperimenta questa tensione, ma si trova di fronte a una impasse ben più grave. Per fornire chiarimenti e consolazione agli esseri umani infelici e bisognosi di orientamento, infatti, dovrebbe disporre di una visione del mondo ben strutturata o di una “copertura metafisica”; ma questo non è possibile, perché la filosofia è libera pratica di elaborazione problematica, e dunque rifugge da visioni salvifiche quanto da ipotesi cliniche (in altri termini: resta sempre il sospetto che lo psichiatra e il prete offrano terapie più efficaci). Infine, il ruolo più adatto per il filosofo è quello dell’intellettuale pubblico, che “prende parte a pubblici processi di autointesa delle società moderne” e che, avvalendosi dell’autorità che gli proviene dalla sua (“più o meno ambiziosa”) pretesa di neutralità e di estraneità ai singoli interessi, offre all’epoca il dono dell’autocoscienza critica. Come si vede, a dispetto del suo dichiarato kantismo e anti-platonismo, Habermas è qui piuttosto platonico e hegeliano. Ma si vede anche bene, allora, che quel che a Habermas non piace nella metafisica e nella teoria non è la mozione a favore della realtà e dell’oggettività (entrambe sollecitamente difese in molte pagine del libro), ma la componente che paralizza il pensiero, ossia la componente antifilosofica. La filosofia, dice Habermas, è per sua natura pluralistica (o “plurilinguistica”), e “anarchica”; il suo “miglior retaggio” consiste nell’essere “pensiero non fissato”. Difficile dargli torto: ma davvero pluralismo e anarchismo intellettuale implicano antimetafisica e primato della pratica? Qui risalta il punto debole della posizione habermasiana.
RAGIONE CRITICA E MARXISMO
L’idea a cui Habermas resterà sempre fedele è che la ragione debba essere posta al servizio dell’emancipazione umana, secondo il progetto fatto valere dagli Illuministi. Dal 1954, quando Habermas comincia a occuparsi di filosofia, cerca di sviluppare una teoria critica della società, tenendo conto del concetto di “alienazione” di Karl Marx, della critica alla tecnica di Martin Heidegger e delle suggestioni della Scuola di Francoforte, presso la quale egli s’è formato. Secondo Habermas, il tema della tecnica – sottovalutato da Marx – è di importanza capitale per venire a capo del nostro tempo: quest’idea è ben espressa nel saggio del 1954, dal titolo Die Dialektik der Rationalisierung (tr. it Dialettica della razionalizzazione, Unicopoli, Milano 1983). In questo scritto, il nostro autore distingue tra “razionalizzazione tecnica”, “razionalizzazione economica” e “razionalizzazione sociale”, prendendo le distanze dalla Dialettica dell’Illuminismo (1947), scritta da Horkheimer e da Adorno, di cui Habermas era assistente. Sbagliano infatti i Francofortesi a sostenere che il filosofo critico deve mettere alla berlina la tecnica in quanto tale: egli deve piuttosto attaccare senza tregua l’invadenza della tecnica, un’invadenza che investe la “razionalizzazione sociale”. Secondo Habermas (e quest’idea resterà centrale in tutto il suo pensiero successivo) la razionalizzazione tecnica e quella economica devono essere poste al servizio di quella sociale, e non viceversa: infatti, non è forse vero che tecnica ed economia sono costruite in vista dell’uomo, e non viceversa?
Il grande limite ravvisato da Habermas nel mondo moderno, a partire dal successivo Theorie und Praxis (1963, tr. it Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Roma-Bari 1969), è l’aver privilegiato unicamente l’agire tecnico-strategico, subordinando surrettiziamente ad esso la razionalizzazione sociale.
È grazie ad Adorno che Habermas, a partire da Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und
den Marxismus (1957), si accosta al pensiero di Marx, nel quale scorge un perfetto equilibrio tra teoria e prassi.
Nel 1961, esce Student und Politik, un’indagine sociologica che Habermas svolge con altri studiosi della Scuola di Francoforte a proposito della coscienza politica degli studenti: è assai interessante il saggio introduttivo all’indagine, intitolato Über den Begriff der politischen Beteiligung, nel quale il nostro autore prende in esame la nozione di “partecipazione politica”, chiarendo come si tratti di un concetto eminentemente “borghese” e, pertanto, contraddittorio. La contraddizione risiede anzitutto nel fatto che il cittadino borghese è il prodotto di precise circostanze e, al tempo stesso, vorrebbe esserne il produttore; ma è anche contraddittorio il fatto che, nelle società industriali avanzate, il potere economico si intrecci con quello politico-statale, condizionandolo in maniera decisiva senza a sua volta sottostare a un controllo democratico. La tragica conseguenza di ciò è che, nel nostro tempo, è sparita la “sfera pubblica” (Öffentlichkeit), tema al quale Habermas dedica lo scritto del 1962 Strukturwandel der Öffentlichkeit, al cui cuore sta l’indagine dei “mutamenti strutturali della sfera pubblica” ai quali allude il titolo. La sfera pubblica di cui dice il nostro autore è quella specifica area della società borghese in cui un pubblico colto fatto di cittadini privati dibatte di questioni collettive di vario genere, sulla base della critica razionale e della “forza dell’argomento migliore”. La sfera pubblica borghese lascia trasparire tutte le contraddizioni che innervano la società borghese: prima fra tutte, la limitata partecipazione alle discussioni pubbliche (sono infatti solo i “colti” e benestanti a poter prendere parte alla discussione pubblica, che teoricamente dovrebbe essere aperta a tutti). Con l’avvento degli strumenti tecnici volti alla manipolazione e al controllo delle masse, la “sfera pubblica” è andata incontro a un ineluttabile restringimento: tali strumenti, infatti, anestetizzano l’opinione pubblica, rendendola passiva e dipendente dai bisogni che essi creano. Fin qui, Habermas sembra concordare coi Francofortesi: da questi ultimi, però, egli prende le distanze nella misura in cui è convinto che un autogoverno dei cittadini basato sulla sola guida dell’intelletto, lungi dall’essere un’invenzione perversa e capovolgentesi nel suo opposto, è il grande portato dell’Illuminismo, al quale dobbiamo restare fedeli. Non è vero, per Habermas, che seguendo l’intelletto ci si trova ad avere un governo totalitario o comunque favorevole a ben precise classi, come invece credevano i Francofortesi.
CONTRO POSITIVISMO ED ERMENEUTICA
Negli anni ’60, Habermas prende parte al noto dibattito tra “analitici” e “dialettici” circa il positivismo sociologico. Questa diatriba, passata alla storia come Positivismusstreit, fu avviata, nel 1961, da Adorno e da Popper in un congresso a Tubinga, e fu poi portata avanti dai rispettivi “allievi”, Habermas e Albert. Allo scritto Epistemologia analitica e dialettica (1963) di Habermas, Albert rispose con Il mito della ragione totale (1964). Habermas e Adorno definiscono “neopositivisti” Popper e Albert, che però rigettano tale etichetta e si autodefiniscono “razionalisti critici”; a loro volta, Popper e Alber qualificano come “hegeliani” e “dialettici” Adorno e Habermas, che non rifiutano tale qualifica, alla luce del fatto che uno dei nodi del dibattito è il concetto hegeliano di “totalità”, che Adorno e Habermas applicano alla società. Habermas si oppone alla separazione tra “conoscere” e “valutare” e sostiene che ogni conoscenza poggia su precisi interessi generati dal contesto sociale nella sua totalità. Alla luce di questo presupposto, Habermas rigetta fermamente l’oggettivismo conoscitivo fatto valere da Popper e Albert: da qui, il nostro autore prenderà le mosse per un’approfondita indagine sui rapporti che legano il sapere al suo contesto antropologico/sociale. In Conoscenza e interesse (1968), Habermas distingue tre tipi di conoscenza: a) quella delle scienze empirico-analitiche, che sono in cerca di leggi; b) quella delle scienze storico-ermeneutiche, che mirano a comprendere il senso; c) quella delle scienze critico-riflessive, che danno vita a teorie critiche dell’uomo e dalla società. Ciascuna di queste tre forme di conoscenze muove da un preciso interesse: l’interesse delle scienze empirico-analitiche è un interesse teorico; quello delle scienze storico-ermeneutiche è un interesse pratico; quello delle scienze critico-riflessive è un interesse emancipativo. Più nello specifico, le scienze empirico-analitiche hanno interessi teorici condizionati da interessi tecnici, ossia legati alla logica di quello che Habermas chiama “agire strumentale”; le scienze storico-ermeneutiche hanno un interesse pratico dettato dall’ideale di una possibile comunicazione tra i partners coinvolti nel dialogo interpersonale: le scienze critico-riflessive hanno come interesse l’auto-liberazione dell’uomo e la costruzione di una società senza il dominio.
Il rifiuto dello scientismo positivistico e della sua pretesa avalutatività sembra avvicinare Habermas all’ermeneutica di Hans Georg Gadamer: ma il nostro autore sottopone a critica anche l’ermeneutica gadameriana, in forza dei tratti idealistici e politicamente conservatori che la animano (si pensi all’importanza che Gadamer assegna alla tradizione). In opposizione all’ermeneutica, Habermas costruisce una meta-ermeneutica sotto forma di una marxiana “critica dell’ideologia” che smascheri le mistificazioni e le imposture fatte valere da una società in cui non si ha ancora una retta comunicazione tra gli uomini. Non diversamente dalla psicanalisi, la quale dai comportamenti disturbati dei nevrotici risale alle cause che li hanno indotti, Habermas, con la sua critica dell’ideologia, si propone di risalire dagli effetti della comunicazione distorta (vale a dire poggiante sulla menzogna e sul dispiegamento della violenza) alle cause che l’hanno generata:i rapporti di denaro e di potere.
A questa meta-ermeneutica anti-gadameriana, il nostro autore assegna il nome di “ermeneutica del profondo” (Tiefenhermeneutik), alludendo alla sua capacità di scendere nel torbido e nelle profondità di questa società in cui nascono le storture. Il compito primario dell’ermeneutica del profondo è lo smascheramento delle numerosissime ideologie che mistificano i rapporti umani: ma perché ciò possa avvenire, occorre presupporre un giusto modello di società da anteporre a quello falso che si critica e assumere un atteggiamento critico nei confronti dell’ermeneutica tradizionale.
ETICA DEL DISCORSO
Negli anni ’60, Habermas si concentra soprattutto sul tema della comunicazione tra gli uomini, influenzato dalla cosiddetta “svolta linguistica” e dalla “teoria del linguaggio” (sia ermeneutica, sia analitica). Con la nascita di questo nuovo interessamento, il nostro autore abbandona lo studio precedente sull’individuo come entità solitaria e autosufficiente in diretta interazione con l’ambiente. Al cuore della “nuova” riflessione habermasiana sta un soggetto pubblico e linguisticamente strutturato in una comunità linguistica nella quale si forma la coscienza dei singoli individui. Questa “svolta” avviene soprattutto con lo scritto Teoria dell’agire comunicativo (1981), in cui è teorizzata una teoria “pragmatica” del linguaggio, ossia interessata al rapporto intercorrente tra il linguaggio e chi ne fa uso. In questo nuovo capitolo della sua filosofia, Habermas instaura un dialogo proficuo con Karl Otto Apel: i due autori sono convinti che chiunque partecipi a un’argomentazione razionale sensata presupponga implicitamente alcune pretese universali di validità: 1) giustezza (Richtigkeit): ogni dialogante deve rispettare le norme della situazione argomentativa: ad esempio, ascoltare le tesi altrui o ritirare le proprie, qualora si siano dimostrate false; 2) verità (Wahreit): ogni dialogante deve formulare enunciati esistenziali appropriati; 3) veridicità (Wahrhaftigkeit): ogni dialogante deve essere sincero e convinto dei propri asserti; 4) comprensibilità (Verständlichkeit): ogni dialogante deve parlare in modo aderente al senso e alle regole grammaticali. Se anche una sola di queste quattro pretese non è soddisfatta, allora crolla la possibilità di un’intesa tra gli interlocutori. Naturalmente, queste pretese implicano che la comunicazione avvenga tra soggetti liberi, senza condizionamenti, autorità o interessi, ma soltanto sulla base della capacità di convincimento delle ragioni migliori. Tutte queste pretese hanno un valore etico oltre che logico: a tal punto che esse danno vita a una vera e propria “etica del discorso” (Diskursethik); quando tutte le pretese sono soddisfatte, si ha la “situazione discorsiva ideale”, ossia un modello di società giusta incentrata sull’uguaglianza dei dialoganti. Una siffatta società coincide col modello di comunità democratica composta da uomini uguali, liberi e dialoganti su questioni collettive nel tentativo di risolvere razionalmente i propri conflitti di interessi. Nell’ottica di Habermas e Apel, l’etica del discorso è un’etica cognitivistica (che fonda razionalmente le norme etiche), deontologica (che fa riferimento a principi inaggirabili), formalistica (stabilisce principi procedurali, non contenuti), universalistica (valida per tutti gli esseri dotati di ragione) e postkantiana (l’etica non è, kantianamente, una faccenda morale riguardante il singolo individuo, ma piuttosto una questione pubblica che coinvolge tutti i dialoganti). In termini weberiani, poi, l’etica del discorso è un’etica “della responsabilità” e non “dei principi”.
TEORIA DELL’AGIRE COMUNICATIVO
Influenzato dalla distinzione di Popper dei tre mondi (mondo degli oggetti fisici, mondo degli stati mentali, mondo dei contenuti di pensiero), anche Habermas distingue tre diversi mondi: 1) il mondo oggettivo degli eventi; 2) il mondo sociale delle norme; 3) il mondo soggettivo dei dialoganti. A ciascuno di questi tre mondi corrisponderebbe una specifica modalità d’azione: al mondo oggettivo corrisponde l’“agire teleologico” (che mira cioè a raggiungere certi scopi prefissati), al quale corrisponde la verità proposizionale. Al mondo sociale delle norme corrisponde l’agire regolato da norme, a cui a sua volta corrisponde la giustezza normativa. Si ha poi l’agire drammaturgico quando si ha un attore che si autorappresenta dinanzi agli altri come se fosse sulla scena teatrale (ad esempio, il pugile o il poliziotto): a questa forma di agire corrisponde la veridicità soggettiva.
La partizione habermasiana riprende, in certa misura (in molti punti mutandola), quella compiuta a suo tempo da Weber in Economia e società, opera in cui individuava anch’egli quattro tipologie dell’agire (agire razionale rispetto allo scopo, agire razionale rispetto al valore, agire affettivo, agire tradizionale). L’agire strategico (detto anche “teleologico” o “strumentale”) di cui parla Habermas è, per molti aspetti, una riproposizione dell’“agire razionale rispetto allo scopo” di Weber; alla base di esso v’è il presupposto secondo cui noi agiamo in vista di scopi ben determinati (perciò è anche detto “agire teleologico”), adottando una certa strategia. Ciò significa che a dirigere tale agire sono il calcolo dell’utile e dello scopo finale, un calcolo che è però chiamato a tener conto del fatto che il soggetto agente non è solo e sotto una campana di vetro, ma si trova invece ad agire in presenza di altri individui che agiscono come lui con razionalità strumentale e che dunque, perseguendo scopi simili o addirittura uguali, possono entrare in conflitto con lui. Significativamente Habermas dice che si ha agire strategico “se prendiamo le mosse da almeno due soggetti agenti, agenti in modo finalizzato, che realizzano i loro scopi mediante l’orientamento e l’influenza sulle decisioni di altri attori”. Secondo questa definizione, Robinson Crusue che, da solo sull’isola, agisce razionalmente rispetto allo scopo, non sta agendo strategicamente, giacché è il solo attore; si potrà dire che egli intraprende un agire strategico solo quando incontra Venerdì (e dunque gli attori sono due), anche se il rapporto di interazione tra i due si risolve rapidamente in quella che, per dirla con Hegel, potremmo definire come una “dialettica servo/signore”.
Se le norme dell’agire strategico sono – per dirla con Kant – “imperativi ipotetici” (se vuoi ottenere il potere, allora devi ricorrere alla forza e alla frode), nell’agire regolato da norme le norme in questione possono essere accostate all’“imperativo categorico” kantiano. Infatti, si riconosce sì l’esistenza di una dimensione in cui vige la frode, ma si ritiene anche che, accanto ad essa, ve ne sia un’altra, coincidente con il mondo dell’agire morale e del dovere. Così – rileva Habermas – l’agire strategico fa riferimento ad un solo mondo, ossia a quello degli stati di fatto e degli eventi, al wittgensteiniano mondo del “tutto ciò che accade”; al contrario, nell’agire regolato da norme, l’immaginario dell’attore si è sdoppiato e, oltre al mondo reale configuratesi come un coacervo di fatti, riesce a vederne un altro, il mondo dei fini e dei valori. Scrive Habermas: “il concetto di agire regolato da norme presuppone relazioni tra un attore e due mondi: al mondo oggettivo degli stati di fatto esistenti, si aggiunge il mondo sociale […] dell’agire regolato da norme”. Scrive ancora Habermas: “come il senso del mondo oggettivo può essere spiegato in riferimento all’esistenza di stati di fatto, così il mondo sociale può essere spiegato in riferimento all’esistenza di norme”. Il terzo tipo di agire individuato dal filosofo tedesco è l’agire drammaturgico: stando a questa terza forma, gli individui agiscono ai fini di un’autorealizzazione simbolica, quasi come se si mettessero in scena e recitassero con grande enfasi. Tale tipo di agire è così connotato da Habermas: “dal punto di vista dell’agire drammaturgico, intendiamo un’interazione sociale come un incontro nel quale i partecipanti costituiscono gli uni per gli altri un pubblico visibile e si rappresentano reciprocamente qualcosa”. È particolarmente importante la nozione di pubblico, che pure era in certa misura presente sia nell’agire strategico sia in quello regolato da norme. Nel caso dell’agire drammaturgico, il pubblico acquisisce la fondamentale valenza di essere costitutivo di quell’agire stesso, che si svolge fine a se stesso (si può parlare, in questa prospettiva, di “agire per l’agire”); si tratta, evidentemente, di un agire espressivo in cui rientra l’arte stessa. È la forma di agire in cui meglio sono racchiuse e custodite le componenti sentimentali dell’azione umana (le passioni, le volizioni, le pulsioni, ecc). Infine, il quarto tipo di agire – quello su cui Habermas costruisce la propria opera – è l’agire comunicativo, prevalentemente rivolto all’intesa: si tratta di un agire in cui entra in gioco la dimensione linguistica, rientrante tra le caratteristiche che distinguono l’uomo dalle bestie: “si riferisce all’interazione di almeno due soggetti capaci di linguaggio e di azione che (con mezzi verbali o extraverbali) stabiliscono una relazione interpersonale”.
SISTEMA E MONDO DELLA VITA
Secondo Habermas, l’agire strumentale e l’agire comunicativo definiscono due sfere diverse ma tra loro complementari della società in cui ci troviamo a vivere: la società come “sistema” e la società come “mondo della vita” (Lebenswelt). Il sistema, come suggerisce il suo nome, è qualcosa di rigidamente disciplinato dall’agire tecnico, strumentale e strategico: esso trova i suoi elementi caratterizzanti nel denaro (sfera economica) e nel potere (sfera politica, burocratica, statale). Contrapposto al “sistema” è quello che Habermas definisce “mondo della vita”, concetto che egli mutua da Edmund Husserl: il “mondo della vita” è caratterizzato dall’agire comunicativo, da valori condivisi, da spontaneità, da tradizioni; esso fa, per così dire, da sfondo e da orizzonte dell’agre comunicativo, rendendolo possibile. Per usare le parole di Habermas, il mondo della vita è “il luogo trascendentale nel quale parlante ed ascoltatore si incontrano, nel quale possono avanzare reciprocamente la pretesa che le loro espressioni si armonizzino con il mondo (quello oggettivo, sociale e soggettivo) e nel quale essi possono criticare e confermare queste pretese di validità, esternare il proprio dissenso e raggiungere l’intesa” (Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, p. 714). Allo stesso tempo, il mondo della vita è il grande contenitore in cui si conservano e si trasmettono i risultati delle interpretazioni delle generazioni precedenti. Non bisogna però pensare al mondo della vita come a un qualcosa di vitale e, per ciò stesso, privo di razionalità: al contrario, il mondo della via è pervaso dalla razionalità, ma non da quella strategica, bensì da quella comunicativa. Tra il “sistema” e il “mondo della vita” vige un rapporto conflittuale che Habermas descrive in maniera simile a quella con cui Marx descriveva la lotta tra “forze produttive” e “rapporti di produzione”. Habermas è convinto che il “sistema”, in particolare lo Stato coi suoi apparati di potere e il suo ordinamento economico, si sia reso autonomo rispetto al mondo della vita, entrando poi in conflitto con esso: cercando di intromettersi nel mondo della vita, il sistema ne minaccia l’esistenza. Infatti, il potere e il denaro (che caratterizzano il sistema) sono per loro natura non solo un qualcosa che non comunica, ma anche un qualcosa che tende ad azzerare la comunicazione, creando sudditanza e passività. Alla luce di questa considerazione, occorre combattere strenuamente per difendere il mondo della vita dai reiterati tentativi di colonizzazione violentemente esercitati dal sistema. Ben si capisce, in questa prospettiva, perché Habermas abbia duramente polemizzato contro Niklas Luhmann, il teorico dei “sistemi”, rinfacciandogli di non aver tenuto conto, nella sua elaborazione che riduce tutto a sistemi, del “mondo della vita” e dei movimenti che si oppongono al sistema.
MODERNO VS POSTMODERNO
Assumendo la difesa della ragione critica, Habermas non può non assumere anche la difesa della modernità e del progetto emancipativi che l’ha animata. È in questo contesto che dev’essere inserita la polemica che il nostro autore conduce contro i teorici del postmoderno, che egli accusa di essere conservatori e di aver indebitamente identificato la modernità con la razionalizzazione capitalistica. A queste accuse, il filosofo postmoderno Gianni Vattimo ha risposto accusando, a sua volta, Habermas di propugnare ancora l’ideale di una ragione “forte” e metafisicamente connotata. Stando a Habermas, la modernità è un progetto non fallito o finito (come credono i Postmoderni), bensì incompiuto. Sicché gli ideali che l’hanno animata (la ragione critica, il progresso, l’emancipazione universale, ecc) non devono essere buttati a mare, come credevano Adorno e Horkheimer: devono piuttosto essere recuperati e tradotti in atto, affinché la modernità abbia il suo compimento adeguato. Il nostro autore attacca i Postmoderni soprattutto nel testo Il discorso filosofico della modernità (1985), al cui centro sta una rinarrazione critica della modernità stessa. Per Habermas, modernità significa Illuminismo nel senso kantiano di emancipazione dal principio di autorità e dalla tradizione. Il più grande teorico della modernità è, agli occhi di Habermas, Hegel stesso, al quale spetta il merito di aver notato con acutezza come la modernità sia problematica nella misura in cui la soggettività modernamente intesa assurge a principio unilaterale incapace di trovare un’unificazione con la ragione e con le sue possibilità. Hegel, che pure ha colto il problema della modernità, non ha saputo prospettare ad esso un’adeguata soluzione; né ci sono riusciti gli hegeliani della Destra e della Sinistra. Hegel, la Destra e la Sinistra hegeliane rappresentano allora un triplice fallimento: un tentativo sui generis di risolvere il problema della modernità è stato compiuto da Nietzsche, del quale i Postmoderni (pensiamo soprattutto a Vattimo) hanno dato interpretazioni troppo personali, a tal punto da fare di lui una “piattaforma girevole” a cui assegnare ogni valore. Il grande, ma fallimentare tentativo di Nietzsche è per Habermas quello di porre la critica della ragione al di là dell’orizzonte della ragione stessa. Così, Nietzsche suggerisce, da una parte, di considerare artisticamente il mondo con metodi scientifici ma in un atteggiamento antimetafisico che rinunci all’idea stessa di verità e di filosofia: dall’altra parte, però, Nietzsche ricade tanto nella verità quanto nella filosofia nella misura in cui fa di Dioniso un filosofo e della volontà di potenza una verità. Proprio questo atteggiamento ambiguo, col quale si cerca di fondare la ragione sull’altro rispetto ad essa, per poi ricadere nella ragione stessa, è la fonte dei due atteggiamenti del postmoderno: l’uso della ragione per attaccare la ragione stessa (Bataille, Lacan, Foucault, Vattimo), o l’atteggiamento del filosofo circonfuso da un’aura iniziatica (Heidegger, Derrida). La conclusione a cui Habermas addiviene misurandosi coi Postmoderni è che, se non si vuole precipitare di nuovo nell’oscurità, occorre salvare tanto la modernità quanto la ragione.
UNIVERSALISMO E PENSIERO POSTMETAFISICO
Dalle pagine de Il pensiero postmetafisico, un testo uscito nel 1988, affiora la convinzione habermasiana che la metafisica (idealistica e platonica) sia una forma di pensiero onnipervasivo e totalizzante, incentrato sulla riduzione dell’essere al pensiero e sulla preferenza accordata alla teoria anziché alla prassi. In opposizione al pensiero metafisico, Habermas sostiene che il pensiero post-metafisico sia dialogico e comunicativo. Nel testo del 1992 intitolato Fatti e norme, il nostro autore sostiene che la tensione tra attualità e validità raggiunge nel diritto il culmine di intensificazione e operazionalizzazione. Habermas tenta di tenere congiunti nel diritto l’universalità della sfera normativa e la particolarità della forza e del pluralismo degli interessi. Nel testo Inclusioni dell’altro. Studi di teoria politica (1996), il nostro autore affronta il problema delle società pluralistiche in cui proliferano punti di vista diversi, diversi valori, che spesso tendono a degenerare in conflitti. Si tratta di pervenire a un universalismo che sia però sensibile alle differenze e alle particolarità impostesi col multiculturalismo. Anche in ciò, mirando ad un universalismo, Habermas si oppone ai Postmoderni e al loro elogio delle molteplicità intese come fine dell’universalismo e trionfo dei particolari punti di vista (si pensi a La società trasparente di Vattimo, che può essere inteso come il manifesto dell’atteggiamento postmoderno). Le “inclusioni dell’altro” a cui allude il titolo dello scritto habermasiano non devono essere intese né come assimilazione dell’altro nel senso dell’appiattimento di tutti i valori, né come chiusura verso il diverso: significa piuttosto che “i confini della comunità sono aperti a tutti”, senza che essi debbano, per poter entrare nella comunità, rinunciare alle loro credenze e ai loro valori. È esattamente in questo che risiede quello che Habermas definisce “patriottismo della costituzione”, ossia un “una convinta adesione ai principi universalistici della Costituzione”: ogni individuo della comunità può credere nel dio e nei valori che vuole, purché si riconosca nei principi costituzionali del Paese in cui vive. Si ha dunque un universalismo rispettoso delle differenze e delle pluralità. Nell’epoca del pensiero postmetafisico, di quello che Weber aveva chiamato il “disincantamento del mondo”, l’etica non può più fondarsi su principi ontoteologici e soteriologici: essa, per poter essere universale, deve basarsi sull’etica del discorso. Ma, allo stesso tempo, Habermas ha molto insistito su come la morale debba essere autonoma, prescindendo da ogni autorità religiosa, sociale, ontologica, ecc. L’uomo del mondo postmetafisico, rimasto “orfano di Dio”, non può fare affidamento su null’altro se non sulla ragione comunicativa e sulle sue procedure discorsive.
Habermas ha anche condotto una battaglia contro lo scetticismo e il relativismo: contro il relativismo, secondo cui ogni cultura è un sistema chiuso in se stesso e dunque incomunicabile con tutti gli altri, il nostro autore sostiene che, confrontandosi reciprocamente, gli uomini finiscono per trovarsi coinvolti in una logica intersoggettiva facente riferimento a regole e a pretese universali. Il che testimonia dell’esistenza di una razionalità comune a tutti gli uomini: più precisamente, una razionalità discorsiva e comunicante. Contro il relativismo dei Postmoderni (Vattimo e Lyotard), Habermas sostiene che si fa sempre più sentire l’esigenza di un “minimo comun denominatore” in grado di consentire un dialogo tra le diverse culture. Sull’altro versante, lo scetticismo può argomentare contro l’etica del discorso soltanto se fa proprie le regole dell’argomentazione, ossia assumendo come valida la teoria contro la quale combatte. E se anche scegliesse d non argomentare contro l’etica del discorso, non di meno lo scettico si troverebbe nella vita quotidiana a fare uso della discorsività. Sicché lo scetticismo è solo un “vuoto esibizionismo” che si autocontraddice.
Il nostro autore se la prende anche col cosiddetto “emotivismo etico”, tesi secondo cui i giudizi etici dipenderebbero da elementi emotivi o comunque extrarazionali. Contro questa tesi, Habermas fa valere l’opposta tesi del “cognitivismo etico”: infatti, non è forse vero che i giudizi morali non si limitano a esprimere i sentimenti del momento ma hanno un contenuto cognitivo?
Per quel che riguarda la filosofia e il suo destino nel mondo attuale, il nostro autore si fa ancora una volta alfiere di posizioni illuministiche, sostenendo che al giorno d’oggi non vi sia “un troppo, ma un troppo poco di ragione”: è vero, la ragione non può più essere intesa come depositaria di un sapere ultimo e assoluto; ma ciononostante, essa non deve rinunciare al suo ruolo critico e smascherante, alla sua funzione di “custode della razionalità” e di baluardo della tradizione illuministica di cui s’è alimentata la nostra civiltà.
SINTESI DE IL FUTURO DELLA NATURA UMANA (2001) DI JÜRGEN HABERMAS
A cura di Giovanni Polimeni
1 – Astensione giustificata. Esistono risposte postmetafisiche alla domanda sulla “via giusta”?
1.
– La filosofia metafisica e la religione rispondevano al problema della vita giusta ponendo modelli (alcuni non proponibili alla massa, ma solo ad un’elite) che dovevano essere imitati sia dai singoli individui sia dalla comunità politica. Il fallimento di tali modelli di vita determinanti e vincolanti, ha oggi posto nuove domande sulla vita giusta e sulla società giusta, domande che esigono una risposta non più legata alla tradizione religiosa e metafisica.
– Oggi la “società giusta” è quella che lascia libere le persone libere di decidere “che uso fare” del tempo della loro vita, e garantisce loro pari libertà di sviluppare un’autocomprensione etica, al fine di realizzare una personale concezione di “vita buona”. Inoltre oggi le teorie della giustizia e della morale hanno preso una strada diversa da quella dell’etica classica, il punto di vista morale ci chiede di astrarre da quelle immagini di vita riuscita tramandate dalla religione e metafisica.
– La filosofia stessa si ritira in una sorta di metalivello, compie un’astensione giustificata verso i contenuti dei processi di autocomprensione, limitandosi ad indagarne le caratteristiche formali.
2.
– Kierkegaard fu il primo a rispondere con il concetto postmetafisico del “poter-essere-sé-stessi” alla domanda sulla “vita giusta”. Egli in “aut-aut” contrappone un modello di “vita etica” da contrapporsi alla “vita estetica”. La vita etica: l’individuo deve assumere con decisione la coscienza della propria individualità e libertà, sul piano sociale diventerà capace di rispondere delle proprie azioni stringere obblighi nei confronti degli altri. La persona diventa un compito a sé stessa, un compito che le è imposto solo in quanto è stata lei a sceglierlo liberamente.
– Ma K. pensa in una maniera postmetafisica, non postreligiosa; anzi, è convinto che la forma di vita etica possa realizzarsi pienamente solo nel rapporto tra il credente e Dio. Difatti la “disperazione” che nasce dal modello di vita estetica, non viene del tutto eliminata nella vita etica: l’individuo, nel suo disperato tentativo di voler essere sé stesso, prende coscienza della sua finitezza e vuole trascendersi e riconoscere la sua dipendenza da un Altro. Solo così il Sé potrà esistere nella sua autenticità, solo così supererà gli stadi della disperazione, rapportandosi ad un assoluto Altro di cui è debitore di tutto.
– Ma è anche vero che, come ogni idea, anche quella del “totalmente Altro” ha un suo senso solo all’interno del linguaggio che la ha creata: ogni autocomprensione etica non ci è mai rivelata o semplicemente data, non gode di nessuna garanzia ontologica, bensì è il frutto di uno sforzo collettivo, di una potenza trans-soggettiva e non assoluta.
– Habermas collega Kierkegaard a Kant, la morale del poter-essere-sé-stessi alla morale dell’autolegislazione universale. Da entrambi egli desume una teoria morale come realizzazione reciproca di individualizzazione e universalizzazione. Per un verso l’uomo è autore unico e indiviso del proprio progetto di vita, totalmente responsabile della sua realizzazione etica. Per l’altro verso egli deve legare la sua volontà a massime universali, accettando un’illimitata reciprocità di diritti e doveri e una pregiudiziale reversibilità di tutti i ruoli sociali.
3.
– Oggi però l’etica postmetafisica incontra grosse difficoltà: essa è buona nel momento in cui si astiene dal giudicare la direzione dei progetti di vita individuali e collettivi, ma nel momento in cui si affrontano questioni dell’ etica di genere, nel momento in cui è messa in pericolo la stessa autocomprensione etica dei soggetti, la filosofia e l’etica postmetafisica devono prendere posizione su questioni di contenuto.
– Nel momento in cui anche l’organismo dell’uomo viene incluso nell’ambito di intervento, viene cancellato il confine tra la natura che “noi siamo” e la dotazione organica che “noi ci diamo”. Questa possibilità nuova di intervenire sul genoma umano, deve essere vista come una crescita di libertà da disciplinarsi sul piano normativo, oppure come l’autorizzazione a produrre trasformazioni senza alcuna autolimitazione?
– Inoltre ciò che oggi è manipolabile è qualcosa che è sempre stata una contingenza indisponibile all’uomo: il processo di fecondazione, per cui possiamo prevedere il combinarsi di due serie cromosomiche.
2 – I rischi di una genetica liberale. La discussione sull’autocomprensione etica del genere.
1.
– La questione principale per Habermas, riguardo ai rischi dell’ingegneria genetica, è questa: se la diagnosi preimpianto e la sperimentazione sugli embrioni oltrepassano i limiti di una genetica passiva (cioè terapeutica) e clinica (cioè legata all’ipotetico consenso del futuro interessato), esse vanno senz’altro vietate. Ogni forma di intervento genetico migliorativo disturba infatti l’autoriferimento morale della persona alla propria (indisponibile) dotazione genetica. Chi si scopre programmato sa di non essere più l’autore indiviso della sua storia di vita. Anche quando la programmazione genetica non disturbi direttamente il gioco linguistico della morale, essa altera tuttavia l’accesso ad essa della persona futura.
– I problemi sollevati dalla diagnosi di preimpianto e dalla sperimentazione sulle staminali sono diversi: è compatibile con la dignità della vita umana il generare con riserva un individuo, giudicare e selezionare chi è degno di vita in base ad un test genetico? E’ giusto “usare” degli embrioni nella vaga speranza di poter coltivare e applicare tessuti senza rigetto? Quale è il rapporto tra la inviolabilità moralmente vincolante e giuridicamente tutelata della persona e la indisponibilità delle modalità naturali con cui questa si incarna nel corpo?
– Ad Habermas interessa soprattutto far vedere come l’indebolirsi della vecchia distinzione tra ciò che è spontaneamente “cresciuto” e ciò che è tecnicamente “prodotto”, tra il soggettivo e l’oggettivo, modifichi la nostra tradizionale autocomprensione etica del genere.
2. Dignità dell’uomo “versus” dignità della vita umana.
– Le idee riguardo allo statuto morale dell’embrione sono principalmente due: l’embrione visto come mucchietto di cellule, contrapposta alla figura del neonato a cui compete dignità umana; oppure l’embrione, esemplare biologicamente determinabile, visto come una persona potenziale, titolare dei diritti fondamentali.
– E’ convinzione di Habermas che la dignità umana ha natura strettamente relazionale, difatti solo in una comunità di uomini ci si può obbligare a vicenda sul piano morale e attendersi l’uno dall’altro il rispetto delle norme. Solo la relazionalità dei diritti e doveri morali può fornire il giusto valore di inviolabilità (non indisponibilità) alla dignità umana. Il Sé dell’individuo può nascere soltanto lungo la via sociale dell’alienazione e può stabilizzarsi soltanto in un reticolo di rapporti di riconoscimento. Questa dipendenza che ci lega agli altri giustifica la nostra dignità e spiega anche la nostra reciproca vulnerabilità.
– Ma, se ciò che trasforma l’organismo in una vera e propria persona è l’atto, socialmente individualizzante, della sua accettazione in un mondo-di-vita intersoggettivamente condiviso, il corpo geneticamente individuato nel corpo materno non può essere considerato “da sempre” una persona. Bisogna quindi chiarire che il bambino che sta crescendo in utero non gode di diritti e doveri in quanto soggetto morale, bensì sono i genitori che, per amore e per dovere morale verso di lui, lo tutelano e salvaguardano.
3. L’inserimento della morale dentro l’etica di genere.
– Le questioni concernenti la vita umana (questioni etiche, non normative) non riguardano questa o quella differenza nella varietà delle forme culturali di vita, bensì quelle autodescrizioni intuitive per cui ci identifichiamo nel nostro essere uomini e ci differenziamo dagli alti esseri viventi. Riguardano insomma la nostra autocomprensione come esseri-di-genere. Ciò che sta al centro del problema è l’immagine che le diverse culture si fanno dell’uomo: di quell’uomo che è in ogni luogo identico a sé sul piano della universalità antropologica.
– Il ricorso all’etica del genere, cioè ad un’autocomprensione esistenziale dell’uomo su cui tutti i cittadini possano ragionevolmente convenire, diventa allora un modo elegante per conciliare esigenze diverse. Quindi per Habermas i cittadini devono decidere insieme che valore dare alla vita prepersonale sul piano di una generale concezione antropologica.
– Un’ autolimitazione normativa non condanna ogni intervento genetico in quanto tale, infatti non è l’ingegneria genetica ad essere il problema, ma le sue applicazioni e modalità che implicano uno spostamento dell’onere normativo. Negli interventi di tipo terapeutico anche nei confronti dell’embrione si applica continuamente una anticipazione del consenso elaborata per via controfattuale, si cerca cioè di agire secondo la presupposta volontà della persona futura. La domanda allora sarà: fino a che punto noi siamo autorizzati ad anticipare un consenso non verificabile nell’immediato?
4. Lo spontaneo e l’artificiale
– Ciò che oggi, con l’avvento della genetica, si è andato perdendo è quella fondamentale differenza tra ciò che è tecnicamente prodotto e ciò che è naturalmente divenuto. Si è perso quel fondamentale rispetto di fronte ad un’intrinseca dinamica autoregolativa della natura, la scienza è diventata potere di disposizione tecnica su una natura oggettivata. Se al rapporto clinico si sostituisce l’intervento biotecnico, l’intuitiva “corrispondenza” con gli altri esseri viventi che si fonda sulla nostra sensibilità corporea verso tutti i livelli di soggettività, s’interrompe.
– I fautori della genetica liberale pongono degli argomenti a favore della modificazione genetica del tutto discutibili. Stabiliscono delle analogie tra la modificazione genetica dei caratteri ereditari e la modificazione pedagogica degli atteggiamenti ed aspettative. Essi intendono dimostrare che, da un punto di vista morale, non esistono differenze significative tra la genetica e l’educazione, facendosi forti del fatto che le disposizioni genetiche interagiscono con l’ambiente senza mai tradursi in qualità del fenotipo. Quindi questo argomento vorrebbe giustificare una estensione del potere educativo dei genitori nella libertà di migliorare anche la dotazione genetica dei loro figli.
– Il problema è che questa libertà eugenetica dei genitori non deve collidere con la libertà etica dei figli. Il giovane che sia stato geneticamente manipolato scoprirà il proprio corpo come qualcosa di tecnicamente prodotto, la prospettiva del partecipante che caratterizza la “vita vissuta” entra in collisione con la prospettiva oggettivante di produttori e sperimentatori. Inoltre le intenzioni pianificatrici dei genitori hanno il peculiare statuto di un’aspettativa unilaterale ed incontestabile.
– Nel momento in cui il giovane viene a sapere del “design” con cui qualcun altro ha progettato la modifica delle sue caratteristiche genetiche, allora la prospettiva dell’essere-prodotto può effettivamente sovrapporsi (e sostituirsi) alla prospettiva dello spontaneo essere-organismo. La mancata distinzione tra lo spontaneo e l’artificiale verrebbe ad incidere sulla sua modalità esistenziale.
– L’unica anticipazione del consenso lecita ed autorizzata, per Habermas, è il caso in cui l’intervento medico si lasci guidare dall’obiettivo clinico della guarigione e della prevenzione. Questa è l’eugenetica negativa, che si trasforma in eugenetica positiva quando si oltrepassano i confini della logica terapeutica per giungere ad una logica migliorativa.
5. Divieto di strumentalizzazione, natalità, poter-essere-sé-stessi
– Il divieto di strumentalizzazione: la formulazione di fine dell’imperativo categorico kantiano afferma la pretesa di considerare ciascuna persona “sempre anche come un fine” e giammai “semplicemente come un mezzo”. Il limite che, quindi, ci separa dalla strumentalizzazione è ciò con cui e attraverso cui una persona è sé stessa nell’agire, nel parlare, nel rispondere alle critiche. Il Sé di quel “fine in sé” che si deve sempre rispettare nell’altro si esprime nella possibilità di essere considerato l’autore di una condotta di vita orientata su pretese proprie. L’imperativo categorico chiede a ciascuno di abbandonare la prospettiva della prima persona per privilegiare la prospettiva-del-noi che consente orientamenti suscettibili di generalizzazione. In Kant già la formula di fine dell’imperativo categorico contiene in sé il suo passaggio alla formula di legge.
– La natalità: per la persona è necessario ricondurre la propria origine (e l’origine delle proprie azioni) ad un cominciamento indisponibile, ossia un cominciamento che non pregiudica la sua libertà solo in quanto sottratto al potere di disposizione di altre persone. Hanna Arendt ha introdotto in questo senso il concetto di natalità come cominciamento indisponibile che si fa riconoscere nel mondo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire.
– E’ sulla linea di partenza della natalità che tutti gli uomini devono riconoscersi eguali. In quel punto, dove la casualità della natura incontra la libertà dello spirito, nessuno deve trovarsi anticipatamente programmato, o migliorato, da intenzioni estranee cui non può rispondere. Habermas contrappone al destino-di-socializzazione, come realizzazione storica della libertà, un destino-di-natura inteso come cominciamento assoluto, contingente, non strumentalizzabile. Alla paternità unica e indivisibile della nostra vita, alla idealità del kantiano “regno dei fini”, fa così da sfondo l’innocente e pregiudiziale coincidenza con il proprio corpo assunto come base naturale della nostra eguaglianza.
6. Limiti morali della genetica
– La manipolazione genetica, un design precostituito, è una dipendenza a cui l’individuo non può ribellarsi, fissa l’interessato ad un determinato piano di vita che non può riscattare o modificare. Il programma genetica è un dato di fatto “muto”, al quale non possono darsi risposte. Habermas ritiene che i principi di uguaglianza e di reciproco riconoscimento discendono da una ideale ed a priori reversibilità delle relazioni interumane; nessuno deve quindi dipendere da un altro in maniera pregiudizialmente irreversibile.
7. Stiamo scivolando nella strumentalizzazione del genere?
– I problemi che Habermas pone per l’analisi di preimpianto e dell’uso sperimentale degli embrioni non sono condivise da Siep. Difatti quest’ultimo vede tali tecniche sempre e solo come eugenetica negativa e clinica, mentre Habermas le teme come quella pericolosa “rottura dell’argine” che ci condurrà al liberalismo genetico.
– Habermas afferma che, per quanto riguarda l’analisi di preimpianto, la situazione cambierà solo nel momento in cui alla diagnosi di una grave malattia ereditaria potrà seguire non la “selezione” tra quel che è degno di vita e quel che non lo è, bensì potrà seguire un intervento di terapia genetica. Una modificazione di questo tipo potrà essere paragonabile alla lotta contro le malattie infettive o locali.
– Per quanto riguarda l’utilizzo degli embrioni a scopo di ricerca, l’obiezione classica è la seguente: un embrione, anche se generato in vitro, può soltanto essere visto come il bambino futuro di genitori futuri e nient’altro; dunque non sta a disposizione di altri scopi. Se da un lato questa obiezione è valida, dall’altro non lo è: infatti l’uso sperimentale degli embrioni non mira a produrre una nascita, non vi è (al contrario dell’analisi di preimpianto) il problema dell’anticipazione del consenso, perché non vi sarà alcun essere futuro.
– Habermas opera una sorta di rovesciamento paradossale tra imperativi etici ed imperativi morali, mettendo in atto una circolarità (o implicazione reciproca) tra la prospettiva del particolarismo culturale e quella dell’universalismo morale. A chi gli chiede perché dobbiamo essere morali, egli risponde: perché di fatto noi lo vogliamo. A chi gli chiede perché vogliamo essere morali, egli risponde: perché è ciò che dobbiamo a noi stessi in quanto uomini. Così, mentre egli per un verso teme l’incontrollabilità democratica di ogni forma di programmazione genetica, dall’altro si affida al mantenimento etico-culturale di una certa idea di uomo.
Poscritto
1.
Sono state poste delle obiezioni contro il nesso causale tra manipolazioni genetiche migliorative e dipendenza della persona futura.
a) Perché un giovane non dovrebbe potersi confrontare allo stesso modo, col passare degli anni, sia con predisposizioni manipolate sia con predisposizioni innate?
La libera disposizione del patrimonio genetico di una persona futura implica che quella persona, sia stata programmata o meno, potrà considerare la composizione del suo genoma non come una predisposizione naturale, bensì come il risultato di un’azione rinfacciabile o di un’azione tralasciata. Cioè l’individuo futuro potrebbe non essere d’accordo anche col fatto che il genitore non ha sviluppato, avendone il potere, determinate doti e capacità. Non possiamo accollarci (almeno non fino a questo punto) la responsabilità di distribuire risorse naturali.
b) E’ possibile distinguere nettamente tra destino-di-natura e destino-di-socializzazione? Tra la modificazione pedagogica degli atteggiamenti e la modificazione genetica dei caratteri? Questi due strumenti di dipendenza non hanno forse in comune l’irreversibilità con cui certe decisioni condizionano la direzione della vita di un’altra persona?
Il fatto che queste due prassi (quella pedagogica e quella eugenetica) possano essere colpite dalle stesse obiezioni, non ci autorizza a servirci di una per scagionare l’altra. Se ai genitori possono già essere rinfacciate determinate strategie pedagogiche come cattive e nocive per il bambino che da uomo futuro potrà rifiutarle, sicuramente è sbagliato modificare caratteri genetici, accollandosi una responsabilità che deve restare riservata solo alla futura persona.
c) Altra (stupida) obiezione è quella che dice: è inverosimile che una certa persona possa retrospettivamente rifiutare un ampliamento delle sue risorse e una quantità maggiore di beni primari genetici.
Come possiamo sapere quando una certa dote allarga effettivamente i margini altrui nella progettazione della sua vita? Potrebbero nascere effetti collaterali per cui un “pregio” programmato potrebbe rivelarsi un terribile “difetto”.
2.
Dworkin ha notato come si potrebbero variare quattro condizioni dell’argomento di Habermas.
a) L’intervento genetico viene compiuto da una terza persona e non dallo stesso interessato.
Habermas risponde che l’argomento della dipendenza non è applicabile se si pensa che l’interessato possa successivamente ritrattare l’evento come se si trattasse di un intervento di chirurgia estetica.
L’argomento della dipendenza si applica invece solo a quei casi in cui il designer intraprende una pianificazione irreversibile della vita e dell’identità di una seconda persona senza presupporne il consenso nemmeno in maniera controfattuale.
b) L’interessato viene a sapere in maniera retrospettiva dell’avvenuto intervento prenatale.
Siamo sicuri che se non ci fosse l’informazione non ci sarebbe danno? Questa variante solleva la questione morale se sia lecito o meno nascondere a una persona la conoscenza di un dato di fatto importante (una manipolazione, l’identità dei genitori) e non è una soluzione accettabile il nascondere al giovane le cause del problema.
c) L’interessato si pensa come una persona che, modificata in alcune sue caratteristiche, è tuttavia rimasta identica a sé stessa.
Nella prospettiva dell’osservatore, un intervento genetico può essere criticabile anche quando l’interessato non è personalmente in grado di esercitare obiezioni (come nel caso della scelta del sesso). A maggior ragione sarà sbagliata una manipolazione tale che la persona che ne è oggetto possa percepirla e (inutilmente) rifiutarla.
ALTHUSSER
Louis Althusser, nato nel 1918 a Birmandreis, nei pressi di Algeri (Algeria) e morto nel 1990 a Parigi, utilizza il modello epistemologico di Bachelard per interpretare la filosofia di Marx. Althusser è stato militante cattolico prima della guerra; imprigionato in un campo di concentramento in Germania durante la guerra, si è addottorato in filosofia all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, sotto la guida di Bachelard, nel 1948, anno in cui ha aderito al partito comunista francese, di cui sarà per molti anni dirigente. Da allora ha insegnato all’Ecole e composto i suoi scritti più significativi, dalla raccolta di saggi Per Marx (1965) e Leggere il “Capitale” (1965), in collaborazione con altri, sino a Lenin e la filosofia (1969), Elementi di autocritica (1974) e Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati (1974), fino a che, nel 1980, un attacco di follia lo ha portato a uccidere la moglie e ad essere internato nell’ospedale psichiatrico di Sainte Anne. Althusser ha sviluppato la propria posizione (a costituire la quale intervengono sostanziali riferimenti all’epistemologia francese contemporanea e, in particolare, allo strutturalismo) soprattutto in rapporto polemico con l’interpretazione “umanistica” del pensiero di Marx, prevalente in Francia tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In questo quadro, e nella prospettiva di una complessa gnoseologia che definisce la conoscenza come “pratica teorica”, non solo ha negato l’esistenza di una continuità tra Hegel e Marx (o, più precisamente, tra Hegel e il Marx della maturità), ma ha in generale opposto la scientificità della teoria marxista alla natura ideologica del pensiero borghese e, in particolare, delle posizioni storicistiche. Althusser ritiene che la storia del movimento operaio in Francia sia caratterizzato da una mancanza di teoria , la quale ha condotto a privilegiare l’azione politica, disancorata dalla teoria, o a riconoscere l’unica forma di conoscenza nel sapere scientifico, sul modello del positivismo, oppure a interpretare il marxismo come una forma di umanismo, ravvisandone il nucleo nella dottrina dell’alienazione. Così è avvenuto in Sartre, ma anche nell’opera di altri marxisti francesi, come Henri Lefehvre (1901-1979) e Roger Garandy, nato nel 1913 e approdato dopo un periodo di ortodossia, ad un’interpretazione in chiave umanistica del marxismo, sino ad aderire all’islamismo, in quanto religione maggiormente libera da dogmi. Ma la teoria di Marx non è una filosofia dell’uomo come soggetto protagonista della storia, intesa come sviluppo lineare e continuo verso una meta prestabilita, ma uno strumento di analisi scientifica. Secondo Althusser, queste interpretazioni umanistiche del marxismo fanno leva soprattutto sulle opere giovanili di Marx, ancora legate alla filosofia hegeliana. Richiamandosi a Bachelard, Althusser sostiene invece che il pensiero di Marx ha esperimentato una vera e propria rottura epistemologica , rappresentata dalle Tesi su Feuerbach e dall’ Ideologia tedesca . Essa ha prodotto la transizione del pensiero di Marx dall’ ideologia alla scienza: come contemporaneamente ha sostenuto in Italia Della Volpe, anche per Althusser la maturità del pensiero marxiano ha il suo culmine nel Capitale . Rispetto ad esso, sul piano teorico, l’umanismo del giovane Marx rappresenta un ostacolo epistemologico, in quanto, insistendo unilateralmente sul soggetto, esso non consente di conoscere la collocazione oggettiva degli uomini nei rapporti di produzione; la rottura nei confronti di questa posizione umanistica ha permesso la formazione di una disciplina scientifica nuova. Si tratta, da una parte, del materialismo storico, ovvero della teoria scientifica della storia, intesa come processo senza soggetto e senza fini predeterminati, ma mossa dalla lotta alle classi e, dall’altra, del materialismo dialettico, inteso come epistemologia che riflette sulla storia del sapere e sui meccanismi della sua produzione. In quest’ultimo senso, il marxismo si presenta come filosofia o pratica teorica , dotata di una propria specificità e autonomia rispetto alla pratica politica e capace di rendere conto della natura della storia, ma anche delle formazioni teoriche e quindi, anche di se stessa come teoria. La filosofia come ” teoria della pratica teorica ” ha, tra l’altro, il compito di depurare la scienza da ogni intromissione ideologica, che ne infirmi la scientificità. Lo storicismo, riducendo le scienze e il marxismo stesso a semplici ideologie e riflessi di rapporti di classe, smarrisce la dimensione scientifica propria del marxismo e finisce col ridurlo alla scala pratica politica, sganciata dalla teoria. La rottura epistemologica, operata dal marxismo nei confronti di Hegel, consiste non soltanto in un rovesciamento, ma nella trasformazione radicale della dialettica . La specificità del marxismo scientifico poggia, secondo Althusser, sul riconoscimento che in ogni processo complesso e nella struttura globale della società c’è una contraddizione principale , la quale domina sul resto. Questo significa che ” la totalità complessa possiede l’unità di una struttura articolata a dominante “, ossia non costituita di elementi semplicemente allineati sullo stesso piano, ma neppure equivalente ad una essenza metafisica, com’è la totalità hegeliana. Sono queste le considerazioni che hanno condotto, talvolta, ad avvicinare la filosofia di Althusser allo strutturalismo. La contraddizione principale, però, secondo Althusser, pur occupando una posizione dominante, non può sussistere senza contraddizioni secondarie, che sono la sua condizione di esistenza, così come essa lo è di queste ultime. In tal modo, viene superata ogni operazione rigida tra il piano della struttura e quello della sovrastruttura. Ogni modo di produzione implica sempre anche la riproduzione delle condizioni politiche e ideologiche che ne assicurano la continuità. La società è una totalità complessa strutturata, nella quale forze produttive, rapporti di produzione e sovrastruttura s’intrecciano secondo una struttura a dominante, definita dalla contraddizione principale, la quale determina l’unità del tutto. A tale proposito, Althusser riprende dalla psicanalisi il concetto di sovradeterminazione (in francese, surdétermination ) già usato da Lacan per indicare il fatto che una formazione dell’inconscio, per esempio il sogno, non può essere spiegata facendo riferimento ad una sola causa, ma occorre ricondurla ad una pluralità di fattori. Anche la contraddizione marxiana è sovradeterminata e non si presenta mai in forma pura: la contraddizione principale tra capitale e lavoro salariato rientra sempre all’interno di una totalità strutturata di rapporti e di contraddizioni, che ne qualificano i modi e le variazioni. Perché la contraddizione principale diventi attiva ed efficace e possa produrre una rivoluzione , dando luogo ad una nuova formazione economico-sociale, non basta la sua semplice esistenza, ma occorre una congiuntura , ovvero l’accumularsi di circostanze concomitanti. Solo l’analisi scientifica delle contraddizioni che permeano la totalità sociale in un periodo dato può dunque determinare il posto e la funzione svolta dalle classi entro tale totalità e la portata oggettiva della loro azione. A seguito delle critiche mossegli dal partito comunista francese, Althusser farà poi autocritica e denuncerà queste sue tesi come ” deviazione teoricistica ” , suggestionata dallo strutturalismo, che accentua eccessivamente l’autonomia della teoria e interpreterà la rottura operata da Marx non in chiave meramente epistemologica, ma come risultato di una congiuntura politica. Alla filosofia, Althusser tornerà ad attribuire il compito politico di difendere il materialismo e l’oggettività, contro lo spiritualismo e l’idealismo, anche nelle sue varianti strutturalistiche, che rappresentano il pensiero tipico della borghesia, perpetua nemica del proletariato.
HERBERT MARCUSE
” La borghesia e il proletariato, nel mondo capitalista, sono ancora le classi fondamentali, tuttavia lo sviluppo capitalista ha alterato la struttura e la funzione di queste due classi rendendole inefficaci come agenti di trasformazione storica. Un interesse prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale unisce gli antagonisti d’un tempo nelle aree più avanzate della società contemporanea “. (L’uomo a una dimensione)
INTRODUZIONE AL PENSIERO
Tra i pensatori legati alla scuola di Francoforte, chi più utilizzò le riflessioni di Freud sulla civiltà fu Herbert Marcuse (1898-1979). Nato a Berlino il 19 luglio 1898 da ricca famiglia ebrea, si laureò nel 1921 a Friburgo. Nell’intero arco evolutivo dell’opera di Marcuse occorre anzitutto ricordare la sua ottima e vastissima preparazione di germanista, e il lavoro monumentale pubblicato a 24 anni come dissertazione di dottorato, Il Romanzo dell’artista nella letteratura tedesca (Der Deutsche Künstlerroman), che in quasi cinquecento pagine ripercorre questo genere letterario dall’epoca romantica, a fine Settecento, a Thomas Mann ; un’opera in cui è visibile l’influenza hegeliana, anche attraverso l’interpretazione di Giörgy Lukàcs. A Friburgo, dove si era laureato, tornò nel 1929 per studiare con Husserl e Heidegger, il risultato di questo periodo è L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità , pubblicato nel 1932. Nello stesso anno, per tensioni con Heidegger, che si stava sempre più avvicinando al movimento nazionalsocialista, Marcuse lasciò Friburgo e divenne membro dell’Istituto di Francoforte ma poco dopo, con l’avvento del regime nazista, dovette abbandonare la Germania ed emigrare negli Stati Uniti. Qui per vari anni, sino al 1950, fu impegnato a lavorare per il Dipartimento di Stato americano, dal 1951 al 1954 fu anche incaricato di svolgere una ricerca sull’Unione Sovietica conclusa con la pubblicazione di Marxismo sovietico (1958). Nel frattempo, Marcuse aveva già pubblicato in inglese un nuovo studio su Hegel, Ragione e Rivoluzione (1941), e ne 1951 era diventato professore alla Brandeis University. Inizia allora la pubblicazione delle sue opere più note, Eros e civiltà. Un’indagine filosofica in Freud (1955), e L’uomo a una dimensione. Studi sull’ideologia della società industriale avanzata (1964), che diventeranno testi canonici durante gli anni della contestazione studentesca negli Stati Uniti e in Europa. Nominato professore all’università di San Diego, in California, nel 1965, contribuì alle lotte e alle discussioni nate nel movimento degli studenti con altri scritti, quali la Critica della pura tolleranza (1965), un’intervista dal titolo La fine dell’utopia (1967), e il Saggio sulla liberazione (1969). Tra gli anni Trenta e i Quaranta – dopo che Marcuse divenne membro, nel ’32, dell'”Istituto per la ricerca sociale” di Horkheimer e Adorno – pubblicò sulla “Zeitschrift für Sozialforschung” una serie pregevoli saggi in cui rielaborava alcune categorie fondamentali del marxismo ( come ad es. il lavoro) sotto una angolazione esistenziale heideggeriana, e andava anche rivedendo, alla luce di questa filosofia politica, concetti fondamentali della tradizione filosofica e ideologica occidentale, dall’edonismo antico al liberalismo moderno. Su Hegel tornerà poi nel 1941, con Ragione e rivoluzione, un’opera in cui tutto il pensiero hegeliano viene interpretato in chiave “negativa”, vale a dire in opposizione alle dittature nazifasciste che stavano devastando l’Europa. Poi l’incontro con la metapsicologia di Freud. Quel che Hegel aveva rappresentato per Marcuse sul piano più rigorosamente teoretico, rimanendo per lui un modello filosofico permanente, un ineguagliato culmine del pensiero speculativo e della comprensione dialettica della logica, della storia e dell’estetica, divenne, a partire dagli anni Cinquanta, per il nostro filosofo, Freud sul piano dei meccanismi psicologico-sociali e della genesi istintuale profonda della civiltà. Risultato di questo nuovo grande influsso è Eros e civiltà, del 1955, un’opera veramente rivoluzionaria, forse il capolavoro di Marcuse, in cui per la prima volta egli formula una proposta positiva, di società “liberata” dai meccanismi della repressione sociale che Freud considerava inevitabili per la costruzione di una civiltà, e quindi ormai irreversibili: l’impegno di Marcuse sta qui tutto nel dimostrare, al contrario, che la rinuncia degli istinti non sarebbe affatto indispensabile per la vita familiare, per il lavoro, per le istituzioni fondamentali della vita associata. A testimoniare poi quanto fosse critica la sua fedeltà al marxismo sta Il marxismo sovietico, del 1958, in cui il filosofo svolge una linea di pensiero sottile, difficile, ma nitida e trasparente: dimostrare come il comunismo sovietico può essere criticato a partire dallo stesso marxismo, e come, facendo leva su quanto rimaneva di quest’ultimo nell’ideologia e nella società sovietica, si poteva compiere una sorta di “rivoluzione interna” al cosiddetto “socialismo reale”. Un’ipotesi purtroppo fuori dalla storia e dalla concretezza, ma suggestiva e significativa degli orientamenti ideologici e politici di un uomo che potremmo chiamare il “padre di tutti i dissensi” antiautoritari, il filosofo che non ha mai smesso di contestare, a Ovest come a Est, i regimi che si autodefinivano “democrazie” – in tutti i sensi possibili – e dicevano ispirarsi alla tolleranza (una tolleranza a cui egli aggiunse polemicamente l’aggettivo di “repressiva”). La prima fase dell’attività filosofica di Marcuse è caratterizzata dall’influenza congiunta sul suo pensiero da Heidegger e Marx. Ai suoi occhi Essere e tempo aveva mostrato la radicale storicità dell’esistenza umana e posto il problema della sua autenticità in termini di decisione, ossia di prassi. Tale progetto, tuttavia, era fallito perché non aveva identificato la decisione con la rivoluzione, in quanto atto mirante a rendere universale l’autenticità, e quindi non aveva riconosciuto il vero agente di questo processo storico nel proletariato. Qui diventava allora necessario rifarsi al marxismo, che tuttavia (e in questo Marcuse si mostrava in sintonia con Lukàcs) doveva abbandonare la tesi della priorità della struttura e la pretesa di applicare la dialettica anche alla natura, e non soltanto alla storia. I materiali per la costruzione di una nuova antropologia storica erano forniti a Marcuse soprattutto dai Manoscritti del 1844 di Marx, nei quali il lavoro non alienato era presentato come il mezzo con cui l’uomo realizza la propria essenza. Il lavoro era per Marcuse, in questa fase, diversamente da quanto pensavano i francofortesi, lo specifico modo di essere dell’esistenza umana nel mondo. Nel saggio pubblicato sulla rivista dell’Istituto, intitolata Sul carattere affermativo della cultura (1937), egli sosteneva che il tratto specifico della cultura borghese consiste nel fare dello spirito del mondo autonomo di valori, superiore e separato dai bisogni e dai piaceri materiali, realizzabile senza dover intaccare in alcun modo la realtà esistente. In tal modo la felicità è tenuta lontano dalla realtà quotidiana e riposta nell’ascetismo e nella liberazione dal piano sensibile, inclusa la sessualità, dipende dal fatto che la società deve disciplinare e tenere a freno masse insoddisfatte, potenzialmente eversive. La mancanza di felicità, è dunque, soltanto il risultato di un’organizzazione sociale irrazionale. In un altro saggio, pubblicato sulla stessa rivista nel 1938, intitolato Per la critica dell’edonismo , Marcuse insiste sul tema della felicità personale e ne sottolinea l’incompatibilità con il lavoro, come testimonia l’esistenza stessa del proletariato: nella condizione storica attuale la felicità è irraggiungibile, ma questa società non è eterna. L’ edonismo tradizionale, per esempio quello epicureo, con la sua rivendicazione del piacere, contiene un’istanza critica contro di essa, ma privilegiando il punto di vista dell’individuo isolato, non è in grado di tradursi in un progetto di trasformazione dei materiali di esistenza (il tema dell’epicureismo e della sua ricerca della felicità individuale, è bene ricordarlo, era già stato trattato da Marx nella sua dissertazione dottorale). Questo obbiettivo può essere raggiunto soltanto attraverso la prassi , fondata su una teoria critica che mette il luce, anche attraverso l’immaginazione e l’utopia, l’inadeguatezza della realtà esistente rispetto alla razionalità. Giunto negli Stati Uniti, Marcuse si trova a dover compiere nei confronti di Hegel un’operazione analoga a quella compiuta da Lukàcs nell’Unione Sovietica: si tratta di liberare Hegel dalla taccia di capostipite del nazismo e dell’irrazionalismo. A questo Marcuse provvede con l’opera Ragione e Rivoluzione , che già nel titolo mette in rilievo il carattere rivoluzionario, non conservatore, della ragione hegeliana, la quale, contrariamente al positivismo, non si adagia mai nel culto del fatto compiuto ma contiene sempre una spinta critica e negativa. Per essa, infatti, i singoli fenomeni storici possono essere compresi solo in quanto facenti parte di una totalità e dal punto di vista della loro trasformazione che ne conserva le contraddizioni su questo punto, come sulla valutazione positiva del lavoro, appare chiara la continuità tra Hegel e Marx. Marcuse, tuttavia condivide con Horkheimer e Adorno un certo pessimismo sulle connessioni tra progresso tecnologico ed emancipazione umana e, quindi, sul socialismo come sviluppo e, insieme dissoluzione del capitalismo. La realtà sovietica, come egli cerca di documentare in Marxismo sovietico , sembra anzi mostrare che al mutamento dei rapporti di produzione e all’incremento dei processi produttivi è corrisposto il venir meno della coscienza rivoluzionaria e l’instaurarsi di una morale repressiva. Da questo punto vista, il socialismo reale non è altro che un’espressione accanto al capitalismo, dei caratteri repressivi della società industriale avanzata. Per comprendere i caratteri di questa repressione , Marcuse ritiene necessario, in Eros e civiltà , riconsiderare la teoria freudiana del costituirsi della civiltà, in polemica con i neofreudiani, in particolare con Fromm, e con la loro terapia delle nevrosi in termini di adattamento alla società esistente. Per Freud, la civiltà inizia quando l’umanità per sopravvivere, rinuncia la soddisfacimento immediato delle proprie pulsioni e sostituisce al principio di piacere il principio di realtà. La civiltà comporta, dunque, necessariamente il differimento dei piaceri e la repressione degli istinti: la società impone una modificazione nella struttura degli istinti stessi, in quanto non ha i mezzi sufficienti per mantenere in vita i suoi membri se non imponendo ad essi il lavoro e dirottando le loro energie dall’attività sessuale per farle convergere sul lavoro. La domanda di Marcuse è se tale repressione sia un fatto costitutivo e ineliminabile della civiltà umana oppure sia un fenomeno storico e, quindi, rinnovabile. Secondo Marcuse, la scarsità di beni necessari a soddisfare i bisogni umani non è un fatto naturale, ma la conseguenza di una specifica organizzazione sociale della scarsità ossia di una distribuzione iniqua di essa o dei beni destinati soddisfare i bisogni umani. In altri termini, Freud ha scambiato per società tout court quello che è un determinato assetto sociale, fondato su un dominio imposto agli individui prima con la violenza pura e poi, in forma più sottile ed efficace, con l’amministrazione totale della società. In tal modo, alla repressione connessa all’instaurarsi del principio di realtà, necessario alla sopravvivenza dell’umanità, viene ad aggiungersi una repressione addizionale , fondata su un diverso principio, il principio di prestazione . Questa repressione è connessa alle restrizioni imposte dal dominio sociale e alla stratificazione della società secondo le prestazioni, ossia il lavoro fornito da vari individui all’apparato complessivo della società. I canali di produzione della repressione addizionale sono indicati da Marcuse nella struttura familiare patriarcale e monogamica, nella canalizzazione della sessualità in direzione della genitalità e soprattutto della divisione gerarchica del lavoro e nell’amministrazione collettiva dell’esistenza privata. In questa situazione la società tende a essere totalitaria, ossia a rendere impossibile ogni opposizione. Di fatto, l’apparato produttivo ha raggiunto un tale livello di sviluppo, da rendere disponibili le risorse necessarie per un mutamento qualitativo dei bisogni umani, ma la società totalitaria crea bisogni falsi e artificiali allo scopo di impedire la liberazione degli individui dal dominio attraverso il soddisfacimento completo dei bisogni vitali. Proprio confrontandola alle potenzialità non repressive che essa contiene, la società contemporanea può essere criticata e si può aprire lo spazio per la fantasia, la quale conserva tracce dell’impulso al piacere: grazie ad essa, diventa possibile immaginare, sulla scorta di suggestioni desunte da Schiller come da Fourier, una società utopica non repressiva, nella quale l’eros è liberato e meno energie istintuali sono investite nel lavoro che finisce così per diventare lavoro attraente e trasformarsi in gioco. Nell’opera successiva, L’uomo a una dimensione , Marcuse nutre minori speranze in una possibilità di liberazione, perché la società industriale avanzata appare totalitaria, unidimensionale . Nella stessa tecnologia, egli riconosce uno strumento per istituire nuove forme di controllo e di coesione sociale, piacevoli e quindi più efficaci. Questo vuol dire che è proprio l’innalzamento del tenore di vita, dovuto ai progressi tecnici raggiunti nella società opulenta, a diventare veicolo di repressione: esso, infatti, genera il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco e ottunde la capacità di resistenza e di opposizione al sistema. In questa situazione, trova spazio quella che Marcuse chiama desublimazione e tolleranza repressiva: grazie all’estensione in massa di valori culturali, che vengono appiattiti sull’ordine sociale esistente, si verifica anche una concessione di libertà apparenti che non ledono gli interessi dominanti e, anzi, garantiscono rafforzano la persistenza della repressione. Nelle democrazie moderne, infatti, la tolleranza secondo Marcuse coincide con il permissivismo, perché viene concesso sulla base dell’assunto che nessuno è in possesso della verità e che pertanto il soggetto delle scelte deve essere la collettività, che si suppone sia composta di individui capaci di scegliere. In realtà, la società come amministrazione totale dell’esistenza degli individui, produce esattamente l’effetto contrario, ossia un generale conformismo. Anche il pensiero corrispondente a questa situazione è una unidimensionale, modellato sulla realtà esistente e incapace di opposizione e critica. Questa è l’imputazione che Marcuse muove ad alcune delle tendenze più significative della filosofia del Novecento, dal pragmatismo al neopositivismo alla filosofia analitica. In esso, secondo Marcuse, la verità di una teoria è riposta nella constatazione empirica dei fatti o nel successo conseguito praticamente con essa o nella sua conformità alle regole del linguaggio comune. Ciò significa che la ragione e il linguaggio non appaiono più capaci di trascendere i fatti e la realtà esistente. Il compito della filosofia consiste, invece, nell’opporre un grande rifiuto alla società esistente, tenendo in piedi la possibilità di alternative e mantenendosi fedeli al contenuto universale dei concetti: i concetti di bellezza o di libertà, infatti, racchiudono anche tutta la bellezza e tutta la libertà che non si sono ancora realizzate. Grazie a questa impostazione diventa allora possibile comprendere le cose alla luce delle loro potenzialità e anticipazioni. In questa direzione, Marcuse assegna una funzione fondamentale all’ immaginazione , la quale è indipendente dai dati di fatto ed è capace di vedere un oggetto anche se non è presente l’immaginazione al potere diventerà parola d’ordine della rivolta degli studenti. Più che alla classe lavoratrice nel suo complesso, la quale appare sempre più integrata nel sistema, di cui tende a condividere i valori, Marcuse guarda appunto agli studenti e a gruppi marginali come i negri, i guerriglieri del terzo mondo, gli emarginati e il sottoproletariato delle città, come a potenziali soggetti rivoluzionari: al tempo stesso, tuttavia, egli riconosce la loro impotenza se non si alleano con altre forze di opposizione organizzate all’interno della società. Nell’esperienza storica di questi nuovi movimenti di protesta e di rivolta, di cui almeno in un primo momento giustifica la violenza verso il sistema, in quanto mossa dalla vera intolleranza ossia dal telos della verità. Marcuse vede annunciarsi la fine dell’utopia e la liberazione di ogni forma di repressione finora esistita. La diagnosi della società tecnologica avanzata che Marcuse ha tracciato ne L’uomo a una dimensione è impeccabile. Qui la prospettiva si rovescia : tutti gli spazi alternativi, tutte le forme di opposizione, tutte le dimensioni “altre” da quella della tecnologia al servizio dei consumi e del potere capitalistico (come anche della dittatura terroristica sovietica) sarebbero conquistati dal dominio apparentemente “democratico” della società industriale avanzata : l’uomo, la società e la cultura sarebbero ridotti all’unica dimensione tecnologico-consumistica, che condiziona nel profondo bisogni e desideri umani, precostituendoli. Una società, quindi, senza vera opposizione e senza libertà, come suona già l’inizio dell’opera : ” Una confortevole levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico”. L’avversione ad una tecnologia che conterrebbe in sé già incorporata un’ideologia del dominio è di chiara matrice heideggeriana e prosegue, da sinistra, la condanna che Heidegger pronunciò contro la tecnica, in cui vide l’estremo consumarsi del nichilismo moderno. Nulla sfugge a questa non-libertà, tutte le classi, compresa la classe operaia, sono ormai pienamente integrate nel “sistema”; solo fuori del sistema, si potrebbe ancora trovare qualche potenziale rivoluzionario, “al di sotto della base popolare conservatrice”, tra gli emarginati, ” il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili”, e – così termina L’uomo a una dimensione , con una citazione di Walter Benjamin – ” è solo per merito dei disperati che ci è data la speranza”. Il vero paradosso è che proprio quest’opera, che preclude così drasticamente ogni possibilità di cambiamento e di opposizione, divenne il vademecum dei rivoluzionari del ’68. Certo, una simile diagnosi mette sotto accusa in modo implacabile, sullo stesso piano, capitalismo e comunismo, e, alla radice di ambedue, la stessa struttura tecnologica avanzata, scatena di per sé una spontanea reazione ad un “sistema” così soffocante. I contestatori trovarono quindi in questo libro il più fedele rispecchiamento della loro rabbia e i motivi della loro rivolta. Ma la plumbea atmosfera attribuita alla società tecnologica, descritta così efficacemente ne L’uomo a una dimensione, apparve essere dipinta a tinte troppo fosche, e svanì ben presto: quell’analisi non poteva reggere né ad esami più rigorosi né alla prova dei fatti. Fu lo stesso Marcuse ad accorgersene nelle opere successive (soprattutto nel Saggio sulla liberazione del 1969) allorché manifestò nuova fiducia nell’utopia di una società liberata. Una frase significativa, su cui grava chiaramente il peso delle tante obiezioni rivoltegli, esprime un nuovo modo di concepire la società tecnologica, ed è rivelatrice di un grande mutamento di prospettive: “E’ ancora il caso di sottolineare che non sono la tecnologia, né la tecnica, né la macchina gli strumenti della repressione, ma la presenza in essi dei padroni che ne determinano il numero, la durata, la forza, il posto nella vita, e il bisogno di esse? E’ ancora il caso di ripetere che la scienza e la tecnologia sono grandi veicoli di liberazione, e che è soltanto il loro uso e il loro condizionamento nella società repressiva che fa di esse il veicolo della dominazione? “. Marcuse, come si è detto, si può definire solo in modo molto generico un pensatore “marxista”. I suoi tratti più originali ed efficaci stanno, a mio avviso, nell’aver scorto nella liberazione dell’eros – da non confondere con la “liberazione sessuale”, da lui vista come un altro condizionamento strumentale della società repressiva – il futuro di una società più aperta e libera. Una liberazione dell’eros come liberazione delle energie creative profonde dell’uomo, della libido come fonte di un ethos di uomini liberi e solidali tra loro; un eros da intendere come radice estetica, come possibile fonte di un mondo più “bello”, meno deturpato dall’aggressività, dalla violenza, dalla distruzione della natura e dell’ambiente, dalla guerra, dall’odio razziale e di classe. Marcuse sostenne in tutte le sue opere che l’arte e l’estetica – nella duplice radice semantica di quest’ultima nella “sensualità” e nella “bellezza” – rappresentano l’opposizione al dominio e al principio di realtà repressivo; l’arte, la fantasia e l’immaginazione sono opposte alla schiavitù della repressione e possono diventare la forma di una società più autentica, bella e libera. Non a caso l’ultima opera di Marcuse, il suo “testamento spirituale “, ha per titolo, nell’edizione inglese e italiana, The Aesthetic Dimension , La dimensione estetica , e nell’edizione tedesca Die Permanenz der Kunst , la “permanenza dell’arte”, intesa come dimensione insopprimibile e fondamentale della convivenza sociale. Fino a quella bellissima espressione che compare nelle sue ultime opere: “la società come opera d’arte”. Un'”utopia”, senza dubbio. Ma le utopie muovono la storia. E il vecchio Marcuse forse ha ancora qualcosa da dire alla civiltà del Duemila, che si preannuncia ogni giorno più dominata da uno sviluppo tecnologico sempre più accelerato e vertiginoso, che invade tutti gli ambiti della vita umana. L’arte e l’estetica, la bellezza in tutte le sue forme e la creatività umana potranno essere – anche se non nella misura dell’utopia marcusiana – un qualche antidoto? Una delle più grandi intuizioni marcusiane fu questa: di fronte al fallimento novecentesco delle previsioni di Marx, egli apportò notevoli modifiche teoriche alla dottrina originaria, suggerendo, ad esempio, che se è vero che nel Novecento lo scontro di classe sembra essere sfumato nel mondo occidentale, è altrettanto vero che tale scontro non si è dileguato, ma si è semplicemente spostato su un nuovo fronte: la nuova lotta è combattuta tra Paesi capitalisti del mondo occidentale e Paesi sfruttati del “terzo mondo”, con l’inevitabile conseguenza che anche gli operai del mondo occidentale finiscono per essere sfruttatori del “terzo mondo”, in quanto anch’essi siedono al banchetto dei capitalisti, pur accontentandosi delle sole briciole.
HANNAH ARENDT
” I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana[…]. Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire. ” (Le origini del totalitarismo)
VITA E OPERE
Hannah Arendt nasce nel 1906 a Hannover, in una famiglia benestante appartenente alla borghesia ebraica, ma non avevano legami particolari con il movimento e con le idee sioniste. A Königsberg, dove nel frattempo la famiglia si è trasferita, consegue nel 1924 l’ “Abitur”, titolo di studio che equivale all’italiano diploma di maturità. Conseguito l’ “Abitur” decide di iscriversi all’Università di Marburg, dove si stava facendo strada la tendenza più interessante di quegli anni, la fenomenologia di Husserl. Arendt incontra un giovane docente destinato a diventare uno dei pensatori più importanti del XX secolo: Martin Heidegger. Con il filosofo tedesco Hannah intratterrà un rapporto personale intenso, che la coinvolgerà sotto diversi aspetti (anche sentimentali) per l’intero arco della vita. Nel 1925 si reca a Friburgo per un semestre di studio, al fine di seguire le lezioni del fondatore della filosofia fenomenologica Edmund Husserl. Quindi, seguendo le indicazioni di Heidegger, si sposta all’Università di Heidelberg, dove sotto la guida di Karl Jaspers prepara e porta a termine nel 1929 la ricerca di dottorato “Der Liebensbegriff bei Augustin” (“Il concetto di amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica”). Nel 1929, trasferitasi a Berlino, ottenne una borsa di studio per una ricerca sul romanticismo dedicata alla figura di Rahel Varnhagen (“Rahel Varnahagen. Storia di un’ebrea”). Nello stesso anno sposa Günther Stern, un filosofo conosciuto anni prima a Marburg. Dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo e l’inizio delle persecuzioni nei confronti delle comunità ebraiche, Hannah abbandona la Germania nel 1933 attraversando il cosiddetto “confine verde” delle foreste della Erz. Passando per Praga, Genova e Ginevra giunge a Parigi, dove conosce e frequenta, tra gli altri, lo scrittore Walter Benjamin e il filosofo e storico della scienza Alexander Koiré. Fino al 1951, anno in cui le verrà concessa la cittadinanza statunitense, rimane priva di diritti politici. Nella capitale francese collabora presso istituzioni finalizzate alla preparazione di giovani ad una vita come operai o agricoltori in Palestina (l’Agricolture et Artisan e la Yugend-Aliyah) e diventa, per alcuni mesi, segretaria personale della baronessa Germaine de Rothschild. Nel 1940 si sposa per la seconda volta, con Heinrich Blücher. Ma gli sviluppi storici del secondo conflitto mondiale portano Hannah Arendt a doversi allontanare anche dal suolo francese: internata nel campo di Gurs dal governo Vichy in quanto “straniera sospetta” e poi rilasciata, dopo varie peripezie, riesce a salpare dal porto di Lisbona alla volta di New York, che raggiunge insieme al coniuge nel maggio 1941. Il periodo americano inizia in maniera non certo facile: alle iniziali difficoltà economiche si aggiunge l’impegno, faticoso quanto necessario, dell’apprendimento di una nuova lingua. Nonostante tutto è proprio nel nuovo mondo che Hannah ha modo di creare nuove amicizie e di scrivere opere importanti, che le permettono di acquisire autorevolezza e notorietà come intellettuale e pensatrice politica. Nella sua intensa attività, Hannah Arendt è costantemente supportata da una particolare famigliarità con la scrittura: possiede infatti il talento non comune di unire, con fluidità, il pensiero alla penna. In modo più o meno marcato ma sempre indelebile, tale capacità può essere vista come un segno distintivo, presente in tutti i suoi scritti. Le riflessioni vengono proposte attraverso uno stile personale, rigoroso e discorsivo al tempo stesso: in quanto scrittrice avversa al dogmatismo culturale, Hannah Arendt non vuole la passività del lettore, ma al contrario ricerca e richiede un suo coinvolgimento attivo, attento, dialogico. La figura e l’opera di questa pensatrice possono costituire una esempio eloquente della possibilità di un felice connubio fra pensiero e parola, contemplazione e azione, tradizione e innovazione. Nel 1951 pubblica il fondamentale “The Origins of Totalitarianism” (“Le origini del totalitarismo”), frutto di un’ accurata indagine storica e filosofica. In tale contesto, particolarmente interessante risulta essere l’analisi della cosiddetta “ideologia”, intesa come uso indebito della facoltà razionale umana e perciò crogiolo potenziale di ogni dinamica totalitaria. La mente gioca con se stessa: l’atteggiamento ideologico, privo di un vero ideale, assolutizza la facoltà logica facendola esorbitare dai suoi limiti costitutivi, in modo tale da costruire una pseudo-realtà, impermeabile all’esperienza della realtà autentica, al cui interno vige la pretesa di spiegazione totale che nega, di fatto, la vocazione della natura umana alla libertà di iniziativa. Dal 1957 comincia la carriera accademica vera e propria: ottiene insegnamenti presso le Università di Berkeley, Columbia, Princeton e, dal 1967 fino alla morte, anche alla New School for Social Research di New York Nel 1961, in qualità di inviata del settimanale “New Yorker”, assiste al processo contro il gerarca nazista Eichmann. Il resoconto di questa esperienza viene inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista newyorkese e successivamente proposto in forma unitaria nel 1963, con il libro “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil” (“La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme”).Sempre nel 1963 pubblica “On Revolution” (“Sulla rivoluzione”), saggio politologico dalle cui pagine emergono giudizi negativi sia sulla Rivoluzione francese sia su quella russa. L’assunto principale dell’opera, il punto fisso su cui fa leva il discorso dell’autrice, è l’intelligenza della correlazione presente fra libertà e politica: la politica infatti è vista, essenzialmente, come l’attività che preserva, cura e garantisce lo spazio all’esercizio concreto della libertà in tutte le sue forme di attuazione. Nel 1972 viene invitata a tenere le Gifford Lectures all’Università scozzese di Aberdeen, che già in passato aveva ospitato pensatori di prestigio come Bergson, Gilson e Marcel. Due anni più tardi, durante il secondo ciclo delle “Gifford”, subisce il primo infarto. Altre opere significative sono “The Human Condition” del 1958 (“Vita activa. La condizione umana”) e il volume teoretico “The Life of the Mind” (“La vita della mente”), uscito postumo nel 1978, attraverso cui Hannah, sulla scia originaria della migliore filosofia greca, riporta al centro dell’esistenza umana la “meraviglia” (il qaumazein ). Tale “stupore” metafisico non è uno stato psicologico, bensì un elemento costitutivo della capacità dell’essere umano di conoscere, pensare e vivere in modo costruttivo, come persona in comunione con altre persone. Il 4 dicembre 1975 muore a causa di un secondo arresto cardiaco, nel suo appartamento di Riverside Drive a New York: questo il capolinea storico di un’esistenza “pensante”, pervasa da un senso di gratitudine sempre fedele alla realtà delle cose. Una vita densa non solo di studi e letture ma anche di incontri, luoghi, eventi.
BREVE RIASSUNTO DELLE OPERE
Il concetto d’amore in Agostino (1929): Hannah Arendt mette qui in campo tutta la ricchezza e la complessità dell’opera di Agostino, pensatore in bilico tra due mondi, quello greco e quello cristiano, pensatore sommo e originale, impegnato in uno “sforzo tremendo”, di cui sono segno le linee interrotte del suo pensiero, credente per il quale non si trattò di ” abbandonare le incertezze della filosofia a favore di una verità rivelata, ma di scoprire le implicazioni filosofiche della sua nuova fede .
Le origini del totalitarismo : Per quattro anni di intensa fatica, nel libro scritto tra il 1946 e il 1950, vibra un trasalimento, un Ach! di dolore profondo davanti all’infamia che l’autrice analizza. Arendt si considerava una scopritrice di problemi attuali, ma i tre elementi (antisemitismo, imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi, erano ciascuno espressione di un problema, o di un insieme di problemi, per i quali era stato il nazismo ad offrire, quando essi si erano “cristallizzati”, una “soluzione” tremenda.
Il futuro alle spalle : L’obiettivo di Arendt è di sottrarre l’opera dei poeti al mestiere degli specialisti per restituirla al libero gioco della comprensione. Poesia e letteratura, infatti, riguardano tutti, aiutano a vivere, sono cose troppo serie per essere lasciate ai soli critici di professione. La maliziosa ironia di Heinrich Heine, la lotta esistenziale di Franz Kafka contro le idee della vecchia Europa si ricompongono lungo la corrente della “tradizione nascosta”, quella della coscienza ebraica, della esclusione che non rinnega la propria storia, in cui il futuro è precluso al passato.
Vita Activa. La condizione umana (1958): Le tre condizioni dell’esistenza, fondamentali per capire la “antropologia” di Arendt, corrispondono all’ambiente naturale degli individui, la Terra, e quindi l’attività del lavoro, rappresentata dall’ “animal laborans”; la seconda condizione è l’insieme di artefatti di cui l’uomo si circonda per vivere e operare nel mondo, cui corrisponde l’ “homo faber”; la terza condizione è lo spazio pubblico in cui gli individui interagiscono mediante il discorso, l’attività corrispondente è l’agire. Le tre attività compongono la “vita activa”.
Rahel Varnaghen (1959): Scrivendo la biografia di Rahel Varnhagen (1771 – 1833), intellettuale ebrea protagonista dei salotti romantici, Madame de Stael berlinese, Arendt osserva: ” la realtà non può portare niente di nuovo, la riflessione ha già anticipato tutto “. In Arendt l’indomabile istinto intellettuale si univa ad una segreta, a volte ironica malinconia che non si rivelava. E a proposito di Rahel: ” Essere Schlemihl, sfortunata, quale Rahel si riteneva, non è mai schlimm mazzel, solo passiva malasorte “. Il sole non c’è solo per coloro che al sole voltano costantemente le spalle. E così nella signorina Rahel la battaglia contro i fatti, soprattutto contro il fatto di essere nata ebrea, diventa una battaglia contro se stessa.
Tra passato e futuro (1961): Arendt sottolinea che il tesoro della libertà dell’agire è impossibile da trasmettere in un mondo che non attribuisce senso all’agire in pubblico. E ciò è tanto più sconcertante quanti più individui si disposero alla lotta e all’agire per riappropriarsi di uno spazio pubblico che il nazismo e l’occupazione, e prima ancora la pseudo-democrazia repubblicana, avevano cancellato nella società francese. I saggi qui raccolti sono variazioni sul tema della frattura che si apre nell’esistenza e nella cultura quando l’essere umano non può aprirsi al mondo e quindi al presente. I vari tipi di crisi, dell’autorità, della libertà, dell’istruzione, persino del pensiero, sono riportati alla fondamentale lacuna dell’agire. Questa assume l’aspetto decisivo di una interruzione della tradizione.
La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963): L’opera più discussa e controversa dell’autrice pone interrogativi profondi sulla natura umana, sugli ideali di giustizia e sulla memoria del passato. Eichmann non era un mostro, era soltanto un uomo mediocre, banale, cui erano stati preposti idoli mediocri in cui credere e per cui battersi. Il male di cui si è macchiato non era radicale, quindi impunibile, incomprensibile, imperdonabile, ma banale, non il male, ma la persona che lo commise era incapace di giudicare, di discernere il bene dal male, di comprendere quello che stava facendo.
Sulla rivoluzione (1963): In questa opera la Arendt, attraverso il confronto tra le due suddette rivoluzioni, mette in luce come esse rappresentino due diversi modelli di fenomeni rivoluzionari, manifestando al contempo la sua concezione della politica, con la chiara adesione ai princìpi che hanno ispirato la rivoluzione americana. ” In una situazione internazionale che contrappone la minaccia di totale distruzione attraverso la guerra alla speranza di emancipazione di tutta l’umanità attraverso la rivoluzione, non resta altra causa se non la più antica di tutte, la causa della libertà contro la tirannide “.
La lingua materna (1964): In questo saggio di Hannah Arendt, che è corredato da un’intervista concessa dall’autrice alla televisione tedesca nel 1964, vengono esaminate le questioni dell’esilio, dell’identità di un popolo e delle trasformazioni che nel corso dell’età contemporanea hanno sconvolto l’assetto dell’Europa e del mondo intero. La condizione umana è soggetta a continui mutamenti, spesso tragici, e l’unica possibilità inventiva, per l’autrice, consiste nella capacità di provare stupore, porre domande in un atto di solidarietà tra esseri umani.
Ebraismo e Modernità (1978): Radicalità e solitudine è il binomio della meditazione cui Hannah Arendt ritorna costantemente in questi scritti che coprono l’arco di più di vent’anni fino al suo scambio epistolare con il grande storico della mistica ebraica Gershom Scholem che, a proposito del suo libro su Eichmann, la accusa di non amare il popolo ebraico. ” Io non amo gli ebrei ” gli risponde Arendt, ” sono semplicemente una di loro “.
La vita della mente (1978): E’ l’ultimo libro di Arendt, rimasto incompiuto, l’ultima sua opera, il coronamento della sua “vita activa”. Divisa in tre parti (Pensare, Volere, Giudicare), Arendt si chiede nella prima parte dove si trovi l’io che pensa, quali siano il suo spazio e il suo tempo. Alla libertà è dedicata la seconda parte del volume, e cioè il problema del cristianesimo di come poter conciliare la fede in un Dio onnipotente con le esigenze del libero arbitrio.
Il pescatore di perle. Walter Benjamin (1993): Arendt ci offre un ritratto tra i più intensi e significativi di Walter Benjamin, un intellettuale sui generis che secondo l’autrice riesce a rischiarare, a illuminare anche i periodi più oscuri che viviamo. Ciò che fin dall’inizio affascinò Benjamin non fu mai un’idea ma sempre un fenomeno, ” ciò che appare paradossale di ogni cosa che viene semplicemente definita bella è il fatto che appaia “.
Verità e politica. La conquista dello spazio e la statura dell’uomo (1995): La menzogna va combattuta, oltre che per la sua immoralità, per il suo potenziale impatto distruttivo sullo spazio della politica. Dietro le imprese spaziali che proiettano l’uomo fuori della terra e dietro le ricerche scientifiche volte a creare la vita in provetta e a prolungare l’esistenza umana, l’autrice vede appunto profilarsi il desiderio di sfuggire alla mortalità e più in generale ai limiti inerenti alla condizione umana.
Che cos’è la politica? (1995): E’ una raccolta di frammenti scritti da Arendt intorno al tema della politica e all’idea di scrivere un’ “Introduzione alla politica”, cioè a quello che realmente è politica e ai presupposti fondamentali dell’esistenza umana con i quali il politico ha a che fare. I brani pubblicati forniscono indicazioni fondamentali sulla filosofia politica, sulla visione del mondo, sull’autonomia e originalità di Hannah Arendt. In un’epoca di miseria politica, Arendt ha ricercato le origini di una politica intesa come vita appagata e libera insieme agli altri dei quali si riconosce la diversità.
Ritorno in Germania (1996): Un saggio intenso e profondo raccoglie le impressioni, le esperienze e le conoscenze di un viaggio di ritorno nella Germania nazista del 1949-1950. Questo testo commosso e puntuale è il tentativo di una donna sensibile di superare con la forza dell’intelligenza il dolore, l’amarezza personale e il risentimento nei confronti del proprio Paese dopo la tragica esperienza del nazionalsocialismo, della seconda guerra mondiale e della Shoah.
L’immagine dell’inferno (2001): I tre saggi compresi in questo libro costituiscono passaggi cruciali di quella riflessione sull’Olocausto che porterà Arendt alla stesura di “Le origini del totalitarismo”. Di fronte ad un evento che sfidava le capacità di comprensione, Arendt seppe formulare, per la prima volta, con un rigore ineguagliato, le domande che ancora oggi ci inquietano: come è potuto succedere? Quali meccanismi di disumanizzazione sono stati messi in atto per poter rendere “normale” lo stermino di massa? I campi di concentramento appaiono a Arendt come l’esito più estremo, ma anche più conseguente, del totalitarismo come forma inedita di governo, intesa a sperimentare la cancellazione della spontaneità e della pluralità umane e capace di creare nei suoi sudditi un’obbedienza e una mentalità conformistica disposte ad accettare qualsiasi orrore.
La disobbedienza civile e altri saggi (1985): I temi a cui il saggio rimanda sono quelli dell’obbligo politico e della partecipazione, visti nella loro connessione col problema della libertà. Sulla scia di un nuovo kantismo delineato dalla “Critica del Giudizio”, Arendt formula un’analisi dell’azione innovativa e sempre rivoluzionaria, nei termini del principio della libertà pubblica, dello spirito pubblico e della pubblica felicità.
Poco incline alle posizioni conservatrici e più vicina alle forme di spontaneismo dell’esperienza rivoluzionaria dei Consigli, teorizzata da Rosa Luxemburg , non legata da simpatia a Strauss, ma neppure ai francofortesi, estranea al problema del potere e attiva nella difesa dei diritti civili e delle minoranze, fu Hannah Arendt (1906-1975), ebrea, nata nei pressi di Hannover, studentessa tra il 1924 e il 1929 nell’università di Marburgo, dove fu allieva di Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale. Arrestata nel 1933, fuggì a Praga, poi a Ginevra e a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York. Dopo la guerra potè riallacciare i suoi rapporti con Jaspers, mentre incontrò difficoltà con Heidegger anche per il persistente silenzio di quest’ultimo sulla pro pria adesione al nazismo. Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente di un giornale, il processo al nazista Eichmann, che le apparve un uomo mediocre, incapace di distinguere tra bene e male: da ciò trasse la conclusione della “banalità” del male, che non ha di per sé profondità, e attribuì una parte di responsabilità del genocidio alle stesse vittime del nazismo, ma questo sollevò nei suoi confronti accuse di antisionismo. Intanto, a partire dal 1956 aveva cominciato a insegnare all’università di Berkeley, per passare poi a quella di Chicago, tra il 1963 e il 1967, e infine alla “New School for Social Research” di New York, dal 1967 sino alla morte. La prima opera significativa della Arendt, pubblicata negli Stati Uniti, è ” Le origini del totalitarismo ” (1951). Caratteristica saliente del totalitarismo è non tanto una concezione filosofica, quanto l’esistenza di campi di concentramento: nessun governo totalitario, infatti, può sussistere senza terrore e il terrore non può essere edificato e mantenuto senza tali campi, nei quali gli individui sono ridotti a entità superflue. Per questo aspetto, esistono, secondo la Arendt, profonde analogie tra nazismo e stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l’assenza di ogni salvaguardia delle libertà civili. L’esperienza della rivoluzione in Ungheria, nel 1956, rafforza la sua convinzione che l’unica alternativa al totalitarismo nell’età moderna è nel sistema dei Consigli, che nascono spontanei, senza organizzazione, in nome della libertà, nel corso dei moti rivoluzionari. Intanto, lo studio di Marx e del problema del lavoro la conduce ad interrogarsi sul tema dell’equilibrio delle attività umane: nasce di qui il volume ” La condizione umana ” (1959), noto anche col titolo ” Vita activa “. Ispirandosi all’etica aristotelica, Arendt individua tre componenti nella vita attiva degli uomini: sono tre attività, il lavoro, la fabbricazione, o produzione di oggetti, e l’azione (in greco, “praxis”), le quali si connettono alle condizioni generali dell’esistenza umana, ossia al nascere e al morire, al rapporto con gli altri e alla permanenza sulla terra. Il lavoro assicura la sopravvivenza non solo individuale, ma della specie umana, mentre la fabbricazione produce un mondo sulla terra. Mentre è possibile lavorare e produrre anche in solitudine, non è possibile agire se non in relazione almeno ad un’altra persona, ossia, in generale, ad una pluralità di individui. Questo vuol dire che lavoro e fabbricazione non realizzano qualità specificamente umane, dal momento che anche un animale può lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre. Specificamente umano è, invece, l’agire insieme, che costituisce l’ambito della politica e presuppone il linguaggio come mezzo essenziale per il rapporto tra una pluralità di individui. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica, corrispondente alla polis dei greci, e la sfera privata, corrispondente a ll’oikos dei greci: quest’ultima è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzione necessarie per sopravvivere, mentre la politica è il regno della libertà, dell’emergenza del nuovo. Tutte queste attività, infatti, sono radicate nella natalità, in quanto hanno il compito di preparare e conservare il mondo per i nuovi venuti, ma più di tutte lo è l’agire come capacità di dar luogo a qualcosa di integralmente nuovo. I rapporti tra queste attività, che sono le costanti dell’esperienza umana, variano storicamente. Nel mondo moderno, il lavoro ha assunto una posizione di primato rispetto all’agire, prioritario presso i greci, e al fabbricare, dominante nell’immagine cristiana di un Dio creatore. Questo mutamento ha indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato una nuova sfera, quella del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all’oikos e alla polis. I risultati sono, da un lato, una nazione amministrata burocraticamente come se si trattasse di un’unica famiglia e un generale conformismo e, dall’altro, una riduzione della partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata in intimità puramente individuale. L’integrazione armonica delle varie attività, con l’attribuzione del primato all’agire e, quindi, alla politica, si è invece realizzata, ad avviso di Arendt, nella polis, ma già i filosofi greci avevano minato questo modello, nel momento in cui, a parti re da Platone, avevano spezzato la connessione tra la prassi e il discorso, che caratterizza la politica, e subordinato la politica alla loro attività, intesa come teoria, ossia attività contemplativa. In questa situazione, la politica veniva concepita come un ambito che deve essere disciplinato da regole che nascono nella sfera superiore della teoria e sono accessibili soltanto ad una saggezza superiore. Da questa impostazione sono nate, in età moderna, le filosofie della storia e le teorie, come quella hegeliana, che trasformano le nozioni di mezzo e di fine in categorie politiche e interpretano la storia come un processo necessario, finendo in tal modo per giustificare le pratiche totalitarie del XX secolo e sollevando dalla responsabilità di giudicare gli eventi storici. In opposizione a ciò occorre, secondo Arendt, una nuova scienza politica, che torni a porre al centro l’azione, interpretata come inizio di qualcosa di nuovo e di imprevedibile, non fabbricabile ne dall’uomo ne da Dio. Infatti, quando un’azione si perverte in una specie di fabbricazione, si può generare il male e la distruzione degli uomini, proprio come per fare una frittata occorre rompere le uova. In questa prospettiva, nello scritto ” Sulla rivoluzione ” (1963), la Arendt individua il conflitto essenziale dell’epoca moderna non tra diversi sistemi economici o tra classi, ma tra libertà e autoritarismo; da parte sua, ella si schiera dal lato delle associazioni che nascono spontaneamente, soprattutto nelle situazioni rivoluzionarie, ma rifiuta la definizione della politica come lotta per il potere e le giustificazioni della violenza, fornite da Marx, Sorel e Sartre, in quanto confondono tra loro azione, fabbricazione e processi naturali: ai suoi occhi, la non violenza è essenziale al movimento per la pace e la disobbedienza civile è lo strumento per la difesa dei diritti civili. L’ultima opera, rimasta incompiuta, ” La vita della mente “, pubblicata postuma nel 1978, è presentata da Arendt come ” un trattato del buon governo mentale “: essa descrive le attività dello spirito, ossia il pensare, il volere e il giudicare, cercando di mostrare la necessità di un controllo e di un equilibrio reciproco fra esse. Il pensare è diverso dal conoscere, che ha un oggetto e un fine: esso, invece, non ha un oggetto, ma si riferisce solo a sé e produce significati, non la verità, che è piuttosto prodotta dal consenso. Il pensare consente di affrontare i fenomeni direttamente, senza alcun sistema preconcetto, e quindi prepara il terreno al giudizio, che rappresenta la vera attività politica della mente. Anche il volere è costitutivo della sfera politica, in quanto mira a produrre un riconoscimento reciproco tra gli individui. In questo senso, la Arendt critica Heidegger per aver rifiutato il volere a favore del pensiero, concepito come forma di azione: ciò equivale, infatti, a rifiutare la politica. Condizione dell’armonia fra le tre attività è la libertà interna di ciascuna. Anche in Germania, nel dopoguerra, ridiventa essenziale il problema del tipo di sapere e di razionalità che deve sovrintendere all’agire individuale e collettivo. Presupposto diffuso è che il modello non possa essere offerto dalle scienze naturali, ne dalle scienze sociali che si costruiscono in conformità ad esse. In questo orizzonte ha luogo, dall’inizio degli anni Sessanta, quella che è stata denominata riabilitazione della filosofia pratica, ossia del diritto, dell’etica e della politica, alla quale hanno contribuito vari autori, tra i quali Gadamer e Joachim Ritter (1903-1974), allievo di Heidegger e di Cassirer.
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO
Come molte altre opere di grandi autori, anche ” Le origini del totalitarismo ” della Arendt è comparsa in un momento politico-culturale (1951), data centrale della guerra fredda che ne ha reso quasi obbligatoriamente unilaterali la lettura e l’interpretazione. L’assimilazione di nazismo e stalinismo, infatti, impedì allora una lettura serena dell’opera da parte dell’intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti anni sarebbe rimasta l’esponente di un pensiero politico liberale e neo-conservatore. In realtà le preferenze politiche della Arendt andavano ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come sarebbe stato evidente qualche anno dopo. L’opera, grande anche nel senso della voluminosità (circa 700 pagine), individua i caratteri specifici del totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse nell’antisemitismo (studiato nel periodo fra Otto e Novecento, specialmente in Francia con l’ “affaire Dreyfus”) e nell’imperialismo, temi ai quali sono dedicati i due terzi dell’opera. Dal confluire delle conseguenze dell’antisemitismo e dell’imperialismo in un preciso momento storico (la crisi successiva alla prima guerra mondiale) è nato il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella Germania nazista sia nell’Unione sovietica stalinista (del tutto marginale è l’attenzione rivolta al fascismo italiano). Il totalitarismo é un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o riducibile, secondo la Arendt, ai tradizionali regimi tirannici o dittatoriali. Esso nasce dal tramonto della società classista, nel senso che l’organizzazione delle singole classi lascia il posto ad un indifferenziato raggrupparsi nelle masse, verso le quali operano ristretti gruppi di élites, portatori delle tendenze totalitarie. Tali tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie rappresentanze di classe, realizzano il regime totalitario, che ha i suoi pilastri e nell’apparato statale, nella polizia segreta e nei campi di concentramento nei quali si rinchiudono e si annientano gli oppositori trasformati in nemici. Attraverso l’imposizione di una ideologia (razzismo, nazionalsocialismo, comunismo) e il terrore, il totalitarismo, identifica se stesso con la natura, con la storia, e tende ad affermarsi all’esterno con la guerra. Nulla di simile era apparso prima: il totalitarismo é un fenomeno ” essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura. Dovunque é giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall’esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo “. La Arendt accentua, nelle pagine di considerazione teorica che concludono l’opera, il ruolo nuovo svolto dalle ideologie, unite al terrore, nei regimi totalitari. Le ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in cui le idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come direttrici di un cammino fatale, inevitabile, naturale e storico insieme. In un regime totalitario l’ideologia ” é la logica di un’idea. La sua materia é la storia a cui l’ idea é applicata, il risultato di tale applicazione non é un complesso di affermazioni su qualcosa che é, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge dell’esposizione logica della sua idea. Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua idea “. La Arendt si pone, alla fine, una domanda: ” quale esperienza di base nella convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d’azione nella logicità del pensiero ideologico? “. La risposta viene data individuando tale esperienza di base nell’isolamento dei singoli nella sfera politica, corrispondente alla estraniazione nella sfera dei rapporti sociali. Quest’ultima, in sostanza, sta alla base dell’isolamento sul piano politico, e quindi costituisce la condizione generale dell’origine del totalitarismo. ” Estraniazione, che é il terreno comune del terrore, l’essenza del regime totalitario e, per l’ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, é strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall’inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell’imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali nella nostra epoca. Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo ” . E ancora: ” quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario é estraniazione che da esperienza al limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, é diventata un’esperienza quotidiana delle masse crescenti nel nostro secolo. L’inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un’evasione suicida da questa realtà ” . Risuonano in questi passi gli echi di un pessimismo ebraico che negli anni ’30 e ’40 trovava manifestazione filosofica con tematiche non molto dissimili, in Benjamin, in Horkheimer e in Adorno. Le tesi della Arendt, come quelle dei suoi amici appena citati, avranno ampia diffusione, ma verranno anche ampiamente discusse nel dibattito teorico che ha impegnato nei successivi decenni i pensatori politici europei e statunitensi. Arendt si considerava una scopritrice di problemi attuali, ma i tre elementi (antisemitismo, imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi, erano ciascuno espressione di un problema, o di un insieme di problemi, per i quali era stato il nazismo ad offrire, quando essi si erano “cristallizzati”, una “soluzione” tremenda. Così, l’alternativa metodologica scelta da Arendt fu quella di individuare gli elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini, e scoprire i problemi politici reali alla loro base, ” scopo del libro non è dare delle risposte, bensì preparare il terreno “. Arendt presenta gli elementi del nazismo e i problemi politici che ne stavano alla base. L’imperialismo, quello che ha raggiunto il suo pieno sviluppo, cioè il totalitarismo, è visto come una “amalgama” di certi elementi presenti in tutte le situazioni politiche del tempo. Questi elementi sono l’antisemitismo, il decadimento dello stato nazionale, il razzismo, l’espansionismo fine a sé stesso e l’alleanza fra il capitale e le masse.
” Dietro ciascuno di questi elementi si nasconde un problema irreale e irrisolto: dietro l’antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato nazionale, il problema irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro il razzismo, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano; dietro l’espansionismo fine a sé stesso, il problema irrisolto di riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo, e che siamo costretti a dividere con popoli la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale. La grande attrazione esercitata dal totalitarismo si fondava sulla convinzione diffusa, e spesso consapevole, che esso fosse in grado di dare una risposta a tali problemi, e potesse quindi adempiere ai compiti della nostra epoca “.
In una serie di lezioni tenute nel 1954 alla “New School for Social Research” di New York, Arendt chiarisce l’immagine della “cristallizzazione”, con una dichiarazione metodologica che è assente nelle stesure delle Origini del totalitarismo: ” gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue origini, purché per origini non si intenda cause. La causalità, cioè il fattore di determinazione di un processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e politiche. […] Gli elementi divengono l’origine di un evento se e quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora e solo allora, sarà possibile seguire all’indietro la loro storia. L’evento illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso “.
Gli elementi del totalitarismo : secondo Arendt, quindi, il totalitarismo è composto da “elementi” che si sono sviluppati precedentemente e si sono “cristallizzati” in un nuovo fenomeno dopo la prima guerra mondiale. Questi elementi forniscono la struttura nascosta del totalitarismo. L’impulso all’espansione senza limiti era nelle sue origini un fenomeno economico, qualcosa di inerente all’avanzata del capitalismo. Il capitalismo era impegnato nella trasformazione della proprietà da stabile, fissa, in una ricchezza mobile; la conseguenza fondamentale di questo processo fu quella di generare sempre più ricchezza in un processo senza fine. Fino a che questo rimase un fenomeno puramente economico esso era sì distruttivo, ma non catastrofico. Il pericolo diventò ” la trasformazione di pratiche economiche in un nuovo tipo di politica della competizione assassina e dell’espansione senza limiti “. Il significato dell’era imperialista per Arendt è che l’imperativo di espandersi uscì dalla logica economica e prese forza nelle istituzioni politiche. Lo stato-nazione fu fortemente messo in crisi dall’imperialismo. Dove l’imperialismo dà spazio alle forze incontrollabili dell’espansione e della conquista, lo stato-nazione è un’istituzione creata da individui, una struttura civilizzata che fornisce un ordine legale e garantisce diritti, tramite i quali l’individuo può essere legislatore e cittadino. C’è una profonda tensione tra la nozione di stato come garante di diritti, e l’idea della nazione come una comunità esclusiva. Fin dalla nascita dello stato-nazione questo fatto creò difficoltà per gli ebrei: infatti, l’ideale dei diritti umani non divenne fondamentale se non dopo la prima guerra mondiale, e le conseguenze di essa sulle minoranze nazionali e le persone senza patria (“displaced persons”). Il capitolo delle “Origini” sul declino dello stato nazione, spiega perché ci furono così pochi ostacoli al massacro degli ebrei, e dimostra la necessità di costruire un nuovo ordine politico che non possa abolire diritti civili e politici per un gruppo di persone. Quello che il destino delle persone senza patria ha dimostrato, così sostiene Arendt, è che i diritti umani universali che sembravano appartenere agli individui, potevano solo essere reclamati da cittadini di uno stato. Pertanto, per chi era fuori da questa categoria, i diritti inalienabili della persona erano senza significato. Ne sono un esempio gli ebrei che, non avendo uno stato in cui identificarsi come popolo, ed un territorio definito in cui poter vivere, sono stati privati, come apolidi, del diritto di cittadinanza, e con esso di una tutela giuridica come soggetti di personalità. Il problema non era quello di godere di un’eguaglianza di fatto davanti alla legge come persone, ma la negazione del fondamentale diritto umano e cioè il “diritto di avere diritti”, che significa il diritto di appartenere ad una comunità politica. Arendt sottolinea che il razzismo non è una forma di nazionalismo, ma, è in diversi modi, il suo opposto. Il nazionalismo genuino è strettamente legato ad uno specifico territorio e una cultura, e quindi alle azioni e traguardi raggiunti da particolari esseri umani. La razza, al contrario, è un criterio biologico, determinato dal territorio e dalla cultura, e si riferisce a caratteristiche naturali fisiche. Dove le persone sono identificate per i loro caratteri razziali innati, le differenze individuali e la responsabilità individuale diventano irrilevanti: una persona semplicemente agisce come un coro delle caratteristiche razziali di quella specie. Il determinismo razzista, con la distinzione tra razze superiori e inferiori, fornisce una perfetta giustificazione per la conquista imperialista e la sottomissione delle popolazioni native. La plebe è un precedente di quello che sarà la massa per gli ebrei nel totalitarismo: i suoi rappresentanti sono “senza mondo” perché hanno perso uno spazio stabile di riferimento, una identità, non hanno aspettative da condividere con altri, non hanno prospettiva per guardare il mondo, sono esposti alla manipolazione ideologica, vivono in una condizione di sradicamento. L’alleanza tra il capitale e la plebe dimostra che il sottoproletariato può essere facilmente reclutato per commettere atrocità (Arendt prende come riferimento la descrizione di Conrad in “Cuore di tenebra”): la plebe era costituita dagli ” scarti di tutte le classi e tutti gli strati “, erano avventurieri e cercatori d’oro asserviti dall’imperialismo, ” scaraventati fuori dalla società “, non credevano in nulla, potevano anzi indursi a credere a ogni cosa, a qualsiasi cosa. L’irresponsabilità di questo nuovo strato e la corrispondente ritirata su tutte le questioni morali, andava di pari passo con la possibilità della trasformazione della democrazia borghese in un dispotismo: infatti la plebe era un prodotto diretto della società borghese e quindi non separabile da essa. La spregiudicata politica di potenza poté essere attuata solo con l’aiuto di una massa di persone prive di principi morali e perfettamente manipolabili. Nel mondo irreale dell’Africa Nera non si assassinava un individuo se si uccideva un indigeno, ma un sub-umano, una larva che suscitava solo il dubbio di appartenere alla stessa comunità umana. Qui il riferimento alla Shoah è evidente: dove la plebe è servita all’imperialismo per la sua brama di conquista, così la massa è servita al totalitarismo per i suoi obiettivi di distruzione degli ebrei. Arendt sostiene che l’antisemitismo venne usato dal regime nazista come un “amalgamatore” per la costruzione del totalitarismo, perché esso era legato ad ognuno degli elementi che aveva identificato. La plebe, che odiava la società, alla quale non apparteneva più, poté essere facilmente condotta a provare ostilità nei confronti di un gruppo come gli ebrei che era metà fuori e metà dentro la società. L’ideologia razzista, in nome della quale i movimenti totalitari erano mobilitati, aveva bisogno di un equivalente in Europa dei nativi d’Africa, e gli ebrei erano adatti a tale ruolo. I movimenti totalitari avevano bisogno di demolire le mura vacillanti dello stato-nazione per edificare nuovi imperi. Gli ebrei, che avevano consolidato una loro identità senza territorio e uno stato, apparvero come le uniche persone che, apparentemente, erano già organizzate come un corpo politico razziale. Gli ebrei si erano disinteressati alla politica e al potere politico, e questo disinteresse per la politica li aveva portati a non capire il pericolo enorme che costituiva per loro l’antisemitismo moderno, e la forza distruttiva che esso veicolava. Gli ebrei scambiarono a torto questo antisemitismo, che aveva radici economiche, politiche, sociali, religiose e psicologiche, con il vecchio odio che dall’antichità aveva generato i pogrom. Nessuno comprese che il problema a questo punto era di tipo politico. Solo l’uguaglianza giuridica e politica protegge gli individui e le nazionalità da discriminazioni e persecuzioni. Promulgando le leggi razziali di Norimberga, i nazisti crearono una “razza” perché crearono un gruppo d’uomini privi di diritti e differenti sul piano giuridico. L’antisemitismo del Novecento ha sostituito all’odio religioso di altri tempi il rifiuto della differenza, il rifiuto di accordare il rispetto all’altro per le sue stesse caratteristiche. E tale rifiuto si maschera dietro il rispetto della normalità, dietro il conformismo, ma può arrivare fino al caso estremo della difesa biologica della razza.
LA BANALITA’ DEL MALE
Nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann (il famigerato criminale nazista) come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme. Otto Adolf Eichmann (nato nel 1906), era stato responsabile della sezione IV-B-4 (competente sugli affari concernenti gli ebrei) dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione, voluta da Himmler, del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, inclusa la polizia segreta o Gestapo. Eichmann non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma, per l’ufficio ricoperto, aveva svolto una funzione importante, su scala europea nella politica del regime nazista: aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Nel maggio 1960 agenti israeliani lo catturarono in Argentina, dove si era rifugiato, e lo portarono a Gerusalemme. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti”. Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista e poi riunite nel1963 nel libro “La banalità del male” (Eichmann a Gerusalemme).In questo libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della Arendt fin dai primi scritti nel tardo 1940 del fenomeno del Totalitarismo. La prima reazione della Arendt alla vista di Eichmann è più che sinistra. Lei sostenne che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso”. La percezione dell’autrice di Eichmann sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell’organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l’incapacità di pensare. Eichmann ha sempre agito all’interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Egli non era l’unica persona che appariva normale mentre gli altri burocrati apparivano come mostri, ma vi era una massa compatta di uomini perfettamente “normali” i cui atti erano mostruosi. Dietro questa “terribile normalità” della massa burocratica, che era capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della “banalità del male”. Questa “normalità” fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società – in questo caso i programmi della Germania nazista – trova luogo di manifestazione nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente . Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente “hostis generis humani”, “commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male. ” L’analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali, come detto sopra rappresentano il nucleo tematico dell’opera . A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di “fare il male”. La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia, interesse personale, di condanna ideologica di chi lo fa: in questo senso la Arendt si domanda se la dimensione di male è una condizione necessaria di “fare il male”.In altre parole “Il fenomeno del male ha necessariamente una radice desiderata?” Era innegabile che questo nuovo insieme di domande del fenomeno del male, di cui le radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, al meno aprirà una prospettiva nuova sul comprensione del male. Tale nozione è stata menzionata da Arendt nelle prime pagine dell’introduzione de “La Vita della Mente”Assistendo al processo Eichmann la Arendt disse: .” mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie di male”. La perplessità davanti ad un fenomeno che ha contraddetto le teorie note di male, e la relazione chiara tra il problema di male e la facoltà di pensare, era quello che la Arendt ha espresso con la frase “la banalità del male”. Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne “Le Origini di Totalitarismo” (1951), il suo primo libro, nel quale sosteneva che l’aumento di totalitarismo era dovuto all’esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, “non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia”. Spesso ha detto che la tradizionale comprensione del male non era di nessun aiuto riferita a questa variante moderna, e ha voluto seguire il processo probatorio ad Eichmann , del quale ha riferito per il New Yorker, per confrontare chiarificare le sue idee. Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa, secondo la Arendt, gli standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall’attuale società. Lei domanda come sia possibile che poche persone non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere “giudicati da loro stessi”; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di “giusto e sbagliato” siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto essi sarebbero capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe azioni; e loro decidono che è meglio non far nulla. La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza ma semplicemente l’abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, che significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate è stato chiamato “pensare”. L’incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più intelligente e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l’uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali della Arendt è il fatto che un’intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento. La capacità di pensare ha dunque la potenzialità di mettere l’uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l’aderire degli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi circa il significato degli avvenimenti, in altre parole la manifestazione del pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l’uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio. La banalità del male che appare attraverso Eichmann rende evidente come il fenomeno del male può mostrare la sua faccia. In un trattato scritto per un dibattito su “Eichmann a Gerusalemme” nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che banalità significa ‘senza radici’, non radicato nei ‘motivi cattivi’ o ‘impulso’ o forza di ‘tentazione’. La Arendt afferma inoltre: “la mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”… solo il bene ha profondità e può essere integrale.”
IL FUTURO ALLE SPALLE
In tutti i capitoli viene celebrato il potere liberatorio e consolatorio della parola dei poeti, e viene tracciata l’immagine del paria, comune a Heine, Kafka, Benjamin, Brecht e Chaplin. Ed ecco che si incrociano e scambiano le figure dello Schlemihl e del Pariah. Per Arendt paria sono tutti coloro che hanno preferito rimanere esclusi e marginali, indipendenti, piuttosto che sottomettersi e assimilarsi, perdendo ogni autonomia. Al posto dell’ostinata ricerca dell’integrazione, del conformismo, il paria coltiva la propria differenza, l’intelligenza disinteressata. Lo Schlemihl a cui Heine fa vestire i panni del Principe del mondo di sogno volta le spalle a quel mondo sociale che non lo vuole per godere liberamente della poesia, dell’arte e della meraviglia del mondo. La situazione del paria si capovolge: da essere lui l’escluso e privato della mondanità, diventano i parvenu miseri e disprezzati, coloro che vivono in rigidi schemi sociali, coloro che hanno barattato la loro libertà con gli idoli dell’utilità sociale. Al piccolo uomo di Chaplin non appartengono i doni della leggerezza e dell’irrisione sicura di sé. Anch’egli è innocente ma non è più protetto da Apollo. Il sospettato di Chaplin si muove in un mondo grottesco ma reale, è costretto a trovare protezione nell’astuzia e nell’occasionale bontà di un passante. Agli occhi della società Chaplin è sempre, per principio un sospettato. Molto prima che il sospettato si trasformasse nella figura dell’apolide, Chaplin aveva rappresentato la secolare paura ebraica davanti al poliziotto in cui s’incarna un ambiente ostile. Quello che collega la figura del sospetto con lo Schlemihl di Heine è l’innocenza. Negli innumerevoli conflitti con la legge risulta che trasgressione e punizione, per lo meno per il sospettato, sono indipendenti l’una dall’altra e in un certo senso appartengono a due mondi diversi che non si accordano mai. L’uomo sospetto viene sempre acciuffato per cose che non ha affatto commesso. In questo piccolo ebreo abbandonato, pieno d’ingegno, che è sospetto a tutto il mondo, si riconosce il piccolo, pover’uomo di tutti i paesi. L’uomo paria kafkiano senza arroganza si contrappone sicuro alla società. Kafka fu il primo ad attaccare la natura e l’arte in quanto rifugi per reietti della società. Il signor K. ne Il Castello affronta problemi che, secondo Arendt, sono propri del paria ebraico: è privo di appartenenza, non è né un abitante del villaggio né un funzionario del castello, e tenta la via dell’assimilazione. Chiede soltanto ciò che gli spetta di diritto: una casa, un lavoro, una famiglia, la cittadinanza. Come sappiamo K. fallisce ma non si ritira nel mondo di sogno di Heine. E’ l’acosmismo il peccato più grave del paria, questo ritirarsi in un suo rifugio quale l’arte, la fede, la lingua che crea mondi sublimi interiori, una libertà illusoria interiore che distrae e distoglie da quell’unica autentica libertà che si può avere nel mondo politico. La libertà del paria non ha senso perché in essa non ci sono aspirazioni, né spazio per il desiderio umano di realizzare qualcosa su questa terra, fosse anche il solo organizzare la propria vita. Chi si sente lontano dalle regole semplici e fondamentali dell’umanità, o chi sceglie di vivere in uno stato d’emarginazione, anche se costrettovi perché vittima di una persecuzione, non può vivere una vita veramente umana. Da questa constatazione ha avuto origine la tendenza di Kafka al sionismo. Ha aderito al movimento che rifiutava la condizione di anormalità ed emarginazione del popolo ebraico per farne un popolo come tutti gli altri. Ma nel saggio su Brecht scopriamo che questa non è l’ultima parola di Arendt. Infatti questo ritirarsi nel mondo di sogno, credendolo l’unico mondo vero, permette al paria di creare le parole poetiche più belle, perché è ai margini, è distante da tutti i vincoli e ruoli sociali. Arendt è convinta che la poesia e l’arte più pure siano quelle dei paria.
LA LINGUA MATERNA
Nella trascrizione della conversazione televisiva con Gunter Gaus, Arendt appare in tutta la sua spontaneità e immediatezza di linguaggio, nel suo modo di rispondere e di vedere è sincera e diretta. E’ qui che si definisce teorica politica e non filosofa poiché vuole staccarsi dalla tradizione che voleva il filosofo neutrale dalle questioni politiche, ” io voglio guardare alla politica, per così dire, con occhi sgombri dalla filosofia “. Arendt vuole comprendere gli avvenimenti, non imporre una visione pregiudiziale o univoca, solo nel dialogo, nell’azione discorsiva di una pluralità di soggetti è possibile creare uno spazio pubblico che è il mondo. Nel colloquio sono toccati i temi più cari ad Arendt, dal totalitarismo al problema dell’ebraicità tra paria e parvenu, il processo Eichmann, la libertà e la lingua tedesca come patria del linguaggio. Prendere attivamente parte alla causa degli ebrei significava allora far parte del movimento sionista, l’unico che fosse preparata ad affrontare un problema di tipo politico, quello che la maggior parte degli ebrei non aveva capito. Essere ebrei nella Germania di HItler del 1933 significava “difendersi da ebrei”, non da tedeschi o da cittadini del mondo, si doveva partecipare ad un’attività organizzata. Della patria natia ad Arendt è rimasta la lingua materna, con la quale ha un rapporto intimo, un legame stretto, conosce poesie in tedesco a memoria, ” non è la lingua tedesca ad essere impazzita! ” afferma Arendt, essa è un dato inestirpabile nell’individuo, è una parte di esso. L’incontro con la madre terra dopo Auschwitz è stato struggente, commovente, ” soprattutto l’esperienza di sentire di nuovo della gente che parla tedesco per strada “. Arendt affronta quindi alcuni chiarimenti sul libro “La banalità del male” particolarmente il passo criticato dall’intellighenzia ebraica dove sembrerebbe criticare il ruolo dei consigli ebraici. Ella non ha mai criticato la mancata resistenza del popolo ebraico, ma le domande che vennero poste ai testimoni durante il processo Eichmann. Arendt qui spiega come certi atteggiamenti, certi discorsi di Eichmann la facessero ridere, ” io penso che Eichmann fosse un pagliaccio […] mi sono messa a ridere tanto rileggendo l’interrogatorio della polizia ad Eichmann “. Il tono è certamente ironico, e questo non è piaciuto a molti, esso ha a che fare con la persona, non con i crimini che ha commesso. Arendt è ancora chiamata in causa quando dice in uno scambio di lettere tra lei e Gershom Scholem di non aver mai amato nessun popolo o collettività. L’amore esiste solo tra persone, tra gruppi esiste un interesse in comune o è un dato naturale. Quando l’amore viene mescolato all’azione ” ritengo che sia qualcosa di disastroso ” e catastrofico apolitico e a-mondano. Arendt conclude dicendo: ” ritengo che anche la parola sia una forma d’azione. Questo è il primo rischio. Il secondo è: noi diamo inizio a qualcosa; annodiamo il nostro filo al tessuto delle relazioni. Che cosa poi succederà, non possiamo saperlo. L’azione è semplicemente concreta, perché non si lascia conoscere. Questo è un rischio. Questo rischio è possibile solo se si ha fiducia negli uomini. Ciò significa fiducia in ciò che è umano in tutti gli uomini. Altrimenti non sarebbe possibile “. Nel secondo saggio, Arendt riesamina gli attributi della filosofia, da Socrate ai giorni suoi e rivaluta l’opera di ricerca attiva dei filosofi mondani. In tal senso rivaluta la riscoperta del linguaggio come relazione tra un Io ed un Tu che si scambiano pareri e opinioni, entrano in comunicazione tra loro. L’ambito pubblico è l’estensione di queste caratteristiche al mondo delle istituzioni e delle associazioni. ” L’autentica filosofia politica potrà scaturire solo da un atto originario di ‘thaumadzein’ , dallo stupore “.
EBRAISMO E MODERNITA’
Una serie di articoli dal luglio 1942 al gennaio 1950 mettono in luce la dinamica del pensiero arendtiano sulla questione arabo-israeliana e sulla condizione dell’ebreo senza patria. Il punto distintivo consiste nel riconoscimento dell’eccezionalità del conflitto, e di conseguenza dell’impossibilità di porvi termine con una pacificazione di tipo tradizionale. La guerra tra Israele e il mondo arabo si propone anche oggi, ed è vista non come conflitto tra stati, ma come una rivendicazione di una patria contesa tra due popoli con una diversa identità. Ecco perché l’analisi arendtiana va vista nel quadro della sua filosofia politica, in cui assume un valore fondamentale il concetto di isonomia . E’ l’uguaglianza dinanzi la legge, la parità della propria presenza nello spazio pubblico, e il riconoscere la reciprocità dei diritti che diventa il fulcro per una possibile soluzione del conflitto. Arendt credeva che la sopravvivenza dello Stato di Israele fosse possibile solo in una confederazione palestinese. Pur essendosi sempre sentita sensibile alle vicende di Israele, Arendt era cittadina statunitense, e poté seguire, con quel distacco che lei riteneva indispensabile per l’analisi teorica, il processo Eichmann, sottolineando in una lettera a Gershom Scholem la sua indipendenza politica da ogni vincolo privato o di comunità: ” hai perfettamente ragione – non sono animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività – né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo solo i miei amici, e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone. In secondo luogo, questo amore per gli ebrei mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona. […] Ebbene, è in questo senso che io non amo gli ebrei, né credo in loro; sono semplicemente una di loro. Questo è un dato di fatto fuori discussione “. La posizione di Arendt segue le orme di Bernard Lazare, la cui voce era rimasta inascoltata quando l’intero movimento sionista si era schierato attorno a Theodor Herzl. Lazare, contrariamente a Herzl, non considerava l’antisemitismo come un fenomeno naturale e inevitabile, bensì era convinto che solo attraverso il recupero di un’idea universale di umanità, e quindi di una dimensione politica che superasse gli angusti confini di una nazione, gli ebrei potessero accedere a quello spazio pubblico dove può realizzarsi l’aspirazione ad un’autonomia radicale. Questa raccolta si affianca all’interpretazione arendtiana dell’opera di Kafka, che descrive situazioni in cui uomini venuti dal nulla, senza biografia e senza patria, cercano ostinatamente un’esistenza normale e dei diritti che altri godono naturalmente, che rappresenta la condizione tipica degli ebrei o di un’umanità a cui, nell’epoca del totalitarismo, può capitare di essere trattata alla stregua degli ebrei.
” La storia ebraica moderna, che ha avuto inizio con gli ebrei di corte ed è continuata con gli ebrei milionari e filantropi, è pronta a dimenticare un’altra tendenza della tradizione ebraica: quella di Heine, Rahel Varnhagen, Scholem Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka, o persino Charlie Chaplin. Si tratta della tradizione di una minoranza di ebrei che non hanno voluto diventare dei nuovi ricchi, che hanno preferito la condizione di ‘pariah consapevoli’. Tutte le vantate qualità ebraiche – il ‘cuore ebraico’, l’umanità, lo humor, l’intelligenza disinteressata – sono qualità del pariah “.
Così scriveva Hannah Arendt, in un articolo degli anni di guerra, ora parte di un libro che raccoglie saggi e interventi militanti scritti su riviste americane dal 1942 al 1950, gli anni della nascita dello Stato di Israele. Si tratta di articoli che formano un tessuto, anche contraddittorio, di riflessioni sulla condizione ebraica dopo lo sterminio, la “vittoria” sionista e il processo occidentale di integrazione. Al sionismo l’autrice rimprovera anzitutto di avere ” un bagaglio teorico ormai obsoleto “, di aver bisogno dell’ostilità antisemita per fondare l’identità nazionale. D’altra parte non le sfuggono, per quanto riguarda la Palestina, i rischi di uno ” sciovinismo di tipo balcanico “. Sui tragici avvenimenti in Germania la Arendt afferma, anticipando analisi posteriori, che lo sterminio non è l’espressione dello “spirito tedesco”, ma se mai un fenomeno moderno e internazionale: l’ ” enorme macchina amministrativa dell’assassinio di massa “. In tal modo, già nel gennaio del 1945 Hannah Arendt individua gli elementi di quella ‘banalità del male’, messi poi pienamente in luce durante il processo Eichmann, e sollecita a scorgere, al di là della ideologia nazista, storie quotidiane come la vita di un padre di famiglia che, per difendere la pensione o per garantirsi un minimo di agiatezza, si trasforma in burocrate del crimine. Piuttosto che ricorrere alla propaganda anti-tedesca di stampo francese – consiglia la filosofa – è meglio sapere che in ogni società nella quale la disoccupazione offende ” il comune rispetto di sé dell’uomo comune “, quell’uomo, allenato alla degradazione, può accettare ” qualunque mansione, perfino quella del boia “. Il libro raccoglie in appendice le lettere che Hannah Arendt scambiò con Gershom Scholem. In questo carteggio lo studioso della mistica ebraica, sulle tracce della gnosi, sembra credere al “male radicale” e, in una serrata polemica, accusa la studiosa ” di non amare il popolo ebraico “. ” Io non ‘amo’ gli ebrei ” – è la risposta – ” sono semplicemente una di loro “.
WALTER BENJAMIN
Hannah Arendt, nel suo scritto dedicato a Walter Benjamin, ci parla di un’aspirazione di questi evidentemente eccentrica, ovvero redigere ” un’opera che consistesse unicamente di citazioni “. Una cosa veramente inconsueta, probabilmente assimilabile ad un clima surrealista, come la stessa Arentd sostiene, ma non semplicemente come suggestione culturale, bensì come esito di una ricerca teorica strutturatasi nel corso di alcuni periodi della vita di Benjamin, e rintracciabile all’interno di parte dei suoi scritti. In questa indagine condotta dall’autore, un concetto importante emerge, come vedremo, nella parola “riproducibilità”. Esplicitamente questo termine compare nel titolo del saggio che egli pubblica nel 1936, per la rivista “Zeitschrifit für Sozialforschung”, diffusa in quel periodo a Parigi, che è nella traduzione italiana, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Parola che nel titolo si accompagna quindi con il termine “tecnica”, e che pertanto denota un processo tipico della modernità. Questa, come epoca, viene appunto caratterizzata da un nuovo tipo di riproduzione. Il tema in questione risulta centrale per Benjamin; egli intende affrontarlo perché ne ha colto l’essenzialità, non semplicemente come frutto estremo di una successione di eventi, ma come ultima espressione temporale di una necessità incombente, identificabile come il senso della storia nel suo generarsi: l’epoca della riproduzione tecnica, la modernità appunto. Ed è sempre la modernità che è in attenzione al nostro autore negli scritti che riguardano l’opera di Charles Baudelaire, come quelli inerenti la “Metropoli parigina”. In questi saggi è ben evidente l’intenzione di Benjamin di affrontarne il tema per poterne cogliere l’essenza profonda. Questa risulta essere inserita in un ambito temporale ben circoscritto: il presente. Una categoria che per lui non è assoluta, bensì in relazione al divenire complessivo dell’esistente. Benjamin non approfondisce i significati della modernità esclusivamente perché essa s’impone come attualità a cui fare fronte, ma in quanto solo in essi è possibile trovare il senso del presente. E’ del resto un fatto fondamentale che egli, ricercando il presente, trovi che questi è sostanzialmente la modernità. Questa consapevolezza è anche riconoscere che alla modernità non è possibile sottrarsi, in quanto ciò significherebbe perdere il proprio momento: il tempo della vita. Ma, come si è detto, Benjamin non cerca un presente isolato dal suo essere inserito in un processo del divenire, altrimenti egli sarebbe soddisfatto nel semplice esame della modernità. Per comprendere i nessi in questione, è necessario un ulteriore “scavo” nell’opera del nostro autore. Gli scritti attorno alla tematica del linguaggio ricoprono una funzione nodale a questo riguardo. Essi favoriscono la teoretica connessione tra il “prima” ed il “poi”. Nello scritto “Il compito del traduttore”, ciò che si evidenzia è proprio questo rapportarsi di una temporalità della significazione, che avviene tra l’originale e la sua traduzione. Qui il presente non è un momento cronologico, ma bensì il soggetto dell’acquisizione del senso: il “poi”, che non può essere posto che in relazione con un “prima”. La traduzione viene quindi a ricoprire la funzione di un’attualizzazione del passato, e solo in questo rapporto sta la sua realtà: essere una traduzione. Questa coglie la sua sostanzialità dall’originale, che viene a connotarsi come la sua origine. ” In esse [le traduzioni] la vita dell’originale raggiunge in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento “; e più avanti: ” tutte le manifestazioni finalistiche della vita, come la loro finalità in generale, non tendono in definitiva alla vita o” il presente della traduzione, come quello della modernità, non è finalizzato a se stesso, ” ma all’espressione della sua essenza, all’espressione del suo significato “, del suo senso originario, del suo prima. In ciò emerge un interesse maggiormente specifico di Benjamin, quello relativo alla verità del presente. L’essenza di questi viene evidenziandosi nella seguente interrogazione: cosa è che diviene nel presente? Cosa gli giunge e lo fa essere tale, trasfigurandolo dall’essere mera apparenza, ovvero solo attualità? E’ chiaro che ciò sia l’origine, sulla quale il presente ha possibilità di fondare il proprio senso, ottenendo la possibilità di costituirsi come verità dell’uomo. Ma Benjamin non rimane nel vago di un’origine generica, egli specifica di quale tipo essa sia. Nella premessa gnoseologica del “Il dramma barocco tedesco”, egli si esprime in questi termini: ” con origine non s’intende un divenire del già nato, bensì un divenire e un trapassare di ciò che nasce. L’origine sta nel fiume del divenire come un vortice e trascina dentro la propria ritmica il materiale della nascita ” . Un’origine che trascina il materiale della propria nascita, non è ciò che è già nato. In questi passi si esplicita pertanto l’atteggiamento del nostro autore nel concepire i significati del tradizionale. Egli reputa che il “trasportare” sia fondamentale per il presente, in quanto permette che vi sia una base materiale sul quale qualche cosa possa nascere. Ma questo trasporto, non può comunque essere un divenire di ciò che è già nato, una normalissima trasposizione, altrimenti il presente non potrebbe mai nascere, ovvero non si potrebbe vivere in un tempo che sia veramente nuovo, quello che Benjamin definirebbe messianico. A questo punto è opportuno approfondire il concetto di tradizione nel modo in cui, nelle parole di Benjamin, acquisisce consistenza: ” divenire del già nato “; proprio per comprendere su quale tipo di verità la tradizione si fonda. Essa si propone come un divenire che ha come unico compito quello che il già nato venga a noi. In questo senso l’origine è ciò che è stato, e, funzione della tradizione, risulta essere la riproduzione il più fedele possibile di questi. La tradizione pone la sua verità in questa fedeltà. Il ricordo, la fedeltà a questi, il suo canone. Ma per Benjamin non è completamente adeguato questo modo di realizzarsi della verità su cui si fonda la tradizione. Quando egli parla di trapassare di ciò che nasce, riformula questa modalità, la quale per confrontarsi realmente con la vita, deve appunto offrire la nascita, e non solo la rinascita. Una nascita che non ha comunque escluso che la sua possibilità si ponga in un materiale che provenga dal passato. Benjamin in questo modo non annulla il valore della tradizione, ma pone le premesse perché essa possa beneficiare il presente, e non rimanga, nella sua sdegnata ritrosia, impossibilitata a significarlo. Diviene ora importante porsi le seguenti domande: che tipo di materiale è quello che il nostro autore definisce della nascita, ma anche, in che modo esso giunge? Alla prima domanda egli sembra rispondere quando parla degli ” oggetti della teologia senza i quali non si può pensare alla verità “. Oggetti che per Benjamin, attento a riconoscere il valore delle sue radici culturali ebraiche, sono rigorosamente insondabili e indiscutibili; non sono posti in questione, come vorrebbe un pensiero più specificatamente occidentale. Questi invece, nel porre in discussione la realtà divina, trova evidenza nella perdita del primato divino sull’uomo, che viene a profilarsi nell’Umanesimo, sia Socratico che Rinascimentale, come nell’Illuminismo Deista, o nello Scientismo Positivista. Queste correnti culturali, possono benissimo rappresentare dei picchi di un pensiero che si è presentato, nei confronti della divinità, come la manifestazione della sua lenta agonia e dissoluzione. Cosa del resto chiaramente evidenziata nell’affermazione lucida e disincantata, proprio perché ha la sua verità nei fatti, della nietzscheana morte di Dio, che come è risaputo, si accompagna con un vero e proprio corredo funebre: il nichilismo. Ed è la problematica che questi solleva a stagliarsi sullo sfondo della scelta che il nostro autore conduce, quando decide di non trascurare i nessi teologici insiti nella sua cultura di derivazione. Benjamin, tuttavia, ponendo la teologia come fondamento di verità, non distoglie altresì lo sguardo dalla filosofia, in quanto è proprio questa che ha il compito di far giungere la verità all’uomo. In questa prospettiva non appare perciò fuori luogo che Benjamin sostenga che il padre della filosofia sia Adamo e non Platone. Adamo il cui ” denominare adamitico è talmente lontano dall’arbitrio […] il quale non era ancora costretto a lottare col significato informativo delle parole “. Ma se il padre della filosofia è Adamo, egli non è comunque ancora filosofo. Questi è colui che lotta con il significato informativo delle parole; è colui, che come Platone, cerca le idee. Solo attraverso le idee è possibile comprendere le parole di Adamo, le parole dell’origine. In fondo è la verità delle idee che il filosofo cerca. Egli le cerca perché non sono semplicemente conoscibili; perché ” l’oggetto della conoscenza non coincide con la verità. […] Le idee sono un che di già dato “; esse sono tali perché vivono al cospetto del vero, della parola adamitica. Non sono pertanto un riflesso rappresentativo, ma la verità di quella origine. Esse, perciò, ” si danno, estranee all’intenzione, nel denominare “. E’ allora attraverso le idee, che la verità delle parole può continuare a venire ripristinata, ma per far ciò, e per non tradire la verità originaria, ” le idee devono rinnovarsi nella contemplazione filosofica “. In questi termini si palesa il divario che si frappone tra una concezione di verità posta in termini tradizionalistici, ovvero attraverso la negazione di qualsiasi rinnovamento, e quella che l’autore sembra prefigurare; affinché si possa attuare una fedeltà propositiva, non quindi ristretta ad una sola riproposizione automatica della verità originaria. Per Benjamin il rinnovamento è qualche cosa di indispensabile. Egli paradossalmente sembra dirci che, per poter rimanere fedeli, non possiamo altrimenti che tradire. Ciò si esprime in un passo del saggio “Il compito del traduttore”:
” come si mostra che nella conoscenza non potrebbe darsi obbiettività, e neppure la pretesa ad essa, se essa consistesse in copie o riproduzioni del reale, così si può dimostrare che nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse, nella sua ultima essenza, alla somiglianza con l’originale. Poiché nella sua sopravvivenza, che non potrebbe chiamarsi così se non fosse mutamento e rinnovamento del vivente, l’originale si trasforma “. Appare chiaro dunque, che il tradimento auspicato da Benjamin è da formularsi nei confronti del tradizionalismo, il quale, chiuso nel culto del passato, rimane cieco nei confronti di una attualizzazione dei propri contenuti; in modo da perdere la possibilità che il presente abbia, oltre alla sua apparenza, anche un significato. L’origine in questa condizione rimane perciò mitica e irraggiungibile, il presente, come realtà nuova, sostanzialmente insensato. Ma a Benjamin sta a cuore il presente, forse anche solo perché coincide con il suo vivere. E’ perché crede che questi non sia senza senso, che si muove all’interno di un recupero dell’origine. Proprio in quanto è attraverso il riconoscimento del punto di partenza, che è possibile comprendere il percorso che si sta attuando. Un percorso che non ricerca la rassicurazione attraverso un’improbabile meta nel noto passato, ma che nel divenire, in un presente capace di riattualizzare la propria origine, ha la sua meta: probabilmente non certissima, comunque neppure totalmente impensabile. Ed è attraverso la parola, più che in una temporalità astratta, che avviene per Benjamin il recupero dell’origine. Questa si dimostra essere la verità stessa della parola. ” La lingua non dà mai puri segni “, come vorrebbe la concezione borghese, ne è ” l’essenza delle cose “, come deputerebbe la teoria mistica del linguaggio. La parola è lo strumento creatore di Dio, il mezzo con cui l’uomo può conoscere le cose. E’ attraverso la parola che l’uomo può comprendere le cose; ed è solo attraverso questa unione con il verbo creatore, che egli può significare la realtà in cui vive. Ciò dimostra come viene a connotarsi l’origine. Questa non risulta essere semplicemente qualche cosa che afferisce al passato, ma bensì un’entità in continuo mutamento, che costantemente, attraverso l’incessante attività di significazione, trova nel linguaggio umano la propria rigenerazione. La parola, in assenza del peso conferitogli dall’essere luogo ove l’origine persiste, sarebbe vuota, puro segno, ponendo al proprio opposto un puro significato. Ciò le implicherebbe di divenire completamente muta, proprio per aver dissolto la sua possibilità di essere parlante, ovvero, parola che non può aver senso che per l’uomo stesso. Ed è attraverso questa unione con l’origine, la quale non dimentichiamo è teologica, che la parola può mantenersi nella sfera dello spirito, e realizzare le possibilità attribuibili alle sostanze immateriali. Pertanto ” la lingua è allora l’essenza spirituale delle cose […] è identica alla loro essenza spirituale “. Presupposti indispensabili affinché sia comprensibile la seguente affermazione: ” ogni parola è tutta la lingua “. Quanto qui sostenuto dall’autore nel saggio “Sulla facoltà mimetica”, ha validità proprio in quanto viene attuata una considerazione della lingua intesa come evento unico ai fini della possibilità di senso dell’uomo; non perciò frantumabile in infiniti significati, e proprio per questo in nessuno. In tutte le parole esiste la medesima legge, ed è questa che unisce tutte le parole facendole essere una lingua. Ed è proprio perché ogni parola porta con sé questa uguaglianza, che le singole parole possono articolarsi nella narrazione delle differenze. Mentre se non vi fosse questa unione, ogni parola non potrebbe che mettere capo ad una lingua, quella, senza dubbio, dell’incomunicabilità: una non lingua. Ma questa legge che sovrintende al linguaggio, non è intendibile come una legge regolativa. Essa proviene direttamente dall’origine. Non è afferrabile come una qualsiasi legge logica, proprio perché come il senso dell’esistente non è limitabile alla sua apparenza, così il linguaggio, che l’esistente sostanzialmente presenta, non è limitabile alla soddisfazione di esigenze funzionalistiche. Questa legge è perciò la legge dello spirito, o meglio, è lo spirito stesso. Uno spirito che, attraverso l’eccessiva attenzione ai caratteri attualizzativi, il mondo moderno ha emarginato. Proprio come quell’omino gobbo di cui Benjamin parla: questi per poter giocare a scacchi, deve camuffarsi in un burattino, deve mettersi al servizio di un ” fantoccio chiamato materialismo storico. Esso può farcela [a vincere] senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno “. Un materialismo storico che senza una teologia intrinseca non sarebbe in grado di possedere un proprio peso specifico. Questa è la denuncia che Benjamin rivolge a chi ha bandito il metafisico pur continuando a basarsi sulle sue strutture. Proprio perché senza di queste la storia potrebbe solo avvenire, ma non possedere un fine, un senso comprensibile. Ma purtroppo la modernità, si è spesa senza indugi nell’abolire tutto ciò che poteva essere compromesso con il passato: lo ha praticamente raso al suolo. Ha questa sostanza infatti il passato che l’angelo della storia, figurazione che Benjamin ricava dal suo amatissimo dipinto di Paul Klee, si trova ad osservare attonito: ” egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine. […] Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti ” ridestare il prima, coloro che hanno vissuto nel passato e che ci hanno atteso sulla terra come il conseguente poi, affinché la storia si ricollochi nel divenire, ” ma una tempesta spira dal paradiso “, quella medesima che ha raso al suolo e che impedisce all’angelo d’intrattenersi, ” questa tempesta […] ciò che chiamiamo progresso “, è ciò che ” spinge irresistibilmente nel futuro “. Attraverso questa suggestiva immagine dell’angelo della storia si mostra il carattere oppositivo di modernità e tradizione. Un carattere pertanto conflittuale, che non va comunque colto attraverso atteggiamenti d’esclusione, ma con attenzione alle complessità significative che provengono dalle sue implicazioni. Questo è l’atteggiamento che Benjamin sembra proporre; in quanto nonostante egli sia convinto che ” in ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla “, appare del resto consapevole che la tempesta che si è impigliata nelle ali dell’angelo, e che lo trattiene, ” spira dal paradiso “. Si comprende in questo modo il ruolo che l’autore assegna alla tradizione: quello di attendere al futuro. Un futuro non ostile, anche se conflittuale, proprio perché il suo carattere messianico di redenzione, auspica il miglioramento, non l’azzeramento del passato. In questa ottica quindi Benjamin sonda la modernità. Egli è guardingo, perché sa che essa porta con sé caratteri messianici. Non si conduce pertanto a rinnegare la modernità esclusivamente perché questa ha rinnegato la tradizione. Anzi, il suo impegno appare rivolto a far sì che tradizione e modernità si pongano tra di loro in rapporto, forse anche perché gli è chiaro che altresì entrambe sarebbero squalificate. Questa affermazione richiede comunque ulteriori esplicitazioni, in quanto per comprendere come esse si falsifichino vicendevolmente, conviene osservare con quale peculiarità affermino il vero, o anche, il modo specifico in cui lo realizzano. Se nella tradizione il canone di verità è affidato, come si è visto, alla fedeltà del ricordo, questi nella modernità è divenuto una ” reliquia secolarizzata “. Un nuovo criterio ha adottato la modernità. Esso ha la sua fedeltà nella riproduzione tecnica, non più in quella rammemorante, proprio perché il prodotto ” ha un valore finora ignoto; […] il sempreuguale appare per la prima volta sensibilmente nella produzione di massa “. E’ questa uguaglianza sensibile, con la forza di essere un fatto riscontrabile materialmente, a soppiantare l’arbitrarietà del ricordo. Il sempreuguale è perciò l’esito di un’esigenza di verità riscontrabile, che ha nella nuova concezione produttiva la sua concreta attuazione. Una evidenza di quanto detto si potrebbe rintracciare nell’uso del denaro. Questi è ritenuto tale quando la sua realizzazione concreta sottostà a determinate caratteristiche che non mutano mai in nessuna realizzazione: la verità o falsità di una banconota ad esempio. Ciò è comunque, del resto, attribuibile a tutto quanto viene prodotto in serie. Il sempreuguale di un qualsiasi prodotto, come potrebbe essere una bibita come la Coca-Cola, è garanzia che in tutti i luoghi della terra in cui questa si berrà, essa presenterà sempre lo stesso gusto aromatico. La sua verità in fondo, sarà come nel denaro di non mutare mai le proprie caratteristiche, quindi il proprio valore intrinseco, nel caso del prodotto, o comunque rappresentativo, nel caso della banconota. Il sempreuguale perciò trasforma l’atteggiamento che si ha nei confronti del reale, riformulando anche il nostro consueto rapportarci con spazio e tempo. Quest’ultimo, per il motivo di non possedere la differenziazione, diviene sincronico, così come lo spazio acquisisce ristrettezza. Ipotizzando di realizzare un edificio in cui tutte le stanze fossero perfettamente uguali, vivere ad esempio al piano terra, sarebbe come nel medesimo istante vivere all’ultimo piano dell’edificio. Modificazioni del modo di vivere la realtà sono del resto rintracciabili anche nel vero e proprio atto riproduttivo. Nella tradizione tra l’esperienza originaria e la sua riproduzione attraverso il ricordo vi è una scansione temporale. Nella riproduzione tecnica, non esiste più un vero e proprio inizio, proprio perché non vi è più un vero e proprio soggetto originario, ma tutt’al più un campione che non si differenzia per nulla dalle sue riproduzioni, ovvero che ha una differenziazione semplicemente convenzionale, per nulla ontologica. Per questi motivi ” l’intervento dell’operaio sulla macchina è senza rapporto con il precedente [intervento] proprio perché ne costituisce l’esatta ripetizione ” . La verità che caratterizza l’epoca moderna, quella della riproducibilità tecnica, non si trova più nella corrispondenza tra un qualche cosa di originario e l’unicità della sua, riproduzione, ma tra riproduzioni medesime. L’origine ha perso perciò la capacità di dar vita all’originale. Essa è stata soppiantata dal processo meccanico tautologico, che nella sua capacità di produrre il sempre uguale ha la propria verità tangibile. In questo modo il processo meccanico ha assunto centralità nella società moderna, in quanto per le sue caratteristiche di dar concretezza alla concezione di medesimo, gli si è conferita anche la capacità di perfezione. Cosa impensabile per il tradizionale, affidato come si è visto all’arbitraria umanità del ricordo. E’ questo nuovo modo di porsi della verità che annulla lo storico a favore della simultaneità immediata, e che quindi decentra l’uomo e lo frastorna. La perdita dell’esperienza originaria che il processo meccanico vaporizza, fa divenire l’esperienza umana ” esperienza dello choc fatta dal passante nella folla [la quale] corrisponde [a] quella dell’operaio addetto alle macchine ” . Nel ricordo il rapporto con l’originale permane attraverso l’esperienza originaria. Esperienza originaria, e riproduzione rappresentativa coincidono, proprio perché convivono nel medesimo soggetto. Non esistendo una vera e propria scansione tra queste due istanze, ogni riproduzione rammemorativa è quindi sempre un originale. Nel processo meccanico invece questi non esiste più: quale è ad esempio il numero 1 originale in rapporto alle sue infinite riproduzioni: 1, 1, 1? Il primo, il secondo, il terzo? Questo processo non necessita di un originale affinché possa avvenire la riproduzione. Paradossalmente anche il niente, generatosi da uno scatto fotografico eseguito senza levare la mascherina che ripara l’obiettivo rendendolo inutilizzabile, è riproducibile infinitamente. Il processo meccanico che genera la riproduzione, non ha necessità d’altro che di se stesso. Il motivo è dovuto al fatto di essere autoreferente. Che 1 + 1 produca sempre il risultato di 2, è una certezza indiscutibile, e non necessita di nessuna validazione esteriore umana al processo stesso. Ciò che importa è semplicemente la correttezza del processo medesimo, in questo caso che il numero 1 sia sommato ad un altro numero uguale. Non ha nessuna importanza perciò conoscere cosa rappresenti quel numero, come potrebbe essere il riferirsi ad una mela o ad una pera. Quello che importa è che siano considerati uguali, ad esempio essere due frutti. L’assenza di discriminazione è perciò indispensabile alla buona riuscita del processo. La verità prodotta non può che disinteressarsi della qualità dei suoi assunti. Uno degli esiti è lo svuotamento d’importanza delle facoltà specificatamente umane. Mentre nella tradizione il darsi della verità avviene nell’esperienza dell’uomo, nella modernità non è più indispensabile neppure la sua presenza specifica; tant’è che le persone acquisiscono dignità solo in funzione del ruolo sociale che svolgono. Il motto odierno, “tutti si è utili nessuno indispensabile”, la dice lunga in merito a ciò, e fa sì che gli uomini ” somiglino alle povere anime, che si agitano molto, ma non hanno una storia “. Ma questo fondamentale svuotamento della centralità umana, che caratterizza l’epoca moderna e che trasforma le persone in massa, non sembra intimidire il nostro autore. Anzi, Benjamin, secondo la testimonianza della Arendt, presentata all’inizio del presente scritto, progetta persino un libro che si rifà ad un procedimento meccanico di mera riproduzione di quanto altri hanno fatto o detto; un libro di sole citazioni. Ma perché egli opta per un procedimento in cui la verità non è affidata all’uomo? Perché è affidata a Dio, forse? Probabilmente sì! Benjamin sceglie le caratteristiche di questa verità perché gli sembra sostanzialmente più giusta; perché assomiglia a quella del ” giudizio di Dio sulla tribù di Korah. Essa colpisce privilegiati, leviti, li colpisce senza preavviso, senza minaccia, fulmineamente, e non si arresta di fronte alla distruzione. Ma essa è anche, e proprio in essa, purificante, e non si può non scorgere un nesso profondo fra il carattere non sanguinoso e purificante di questa violenza “. La verità meccanica ha quindi in sé questa violenza sconvolgente, ma sostanzialmente necessaria, quindi non sanguinosa. Essa è perciò messianica, proprio perché il suo intento è la purificazione: l’abolizione del privilegio; privilegio che si mostra nella disuguaglianza, nell’arbitrarietà del ricordo. Ed è attraverso questa concezione di giustizia, in cui non solo pochi, ma tutti, possano fruire dei beni, che Benjamin affronta i discorsi inerenti alla maggior disponibilità dell’opera d’arte, che la riproduzione tecnica, nell’epoca moderna, permette. Concetto centrale di questo tema, che Benjamin affronta nel saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, diviene la maggior possibilità espositiva che l’opera d’arte assume, essendo riprodotta in grande quantità; determinando un valore espositivo impensabile per un’opera unica e originale. Essa come evento unico era sostanzialmente inaccessibile ai più, e in questa inaccessibilità fondava la sua aura. Con la riproduzione tecnica quest’aura invece svanisce, proprio in funzione a quanto inversamente l’opera diviene accessibile. ” Il dipinto ha sempre affacciato la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi ” in modo da costituire una situazione di privilegio, ma ” l’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel XX secolo, è un primo sintomo della crisi della pittura, crisi che non è stata affatto suscitata dalla fotografia soltanto, bensì, in modo relativamente autonomo attraverso la pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse “. Pretesa che è necessità di equità, di giustizia. Per questo ” ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di essere filmato “, affinché la produzione artistica non sia una esclusiva per pochi, e quindi ognuno abbia l’opportunità di prendervi parte, di beneficiare di essa. Ma se il tipo di verità che si genera nella modernità appare a Benjamin più equa di quella proveniente dalla tradizione, non per questo il presente si trova compensato dall’assenza di senso derivante dalla perdita dell’esperienza originaria. Per questi motivi Benjamin affronta la questione della riproducibilità tecnica, con un soggetto estraneo ad essere un mero prodotto. Questi è altresì l’opera d’arte. Un soggetto che modifica sostanzialmente i termini della questione. Collocando il tema della modernità all’interno di un discorso artistico, Benjamin colloca questa all’interno della sfera del linguaggio. I risultati di ciò sono presto detti, perché avviene che la modernità può porsi a cospetto di quell’origine che, come si è visto, il linguaggio porta con sé. La modernità attraverso il linguaggio può quindi acquisire un’anima, ovvero congiungersi con i valori di senso della tradizione. La riproducibilità tecnica, essendo assegnata alla sfera artistica, entra nel mondo del linguaggio; si consegna a quella teologia originaria che solo può dar senso alle cose. La verità divina originaria e quella messianica, ponendosi a cospetto, come tradizione e modernità, possono dar luogo ad una verità più giusta, che non per questo sia inumana. Forse per questi motivi Benjamin progettava di adottare un metodo nuovo per la stesura del suo ultimo libro. Un metodo moderno, che si ponesse il più possibile ai ripari della arbitrarietà di una libera composizione, ma allo stesso tempo, per non soccombere all’insensatezza, attuato all’interno della lingua dell’uomo. Lingua comunque, come si è visto, non solo umana.
VERITA’ E POLITICA
“Verità e politica” fu scritto in una nota di introduzione al testo, in occasione dell’aspra e lunga polemica sorta in seguito alla pubblicazione del reportage di Arendt per la rivista “The New Yorker” sul processo del 1961 contro Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili della soluzione finale, o meglio della pianificazione ed esecuzione dello sterminio degli ebrei. La polemica era sorta in merito a fatti che riguardavano il totalitarismo e per Arendt una delle caratteristiche essenziali di questa nuova forma di governo è proprio l’inclinazione a trascurarare il “dato di fatto” e a fabbricare la verità sostituendo, attraverso la menzogna sistematica, un vero e proprio mondo fittizio a quello reale. Il problema fondamentale del rapporto tra verità e politica è sentito oltre che nel regime totalitario anche nella nostra epoca, su cui purtroppo grava lo spettro del totalitarismo. ” La menzogna ” scrive Arendt ” ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata fra le virtù politiche e le bugie sono sempre state considerate giustificabili negli affari politici “. Il ricorso alla menzogna sembrerebbe quindi perfettamente compatibile con la politica, ma non è così. Sappiamo del legame che Arendt instaura tra politica, libertà di agire e azione di concerto tra gli individui. Agire significa dare inizio a qualcosa di nuovo, dare vita all’improbabile e all’imprevisto al di là di ogni schema di comportamento, è l’atto performativo che si allontana dalla routine, è la spontaneità dell’essere umano che vive nel mondo e per il mondo. La fiducia di Arendt nella capacità di agire si basa su una visione realistica degli uomini e dei fatti. La sfera politica presuppone il riconoscimento della verità, di ciò che è dato e non può essere cambiato a proprio piacimento. La verità costituisce il principale fattore di stabilità nelle vicende umane e l’ambito politico ha bisogno e dello spirito di iniziativa e della salvaguardia della stabilità. La menzogna allora va combattuta, oltre che per la sua immoralità, per il suo potenziale impatto distruttivo sullo spazio della politica. La menzogna politica moderna ha effetti di destabilizzazione e disorientamento collettivo. Per esempio la menzogna moderna si occupa di cose note a tutti (campi di sterminio) e invece di nascondere distrugge (ad esempio Arendt cita la politica d’immagine degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam). Attraverso un’immagine non si mira semplicemente a migliorare la realtà, ma ad offrire un completo sostituto di essa. Il fatto che gli ingannatori grazie al potere di amplificazione delle menzogne dato dalle moderne tecniche di comunicazione, possano oggi cadere più facilmente vittime delle proprie falsità, rende estremamente pericoloso il ricorso alla menzogna politica, poichè l’ingannatore che inganna se stesso perde ogni contatto non solo con il proprio pubblico, ma anche con il mondo reale. Per Arendt, quella della tecnica è una delle questioni centrali del nostro tempo. L’autrice di “Sulla rivoluzione” riconosce il potenziale di emancipazione implicito nella tecnica nella quale vede un’essenziale condizione dell’estensione della libertà politica. Soltanto nell’epoca moderna diventa possibile per il popolo accedere alla sfera pubblica, e questo anche grazie allo sviluppo tecnologico che ha enormemente esteso la possibilità di emanciparsi dalle necessità della vita. Lo sviluppo tecnologico può dare vita a risultati magnifici, ma avere anche conseguenze terribili e difficilmente controllabili; il potenziale distruttivo degli arsenali nucleari è l’esempio più emblematico, ma non l’unico. I paesi totalitari hanno dimostrato dove può portare il tentativo di superare ogni limite, di confermare che tutto è possibile. La conquista dello spazio e la statura dell’uomo prende spunto dalle imprese spaziali dell’epoca, l’autrice propone riflessioni in merito al significato e alle implicazioni della ricerca scientifica e della tecnica. L’intera evoluzione della scienza è accompagnata da una alienazione della terra che equivale ad una liberazione dai limiti dell’esperienza legata a quest’ultima e a un’astrazione dalla realtà data, dalla condizione umana di essere un abitante della terra. Con l’evoluzione della scienza e della tecnica si pongono le condizioni di una distruzione del nostro ambiente naturale e di un annichilimento della statura dell’uomo. Gli individui non si limitano più ad osservare la natura terrestre, a imitarla o trarne materiali, ma agiscono praticamente in essa, dando inizio a processi che non sarebbero intervenuti senza l’ntromissione dell’uomo. Si profila lo spettro di una natura incontrollabile, una situazione in cui gli uomini possono fare ciò che non riescono a comprendere. La tecnica si rende sempre più autonoma; da risultato di uno sforzo libero e cosciente degli individui tende a diventare un processo biologico, ossia qualcosa che si erge di fronte ad essi come una necessità, come una potenza indipendente dalla loro volontà. L’estendersi della sfera di ciò che possiamo fare sembra diventare sempre più indipendente dall’uomo. Si pone con urgenza il problema della capacità di fissare dei limiti al nostri poter fare e di giudicarlo. La crescita dell’apparato scientifico – tecnologico rende sempre più difficile la sopravvivenza del senso del limite. Gli uomini si trovano sempre più soltanto di fronte a prodotti dell’ingegno umano; il pericolo è che essi finiscano per considerare reale esclusivamente ciò che è fatto dall’uomo e per credere che si possa fare tutto e che, di conseguenza, aumenti l’insofferenza verso ciò che è meramente dato. Dietro le imprese spaziali e le ricerche scientifiche volte a creare la vita in provetta Arendt vede profilarsi il desiderio di sfuggire alla mortalità e ai limiti inerenti la condizione umana.
RITORNO IN GERMANIA
In questo agile libello avvertiamo in Arendt il tentativo di comprendere come sia potuta accadere la degenerazione della morale umana in Germania. E’ il suo rientro in patria dopo anni di esilio forzato in America a causa della persecuzione contro gli ebrei. I sentimenti di Hannah sono forti e intensi, passano dalla rabbia e angoscia per quello che è successo, alla riappacificazione con la madre terra, con il paese in cui ha vissuto da giovane. In questo scritto sono molti i temi che affronta, ma al centro di essi sta la tematica, fortemente dibattuta negli anni successivi, del ruolo della maggior parte dei tedeschi di passività e adesione al nazionalsocialismo. Passata la paura, i tedeschi sembrano trattare i fatti come fossero semplici opinioni, la loro è una sorta di evasione dalla realtà che oramai li ha condannati al ricordo struggente di ciò che hanno commesso. Hannah giudica questo atteggiamento erede del regime nazista, e lo chiama relativismo nichilista. Alla gente di Berlino dedica diverse pagine in cui descrive la loro vita dopo il disastro, le loro abitudini e il tentativo di ricominciare lasciandosi dietro le spalle i misfatti commessi. Il programma di denazificazione ha fallito in gran parte poiché ha permesso che molti esponenti di primo piano del nazismo restassero nelle loro posizioni di vertice, e venissero nascosti alle autorità che avrebbero dovuto fare giustizia. Dopo la caduta forzata del nazismo i tedeschi hanno dovuto riprendere la loro vita economica, aiutati dagli americani e dalle forze vincitrici, ma la loro economia era gravata dai grossi debiti di guerra e dalle sanzioni internazionali: successe quindi che i proprietari di fabbriche e industrie, di chiare simpatie naziste, riprendessero i loro posti dirigenziali per restaurare la grande Germania, per riportare sui binari giusti la storia dissestata del paese. A ciò si aggiunse il problema dei profughi dall’est che alla fine della guerra si riversarono dall’est europeo. Infine Arendt critica la posizione dei partiti, deboli in partenza:
” Gli apparati di partito sono interessati a procurare lavori e vantaggi ai propri membri e hanno il potere per conseguire questo scopo… Lungi dall’incoraggiare ogni iniziativa, essi temono i giovani con nuove idee: in breve sono rinati già vecchi “.
Alla fine rimane la duplice domanda:
” che cosa ci si poteva in generale aspettare da un popolo dopo dodici anni di dominio totalitario? Che cosa ci si poteva aspettare da un’occupazione che si è vista posta dinanzi all’impossibile compito di risollevare un popolo che aveva perduto il terreno sotto i piedi? “.
L’esempio tedesco mostra che l’aiuto dall’esterno probabilmente non libera nessuna autoctona capacità d’iniziativa e che il dominio totalitario è qualcosa di più che semplicemente la forma peggiore di tirannide. Il totalitarismo corrompe la società fino al midollo. Arendt conclude dicendo che il problema tedesco non è caratteristico dei tedeschi, bensì delle società comandate dal totalitarismo, e potrebbe essere risolto solo in un’Europa federale se si riuscirà. Oggi sappiamo che Arendt aveva ragione e ha visto bene come l’integrazione in una Europa unita possa risolvere i problemi dell’intolleranza e della lotta fratricida.
STUDIO SULLE ORIGINI DEL TOTALITARISMO
Chi lo ha scritto:
L’autrice di questo saggio, considerato l’analisi più eccellente e pertinente sulla incarnazione dei regimi totalitari nel secolo XX, è Hannah Arendt[1].
Il contesto storico
Il contesto è chiaramente quello della Seconda Guerra mondiale, con particolare riferimento alla sua condizione personale ed esistenziale di essere ebrea[2].
Il libro inizia con una disamina approfondita sulle cause dell’antisemitismo europeo nel primo e medio XIX secolo, continuando poi con un esame dell’imperialismo coloniale europeo dal 1884 alla Prima Guerra mondiale. L’ultima parte, quella che maggiormente prenderemo in considerazione ai fini del nostro discorso, tratta delle istituzioni e delle azioni dei movimenti totalitari, esaminando in maniera sviscerata le due più pure forme di governo totalitario del Novecento: quella realizzatasi nella Germania del nazismo e quella della Russia di Josif Stalin.
Le cause:
Il libro è volto a rintracciare le origini del fenomeno totalitario, intendendo per “origini” non la “causa” in senso deterministico; non si tratta di giustificare, bensì di “riflettere” la realtà, l’ineludibile necessità di fare i conti con essa, in nome del bisogno di comprendere i fatti, il perché ciò sia accaduto[3]. Come suggerisce una della maggiori interpreti della Arendt in Italia, Simona Forti, una delle motivazioni intrinseche che potrebbe averla spinta a scrivere, oltre al suo già dichiarato bisogno di comprendere, è il dovere – per così dire – di pagare il proprio debito per essere rimasta in vita, per essere sopravvissuta in qualche modo agli orrori di Auschwitz[4]. Si trattava di “individuare gli elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini e scoprire i problemi politici reali alla loro base (…). Scopo del libro non è dare risposte, ma preparare il terreno”[5].
Anno di pubblicazione[6]: 1951
Il libro tardò a circolare in Europa: la prima traduzione italiana è infatti del 1967 (Edizioni di Comunità, Milano)[7]. L’edizione da me utilizzata e alla quale faremo riferimento è quella dell’Einaudi (Torino 2004).
La Arendt fa leva sul carattere di assoluta novità del fenomeno totalitario, inteso come luogo di “cristallizzazione” di tutte le contraddizioni dell’epoca moderna, e lo analizza nel suo significato generale: esso è un fenomeno nuovo ed impensato, che travalica i confini della semplice oppressione e della comprensione, rendendo inutilizzabili le tradizionali categorie della politica, del diritto e dell’etica[8].
Destinatari:
Se ne continua a parlare, oltre che per la suddetta esigenza di comprensione, affinché simili eventi non tornino a ripetersi. Nessuno, infatti, è alieno dalla tentazione “totalitaria”; non ci sono parole più adatte ad esprimerlo, se non quelle della stessa Arendt[9]. Ripensare a quanto è accaduto è dunque compito ineludibile di ciascuno di noi, poiché nessuno − come ha dimostrato efficacemente la Arendt − è al riparo del pericolo totalitario. Il suo vuol essere un contributo che, oltre ad aver analizzato in maniera basilare una delle più immani e aberranti sciagure che hanno funestato l’Europa nel secolo scorso, vuol fungere anche da monito e richiamo contro il possibile riemergere di tentazioni totalitarie, ogni qual volta la miseria, la fame, le guerre, le devastazioni rendono incombenti il pericolo ed astratte ideologie pretendono di rendere nuovamente schiavi gli uomini.
L’opera, in definitiva, appare quanto mai attuale, sia per il costante e mai interrotto dibattito storiografico sul nazismo in Germania, sia per la possibilità, in seguito alla caduta del Muro e all’apertura di nuovi archivi, di effettuare un’analisi non più falsificata e mistificata di quei fatti, cosa che non era affatto possibile nel lontano 1951.
Il problema:
È a tutt’oggi complicato trovare un accordo su quali, tra le diverse esperienze storiche e politiche, possano essere annoverate sotto la comune categoria di “totalitarismo”[10]. Per la Arendt, soltanto il nazionalsocialismo ed il comunismo si avvarrebbero di questa ‘qualifica’, essendo le uniche due realtà che più si avvicinano all’ideal-tipo di regime totalitario, mentre il fascismo nostrano corrisponderebbe soltanto ad una forma di autoritarismo[11]. “Finora conosciamo soltanto due autentiche forme di dominio totalitario”[12] – afferma ad un certo punto − differenziandosi e prendendo le distanze dalla storiografia contemporanea. In particolare, la Arendt è citata nel dibattito storiografico quando si tratta di escludere il fascismo italiano dalla categoria di totalitarismo[13].
Peculiarità dei regimi totalitari è il consenso di massa, reso possibile della dissoluzione delle classi sociali e dall’avvento della società di massa, dall’uso sistematico del terrore e dal controllo capillare della società, dal rapporto tra il capo carismatico e le masse, dall’assenza totale di libertà e distruzione della sfera privata, oltre che di quella pubblica[14].
Molti dubbi invece esistono sull’Italia fascista, dal momento che il regime non eliminò i centri tradizionali del potere (coesistette di fatto con la Chiesa, la monarchia, l’esercito, la grande industria); la Chiesa, ad esempio, “capì che il fascismo non era in linea di principio né totalitario né anticristiano e semplicemente attuava la separazione di stato e chiesa già esistente in altri paesi”[15], e la Arendt prosegue, affermando che:
«La differenza tra il fascismo e i movimenti totalitari è bene illustrata dall’atteggiamento verso l’esercito, cioè verso l’istituzione nazionale per eccellenza. Al contrario dei nazisti e dei bolscevichi, che distrussero lo spirito delle forze armate subordinandole a formazioni totalitarie di élite o a commissari politici, i fascisti poterono usare uno strumento intensamente nazionalistico come l’esercito, con cui cercarono di identificarsi come con lo stato»[16].
Mancò inoltre un’ideologia coerente e rimase sempre viva una certa cultura liberale dello stato (si pensi ad esempio alla libertà di pensiero accordata a Benedetto Croce). L’accostamento tra nazismo e comunismo, opposti sotto il versante ideologico, sociologico, economico, ha indotto a rigettare la nozione di totalitarismo come fuorviante; resta il fatto che le affinità nella gestione del potere permangono, così com’è stata comune la credenza in uno stadio finale della storia di cui Hitler o Stalin sarebbero stati incaricati di accelerarne il corso [17]. Ma leggiamo quanto scrive a proposito del caso italiano: “Eppure Mussolini, che tanto amava il termine “stato totalitario”, non tentò di instaurare un regime totalitario in piena regola, accontentandosi della dittatura del partito unico»[18]. Dal momento che:
«Il vero obiettivo del fascismo era solo quello di impadronirsi del potere e insediare la sua “élite” come incontrastata dominatrice del paese. Il totalitarismo non si accontenta mai di dominare con mezzi esterni, cioè tramite lo stato e un apparato di violenza […]»[19].
Il fascismo italiano si iscriverebbe nella categoria dei “sistemi a partito unico”[20], nei quali tutte le cariche di governo sono occupate dai membri del partito, ma dove quest’ultimo, a sua volta, è ridotto alla condizione di “una sorta di organismo di propaganda a favore del governo”. Un simile sistema è “totale”:
«solo in senso negativo, in quanto il partito dominante non tollera altri partiti, né l’opposizione o la libertà di opinione politica. Una volta instaurata la loro dittatura, lasciano intatto l’originario rapporto di potere fra stato e partito; il governo e l’esercito possiedono la stessa autorità di prima, e la “rivoluzione” consiste semplicemente nel fatto che tutte le cariche pubbliche sono ora occupate da membri del partito. In tutti questi casi il partito basa la sua autorità su un monopolio garantito dallo stato, e non possiede più un proprio centro di potere»[21].
La Arendt non considererebbe il fascismo italiano un movimento totalitario, non solo per l’uso assai minore della violenza terroristica, quanto piuttosto per la sua natura di movimento di massa organizzato nell’ambito dello stato esistente. Leggiamo quanto scrive:
«Quando il partito fascista […] si impadronì dello stato e si identificò con la massima autorità nazionale, si apprestò a fare del “popolo una parte dello stato”. Ma non si pose “al di sopra dello stato”, né i suoi capi si ritennero al di sopra della nazione. Il movimento aveva avuto fine con la conquista del potere, almeno per quanto concerneva la politica interna; esso poteva procedere nella sua marcia soltanto nel campo della politica estera […]»[22].
Nel caso del fascismo inoltre ‘colpiva’ l’assoluta mancanza di “materiale umano” da impiegare in esperimenti totalitari[23]. È stato segnalato – a torto, ad avviso della Arendt – che, in Italia, numerosi furono gli ebrei che aderirono al regime nelle sue prime fasi di manifestazione: “poco appropriato è anche l’accenno all’adesione degli ebrei italiani al fascismo, perché questo movimento non si proponeva di soggiogare e distruggere l’Europa”[24]. Il fascismo potrebbe accostarsi al totalitarismo, come tutti i collaborazionismi, soltanto a partire dal 1938-40, al momento di diventare alleato subordinato del regime nazista ed in seguito all’attuazione di una sua politica razzista e antisemita. Il fascismo infatti, fino al 1938, “non vu un vero regime totalitario, bensì una comune dittatura nazionalistica, nata dalle difficoltà di una democrazia multipartitica”[25]. L’unica “rivoluzione” compiuta dal fascismo si limiterebbe dunque all’accesso alle cariche di governo dei membri del “partito”, mentre lo “Stato” manterrebbe la sua posizione preminente e permarrebbe il centro del potere effettivo. L’esistenza di un partito unico non sarebbe pertanto all’origine di nessuna trasformazione strutturale maggiore in seno all’apparato politico, a differenza dei regimi totalitari in cui lo Stato non è che una facciata e nel quale è all’interno del movimento totalitario che tutte le decisioni importanti sono prese.
È stato obiettato che all’epoca della pubblicazione de Le Origini del Totalitarismo, la Arendt non disponesse che di fonti di informazioni troppo ristrette sull’Italia di Mussolini per fornirne un’analisi pertinente[26]. Si tratta di una critica giustificata ma in realtà secondaria, poiché la qualifica del fascismo non saprebbe ridursi ad un problema di disponibilità di fonti. Essa è in realtà sempre dipendente di una teoria dei sistemi politici, dunque all’occorrenza di una teoria dei regimi dittatoriali. È questa la ragione per la quale, in seno ad una teoria come quella della Arendt, il fascismo italiano non sarà mai un totalitarismo. E ciò a dispetto della qualità delle fonti e dei lavori disponibili sulla questione. Per un motivo molto semplice: il fenomeno totalitario corrisponderebbe, a suo avviso, ad “una forma di governo di cui l’essenza è il terrore”. Ed il fascismo non soltanto non governò mai facendo esplicito ricorso al terrore di massa, ma sarà nettamente meno terrorista di numerosi regimi autoritari, come ad esempio le dittature burocratiche-militari dell’America Latina (Uruguay, Cile).
Il dibattito storiografico sul fascismo è, più che un problema di fonti, una questione di definizioni e di modelli concettuali. Ed Hannah Arendt, in perfetta coerenza con la tesi da lei sostenuta nel suo saggio, definisce come totalitari soltanto due sequenze storiche, brevi e ben localizzate: i dodici anni del regime nazionalsocialista in Germania e due parentesi nella storia del regime sovietico (1929-1941 e 1945-1953), con il rischio che tutti gli altri sistemi dittatoriali vengano relegati nella vasta categoria di regimi autoritari, ed occultando di conseguenza quanto il peso dell’ideologia, il tipo di legittimità, la struttura, l’organizzazione e la pratica del potere così come il livello di mobilitazione e di inquadramento della vita civile possano essere diversi da una società all’altra. Questo tipo di lettura non deve tuttavia impedire di pensare a tutto ciò che un insieme di dittature hanno avuto in comune nel corso del XX secolo: un sistema di controllo capillare sulla società e sulla vita privata degli uomini, delle loro opinioni ed attività di una intensità senza precedenti, a vocazione totale, ottenuti grazie alla coinvolgimento attivo delle stesse popolazioni. Nessun sistema politico contemporaneo è del tutto immune da questo rischio degenerativo e la vigilanza in difesa della democrazia e della libertà dev’essere sempre costante. La Arendt conclude riponendo le sue speranze nel futuro, nella capacità dell’uomo di agire: “ogni nascita è l’inizio” è l’epitaffio con cui suggella la sua opera; in queste parole sono concentrate e coltivati l’auspicio e la fiducia nel genere umano, a discapito di tutto e nonostante tutto.
[1] Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è una delle figure intellettuali e culturali più significative del secolo scorso. Allieva di Martin Heidegger, si laureò con Jaspers con una tesi “Sul concetto d’amore in Sant’Agostino”. Ebrea, tedesca, profuga, per la sua particolare condizione di “apolide” come lei stessa più volte si definì, si trovò ad esperire sulla propria pelle gli orrori del regime nazionalsocialista e, per fuggire alle persecuzioni razziali perpetrate a partire dal 1933 dal governo hitleriano, fu costretta ad abbandonare la Germania e a rifugiarsi in Francia, da dove emigrò successivamente, assieme al marito Heinrich Blücher, negli Usa, da cui ottenne anche la cittadinanza. In America, fu docente a Chicago, Princeton, Berkeley e New York. Tra le sue opere, ricordiamo: Sulla rivoluzione (Edizioni di Comunità, Milano 1999); Che cos’è la politica? (Ivi 2001); Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-45 (Ivi 2002); La banalità del male (Feltrinelli, Milano 1992); Vita activa (Bompiani, Milano 1989).
[2] A più riprese, la Arendt confessa di “essersi educata con fatica e tormento all’esperienza ebraica” in un processo di riappropriazione delle proprie origini, mentre la religione ebraica, in sé e al pari delle altre confessioni religiose, non le diceva assolutamente nulla (vedi l’Introduzione di A. Martinelli, in H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2004, p. IX), ma quel che più la ferì fu il tradimento degli amici, in primo luogo dell’amato maestro Heidegger nel suo pubblico atto di adesione al nazismo nel corso del 1933, in una solenne cerimonia di ossequio per la carica conferitagli, che lo vedeva innalzato al rango di rettore dell’università di Heidelberg. In secondo luogo, le leggi razziali di persecuzione perpetrate dal regime hitleriano, che videro la estromissione degli ebrei dai pubblici incarichi.
[3] La Arendt lo spiega nella prefazione al suo libro (vedi H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, cit. p. LVI), là dove pone l’accento sul cercar di “narrare e comprendere quanto era avvenuto, non ancora sine ira et studio, ancora con angoscia e dolore e, quindi, con una tendenza alla deplorazione, ma non più con un senso di muta indignazione e orrore impotente”. Vedi inoltre Ivi, p. LXXX e H. Arendt, La lingua materna, a cura di A. Dal Lago, Mimesis, Milano 1993, p. 43: «Da principio non ci credevamo […]. Era davvero come se si fosse spalancato un abisso, perché si è sempre avuta l’idea che in qualche modo tutto possa tornare a posto, per esempio in politica tutto si può aggiustare. Ma questo no. Questo non sarebbe mai dovuto accadere. E non mi importa il numero delle vittime. M’importa la produzione in massa dei cadaveri e il resto (…) e non c’è bisogno che mi dilunghi oltre. Questo non doveva succedere. È successa una cosa per la quale nessuno di noi era preparato».
[4] Vedi S. Forti, Le figure del male, in H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, cit., p. XXVII: «Il totalitarismo ne ha fatto un’esule, in qualche modo una sopravvissuta, che ha cercato di pagare il suo debito per essere rimasta in vita attraverso l’instancabile tentativo di far parlare l’orrore muto di Auschwitz ».
[5] E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 239.
[6] Ivi, p. LV: «Con la disfatta della Germania si era conclusa una parte di tale vicenda. Quello sembrava il primo momento adatto per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo sguardo retrospettivo dello storico e lo zelo analitico del politologo». La prima edizione di The origins of totalitarism venne pubblicata a New York dalla casa editrice Harcourt, Brace & World. È curioso sapere che il titolo provvisorio dell’abbozzo era Gli elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo e razzismo, che la Arendt, più enfaticamente, chiamava I tre pilastri dell’Inferno. L’editore avrebbe voluto pubblicarlo tuttavia con un altro titolo, altrettanto fuorviante, di quello definitivo: The burden of our time.
[7] “Le Origini del Totalitarismo” comparve dunque in un momento politico-culturale (1951), data centrale della guerra fredda che ne rese praticamente unilaterali la lettura e l’interpretazione. L’assimilazione di nazismo e stalinismo impedì allora una lettura serena dell’opera da parte dell’intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti anni sarebbe rimasta l’esponente di un pensiero politico liberale e neo-conservatore. In realtà, le sue preferenze politiche andavano ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come sarebbe stato evidente qualche anno dopo. L’opera fu al centro di controversie e non le risparmiò critiche nemmeno nell’America democratica e repubblicana, poiché comparava due sistemi che alla maggior parte degli studiosi apparivano diametralmente opposti. Questo classico della filosofia politica e della politologia, destinato ad assumere valore paradigmatico, in definitiva, non fu inteso né dagli intellettuali d’oltreoceano, mentre trovò scarsa accoglienza in Europa, dove, sebbene il nazifascismo fosse ormai tramontato da tempo, lo stalinismo era ancora nel pieno del suo vigore. (Ivi, p. LVII: “Non la fine della guerra, ma la morte di Stalin, otto anni dopo, fu decisiva”).
[8] L’autrice discute la trasformazione delle classi sociali in masse, il ruolo della propaganda nel mondo non ancora totalitario e l’uso sistematico del terrore. Nel capitolo conclusivo, la Arendt definisce l’alienazione e la riduzione dell’uomo a macchina quale requisito indispensabile al dominio totale.
[9] H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, cit., p. 629: «Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qual volta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale od economica in maniera degna dell’uomo».
[10] Abbiamo già ribadito il carattere di assoluta novità del tipo totalitario di regime politico, e l’applicabilità di tale definizione semantica e concettuale ai soli nazismo e stalinismo, con conseguente esclusione del caso italiano. È un primo tentativo di analisi delle radici e dei meccanismi di funzionamento dei regimi totalitari, considerati come parto mostruoso della società di massa.
[11] Mussolini aveva creato uno stato corporativista, più che totalitario, in quanto aveva tentato di “statalizzare” la società e lo stesso partito non si pose mai al di sopra dello stato ma si identificò con la massima autorità nazionale. Mussolini fu un dittatore, fu “il vero usurpatore nel senso della dottrina politica classica” (Cfr. H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., p. 360 e ss.).
[12] Ivi, p. 574. Il partito unico, la polizia segreta, l’isolamento, l’estraniazione, il controllo totale dei mezzi di informazione, tutti deducibili dal binomio ideologia-terrore, sono ciò che differenzia i regimi totalitari propriamente detti e li limita alle sole due esperienze di cui dicevamo. Il fascismo italiano, ad avviso della Arendt, non presenterebbe la particolare combinazione di ideologia e terrore, in quanto non mira a distruggere lo spazio politico ed annientare la sfera di libertà, riducendo gli individui ad automi, a “fasci di reazione intercambiabili”, non impedisce la co-esistenza né possiede la violenza tipica del nazismo, ragion per cui non sarebbe un totalitarismo.
[13] L’aggettivo “totalitario” è stato adottato per la prima volta dal fascismo negli anni Venti in relazione al comportamento tenuto da Mussolini in occasione delle elezioni amministrative. Vedi S. Forti, Il Totalitarismo, Laterza, Bari 2001, p. 4. Ma anche gli articoli di G. Amendola, Maggioranza e minoranza, «Il Mondo», 12 maggio 1923 e in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, Ricciardi, Milano-Napoli 1960. Per quanto riguarda il sostantivo, invece, fu Lelio Basso ad utilizzarlo sulla rivista La rivoluzione liberale nel 1925 e, ripreso da Gramsci nei suoi Quaderni, fu poi esteso ai regimi comunista e nazista, per indicare quelle forme di governo nelle quali per l’appunto un unico partito pretendeva di interpretare l’ideologia della nazione e della massa, trasformando lo stato a propria immagine e somiglianza.
[14] Sebbene siano diverse la basi sociali, i contenuti ideologici e gli interessi rappresentati, essi tendono a sviluppare prassi, forme politiche e tipi di controllo sociale analoghi. Sia il materialismo dialettico (che mirava alla realizzazione del socialismo in un solo paese), sia il razzismo volgare (che puntava invece alla conquista del mondo e al suo dominio incontrastato, attraverso l’eliminazione delle razze “inferiori”) approdano ad una legge dell’esclusione di chi è dannoso o superfluo, in nome della formazione di un astratto “uomo nuovo”, il che dà legittimazione al terrore poliziesco.
[15] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., p. 359.
[16] Ivi, p. 361.
[17]Sebbene siano diversi i punti di partenza (crisi della democrazia parlamentare della Repubblica di Weimar – contraddizione di una rivoluzione comunista), il fine cui tendevano era sostanzialmente lo stesso. Ma Hitler cercò di attuarlo usando la sua guerra personale per sviluppare e perfezionare il regime (vedi prefazione in H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., p. LVIII) là dove la Russia vide la temporanea sospensione del dominio totale. La crudeltà dei campi di concentramento e di sterminio sembra inoltre essere assente dai campi sovietici, anche se, ad un certo punto, la Arendt parla di “gigantesca criminalità” del regime staliniano ed opera di mascheramento da parte di Kruščёv. Il fatto che Stalin tentò di emulare, sul finir della propria vita, l’antico rivale – con l’adozione di quel che è l’aspetto più vistoso, aberrante e terrificante del nazismo – fece sì che quegli eventi giungessero ad una fine per lo meno provvisoria, in quanto il pericolo totalitario – come si è detto – incombe sempre.
[18] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., pp. 427-428. Si consultino in particolare le note n. 10 e 11, nelle quali è sottolineata la riluttanza, da parte dei gerarchi nazisti, ad accostare il loro movimento a quello italiano.
Si veda anche la voce Fascismo di G. Gentile e B. Mussolini nella Enciclopedia italiana, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1932, XIV, p. 847: «Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica […]. E se la libertà deve essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. E per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Giacché per il fascista, tutto è nello stato, e nulla di umano e spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo».
[19] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., pp. 449-450. E a pag. 452: «Malgrado la propaganda fatta per lo “stato corporativo”, il fascismo ha puntellato in Italia il sistema classista che stava sgretolandosi impedendo la trasformazione della popolazione in una società di massa».
[20] Il che risulta essere in palese contraddizione con quanto detto a proposito della natura del “movimento” dei regimi totalitari.
[21] Ivi, pp. 574-575.
[22] Ivi, p. 360. È altresì controverso il problema dei legami tra il capo del partito ed il resto del popolo italiano, giacché in Italia non si verificò mai pienamente l’attuazione del principio di fedeltà assoluta; vedi Ivi, p. 448: «Ci si può aspettare una simile “fedeltà” soltanto da un essere umano completamente isolato che, senza alcun vicolo sociale con i familiari, gli amici, i compagni e i conoscenti, senta di avere un posto nel mondo esclusivamente mercé l’appartenenza al movimento, al partito».
L’affermazione ricorda il celebre Discorso del 28 ottobre 1925, in B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Sumsel, La Fenice, Firenze 1967, XXI, p. 425.
[23] Ivi, pp. 430-431: «Fu soltanto durante la guerra, dopo che le conquiste nell’est europeo avevano reso possibili i campi di sterminio e messo a disposizione enormi masse umane, che la Germania fu in grado di instaurare un regime veramente totalitario […] Il regime totalitario è infatti possibile soltanto dove c’è sovrabbondanza di masse umane sacrificabili senza disastrosi effetti demografici».
[24] Ivi, p. 32. Il terrore ebbe, infatti, un ruolo ben più preponderante nel caso del nazismo tedesco ed una parte più rilevante che non in Italia.
[25] Ivi, pp. 357-358.
[26] Paolo Pombeni, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma-partito del fascismo, Il Mulino, Bologna 1984.
LA DISOBBEDIENZA CIVILE
I temi a cui “La disobbedienza civile e altri saggi” rimanda sono quelli dell’obbligo politico e della partecipazione, visti nella loro connessione col problema della libertà. Sulla scia di un nuovo kantismo delineato dalla Critica del Giudizio, Arendt formula un’analisi dell’azione innovativa e sempre rivoluzionaria, nei termini del principio della libertà pubblica, dello spirito pubblico e della pubblica felicità. Quello che colpisce in questo contesto è la sottile consapevolezza che ogni evento umano rappresenti ” un paesaggio inatteso di azioni e passioni e potenzialità nuove, il cui insieme oltrepassa la somma di tutte le volontà e il significato di tutte le origini. Esiste una sostanziale distinzione tra Verità e Opinione, la prima collegata alla conoscenza e alla scienza, la seconda al giudizio, unico in grado di far cogliere la pienezza del mondo umano, in cui la verità può solo rivelarsi “nella comunicazione, tra contemporanei, come tra vivi e morti “. L’interesse si sposta dalla verità all’opinione, dalla conoscenza al giudizio, sì che la comunicazione diventa il momento fondamentale della politica. Aver esteso al campo umano il parametro-concetto di verità ha comportato l’eliminazione della pluralità umana e l’abolizione dello spazio pubblico: il giudizio e l’opinione sono invece libere creazioni dello spirito umano. La sfera del politico concerne l’incontro-accordo tra giudizi disinteressati dei singoli, i quali aderiscono allo spazio comune, alla vista degli altri. Il potere comunicativo acquista rilevanza, e la rivoluzione, in quanto agire che è comunicativo, si lega ad un concetto di fondazione come istituzione dell’autorità, come tradizione dell’agire e in tale contesto la disobbedienza civile consiste in un’azione che è partecipazione, consenso-contestazione e quindi espressione di quell’associazionismo volontario che è sempre stato ” il rimedio tipicamente americano al fallimento istituzionale, all’impossibilità di fare affidamento sugli uomini e alle incertezze dell’avvenire “. Per Arendt, noi siamo liberi di cambiare il mondo e di introdurvi il nuovo. Senza questa libertà mentale di riconoscere o di negare l’esistenza, di dire sì o no, non ci sarebbe alcuna possibilità d’azione; e l’azione è evidentemente la sostanza stessa di cui è fatta la vita politica. Nell’analizzare la disobbedienza civile, Arendt sottolinea il turbamento che arreca alla legalità ma anche una sorta di valvola di sicurezza nei momenti in cui le istituzioni fanno naufragio, diventa come afferma Rawls ” uno dei meccanismi di stabilizzazione di un sistema costituzionale ” (“Una teoria della giustizia”). In questo contesto, dobbiamo dire che il fine della legge è quello di essere un freno all’eccessiva mobilità delle azioni libere degli individui, le leggi sono limiti, barriere, quadri di riferimento. Il diritto non è strumento o esigenza di giustizia, è solo concepito per mantenere la stabilità. Il diritto e le costituzioni sono costruite dall’uomo, e sono determinate nel tempo e nel territorio su cui legiferano, non hanno la necessità delle leggi naturali. Leggi, costituzioni e patti sono gli elementi stabilizzanti degli affari umani, sono uno dei modi specifici in cui il mondo è introdotto nell’esistenza dell’uomo. Ma esiste una possibilità di fare posto alla disobbedienza civile nel funzionamento delle nostre istituzioni politiche? Arendt chiama in causa la Corte Suprema, quando si rifiuta di occuparsi di ricorsi che contestassero la legittimità e la costituzionalità di decisioni governative concernenti la guerra del Vietnam: ” la Corte ha ritenuto che questi ricorsi mettessero in discussione la dottrina del campo politico secondo cui certi atti del potere legislativo ed esecutivo non possono diventare oggetto di un controllo giurisdizionale “. La dottrina del campo politico è di fatto la breccia che permette di reintrodurre nuovamente in un ordinamento giuridico che li ha rifiutati per principio, il principio di sovranità e la ragion di stato. Per disobbedienza civile Arendt non intende una delinquenza di tipo comune, o una resistenza o obiezione di coscienza. Perchè vi sia disobbedienza civile è necessario che si verifichi una violazione disinteressata, consapevole e intenzionale di una legge valida, emanata da un’autorità legittima, la violazione deve essere pubblica e pubblicizzata perchè espressione dell’opinione di un gruppo, senza interessi personali. Sono le opinioni e non gli interessi a spingere alla disobbedienza civile. Essa è volontà di opposizione che si esplica sulla scorta di un’opinione condivisa diretta contro leggi determinate. La disobbedienza civile è espressione di quell’agire di concerto, che è la vera anima della politica, e nasce dall’accordo comune. L’accento si sposta da una considerazione della disobbedienza civile quale fatto della coscienza individuale ad una considerazione quale fatto di una coscienza collettiva, cioè politica. La coscienza comune, al contrario, che si realizza nell’incontro-accordo delle opinioni, è sempre un agire di concerto, quindi potere. La disobbedienza civile in quanto espressione di un impegno politico, non risponde ad un rifiuto dell’obbligazione politica, bensì ad una riaffermazione della sua priorità sul diritto. La differenza tra consenso generalizzato ad una comunità, implicante continua accettazione delle sue regole, e consenso relativo alla vita della comunità, si arricchisce di variabili quali la comprensione, il perdono e la promessa. Il consenso, che è lo spirito delle leggi americane, è fondato sulla nozione di un contratto implicante obbligazioni reciproche. ” Il consenso e il diritto al disaccordo sono diventati l’ispirazione e il principio di organizzazione dell’azione e hanno insegnato agli abitanti di questo continente l’arte dell’associarsi insieme. […] La minaccia che grava oggi sul movimento studentesco, che è oggi il più importante dei gruppi che praticano la disobbedienza civile, non deriva solo dal vandalismo, dalla violenza, dai furori e dalle cattive maniere, ma dal crescente contagio delle influenze ideologiche (maoismo, castrismo, stalinismo, marxismo, leninismo e via di seguito) che conducono, in realtà, alla divisione e alla dissoluzione dell’associazione “. Arendt ritiene che la disobbedienza civile sia il rimedio migliore contro l’impotenza del controllo giurisdizionale. Si dovrebbe quindi per prima cosa, ottenere per le minoranze che praticano la disobbedienza civile la stessa forma di riconoscimento che è accordata a numerosi interessi particolari, ai gruppi di pressione, che con la mediazione dei loro rappresentanti possono influenzare e sostenere il Congresso con l’arma della persuasione, col peso della loro opinione e del numero degli aderenti. Si dovrebbe in secondo luogo, secondo Arendt, riconoscere pubblicamente che il Primo Emendamento non autorizza, né nella lettera né nello spirito, l’esercizio del diritto di associazione, così come viene di fatto praticato nel paese. Il diritto non potrebbe giustificare la violazione della legge, anche quando questa violazione avesse per obiettivo di impedire la violazione di un’altra legge. In conclusione categoria fondamentale resta per Arendt la nascita che dà all’uomo la capacità di essere un inizio, con la sua azione e la sua libertà. Il secondo saggio, “Comprensione e politica”, punta l’attenzione sulla categoria della comprensione e sulla sua funzionalità nell’interpretare la storia degli eventi. Lottare contro il totalitarismo significa comprendere le sue radici e il suo sviluppo, è un’attività in fieri, senza fine, sempre diversa e mutevole, grazie alla quale accettiamo la realtà, ci riconciliamo con essa, ci sforziamo di essere in armonia col mondo. Comprendere non è però perdonare, non è un atto unico che termina al suo compimento, significa invece riconciliarsi con un mondo in cui cose del genere sono semplicemente possibili. Dato che i movimenti totalitari sono apparsi in un mondo non totalitario, il processo della loro comprensione è chiaramente un processo di autocomprensione. ” Il paradosso della situazione moderna sembra consistere nel fatto che il nostro bisogno di trascendere la comprensione preliminare e l’approccio prettamente scientifico nasca dalla perdita degli strumenti di comprensione. La nostra ricerca di significato è ad un tempo stimolata e frustrata dalla nostra incapacità di creare significato. […] Per coloro che hanno a cuore la ricerca del significato e della comprensione ciò che è sorprendente nel sorgere del totalitarismo non è che esso sia qualcosa di nuovo, ma che esso abbia portato alla luce la rovina delle nostre categorie di pensiero e dei nostri criteri di giudizio. La novità è il regno dello storico che, a differenza di quello dello scienziato, che fa riferimento ad ogni evento ricorrente, si occupano di eventi che capitano una sola volta. Solo quando è accaduto qualcosa di irrevocabile possiamo tentare di tracciarne la storia: l’evento illumina il suo passato ma non può mai essere dedotto da esso. E’ compito dello storico scoprire in ogni periodo dato l’imprevisto ed il nuovo con tutte le sue implicazioni e scoprire il pieno potere del suo significato. E la Storia è una storia che ha molti inizi ma nessuna fine. ” Arendt riprende il tema della “2banalità del male” sul quale si era soffermata durante il resoconto sul processo Eichmann. Gli atti mostruosi non potevano essere giustificati dalla presunta mostruosità del loro autore, dalla sua malvagità o insanità o qualche convinzione ideologica. L’unica caratteristica che si potesse cogliere in Eichmann era qualcosa di totalmente negativo: indubbiamente non si trattava di ottusità, ma di una strana, autentica incapacità di pensare; accettava ogni nuovo codice di giudizio come se si fosse trattato solo di una diversa regola linguistica. E’ possibile fare il male, non solo sotto la forma di peccato di omissione, ma anche di commissione senza che ci sia una motivazione in senso assoluto, un qualsiasi particolare supporto di interesse o volizione? La malvagità, comunque la si definisca, questo essere determinati ad esser criminali, non è una condizione necessaria per il male? La nostra capacità di giudizio, di distinguere il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto, dipende dalla nostra facoltà di pensare? Sono questi gli interrogativi che Arendt si pone nel saggio. Arendt enuncia tre proposizioni che sono le sue principali argomentazioni per quanto riguarda la stretta connessione esistente tra capacità o incapacità di pensare e il problema del male.
” Primo. Se tale connessione esiste sempre, allora la facoltà di pensare, in quanto distinta dalla sete di conoscere, deve essere riconosciuta ad ognuno e non può essere privilegio di pochi. Secondo. Se Kant è nel giusto e la facoltà di pensare si ribella naturalmente contro l’accettazione dei propri risultati come solidi assiomi, allora non possiamo aspettarci dall’attività di pensiero alcuna proposizione o comando morale, alcun codice definitivo di condotta, e meno che mai una definizione nuova e dogmaticamente asserita di ciò che sia bene o male. Terzo. Se è vero che il pensiero ha a che fare con degli invisibili ne segue che è fuori dalla norma perchè normalmente siamo in un mondo d’apparenza nel quale l’esperienza più radicale della disapparenza è la morte. Si è sempre ritenuto che il dono di occuparsi di cose che non appaiono richiedesse un prezzo, cioè rendesse cieco il pensatore o il poeta nei riguardi del mondo visibile. […] Non ci sono pensieri pericolosi, ma è il pensiero in sè ad essere pericoloso, anche se il nichilismo non è un suo prodotto. Esso non è altro che l’altro lato del convenzionalismo; il suo credo consiste nella negazione dei valori correnti, cosiddetti positivi, a cui rimane legato. Anche il non pensare, che sembra essere una situazione tanto raccomandabile in campo politico e morale, comporta i suoi rischi. Corazzando la gente contro i rischi dell’analisi, li abitua ad accettare immediatamente qualunque regola di condotta vigente in un dato tempo e in una data società. La gente è abituata a non prendere mai decisioni “.
Sebbene Socrate negasse che il pensiero corrompesse, non pretendeva che esso rendesse migliori, e sebbene dichiarasse che ” nessun bene più grande fosse mai capitato alla città di quello che egli stava facendo “, non pretendeva di aver iniziato la sua carriera di filosofo per diventare un tale grande benefattore. Se ” una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta “(Apologia 30 e 38), allora il pensare accompagna il vivere quando si occupa di concetti quali giustizia, felicità, temperanza, piacere, con parole che designano cose invisibili, parole che il linguaggio ha dato per esprimere il significato di tutto quello che accade nella vita e ci capita mentre siamo vivi. Gli uomini amano la saggezza e fanno filosofia perchè non sono saggi, proprio come amano la bellezza e fanno bellezza perchè non sono belli. Il brutto e il male sono esclusi per definizione dagli interessi del pensiero, sebbene essi possano occasionalmente presentarsi come deficienze, mancanza di bellezza, ingiustizia e male, come mancanza di bene. Questo significa che manca di radici proprie, di essenza che il pensiero possa afferrare: il male consiste nell’assenza, in qualcosa che non c’è. Il più cospicuo e pericoloso errore nella proposizione antica come Platone “Nessuno fa il male volontariamente” è la conclusione implicita “Ognuno vuole fare il bene”. La triste verità è che la maggior parte del male è fatto da gente che non ha mai preso la decisione se essere cattiva o buona. La manifestazione del vento del pensiero non è conoscenza, ma è la capacità di distinguere il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto. E in realtà questo può impedire le catastrofi, almeno per me, nei rari momenti in cui si è arrivati ad un punto critico.
FRASI SIGNIFICATIVE
” Non era stupido, era semplicemente senza idee[…]. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria. ” (La banalità del male)
“ Gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue origini, purché per origini non si intenda cause. La causalità, cioè il fattore di determinazione di un processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e politiche. Gli elementi divengono l’origine di un evento se e quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora e solo allora, sarà possibile seguire all’indietro la loro storia. L’evento illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso. ” (Le origini del totalitarismo)
” I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana[…]. Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire. ” (Le origini del totalitarismo)
” La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. ” (La vita della mente)
” Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. ” (La banalità del male)
” Dal che si potrebbe concludere che più un bugiardo ha successo, più gente riesce a convincere, più è probabile che finirà anche lui per credere alle proprie bugie .” (La menzogna in politica)
” E’ anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale. ” (Scambio di lettere con Gershom Scholem)
” A differenza della natura, la storia è piena di eventi ” (Tra passato e futuro)
” Tradizionalmente, perciò, il termine vita activa riceve il suo significato della vita contemplativa; la sua limitatissima dignità le è conferita dal fatto che essa serve la necessità e il bisogno di contemplazione in un corpo vivente. ” (Vita Activa)
” Tutti i termini filosofici sono metafore, analogie, per così dire congelate, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia riportata al contesto d’origine, certo presente in modo vivido e intenso alla mente del primo filosofo che la impiegò. ” (La vita della mente)
” Io non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza esperienze personali. Tutto il pensiero è meditazioni (Nachdenken), pensare in seguito a una cosa. ” (La lingua materna)
JEAN-PAUL SARTRE
L’uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.
VITA E OPERE
L’ ESISTENZIALISMO
La tematica della libertà é il fulcro de L’essere e il nulla , che ha per sottotitolo Saggio di ontologia fenomenologica ; l’essere della coscienza, che Sartre definisce il per-sè , é caratterizzato dall’intenzionalità: la coscienza é sempre coscienza di qualcosa che non é coscienza. Il correlato é l’ in-sè , cioè l’essere delle cose e dei fenomeni nel loro aspetto massiccio e opaco, alieno a ogni rapporto e caratterizzato dalla sua semplice presenza. Diversamente da quel che dicono le filosofie idealistiche, l’essere dei fenomeni é irriducibile alla coscienza, ma anche la coscienza, in quanto capacità di trascendere le cose e le situazioni, é irriducibile all’ in-sè. La coscienza, quindi, non si identifica mai con l’in-sè, é esistenza, é sempre fuori di sè, azione e movimento permanentemente proteso in avanti, senza poter mai coincidere con la propria essenza. In questo senso, la coscienza é sempre incompiutezza e mancanza alla ricerca del proprio completamento: il nulla é la condizione necessaria del per-sè, che fa sempre l’esperienza del nulla in ogni atto dell’esistere e dell’agire. Ogni risposta che il soggetto fornisce alle proprie domande é anche sempre negazione. Il nulla é dunque intrinsecamente legato all’essere, pur non essendo da esso generato: é generato da quell’essere in cui si fa questione del nulla del suo essere, cioè dall’essere della coscienza, che si eterna a non essere l’in-sè, e la cui condizione indispensabile é la libertà; essere libero vuol dire decidere direttamente dei propri atti ed esserne totalmente responsabili. L’atto originario in cui la libertà si cala é la scelta . Essa non é tipica solo degli atti riflessivi, ma di tutti gli atti, dal momento che non é determinata solo dalla ragione, ma anche da pulsioni e intenzioni che esulano dalla riflessione; la ragione stessa, d’altronde, non é altro che una scelta possibile. La libertà della scelta crea però l’angoscia di fronte al possibile, che é indeterminato, dal momento che non é, cosicchè la coscienza presagisce che il non essere non é fuori, ma é propriamente in essa. L’esistente si scopre così condannato ad esistere sempre al di là della propria essenza, cioè ‘condannato alla libertà’ come continuo trascendimento di quel che esso di volta in volta é: ‘ non siamo liberi di cessare di essere liberi ‘. E da qui nasce la tendenza a fuggire da se stessi, evadendo dalla propria libertà e responsabilità e reificandosi, cioè riducendosi ad una cosa tra le altre: é questa la malafede , con cui si costruisce un’immagine fasulla di sè e della propria condizione, e si recita una parte. Questa parte consiste nel mentire a se stessi, ma non si tratta di una menzogna deliberata, dato che il me che viene ingannato fa parte dello stesso io che inganna: si genera così una scissione che crea infelicità. La coscienza incontra l’essere non solo nella realtà massiccia e opaca delle cose, ma anche nell’ altro , nell’altra coscienza, e mediante essa le si presenta la speranza di poter evadere dal proprio stato di mancanza. Ma anche l’essenza dell’altro é negazione: esso é ‘ l’io che non é me ‘ . Anche il rapporto con l’altro é, dunque, segnato da una netta negatività. L’esperienza originaria tramite la quale si istituisce questo rapporto é data dallo sguardo , nel quale l’altro mi appare in un primo tempo come una cosa, poi come una cosa che ha rapporto con altre cose e, infine, come l’altro che mi guarda. Col suo sguardo, l’altro conosce me meglio di quanto io possa conoscere me stesso, dato che io non posso mai oggettivarmi, distanziarmi come un oggetto da me stesso. In questo modo, arrivo alla conclusione che ‘ io sono quel me che un altro conosce ‘ e mi sento trasformato in un oggetto inerme e nudo davanti all’altro. Con lo sguardo, l’altro aliena le mie possibilità, cosicchè non sono più padrone della situazione: affiorano così le emozioni del timore, del pudore, della vergogna, dell’orgoglio. I rapporti tra l’io e l’altro, cioè i rapporti tra le coscienze, sono dunque, nella loro essenza, conflittuali e Sartre può ironicamente affermare che ‘ l’inferno sono gli altri ‘. Le polarità del rapporto con l’altro assumono la forma dell’ odio e dell’ amore , ambedue fondati sul rapporto sessuale, che svolge una mansione fondamentale nei rapporti intersoggettivi; ma sia l’odio, come tentativo di annullare l’altro nella sua alterità, riducendolo a corpo e strumento e privandolo di ogni reciprocità, sia l’amore, come tentativo di possedere l’altro senza oggettivarlo e ridurlo a cosa o a strumento, si rivelano impossibili. Naufragati i progetti di raggiungere l’unione con l’altro, tramite il suo annullamento o la conciliazione con esso, il rapporto con l’altro può assumere le vesti della cooperazione nell’essere insieme del gruppo o della classe sociale, ma anche in questi casi l’altro rimane inafferrabile e il rapporto tra le coscienze continua a configurarsi come conflittuale. L’oggetto del desiderio dell’essere umano si ubica sempre al di là del suo essere, è un non essere, ma nel momento in cui lo desidera l’uomo lo fa essere: in questo consiste il valore , il cui senso consiste nell’essere quello in direzione di cui un essere va oltre il suo essere. I valori, dunque, non esistono oggettivamente in sè, ma nascono con l’uomo, con il per-sè, non in quanto egli li pone come qualcosa che viene ad esistere in sè, come un fatto o una cosa, ma in quanto essi si correlano alla coscienza come qualcosa che si pone sempre al di là di essa. Questo vuol dire che l’uomo è caratterizzato da una mancanza costruttiva, per la quale non raggiunge mai la piena identità con se stesso, la conciliazione del per-sè con l’in-sè, ma vive sempre nel possibile: ed é per questo che all’uomo é dato di scegliere e agire in base a valori, cercando di realizzarli nel tempo, progettandosi e trascendendo incessantemente verso un’altra situazione. La comprensione delle scelte e dei progetti che costituiscono l’essere dell’uomo é il compito di quella che Sartre definisce ‘ psicanalisi esistenziale ‘ ; Sartre é d’accordo con Freud che ogni gesto e ogni parola hanno senso se sono riferiti alla totalità dell’uomo, ma é del parere che Freud rimanga ancorato ad un’impostazione materialistica e deterministica, che imprigiona l’uomo nella sua natura e nel suo passato, privandolo della capacità di scelta. A suo parere, invece, la coscienza può elaborare ogni sorta di desideri, non determinati a priori, i quali si specificano in progetti particolari. L’insieme dei dati coi quali questi progetti si scontrano costituisce la situazione , che i progetti cercano incessantemente di trascendere, ma senza potersi mai sottrarre ad una situazione. Sotto questo profilo, la libertà umana é non essere e alienazione, che di volta in volta viene superata, ma mai definitivamente. La totalità cui l’uomo tende é la conciliazione di in-sè e per-sè: perciò ‘ l’uomo é l’essere che progetta di essere Dio ‘ , ma Dio è altro dall’uomo e pertanto risulta inattingibile. L’uomo é dunque un ‘Dio mancato’ e una ‘passione inutile’ e tutte le sue azioni e le sue scelte risultano assurde e negativamente equivalenti. In L’essere e il nulla Sartre spiega che l’esistenza umana, che ha come dimensione costitutiva la coscienza, non è un dato nè è riducibile ad un dato; essa è anzi continuo superamento e trascendimento del dato, dell’essere in-sè, in vista di fini e risultati che si collocano sempre oltre, che rinviano al non ancora esistente. In quanto tale, essa è dunque sempre annullamento di quel che soltanto è nella sua massiccia presenza: tramite essa, il nulla viene al mondo. Proprio per questo, il nulla è condizione della libertà come possibilità e scelta continua di trascendere il mondo.
IL MARXISMO
L’essere e il nulla fu oggetto di critica da parte dei marxisti e dei cattolici: i cattolici vi scorsero una filosofia atea e materialistica, mentre i marxisti lo imputarono di idealismo e di pessimismo. Nel saggio L’esistenzialismo é un umanismo (1946), Sartre si difese da queste accuse, rifiutando le interpretazioni del suo esistenzialismo in chiave pessimistica e individualistica. L’esistenzialismo é una filosofia dell’uomo libero, legato da rapporti costitutivi con gli altri uomini e dalla responsabilità nei loro confronti. Egli ha dunque la sua fondamentale componente morale nell’ impegno verso sè e verso gli altri, al fine di rendere più umano il mondo. In L’esistenzialismo é un umanismo Sartre cerca di smorzare il pessimismo delle sue tesi precedenti. Anzi si dichiara apertamente per l’esistenzialismo e lo considera una dottrina dell’impegno e della responsabilità. L’esistenzialismo viene da lui definito come quella dottrina per la quale “l’esistenza precede l’essenza”, nel senso che l’uomo, in primo luogo esiste, cioè si trova nel mondo, e dopo si definisce per quello che è o vuole essere. Se dunque l’esistenza precede l’essenza, non sarà mai possibile spiegarla in riferimento ad una natura umana data e immodificabile. In altre parole, non c’è determinismo, l’uomo è libero, l’uomo è libertà. E se l’uomo è libero, è anche responsabile di quello che fa. Così, dice Sartre, il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E quando l’uomo sceglie, sceglie anche per tutti gli uomini. Così la nostra responsabilità è molto più grande di quello che potremmo supporre, poiché essa obbliga l’umanità intera. ‘ Se Dio non esiste, non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse. E’ ciò che esprimerò con le parole che l’uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa ‘ . In conclusione, l’esistenzialismo è una dottrina ottimistica perché afferma che il destino dell’uomo è nelle mani dell’uomo stesso e che l’uomo non può nutrire speranza se non nell’azione. E’ questo il presupposto che guida la costante denuncia sartreiana delle forme di oppressione: in questo egli ripone il compito dell’intellettuale come latore di valori universali e difensore della libertà. In Che cos’é la letteratura? (1946-1947) Sartre delinea la figura dello scrittore impegnato e una concezione della letteratura come azione, guidata dal progetto di distanziarsi dall’esistente, mostrando la realtà quale é e conducendo all’assunzione di responsabilità nei confronti di essa. Il marxismo per Sartre, in questa fase rappresenta una teoria dell’azione rivoluzionaria, ma coniugata con una filosofia errata, materialistica e deterministica, la quale porta al settarismo e all’eliminazione della soggettività. Fedele ad una costante anarchica del suo pensiero, sebbene si schieri con gli oppressi, Sartre si sente alieno all’apparato organizzativo del partito comunista francese, subordinato all’egemonia sovietica. Ma a partire dall’opera teatrale Il diavolo e il buon Dio (1951) egli mette in luce la vanità dell’opposizione e della rivolta meramente individuale e la necessità di operare in collegamento con la classe oppressa, organizzata in partito. I fatti di Ungheria e il disgelo dopo il 1956 portano al centro del dibattito marxista in Francia, grazie anche alla riscoperta del giovane Lukàcs, i temi dell’alienazione e della reificazione. In questi anni, Sartre perviene alla conclusione, illustrata nelle Questioni di metodo (1957), che ‘ il marxismo é l’insuperabile filosofia del nostro tempo ‘, dal momento che fornisce gli strumenti concettuali che permettono di comprenderlo e di trasformarlo. Il marxismo, però, si é sclerotizzato sul piano teorico, perchè i partiti comunisti, temendo che le discussioni e i dissensi possano minacciare l’unità della lotta politica, lo hanno trasformato in un insieme dogmatico di dottrine, con la conseguente scissione fra teoria e pratica politica. Questo marxismo dogmatico, interpretando in chiave deterministica il rapporto struttura-sovrastruttura, si é privato di un’autentica capacità esplicativa dei fenomeni storici e culturali: famosissimo in questo senso é l’esempio addotto da Sartre, secondo cui Valéry é un intellettuale piccolo borghese, ma non ogni intellettuale piccolo borghese é Valéry. Questo vuol dire che per comprendere un autore e i suoi lavori non é sufficiente far riferimento alle sue condizioni socio-economiche, ma bisogna tener presente anche la sua personalità e la sua storia familiare. Di qui l’importanza che Sartre attribuisce alla psicoanalisi e alle scienze umane: su queste basi, egli costruirà in seguito la biografia di Flaubert ( L’idiota di famiglia ). Si tratta allora di ricostruire il rapporto dialettico tra l’uomo e la sua situazione storica nella complessità delle sue componenti. Sotto questo profilo Sartre ritiene necessario integrare il marxismo con l’ antropologia esistenzialista , capace di elaborare una teoria del soggetto della storia contro tutte le forme di meccanicismo e antiumanismo. Il problema centrale, invece, cui ruota attorno la Critica della ragion dialettica é la comprensione della storia . Hegel e Marx hanno messo in evidenza che il motore di essa sono i conflitti e che la dialettica é il principio del movimento storico. Il marxismo dogmatico, però, ha inteso la dialettica come una legge della natura stessa; bisogna però liberare il marxismo da questa metafisica naturalistica, ritornando a porre al centro l’uomo come soggetto agente. La dialettica, infatti, più che rappresentare la connessione oggettiva tra gli uomini, le cose e le istituzioni economiche, sociali e politiche, é in primis prassi , cioè attività totalizzante che si articola in progetti. Questa totalizzazione é sempre in corso, non coincide mai con una totalità già data: questa rappresenta piuttosto quello che Sartre definisce il pratico-inerte , il residuo della prassi, cioè la realtà oggettiva che si configura come mera oggettività, dato che l’uomo si trova a subire l’azione delle cose che egli stesso ha prodotto. Sartre condivide, in una certa misura, la tesi di Hegel dell’identificazione dell’alienazione con l’oggettivazione. La realtà materiale infatti é alterità assoluta rispetto al soggetto: essa é una minaccia incombente su ogni azione umana, la quale é costretta a esteriorizzarsi e oggettivarsi e, pertanto, non può presumere di operare con assoluta libertà e di poter realizzare tutti i propri fini: ogni azione dà luogo a risultati imprevisti e a controfinalità negative. Il fondamento dell’azione umana é il bisogno , che costringe il soggetto ad istituire un rapporto con il mondo oggettivo: questo rapporto assume la forma del lavoro come mezzo per soddisfare quel bisogno, ma comportando un rapporto materiale diretto con le cose, impone all’uomo di farsi egli stesso oggetto. D’altronde il lavoro rappresenta anche il modello di una prassi orientata verso un fine, cioè di una totalizzazione e di un progetto volto al superamento dialettico della situazione data. Sotto questo profilo, la prassi individuale si intreccia con la prassi degli altri e la mediazione con l’altro assume la modalità fondamentale della reciprocità , cioè del riconoscimento dell’altro come soggetto anch’egli della prassi e, al tempo stesso, come mezzo per il raggiungimento di un fine, rispetto al quale anch’io sono un mezzo. La penuria (in francese ‘rareté’), cioè la scarsità oggettiva di beni materiali per il soddisfacimento dei bisogni umani, rende però questo rapporto intersoggettivo una lotta dell’uomo con l’uomo e fa soggiacere al dominio del pratico-inerte. In questa situazione, gli uomini formano un semplice aggregato, una i pluralità di solitudini ‘ senza alcun rapporto di reciprocità e potenzialmente conflittuali tra loro. Il modo di essere di questa molteplicità, che caratterizza la vita degli uomini nella società contemporanea, dall’attesa dell’autobus alle mansioni svolte in ufficio, é quello della serie , in cui ogni individuo ha scopi ed esercita mansioni impostegli dall’esterno ed é dunque intercambiabile con ogni altro individuo. La reazione spontanea contro l’impossibilità di vivere come serialità é il gruppo , in quanto prassi intenzionale di soggetti umani collegati tra loro allo scopo di rovesciare questa situazione storica, sfuggendo alla passività e all’inerzia. Esso é movimento che nasce da un pericolo comune, al quale intende reagire mediante una prassi comune. Nel momento caldo iniziale si realizza una integrazione reale degli individui, che si scoprono capaci di agire secondo fini e liberi membri di un insieme organico, in cui nessuno comanda e nessuno obbedisce, ma tutti sono pervasi da una comune volontà di lotta contro comuni nemici. E’ il gruppo in fusione , quale si costituisce nelle fasi iniziali dei movimenti rivoluzionari. Quando però viene meno la pressione del pericolo esterno, l’evidenza di scopi e la necessità di una prassi comune tendono a sparire. Per impedire che l’individuo ricada in forme di prassi meramente individuali, il gruppo, che prima era il mezzo per il raggiungimento di fini comuni, propone se stesso come fine. La cosa importante diventa salvaguardare l’esistenza del gruppo e a questo provvedono l’organizzazione e poi l’istituzionalizzazione del gruppo, ma, così facendo, il gruppo ricade nella serialità. La violenza contro l’esteriorità viene allora trasferita all’interno del gruppo, per salvaguardare la fratellanza, ma a condizione di un regime di crescente terrore , in modo simile a come avvenne nella Rivoluzione Francese nella fase giacobina. Il gruppo organizzato infatti scorge negli individui liberi un ostacolo e un pericolo per la sua unità e pertanto si trasforma in una istituzione, rispetto alla quale l’individuo é inessenziale e deve essere subordinato. In questa situazione, l’individuo, a cui é sottratto ogni potere, non si sente più in un rapporto di trasparenza e di reciprocità con il gruppo organizzato, ma asservito ad interessi superiori. E’ questo lo scacco nel quale si concludono i movimenti rivoluzionari e che appare a Sartre esemplificato nell’esperienza sovietica. Anche nella ricostruzione della dialettica della storia continuavano ad operare presupposti che avevano sorretto l’analisi dell’esistenza nell’ Essere e il nulla : la centralità del soggetto dell’azione, la descrizione della prassi in termini di libertà e di progetto e la contrapposizione tra il polo soggettivo, che conferisce senso alle cose, e l’oggettività, come momento meramente negativo. Nell’ultima sua grande opera di contenuto teoretico, la Critica della ragione dialettica, Sartre ci presenta la teoria dell’azione e della storia come una reinterpretazione originale dei rapporti tra esistenzialismo e marxismo. In primo luogo la libertà, che nelle opere precedenti era stata considerata da Sartre come assoluta e incondizionata, viene adesso ridimensionata. L’uomo è sempre dichiarato libero ma la sua libertà dipende anche dagli altri e dal contesto sociale in cui si trova. ‘ Dire di un uomo ciò che egli è, significa dire ciò che egli può e reciprocamente: le condizioni materiali della sua esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità … così il campo del possibile è lo scopo verso il quale l’agente oltrepassa la sua situazione obiettiva. E questo campo, a sua volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica ‘. Perciò Sartre dice di accettare la concezione materialistica di Marx, per cui ‘ il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica e intellettuale ‘. Egli rifiuta però nettamente il materialismo dialettico di Engels. Sartre rifiuta in primo luogo le leggi della dialettica della realtà proposte appunto da Engels dicendo che ‘ questa dialettica può effettivamente esistere, ma bisogna riconoscere che non ne abbiamo la benché minima prova ‘. Egli insomma non accetta le leggi proposte da Engels come regole che guiderebbero lo sviluppo della natura, della storia e del pensiero. L’ammissione di quelle leggi, secondo Sartre, implicherebbe un “beato ottimismo” che proclama un finalismo di tipo hegeliano e, cosa ancora più inammissibile, ridurrebbe l’uomo ad un semplice strumento passivo della dialettica, incapace di sottrarsi al più rigido determinismo. La dottrina della dialettica, nota Sartre, è diventata oggi una sorta di dogma per cui il marxismo odierno ‘ non sa più di nulla : i suoi concetti sono Diktat; il suo fine non è più di acquistare cognizioni, ma di costituirsi a priori come sapere assoluto ‘. E poiché il marxismo ha dissolto gli uomini “in un bagno di acido solforico”, l’esistenzialismo ha potuto invece ‘ rinascere e mantenersi perché affermava la realtà degli uomini ‘.
LA NAUSEA
La nausea , scritta da Sartre quando correva il 1938, non é certo un romanzo nel senso tradizionale del termine, in quanto manca di veri e propri eventi narrativi. Si tratta infatti di un vero e proprio diario filosofico tenuto da Antoine Roquentin, un intellettuale sradicato che conduce la sua vita a Bouville, città immaginaria che, come si può evincere dalle descrizioni, ricorda Le Havre, dove Sartre si trovava ad insegnare in quegli anni. La vita di questo intellettuale non é certo avvincente e ricca di emozioni: egli alloggia in una camera d’albergo, scrive senza convinzione alcuna la monografia di un personaggio storico minore, va di tanto in tanto a letto con la padrona di un caffè, e si annoia nella solitudine più squallida ed esasperante. Lo circonda infatti un mondo ermeticamente chiuso, l’ambiente meschino e convenzionale della piccola borghesia di provincia, da cui si sente lontanissimo. ‘ Mi sembra di appartenere ad un’altra specie. Escono dagli uffici, dopo la giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con aria soddisfatta, pensano che é la loro città, una bella città borghese. Non hanno paura, si sentono a casa propria… Gli imbecilli. Mi ripugna pensare che sto per rivedere le loro facce solide e rassicurate ‘. Li odia ancora di più quando contempla al Museo il ritratto dei borghesi illustri di Bouville, ‘ irritanti nella loro rispettabilità stereotipata e nella loro spocchia ‘. E’ evidente che essi si credono in regola con Dio, con la Legge, con la loro coscienza: ‘ Addio, bei gigli, così delicati nei vostri piccoli santuari dipinti, addio bei gigli, nostro orgoglio e nostra ragion d’essere, addio Sporcaccioni ‘. Così, mancando di un effettivo rapporto interpersonale con gli ‘altri’, il narratore si rende conto in modo sempre più acuto che niente giustifica l’esistenza; l’unico personaggio descritto con un certo rilievo é il patetico Autodidatta, che rappresenta l’illusione della cultura: egli ha aderito al socialismo, dice di amare più di ogni cosa gli uomini e di non credere in Dio. Roquentin si rende così conto che non vi é nulla che possa giustificare l’esistenza; è l’uomo che dà senso al mondo, mentre il mondo, di per sé, non ha alcun senso. Riflettendo sulle ragioni della propria esistenza e del mondo che lo circonda, ha l’esperienza rivelatrice della nausea. La nausea è il sentimento che ci invade quando si scopre l’essenziale assurdità e contingenza della realtà. Scoprire che il mondo non ha un senso, così come un senso non ha l’esistenza, provoca la nausea, un disgusto di tutto: oltre che degli uomini, buffi manichini inautentici (checchè ne pensi l’Autodidatta), delle cose, gratuite e ingiustificabili. ‘ Il mondo… questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile : per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente, fluttuante in quella immensità : quel nulla non era venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre […] Scoprire che il mondo non ha senso, che è assurdo, provoca la nausea. […] L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare… ecco la Nausea […] La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa […] Ed ora lo so: io esisto- il mondo esiste- ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi é indifferente. E’ strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: é una cosa che mi mette paura. E’ cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l’ho guardato, ed è allora che è cominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano”. ‘ La vita di Roquentin si scopre dunque priva di senso; nessun scopo riesce più ad orientarla; egli esiste come una cosa, come tutte le cose che emergono, nell’esperienza della nausea, nella loro gratuità ed assurdità: ‘ ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione ‘. Tutto gli appare come gratuito, contingente, di troppo. Perchè quel ciottolo? Perchè quella radice? Perchè quegli alberi? Esistono, certo, ma perchè? ‘ Tutto é gratuito, questo giardino, questa città e io stesso. Quando capita di accorgersene, viene il voltastomaco e tutto comincia ad oscillare; ecco la Nausea; ecco quello che gli Sporcaccioni cercano di nascondere con la loro idea del diritto. Ma che misera menzogna! ‘ Nessuno ha il diritto. ‘ Gli Sporcaccioni sono interamente gratuiti, come gli altri uomini ‘. Sono di troppo, tutti lo siamo. Solo che non possiamo impedirci di esistere, nè di pensare: anzi, è proprio in virtù del nostro pensare all’assurdità dell’esistere che siamo colti dalla Nausea; fino a pochi istanti fa, si nuotava in un mare tiepido e pacato e poi di colpo, non appena si riflette sull’esistenza, ci si sente sospesi sopra un abisso. Gli Sporcaccioni nuotano con fiducia e rifiutano di pensare all’abisso, ma Roquentin (e Sartre) vedono la precaria contingenza, la ‘fatticità’ dell’esistere. Ma come si può fuggire da questa situazione esasperante? Una donna che era stata l’amica di Roquentin, Anny, suggeriva una scappatoia con i ‘momenti perfetti’; non ci possiamo avvalere di nessun aiuto esterno, dobbiamo cavarcela da soli, in balia di noi stessi e della Nausea. Ed ecco che in questa situazione disperata finiscono per affiorare in Roquentin interessi (la monografia del personaggio storico) e ricordi, un sentimento amoroso non sopito (l’amica Anny), un moto di pietà, di simpatia umana e, infine, la possibilità di accettarsi, di accettare l’esistenza, provando a darle un senso, provando magari a vivere al meglio ogni momento della nostra vita, per collezionare così dei veri e propri ‘momenti perfetti’. Sartre ha vissuto la nausea e ha dovuto scriverla; noi viviamo la nausea e dobbiamo assolutamente leggere questo libro.
Jean-Paul Sartre (1905-1980) nacque a Parigi il 21 giugno 1905 , studiò filosofia e psicologia dal 1924 al 1927 all’ Ecole Normale Supérieure, dove trovò compagni con i quali strinse amicizia, quali P. Nizan, Marleau-Ponty e R. Aron, che suscitò il suo interesse per Husserl e Heidegger. Nel 1929 Sartre conobbe Simone de Beauvoir, che sarà la sua compagna fino alla fine della vita. Dopo aver insegnato filosofia al liceo di Le Havre, Sartre usufruì nel 1933-1934 di una borsa di studio presso l’Istituto francese di Berlino e intraprese lo studio della fenomenologia di Husserl; sotto l’influenza di essa, ma anche dell’esistenzialismo di Heidegger, nacquero i primi scritti di Sartre: L’immaginazione (1936), Abbozzo di una teoria delle emozioni (1939), L’immaginario (1940) e il romanzo filosofico divenuto celebre, La nausea (1938), nonchè la raccolta di racconti Il muro (1939). Richiamato alle armi, nel giugno del 1940 Sartre fu fatto prigioniero dai tedeschi, ma fu poi liberato e potè tornare a Parigi, dove nel 1943 pubblicò la sua opera filosofica più impegnativa, L’essere e il nulla , e il suo primo lavoro teatrale, Le mosche. Terminata la guerra, Sartre diede inizio alla serie di romanzi intitolati I cammini della libertà e, in collaborazione con Marleau-Ponty, Aron, Camus e altri fece uscire la rivista ‘Les temps modernes’. In risposta agli attacchi mossi alla sua opera da parte dei marxisti e dei cattolici, pubblicò nel 1946 il breve scritto L’esistenzialismo é un umanismo . Dopo aver dato vita al ‘Rassemblement démocratique révolutionnaire’ come terza forza politica tra i due blocchi, occidentale e sovietico, Sartre si avvicinò ai comunisti francesi come ‘compagno di strada’: il momento cruciale di questo avvicinamento fu dato dagli articoli intitolati I comunisti e la pace , pubblicati su ‘Les temps modernes’ nel 1952-1954. Essi segnarono la rottura definitiva dei suoi rapporti con Camus e con Marleau-Ponty, che nelle Avventure della dialettica (1955) qualificò la posizione di Sartre come ‘ultrabolscevismo’. Ma nel 1956 il rapporto Kruscev al XX congresso del PCUS e la repressione della rivolta in Ungheria furono l’occasione per la pubblicazione dell’articolo Il fantasma di Stalin , che segnò il netto distacco di Sartre dai comunisti francesi. Egli intraprese a questo punto la riflessione sul marxismo, che diede luogo al saggio Questioni di metodo , apparso su una rivista polacca nel 1957 e poi incluso, come parte iniziale, nella Critica della ragion dialettica , pubblicata nel 1960; in seguito Sartre pubblicò lo scritto autobiografico Le parole (1963), che gli valse il conferimento nel 1964 del premio Nobel, da lui rifiutato, e una imponente biografia di Flaubert, intitolata L’idiota di famiglia (1971-1972). Sempre in prima linea nel prendere posizione sui problemi politici dell’epoca, Sartre si schierò contro la politica francese in Algeria, entrò a far parte del Tribunale Russell sui crimini americani in Vietnam e nel 1968 appoggiò il movimento studentesco, condannando l’atteggiamento del partito comunista francese in tale frangente e dirigendo il giornale ‘La cause du peuple’. Egli morì a Parigi nel quartiere latino, al numero 47 di rue Bonaparte, il 15 aprile 1980. Le prime indagini di Sartre sono volte alla costruzione di una psicologia fenomenologica , in antitesi alla psicologia e alla filosofia francesi contemporanee, dominate da una concezione naturalistica dei fatti psichici e dal primato indiscusso assegnato al problema della conoscenza. Sartre é del parere che la fenomenologia di Husserl consenta di cogliere il significato dei fenomeni psichici, grazie al concetto di intenzionalità, che permette di evitare la riduzione sia del soggetto all’oggetto, sia dell’oggetto al soggetto, cioè gli scogli antitetici del realismo e dell’idealismo. A differenza di Husserl, però, Sartre é convinto che il rapporto tra la coscienza e il mondo non sia innanzi tutto in maniera privilegiata di tipo conoscitivo. E proprio per questo Sartre concentra le sue indagini sui temi dell’ immaginazione ( L’immaginazione e L’immaginario ) e delle emozioni ( Abbozzo di una teoria delle emozioni ), cioè su sfere non controllate direttamente dalla ragione, alle quali guardavano con un certo interesse anche i surrealisti. L’ ego stesso é solo una modalità della coscienza e, più precisamente, la modalità riflessa, secondaria rispetto a quella irriflessa, mentre le emozioni sono non manifestazioni imperfette o disturbate della coscienza, ma modalità essenziali in cui la coscienza si rapporta al mondo esterno e gli conferisce significato. Diversamente da Husserl, che privilegiava il soggetto trascendentale, Sartre, influenzato da Heidegger, insiste sull’essere-nel-mondo proprio dell’uomo: le emozioni coinvolgono e modificano la totalità dei rapporti umani col mondo. Attento ai risultati della psicologia della forma ( Gestalt ), Sartre mette in evidenza che ogni fatto psichico é forma ed é dotato di una struttura, non é la semplice composizione di elementi antecedenti isolati. L’errore della psicologia associazionistica é di frantumare la continuità della corrente psichica. Per Sartre, invece, l’immagine non é un elemento che entra a far parte della corrente della coscienza: ‘ l’immagine é un atto e non una cosa ‘ , é coscienza di qualcosa, ma il suo contenuto non deriva dal mondo esterno. L’immaginazione, infatti, non é la copia o la rappresentazione di una cosa che non é più presente materialmente, ma é un’attività libera, volta a fini diversi da quelli della percezione. Essa non ha dunque una mansione conoscitiva e non é valutabile secondo i parametri del vero e del falso; la sua funzione é invece derealizzante , cioè consiste nel tenere il reale a distanza, nell’essere liberi di fronte ad esso e nel negarlo, in modo da dar luogo alla costituzione di un oggetto di coscienza autonomamente caratterizzato. Condizione essenziale per l’esercizio dell’immaginazione e quindi per la formazione delle immagini é infatti il trascendere della coscienza, il suo andare al di là delle cose e della realtà particolari, cioè un atto di libertà nei confronti del mondo: del resto, spiega Sartre, é l’uomo che dà senso al mondo, mentre il mondo, di per sé, non ha alcun senso. Fin dall’inizio della sua riflessione, Sartre pone dunque al centro il problema della libertà e scorge nell’immaginazione, cioè nella negazione dell’esistente per qualcosa di altro rispetto ad esso, l’elemento fondamentale per l’esercizio della libertà stessa.
ALBERT CAMUS
Non voglio essere un genio: ho già problemi a sufficienza cercando di essere solo un uomo.
Albert Camus (1913-1960) è stato un importante esponente dell’esistenzialismo francese. Nato a Mondovi (Algeria) il 7 novembre 1913, sostenitore della resistenza anti-nazista, nell’immediato dopoguerra ha avuto un intenso vincolo di amicizia con Sartre, poi interrotto per ragioni politiche: se infatti Sartre era un convinto filo-comunista, Camus, invece, si attestò sulla linea dell’anti-comunismo. Camus, ancor prima che filosofo, è stato scrittore, con una vocazione artistico-letteraria forse più genuina e intensa di quella di Sartre (entrambi, comunque, sono stati insigniti del premio Nobel per la letteratura). I suoi testi narrativi contengono però molti motivi filosoficamente rilevanti: dei testi narrativi meritano di essere ricordati Lo straniero (1942), La peste (1947), La caduta (1956), L’esilio e il regno (1957), mentre di quelli teatrali è doveroso citare Il malinteso (1944), Caligola (1944), Lo stato d’assedio (1948), I giusti (1950). In Lo straniero , considerato unanimemente uno dei capolavori della letteratura novecentesca, Camus dà voce ad alcuni dei temi più caratteristici dell’esistenzialismo nella sua versione tragica e “negativa”. Il breve romanzo esprime in modo difficilmente dimenticabile l’incolmabile distanza, anzi (come suggerisce il titolo) la vera e propria “estraneità” che separa l’uomo dal mondo. La realtà per Camus non ha alcun senso; gli eventi accadono, avvengono senza che il pensiero possa coglierne motivi e significati plausibili: ecco allora che l’uomo, con il suo pensiero, si trova ad essere straniero nel mondo. Però anche gli atti e i comportamenti umani non riescono a esibire una razionalità in grado di giustificarli, o almeno di giustificarli. Come accade al protagonista de Lo straniero , si può anche uccidere senza saper dire perché lo si è fatto. Protagonista del libro è Meursault, un impiegato di Algeri, che vive in uno stato di atonia, di totale indifferenza e di estraneità rispetto alla vita. Giuntagli la notizia della morte della madre, si reca senza commozione ai funerali, poi fa all’amore con una ragazza, infine passa la domenica osservando con inerte distacco ciò che gli si svolge attorno. Dopo una lite con due arabi incontrati per caso e un nuovo scontro con loro, minacciato con il coltello, accecato dal sole, ne uccide uno con un colpo di pistola, senza sapere ciò che sta facendo. Poi, senza ragione, spara altre quattro volte sul cadavere. Processato, Meursault viene condannato a morte, senza reazione alcuna da parte sua: si limita ad assistere passivamente al proprio processo. In attesa della morte, ha uno scontro con il cappellano, al quale manifesta la propria totale estraneità ai significati religiosi dell’esistenza: gli resta poco tempo da vivere e non vuole sprecarlo con Dio. Poi si acquieta accettando serenamente il proprio assurdo destino. Nel saggio Il mito di Sisifo (1942), sottolineato significativamente Saggio sull’assurdo , Camus esprime in modo più diretto le sue posizioni teoriche. Il punto di partenza è costituito da un’analisi di quello che viene definito ” l’unico problema filosofico veramente serio “: il suicidio. Dice Camus: ” C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia. ” Esso rappresenta per lo scrittore francese una situazione limite dell’essere e dell’agire dell’uomo, che obbliga quest’ultimo a porsi domande radicali sul senso della vita e sul nostro atteggiamento dinanzi ad essa. La tesi di fondo di Camus è che gli argomenti etico-religiosi e sociali tradizionalmente invocati contro il suicidio non valgono. In effetti, la vita non ha valore intrinseco, e la realtà ” è senza ragione ” ; il tempo corrode l’individuo e le sue opere, e la morte è comunque l’esito che attende ogni creatura. Impegnarsi in opere e iniziative pratiche ricorda davvero la vicenda di Sisifo, il mitico personaggio condannato dal destino a sospingere in cima ad un monte un macigno, che poi ogni volta ricade giù, obbligando Sisifo a ripetere inutilmente il suo sforzo. Come già era stato detto in Lo straniero , la dimensione costitutiva e più peculiare dell’esistenza umana è l’assurdità: l’assurdità nel duplice senso che le cose e gli eventi non hanno senso, e che gli atti umani sono sempre inadeguati sia rispetto alle possibilità e ai desideri, sia rispetto al contesto mondano entro il quale vengono compiuti. ” L’assurdo è un peccato senza Dio “, dice a tal proposito Camus, in modo molto eloquente, ribadendo l’assurdità della vita per cui ” tutto ciò che esalta la vita ne accresce, nello stesso tempo, l’assurdità “. E nonostante ciò che Camus afferma in Il mito di Sisifo , egli condanna il suicidio: esso gli appare (non diversamente dalla speranza religiosa) una sorta di evasione rispetto all’assurdo della vita. La giusta risposta di fronte a tale assurdo è la non-rassegnazione, anzi la rivolta (uno dei concetti-chiave della filosofia di Camus). Contro l’insensatezza del mondo l’uomo può e deve avere il coraggio di reagire levando alta la sua voce, la sua protesta, la sua prospettiva donatrice di senso (sia pure di un senso non assoluto). Si tratterà, certo, di una testimonianza infondata, in quanto non può invocare ragioni e implicazioni oggettive a proprio sostegno. Ma questo, a ben guardare, non fa che aumentare il valore, la dignità della rivolta umana. Altri due testi (il romanzo La peste e la raccolta di saggi intitolata proprio L’uomo in rivolta, 1951) svilupperanno in più modi le tesi in qualche misura positive ( ” Nella profondità dell’inverno, ho imparato alla fine che dentro di me c’è un’estate invincibile “) affiorate nel Mito di Sisifo . Poiché la vita è assurda e priva di significato, essa appare come un’inutile fatica di Sisifo. Quando se ne prende coscienza, si può vivere solo come stranieri, estranei all’esistenza. Accade appunto questo al protagonista del romanzo Lo straniero ; L’uomo in rivolta , invece, esprime la necessità di rivolta contro l’insensatezza: solo ribellandosi, l’esistenza può acquistare un suo significato. La peste simboleggia invece i flagelli che colpiscono l’umanità (il riferimento è al nazismo): nell’assurdità dell’esistenza, non resta che la ribellione all’insensato di chi si impegna ricercando la solidarietà coi propri simili. In La peste Camus oltrepassa l’individualismo assoluto e senza blocchi che aveva ispirato Lo straniero e afferma la realtà di una dimensione ulteriore e diversa: la dimensione della socialità e della solidarietà umana. Questa è la trama de La peste : la città di Orano è colpita da un’epidemia inesorabile e tremenda, preannunciata da una grande moria di topi. Isolata con un cordone sanitario dal resto del mondo, affamata, incapace di fermare la pestilenza, la città diventa il palcoscenico e il vetrino da esperimento per le passioni di un’umanità al limite tra disgregazione e solidarietà. La fede religiosa, l’edonismo di chi non crede nelle astrazioni, ma neppure è capace di ” essere felice da solo “, il semplice sentimento del proprio dovere sono i protagonisti della vicenda; l’indifferenza, il panico, lo spirito burocratico e l’egoismo gretto gli alleati del mondo. Tra i personaggi principali il dottor Rieux, il medico che, al di fuori di ogni opzione politica o religiosa, trova nell’ esercizio della sua professione la giustificazione del suo esistere. Si realizza nella lotta per strappare alla morte i suoi malati e si ribella contro l’ assurdo della morte che non può accettare come espiazione, come gli suggerisce il gesuita Paneloux. Il gesuita stesso, sconvolto dalla crudeltà degli avvenimenti, a un certo punto metterà in dubbio la validità della massima “sia fatta la tua volontà”. Tarrou, l’ uomo che, dopo un passato ricco di esperienze, si ribella alla società costituita e, volontario dei servizi sanitari per combattere l’ epidemia, ne muore quando questa è stata pressoché debellata. Rambert, giornalista straniero per caso nella città, che cerca con ogni mezzo di andarsene, ma resta infine perché capisce che un uomo non può abbandonare altri uomini che soffrono. La lotta contro il male è l’ argomento di questa cronaca, che alla fine il lettore apprende essere opera del dottor Rieux. La peste sarà vinta, ma sul male che essa rappresenta non ci possono essere vittorie definitive. Un dramma collettivo dunque (la peste si riveste di un evidente significato simbolico) spinge i protagonisti del romanzo a cogliere i valori connessi all’esistenza umana in quanto tale: ” vi sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare “. E questi valori sono tanto più sostanziali e profondi quando si riferiscono all’essere umano come “l’altro”, come “il prossimo”: sollecitato da una situazione esterna avversa, l’uomo scopre di essere accomunato agli altri uomini dall’esistenza di sentimenti e aspirazioni simili- a cominciare dal desiderio di reagire alla disperazione e alla morte. Nell’ Uomo in rivolta Camus approfondisce la figura teorica che gli era divenuta più cara: quella, appunto di rivolta. Se in Il mito di Sisifo il principio della rivolta era stato affermato in una prospettiva in qualche modo solipsistica (la rivolta vista come l’unico modo valido per rispondere e reagire alla questione del suicidio), ora lo stesso principio viene interpretato in chiave inter-individuale e sociale (se non addirittura politica). L’uomo si deve rivoltare per combattere il male nel mondo: l’ingiustizia, l’intolleranza, l’oppressione, la morte dell’uomo provocata dall’uomo, argomento questo particolarmente caro a Camus, visto che egli lo approfondì nel 1957 in Riflessioni sulla pena capitale , in cui conduceva una vera e propria campagna contro la pena di morte: ” Invece di uccidere e morire per diventare quello che non siamo, dovremo vivere e lasciare vivere per creare quello che realmente siamo. ” Nelle pagine camusiane la rivolta diviene a poco a poco il fondamento di un esistenzialismo positivo, di carattere marcatamente morale, e perfino il presupposto di una nuova interpretazione (non intellettualistica, non cartesiana) dell’essere umano: ” io mi rivolto, dunque noi siamo “, dice Camus riprendendo e stravolgendo il motto cartesiano del cogito ergo sum .
KARL POPPER
Il desiderio di libertà è qualcosa di originario che troviamo già negli animali e nei bambini piccoli. In campo politico, però, la libertà diventa un problema perché la libertà illimitata di ogni singolo rende impossibile la convivenza umana. Quando sono libero di fare tutto ciò che voglio, allora sono anche libero di derubare gli altri della loro libertà.
VITA E OPERE
Ad avanzare, negli anni Trenta, una teoria della conoscenza scientifica alternativa a quella dei neopositivisti è stato Karl Raimund Popper. Nato nel 1902 a Vienna da genitori ebrei assimilati, studia metafisica e fisica e si laurea in Filosofia nel 1928. Per un breve periodo nel 1919 aderisce al comunismo, ma se ne allontana dopo un violento scontro tra polizia e operai e abbandona il marxismo in quanto teoria dogmatica. Entrato in rapporto con alcuni esponenti del Circolo di Vienna, è incoraggiato da uno di questi (Herbert Feigl) a scrivere un libro in cui esporre le proprie idee. La stesura del volume dal titolo I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza risulta troppo ampia per la pubblicazione (parti di essa compariranno solo nel 1979) e pertanto Popper provvede a ridurlo e a pubblicarlo nel 1934 con il titolo Logica della scoperta scientifica . Il libro ottiene recensioni favorevoli da parte di Carnap e Hempel e, invece, aspre critiche da Reichenbach e Neurath. Nel 1937, poco prima dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler, Popper emigra in Nuova Zelanda, dove gli è offerta una cattedra e stringe amicizia con il neurofisiologo John Eccles. Durante la guerra pubblica i saggi Che cos’è la dialettica? (1940), nel 1944-45 Miseria dello storicismo (evidente stoccata a Marx e alla sua Miseria della filosofia ) e La società aperta e i suoi nemici (1945), che suscita un vasto dibattito. Nel 1946 si trasferisce in Inghilterra per insegnare alla London School of Economics, dove nel 1949 diventa professore di Logica e metodologia scientifica. Nell’ottobre del 1946, in occasione di una sua conferenza a Cambridge, ha un contrasto con Wittgenstein; nel 1950 si reca negli Stati Uniti a tenere le William James Lectures a Harvard e, in questa occasione, si incontra con Einstein a Princeton; nel 1961 partecipa a un dibattito in Germania sul metodo della sociologia con Adorno ed altri esponenti della Scuola di Francoforte. In questo periodo compaiono la traduzione inglese della Logica , con varie appendici (1959), raccolte di saggi sotto i titoli Congetture e confutazioni (1962) e Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972), nonché un ampio Poscritto alla logica della scoperta scientifica (1982- 1983) e, in collaborazione con John Eccles, L’io e il suo cervello (1977). Riceve dall’Inghilterra il titolo di ‘sir’.
RIASSUNTO SU POPPER
Popper è stato senz’ombra di dubbio uno dei più grandi filosofi del Novecento. Il suo primo bersaglio polemico (e quello che gli diede la fama) fu il Positivismo o, meglio, le pretese dei Neopositivisti (come Schlick, Neurath, Carnap, ecc) di considerare valido solo quel che è verificabile con l’esperienza. Inoltre, contro la loro riduzione dei problemi filosofici a problemi concernenti l’uso linguistico dei termini adoperati, Popper afferma che ” dobbiamo smetterla di preoccuparci delle parole e dei loro significati, per preoccuparci invece delle teorie criticabili, dei ragionamenti e della loro validità “. In poche parole, non ci fu questione toccata dai Neopositivisti o Neoempiristi su cui Popper non la pensasse diversamente. Ma egli si occupò anche di politica e di molti altri problemi, su cui espresse sempre la sua originale opinione. Nella Logica della scoperta scientifica (1° edizione 1934), egli ritiene di aver risolto un problema filosofico fondamentale, quello della induzione (il passaggio dal particolare al generale) e lo ha risolto dissolvendolo: ” L’induzione non esiste, e la concezione opposta è un errore bell’e buono “. L’induzione si intende in due modi: induzione per enumerazione o ripetitiva ed induzione per eliminazione. Entrambi i tipi per Popper non sono validi. La prima consiste di osservazioni spesso ripetute, le quali dovrebbero fondare qualche generalizzazione della teoria. Ma la mancanza di validità di tale genere di ragionamento è ovvia : nessun numero di osservazioni di cigni riesce a stabilire che tutti i cigni sono bianchi o che la probabilità di trovare un cigno che non sia bianco è piccola. Dunque l’induzione per enumerazione è fuori causa: non può fondare nulla. D’altro canto, l’induzione eliminatoria si fonda sul metodo della eliminazione o confutazione delle teorie false. Bacone e Stuart Mill, asserisce Popper, credevano che, eliminando tutte le teorie false, si potesse far valere la teoria vera. Ma non si rendevano conto che il numero delle teorie rivali è infinito anche se, di regola, in ogni momento particolare possiamo prendere in considerazione un numero finito di teorie. Dunque l’induzione non esiste ed è un errore pensare che la scienza empirica proceda con metodi induttivi. Di solito si afferma che una inferenza è induttiva quando procede da asserzioni singolari (quali i resoconti dei risultati di osservazioni o di esperimenti) ad affermazioni universali, quali ipotesi o teorie. Senonché, dice Popper, ” da un punto di vista logico, è tutt’altro che ovvio che si sia giustificati nell’inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa; per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi “. Il non aver mai visto cigni non-bianchi ha portato l’uomo ad effettuare un’induzione, a sostenere che tutti i cigni fossero bianchi, ma ci si è accorti che esistevano anche, nei Paesi orientali, cigni neri! Connessa alla teoria dell’induzione, vi è secondo Popper l’altra idea per cui la mente del ricercatore dovrebbe essere una mente priva di presupposti, di ipotesi, di sospetti e di problemi, insomma una tabula rasa su cui verrebbe poi a rispecchiarsi il libro della natura. Questa idea è chiamata da Popper osservativismo ed è secondo Popper un mito. La realtà è che noi siamo invece una tabula plena dei segni che la tradizione e l’evoluzione culturale ci ha lasciato. L’osservazione è sempre orientata da aspettazioni teoriche : in altri termini, allo scopo di osservare, dobbiamo avere in mente una questione ben definita ; un esperimento o prova presuppone sempre qualcosa da sperimentare o provare. E questo qualcosa sono le ipotesi o congetture o idee o teorie che si inventano per risolvere i problemi. La mente purgata da pregiudizi non è, dice Popper, una mente pura : essa sarà soltanto una mente vuota. Noi operiamo sempre con teorie, anche se spesso non ne siamo consapevoli. Ma allora, ha validità la ricerca scientifica? Certo che ne ha, ma deve essere intesa in senso corretto. Per Popper la ricerca non parte da osservazioni ma da problemi :” da problemi pratici o da una teoria che si è imbattuta in difficoltà: che cioè ha fatto nascere aspettazioni e poi le ha deluse “. E per risolvere i problemi occorre l’immaginazione creatrice di ipotesi o congetture; c’è bisogno di creatività, della creazione di idee “nuove e buone”, buone alla soluzione del problema. Ed è qui necessario tracciare una distinzione (su cui Popper insiste spesso) tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione . Una cosa è la genesi delle idee; un’altra è la loro prova. Le idee scientifiche non hanno fonti privilegiate: possono scaturire dal mito, da metafisiche, dal sogno, dall’ebbrezza, ecc. Ma quel che importa è che esse vengano provate di fatto. Ed è ovvio che, allo scopo di esser provate di fatto, le teorie scientifiche debbano essere provabili o controllabili di principio. Da questo si vede che una teoria deve essere falsificabile ,deve essere cioè tale che da essa siano estraibili conseguenze che possono venir confutate, cioè falsificate dai fatti. Se infatti da una teorie non è possibile estrarre conseguenze possibili di controllo fattuale, essa non è scientifica. Si badi inoltre che, per quante conferme una teoria possa aver avuto, essa non è mai certa e definitiva, in quanto il prossimo controllo potrebbe smentire la teoria. In effetti, esiste una asimmetria logica tra la verificazione e la falsificazione : miliardi di conferme non rendono certa una teoria (quale ad esempio “tutti i pezzi di legno galleggiano in acqua”) mentre un solo fatto negativo falsifica, dal punto di vista logico, la teoria (“questo pezzo di ebano non galleggia”). E’ su questa asimmetria che Popper innesta il suo principio metodologico della falsificabilità : siccome una teoria, per quanto confermata, resta sempre smentibile, allora bisogna tentare di falsificarla, perché prima si trova un errore e prima lo si potrà eliminare con l’invenzione e la prova di una teoria migliore di quella precedente. ” Da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza “, dice Popper. Il criterio di falsificabilità non vuole essere un criterio di significanza come il principio di verificazione dei Neopositivisti (per i quali è valido ed ha senso solo quel che è verificabile, altrimenti non ha appunto senso e quindi non è accettabile) ma soltanto di demarcazione tra asserzioni empiriche e asserzioni che empiriche non sono. Inoltre dire di un asserto che non è scientifico non implica affatto che esso sia insensato . Anzi, ” non si può negare che, accanto alle idee metafisiche che hanno ostacolato il cammino della scienza, ce ne sono state altre che ne hanno aiutato il progresso. E guardando alla questione dal punto di vista psicologico, sono propenso a ritenere che la scoperta scientifica è impossibile senza la fede in idee che hanno una natura puramente speculativa, e che talvolta sono addirittura piuttosto nebulose; fede, questa, che è completamente priva di garanzie dal punto di vista della scienza e che, pertanto, entro questi limiti è ‘metafisica’ “. Dunque anche dal punto di vista psicologico la ricerca è impossibile senza idee metafisiche, quali potrebbero essere, ad esempio, le idee di realismo, di ordine dell’universo o di causalità . Da un punto di vista storico vediamo poi che ” talvolta idee che prima fluttuavano nelle regioni metafisiche più alte possono essere raggiunte dall’accrescersi della scienza e, venute così in contatto con essa , depositarsi […] Tutti questi concetti e queste idee metafisiche sono state d’aiuto, anche nelle loro forme più primitive, nel portare ordine nell’immagine che l’uomo si fa del mondo e, in alcuni casi, possono aver portato a predizioni dotate di successo “. Tornando alle idee metafisiche, dobbiamo comunque badare che tali teorie, sebbene empiricamente inconfutabili, possano essere criticabili. Criticabili proprio perché esse non sono asserzioni isolate, ma sono collegate, si basano, presuppongono o sono incompatibili con altre teorie o situazioni problematiche. Questo è quanto già facevano i primi filosofi greci che, ammettendo l’acqua o l’aria o altro come elemento primordiale, formulavano congetture che venivano confutate o corrette dai filosofi posteriori. Ecco il senso della affermazione apparentemente paradossale di Popper quando dice: ” Torniamo ai Presocratici! “, intendendo che la discussione critica è l’unico fondamento e l’unica molla della ricerca. Popper fu anche famoso per le sue aspre critiche a marxismo, psicoanalisi e storicismo . La critica di fondo a queste teorie da parte di Popper è quella di essere organizzate in modo tale da sfuggire al rischio della falsificazione; esse sono dottrine onni-esplicative e a “maglie larghe” ossia non suscettibili di sufficiente falsificabilità oppure dirette a “parare” le prove di falsificabilità con continue “ipotesi di salvataggio”. Popper ribadisce invece che una teoria che non può venir confutata da nessun evento concepibile non è scientifica. L’inconfutabilità di una teoria non è affatto per Popper una virtù bensì un vizio. Per quanto riguarda poi lo storicismo, egli specifica che per ” storicismo ” intende tutte quelle teorie che hanno preteso di cogliere il senso globale, oggettivo della storia, ovvero una sorta di destino cui gli individui dovrebbero uniformarsi, accettando la direzione di marcia della società, in tal modo svelata o profetizzata (vedi ad esempio Esiodo, Platone, Comte, Stuart Mill, Hegel, Marx, ecc.). Popper ritiene invece che non esista un senso della storia precostituito rispetto alle interpretazioni e alle decisioni umane poiché la storia assume il senso che gli uomini le danno . Né la natura né la storia possono dirci che cosa dobbiamo fare, essendo noi stessi ad introdurre finalità e significato nella natura e nella storia. Popper rifiuta anche la pretesa di voler parlare ad ogni costo della totalità della storia perché ci si dimentica che, se desideriamo studiare qualcosa, siamo costretti a sceglierne alcuni aspetti; la descrizione è sempre necessariamente selettiva. Inoltre quando lo storicismo crede di poter prevedere il futuro “inevitabile”, dimentica che una previsione, per essere veramente scientifica, deve basarsi su una legge e non su una tendenza; in altre parole, gli storicisti non pongono mente al fatto che la validità delle tendenze, che sono “affermazioni storiche singolari”, presuppone l’indimostrato persistere di certe condizioni iniziali specifiche. In ultimo, Popper ritiene che nello storicismo alberghi una “utopia totalitaria” che porta all’asservimento e alle sofferenze degli uomini. Infatti, se si ritiene che esista un senso o una direzione oggettiva della storia, gli “interpreti ufficiali di essa”, i “portavoce del suo destino” si sentiranno autorizzati a liquidare chiunque si opponga ad esse. Una società aperta è per Popper quella che è basata sull’esercizio critico della ragione, una società che non solo tollera ma stimola, all’interno e attraverso le istituzioni democratiche, la libertà dei singoli e dei gruppi, in vista della soluzione dei problemi sociali, cioè in vista di continue riforme. Questo non vuol però dire che il democratico, proprio perché tale, debba accettare l’ascesa al potere dei totalitari. La domanda da farsi non è per Popper “Chi deve comandare?” bensì :”Come è possibile controllare chi comanda e sostituire i governanti senza spargimento di sangue?” . E’ questa l’impostazione di chi costruisce, perfeziona e difende le istituzioni democratiche a favore della libertà e dei diritti di ognuno e quindi di tutti. L’uguaglianza di fronte alla legge non è un fatto ma deve essere una istanza politica che riposa su una scelta morale. ” La fede nella ragione, anche nella ragione degli altri, implica l’idea di imparzialità, di tolleranza, di rifiuto di ogni pretesa autoritaria “. Affiora così il tema della libertà , centrale in Popper, il quale, non a caso, può essere considerato uno dei massimi esponenti del liberalismo.
“Il liberale ama la tolleranza e la libertà. Il suo amore per la tolleranza è la necessaria conseguenza della convinzione di essere uomini fallibili. Tuttavia, egli è tollerante con i tolleranti, ma intollerante con gli intolleranti. La tolleranza, al pari della libertà, non può essere illimitata, altrimenti si autodistrugge. Infatti, la tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”.
LE TEORIE SCIENTIFICHE
Popper ha descritto la genesi della sua teoria della conoscenza come il risultato di un confronto, da lui operato in età giovanile, tra la teoria della relatività di Einstein, da una parte, e la psicoanalisi e il marxismo dall’altra. Mentre queste ultime si presentano come teorie capaci di spiegare qualunque fenomeno di loro pertinenza e, quindi, come inconfutabili, la teoria di Einstein fornisce l’indicazione di esperimenti possibili che potrebbero confermarla o confutarla. Partendo da questa constatazione, Popper sviluppa nella Logica della scoperta scientifica una delle teorie scientifiche. Le teorie scientifiche sono costituite da asserzioni universali (ipotesi o leggi) e si ritiene che si arrivi ad esse attraverso un processo di induzione , che parte da asserzioni singolari, cioè da resoconti dei risultati di osservazioni o esperimenti. Ma, come già si era chiesto Hume, è giustificabile logicamente l’inferenza di asserzioni universali da asserzioni particolari, per quanto numerose queste siano? Secondo Popper la risposta è no: dal fatto che molti cigni sono bianchi non si può concludere che “tutti i cigni sono bianchi”. Popper respinge, dunque, la logica induttiva; ma così facendo non si elimina ogni distinzione tra al scienza, che è la conoscenza autentica, e la metafisica? In realtà, a suo avviso, è il criterio di verificazione, sostenuto dai neopositivisti, che non fornisce un criterio di demarcazione adeguato tra esse, in quanto consente di concludere che il linguaggio della metafisica è privo di senso ma finisce per distruggere anche le scienze della natura. Esso presuppone, infatti, che solo asserzioni empiriche elementari, cioè resoconti di osservazioni di eventi singolari, permettono di decidere in modo conclusivo della verità o falsità di asserzioni generali, ossia delle leggi scientifiche. Ma se non è logicamente ammissibile l’inferenza da asserzioni singolari a teorie generali, le teorie non potranno mai essere verificate empiricamente; bisogna, dunque, individuare un criterio che permetta di accogliere entro le scienze empiriche anche asserzioni non verificabili. Dal punto di vista della storia delle scoperte scientifiche, alcune idee metafisiche sono state di ostacolo, ma altre, come per esempio l’atomismo, sono state fruttuose. Popper propone, quindi, un altro criterio di demarcazione tra scienza e ciò che non è scienza: si tratta del metodo dei controlli , per cui è scientifico solo un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Tale criterio non esige che un sistema sia capace di essere scelto una volta per tutte ma richiede soltanto che esso possa esser confutato dall’esperienza, cioè sia falsificabile. Popper precisa che la falsificabilità non è un criterio di significato, ovvero non distingue tra quel che ha senso e quel che non ha senso, come avviene con il principio di verificabilità dei neopositivisti, ma traccia una linea di demarcazione all’interno del linguaggio significante. Le asserzioni universali, in cui consistono le teorie, non possono essere derivate da asserzioni singolari, ma possono essere controllate da queste. Il che significa che le asserzioni base, ossia le asserzioni di un fatto singolare (per esempio, che un determinato cigno è nero) possono servire come premesse di una falsificazione. Ma anche queste asserzioni base devono essere controllate inter-soggettivamente; esse, infatti, non hanno quello stato privilegiato di certezza attribuito loro dai neopositivisti. Le osservazioni e gli esperimenti e i resoconti di essi non sono neutrali, ma sono sempre condotti e interpretati alla luce delle teorie. Per questo, secondo Popper, è sempre ingannevolmente facile trovare verificazioni di una teoria: così avviene con il marxismo e con la psicoanalisi, che interpretano ogni fenomeno come verifica positiva della loro teoria. Nella scienza, invece, non possono esserci asserzioni definitive, non più controllabili inter-soggettivamente, ossia non confutabili. Questo non vuol dire che, prima di essere accettata, ogni asserzione scientifica debba essere di fatto controllata, ma solo deve poter essere controllata. Per chiarire in che consista la falsificabilità, Popper precisa che le asserzioni base, che devono servire a falsificare una teoria, hanno la forma di asserzioni singolari esistenziali. La negazione di un’asserzione strettamente universale (per esempio, “Non tutti i corvi sono neri”) equivale a un’asserzione strettamente esistenziale (per esempio, “Esiste almeno un corvo che non è nero”). Le leggi di natura hanno la forma di asserzioni strettamente universali, del tipo: “Tutti i corvi sono neri”, e, quindi, sono esprimibili come negazioni di asserzioni strettamente esistenziali (ossia, “Non esiste alcun corvo che non sia nero”). Le leggi di natura sono pertanto paragonabili a dei divieti: esse, anziché asserire che qualcosa esiste o accade, lo negano. Le asserzioni strettamente universali non sono dunque verificabili, perché la loro verificazione richiederebbe una esplorazione esaustiva del mondo in ogni tempo per stabilire che qualcosa non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. Se invece è vera una sola asserzione singolare che infrange ciò che la legge proibisce o esclude, allora la legge risulta confutata. Questo significa che una teoria è falsificabile se la classe di tutte le asserzioni base, con le quali essa è in contraddizione o che essa esclude o vieta, non è vuota: queste asserzioni base vietate dalla teoria sono dette falsificatori potenziali di essa. Quanto più una teoria vieta, tanto maggiore è il contenuto di informazioni che essa fornisce e ciò è connesso appunto dall’ampiezza della classe dei suoi falsificatori potenziali. Per scegliere tra teorie bisogna, dunque, tener conto del loro grado di falsificabilità, il quale consiste appunto nel numero maggiore o minore di falsificatori potenziali. Le leggi scoperte nell’indagine scientifica sono sempre ipotesi, ma la cosa essenziale non è tanto discutere quanto sia probabile un’ipotesi, bensì valutare a quali controlli e prove ha resistito, mostrando la sua capacità di collaborazione . A determinare il grado di collaborazione interviene più che il numero dei casi a favore, la severità dei controlli, che dipende dalla semplicità dell’ipotesi più semplice, ossia falsificabile in grado più alto, è anche quella corroborabile a un grado più alto. La conclusione di Popper è che solo la confutabilità o falsificabilità distingue le teorie scientifiche dalla metafisica. In questo senso, egli non può essere scambiato per un neopositivista, che si sia limitato a sostituire la verificabilità con la falsificabilità.
IL PROGRESSO DELLA CONOSCENZA
Contrariamente ai neopositivisti, Popper ritiene che la base empirica delle scienze non è qualcosa di assoluto, cosicché non è possibile sostenere che la scienza poggia ” su un solido strato di roccia “. Egli paragona le teorie scientifiche a edifici costruiti su palafitte, che si elevano sopra una palude; quando ci si arresta ad una teoria, non è perché si sia trovato un terreno solido, ma perché si ritiene che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili, almeno per il momento, per reggere la struttura. Da Novalis, egli riprende un’altra metafora che paragona le teorie a reti gettate per catturare quello che chiamiamo il mondo; per catturare il più possibile si cerca, dunque, di rendere la trama delle reti sempre più sottile. Questo avviene attraverso la critica e la sostituzione delle teorie con altre migliori: ” Quel che in ultima analisi – dice Popper – decide del destino di una teoria è il risultato di un controllo” . Grazie a questa dinamica la scienza risulta caratterizzata da un progresso che Popper interpreta sulla falsariga del modello evoluzionistico darwiniano: come la lotta per la vita conduce alla selezione e alla sopravvivenza dei più adatti, così la competizione tra e teorie scientifiche dà luogo ad una selezione della teoria che si dimostra la più adatta a sopravvivere, in quanto sino ad allora è l’unica ad aver superato i controlli più severi e a poter essere controllata nel modo più rigoroso. Tipica della conoscenza scientifica è, pertanto, la sua capacità di crescere e di progredire, non nel senso di accumulare risultati, ma nel senso di sostituire teorie con teorie via via migliori. In vari saggi, successivi alla Logica , Popper illustra la dinamica di questo processo di crescita. La conoscenza, secondo Popper, non parte mai da zero, ha sempre una tradizione alle spalle, cosicché si può dire che ” il progresso della conoscenza consiste principalmente nella modificazione delle nostre conoscenze precedenti “. Le sue fonti possono essere di ogni genere, credenze o miti o osservazioni o teorie, ma nessuna di questi fonti ha un’autorità privilegiata. In opposizione alle epistemologie ottimistiche, secondo le quali la verità è qualcosa di dato che si tratta soltanto di mettere in luce una volta per tutte, e quelle pessimistiche, per le quali la conoscenza è impossibile, Popper sostiene il carattere fallibile della conoscenza umana e la sua possibilità di progredire attraverso la critica: per questo aspetto la sua concezione è denominata fallibilismo . Egli interpreta l’aggettivo critico come sinonimo di razionale; dai primi pensatori greci, i cosiddetti presocratici, la civiltà occidentale avrebbe ereditato, a suo avviso, la tradizione razionalistica , la quale consiste nella discussione critica delle teorie via via avanzate per risolvere i problemi, nell’intento della ricerca della verità. Il punto di partenza nel cammino della conoscenza è sempre dato da problemi per risolvere i quali si avanzano congetture , ossia ipotesi o teorie, le quali vengono sottoposte alla discussione e al controllo, ossia a confutazioni , dalle quali scaturiscono nuovi problemi, che inducono a escogitare nuove e migliori teorie e così via. La verità non è la proprietà definitiva di specifiche teorie, che restano sempre ipotesi o congetture, ma è una sorta di ideale regolativo, che guida il processo di crescita della conoscenza: questo può essere inteso come approssimazione alla verità, nel senso che la massima approssimazione è data dalla teoria meglio controllata sino a quel momento. La verità non può, pertanto, essere confusa con la semplice coerenza interna o non contraddittorietà tra gli enunciati di una teoria o con l’utilità di una teoria come strumento di azione e pressione. Popper ritiene che sia stato merito di Tarski l’aver dimostrato la possibilità di definire la verità come corrispondenza con la realtà . Il fallibilismo di Popper si differenzia da due concezioni alternative della conoscenza umana. La prima, da lui definita essenzialismo , ripone lo scopo della scienza nella scoperta di spiegazioni ultime, le quali consistono nel rispondere alla domanda: “Che cos’è x?”, indicando l’essenza di x. Questa concezione, secondo Popper è dogmatica e incoraggia l’oscurantismo e l’autoritarismo, impedendo l’esercizio della critica e il sollevare nuovi problemi. In questo senso, essa è giustamente respinta dallo strumentalismo , che Popper vede esemplificato in Berkeley e in Mach e nella pratica di molti scienziati contemporanei: per esso le teorie scientifiche sono soltanto strumenti di calcolo e di previsione e non sono affatto guidate dall’intento di pervenire a spiegazioni. Contro quest’ultima concezione, Popper rivendica il carattere conoscitivo e non puramente strumentale delle teorie scientifiche; lo scopo è di condurre a problemi sempre più profondi e interessanti. Ma allora diventa fuorviante, secondo Popper, coltivare l’ideale di una scienza come completamente assiomatizzato e formalizzato ed è futile preoccuparsi soltanto delle parole del linguaggio quotidiano e dei loro significati, come fanno Wittgenstein e i filosofi analitici, anziché della teoria, delle validità, dei ragionamenti e della crescita della conoscenza scientifica. Queste posizioni, infatti, perdono di vista il problema più importante, che è di ” comprendere il mondo, compresi noi stessi e la nostra conoscenza, in quanto parte del mondo “.
LA SOCIETA’ APERTA
Fedele all’ obiettivo di ” comprendere il mondo, compresi noi stessi e la nostra conoscenza, in quanto parte del mondo , Popper elabora, nell’ultima fase della sua riflessione, soprattutto nel volume Conoscenza oggettiva , la concezione dei tre mondi . Una teoria scientifica, per poter essere criticata, deve essere formulata oggettivamente, ossia in termini linguistici: in quanto tale, essa fa parte di quello che Popper chiama il mondo 3. Esso è il mondo dei contenuti oggettivi del pensiero, ormai indipendenti dalla mente umana che li ha prodotti, ossia dagli stati di coscienza del soggetto, che costituiscono a loro volta il mondo 2. Per la loro esistenza autonoma gli oggetti del mondo 3 sono comparabili alle idee platoniche ma a differenza di queste essi sono i risultati dell’evoluzione del linguaggio umano e, quindi, hanno un’origine storica e carattere mutevole. Rispetto a questi mondi si distingue il mondo 1 costituito dagli oggetti fisici. Popper attribuisce ai tre mondi un’esistenza oggettiva: essi sono irriducibili l’uno all’altro, ma possono interagire tra loro. In particolare, è il mondo 3, che, sviluppandosi, retroagisce sugli altri due, determinando effetti imprevedibili. Esso include, oltre alle teorie, anche i prodotti dell’immaginazione, quelli dell’arte e i valori, i quali non sono derivabili dai fatti e non possono esistere senza i problemi, sia inconsci, sia creati dalla mente umana. L’io stesso come persona è una novità che emerge dall’interazione con gli oggetti del mondo 3, ossia con i problemi e con i valori: esso, è dunque, un prodotto culturale e storico. In questo conteso si pone la questione del rapporto tra mente e corpo . Popper respinge il monismo materialistico, che riduce gli stati della mente a stati corporei o, meglio, cerebrali; per questo aspetto, egli è un dualista, ma non nel senso che mente e corpo siano due sostanze, bensì nel senso che tra stati o eventi mentali e stati o eventi corporei esiste un’interazione. In questa interazione tra l’io, come abitante del mondo 3, e il cervello, come abitante del mondo 1, è l’io ad avere la funzione attiva di programmatore del cervello. I risultati raggiunti dall’indagine sui caratteri delle teorie scientifiche sono utilizzati da Popper, già prima e soprattutto durante la seconda guerra mondiale, per esaminare la scientificità delle teorie sulla storia e sulla società, che stanno a fondamento delle varie forme di totalitarismo. In particolare, egli assume ad obiettivo polemico lo storicismo , che egli considera una derivazione della teoria sociale primitiva della cospirazione, cioè la secolarizzazione di una superstizione religiosa, secondo cui tutto quel che accade è risultato dei propositi di determinati individui o gruppi. Propria dello storicismo è, infatti, la credenza che la storia sia una totalità retta da leggi necessarie: in questo senso lo storicismo è chiamato da Popper una forma di olismo (dal greco olon , “tutto”). Due sono i tipi fondamentali di storicismo, a seconda che il cammino della storia sia considerato come un regresso o un progresso necessario: al primo tipo appartiene, per esempio, la filosofia di Platone, al secondo quelle di Hegel e di Marx. Tratto comune a tutti è, però, la convinzione che le leggi dello sviluppo storico possano essere scovate e che consentano di formulare profezie, cioè predizioni certe ad ampio raggio, le quali devono servire da guida all’azione politica. Stando a Popper, esiste una connessione tra storicismo, essenzialismo e totalitarismo: se si ritiene, come fa l’essenzialismo, che la verità possa essere integralmente posseduta, in particolare la verità riguardante lo sviluppo della storia e della società, allora la conseguenza necessaria è l’ autoritarismo , se non fanatismo, fondato sulla convinzione che solo chi è malvagio si rifiuta di riconoscere la verità e di sottomettersi ad essa. A conclusioni analoghe perviene il pessimismo epistemologico: la sfiducia dell’uomo porta all’esigenza di stabilire un’autorità e una tradizione che lo salvino dalla sua follia e dalla sua malvagità. A queste impostazioni corrispondono tipi di società chiusa , di tipo tribale, caratterizzata dal predominio della totalità del corpo sociale sugli individui e da un insieme compatto di credenze indiscutibili, fondate su autorità altrettanto indiscutibili. Ad essa, Popper contrappone, riprendendo una distinzione di Bergson, il modello della società aperta , caratterizzata invece dall’atteggiamento razionale della libera discussione critica. Presupposto di essa è il riconoscimento che dovremo sempre vivere in una società imperfetta e che nessuna società può esistere senza conflitti di valore. In questa situazione, lo Stato appare come un male necessario , ma proprio per questo, come ha sottolineato la tradizione del pensiero liberale cui Popper aderisce pienamente, ad esso non debbono essere attribuiti poteri oltre il necessario. Il vero problema politico non consiste nel chiedersi chi deve comandare, perché a questa domanda non si potrà che rispondere “i migliori” e questo condurrà ad attribuire un’autorità assoluta a quelli che si ritengono i migliori. L’impostazione corretta consiste, invece, secondo Popper, nel chiedersi come sia possibile organizzare le istituzioni politiche in modo che i governanti cattivi o incompetenti non possano fare troppi danni. Come le teorie scientifiche sono sottoposte a controlli ripetuti, così anche il potere deve essere controllato. In questa prospettiva, la democrazia liberale risulta la forma migliore, non perché la maggioranza abbia sempre ragione (anzi, potrebbe scegliere la tirannide), ma perché si tratta del male minore, che consente di sostituire i governi senza fare ricorso alla violenza, proprio come le teorie sono sostituibili grazie alla libera discussione e alla critica. In questo tipo di società, l’agire politico si configura come una tecnologia sociale, che non pretende di riorganizzare globalmente e in maniera definitiva la società, ma affronta via via problemi specifici cercandone le soluzioni più adeguate. Le scienze sociali possono, allora, assumersi il compito di individuare le conseguenze indesiderate delle nostre azioni. Il loro metodo deve consistere, secondo Popper, nell’ analisi situazionale , la quale comprende e spiega le azioni umane particolari come soluzioni relative a specifiche situazioni problematiche, sulla base di determinate scelte di valore.
CONTRO I TOTALITARISMI DI PLATONE E HEGEL
Il primo volume di The Open Society and Its Enemies, The Spell of Plato (La società aperta e i suoi nemici, I, Platone totalitario) è quasi interamente dedicato a un violento attacco contro il platonismo filosofico e politico. Per società chiusa , Popper intende la società tribale, che interpreta se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista, gerarchica, organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia. In essa gli individui non godono di nessuna libertà, ma ciascuno conosce concretamente la proprio posizione e i propri doveri. La società aperta , di contro, è consapevole di essere una costruzione culturale soggetta al cambiamento, ed ospita relazioni astratte ed individualistiche. Platone, pur essendo allievo dell’individualista Socrate, è un nostalgico della società tribale, sia perché è di famiglia aristocratica, sia perché vede nell’incertezza e nella mutevolezza della società aperta una fonte di infelicità: tutto il suo pensiero politico, afferma Popper, può essere ridotto a un progetto totalitario di restaurazione della società chiusa. A questo scopo, Platone si vale di strumenti politici e concettuali reciprocamente connessi:
- essenzialismo metodologico: la scienza scopre la vera natura delle cose, cioè la loro realtà o essenza. Questo è possibile grazie all’intuizione intellettuale, che coglie i modelli delle cose sensibili, cioè idee autonomamente esistenti ;
- collettivismo: gli individui hanno valore solo come parti di una totalità più ampia lo stato inteso come intero (holon). Per questo possono essere usati come pedine al servizio dell’interesse dello stato alla propria conservazione.
- teoria organica o biologica dello stato: per la sua autosufficienza, lo stato è l’individuo perfetto e il singolo cittadino è una sua copia imperfetta. Alcuni sostengono che Platone offre una teoria politica dell’individuo umano. Ma questo dimostra che l’individuo è inferiore allo stato, e lo stato serve come metodo di esplicazione dell’individuo (la città è più grande e più facile da esaminare). Per questo, egli cerca prima la giustizia nella città e poi passa all’individuo. L’uomo è in realtà molti, e la città è unitaria, anzi è l’unità per eccellenza. Le sorti dello stato, che è un intero naturale e non una struttura artificiale, sono identiche a quelle delle sua classe dirigente: per questo il problema fondamentale della politica è: chi deve comandare?
- tecnocrazia: il governo va affidato ai competenti, cioè a coloro che sono in grado di afferrare la vera essenza dello stato .
- “storicismo”: i protagonisti della storia, prevedibile nelle sue grandi linee, sono i grandi collettivi e le grandi idee .
Nella Repubblica Platone proponeva uno stato di stampo comunistico, caratterizzato dall’abolizione di ogni forma di proprietà privata. Popper critica di Platone l’ aver creato uno stato totalitario, che vuole organizzare totalmente la vita dei singoli, la cui vita non conta nulla di per sè, se non in funzione dello stato. Si può portare come esempio il caso che Platone cita in uno dei 10 libri della Repubblica : l’ eugenetica, ovvero è lo stato a scegliere gli individui da far accoppiare in modo tale da avere una discendenza perfetta. Popper, con le sue posizioni liberali, criticava la società di Platone, perfetta e totalitaria , ed era in favore di una società aperta, che avesse la possibilità di correggersi e di migliorare. Popper era del parere che creare una società perfetta fosse impossibile perchè l’uomo stesso è imperfetto per natura. La società aperta è inferiore a quella totalitaria platonica, ma ha conoscenza della propria inferiorità e sa correggersi cambiando in continuazione. Una società perfetta non ha motivo di fare questo. Platone insiste invece sull’immutabilità: la società per lui è perfetta così com’è e non deve assolutamente cambiare. Popper ha però commesso un errore dimenticandosi, nella foga, che Platone parla di un’idea statale e un’idea, per definizione, non è mai realizzabile. E’ solo un punto verso cui muovere. Nelle “ Leggi “, opera incompiuta, Platone delineerà lo “stato secondo”: dal momento che quello delineato nella ” Repubblica ” è puramente ideale, Platone ne tratteggia uno attuabile, dove prende gli aspetti migliori di ogni governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili (questa soluzione piacque molto in seguito ed è considerata il punto di partenza dello stato “misto”) .Il ragionamento di Popper è dunque in parte fuori luogo: se ipotizzassimo la società perfetta, perchè mai dovremmo cambiarla? Perchè cambiare qualcosa di perfetto? Potrebbe cambiare solo in peggio. Lo stato delineato nella ” Repubblica ” è un’utopia ed è interessante notare la distinzione tra i due aggettivi che ne derivano; “utopistico” è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile, ma che per fortuna non lo è: utopistico è il Comunismo ideale.”Utopico” è un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo, che molti credono buono così com’è, imperfetto e migliorabile: il progressista ha un atteggiamento sempre volto al cambiare. Si può dire che il concetto di “utopistico” si avvicini molto a Platone che nelle Leggi fa notare che lo stato così com’è non va bene e ne propone uno “misto”, dal momento che quello ideale-aristocratico è inattuabile. Popper ha invece preso l’idea di Platone utopica di stato per utopistica. Ritornando alla critica di Popper, a Platone contrappone la propria prospettiva, che definisce “umanitaria”. I presupposti epistemologici del suo “umanitarismo” sono l’individualismo e il nominalismo metodologico. Contro l’essenzialismo, il nominalismo sostiene che compito della scienza non è catturare l’essenza delle cose, ma cercare dei nessi esplicativi fra le cose stesse, cui diamo dei nomi solo per comodità funzionale. Contro il collettivismo, l’individualismo tratta la singola persona come elemento fondamentale: per questo, esso non si interroga collettivisticamente sull’essenza dello stato e su ciò che è bene per lo stato come intero, ma chiede: che cosa pretendiamo da uno stato? Perché preferiamo vivere in uno stato ben ordinato piuttosto che nell’anarchia? Che cosa ci proponiamo di considerare come legittimo nell’attività dello stato? Non si tratta di perseguire tecnocraticamente la perfezione dello stato, ma di valutarlo come strumento per la protezione della libertà individuale – anche contro gli stessi governanti. Per questo, il problema strutturale di organizzare lo stato in modo da rendere il suo potere controllabile e da rendere possibili avvicendamenti al governo senza spargimenti di sangue diventa una questione fondamentale. Agli occhi di Popper, anche Hegel si rivela il vate dello stato autoritario, alla pari di Platone. L’interpretazione della filosofia politica hegeliana proposta dal filosofo liberale si colloca in tutt’altra direzione rispetto alla riflessione di Marcuse. Sulla scia di Platone, Hegel sarebbe stato un nemico della società aperta e un profeta del totalitarismo, in quanto sostenitore del carattere assoluto dello stato. Così scrive Popper:
Al fine del di dare al lettore un’idea diretta del culto platonizzante dello stato, proprio di Hegel, citerò pochi passi, ancor prima di cominciare l’analisi della sua filosofia storicistica. Questi passi mostrano che il collettivismo radicale di Hegel dipende tanto da Platone quanto da Federico Guglielmo III, re di Prussia nel periodo critico della Rivoluzione Francese e degli anni immediatamente successivi. La loro dottrina è che lo stato è tutto e l’individuo nulla; infatti quest’ultimo deve tutto allo stato, sia la sua esistenza fisica sia la sua esistenza spirituale. Questo è il messaggio di Platone, del prussianesimo di Federico Guglielmo, e di Hegel.
-“L’universale va creato nello stato” – scrive Hegel – lo Stato è l’Idea Divina quale esiste in terra;
-Deve onorarsi lo Stato come un che di mondano-divino e ritenere che, se è difficile intendere la natura, è anche infinitamente più ostico comprendere lo Stato;
-L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato;
-Si cade facilmente nell’errore di dimenticare l’organismo interiore dello Stato stesso;
-Allo stato compiuto appartiene essenzialmente la coscienza, il pensiero, pertanto lo Stato sa ciò che vuole;
-Lo stato è reale; la vera realtà è necessità: ciò che è reale è necessario in sé;
-Lo Stato esiste per sé stesso;
-Lo Stato è la vita morale concretamente esistente, effettivamente realizzata”.
Questa selezione di affermazioni basta a dimostrare il platonismo di Hegel e la sua insistenza sull’assoluta autorità morale dello stato, che sopravanza ogni moralità personale, ogni coscienza. Si tratta, naturalmente, di un enfatico e isterico platonismo, ma ciò non fa che rendere più evidente il collegamento del platonismo con il totalitarismo moderno. Ci si potrebbe chiedere se, con questi servigi e con la sua influenza sulla storia, Hegel non abbia provato il suo genio. Io non ritengo che questa domanda sia molto importante, dal momento che è soltanto conseguenza del nostro romanticismo il fatto che noi pensiamo tanto in termini di “genio”; e, a parte ciò, non credo che il successo provi alcunché o che la storia sia il nostro giudice; questi dogmi fanno piuttosto parte dell’hegelismo. Ma, per quanto riguarda Hegel, non penso neppure che fosse un uomo di talento. Egli è uno scrittore indigeribile e, come anche i suoi più ardenti apologisti devono ammettere, il suo stile è “indiscutibilmente scandaloso”. E, per quanto riguarda il contenuto dei suoi scritti, egli è eccelso solo nella sua eccezionale mancanza di originalità. Non c’è nulla negli scritti di Hegel che non sia stato detto meglio prima di lui. Non c’è nulla nel suo metodo apologetico che non sia stato preso a prestito dai suoi predecessori apologetici. Ma questi pensieri e metodi presi a prestito da altri egli li consacrò, con convergenza di intenti, ma senza particolare brillantezza, a un solo scopo: combattere contro la società aperta e così servire il suo datore di lavoro, Federico Guglielmo di Prussia. La confusione e lo scardinamento della ragione operati da Hegel in parte risultano necessari come mezzi a questo fine, in parte invece sono una più accidentale ma naturalissima espressione del suo stato d’animo. E tutta la vicenda di Hegel non sarebbe certo degna di essere riferita, se non fosse per le sue più sinistre conseguenze, che mostrano quanto facilmente un clown possa diventare un “creatore di storia”. La tragicommedia della nascita “dell’idealismo tedesco”, nonostante gli orrendi crimini ai quali ha portato, assomiglia, più di qualunque altra, a un’opera buffa, e questi inizi possono aiutarci a spiegare perché è così difficile decidere, a proposito dei suoi più tardi eroi, se sono fuggiti dalla scena delle grandi opere teutoniche di Wangner o dalle farse di Offenbach”.
- (da La società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti, vol.II).
LE CRITICHE AL MARXISMO DI KARL POPPER
A cura di Roberta Musolesi
Opere di riferimento: Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti
Karl Popper, Miseria dello storicismo
Prima di analizzare in dettaglio le critiche che Popper muove nei confronti del pensiero di Marx, è opportuno prendere in considerazione i contributi di Popper stesso in materia di filosofia politica, contributi peraltro sviluppati proprio nelle due opere di riferimento citate.
La peculiarità di queste opere, che si inseriscono nel grande filone del pensiero democratico novecentesco, da Russell a Dewey, consiste nel tentativo di difendere le ragioni della libertà e del pluralismo con argomentazioni di natura epistemologica.
Il primo è più importante bersaglio delle critiche popperiane è rappresentato dallo storicismo, che per Popper non coincide con una specifica corrente di pensiero, bensì con uno schema concettuale attraverso il quale egli allude a tutte le filosofie che hanno preteso di cogliere un senso globale oggettivo alla storia e vi hanno individuato una sorta di destino cui gli individui dovrebbero uniformarsi, accettandone la direzione di marcia e il processo di sviluppo, che viene quindi profetizzato.
La critica che Popper muove nei confronti dello storicismo è riconducibile a due motivi, uno di ordine teorico-metodologico e l’altro di carattere pratico-politico:
1) motivo teorico-metodologico:
– lo storicismo ha la pretesa di cogliere la struttura necessaria che formerebbe l’essenza della storia e del destino dell’uomoà per Popper non esiste un senso della storia precostituito in quanto il senso della storia è quello che gli uomini stessi, mediante la loro azione, le danno. Ne La società aperta e i suoi nemici Popper afferma infatti che né la natura, né la storia possono dirci ciò che dobbiamo fare, in quanto siamo noi ad attribuire finalità e significato alla storia stessa;
– lo storicismo pretende di parlare di totalità o di intero della storia, come accade in Lukacs, mentre, secondo Popper, nella prassi concreta delle scienze e della ricerca, se vogliamo studiare qualcosa, siamo costretti a sceglierne solo alcuni aspetti. Nell’ottica popperiana, come emerge dalla lettura di Miseria dello storicismo, non è possibile studiare o descrivere l’intero mondo o la totalità della natura poiché la descrizione è sempre necessariamente un processo selettivo;
– lo storicismo confonde fra leggi e tendenze. In modo assolutamente analogo a quanto accade, ad esempio, in astronomia nella predizione delle eclissi, lo storicismo pretende di prevedere il futuro degli uomini, partendo dal presupposto che sia possibile anticipare gli sviluppi della storia e le rivoluzioni. Secondo Popper, una previsione, per essere veramente scientifica, deve basarsi non su una tendenza, su un andamento cioè che può perdurare per secoli, ma che può anche mutare repentinamente per qualche decennio, ma su una legge.
2) motivo pratico-politico:
– nello storicismo è sempre annidata un’ideologia totalitaria che produce sottomissione e sofferenza per gli uomini. Se si ritiene infatti che possa darsi un senso oggettivo alla storia, coloro che se ne ritengono gli interpreti e i portavoce non avranno alcuna esitazione a liquidare e a eliminare chiunque si opponga allo svolgimento della direzione inevitabile che la storia stessa deve imboccare.
Lo storicismo, quindi, rigidamente deterministico nella sua pretesa di prevedere “scientificamente” il corso della storia, viene giudicato da Popper pseudoscienza: le filosofie profetiche della storia, come quelle di Hegel o di Marx, sono a suo avviso errate nell’impostazione e mitiche nel contenuto. Inoltre, dal suo punto di vista, la visione storicistica, che presume di cogliere delle leggi generali di sviluppo della società, si accompagna necessariamente ad una forma di esercizio concreto della politica caratterizzato da intolleranza e violenza.
Altro tema delle riflessioni politiche popperiane, che si accompagna alla critica dello storicismo, è l’antitesi fra società chiusa e società aperta, in cui Popper riprende un’analoga distinzione di Bergson e che potrebbe essere così schematizzato:
Società chiusa |
Società aperta |
Organizzata secondo norme rigide di comportamento e basata su un controllo soffocante della collettività sull’individuo
ß
Trova un potente alleato nello storicismo e si evidenzia storicamente in: – Eraclito – Platone: teorico di un modello statale organicistico – Hegel: teorico di un modello statalista antidemocratico – Marx: teorico del collettivismo totalitario |
È fondata sulla salvaguardia della libertà dei suoi membri, garantita da istituzioni percepite e pensate come autocorreggibili, aperte alla critica e alle proposte di riforma, e sulla DOTTRINA DELLA DEMOCRAZIA che prevede:
a) difesa della democrazia, che non è la soluzione perfetta per ogni situazione, in quanto anche in democrazia può darsi eccessiva concentrazione di potere, ma è una delle condizioni necessarie per conoscere e verificare le conseguenze nel sociale delle azioni politiche; b) difesa dell’economia competitiva, ritenuta sia più efficace sul piano concreto rispetto all’economia pianificata, soffocata dalla burocrazia e dello strapotere dello stato, sia più rispondente all’obiettivo prioritario della tutela della libertà; c) strenua difesa della libertà, realizzata evitando forme di governo che comportino un’eccessiva concentrazione di potere |
La difesa della democrazia comporta per Popper la critica dell’atteggiamento rivoluzionario.
Esso sorge, secondo Popper, da un sogno utopistico di perfezione e di armonia che non può fare e meno di generare violenza: l’idea di una società che deve essere necessariamente bella come un’opera d’arte, porta inevitabilmente ad adottare misure violente, in quanto il politico, in virtù di questo ideale estetico, si sente portato a liquidare e ad eliminare le istituzioni esistenti. Al metodo rivoluzionario Popper, che è dichiaratamente e manifestamente contrario all’uso della violenza, ritenuta dal suo punto di vista ammissibile soltanto per abbattere la tirannide ed instaurare la democrazia, contrappone un riformismo gradualista, basato cioè sull’attuazione di interventi limitati e graduali e sul confronto dei risultati previsti con quelli effettivamente raggiunti, prestando inoltre sempre molta attenzione ad individuare le conseguenze di ogni riforma adottata. Il metodo riformista dei “piccoli passi” di Popper presenta dal suo punto di vista, rispetto al metodo rivoluzionario, alcuni evidenti vantaggi:
– non promette “paradisi” che poi alla fine dei fatti si trasformano in inferni;
– non pone fini assoluti tali da giustificare l’impiego dei mezzi più ripugnanti per il loro raggiungimento;
– procede per via sperimentale ed è pronto a correggere mezzi e fini in base alle circostanze concrete;
– riesce e dominare meglio i mutamenti sociali, senza cadere in situazioni difficili ed impreviste, tali da facilitare l’avvento di dittature.
Relativamente ai giudizi espressi da Popper nei confronti del marxismo, egli elabora, in primo luogo, un giudizio positivo nei confronti del pensiero di Marx, che apprezza per la sua onestà intellettuale. Il valore del pensiero marxiano a suo avviso risiede nel tentativo di applicare metodi razionali ai problemi più urgenti della vita sociale del suo tempo: l’interesse che Marx evidenzia nei confronti della società è di ordine pratico e Popper giudica positivamente lo sforzo compiuto da Marx stesso di utilizzare la conoscenza quale mezzo per promuovere il progresso dell’uomo. Ma a questo giudizio positivo fanno seguito numerose critiche, che possono essere ricondotte a due aspetti, la critica al metodo e la critica ai contenuti.
Ø CRITICA AL METODO
Prima di affrontare in dettaglio le critiche che Popper rivolge a Marx rispetto al metodo, è opportuno far riferimento alle principali dottrine epistemologiche di Popper, che rappresentano sicuramente il contributo più significativo del suo pensiero. Le sue riflessioni in questo ambito prendono l’avvio con la critica dell’idea secondo la quale le teorie scientifiche debbono essere viste come costruibili esclusivamente su base fattuale e secondo un procedimento induttivo che va appunto dai fatti alle generalizzazioni.
Popper focalizza l’attenzione, in primo luogo, sul momento della produzione di una nuova teoria. La comparsa di una congettura o di una teoria è a suo avviso accompagnata da elementi intuitivi e fantastici che non è possibile analizzare razionalmente: questo processo non può essere riprodotto artificialmente e non esistono macchine che, anche se opportunamente programmate dall’uomo, siano in grado di sostituire la funzione generativa del genio. D’altra parte, però, secondo Popper, la genesi di una congettura non ha alcun peso per il giudizio che di questa verrà formulato, giudizio che è invece la sola cosa che conta in riferimento alla razionalità. Bisogna quindi operare una distinzione netta fra contesto della scoperta, che è di pertinenza della psicologia della conoscenza, e contesto della giustificazione, in cui, mediante un procedimento di ricostruzione razionale, è possibile vagliare le ipotesi e le congetture, qualunque sia stata la loro genesi. Secondo Popper, sulla base di un luogo comune profondamente radicato, una teoria risulta scientifica nella misura in cui può essere verificata dall’esperienza; il verificazionismo, in realtà, dal suo punto di vista, non è altro che una pura e semplice utopia perché, per verificare completamente una teoria o una legge, occorrerebbe aver presenti tutti i possibili casi, cosa che in concreto non è possibile: da una collezione, per quanto ampia, di casi particolari non potrà mai scaturire una legge universale.
La verificazione non è quindi in grado, secondo Popper, di delineare lo status giuridico di una teoria e il modello di verifica che egli elabora e definisce è basato, al contrario, sul principio di falsificabilità: una teoria è scientifica quando può essere smentita dall’esperienza e quando i suoi enunciati possono risultare in potenziale conflitto con eventuali osservazioni. Una teoria che quindi non possa venir contraddetta da nessuna osservazione non è per Popper in grado di affermare nulla di scientificamente valido sul mondo; al contrario, più numerose sono le possibili esperienze falsificanti, cioè i falsificatori potenziali cui una teoria può far riferimento, più ricco apparirà il suo contenuto empirico e scientifico. Il principio di falsificabilità è il criterio in base al quale Popper separa le scienze dalle pseudoscienze: queste ultime, come il marxismo e la psicanalisi, escono indenni dall’applicazione di ogni forma di verificazione poiché ogni loro tesi, anche la più bizzarra e insolita, viene fatta accordare con i fatti attraverso ragionamenti più o meno sottili. Le pseudoscienze quindi sono sempre verificabili e mai falsificabili e confutabili, mentre, al contrario, le scienze possono essere certamente verificabili, ma saranno vere scienze se saranno anche e soprattutto falsificabili o confutabili. L’inconfutabilità di una scienza non è, per Popper, una virtù di quella scienza, bensì un vizio e il criterio dello stato scientifico di una teoria è pertanto la sua confutabilità.
Relativamente invece alle critiche nei confronti del pensiero marxiano, Marx stesso, afferma Popper, propone il suo pensiero prima di tutto come un metodo, il cui fine sarebbe quello di studiare le cause e gli effetti storici e, sulla base di questi, cercare di formulare una profezia circa l’avvento del socialismo. Il metodo marxiano, quel materialismo storico che, secondo Popper, esprime la più totale fiducia nella predizione scientifica, è caratterizzato da due fondamentali vizi di forma:
– determinismo (à influenza di Laplace): secondo Marx, che per Popper in queste sue affermazioni dimostra di non aver letto correttamente Laplace, la scienza può predire il futuro solo se questo è rigidamente predeterminato; il metodo scientifico quindi, basandosi su un rigido determinismo, può individuare le cause che determinano gli sviluppi sociali. Secondo Popper, invece, scientifico e deterministico non sono sinonimi e non è vero che l’adozione di un metodo scientifico debba necessariamente favorire l’assunzione di una prospettiva di rigido determinismo: è possibile infatti utilizzare un metodo scientifico ed approdare ad un sapere indeterminato;
– confusione fra predizione scientifica (à dall’inglese prediction), che indica in effetti la previsione propria della scienza, e profezia storica generale, che indica le linee di sviluppo complessivo della società, ma che non assume, a differenza della prima, carattere scientifico.
Il materialismo storico di Marx, secondo Popper, in quanto storicismo, quindi convinto della possibilità di prevedere il corso degli eventi storici, e economicismo, fondato cioè sulla convinzione che l’organizzazione economica della società sia fondamentale per tutte le formazioni sociali, presenta alcuni aspetti contraddittori, che lo portano ad essere smentito storicamente e che sono in particolare rappresentati da:
a) incongruenza fra l’evoluzione effettiva della rivoluzione russa e la teoria marxiana del rapporto tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale: secondo Marx, la rivoluzione sociale si evolve secondo le seguenti tappe:
– le condizioni materiali di produzione crescono fino a generare una condizione di conflitto insanabile fra i soggetti che producono e le stesse condizioni materiali;
– comincia la rivoluzione sociale che sconvolge la base economica e con essa quella sociale, politica e culturale, cioè la sovrastruttura;
– si innestano nuovi rapporti di produzione.
Secondo Popper, questa evoluzione non è in alcun modo identificabile e riconducibile agli esiti della rivoluzione russa, cosa che mette in discussione il carattere predittivo di tutta l’impalcatura metodologica di Marx;
b) sopravvalutazione delle condizioni materiali: secondo Popper, l’interazione fra condizioni economiche ed idee non è sempre unidirezionale, nel senso di una dipendenza stretta delle seconde dalle prime, in quanto esistono idee che sono più forti dei mezzi di produzione: se si ammette, per assurdo, che possa essere interamente distrutto un sistema economico, la conoscenza scientifica che permane e sopravvive sarebbe in grado di consentire la completa ricostruzione del sistema economico stesso, ma non vale certamente il percorso contrario;
c) l’economicismo radicale viene smentito dagli stessi sviluppi del marxismo: secondo Popper, infatti, proprio dopo la rivoluzione russa, Lenin si trovò privo di idee veramente valide su cui costruire l’impalcatura economia sovietica e realizzare concretamente la rivoluzione, segno questo che l’abbattimento delle vecchie forme di produzione non conduce necessariamente all’instaurazione di nuove forme e che la struttura economica non è prioritaria rispetto alle idee, ma che sono queste invece ad assumere una posizione di maggiore rilevanza.
Ø CRITICA AI CONTENUTI
Marx, secondo Popper, fu un falso profeta perché nessuna delle sue profezie si è rivelata veritiera e perché ha sviato e confuso molte persone, inducendole a credere che la sua profezia storica, originata e prodotta da un metodo ritenuto autenticamente scientifico di approccio ai problemi sociali, si sarebbe effettivamente avverata. Le critiche di Popper al marxismo non sono in effetti completamente originali, ma sono il frutto di una polemica di lungo periodo, che si evidenzia sullo sfondo della storia del Novecento, in particolare a partire dalla Rivoluzione Russa del 1917. Critiche analoghe e riconducibili a quelle popperiane furono infatti formulate da:
– Weber: non cita direttamente Marx, ma nelle sue critiche si riferisce chiaramente al suo pensiero e al suo metodo, contro cui muove l’accusa di pretendere di dedurre la realtà da leggi astratte, con esclusione di tutto il portato esperienziale della rivoluzione scientifica;
– Sorel: accusa il materialismo storico di rinchiudere la storia nell’ambito di un sistema chiuso di cui darebbe le leggi. Il materialismo storico sarebbe quindi una metafisica che si impone come gabbia della realtà;
– Croce (anni ’30 del Novecento): l’atteggiamento iniziale nei confronti di Marx fu di disponibilità a riconoscerne i meriti teorici, ma poi approda, durante gli anni del fascismo, ad una sorta di liquidazione, fondata sull’idea che tutta la riflessione marxiana fosse in effetti fondata su un grossolano Assoluto economico (à Dio senza religione che si pone come grande artefice della storia) che sostituendo l’idea hegeliana, tirerebbe le fila degli avvenimenti.
Le critiche popperiane alla dottrina di Marx sono riconducibili a:
a) critica alla dottrina marxiana delle classi
b) critica alla dottrina marxiana dello stato
c) critica alla profezia finale dell’avvento del socialismo.
a) critica alla dottrina marxiana delle classi
Secondo Marx, la storia di ogni società è una storia di classi e tutta la storia è storia di lotta di classe. Ciò significa che il destino dell’uomo non è il prodotto della guerra delle nazioni, come affermava anche Hegel, ma è determinato dalla guerra fra le classi sociali. Secondo Marx, che parte dal presupposto che in nessuna società si è mai stati o si è liberi, ci si può liberare ed emancipare dal lavoro produttivo solo facendo fare ad altri, al posto nostro, il lavoro faticoso, rendendo quindi alcuni nostri simili schiavi e dividendo il genere umano in:
– classe dirigente à si libera da vincolo che la lega al lavoro produttivo ed ottiene libertà
– governati à divengono schiavi e la classe dirigente è costretta a combatterli e a reprimerli
I governanti e i governati si trovano quindi, socialmente e storicamente, a combattere gli uni contro gli altri.
Dal punto di vista storico, inoltre, secondo Marx, i sistemi sociali sono poi soggetti a variare col mutare delle condizioni di produzione e pertanto ad ogni periodo di sviluppo economico corrisponde uno specifico sistema sociale. Le relazioni di classe, nell’ottica marxiana, sono indipendenti dalla volontà degli individui: essi sono come “ciechi” perché è il sistema di classe che induce ogni individuo a credere che gli interessi di classe siano i suoi propri interessi; quindi, da questo punto di vista, né l’operaio, né il capitalista hanno colpe e si comportano pertanto così come il sistema li obbliga a comportarsi. Secondo Marx tuttavia, nonostante le classi non possano modificare volontariamente il sistema, tutte contribuiscono alla sua trasformazione: il capitalista, infatti, spingendo l’umanità alla produzione per la produzione, costringe il sistema sociale alla creazione di condizioni materiali di produzione che possono costituire la base reale di una forma superiore di società, il cui principio sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo. Queste condizioni si raggiungono, secondo Marx, attraverso l’autocoscienza, attraverso cioè quel percorso mediante il quale la classe operaia giunge ad acquistare consapevolezza della propria situazione oggettiva di classe e della lotta di classe.
Popper, pur apprezzando Marx per il suo tentativo di usare la logica della situazione di classe per spiegare il funzionamento delle istituzioni proprie del sistema industriale, ritiene la dottrina delle classi sociali una semplificazione:
– eccessiva, in quanto viene interpretata da Marx stesso come “meccanismo inevitabile” di spiegazione delle trasformazioni della società nel suo complesso, in ogni tempo e in ogni luogo, mentre dovrebbe semplicemente porsi come una delle possibili angolazioni da cui spiegare l’evoluzione della società;
– pericolosa, perché porta ad interpretare tutti i conflitti politici in termini di lotta fra sfruttati e sfruttatori
b) critica alla dottrina marxiana dello Stato
Marx non ha scritto nessuna opera di teoria dello Stato in senso stretto, ma ha presentato in tutti i suoi scritti più importanti riflessioni ed annotazioni sull’argomento, riprese nel Novecento dai sostenitori del pensiero marxista.
Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859, Marx afferma molto chiaramente che le diverse forme dello stato non possono essere comprese per se stesse o sulla base dell’evoluzione generale dello spirito umano, ma possono essere effettivamente chiarite solo nel momento in cui vengono ricondotte alle loro radici economiche, cioè ai rapporti materiali di esistenza. Rovesciando pertanto una lunga tradizione culturale, politica e filosofica (vedi Hegel) che vedeva nello stato il punto di arrivo e il pieno compimento di tutte le forme di società pre-statali, Marx considera lo stato come sovrastruttura rispetto alla società civile, che è invece il luogo vero in cui si svolgono e si concretizzano i rapporti materiali di esistenza. Nel Capitale Marx definisce pertanto lo stato come il luogo della violenza concentrata ed organizzata nei confronti della società civile e prospetta un processo che deve necessariamente condurre all’estinzione dello stato stesso e alla sua riduzione a quella che è la sua vera radice, appunto la società civile: è la vita materiale degli individui, cioè il modo di produzione e la forma delle relazioni, che costituisce la base reale dello stato, quindi non è il potere dello stato che crea questi rapporti, ma sono i rapporti stessi che creano lo stato. Lo stato cui si riferisce Marx è ovviamente lo stato moderno, sovrastruttura di una società civile dominata dagli interessi della borghesia. Lo stato borghese, quindi, compresa la democrazia rappresentativa, è per Marx un insieme di apparati istituzionali ed ideologici che sono funzionali alla borghesia stessa per esercitare il suo dominio di classe. Visti in questo modo, lo stato e i suoi meccanismi non possono tuttavia essere considerati strumenti tecnici neutrali, tali cioè da poter essere utilizzati anche a vantaggio del proletariato: lo stato, per Marx, è certamente una macchina, ma non tale da poter essere utilizzata da ognuno (dove “ognuno” si intende ogni classe sociale) a proprio arbitrio, ma risponde sempre e comunque alle necessità della classe dominante, che è portata a forgiare una macchina statale adattata alle proprie esigenze.
Popper cerca, in primo luogo, di individuare le conseguenze della dottrina dello stato di Marx, che sono riconducibili a:
– impotenza della politica nel determinare la realtà economica à tale conseguenza è per Popper paradossale rispetto all’importanza storica che il marxismo ha assunto proprio come stimolatore delle masse nei confronti della partecipazione politica. Secondo Popper, i marxisti potrebbero obiettare a Marx che l’azione politica, lungi dall’essere ininfluente, ha avuto la funzione di:
§ risvegliare la coscienza di classe
§ ottenere migliori condizioni per i lavoratori
– eccessiva valutazione delle dinamiche economiche à secondo Popper, Marx, che ha scoperto, ma anche sopravvalutato, il ruolo delle dinamiche economiche, ha proposto una tesi viziosa secondo cui il denaro potrebbe tutto, anche più del potere fisico o dell’autorità dello stato. Questa tesi, che, secondo lo stesso Popper, può forse essere valida in regime di capitalismo sfrenato, quindi non controllato da parte del potere politico, diventa insostenibile se si ammette un controllo vero e reale del mondo economico da parte del potere politico stesso.
Per Popper, quindi, l’ordine proposto da Marx, potere reale economico – rapporti economici fra le classi – potere politico, deve essere invertito, in quanto il potere politico può e deve controllare il potere economico; quella che secondo Marx è mera libertà formale, cioè la democrazia, diviene in Popper la base di ogni altra libertà, poiché sancisce il diritto di un popolo di giudicare e far cadere il proprio governo. Le proposte che Popper avanza pertanto dal punto di vista politico sono:
– riformismo gradualista: per evitare gli abusi di qualsiasi potere statale occorrono istituzioni che siano in grado di proteggere i cittadini dagli abusi di una libertà illimitata, che distrugge se stessa in quanto implica ed ammette il potere e la supremazia del forte sul debole. I cittadini hanno quindi il diritto di esigere dallo stato protezione dalla violenza fisica e dagli abusi di potere economico;
– interventismo economico: il capitalismo sfrenato deve essere, secondo Popper, pianificato e controllato, sempre nel rispetto della libertà; l’intervento dello stato deve limitarsi perciò a quanto strettamente necessario per la protezione della libertà stessa.
c) critica alla profezia finale dell’avvento del socialismo
Quella che Popper definisce “profezia di Marx” è riconducibile a tre argomentazioni marxiane sviluppate nel Capitale:
I. il metodo di produzione capitalistico, che porta progressivamente ad un incremento della produttività del lavoro connesso con i miglioramenti tecnici e con il moltiplicarsi dei mezzi di produzione, ha come tendenza generale quella di determinare un accumulo di ricchezza sempre maggiore nelle mani di un numero sempre minore di persone, con conseguente aumento della miseria da un lato e della ricchezza dall’altro;
II. tutte le classi intermedie scompaiono, ad eccezione della borghesia dirigente e di una vastissima classe di lavoratori sfruttati; la tensione fra queste due classi porta inevitabilmente alla rivoluzione sociale;
III. l’esito della rivoluzione sociale, la vittoria dei lavoratori sulla borghesia, sarà seguito dall’affermazione di una società senza classi, perché costituita in effetti da una sola classe, il proletariato; in questa società, la società socialista, non vi sarà alcuna forma di sfruttamento.
Popper riprende queste tre argomentazioni, rovesciandone l’ordine, per poter comprendere meglio se le conclusioni derivino effettivamente dalle premesse. Il suo ragionamento si sviluppa nel seguente modo:
III argomentazione
premesse:
1) lo sviluppo del capitalismo porta all’eliminazione di tutte le classi, eccettuate la borghesia ed un immenso proletariato;
2) la miseria in cui versa il proletariato lo induce a rivoltarsi contro la borghesia sfruttatrice
conclusioni:
a) i lavoratori devono vincere la lotta
b) la borghesia viene eliminata
c) si instaura una società senza classi
Secondo Popper le conclusioni a) e b) discendono dalle premesse 1) e 2) perché, senza più una classe di sfruttati che garantiscono la sua sussistenza materiale, lo sfruttatore scompare e muore, mentre lo stesso non accade allo sfruttato, che quindi da questo conflitto esce vincitore. La conclusione c) invece, secondo Popper, non discende necessariamente da nessuna delle premesse perché, anche qualora si ammetta la permanenza di una sola classe, il proletariato, ciò non implica assolutamente che poi questo, vinto il nemico comune rappresentato dal capitalismo, non giunga a dividersi nuovamente in classi.
In definitiva, gli sviluppi storici possibili di una rivoluzione vittoriosa del proletariato possono, per Popper, essere molteplici e il fatto di credere intensamente in uno non significa che questo poi effettivamente e necessariamente si verificherà
II argomentazione
premessa: il capitalismo porta ad un aumento della ricchezza e della miseria
conclusioni:
a) scompaiono tutte le classi, eccetto la borghesia e il proletariato, il quale acquisterà sempre maggiore consapevolezza e sarà quindi sempre più unito
b) la tensione fra borghesia e proletariato porterà inevitabilmente ad una rivoluzione proletaria.
Secondo Popper, né la conclusione a), né la b) discendono dalla premessa e Marx non tiene conto di molti altri possibili sviluppi. In particolare, rispetto alla questione della scomparsa di tutte le classi, eccetto borghesia e proletariato, Popper obietta che tale considerazione può essere valida se applicata alla situazione storica che Marx aveva in mente, cioè il capitalismo e il proletariato industriali, ma non tiene conto degli orientamenti del mondo rurale, che non è detto che debba condividere le scelte del proletariato industriale, di quelli di alcuni settori del proletariato (quella che Marx definiva “plebaglia” perché disposta a vendersi al nemico di classe), che non condividono la coscienza di classe degli stessi proletari, e del fatto che la stessa comune condizione di miseria dei proletari non è detto che debba condurre necessariamente alla fiducia nel successo della rivoluzione.
In conclusione Popper, rispetto alla possibilità della permanenza di due sole classi, borghesia e proletariato, afferma appunto che si tratta di una possibilità fra molte altre e che, come tale, può verificarsi, ma potrebbe anche non darsi.
Rispetto alla conclusione b), che fa riferimento all’inevitabilità della rivoluzione data la crescente tensione fra borghesia e proletariato, Popper critica in primo luogo l’idea della rivoluzione sociale elevata a “concetto storico”, cioè a inevitabile fase di passaggio dal capitalismo al socialismo, che non è detto, tuttavia, come Popper sostiene, che debba darsi necessariamente, e secondariamente la componente violenta legata al concetto di rivoluzione sociale. Popper, che non è contrario alla violenza in senso assoluto, ritiene che qualsiasi rivoluzione debba portare solo all’affermazione della democrazia, intesa, dal punto di vista popperiano, come insieme di istituzioni che permettono il controllo pubblico dei governanti e la loro destituzione da parte dei governati, i quali, a loro volta, attraverso le suddette istituzioni, debbono poter ottenere riforme senza ricorrere alla violenza.
Popper parla, a proposito dell’atteggiamento del marxismo nei confronti della violenza, di “sistematica ambiguità”, aspetto che rappresenta, a suo avviso, l’elemento più dannoso del pensiero marxista stesso; tale ambiguità si manifesta sia nell’atteggiamento generale nei confronti della violenza, che diviene categoria storica dotata del carattere dell’ineludibilità (se lo stato è tirannide esercitata dalla borghesia, la violenza è consentita e pienamente giustificata e tutto ciò che si può e si deve fare è sostituire alla dittatura della borghesia quella del proletariato), sia nel suo possibile impiego: il proletariato, infatti, secondo Popper, potrà servirsi della violenza non solo nella fase di conquista del potere politico, ma anche per la sua conservazione, impedendo, appunto con la violenza, ogni possibile futura trasformazione in senso democratico.
L’ambiguità che si evidenzia nel modo di intendere la violenza ha una corrispondenza storica, secondo Popper, con le posizioni delle diverse correnti del marxismo, riconducibili a:
– ala radicale: ogni governo di classe è necessariamente una dittatura che va rovesciata, anche con la violenza se necessario, per instaurare la dittatura del proletariato;
– ala moderata: i governi controllati dalla borghesia capitalistica possono essere rovesciati pacificamente mediante una politica di riforme pacifiche e graduali.
Secondo Popper, ambedue le posizioni sono contenute e teorizzate nel Capitale, anche se la seconda, quella che prospetta una riforma graduale del capitalismo, è in netta contraddizione con la prima, che prospetta invece la totale distruzione del capitalismo stesso. Alla possibilità di concepire una riforma del capitalismo Marx pare sia giunto, in età matura, in seguito all’analisi e alla valutazione delle riforme sociali in Inghilterra, che riconobbe come l’unico paese in cui la rivoluzione avrebbe potuto essere attuata per intero con mezzi pacifici e legali.
In conclusione, secondo Popper, gli argomenti su cui si basa la profezia marxiana sono validi: se si constata, infatti, in un determinato momento storico, il manifestarsi di una certa tendenza o direzione storica, non è possibile sapere quale aspetto essa potrà assumere in futuro. Secondo Popper, pertanto, ogni cosa è possibile negli affari umani e non si può escludere alcuno sviluppo, anche quelli in contrasto con la tendenza al progresso umano o con altre presunte leggi della natura umana.
Secondo Popper quindi il progresso non è una legge di natura.
Bibliografia
– Karl Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano, 2003
– Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti. Vol. II, Armando, Roma, 2002
– G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia. Vol. D tomo 2, Paravia, Torino, 2000
– D. Massaro, Comunicazione filosofica. Vol. 3 tomo A, Paravia, Torino, 2002
– F. Restaino, Storia della filosofia, vol. 4/2. La filosofia contemporanea: filosofie analitiche e continentali. Utet, Torino, 1999
– M. Vegetti, F. Alessio, F. Papi, Filosofie e società. Filosofia contemporanea, Zanichelli, Bologna, 1992
AFORISMI
FILOSOFIA
Lo sappiano o no, tutti gli uomini hanno una filosofia. Certo, può ben darsi che nessuna delle nostre filosofie valga un gran che, ma la loro influenza sui nostri pensieri e sulle nostre azioni è grande e spesso incalcolabile.
Io credo che tutti gli uomini siano filosofi, anche se alcuni lo sono più di altri.
Tutti gli uomini sono filosofi, perché in un modo o nell’altro assumono un atteggiamento nei confronti della vita e della morte.
Una delle cose che possono capitare ad un filosofo e che questi può annoverare fra le sue più alte conquiste, è di scorgere un enigma, un problema, o un paradosso, non precedentemente rivelato da alcun altro.
La scoperta di un problema filosofico può essere, in qualche modo, definitiva, la si compie una volta e per sempre, ma la sua soluzione non è mai definitiva.
Ritengo che un filosofo dovrebbe innanzitutto filosofare: dovrebbe, cioè, cercare di risolvere problemi filosofici, piuttosto che parlare della filosofia.
Il potere politico delle idee filosofiche…è un fatto che potrebbe davvero scoraggiarci e persino terrorizzarci. Se sostenessimo che quasi tutte le nostre guerre sono…guerre di religione…o persecuzioni ideologico-religiose, non sbaglieremmo. Ma non dobbiamo essere eccessivamente pessimisti. Fortunatamente, sono state proposte anche idee filosofiche buone, umane e sagge.
Sostengo che, in alcune delle più ambiziose scienze sociali e filosofiche…il trucco tradizionale…diventato in buona misura l’inconsapevole ed indiscussa norma, consiste nell’esporre banalità estreme, in un linguaggio altisonante.
L’emergenza della filosofia può essere interpretata come una risposta alla dissoluzione della società chiusa e delle sue credenze magiche…è il tentativo di sostituire una fede razionale, alla fede magica; modifica la tradizione di tramandare una teoria o un mito, fondando…la tradizione di contestare le teorie ed i miti e di discuterli criticamente.
I filosofi hanno mantenuto attorno a sé stessi…una certa aura di magia. La filosofia è considerata come qualcosa di strano e di assurdo, che si occupa di quei misteri di cui si occupa la religione, ma non in modo tale da poter essere “rivelata ai bambini” o alla gente comune.
Io mi spazientisco troppo spesso quando leggo scritti filosofici. Sono dispostissimo ad ammettere che, molto di quanto vi è scritto, non è certo molto meglio di un vuoto balbettio: è un filosofare senza genuini problemi.
La storia dell’antica filosofia greca, specialmente da Talete a Platone, è uno splendido racconto, fin troppo bello per essere vero. In ogni generazione troviamo almeno una nuova filosofia, una nuova cosmologia di sorprendente originalità e profondità.
Non provo orgoglio alcuno di essere chiamato filosofo…(perché) nella lunga storia della filosofia, ci sono più discussioni filosofiche di cui provo vergogna, di quante non siano le trattazioni delle quali possa andare fiero.
Il filosofo…non affronta una struttura organizzata, ma piuttosto qualcosa che ha l’aspetto di un cumulo di macerie (sotto le quali è forse sepolto qualche tesoro).
Come filosofi non possiamo fare niente di meglio che applicare la critica razionale ai problemi che abbiamo di fronte e alle soluzioni avanzate dalle diverse parti.
Alcuni filosofi hanno fatto una virtù del parlare con sé stessi, forse perché si sono convinti che non ci fosse nessuno con cui parlare. Non c’è dubbio che Iddio parli quasi esclusivamente con sé stesso, ma i filosofi dovrebbero sapere che non sono più simili a Dio di quanto non lo siano gli altri uomini.
Basta che la cerchiamo, in una teoria filosofica che deve essere buttata via perché falsa, possiamo spesso trovare un’idea vera, degna di essere conservata.
I grandi filosofi non erano impegnati in una impresa estetica. Non cercavano di essere architetti di un brillante sistema: erano ricercatori di verità, di vere soluzioni di problemi genuini, al pari dei grandi scienziati.
Non sono un materialista, ma ammiro i filosofi materialisti, in particolare i grandi atomisti, Democrito, Epicuro e Lucrezio. Essi furono i grandi illuministi dell’antichità, gli antagonisti della fede nei demoni, i liberatori dell’umanità. Ma il materialismo ha superato sé stesso.
La filosofia, che per venti secoli si è preoccupata del significato dei suoi termini, è, non soltanto piena di verbalismo, ma anche terribilmente vaga e ambigua, mentre una scienza come la fisica, che non si preoccupa tanto dei termini, quanto piuttosto dei fatti, ha conseguito una grande precisione.
Quando uno studente arriva all’Università, non sa quale metro debba applicare, perciò assume il criterio che trova bell’è e pronto. Poiché i criteri intellettuali…autorizzano…la ridondanza e il presunto sapere, anche le teste valide vengono completamente confuse. E gli studenti, irritati dalle false pretensioni della filosofia “dominante”, divengono, a ragione, avversari della filosofia.
Non importa quali metodi un filosofo possa usare, purché abbia un problema interessante e tenti sinceramente di risolverlo.
Come chiunque altro, i filosofi sono liberi di usare qualsiasi metodo per la ricerca della verità. Non esiste un metodo peculiare alla filosofia.
La negazione del realismo porta alla megalomania, la più diffusa malattia professionale del filosofo di professione.
La più grande malattia filosofica del nostro tempo è costituita dal relativismo intellettuale e dal relativismo morale, il secondo dei quali trova, almeno in parte, nel primo il proprio fondamento.
Rifiuto…il dogma che la metafisica debba essere priva di significato…alcune teorie come l’atomismo furono a lungo non controllabili ed inconfutabili e, fino a quel momento metafisiche. Ma, in seguito, divennero parte della scienza fisica.
È un fatto che idee puramente…filosofiche, hanno avuto una grandissima importanza per la cosmologia. Da Talete ad Einstein, dall’atomismo antico alle speculazioni di Descartes, dalle speculazioni di Gilbert, Newton, Leibniz e Boscovic sulle forze, a quelle di Faraday e Einstein sui campi di forze, sono state le idee metafisiche a indicare la strada.
Ritengo di aver confutato l’empirismo classico, la teoria che considera la mente come un secchio e che sostiene che raggiungiamo la conoscenza, aprendo semplicemente gli occhi e lasciando fluire la corrente dei dati, forniti dai sensi o da Dio, in un cervello che provvederà poi a digerirli.
L’empirismo cerca di descrivere la mente…come una tabula rasa, come una lavagna ben pulita o una lastra fotografica non esposta, da incidere con osservazioni. Questa teoria…vede la mente come un secchio ed i sensi come imbuti, attraverso i quali il secchio può venire riempito. Questa tesi è radicalmente errata.
Se i nostri sensi avessero intellettualmente un’importanza così cruciale…allora la mancanza di questi sensi produrrebbe la più grave insufficienza intellettuale. Ma, come dimostra il grande esempio di Helen Keller, non produce niente del genere.
Quanto ai nichilisti ed agli esistenzialisti, che hanno a noia sé stessi (e forse anche gli altri), posso soltanto averne compassione. Devono essere ciechi e sordi, giacché parlano come un cieco dei colori del Perugino, o come un sordo della musica di Mozart.
Non c’è alcun motivo per cui, alcuni intellettuali non debbano, alla fine, riuscire a diffondere la buona novella che il chiasso nichilista era semplicemente molto chiasso per nulla.
Colui che io reputo il miglior conoscitore…di Anassagora, il Professor Felix M. Cleve, è viennese e dovette fuggire a New York, nell’anno 1940, come Anassagora nell’anno 492 prima della nascita di Cristo. Come Anassagora fu spesso attaccato, ma di solito soltanto da altri studiosi. Ma non fu mai espulso da New York.
L’aristotelismo e le filosofie ad esso collegate, ci hanno ripetuto per così lungo tempo, quanto sia importante ottenere una conoscenza precisa del significato dei nostri termini, che siamo tutti inclini a crederci. E continuiamo ad aggrapparci a questa credenza.
FILOSOFI
Aristotele
Noi uomini siamo animali e gli animali non possono avere nessun sapere certo. Questo lo sapevano già i Greci (che dissero): “Gli dèi hanno un sapere certo, epistème; gli uomini hanno solo opinioni, dòxa“. Fu Aristotele a rovinare questa giusta concezione (affermando) che pure noi abbiamo epistème…e, per conseguire tale sapere dimostrabile, egli ha inventato l’induzione. Ma siccome, sulla questione non si sentiva affatto tranquillo, ne ha dato la colpa a
Socrate.
Nell’ottimismo consiste l’unica, importante rettifica introdotta da Aristotele, nella sua sistematizzazione del platonismo.
Scolasticismo, misticismo e sfiducia nella ragione: ecco gli inevitabili risultati dell’essenzialismo…di Aristotele. L’aperta rivolta di Platone contro la libertà diventa, con Aristotele, una rivolta segreta contro la ragione.
Bacone
Quando Bacone cercava di rendere attraente la scienza, sostenendo che la conoscenza è potere…rasentava l’arroganza. Non che avesse una grande conoscenza o molto potere, ma aspirava alla prima, perché voleva il secondo, o almeno questa è l’impressione che dava.
Francesco Bacone si prendeva beffe di coloro che negavano la verità evidentissima che il sole e le stelle rotavano intorno alla terra, che era naturalmente immobile.
Non è affatto valida l’immagine della scienza che di continuo raccoglie osservazioni e da esse, per dirla con Bacone, spreme come dall’uva il vino. L’uva, i chicchi sono…le osservazioni e (quando) questi chicchi vengono pigiati, ecco venir fuori il vino, cioè…la teoria. Questa immagine della scienza è radicalmente falsa.
“Sapere è potere”, diceva Bacone. La sua pericolosa idea dell’uomo che ottiene il potere sulla natura…è stata una di quelle idee, grazie alle quali, la religione della scienza ha trasformato il nostro mondo.
Datemi un paio d’anni liberi da altre incombenze, suggerì incautamente Bacone…e porterò a termine…il compito di copiare l’intero libro della Natura e di scrivere la nuova scienza. Sfortunatamente, Bacone non ottenne la borsa di studio che stava cercando. Le grandi fondazioni non esistevano ancora e la conseguenza fu che, triste a dirsi, la scienza della natura è ancora incompleta.
Né Bacone né Berkeley credettero che la terra ruotasse, mentre oggi lo credono tutti, compresi i fisici.
Bacone e Descartes posero l’osservazione e la ragione come nuove autorità…ma, così facendo, spaccarono l’uomo in due parti: una parte superiore, che ha l’autorità rispetto alla verità, l’osservazione di Bacone, l’intelletto di Descartes ed una inferiore (che) costituisce il nostro io originario, il vecchio Adamo che è in noi.
Eraclito
Nella filosofia di Eraclito si manifesta una delle meno lodevoli caratteristiche dello storicismo, cioè un’insistenza eccessiva sul cambiamento, combinata con la credenza in una inesorabile ed immutabile legge del destino.
Eraclito aveva ragione: “Noi non siamo cose, ma fiamme”…noi siamo, come tutte le cellule, processi di metabolismo, reti di processi chimici, reazioni chimiche altamente attive, accoppiate all’energia.
Erasmo Da Rotterdam
Erasmo da Rotterdam tentò di far rivivere la dottrina socratica: “Conosci te stesso, ed ammetterai quanto poco conosci!”
Ma, questa dottrina, fu spazzata via dalla credenza che la verità è manifesta e dalla nuova confidenza di sé, esemplificata e insegnata, sia pure in modo diverso, da Lutero e Calvino, da Bacone e Descartes.
Fichte
È a Fichte, chiamato da Schopenhauer il parolaio, che deve essere fatta risalire la paternità dell’argomento anti-umanitario originario.
È stupefacente vedere che, grazie alla cospirazione degli schiamazzi, un uomo come Fichte, riuscì a pervertire l’insegnamento del suo maestro, nonostante le proteste di Kant e durante la vita stessa di Kant.
Non ho ancora visto alcuna storia della filosofia dichiarare…che, a giudizio di Kant, Fichte era un impostore disonesto e ciò, benché abbia visto che, molte storie della filosofia cercano di togliere valore alle accuse di Schopenhauer, per esempio insinuando che era invidioso.
Hegel
Hegel, la fonte di tutto lo storicismo contemporaneo, fu diretto seguace di Eraclito, Platone ed Aristotele…fu un gioco da bambini per i suoi efficacissimi metodi dialettici, estrarre veri conigli fisici da cappelli puramente metafisici.
Già da molto tempo ormai non leggo più Hegel, per la semplice ragione che non lo ritengo onesto. Non cerca la verità: vuole impressionare.
Sorge la domanda se Hegel abbia ingannato sé stesso, ipnotizzato dal suo stesso gergo ispirato, oppure se si sia audacemente proposto di ingannare ed incantare gli altri.
Non c’è nulla negli scritti di Hegel che non sia stato detto meglio, prima di lui. Non c’è nulla nel suo metodo apologetico, che non sia stato preso a prestito dai suoi predecessori. Questi pensieri e metodi…egli li consacrò…a combattere contro la società aperta e così, servire il suo datore di lavoro, Federico Guglielmo di Prussia.
Hegel riuscì a provare, mediante metodi puramente filosofici, che i pianeti devono muoversi, secondo le leggi di Keplero…provando che nessun pianeta poteva trovarsi tra Marte e Giove (disgraziatamente gli era sfuggita la notizia che un pianeta siffatto era stato scoperto pochi mesi prima).
Il metodo adottato da Hegel per superate Kant è efficace, ma sfortunatamente lo è troppo. Esso pone il suo sistema al riparo da qualsiasi critica ed è dunque dogmatico, in senso affatto peculiare, cosicché vorrei definirlo un consolidato dogmatismo.
Hegel segnò l’inizio dell’era della disonestà (come Schopenhauer qualificò l’idealismo tedesco) e dell’era della irresponsabilità (come Heiden qualificò l’era del totalitarismo moderno); prima di irresponsabilità intellettuale e poi di irresponsabilità morale.
L’influenza di Hegel…è ancora potentissima…ciò è confermato…dal fatto che l’estrema ala sinistra marxista, il centro conservatore e l’estrema destra fascista, fondano le loro filosofie politiche su Hegel. L’ala sinistra sostituisce alla guerra delle nazioni…la guerra delle classi. L’estrema destra le sostituisce la guerra di razze. Il centro conservatore è…meno consapevole del proprio debito nei confronti di Hegel.
Ai nostri tempi l’isterico storicismo di Hegel è ancora il fertilizzante al quale il totalitarismo deve la sua rapida crescita.
Ho cercato di dimostrare l’identità dello storicismo hegeliano con la filosofia del totalitarismo…lo storicismo di Hegel è diventato il linguaggio di larghe cerchie di intellettuali, anche di candidi antifascisti e uomini di sinistra.
Hegel…è uno scrittore indigeribile e, come anche i suoi più ardenti apologisti devono ammettere, il suo stile è assolutamente scandaloso. Per quanto riguarda il contenuto dei suoi scritti, egli è eccelso soltanto nella sua eccezionale mancanza di originalità.
La vicenda di Hegel non sarebbe certo degna di essere riferita, se non fosse per le sue più sinistre conseguenze, che mostrano quanto facilmente un clown possa diventare un creatore di storia.
Non sembra che sia soltanto un puro caso che Hegel, il quale fece propria tanta parte del pensiero di Eraclito e la trasmise a tutti i moderni movimento storicistici, sia stato un portavoce della reazione contro la Rivoluzione Francese.
La filosofia, che al tempo di Platone aveva rivendicato la propria supremazia sullo Stato, diventa con Hegel la (sua) più servile ancella.
La filosofia dell’identità…è un labirinto nel quale si colgono le ombre di filosofie del passato, di Eraclito, di Platone, di Aristotele, come pure di Rousseau e di Kant e nel quale essi celebrano una specie di sabba delle streghe, pazzamente tentando di confondere ed incantare lo spettatore ingenuo.
L’hegelismo sa tutto su tutto. Ha una risposta pronta per ogni domanda. E, del resto, chi può avere la certezza che la risposta non sia vera?
Molti dei miei amici mi hanno criticato per l’atteggiamento che ho assunto nei confronti di Hegel e per la mia incapacità di vederne la grandezza. Essi, naturalmente, avevano senz’altro ragione dato, che ero proprio incapace di vederla. (E lo sono tuttora).
Hume
Hume…predisse che, a causa dell’astrattezza, del carattere remoto e dell’irrilevanza pratica dei risultati da lui ottenuti, nessuno dei suoi lettori gli avrebbe creduto per più di un’ora.
Il filosofo che per primo scorge un nuovo problema, scuote la nostra pigrizia ed il nostro compiacimento. Egli fa per noi ciò che Hume fece per Kant: ci risveglia dal sonno dogmatico e apre davanti a noi un nuovo orizzonte.
Kant
Kant ci sfida ad usare la nostra intelligenza, anziché affidarci…all’autorità, di un altro. La si dovrebbe considerare una sfida a non accettare, come guida, neppure l’esperto scientifico, addirittura neppure la scienza stessa.
Sebbene fosse un grande ammiratore di Socrate, Kant non fu sufficientemente socratico. Non apprese, a sufficienza, che non sappiamo nulla.
Fu la critica di Kant a tutti i tentativi di provare l’esistenza di Dio che condusse alla reazione romantica di Fichte, Schelling e Hegel.
Kant fa dell’uomo, il legislatore della moralità, proprio come ne fa il legislatore della natura. In tal modo, gli restituisce il suo posto centrale, tanto nella morale, quanto nell’universo. Kant rese all’uomo la morale, così come gli aveva reso la scienza.
Kant credeva che il problema: “Che cosa posso sapere?” fosse una delle tre questioni più importanti che l’uomo potesse porre.
Kant ha mostrato che ogni uomo è libero, non in quanto nato libero, ma perché è nato con…il carico della responsabilità per la libertà della propria decisione.
Soltanto il Terrore di Robespierre insegnò a Kant…che, in nome della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, si potevano commettere i più ripugnanti delitti…tanto ripugnanti, quanto quelli che si commisero all’epoca delle Crociate, dei processi alle streghe o della Guerra dei Trent’anni, in nome del Cristianesimo.
Kierkegaard
Kierkegaard, il grande riformatore dell’etica cristiana…denunciò la moralità ufficiale cristiana del suo tempo, come ipocrisia anti-cristiana ed anti-umanitaria
Platone
Platone era figlio di un’epoca che è anche la nostra. Non dobbiamo dimenticare che è passato soltanto un secolo dall’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti ed ancora meno, dall’abolizione della servitù nell’Europa Centrale.
Platone riconosce soltanto un criterio supremo di giudizio, l’interesse dello Stato. Ogni cosa che lo rafforza è buona…ogni cosa che lo minaccia è cattiva…Le azioni che servono ad esso sono morali, (quelle) che lo mettono in pericolo, sono immorali. Il codice morale di Platone è strettamente utilitario…il criterio della moralità è l’interesse dello Stato…non è altro che igiene politica.
Platone chiede che i filosofi diventino re e che, viceversa, i re…siano filosofi…non penso si tratti di un suggerimento convincente…i filosofi non mi sembrano particolarmente adatti a questo compito.
Contro Platone…si potrebbe sostenere che la sua richiesta è in realtà superflua, dal momento che i filosofi stanno già in ogni modo governando, non ufficialmente, è vero, ma proprio per questo, tanto più di fatto.
Credo che si debba ammettere che, dietro la sovranità del re filosofo, si cela la ricerca del potere. Il bel ritratto del sovrano è un autoritratto.
Il re filosofo è Platone stesso e la Repubblica è la rivendicazione di un potere regale…che pensava gli fosse dovuto, in quanto erede legittimo del martire Crodo, l’ultimo re di Atene, che, secondo Platone, si era sacrificato “per salvare il regno dei figli”.
Quale monumento di umana piccolezza è quest’idea del re-filosofo! Quale contrasto fra essa e la semplicità di Socrate, che ammoniva l’uomo di Stato dal lasciarsi abbagliare dal proprio potere, dalla propria superiorità e dalla propria sapienza e che cercava di fargli capire ciò che conta più di tutto: che noi tutti siamo fragili esseri umani.
Platone tentò di coinvolgere Socrate nel suo grandioso tentativo di costruire la teoria della società bloccata e riuscì, senza difficoltà, nel suo intento, perché Socrate era morto.
Platone guarda alla storia, che è per lui una storia di decadenza sociale, come se fosse la storia di una malattia: il paziente è la società e…l’uomo di Stato…un medico, un guaritore, un salvatore.
Platone ha in mente…qualcosa di assolutamente diverso quando usa il termine di filosofo…il suo filosofo non è il devoto ricercatore della sapienza, ma l’orgoglioso possessore di questa: è un uomo colto, un competente.
Platone ed il suo discepolo Aristotele, proposero la teoria dell’ineguaglianza biologica e morale dell’uomo. I greci ed i barbari sono diseguali per natura, l’opposizione tra essi corrisponde a quella tra padroni naturali e schiavi.
Quando leggo il resoconto col quale Platone, nella sua famosa lezione “Sul Bene“, sconcertò un uditorio incolto, definendo il bene come “la classe del determinato concepita come unità“, ebbene, la mia simpatia è tutta per l’uditorio.
Protagora
Protagora, il primo dualista critico, affermò che la natura non conosce norme e che l’introduzione delle norme è dovuta all’uomo ed è la più importante delle conquiste umane.
Rousseau
Platone…aveva…formulato il suo problema politico chiedendosi: “Chi deve governare? La volontà di chi deve essere legge?” Prima di Rousseau, la risposta era: il principe. Rousseau diede una nuova e più rivoluzionaria risposta. Non il principe, ma il popolo deve governare; non la volontà di un uomo, ma la volontà di tutti.
Russell
Russell (ha) ragione quando attribuisce all’epistemologia, conseguenze pratiche per la scienza, per l’etica e per la politica. Egli dice che il relativismo epistemologico (l’idea che non esiste verità obiettiva) e il pragmatismo epistemologico (l’idea che la verità è identica con l’utilità), sono strettamente connessi con idee autoritaristiche e totalitaristiche.
Senofane
L’intuizione che Senofane avesse anticipato di 2500 anni la teoria del sapere congetturale, mi insegnò ad essere modesto. Ma anche l’idea della modestia intellettuale era stata anticipata quasi altrettanto prima. Proviene da Socrate.
Schopenhauer
(Schopenhauer) scriveva con l’unico desiderio di essere capito e scrisse nel modo più lucido di qualsiasi altro filosofo tedesco. Lo sforzo di farsi comprendere ne fece uno dei pochi grandi maestri della lingua tedesca.
Schopenhauer non è più di moda: la grande moda della nostra epoca post-kantiana e post-razionalistica, è quel che Nietzsche definiva correttamente nichilismo europeo.
Socrate
Socrate era…pronto a criticare qualsiasi forma di governo, per le sue insufficienze…ma riconosce l’importanza dell’assoluta lealtà nei confronti delle leggi dello Stato.
La disponibilità a imparare prova il possesso della sapienza e questa era tutta la sapienza di cui Socrate si proclamava dotato; infatti colui che è pronto a imparare, è consapevole di quanto poco sa.
Socrate era convinto che si può insegnare a chiunque. Nel Menone…(spiega) ad un giovane schiavo una versione…del teorema di Pitagora, con il proposito di dimostrare che, qualsiasi schiavo ignorante, ha la capacità di intendere anche materie astratte.
Socrate non fu un leader della democrazia ateniese, come Pericle, né fu un teorico della società aperta, come Protagora. Egli fu, piuttosto, un critico di Atene e delle sue istituzioni.
La formula di Socrate: “abbiate cura della vostra anima” è un invito all’onestà intellettuale, allo stesso modo che la formula: “conosci te stesso” è da lui usata per suggerirci di tener conto delle nostre limitazioni intellettuali.
La morte di Socrate è l’estrema prova della sua sincerità. La sua impavidità, la sua semplicità, la sua modestia, il suo senso della misura, il suo humour, non lo abbandonarono mai.
(Socrate) dimostrò che un uomo poteva morire, non soltanto per il destino, per la gloria e per altre grandi cose, ma anche per la libertà di pensiero e per un amor proprio, che non ha niente a che fare con la presunzione o con la sentimentalità.
Socrate intravide che la sfiducia o l’odio per la discussione, è connesso con la sfiducia o con l’odio per l’uomo.
La mia teoria del pervertimento ad opera di Platone dell’insegnamento di Socrate, non è così fantastica come può sembrare ai platonici…se il confronto non rendesse troppo onore a Fichte ed a Hegel, si sarebbe tentati di dire: senza Platone non ci sarebbe stato nessun Aristotele e senza Fichte nessun Hegel.
L’atteggiamento critico dei Presocratici precorse e preparò il razionalismo etico di Socrate: la convinzione di questi che la ricerca della verità, attraverso la discussione critica è una condotta di vita, la migliore che conoscesse.
Il discorso di difesa e la morte di Socrate hanno fatto dell’idea di uomo libero, una realtà vivente. Socrate era libero perché il suo spirito non poteva essere soggiogato, era libero perché sapeva che non gli si poteva nuocere.
Wittgenstein
Vi sono (alcuni) che non hanno alcun problema serio, ma che producono…esercitazioni di eleganti metodi. Per loro, la filosofia è applicazione…piuttosto che ricerca. Essi attirano la filosofia nel pantano degli pseudoproblemi e degli intrighi verbali (il pericolo che vide Wittgenstein) o, inducendoci ad applicarci al compito inutile, di smascherare quelli che essi, a torto o a ragione, considerano psuedoproblemi (il tranello in cui Wittgenstein cadde).
Wittgenstein non mostrò alla mosca la strada per uscire dalla bottiglia. Piuttosto, vedo nella mosca, incapace di uscire dalla bottiglia, un impressionante autoritratto di Wittgenstein.
Wittgenstein era un caso wittgensteiniano, così come Freud era un caso freudiano.
FISICI
Copernico
Quel che i precursori di Copernico e poi lo stesso Copernico, affermarono fu che tutto ciò che si può spiegare nel sistema geocentrico, si può ugualmente spiegare nel sistema eliocentrico.
Einstein
Einstein non credeva che la relatività speciale fosse vera, indicò, fin dall’inizio, che poteva essere…soltanto un’approssimazione. Così…procedette ad una ulteriore approssimazione, la relatività generale. E sottolineò che nemmeno questa teoria poteva essere vera, ma che era soltanto un’approssimazione. Di fatto, cercò un’approssimazione migliore per quasi 40 anni, fino alla sua morte.
Io non so se Einstein abbia ragione di fronte a Newton: nessuno lo sa. La cosa sicura è che Einstein ci ha mostrato che Newton doveva possibilmente, o meglio presumibilmente, essere corretto.
La teoria di Einstein ha demolito l’autorità di quella di Newton e con questa, qualcosa di importanza maggiore, l’autoritarismo nella scienza.
(Einstein) criticava e verificava severamente le sue teorie. Diceva che produceva ed eliminava una teoria ogni pochi minuti.
Galilei
Galileo Galilei fu processato dall’Inquisizione e costretto a ritrattare i propri insegnamenti. Ciò causò grande agitazione, per ben duecentocinquanta anni e più. Il caso continuò a suscitare indignazione molto tempo dopo che l’opinione pubblica aveva vinto la sua battaglia e la Chiesa era diventata tollerante nei confronti della scienza.
Keplero
Keplero…non si stancava mai di sottoporre le sue ipotesi a controlli ingegnosi ed estremamente severi…il suo atteggiamento meravigliosamente autocritico (“Che sciocco sono stato”, scrisse), gli permise di portare grandi contributi alla scienza, malgrado il carattere fantastico di alcune delle sue stupende ipotesi.
La confutazione, ad opera di Keplero, dell’ipotesi del moto circolare, sostenuta fino a quel momento (persino da Tycho e da Galileo), porta alle leggi di Keplero e quindi alla teoria di Newton.
Keplero…ha cercato di vedere e spiegare il mondo come un tutto. E questo ci riporta ad Anassimandro, e quindi al 500 a.C.
Newton
La scienza ha avuto inizio dal tentativo audace di comprendere criticamente il mondo in cui viviamo, un’aspirazione antica che si è realizzata con Newton. Si può sostenere che, l’umanità è divenuta pienamente consapevole della propria posizione nell’universo, soltanto a partire da questi.
Newton, che fu uno dei più grandi uomini e probabilmente il maggiore di tutti gli scienziati, ha descritto sé stesso come un ragazzino che raccoglie sassolini e conchiglie sulla spiaggia, mentre davanti a lui si estende una regione ignota: il mare.
Newton ci ha fatto capire per la prima volta, qualcosa dell’universo in cui viviamo. Per la prima volta abbiamo avuto buoni motivi per ritenere di possedere una teoria vera.
Newton…rimase un filosofo e, nonostante il perfezionismo che invade le sue opere, rimase un pensatore critico, un ricercatore che dubitò sempre delle proprie teorie.
FUTURO
Affermo che dobbiamo tracciare una separazione molto netta tra il passato, che noi possiamo e dobbiamo giudicare ed il futuro, che è decisamente aperto e può venir da noi influenzato.
Il futuro è aperto: oggettivamente aperto. Soltanto il passato è fisso. Esso è stato realizzato e pertanto è trascorso.
Il futuro è decisamente aperto. Esso dipende da noi; da tutti noi…da quello che facciamo e faremo, oggi e domani e dopodomani. Quello che facciamo e faremo dipende, a sua volta, dai nostri pensieri e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dalle nostre paure…da come vediamo le possibilità disponibili del futuro. Questo comporta una grande responsabilità.
Dobbiamo avere un atteggiamento completamente differente da quello consistente nel tentativo di fare estrapolazioni dalla storia e, per così dire, andare avanti nel futuro sui binari della storia.
Non dobbiamo atteggiarci a profeti, ma soltanto cercare di agire in modo moralmente giusto e responsabile…(dobbiamo) imparare a guardare il presente correttamente e non attraverso gli occhiali deformanti di una ideologia
Il futuro dipende da noi stessi e noi non dipendiamo da alcuna necessità storica.
Sul treno che mi portava a Londra, nel mio scompartimento, c’erano due studenti, seduti l’uno di fronte all’altro, un ragazzo che leggeva un libro ed una ragazza che leggeva un giornale di sinistra. All’improvviso la ragazza chiese: “Chi è questo Karl Popper?”. E il ragazzo replicò: “Mai sentito nominare”. Ecco la fama. (Poi venni a sapere che nel giornale c’era un attacco a La Società Aperta).
ARTE
Chiunque abbia visto le grandi opere del passato, per esempio quelle di Michelangelo, deve ammettere che vi è un declino dell’arte.
C’è un episodio toccante che riguarda il compositore Joseph Haydn. In età avanzata egli compose “La creazione”…eseguita, per la prima volta, nell’aula magna dell’antica Università di Vienna…dopo aver ascoltato il meraviglioso coro introduttivo, scoppiò in lacrime e disse: “Non sono stato io a scriverlo. Non potrei averlo fatto“. Credo che ogni grande opera d’arte trascenda l’artista.
COMPUTER
I computers sono molto importanti…ma non dovrebbero essere sopravvalutati. Einstein, prima dell’era dei computer, disse: “La mia matita è più intelligente di me“…un computer non è altro che una matita sofisticata…valutiamo, dunque, nelle giuste proporzioni, non soltanto gli uomini, ma anche i computers.
Un computer non è altro che una matita glorificata: una matita più grande, più efficiente e…incredibilmente costosa. È ovvio che non produrremmo queste supermatite incredibilmente costose, se non fossero migliori delle matite ordinarie.
Io non credo che i computers saranno mai in grado di inventare nuovi, importanti problemi, o nuovi valori.
Nulla ci vieta di ammettere l’analogia tra cervello e computer, (ma) si può far notare come il computer sia impotente senza il programmatore.
Sono accadute tante cose incredibili…ma io prevedo che non saremo in grado di costruire computers elettronici, dotati di esperienza soggettiva cosciente.
EPISTEMOLOGIA
Confutazione/Falsificazione/Controllabilità
Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità, o controllabilità.
Una teoria si dirà tanto meglio corroborata, quanto più severi sono i controlli che essa ha superato (e quanto meglio li ha superati).
Ogni confutazione dovrebbe essere considerata un grande successo, non soltanto per lo scienziato che ha condotto la critica, ma anche per quello che ha creato la teoria confutata.
Anch’io preferisco aver ragione ed è proprio (per questo) che preferisco correggermi o, se necessario, essere corretto da altri. Perciò, cerco sempre di scoprire i difetti nei miei stessi argomenti, vale a dire, di criticarli e di confutarli.
Quelli tra di noi che non espongono volentieri le loro idee al rischio della confutazione, non prendono parte al gioco della scienza.
Alcuni pensatori hanno creduto che la verità di una teoria potesse inferirsi dalla sua inconfutabilità. Si tratta però di un errore banale, se si considera che possono esservi due teorie incompatibili, egualmente inconfutabili.
Dato che due teorie incompatibili, non possono essere entrambe vere, dal fatto che entrambe sono inconfutabili, comprendiamo che l’inconfutabilità non comporta la verità.
Giunsi sul finire del 1919, alla conclusione che l’atteggiamento scientifico era l’atteggiamento critico, che non andava in cerca di verificazioni, bensì di prove cruciali…che avrebbero potuto confutare la teoria messa alla prova, pur non potendola mai confermare definitivamente.
L’autocontraddizione è…il principale criterio di falsità, poiché nella critica cerchiamo sempre di scoprire se ciò che viene sottoposto a critica è in contraddizione con qualcos’altro.
Gli esempi classici di come aspettative inconsce possano diventare consce sono: inciampare in un gradino (Pensavo che qui non ci fosse niente), sentire che l’orologio si ferma (Non ero consapevole del suo ticchettio, ma ho sentito quando si è fermato) .Il nostro organismo stava anticipando, inconsciamente, certi eventi, ci siamo resi conto del fatto, soltanto dopo che le nostre aspettative erano state deluse, o falsificate.
Nonostante…io non creda nella possibilità di un criterio di verità, ne ho proposto uno di demarcazione – il criterio di falsificabilità.
Il tentativo è sempre una congettura e…l’errore è sempre una selezione e dunque una falsificazione.
Gli astrologi si (vantano) del fatto che le loro teorie si basano su un enorme numero di verifiche. Questa affermazione non è mai stata seriamente indagata e non vedo motivo per cui non dovrebbe essere vera. Tuttavia, non è affatto interessante sapere quanto spesso l’astrologia sia stata verificata. La questione è se sia mai stata seriamente controllata, mediante sinceri tentativi di falsificarla.
È un tipico trucco degli indovini predire gli eventi in modo così vago che difficilmente le predizioni possono risultare false ed esse diventano perciò inconfutabili.
La psicanalisi non esclude nessun possibile comportamento umano…non afferma che è impossibile…che un uomo faccia una cosa o un’altra, di conseguenza, qualsiasi cosa un uomo faccia, diviene una conferma della teoria psicanalitica.
Se un uomo getta in acqua un bambino e con ciò mette a repentaglio la sua vita….è (un fatto) psicanaliticamente spiegabile quanto…il fatto che quest’uomo getta in acqua un bambino per ucciderlo.
La psicoanalisi può di principio spiegare ogni insolito comportamento umano. Essa, pertanto, non è empiricamente falsificabile, non è controllabile.
Ciò che trovai sorprendente (nella psicanalisi e nell’interpretazione materialistica della storia di Marx), era l’affermazione che esse erano “verificate” o “confermate” da un flusso incessante di evidenza osservativa…Un marxista non poteva guardare un giornale senza trovare…testimonianze che verificavano la lotta di classe e le trovava anche…in ciò che il giornale non diceva. E uno psicanalista…avrebbe detto che trovava le sue teorie verificate ogni giorno…dalle sue osservazioni cliniche.
Induzione
L’idea dell’induzione è legata ad un pregiudizio molto diffuso. “Come sappiamo?”: questo è il problema. La risposta consueta è: “Ebbene, apro gli occhi, mi guardo attorno e quindi so“.
Due dei maggiori scienziati che compresero chiaramente che non esisteva nulla di simile a un procedimento induttivo e che intesero, con chiarezza, la teoria della conoscenza da me ritenuta vera, furono Galileo e Einstein.
Credo che l’asserzione che noi precediamo per induzione sia un vero e proprio mito e che le presunte prove, a favore di questo presunto fatto siano, in parte inesistenti e in parte ottenute interpretando erroneamente i fatti.
Il positivismo non è nient’altro che un’estesa generalizzazione dell’idea di induzione, dal particolare al generale.
La credenza che noi facciamo uso dell’induzione è semplicemente un errore. È una specie di illusione ottica.
Ipotesi ad hoc
Alcune teorie genuinamente controllabili, dopo che si sono rivelate false, continuano ad essere sostenute dai loro fautori…con l’introduzione, ad hoc, di qualche assunzione ausiliare, o con la reinterpretazione ad hoc della teoria, in modo da sottrarla alla confutazione.
(L’ipotesi ad hoc) è sempre possibile, ma essa può salvare la teoria scientifica dalla confutazione, soltanto al prezzo di distruggere, o almeno pregiudicare, il suo stato scientifico. Ho descritto…una tale operazione di salvataggio come una mossa o stratagemma convenzionalistico.
È sempre possibile trovare qualche scappatoia per sfuggire alla falsificazione: per esempio introducendo ad hoc un’ipotesi ausiliaria, oppure trasformando, ad hoc, una definizione.
Teorie/Congetture
Una storia che racconto spesso è quella di una comunità indiana che riteneva la vita sacra, anche quella delle tigri. Di conseguenza, la comunità scomparve ed insieme ad essa, la teoria che la vita delle tigri è sacra. Ma la conoscenza oggettiva è diversa: possiamo sacrificare le nostre teorie al nostro posto.
Lasciamo che le nostre congetture e le nostre teorie muoiano al posto nostro! Dobbiamo ancora imparare ad uccidere le nostre teorie invece di ucciderci l’un l’altro.
Non abbiamo alcun motivo per ritenere la nuova teoria migliore dell’antica…fino a che non abbiamo derivato dalla nuova teoria nuove previsioni, che non potevano ottenersi dalla vecchia.
Una teoria può essere vera anche se nessuno vi crede ed anche se non abbiamo ragioni di pensare che sia vera. Un’altra teoria può essere falsa, anche se abbiamo ragioni comparativamente valide per accettarla.
È sempre difficile interpretare le teorie più recenti, le quali lasciano talora perplessi i loro stessi ideatori, come capitò a Newton.
Tutte le teorie, restano essenzialmente provvisorie, congetturali, o ipotetiche, anche quando non ci sentiamo più in grado di dubitare di esse.
Non vi è dose di ingegnosità che possa assicurare la costruzione di una teoria efficace. Occorre anche la fortuna, come pure un mondo, la cui struttura matematica non sia a tal punto intricata da rendere impossibile qualsiasi progresso.
Si potrebbe dire che è soltanto un accidente storico che una teoria sia confutata dopo sei mesi, anziché dopo sei, o seicento anni.
Una teoria falsa può rappresentare una grande conquista, quanto una vera. Molte teorie false hanno giovato alla ricerca della verità più di altre, meno interessanti, ancor oggi accettate.
Ogni teoria razionale, non importa se scientifica o filosofica, è tale nella misura in cui cerca di risolvere determinati problemi.
Una teoria è comprensibile e ragionevole soltanto in rapporto a una data situazione problematica e può essere discussa razionalmente soltanto discutendo tale rapporto.
Leucippo considera l’esistenza del moto come una parziale confutazione della teoria di Parmenide che il mondo sia pieno e privo di moto. Questo porta alla teoria degli “atomi e del vuoto” (ed) è la base della teoria atomica.
Le teorie scientifiche si distinguono dai miti soltanto in quanto criticabili e suscettibili di modifiche alla luce della critica. Non possono venir né verificate né rese più probabili.
Le teorie sono reti gettate per catturare quello che noi chiamiamo il “mondo”, per razionalizzarlo, per spiegarlo, per dominarlo. Ci sforziamo di rendere la trama sempre più sottile.
Non accade mai che un bel giorno vecchi esperimenti diano risultati nuovi. Ciò che accade è che nuovi esperimenti fanno cadere una vecchia teoria.
Possiamo riassumere l’evoluzione delle teorie col seguente diagramma: P1 TT EE P2. Un problema (P1) dà origine a tentativi per risolverlo con teorie provvisorie (TT). Queste sono sottoposte a un processo critico di eliminazione dell’errore (EE). Gli errori…danno origine a nuovi problemi (P2). La distanza tra il vecchio ed il nuovo problema è spesso molto grande: essa indica il progresso fatto.
Un vecchio paesano delle montagne tirolesi (riteneva) che il tuono fosse il rumore provocato dalla collisione di nuvole e il fulmine, una scintilla molto calda, dovuta alla loro frizione. Non ho dubbi che…questa teoria…debba essere meno sospetta…di quella più sofisticata, adottata dai meteorologi moderni.
Noi non conosciamo, congetturiamo soltanto.
ESPERIENZA
L’esperienza consiste sostanzialmente in questo: che uno ha fatto molti errori e li ha superati
L’esperienza è ciò che dice “no“…i tentativi che non hanno successo e che quindi sono errori, vengono eliminati. Siffatta eliminazione porta, in qualche maniera, a nuovi tentativi.
È l’unicità delle nostre esperienze che…rende le nostre vite degne di essere vissute.
L’esperienza si acquisisce imparando dai nostri errori, piuttosto che accumulando o associando osservazioni.
Non per caso andiamo a inciampare nelle nostre esperienze e neppure le lasciamo scorrere su di noi, come una corrente. Invece, dobbiamo essere attivi: dobbiamo fare le nostre esperienze.
Tramite l’esperienza di gioia e dolore la coscienza viene in aiuto all’organismo nei suoi viaggi di esplorazione, nei suoi processi vitali di apprendimento.
EVOLUZIONE/SELEZIONE NATURALE
Non esiste niente altro, in tutta l’evoluzione animale a noi nota, che si sia trasformato più velocemente del cervello umano.
L’origine e l’evoluzione della conoscenza coincidono con l’origine e con l’evoluzione della vita, entrambe strettamente correlate con l’origine e l’evoluzione della terra.
La teoria dell’evoluzione collega la conoscenza e con essa, noi uomini, col cosmo. Così il problema della conoscenza diventa un problema cosmologico.
L’evoluzione è il prodotto del passato, ma con lo sguardo puntato sull’anticipazione del futuro.
La natura ha lavorato alla vita con uno scalpello tremendamente crudele…ha scolpito tutte le cose che noi ammiriamo nella vita, sotto forma di adattamenti.
La cellula primitiva esiste ancora. Tutti noi siamo la cellula originaria, non si tratta di un’immagine, di una metafora, ma di una verità che va presa alla lettera.
Suppongo che la vita e più tardi la mente…siano apparse in un universo che fino a quel punto ne era privo. La vita…emerse dalla materia inanimata e non sembra del tutto impossibile che un giorno, sapremo come ciò sia avvenuto.
Non abbiamo la più pallida idea del livello evolutivo in cui comparve la mente.
Io considero l’apparizione della mente un evento importantissimo nell’evoluzione della vita. È la mente che illumina l’universo e ritengo importante l’opera di grandi scienziati, come Darwin, proprio perché essa contribuisce molto a questa illuminazione.
IDEE
Le idee sono ciò che l’uomo possiede di più prezioso.
Non abbiamo mai abbastanza idee. Ciò di cui soffriamo è la povertà di idee.
Abbiamo troppo poche idee per la critica delle idee. La critica stessa ha bisogno sempre e di continuo di nuove idee critiche.
Le nuove idee dovrebbero essere considerate preziose e coltivate con attenzione, in particolare, se appaiono…temerarie. Non intendo sostenere che dovremmo accettarle entusiasticamente, soltanto per amore della novità, ma dovremmo guardarci dal sopprimerle, persino nei casi in cui non ci convincano troppo.
Le idee, specialmente le nuove idee, possono essere soltanto l’opera di singoli individui, anche se possono essere chiarite e perfezionate in collaborazione con pochi altri.
Troppi dollari possono dare la caccia a troppo poche idee. Certo il progresso resta possibile, anche in queste sfavorevoli circostanze. Tuttavia, lo spirito della scienza è in pericolo…l’esplosione delle pubblicazioni (può) uccidere le idee, che già troppo rare, vengono sommerse dalla piena
Io penso che le idee siano cose pericolose e potenti e che anche i filosofi abbiano, talora, prodotto idee.
Il mondo è governato dalle idee, idee sia buone che cattive e perciò da chi le idee le produce, vale a dire dai filosofi, per quanto raramente da filosofi professionisti.
La maggior parte delle idee creative sono raggiunte per via intuitiva e quelle che non lo sono, sono il risultato della confutazione critica di idee intuitive.
Credo nel potere delle idee…anche (in quello) delle idee false e pericolose. E credo (nella) battaglia delle idee. È questa una scoperta dei Greci…una delle più importanti invenzioni mai compiute…la possibilità di combattere con le parole, invece che con le armi, è la base stessa della nostra civiltà e di tutte le sue istituzioni legali e parlamentari.
Profeti e anche falsi profeti, possono muovere le montagne; la stessa cosa possono fare le idee, anche se erronee. Fortunatamente, vi sono occasioni in cui è possibile combattere le idee erronee con quelle giuste.
A causa della sua teoria eliocentrica, Aristarco fu accusato di empietà da Cleante. Ma questo non basta a spiegare l’obliterazione di quella teoria. Sappiamo che…fu ripresa, un secolo dopo, da un autorevole astronomo, Seleuco. Eppure, per qualche oscura ragione, soltanto alcune brevi citazioni della teoria sono sopravvissute. Ecco un eclatante caso della nostra incapacità a mantenere vive le idee alternative.
INTELLETTUALI/INTELLETTUALISMO
Perché penso che noi, gli intellettuali, possiamo dare un aiuto? Semplicemente perché…abbiamo provocato i danni più terribili. Lo sterminio di massa in nome di un’idea, di una dottrina, di una teoria. Questa è la nostra opera, la nostra invenzione: invenzione di intellettuali.
Quando dico noi, intendo parlare degli intellettuali, cioè di uomini che sono interessati alle idee, quindi, in particolare, coloro che leggono e forse anche scrivono.
La cosa peggiore è quando gli intellettuali tentano di atteggiarsi a grandi profeti agli occhi dei loro simili e di impressionarli con filosofie oracolari.
Gli intellettuali, ivi compresi gli scienziati, sono soggetti a cadere bocconi davanti alle ideologie e alle mode intellettuali.
Gli intellettuali non sanno niente. La loro immodestia, la loro presunzione è il più grande ostacolo alla pace sulla terra. La speranza più grande è che essi, pur essendo arroganti, non siano così stupidi da non capirlo.
Sono dell’avviso che sia particolarmente importante che gli intellettuali abbandonino ogni tipo di arroganza intellettuale.
La realtà, purtroppo, è che, tra gli intellettuali, è ampiamente diffuso il desiderio di imporsi agli altri e, come dice Schopenhauer, non di istruirli, ma di ingannarli.
Mirare alla semplicità ed alla chiarezza è un dovere morale degli intellettuali: la mancanza di chiarezza è un peccato e la pretenziosità è un delitto.
Ogni intellettuale ha una responsabilità del tutto particolare. Ha il privilegio e la possibilità di studiare. Per questo egli ha contratto il debito, nei confronti dei propri simili, di presentare il frutto del suo studio, nella forma più chiara, più semplice e più dimessa possibile.
Sotto l’idea di ortodossia e di eresia, si celano i vizi più meschini, quei vizi cui gli intellettuali sono particolarmente inclini: arroganza, prepotenza, vanità intellettuale, saccenteria. Sono questi vizi meschini, non grandi vizi, come la crudeltà.
Il dovere di ogni intellettuale…è di non atteggiarsi a profeta.
Vedo nell’intellettualismo, irrazionale e mistico…la sottile malattia intellettuale del nostro tempo…ma, nonostante la sua superficialità, è una malattia pericolosa, a causa dell’influenza che esercita nel campo del pensiero sociale e politico.
Nel 1930, mi divertivo scherzando sul fatto che, molti studenti vanno all’Università, non con la speranza di trovarvi un grande regno del sapere…ma per imparare come si parla in modo incomprensibile e pomposo. Questa è la tradizione dell’intellettualismo.
Non tengo in alcun conto i quozienti intellettuali…questa (è) una delle grandi assurdità del nostro tempo ed è molto probabile che…porterà l’America a perdere la prossima guerra, giacché i generali americani sono scelti in base al quoziente intellettuale.
LIBERTÁ
È chiaro che la mia libertà deve avere dei limiti. Come disse una volta un giudice americano: “Il limite della tua libertà di muovere i tuoi pugni come ti pare e piace è il naso del tuo vicino”.
La compatibilità della mia libertà con la tua, dipende dal fatto che entrambi…rinunciamo ad usare la violenza, l’uno nei confronti dell’altro. Io non ti colpirò con un pugno e tu non colpirai me. Vedi dunque che la nostra libertà è limitata.
Abbiamo bisogno dello Stato e delle sue leggi, per far sì che gli inevitabili limiti della libertà dei cittadini siano uguali per tutti. In tal modo l’idea della libertà conduce inevitabilmente all’idea di uguaglianza.
Il desiderio di libertà è qualcosa di originario…che troviamo già negli animali…e nei bambini piccoli…In campo politico, però, la libertà diventa un problema (perché) la libertà illimitata di ogni singolo, rende impossibile la convivenza umana. Quando sono libero di fare tutto ciò che voglio, allora sono anche libero di derubare gli altri della loro libertà.
Gli uomini considerano (la libertà) come qualcosa di scontato e perdono la vigilanza contro i pericoli che (la) minacciano.
La lotta per la libertà può fallire in molti modi: può degenerare in terrorismo, come accadde nella Rivoluzione Francese e in quella Russa. Può condurre alla più dura schiavitù…la libertà non garantisce il millennio.
Noi non scegliamo la libertà politica perché ci promette questo o quello…(ma) perché rende possibile l’unica forma di convivenza umana…in cui noi possiamo essere pienamente responsabili di noi stessi. Se realizziamo le sue possibilità, ciò dipende da parecchie cose messe insieme e, prima di tutto, anche da noi stessi.
Se allentiamo la vigilanza e se non rafforziamo le istituzioni democratiche, nel momento stesso in cui conferiamo maggior potere alla Stato, mediante la pianificazione interventista, possiamo perdere la nostra libertà e, se la libertà è perduta, tutto è perduto, compresa la pianificazione.
La decisione di opporsi alla schiavitù, non dipende dal fatto che tutti gli uomini sono nati liberi ed uguali…anche se tutti nascessero liberi, alcuni potrebbero tentare di mettere altri in catene. Inversamente, anche se gli uomini nascessero in catene, molti di noi potrebbero invocare la soppressione di queste catene.
L’anarchismo è un’esagerazione dell’idea di libertà.
L’idea di libertà esige che si deve dominare e governare il meno possibile…e tanto poco, quanto ciò è compatibile con le nostre idee di giustizia, di uguaglianza e libertà.
Un male ancora peggiore della contrapposizione tra ricchezza e povertà è la contrapposizione tra illibertà e libertà, tra una nuova classe, cioè la dittatura al potere ed i concittadini sgraditi, messi al bando nei campi di concentramento o altrove.
Quella vaga e non ben afferrabile essenza, chiamata opinione pubblica, è molto spesso più illuminata e saggia dei governi, ma senza i freni di una forte tradizione liberale, rappresenta un pericolo per la libertà.
Non può esservi alcuno sviluppo scientifico senza una libera competizione del pensiero…e non può esservi libera competizione nel pensiero scientifico, senza che vi sia libertà per ogni pensiero.
Non potrebbe esserci niente di meglio che vivere una vita modesta, semplice e libera, in una società egualitaria. Mi ci volle un po’ di tempo per riconoscere che…la libertà è più importante dell’uguaglianza, che il tentativo di attuare l’uguaglianza è di pregiudizio alla libertà e che, se va perduta la libertà, tra non liberi, non c’è nemmeno uguaglianza.
LIBRI
La scoperta di Gutenberg, nel XV secolo ed il grande allargamento del mercato librario, prodotto dalla stampa, portarono ad una analoga rivoluzione culturale: l’Umanesimo.
Nessun libro può essere mai compiuto. Mentre lavoriamo attorno ad esso, impariamo abbastanza da trovarlo immaturo nel momento in cui ce ne distacchiamo.
Ritengo il libro il più importante bene culturale dell’Europa e forse dell’umanità…anche per il ruolo predominante che hanno avuto ed hanno, tuttora, i libri nella mia vita.
La cultura europea vera e propria ebbe inizio con la prima pubblicazione, in forma di libro, delle opere di Omero, che esistevano già da circa trecento anni, ma che, nella loro totalità, erano note soltanto ai declamatori di professione, ai rapsodi omerici.
Atene imparò a leggere, libri vennero ricopiati e pubblicati…immediatamente dopo, Atene divenne la guida delle popolazioni greche nelle guerre di liberazione contro i Persiani. Questa fu, in breve, la nascita dell’idea della libertà e della civiltà europea.
Quel prodigio culturale che fu l’Atene del V secolo a. C. è spiegabile, in gran parte, con la scoperta ateniese del mercato librario e questa scoperta spiega anche la democrazia ateniese.
Ad Atene sorse il primo mercato librario d’Europa. Tutti ad Atene leggevano Omero. Fu il primo sillabario e la prima Bibbia d’Europa. Vennero poi Esiodo, Pindaro, Eschilo ed altri poeti. Atene imparò a leggere e a scrivere. E diventò democratica.
Il ritratto che di me il professor Levinson ha dipinto, mi ha indotto a dubitare della verità del mio stesso ritratto di Platone. Se è possibile ricavare dal libro di un autore vivente, una immagine così distorta delle sue dottrine, che speranza possiamo avere di fare qualcosa che assomigli a un ritratto vero di un autore nato ventiquattro secoli fa?
LINGUAGGIO
Il nostro linguaggio è lungi dall’essere perfetto, ma è straordinariamente efficace. Straordinariamente potente.
Il linguaggio ci permette di dissociarci dalle nostre stesse ipotesi e di valutarle criticamente. Mentre un animale non critico può essere eliminato, assieme con le sue ipotesi, conservate in modo dogmatico, noi siamo in grado di formularle e di criticarle.
La lingua funziona come un riflettore che pone, nel centro del cono di luce, i fatti che descrive. Pertanto, la lingua non soltanto interagisce con la nostra mente, ma ci aiuta anche a vedere cose che mai avremmo visto senza di essa.
Un Robinson Crosue (abbandonato in pieno deserto fin dalla prima infanzia), può essere ingegnoso abbastanza da padroneggiare molte situazioni difficili, ma non saprebbe inventare né il linguaggio né l’arte dell’argomentazione.
Noi stessi e il nostro linguaggio abituale siamo più emotivi che razionali, ma possiamo cercare di diventare un po’ più razionali ed avvezzarci ad usare il linguaggio come uno strumento, non di autoespressione…ma di comunicazione razionale.
Il linguaggio umano ci dà la possibilità di essere non soltanto soggetti, ma anche oggetti del nostro stesso pensiero critico…ciò è reso possibile dal carattere sociale del linguaggio, dal fatto che noi possiamo parlare degli altri e possiamo capirli quando parlano di loro stessi.
La lingua è una delle più importanti istituzioni della vita sociale…come mezzo di comunicazione razionale. L’uso per la comunicazione di emozioni è molto meno importante, perché possiamo comunicare una grande quantità di emozioni, senza dire una parola.
Una delle caratteristiche del linguaggio umano è che noi produciamo costantemente frasi nuove, mai formulate prima e le comprendiamo.
Il progresso più grande e più importante che è stato raggiunto nello sviluppo dell’uomo e che ha fatto dell’uomo l’uomo, è lo sviluppo del linguaggio.
Nostro orgoglio dovrebbe essere l’insegnare a noi stessi, meglio che possiamo, a parlare sempre nel modo più semplice, chiaro e meno pretenzioso possibile ed evitare, come la peste, l’aria di chi possiede una conoscenza troppo profonda, per poter essere espressa con semplicità e chiarezza.
La precisione e l’esattezza non sono valori intellettuali in sé stessi e non dovremmo cercare di essere più precisi o esatti di quanto non sia richiesto dal problema in questione.
Chi non è capace di enunciare qualcosa con chiarezza e semplicità, deve tacere e continuare il proprio lavoro, finché non sarà pervenuto ad una chiara enunciazione.
Ciò che ho chiamato peccato contro il Sacro Spirito è la verbosità, la simulazione di una saggezza che non possediamo. La ricetta: tautologie e banalità condite di assurdità paradossali.
Scrivi ampollosità ardue da capire e aggiungi qua e là banalità. Questo piace al lettore, che è lusingato di ritrovare in un libro tanto profondo pensieri che egli ha già avuto in passato.
Mai litigare sulle parole. I problemi verbali non sono importanti e dovrebbero sempre essere evitati, anche se, sfortunatamente, raramente vengono evitati dai filosofi.
Dovremmo ridurre al minimo il gergo scientifico, quel gergo di cui ciascuno di noi si inorgoglisce come di un’armatura.
Credo che la semplicità e la chiarezza siano valori in sé stesse, ma non che lo siano la precisione o l’esattezza. La chiarezza e la precisione sono obiettivi diversi e, a volte, persino incompatibili.
Dobbiamo smetterla di preoccuparci delle parole e dei loro significati, per preoccuparci invece delle teorie criticabili, dei ragionamenti e della loro validità.
Lo stile delle parole altisonanti, oscure, d’effetto ed incomprensibili, non dovrebbe più essere ammirato, addirittura non dovrebbe più essere tollerato dall’intelletto. Dal punto di vista intellettuale, è irresponsabile.
Chi ha da dire qualcosa di nuovo e di importante, ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente è più facile dello scrivere difficile.
Non possiamo parlare, senza manifestare i nostri sentimenti. Non possiamo comunicare, senza suscitare dei sentimenti nelle altre persone. Pertanto, non possiamo descrivere, senza esprimere noi stessi e senza suscitare sentimenti.
Ricorda che è impossibile parlare in modo tale che tu non possa essere frainteso: ci sarà sempre qualcuno che ti fraintenderà.
Non sono le parole che contano, ma ciò che intendiamo dire per mezzo di esse.
Si comincia a scrivere quando si ritiene di avere la cosa completamente nella mente. Ma quando essa sta lì dopo molte e molte correzioni, è qualcosa di molto diverso da ciò che avevo in mente, e ho imparato molto cercando di scriverla, di correggerla e di migliorarla.
MARX/MARXISMO
La speranza di ridurre la miseria e la violenza e di aumentare la libertà, fu tra i motivi ispiratori di Marx…tuttavia, questi obiettivi non possono essere realizzati con metodi rivoluzionari…(che) possono soltanto…aumentare le sofferenze, generando una più diffusa violenza e distruggendo, inevitabilmente la libertà.
Marx…ci aperse gli occhi e ce li rese più acuti in molti modi. Un ritorno alla scienza sociale pre-marxiana è inconcepibile. Tutti…hanno un debito nei confronti di Marx, anche se non lo sanno. Ciò è particolarmente vero nel caso di coloro (e questo è anche il mio caso) che dissentono dalle sue dottrine.
Marx fece un onesto tentativo di applicare metodi razionali ai più urgenti problemi della vita sociale. Il valore di questo tentativo non risulta compromesso dal fatto che…è, per larga parte, fallito.
Ritengo ciò che ha fatto Marx interessante ed importante. Ma, come tante altre cose, ha avuto conseguenze infelici.
Sono convinto che l’economismo di Marx è sbagliato ed insostenibile. Ritengo che l’esperienza della realtà sociale mostri che l’influenza delle idee può superare in importanza e sostituirsi alle forze economiche.
La sua sincerità nella ricerca della verità e la sua onestà intellettuale distinguono (Marx), a mio giudizio, da molti dei suoi seguaci.
Marx fu…un falso profeta…del corso della storia e le sue profezie non sono risultate vere, ma questa non è la mia accusa maggiore. È molto più importante il fatto che egli sviò un gran numero di persone intelligenti, portandole a credere che la profezia storica sia il modo scientifico di approccio ai problemi sociali.
Marx è responsabile della rovinosa influenza del metodo di pensiero storicista, nelle file di coloro che vogliono far avanzare la causa della società aperta.
Le ricerche economiche di Marx non sfiorano neppure i problemi di una politica economica costruttiva, per esempio della pianificazione economica. Come Lenin riconosce, non si trova neppure una parola sull’economia del socialismo, nell’opera di Marx.
La scena della storia (affermò Marx), è inquadrata in un sistema sociale che ci vincola tutti: è inquadrata nel regno della necessità. (Ma un giorno le marionette distruggeranno questo sistema e realizzeranno il regno della libertà).
Marx fu indotto a ritenere che i lavoratori non possono sperare molto dal miglioramento di un sistema legale che…assicura, parimenti ai ricchi ed ai poveri, la libertà di dormire sulle panchine dei giardini e che minaccia, parimenti agli uni ed agli altri, la condanna, qualora tentino di vivere senza mezzi visibili di sussistenza.
L’ingenua convinzione (di Marx) che, in una società senza classi, il potere dello Stato perda la sua funzione ed “si estingua”, dimostra che egli non ebbe coscienza del paradosso della libertà e che, non comprese mai la funzione che…lo Stato può e deve svolgere, al servizio della libertà e dell’umanità.
Ciò che Marx tenta di dimostrare è che ci sono soltanto due possibilità: che un mondo terribile debba continuare per sempre o che un mondo migliore debba alla fine emergere e non val certo la pena di considerare seriamente la prima alternativa.
Marx visse abbastanza a lungo da vedere realizzate riforme che, secondo la sua teoria, sarebbero state impossibili. Ma egli non riconobbe mai che, questi miglioramenti nella sorte dei lavoratori, erano, nello stesso tempo, confutazione della sua teoria.
Marx parlò di guerra. I suoi avversari lo ascoltarono attentamente, poi cominciarono a parlare di pace e ad accusare i lavoratori di bellicismo. Questa accusa i marxisti non poterono respingerla, dal momento che la guerra di classe era il loro slogan.
Marx vide molte cose nella giusta luce. Se consideriamo la sua profezia che il sistema di capitalismo sfrenato…non sarebbe durato molto a lungo…dobbiamo senz’altro dire che aveva ragione.
Marx aveva ragione quando sosteneva che sarebbe stata la lotta di classe a trasformare (il capitalismo sfrenato) in un sistema economico nuovo. Ma noi dobbiamo…dire che Marx predisse questo nuovo sistema, cioè l’interventismo, sotto il diverso nome di socialismo. La verità è che egli non ebbe il minimo sospetto di quello che stava per avvenire.
La condanna di Marx del capitalismo è una condanna morale….per la crudele ingiustizia ad esso inerente…che si combina con una completa giustizia e correttezza “formale”. Il sistema è condannato perché, costringendo lo sfruttatore a schiavizzare lo sfruttato, li priva entrambi della loro libertà.
Marx evitò di esporre una teoria morale esplicita, perché odiava il predicozzo. Nutrendo un profondo disprezzo per il moralista, che di solito predica bene e razzola male, riluttava a formulare esplicitamente le sue convinzioni etiche.
L’influenza (di Marx) sul Cristianesimo può essere paragonata all’influenza di Lutero sulla Chiesa Romana. Entrambe furono una sfida e portarono ad una controriforma nel campo dei loro avversari, ad una revisione e rivalutazione dei loro criteri etici.
(Marx) era uno di coloro che avevano preso sul serio gli ideali del 1789 ed aveva anche visto quanto spudoratamente poteva essere distorto un concetto come libertà.
Marx…aveva bisogno di una filosofia su cui fondare le proprie opinioni politiche. Possiamo comprendere la sua esultanza nello scoprire che la filosofia dialettica di Hegel poteva essere rivoltata contro il suo stesso ideatore, che la dialettica era propizia ad una teoria politica rivoluzionaria piuttosto che ad una conservatrice ed apologetica.
Tutto quello che è rimasto dell’insegnamento di Marx, fu la filosofia oracolare di Hegel che, nei suoi travestimenti marxisti, minaccia di paralizzare la lotta per la società aperta.
Marx era un razionalista. Come Socrate e come Kant egli credeva nella ragione come base dell’unità del genere umano. Ma la sua dottrina, che le nostre opinioni sono determinate dall’interesse di classe, accelerò il declino di questa fede.
Sia Platone che Marx sognano la rivoluzione apocalittica che trasfigurerà radicalmente il mondo sociale nella sua interezza.
La formula marxiana: “La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi” si adatta allo storicismo di Platone, quasi altrettanto bene che a quello di Marx.
Engels (qualifica) l’Inghilterra, che si era comportata così sconsideratamente da smentire le profezie marxiste, come “la più borghese di tutte le nazioni“.
Il marxismo ha conservato, nel corso dei decenni, il suo atteggiamento dogmatico, ripetendo contro gli oppositori, esattamente gli stessi argomenti originariamente usati dai suoi fondatori.
Si è pensato che i marxisti ragionassero, non in termini di istituzioni, ma di classi. Queste, comunque, non governano mai, non più dei popoli. I governanti sono sempre persone e, a qualsiasi classe appartenessero un tempo, quando sono governanti, appartengono alla classe di governo.
Uno dei punti che condivido…(nel) marxismo è l’insistenza sul fatto che i problemi sociali del nostro tempo sono urgenti ed i filosofi dovrebbero affrontarli, cosicché non dovremmo accontentarci di interpretare il mondo, ma contribuire a cambiarlo.
L’assurdità nella fede comunista è manifesta. Appellandosi alla credenza nella libertà umana, essa ha prodotto un sistema di oppressione senza pari nella storia.
L’incontro col marxismo…mi insegnò tante di quelle lezioni che non ho mai più dimenticato. Mi insegnò la sapienza del detto socratico: “Io so di non sapere“. Mi rese fallibilista ed impresse in me il valore della modestia intellettuale…mi fece consapevole delle differenze esistenti tra pensiero dogmatico e pensiero critico.
Per diversi anni rimasi socialista, anche dopo il mio ripudio del marxismo e se ci fosse stato qualcosa come un socialismo combinato con la libertà individuale, sarei ancor oggi un socialista.
Gli sbagli (del marxismo)…vennero coperti da una quantità enorme di menzogne…supportata dalla violenza e dall’esercizio brutale del potere…accettati come normale regola intellettuale dalla classe comunista russa…Questo universo di menzogne si è compattato in una specie di buco nero intellettuale…(che) possiede la sconfinata forza di inghiottire e distruggere tutto. Scomparve la differenza tra verità e menzogna. Il vuoto spirituale alla fine divorò sé stesso
“Proletari di tutti i paesi unitevi!”: in questa formula si esauriva il programma pratico (dei leaders marxisti). Quando i lavoratori si unirono e si presentò loro l’occasione di assumere la responsabilità di governo e di gettare le fondamenta di un mondo migliore, quando suonò la loro ora, essi lasciarono in secca i lavoratori. I leaders non sapevano cosa fare. Aspettavano l’atteso suicidio del capitalismo.
Nel marxismo l’elemento religioso è inequivocabile. Nell’ora della più profonda miseria, la profezia di Marx diede ai lavoratori un’ispirata fede nella missione e nel grandioso futuro che il loro movimento avrebbe preparato per l’intero genere umano.
(Il marxismo) consiste in una profezia storica, combinata con un appello implicito alla seguente legge morale: Aiuta a provocare l’inevitabile.
Il marxismo (è) la più pura, la più elaborata e la più pericolosa forma di storicismo.
Definendo il marxismo come la più pura forma di storicismo, ho implicitamente affermato che ritengo il metodo marxista estremamente povero.
(Il marxismo) non è una scienza, perché ha infranto la regola metodologica per la quale dobbiamo accettare la falsificazione e si è autoimmunizzato contro le più clamorose confutazioni delle proprie predizioni. Può venire descritto soltanto come un sogno metafisico, congiunto a una realtà crudele.
I marxisti hanno immunizzato il marxismo dalla confutazione fattuale. Hanno trasformato la teoria in dogma. E così proibirono al marxismo di crescere come scienza.
Il marxismo scientifico è morto, ma il suo senso di responsabilità sociale ed il suo amore per la libertà debbono seguitare a vivere.
Il marxismo è morto di marxismo. O, per essere più esatti: il potere marxista è morto a causa dell’infecondità della teoria marxista..
Secondo Marx, tutte le accumulazioni di mezzi di produzione possono essere chiamate capitale, possiamo anche dire che capitalismo è sinonimo di industrialismo. Possiamo, in questo senso, legittimamente definire come capitalismo di Stato, una società comunista nella quale lo Stato è proprietario di tutto il capitale.
Il marxismo è solo un episodio, uno dei tanti errori che abbiamo commesso, nella perenne e pericolosa lotta per costruire un mondo migliore e più libero.
La presa del potere del marxismo per opera di Lenin, trentaquattro anni dopo la morte di Marx, è una ripetizione, quasi puntuale, della conquista del potere di Rousseau, sedici anni dopo la propria morte, per mano di Robespierre.
Dopo un lungo periodo di esperimenti falliti...Lenin decise di adottare misure che significavano, di fatto, un limitato e temporaneo ritorno all’impresa privata.
Dobbiamo sempre tenere presente il fatto che il successo dei comunisti in Russia fu indubbiamente reso possibile, in parte, dalle cose terribili che erano accadute prima della loro salita al potere.
Si consideri…la storia della Russia a partire dal 1917. Ciò che per prima cosa lì è accaduto è la presa del potere, vale a dire, ciò che, secondo la teoria di Marx, sarebbe dovuto accadere per ultimo.
In un’epoca più vicina a noi, quella di Kruscev, alla quale faccio risalire l’inizio del declino sovietico, penso che già più nessuno, all’interno del gruppo dirigente comunista, prendesse la dottrina marxista sul serio, se non come un mezzo per tenere insieme le cose e tirare avanti.
Ci vorranno anni per instaurare un sistema legale nell’ex Unione Sovietica, anni prima che si possa stabilire qualcosa di simile a un mercato libero. E prima di allora vedremo ogni sorta di avventure.
È Gorbaciov che giunge ad una affermazione importante, quando dice: “Voglio fare del popolo dell’Unione Sovietica un popolo normale”.
Eltsin appare dominato, oltre che dall’idea che ha di se stesso, dalla sola preoccupazione di vendicarsi di Gorbaciov.
MEDICINA
I medici fanno continuamente grandi sbagli ed hanno motivi particolari per nasconderlo. Si avanza la pretesa che non lo possano dire perché i pazienti perderebbero la fiducia…Lo ritengo falso. I pazienti sanno benissimo che i medici sbagliano ed avranno maggiore fiducia se i medici lo ammettono apertamente.
Anche se la medicina risulta essere un’arte, è un errore ritenere che possa essere presa come esempio delle scienze naturali, poiché essa è una scienza applicata, piuttosto che una scienza pura.
Il medico ha imparato una sorta di programma delle domande da porre…alcune del tutto generali e (altre) specifiche sulla localizzazione dei dolori e su che cosa non va bene e così via…alcune possibilità vengono escluse…Si tratta di un processo di eliminazione dell’errore…(finché) si arriva ad un piccolo numero di possibilità (e) alla fine rimane la diagnosi.
Vi sono alcuni medici che, entrando in una stanza, possono annusare una diagnosi: hanno una sorta di sesto senso per questo tipo di cose. Ma questo non è così importante. La cosa veramente importante è che la diagnosi consiste, quasi interamente, in un abile processo di prova ed errore
Le persone che assistono un malato, spesso invocano la presenza di un’autorità medica. Ma questa non esiste, per la ragione che il sapere, il sapere certo, è una parla vuota.
Temo che anche i dottori soccombano spesso alla tentazione di far percepire ai propri pazienti il potere che detengono.
La lotta contro la povertà ha prodotto in alcuni paesi uno Stato assistenziale, con una mostruosa burocrazia ed una burocratizzazione quasi grottesca della natura dei medici e degli ospedali, con il risultato che, soltanto parti infinitesimali delle somme spese per l’assistenza, vanno a vantaggio di coloro che ne avevano bisogno.
MITI
I filosofi greci inventarono una nuova tradizione, consistente nell’assumere un atteggiamento critico nei confronti dei miti, nel discuterli, nel non limitarsi a raccontare un mito, ma nell’accettare anche il confronto con colui al quale è stato esposto.
I miti si trasformano e cambiano, nel senso che ci offrono una descrizione sempre migliore del mondo, dei molteplici oggetti osservabili. Essi ci spingono ad osservare fenomeni che non avremmo mai indagato.
Sotto lo stimolo della critica, i miti sono costretti a conformarsi al compito di fornirci un disegno adeguato e più dettagliato, del mondo in cui viviamo.
Gli scienziati (fin dai tempi di Talete, di Democrito, del Timaeus platonico e di Aristarco), hanno osato creare miti che, pur essendo in netto contrasto con il mondo quotidiano dell’esperienza comune, sono tuttavia capaci di spiegare alcuni aspetti di tale mondo.
Secondo (il mito della cornice), tutti gli argomenti devono procedere all’interno di una cornice di assunzioni, così che la cornice stessa resta al di fuori dell’argomentazione razionale. Si potrebbe chiamare questa visione relativismo, poiché implica che, ogni asserzione deve essere considerata relativa a una data cornice di assunzioni.
Il mito della cornice è semplicemente sbagliato. Si può ammettere che la discussione fra persone che condividono posizioni identiche…procederà più facilmente che non (quella) fra persone che hanno posizioni opposte…ma soltanto in quest’ultimo caso la discussione avrà la possibilità di produrre qualcosa di interessante.
In ogni momento ci troviamo imprigionati in una cornice e in un linguaggio…che limitano il nostro pensiero…(ma), in ogni momento, siamo liberi di uscire dalla prigione, criticando il nostro contesto e adottandone uno più ampio e più vero ed un linguaggio più ricco e meno carico di pregiudizi.
Non credo (che), per rendere feconda una discussione, coloro che vi partecipano, debbano avere molto in comune. Al contrario, più diverso è il loro retroterra, più feconda sarà la discussione. Non c’è neppure bisogno di un linguaggio comune per iniziare: se non ci fosse stata la torre di Babele avremmo dovuto costruirne una.
CREDENZE/PREGIUDIZI
Credenze erronee possono avere uno stupefacente potere di sopravvivere per migliaia di anni, a dispetto dell’esperienza.
Dalla ricerca scientifica impariamo che alcune delle nostre idee, l’idea che la terra è piatta e che il sole si muove, sono pregiudizi.
Scopriamo che una delle nostre credenze è un pregiudizio soltanto dopo che il progresso della scienza ci ha portati ad abbandonarla. Non esiste infatti nessun criterio, in grazia del quale potremmo riconoscere i pregiudizi in anticipo, rispetto a questo progresso.
Prendiamo un uomo che creda nella teoria secondo cui la storia è storia della lotta di classe tra proletari virtuosi e capitalisti cattivi. Se crede in questa teoria, allora tutto ciò che osserva od esperisce e tutto ciò che i giornali riportano (o mancano di riportare), sarà da lui interpretato nei termini di questa credenza.
La credenza non è mai razionale: razionale è il sospendere la credenza.
TABU’
Il collasso del tribalismo magico è strettamente connesso con la constatazione che i tabù sono diversi nelle varie tribù, imposti e fatti rispettare dall’uomo e che possono essere violati senza conseguenze spiacevoli, a patto che si riesca a sottrarsi alle sanzioni imposte dagli altri membri della comunità.
Ci liberiamo da un tabù se vi riflettiamo e ci domandiamo consapevolmente se dobbiamo accettarlo o rifiutarlo.
I nostri stessi modi di vita sono ancora condizionati dalla pressione di tabù; tabù alimentari, tabù di belle maniere e molti altri.
Le decisioni personali possono portare all’alterazione dei tabù e anche delle leggi politiche che non sono più tabù.
MODA
Per molti anni ho cercato di contestare le mode intellettuali nella scienza e ancor più in filosofia. Il pensatore alla moda è per lo più prigioniero del proprio conformismo, mentre io considero la libertà…uno dei principali valori che la vita può offrirci, se non il principale.
Le mode sono stupide e cieche, specialmente le mode filosofiche, in esse è inclusa la credenza che la storia sarà il nostro giudice.
Proprio come il pensatore alla moda è prigioniero del suo mondo, l’esperto è schiavo della sua specializzazione, laddove è la libertà dalle mode intellettuali e dalle specializzazioni a rendere possibile la scienza e la razionalità.
L’appello all’autorità degli esperti non dovrebbe essere né giustificato né difeso. Lo si dovrebbe riconoscere, al contrario, per quello che è: una moda intellettuale.
Il senso represso della nostra fallibilità (è) responsabile della deprecabile tendenza a raggrupparci in conventicole ed a marciare dietro a tutto ciò che sembra una moda: ciò fa sì che molti di noi ululino, assieme con i lupi.
Non credo in mode, orientamenti, tendenze, o scuole…penso che la storia dell’umanità si potrebbe descrivere come la storia delle esplosioni di malattie filosofiche e religiose alla moda. Queste mode possono avere un’unica funzione seria: quella di attirare la critica.
Vorrei introdurre la moda della modestia intellettuale, il pensare continuamente a ciò che non sappiamo.
Vi sono mode in filosofia, così come ve ne sono nella scienza. Ma un autentico ricercatore di verità non seguirà le mode, diffiderà di esse e le saprà anche combattere, se necessario.
Resistere a una nuova moda richiede forse tanto coraggio, quanto è stato necessario per crearla.
MONDO
Se i giovani guardano al mondo con la convinzione che sia miserabile ed orribile, diventano infelici, in un mondo che è meraviglioso, ma vivono anche da ingrati, in un mondo in cui avrebbero grandi compiti, in cui ci sono grandi cose da migliorare.
Continuare a dire ai giovani che viviamo in un inferno può rovinare la loro vita per sempre, li si può addirittura uccidere. I sovietici non lo fanno (e questa è forse l’unica cosa che possiamo imparare da loro).
In Occidente viviamo in un mondo che è il migliore, il più giusto, il più assistenziale che ci sia mai stato nella storia. Viviamo nel mondo libero in cui abbiamo le maggiori possibilità, in cui possiamo parlare liberamente. Questo è un mondo che in passato non ci fu mai.
(Cerchiamo) di vedere il mondo…come un luogo meraviglioso che noi giardinieri, possiamo ancora migliorare e coltivare (e cerchiamo) di usare la modestia di un giardiniere esperto, il quale sa che molti dei suoi tentativi falliranno.
C’è almeno un problema cui sono interessati tutti gli uomini che pensano: quello di comprendere il mondo in cui viviamo e quindi noi stessi (che siamo parte di quel mondo) e la conoscenza che ne abbiamo.
Ad uno degli astronauti che partecipò alla prima visita sulla luna, è attribuita una semplice, saggia e bella osservazione…”Ho visto alcuni pianeti nella mia vita, ma datemi sempre la Terra”. Penso che questa non sia soltanto saggezza, ma sapienza filosofica.
Finché viviamo, riceviamo sempre più di quanto ci è dovuto. Per rendercene conto, dobbiamo imparare che il mondo non ci deve nulla.
Io credo che molte cose possono venir spiegate, se ammettiamo che oggi ha preso piede una falsa religione…per cui il nostro mondo…è un inferno.
Il mondo è creativo. E questo risulta palese dal fatto che esso ha creato un Mozart, capace di creare le opere di Mozart.
Non sappiamo come mai siamo vivi su questo meraviglioso, piccolo pianeta e neppure perché dovrebbe esistervi qualcosa come la vita. Ma eccoci qui e abbiamo ogni ragione per stupircene ed esserne grati.
Troppi riformatori si ripropongono di ripulire la tela del mondo sociale (come la chiamò Platone), cancellando tutto e partendo da capo…Se si costruisce da capo un mondo razionale, non c’è ragione di credere che si tratterà di un mondo felice e, neppure che, poiché è progettato, sarà migliore di quello in cui viviamo.
Otto Lilienthal e i fratelli Wright e molti altri hanno sognato di volare e hanno messo in gioco consapevolmente la loro vita, per il loro sogno. Non era la speranza di guadagno che li ispirava, bensì il sogno di una nuova libertà…Era la ricerca di un mondo migliore nella quale Otto Lilienthal perse la vita.
Tutto ciò che vive, ricerca un mondo migliore.
MORALE/ETICA
Il principio di tutta la morale è che nessuno debba ritenere di valere più di qualsiasi altra persona. Sostengo che questo è l’unico principio accettabile, considerando la notoria impossibilità di giudicare imparzialmente sé stessi.
La sofferenza umana propone una sollecitazione morale diretta, cioè la richiesta di aiuto, mentre non c’è alcun invito simile ad accrescere la felicità di un uomo che sta comunque bene.
È nostro dovere aiutare quelli che hanno bisogno, ma non può essere nostro dovere rendere gli altri felici, perché ciò non dipende da noi e troppo spesso significherebbe intrusione nella privacy di coloro per i quali nutriamo così amabili intenzioni.
Il dolore di un uomo non può essere controbilanciato dal piacere di un altro.
Invece della massima felicità per il massimo numero possibile, si dovrebbe chiedere, più modestamente, la minor quantità di sofferenza evitabile per tutti e che la sofferenza inevitabile, come per esempio la fame, sia ripartita il più equamente possibile.
Per fortuna sembra che sia in declino la moralità storicistica romantica della fama. Il milite ignoto lo dimostra. Cominciamo a renderci conto che, il sacrificio può avere un alto e superiore, significato, quando è fatto in maniera anonima.
L’etica si può insegnare ai bambini soltanto fornendo loro un ambiente attraente e buono e, soprattutto, buoni esempi.
Credo…che la verità oggettiva sia un valore…etico, forse addirittura il più alto valore e che la malvagità sia il massimo non-valore.
La natura consiste di fatti e di regolarità e non è né morale né immorale. Siamo noi che imponiamo i nostri standard alla natura e che introduciamo la morale nel mondo naturale, nonostante il fatto che siamo parte di questo mondo.
Una persona agisce razionalmente nella misura in cui è responsabile delle sue azioni (e) ne risponde di fronte agli altri ed a sé stesso. In tal caso la si potrà descrivere come un agente morale ed un io morale.
Il fatto che i valori…morali possano entrare in conflitto, non li invalida. In una situazione possono essere rilevanti, in altre irrilevanti. Possono essere accessibili a certe persone ed inaccessibili ad altre. Ma tutto ciò è diverso dal relativismo, secondo il quale si può difendere qualsiasi complesso di valori.
Non mi chiedo chi fu il primo legislatore etico: sostengo soltanto che siamo noi e noi soli, i responsabili di approvare o respingere certe leggi morali che ci sono proposte; siamo noi che dobbiamo distinguere fra i veri ed i falsi profeti.
(È) moralmente sbagliato non credere alla realtà ed all’infinita importanza della sofferenza umana ed animale ed alla realtà ed all’importanza della speranza umana e dell’umana bontà.
Il campo dell’etica ne guadagna in chiarezza se formuliamo le nostre domande negativamente, cioè se domandiamo l’eliminazione della sofferenza, piuttosto che la promozione della felicità.
Dobbiamo imparare a fare il nostro lavoro ed a compiere i nostri sacrifici per amore di questo lavoro e non per amore della gloria o per evitare il biasimo.
Aiutate i vostri nemici, assistete quanti sono in difficoltà, anche se vi odiano, ma amate soltanto i vostri amici.
OTTIMISMO/PESSIMISMO
Tutto quello che il mio ottimismo, in relazione al presente, può dare per il futuro, è speranza.
Io sono un ottimista, il quale non sa niente del futuro e che pertanto non fa alcuna previsione.
Non dobbiamo essere pessimisti. Non ha alcun senso dire: tutto va male. Il vero problema è: cosa possiamo fare perché le cose vadano un poco meglio? Forse possiamo fare molto poco. Ma ciò che possiamo fare, dobbiamo farlo!
Non so cosa porterà il futuro e non credo a quelli che credono di saperlo. Il mio ottimismo si riferisce a quanto si può imparare dal passato o dal presente. Molte cose furono e sono possibili, nel bene e nel male e noi non abbiamo motivo di abbandonare la speranza per un mondo migliore.
Gli arcigni profeti del pessimismo sono, tra gli intellettuali, quelli che esercitano l’influsso più forte.
Sono un ottimista…in un mondo in cui, tra gli intellettuali, essere pessimisti è diventata la moda imperante.
Ritengo che il nostro tempo non sia così negativo come generalmente si dice, che sia migliore e più bello della sua fama.
Scorgo nel pessimismo, il pericolo più grande e vedo questo pericolo nel continuo tentativo di dire ai giovani che vivono in un mondo cattivo…Guardando alla storia, viviamo nel miglior mondo che si sia fino ad oggi avuto.
Alcuni pessimisti mi hanno fatto notare che Otto Lilienthal, il cultore tedesco del deltaplano, sognò, come Leonardo, un modo di volare affine al volo degli uccelli. Sarebbero certo inorriditi se vedessero il nostro Airbus.
PACE/GUERRA
Ci sono state anche troppe guerre aggressive di religione, sia prima che dopo le Crociate, ma non mi risulta che si sia combattuto una sola guerra per scopi scientifici e ispirata da scienziati.
Quasi tutte le guerre più distruttive sono state guerre di religione o ideologiche, con l’importante eccezione, forse, di quelle di Gengis Khan, a quanto pare sostenitore esemplare della tolleranza religiosa.
Non si può fare una rivoluzione senza causare una reazione.
Il più grande passo verso un mondo migliore e più pacifico è stato compiuto nel momento in cui la guerra delle armi ha cominciato ad essere…sostituita dalla guerra delle parole.
Io vedo unicamente una via alla pace…La via consiste nel far sì che gli intellettuali…diventino più modesti e non tentino di giocare il ruolo di grandi duci. Nessuna nuova ideologia, nessuna nuova fondazione di religioni. E al posto di tutto ciò: “Un po’ di modestia intellettuale”.
Voglio…portare l’attenzione sul fatto che il grande problema di creare la pace perpetua sulla terra, non è un problema irrisolvibile.
Ossessionati dal ricordo delle due guerre mondiali e dalla minaccia di una terza, siamo tutti inclini a sottovalutare qualcosa di importante, il fatto che a partire dal 1918, tutta l’Europa ha riconosciuto l’idea di pace come fondamentale.
Allo stato attuale il disarmo unilaterale è ancora una follia…Penso che, il disarmo unilaterale e tutti gli atti in suo favore, abbiano favorito lo scoppio di tutte e due le guerre mondiali.
Hiroshima e Nagasaki hanno mostrato che, se soltanto una delle due parti in conflitto, possiede bombe atomiche, può darsi che questa parte, decida di usarle per porre termine al conflitto (se possibile, prima che l’altra parte decida di costruire, o di ricostruire, un arsenale atomico).
La bomba nucleare ci ha dimostrato la futilità del culto della scienza, intesa come strumento di dominio sulla natura…ha dimostrato che questo dominio…può autodistruggerci, renderci schiavi anziché liberi, se non addirittura annientarci tutti quanti.
La bomba atomica ha conseguito qualcosa di buono: per la prima volta nella storia dell’umanità nessuno più vuole la guerra, né in Occidente né in Russia.
Non c’è nulla sotto il sole di cui non si possa abusare e di cui non si sia abusato. Anche l’amore può diventare strumento di assassinio e del pacifismo si può fare una delle armi di una guerra aggressiva.
Non sono contrario, in tutti i casi e in tutte le circostanze, alla rivoluzione violenta. Credo…che, sotto una tirannide, può davvero non esserci altra…ma anche che, qualsiasi rivoluzione del genere, debba avere come scopo soltanto l’instaurazione di una democrazia.
Una rivoluzione violenta che cerchi di ottenere più che la distruzione della tirannide ha almeno altrettante probabilità di dar vita a un’altra tirannide che di raggiungere i suoi reali obiettivi.
Le rivoluzioni violente uccidono i rivoluzionari e corrompono i loro ideali. I sopravvissuti sono soltanto i più abili specialisti dell’arte di sopravvivere.
Trovo tragico che l’Europa abbia posto attenzione quasi sempre all’esempio malriuscito della Rivoluzione Francese…mentre non ha affatto preso in considerazione…il grandioso esempio della Rivoluzione Americana.
Il fatto che siamo in grado di prevedere le eclissi, non è una buona ragione per aspettarci di poter prevedere le rivoluzioni.
PARADOSSI
Un paradosso poco preso in considerazione è il paradosso della democrazia o, più precisamente, del governo maggioritario, cioè la possibilità che la maggioranza decida che il governo venga affidato ad un tiranno.
Il paradosso della libertà può essere espresso affermando che la libertà illimitata porta al suo contrario, dato che, senza la sua protezione mediante la legge, la libertà finisce col portare ad una tirannide dei forti sui deboli.
La libertà, nel senso dell’assenza di qualsiasi controllo restrittivo, deve portare ad un’enorme restrizione, perché rende i prepotenti liberi di schiavizzare i mansueti. Questa idea, in una forma un po’ diversa e con una tendenza del tutto diversa, è chiaramente espressa da Platone.
La tolleranza illimitata deve portare alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza, anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante, contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi (Paradosso della tolleranza).
Supponiamo che qualcuno un giorno dica: “Tutto quello che dico oggi è una menzogna” o, più precisamente: “Tutte le affermazioni che faccio oggi sono false” e che non dica nient’altro per tutto il resto della giornata. Se ci chiediamo se ha detto la verità, ecco che cosa troviamo. Se partiamo dalla supposizione che quanto ha detto è vero, allora arriviamo, considerando quanto ha detto, al risultato che deve essere falso. Se partiamo invece dalla supposizione che quanto ha detto è falso, allora dobbiamo concludere, considerando quanto ha detto, che è vero (Paradosso del mentitore)
Non c’è soltanto un paradosso della libertà, ma anche un paradosso della pianificazione dello Stato. Se pianifichiamo troppo, se diamo troppo potere allo Stato, allora la libertà andrà perduta e ciò significherà la fine della pianificazione.
PEDAGOGIA
La nostra pedagogia consiste nel riversare nei fanciulli risposte senza che essi abbiano posto domande e alle domande che pongono, non si dà ascolto.
Risposte senza domande e domande senza risposte. In ciò consiste essenzialmente la nostra pedagogia.
Il nostro mondo è minacciato da un’educazione folle. Su di essa dobbiamo davvero agire e, una volta che avremo proceduto a realizzare un’educazione molto responsabile, potremo tornare ai giorni in cui la violenza era un fatto raro.
Fino a quando molti insegnanti sono insegnanti amareggiati, amareggeranno i bambini e li renderanno infelici.
Poiché riflettevo sulle mie esperienze come giovane insegnante in cattive scuole, sono arrivato alla conclusione che, la cosa più importante sia di dare ai cattivi insegnati la possibilità di lasciare la scuola.
Molti insegnanti vengono fatti prigionieri dalla scuola, vi stanno dentro da infelici e non possono più uscirne…a queste persone bisogna costruire ponti d’oro, perché se ne possano andare, Al loro posto verranno giovani che, in parte, sono insegnanti nati.
Il principio che noi non dobbiamo danneggiare soprattutto coloro che ci sono stati affidati, dovrebbe essere nell’educazione tanto fondamentale quanto in medicina.
Stando alla mia esperienza, l’insegnamento dogmatico ed acritico e, in particolare, l’addestramento alla prolissità ed a qualche ideologia occidentale, rappresentano ostacoli alla discussione razionale, molto più seri di ogni distanza culturale o linguistica.
“Non arrecare danno” e pertanto “dà ai giovani ciò di cui essi hanno bisogno più urgente, per renderli indipendenti da noi e capaci di scegliere da sé stessi”. Sarebbe un validissimo obiettivo, la cui realizzazione è alquanto lontana, pur se sembra tanto modesta.
Il vero maestro può mostrarsi tale soltanto dando prova di quell’atteggiamento autocritico che invece manca nelle persone non educate.
Lungi dal costituire luoghi di discussione critica, (le scuole) assolvono al compito di impartire una determinata dottrina e di conservarla pura ed immutata…le concezioni nuove sono eresie e portano agli scismi.
Una certa quantità di controllo statale nell’educazione…è necessaria…ma un eccessivo controllo statale è un fatale pericolo per la libertà, dato che porta fatalmente all’indottrinamento.
Le scuole hanno conservato…certi aspetti di tribalismo. Ma noi non dobbiamo pensare soltanto ai loro emblemi…ma anche al carattere patriarcale ed autoritario di tante scuole…Non è certo un caso se le scuole sono così spesso bastioni della reazione ed i maestri di scuola dittatori in edizione tascabile.
I cittadini di una società civilizzata, le persone cioè che si comportano civilmente, non sono il risultato del caso, ma di un processo educativo.
Nel corso della mia lunga vita non mi sono mai annoiato, eccetto che alle conferenze e specialmente durante le lezioni a scuola, che mi causavano un dolorosissimo torpore cerebrale.
Io credo…che tutto l’insegnamento a livello universitario (e, se possibile, a livello inferiore) dovrebbe essere esercizio ed incoraggiamento al pensiero critico.
Ci sono due modi diversi di imparare. Il primo è imparare qualcosa di nuovo; l’altro consiste nello spingere al di sotto della coscienza, quanto si è imparato…Al pianoforte, all’inizio, è terribilmente difficile coordinare le dita con la note, giacché si tratta di imparare qualcosa di nuovo, in seguito…uno cerca di dedicarsi alla cosa più importante: l’idea del compositore.
PEDAGOGIA DELL’ERRORE
Il metodo per prova ed errore non viene applicato soltanto da Einstein, ma anche, in maniera più dogmatica, dall’ameba. La differenza non sta tanto nelle prove, quanto in un atteggiamento critico e costruttivo di fronte agli errori.
Tra l’ameba e Einstein c’è un solo scalino. Entrambi lavorano col metodo di tentativi ed errore. L’ameba deve odiare i propri errori, perché quando sbaglia, muore. Ma Einstein, sa che noi impariamo soltanto dai nostri errori e non risparmia…tentativi, tesi a scoprire nuovi errori, per eliminarli dalle teorie.
Impariamo dai nostri sbagli, per via di tentativi ed errori…(e) ci rendiamo conto di quanto poco sappiamo, come quando, scalando un monte, ogni passo in su, ci apre nuove prospettive nell’ignoto e nuovi mondi si svelano della cui esistenza nulla sapevamo, quando abbiamo cominciato la scalata.
Anche se il mondo che ci appare, è davvero un mondo di mere ombre, proiettate sul muro della nostra caverna, noi ci spingiamo costantemente oltre esso…e, quando li abbiamo individuati, sono i nostri stessi errori a fornirci i deboli segnali rossi che ci aiutano a trovare, a tentoni, la via d’uscita dalla oscurità della caverna.
Nessuno è esente dal commettere errori. La cosa importante è riuscire ad imparare da essi. E questo lo si fa con la critica e scoprendo i problemi nuovi che questa porta alla luce.
Invece di posare a profeti, dobbiamo diventare i creatori del nostro destino. Dobbiamo imparare a fare le cose nel miglior modo che ci è possibile e ad andare alla ricerca dei nostri errori.
Dissimulare gli sbagli è il più grave peccato intellettuale.
Ci sono ben pochi campi del comportamento umano, per non dire nessuno, che siano indenni dalla fallibilità umana. Ciò che ritenevamo ben fondato o addirittura certo, può, successivamente, risultare non del tutto corretto (il che significa falso) e bisognevole di correzione.
Non conosco scienziato che non abbia commesso errori e sto pensando a scienziati sommi come Galileo, Keplero, Newton, Einstein, Darwin, Mendel, Pasteur, Koch, Crick, e anche Hilbert e Gödel. Non soltanto tutti gli animali sono fallibili, ma anche tutti gli uomini
A livello prescientifico ci ripugna l’idea di poter sbagliare e perciò, ci aggrappiamo dogmaticamente alle nostre congetture il più a lungo possibile, mentre a livello scientifico siamo noi stessi ad andare sistematicamente alla ricerca dei nostri errori.
Possiamo imparare dai nostri errori, a meno che non ci leghiamo ad una ideologia e quindi, ci persuadiamo che sappiamo e che, poiché sappiamo, non dobbiamo imparare più niente. Questo naturalmente è il più dannoso di tutti gli errori possibili.
Che errare sia umano significa che dobbiamo sempre lottare contro l’errore, ma nemmeno operando con la massima meticolosità, potremo mai essere del tutto sicuri di non aver mai commesso uno sbaglio.
La certezza non può ragionevolmente essere la nostra meta. Se ammettiamo la fallibilità della conoscenza umana, ne consegue che non potremo mai essere sicuri di non aver commesso errori.
POLITICA
Il problema più urgente di una politica razionale è la miseria umana, mentre la felicità non va posta sullo stesso piano. L’attingimento della felicità dovrebbe essere lasciato agli sforzi dei singoli.
Dovremmo soppiantare questo orribile sistema dei partiti, in base al quale la gente che sta nel Parlamento è, prima di tutto, dipendente da un partito e, soltanto in seconda istanza, sta lì per usare il proprio cervello, per il bene della popolazione che rappresenta.
Questo sistema deve essere sostituito. Dobbiamo ritornare, se possibile, ad uno stato in cui gli eletti vadano in Parlamento e dicano: io sono il vostro rappresentante e non appartengo a nessun partito.
Il metodo scientifico nella politica significa che, alla grande arte con cui ci autopersuadiamo di non aver fatto sbagli, o facciamo finta di non vederli, o li nascondiamo, o ne diamo la colpa ad altri, sostituiamo l’altra di accettare la responsabilità dei nostri sbagli e di cercare di trarne una lezione.
In politica (è) ragionevole adottare il principio di essere pronti al peggio, nella misura del possibile, anche se, dobbiamo, nello stesso tempo, cercare di ottenere il meglio.
Tutti i problemi politici sono…istituzionali, di struttura legale, piuttosto che di persone e che il progresso verso una maggiore uguaglianza, può essere salvaguardato soltanto mediante il controllo istituzionale del potere.
L’opposizione parlamentare deve impedire alla maggioranza di rubare il denaro dei contribuenti. Ma io ricordo un piccolo scandalo, avvenuto in un paese dell’Europa sudorientale…fu il caso in cui maggioranza ed opposizione si fecero corrompere da una forte somma di denaro, che spartirono fra di loro.
L’opinione pubblica, quale che sia la sua natura, è assai potente. Può cambiare i governi, anche quelli non democratici.
I movimenti religiosi e gli individui singoli possono influenzare grandemente l’opinione pubblica. Henry Ford scoperse, con stupore di tutti i marxisti e di molti capitalisti, che un aumento dei salari può rivolgersi in un vantaggio per l’imprenditore.
Una minoranza, che è economicamente forte, può…sfruttare la maggioranza di coloro che sono economicamente deboli.
DEMOCRAZIA
La possibilità di deporre un governo, senza colpi di fucile, è la cosa più importante della democrazia. Tutto il resto dipende dai cittadini, dai democratici.
La democrazia non può essere migliore dei democratici.
Non ha senso fare lamenti sulla democrazia. La risposta a questi lamenti è: che cosa hai fatto per migliorare la democrazia.
Se tenti di arrivare ad una società perfetta, sarai di certo contro la democrazia. Ma non realizzerai nulla di migliore. La politica significa scegliere il male minore.
Platone formulava il problema in questo modo: “Chi deve comandare? I pochi o i molti?”. La sua risposta era: deve comandare il migliore. Marx si chiese: “Chi deve comandare? I capitalisti o i lavoratori? Ma la domanda…è mal riposta. Ho proposto di sostituirla con un’altra, e cioè: “Come possiamo organizzare lo Stato e i governo in modo che, anche i governanti cattivi, non possano provocare danni troppo grandi?” La risposta a questa domanda è la democrazia che ci permette di deporre un governo, senza spargimento di sangue.
Preferisco chiamare democrazia il tipo di reggimento politico che può essere sostituito, senza l’uso della violenza, e tirannide l’altro.
Il pensiero che, dall’idea di democrazia, possa venir logicamente dedotta la superiorità morale del sistema proporzionale e che, i sistemi continentali, a causa della proporzionale, siano…più democratici, rispetto a quelli anglosassoni, è ingenuo e non regge a una riflessione appena più approfondita.
La democrazia non costituisce più che un’intelaiatura nel cui ambito i cittadini possono agire in forme più o meno organizzate e coerenti.
Noi siamo democratici, non perché la maggioranza ha sempre ragione, ma perché le tradizioni democratiche rappresentano il male minore rispetto ad altre.
Le democrazie non sono…sovranità popolari, ma…istituzioni attrezzate per difendersi dalle dittature.
Non c’è in democrazia il principio che la maggioranza ha ragione, perché la maggioranza può commettere i più gravi errori, può introdurre un tiranno, come è accaduto piuttosto spesso. In Germania, Hitler non ha mai avuto la maggioranza, ma in Austria fu votato da più del novanta per cento degli elettori.
Sappiamo da Tucidide che la democrazia ateniese…ha anche preso decisioni criminali. Attaccò…la neutrale città insulare di Melos, uccise tutti gli uomini e vendette le donne ed i bambini sui grandi mercati degli schiavi. La democrazia ateniese fu capace di questo.
Senza controllo democratico, non ci può essere alcuna ragione al mondo per cui qualsiasi governo non debba usare il suo potere politico ed economico a finalità molto diverse dalla protezione della libertà dei suoi cittadini.
La difesa della democrazia consistere nel rendere gli esperimenti antidemocratici troppo onerosi per coloro che li tentano, molto più onerosi di un compromesso democratico.
So naturalmente che molte cose dovrebbero essere migliorate. La più importante è che le nostre democrazie non sono abbastanza chiaramente distinguibili dalle dittature della maggioranza.
La maggioranza di coloro che hanno una statura inferiore a 6 piedi, può decidere che sia la minoranza di coloro che hanno statura superiore a 6 piedi, a pagare tutte le tasse.
Per il governo la democrazia è la forma di gran lunga più scomoda e difficile, perché i governi sono sempre minacciati di destituzione. Devono rendere conto a me e a voi.
L’egualitarismo è la richiesta che i cittadini dello Stato siano trattati imparzialmente e che la nascita, i rapporti familiari o la ricchezza non intervengano a influenzare…la giustizia. Esso non riconosce alcun privilegio naturale, benché certi privilegi possano essere conferiti dai cittadini a coloro nei quali hanno fiducia.
L’uguaglianza davanti alla legge non è un fatto, ma una rivendicazione politica, fondata su una decisione morale ed è assolutamente indipendente dalla teoria, probabilmente falsa, che tutti gli uomini nascono uguali.
Gli uomini non sono uguali, ma noi possiamo decidere di batterci per l’uguaglianza dei diritti.
Governo
Ciò che importa…non è tanto chi governa, ma in che modo coloro che governano possono essere influenzati e controllati.
Si dice che un governo ha il diritto di comandare, quando è legittimo…ma non dobbiamo dimenticare che Hitler giunse al potere legittimamente e che la legge sui pieni poteri, che lo rese un dittatore, fu decisa da una maggioranza parlamentare. Il principio di legittimità non è sufficiente. È una risposta alla domanda platonica “Chi deve comandare?”. Dobbiamo cambiare la domanda stessa.
Sono portato a ritenere che i governanti sono stati raramente, sia moralmente che intellettualmente, al di sopra della media e spesso al di sotto di essa.
Nonostante le limitate informazioni di cui dispongono, numerosi uomini semplici sono più saggi dei loro governanti, se non proprio più saggi, sono ispirati da intenzioni migliori e più generose.
Considero una disgrazia la proliferazione dei partiti e quindi anche la legge elettorale proporzionale. La frammentazione dei partiti, infatti, porta a governi di coalizione in cui nessuno si assume la responsabilità di fronte al tribunale del popolo, perché tutto è inevitabilmente un compromesso.
Il giorno delle elezioni, non è un giorno che legittima il nuovo governo, ma un giorno in cui noi sediamo a giudizio sul vecchio governo. Il giorno in cui il governo deve rendere conto del suo operato.
ISTITUZIONI
Le istituzioni democratiche non possono migliorare sé stesse. Il problema del loro miglioramento…riguarda le persone, piuttosto che le istituzioni.
Il funzionamento delle istituzioni, come quello delle fortezze, dipende dalle persone che le presidiano. Il meglio che si possa fare…è dare maggiori possibilità alle persone (se ve ne sono) che intendono usare le istituzioni, secondo il loro fine sociale “peculiare”.
Vi sono soltanto due tipi fondamentali di istituzioni: quelle che consentono un mutamento del governo, senza spargimento di sangue e quelle che non lo consentono. Ma se il governo non può essere cambiato senza spargimento di sangue, nella maggioranza dei casi, non può essere rimosso per nulla.
Dobbiamo costruire istituzioni sociali, imposte dalla forza dello Stato, per la protezione degli economicamente deboli, nei confronti degli economicamente forti.
Soltanto pianificando, grado a grado, le istituzioni atte a salvaguardare la libertà, specialmente la libertà dallo sfruttamento, possiamo sperare di realizzare un mondo migliore.
La teoria della rivoluzione trascura l’aspetto più importante della vita sociale, cioè che abbiamo bisogno, non tanto di uomini validi, quanto di buone istituzioni.
Le istituzioni, come le leve, sono necessarie se vogliamo conseguire qualcosa che vada oltre la forza dei nostri muscoli.
Le istituzioni…come le macchine, hanno bisogno di una intelligente supervisione da parte di qualcuno che ne conosce il modo di funzionamento e, soprattutto, il fine, dal momento che non possiamo costruirle in maniera che operino con automatismo integrale.
Le istituzioni non agiscono, agiscono soltanto gli individui nelle o per le istituzioni.
Soltanto una minoranza delle istituzioni sociali sono volutamente progettate, mentre la gran maggioranza di esse sono semplicemente venute su, cresciute come risultato non premeditato di azioni umane
Liberalismo
Per liberale, non intendo una persona che simpatizza per un partito politico, ma un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità.
Liberalismo ed intervento statale non sono tra loro in antitesi. Al contrario, qualsiasi genere di libertà è chiaramente impossibile se non è garantito dallo Stato.
Il liberalismo crede nell’evoluzione, piuttosto che nella rivoluzione (a meno che non si sia posti di fronte a una tirannide).
Io non (sono) soltanto un empirista e un razionalista…ma anche un liberale, nel senso inglese del termine, ma proprio perché sono un liberale, credo che…poche cose siano più importanti del sottoporre le varie teorie del liberalismo ad un esame critico approfondito.
LIBERO MERCATO
Se prima non si è instaurato un sistema legale, non si può avere un mercato libero. Ci deve pur essere una differenza tra comprare e vendere, da una parte, e derubare dall’altra.
Un libero mercato…non c’è e non può esserci, senza l’intervento dello Stato. La libertà del mercato è fondamentale, ma non può essere una libertà assoluta. Questo è vero per il mercato, come per qualunque altra cosa. La libertà assoluta è un non senso.
L’illimitata libertà economica può essere autodistruttiva (come) la illimitata libertà fisica ed il potere economico può essere quasi altrettanto pericoloso che la violenza fisica. Infatti, coloro che dispongono di un’eccedenza di derrate, possono costringere coloro che hanno penuria, ad una servitù liberamente accettata, senza usare violenza.
POTERE
Finché un uomo non accumula abbastanza forza fisica da dominare tutti gli altri, deve dipendere dai suoi aiutanti. Anche il più potente tiranno dipende dalla sua polizia segreta (e) dai suoi carnefici. Questa dipendenza significa che il suo potere, per quanto grande sia, non è affatto incondizionato e che deve fare concessioni, opponendo un gruppo all’altro.
Non si può dare ad un uomo il potere sopra gli altri uomini, senza che egli abbia la tentazione di abusarne, tentazione che aumenta…in ragione del potere esercitato ed a cui pochissimi sono capaci di resistere.
L’idea del dominio sulla natura contiene…la volontà di potere come tale…L’idea di dominio non la posso vedere di buon occhio. È blasfema, sacrilega, tracotante. Gli uomini non sono dèi e dovrebbero saperlo: non domineranno mai la natura.
Il potere è sempre tentazione…ciò che Sherpa Tenzing provò sulla vetta di Chomo Lungma, ossia sul monte Everest, era qualcosa di meglio: “Ti sono grato, Chomo Lungma“, egli disse.
Se vale la pena di morire per la conoscenza, non vale la pena di morire per il potere. La conoscenza, con la libertà, l’amore, l’umanità e l’aiuto alle persone che ne hanno bisogno, è una delle poche cose per cui può valere la pena di morire.
Il culto del potere è uno dei peggiori generi di idolatrie umane, un relitto del tempo della gabbia, della servitù umana. Il culto del potere è figlio della paura, emozione che è giustamente disprezzata.
Il potere genera ancora corruzione, anche nel nostro mondo. Gli impiegati statali si comportano ancora come padroni incivili. I dittatori tascabili abbondano ancora e una persona intelligente, deve essere pronta a sentissi trattata come un imbecille, se tradisce un interessamento critico, nei confronti della propria condizione fisica.
Cesare fu aiutato a conquistare il potere dai suoi creditori i quali, non vedevano speranza di ricuperare i loro prestiti, se non procurandogli il successo, ma quando egli raggiunse il successo, la sua potenza gli permise di disilluderli.
In virtù del suo anonimato, l’opinione pubblica è un potere senza responsabilità e perciò, particolarmente pericoloso.
Autoritarismo
L’autoritario tende a scegliere coloro che obbediscono, che credono e soggiacciono alla sua influenza. Ma per fare ciò, è costretto a scegliere i mediocri. Infatti, egli esclude coloro che si ribellano, che dubitano ed osano resistere alla sua influenza.
Un’autorità non può mai ammettere che gli intellettualmente coraggiosi, cioè coloro che osano sfidare la sua autorità, possano essere gli individui più degni.
Esistono esperti, ma non autorità assolute, un fatto di cui non si tiene ancora sufficientemente conto.
Qualunque sia l’autorità che possiamo accettare, siamo sempre noi ad accettarla. Non facciamo altro che ingannarci, se non ci rendiamo conto di questa semplice verità.
Se ammettiamo che…non è possibile trovare un’autorità che sia al di là della portata delle nostre critiche…allora possiamo ritenere che…la verità è al di là dell’autorità umana.
Mi sembra che ci sia una straordinaria somiglianza fra il carattere di Crizia, soldato, esteta, poeta e scettico compagno di Socrate e il carattere di Federico II di Prussia, anche lui soldato, esteta, poeta e scettico discepolo di Voltaire ed anche uno dei peggiori tiranni e dei più spietati oppressori della storia moderna.
Nulla è meno vero dell’idea che, coloro che sono buoni nell’obbedire, saranno anche buoni nel comandare.
Denaro
Il denaro in quanto tale, non è particolarmente pericoloso…(lo) diventa soltanto se può acquistare il potere, o direttamente, o soggiogando gli economicamente deboli, che devono vendere sé stessi al fine di vivere.
Il denaro è uno dei simboli, come pure una delle difficoltà della società aperta. Noi non abbiamo ancora saputo padroneggiare il controllo razionale del suo uso. Il più grave abuso al quale dà luogo, è quello di poter acquistare il potere politico.
Carlo V prese in prestito dai Fugger il denaro necessario per comprare il titolo imperiale, ma quando fu imperatore, rise loro in faccia e quelli perdettero ciò che avevano prestato.
Dittatura
Il “non è possibile che questo accada qui” è sempre sbagliato: una dittatura può aver luogo dappertutto.
La dittatura è moralmente cattiva perché condanna i cittadini dello Stato, contro la loro migliore coscienza, contro il loro convincimento morale, a collaborare col male, se non altro col silenzio.
Totalitarismo
Il totalitarismo moderno non è che un episodio della perenne rivolta contro la libertà e la ragione.
I totalitarismi moderni sono assolutamente ignari del fatto che le loro idee possono essere fatte risalire a Platone. Ma molti sono consapevoli del loro debito verso Hegel…ad essi è stato insegnato di venerare lo Stato, la storia e la nazione.
Se il mio proposito fosse quello di scrivere una storia del totalitarismo, dovrei, prima di tutto occuparmi, del marxismo, infatti, il fascismo emerse, in parte, dal collasso spirituale e politico del marxismo.
(Il totalitarismo) fu possibile soltanto dal crollo…di un altro movimento popolare, la democrazia sociale o versione democratica del marxismo che, nella mente della classe lavoratrice, rappresentava le idee di libertà e uguaglianza.
(Il totalitarismo) si distingue dagli episodi più antichi, non per la sua ideologia…(ma) per il fatto che i suoi leaders sono riusciti a realizzare uno dei più audaci sogni dei loro predecessori: hanno fatto della rivolta contro la libertà un movimento popolare.
RAZIONALISMO CRITICO
Prima di dare origine alla scienza moderna, il razionalismo critico ha creato, innanzitutto, la filosofia europea. O più precisamente, la filosofia europea è tanto vecchia quanto il razionalismo critico. Entrambi sono stati fondati da Talete e Anassimandro di Mileto.
Uso la parola razionalismo per indicare un atteggiamento che cerca di risolvere il maggior numero possibile di problemi, mediante un appello alla ragione…piuttosto che mediante l’appello alle emozioni ed alle passioni.
Un razionalista…è una persona che cerca di giungere alle risoluzioni, mediante la discussione e, in determinati casi, ricorrendo al compromesso, piuttosto che mediante la violenza.
Sono un razionalista perché vedo la sola alternativa alla violenza in un atteggiamento di ragionevolezza.
(Il razionalista) preferirebbe fallire nel convincere l’altro attraverso la discussione, piuttosto che riuscirvi ricorrendo alla forza, all’intimidazione, alle minacce, o anche alla propaganda persuasiva.
Io sono, in primo luogo, indeterminista, in secondo luogo, realista, in terzo luogo, razionalista…e riconosco volentieri, con Kant e gli altri razionalisti critici, che non possiamo acquisire alcuna compiuta conoscenza del mondo reale, nella sua infinita ricchezza e bellezza.
Ogni razionalista deve dire con Kant: la filosofia non si può insegnare, al massimo si può insegnare a filosofare, cioè ad assumere un atteggiamento critico.
Il vero razionalista…sarà sempre consapevole di quanto poco sa…la ragione per lui è esattamente il contrario di uno strumento di potere e di violenza: egli vede in essa un mezzo con cui sottomettere il potere e la violenza.
La razionalità non è una proprietà degli uomini. È un compito che gli uomini debbono realizzare, un compito difficile e fortemente limitato.
Ho optato per il razionalismo perché odio la violenza e non mi illudo che tale odio abbia un qualsiasi fondamento razionale.
Il razionalismo vero…è la consapevolezza che non dobbiamo aspettarci troppo dalla ragione, che il dibattito raramente risolve un problema, benché sia il solo mezzo per imparare, non a vedere chiaramente, ma a vedere più chiaramente di prima.
Sono uno che cerca di sottolineare l’importanza della razionalità per l’essere umano. Tuttavia, come tutti i razionalisti pensanti, non asserisco che l’uomo sia razionale. Al contrario, è ovvio che anche i più razionali degli uomini sono, sotto molti rispetti, altamente irrazionali.
(Il razionalismo) è l’atteggiamento di chi è disposto ad ammettere che “Io posso avere torto e tu puoi aver ragione, ma per mezzo di uno sforzo comune possiamo avvicinarci alla verità”.
Anche l’irrazionalismo fa uso della ragione, ma senza sentirsi obbligato: è pronto a usarla, a rifiutarla a suo piacimento.
La critica razionale è il mezzo attraverso il quale noi impariamo, accresciamo la nostra conoscenza e superiamo noi stessi.
La discussione razionale ed il pensiero critico non sono una struttura alla quale siamo vincolati e legati. Al contrario, sono i mezzi per evadere dalla prigione, per liberarci.
Il culto dell’oscuro…il nebuloso e l’apparentemente profondo, devono essere abbandonati: in loro luogo dobbiamo adottare un atteggiamento razionale, cioè un atteggiamento critico.
La critica non ci procura nuove idee, ma può aiutarci a separare il grano dalla pula.
Tutta la conoscenza prescientifica, sia essa animale o umana, è dogmatica e con la scoperta del metodo non dogmatico, cioè del metodo critico, comincia la scienza.
Critico è il miglior sinonimo di razionale.
Ogni volta che puoi essere critico, sii critico!
La critica …è un tentativo di trovare i punti deboli di una teoria e questi, generalmente, si trovano soltanto nelle conseguenze logiche più remote che ne possono derivare.
Se due parti si trovano in disaccordo, ciò può significare che l’una o l’altra o entrambe sono in errore: questa è la posizione di chi adotta un atteggiamento critico.
Considero l’approccio critico come un dovere. Ogni altro atteggiamento è megalomane ed irresponsabile, anche se ispirato dalle migliori intenzioni.
L’atteggiamento critico può considerarsi il consapevole tentativo di far sì che siano le nostre teorie e congetture a subire, al posto nostro, le conseguenze della lotta per la sopravvivenza del più adatto.
RELIGIONE
Non le imprese storiche dei potenti conquistatori romani sono decisive per il Cristianesimo, ma (per usare un’espressione di Kierkegaard) è decisivo “ciò che pochi pescatori hanno dato al mondo”.
Non c’è dubbio che la forza dei primi cristiani sta nel loro coraggio morale…essi rifiutarono di accettare la pretesa di Roma “di avere il diritto di costringere i suoi sudditi ad operare contro la loro coscienza“.
I martiri cristiani, che si opposero alle pretese della forza, per affermare i principi del diritto, soffrirono per la stessa causa per la quale era morto Socrate.
Noi abbiamo bisogno di un’etica che disprezzi il successo ed il compenso. Un’etica siffatta non bisogna inventarla e non è neppure nuova: è stata insegnata dal Cristianesimo, almeno ai suoi inizi.
Ai suoi inizi, il Cristianesimo…si oppose all’idealismo platonico…fu una protesta contro il platonismo giudaico…contro il suo esclusivismo tribale, che si esprimeva nella dottrina del popolo eletto, cioè in una interpretazione della divinità, come dio tribale.
La dottrina che la religione è l’oppio del popolo, benché non in questa particolare formulazione, costituisce uno dei dogmi di Platone e dei platonici.
Sebbene la ricerca scientifica della verità sia una parte della mia religione, le grandiose ipotesi scientifiche non sono affatto una religione. Non devono esserlo.
Io non so se il Cristianesimo “non sia di questo mondo“; ma una cosa è certa: esso insegna che, il solo modo in cui noi possiamo mostrare la nostra fede, consiste nel fatto che dobbiamo portare aiuto pratico ai sofferenti ed ai bisognosi.
La religione non dovrebbe essere un surrogato dei sogni e dei desideri. Non dovrebbe somigliare, né al possesso di un biglietto in una lotteria né al possesso di una polizza di assicurazioni.
La teoria dell’Inquisizione può definirsi platonica…Platone (dice) che è dovere dei governanti pastori proteggere le loro pecore, anche se devono uccidere il lupo, il quale può anche essere un uomo onesto, ma la cui coscienza “malata”, disgraziatamente, non gli permette di piegarsi davanti alle minacce dei potenti.
Tutti ricordiamo quante guerre religiose furono combattute in nome di una religione, che predicava l’amore e la dolcezza, quanti corpi furono arsi vivi, per il sincero proposito di salvare le anime dal fuoco eterno dell’inferno.
SCIENZA/CONOSCENZA
La mia concezione del metodo scientifico può essere sintetizzata… nei tre passi seguenti. Per dirla in tre parole: problemi-teorie-critica.
1. Inciampiamo in qualche problema.
2. Tentiamo di risolverlo, per esempio proponendo qualche nuova teoria.
3. Impariamo dai nostri errori, in particolare da quelli su cui ci richiama la discussione critica dei nostri tentativi di soluzione, una discussione che tende a condurci a nuovi problemi.
Se la vediamo come il risultato dello sforzo umano, dei sogni, delle speranze, delle passioni e, soprattutto, come la più mirabile unione di immaginazione creativa e di pensiero critico razionale, mi piacerebbe scrivere la parola Scienza con la S maiuscola più grande che si possa trovare nella cassetta dei caratteri tipografici.
La scienza…dopo la musica e l’arte, è la conquista più grande, più bella e più illuminante della spirito umano.
Sono dalla parte della scienza…ma contro le (sue) pretese eccessive…sono dalla parte della ricerca della verità e del coraggio intellettuale, ma contro l’arroganza intellettuale e contro la pretesa erronea di avere la verità in tasca, o quella di poter raggiungere la certezza.
È la consapevolezza della fallibilità della scienza che distingue lo scienziato dallo scientista. Se lo scientismo è qualcosa, esso è la fede cieca e dogmatica nella scienza.
La scienza…rappresenta il desiderio di sapere, la speranza di liberarci dall’ignoranza e dalla grettezza mentale, dalla paura e della superstizione, ivi inclusa l’ignoranza dell’esperto, la grettezza mentale dello specialista, la paura di scoprire che siamo in errore, o di non essere riusciti a dimostrare la nostra tesi.
La conoscenza scientifica e la razionalità umana che la produce, sono sempre fallibili…ma poiché l’uomo è il solo essere dell’universo che cerchi di capire ciò che lo circonda, esse rappresentano anche l’orgoglio dell’umanità.
La scienza non ha alcuna autorità. Non è il magico prodotto del dato, dei fatti, delle osservazioni, non è una verità di Vangelo. È il risultato dei nostri tentativi ed errori.
La scienza è una delle pochissime attività umane, se non l’unica, in cui gli errori vengono sistematicamente sottoposti a critica e, sovente, corretti con l’andar del tempo. Per questo possiamo dire che, nella scienza, spesso impariamo dagli errori e possiamo, in questo ambito, parlare chiaramente e razionalmente di progresso.
Credo che tutti gli scienziati autentici abbiano considerato sé stessi come Newton: sapevano che non sappiamo nulla e che…tutto è incerto….la teoria di Newton è stata sostituita da quella di Einstein. É appunto così che le cose vanno nella scienza.
La scienza è fallibile perché la scienza è umana.
Ciascuno di noi fa scienza, per quanto gli è possibile e ciascuno di noi ne è responsabile.
La scienza trova la sua origine nel mito. Ciò è constatabile presso i primi scienziati, cioè i filosofi presocratici, che sono ancora molto influenzati dalle formazioni mitiche. Ma i problemi che costoro pongono, sono completamente razionali. Per problemi razionali intendo: domande di verità.
La scienza comincia con teorie, pregiudizi, superstizioni e miti. O, piuttosto, con l’abbattimento di un mito, cioè, quando alcune delle nostre aspettative vengono deluse. Ma ciò significa che la scienza comincia con problemi, pratici o teorici.
(La scienza) non può cominciare con osservazioni…come pensano alcuni studiosi del metodo. Prima di poter raccogliere dati, è necessario che sorga un nostro interesse: prima di tutto si presenta sempre il problema.
Ciò che chiamiamo scienza differisce dai più antichi miti, non perché sia qualcosa di sostanzialmente diverso, ma perché va congiunta ad un tradizione…che fa propria la discussione critica dei miti.
Al pari dei grandi poeti, la grande scienza ed i grandi scienziati, sono spesso ispirati da intuizioni non razionali.
Le nostre procedure scientifiche non si basano mai interamente su regole, vi sono sempre coinvolte congetture e sensazioni intuitive: non possiamo eliminare dalla scienza l’elemento di congettura e di rischio.
Il sapere scientifico non è conoscenza certa: è soltanto sapere congetturale.
Si può pensare alla conoscenza accumulata dall’uomo in analogia al miele prodotto dalle api. Il miele è elaborato dalle api, immagazzinato e da queste consumato. La singola ape che si ciba di miele, non consumerà soltanto quello da lei elaborato. Di miele si nutrono anche i fuchi, che non ne producono affatto.
Il punto è che, mentre tutti risentono del progredire della conoscenza, relativamente pochi vi contribuiscono.
La mia teoria della scienza è estremamente semplice. Siamo noi che produciamo le teorie scientifiche, noi (le) critichiamo, noi (le) inventiamo e noi (le) uccidiamo, questa è in breve la scienza e la storia della scienza.
Nella scienza le cose vanno sempre in questo modo. Non sappiamo in quale luogo arrivi la rivoluzione, la scoperta. Non lo possiamo prevedere.
I risultati della scienza rimangono ipotesi che possono essere state verificate, ma non confermate. Esse possono essere vere, ma non si può dimostrare che lo siano. Ma anche se non sono vere, rimangono splendide ipotesi che aprono la strada ad altre ipotesi, ancora migliori.
Guardare (alla scienza) come a un mezzo per accrescere il nostro potere, è un peccato contro lo Spirito Santo. Il migliore antidoto consiste nella consapevolezza di quanto poco sappiamo e che, i più interessanti tra i nostri lenti progressi…hanno rivelato la loro importanza, proprio in quanto hanno dischiuso nuovi continenti della nostra ignoranza.
La conoscenza, quella fondamentale, è simile alle antenne che noi tendiamo in tutte le direzioni.
Per coloro che hanno assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza, il paradiso è perduto.
Bisogna sottolineare che sarebbe quanto mai anti-scientifico chiudere gli occhi di fronte a certe possibilità, semplicemente perché non ci piacciono.
Se la scienza potesse accrescersi per accumulazione, non importerebbe molto la perdita di una tradizione, perché potremmo cominciare da capo. Se, viceversa, la scienza avanza attraverso la modificazione dei miti, occorre sempre qualcosa da cui partire. Per la scienza sono quindi necessari due punti di avvio: dei nuovi miti e una tradizione per cambiarli criticamente.
Il credere vero qualcosa perché lo si desidera intensamente, è un atto che, evidentemente, l’uomo non può evitare. Ma non dev’essere scambiato per pensiero scientifico.
Nessun uomo dovrebbe essere considerato colto, se non ha interesse per la scienza.
Penso…che vi sia una sola via d’accesso alla scienza: incontrare un problema, vederne la bellezza ed innamorarsene; sposarlo e convivere felicemente con esso…a meno che non incontriate un ancor più affascinante problema, o che non ne otteniate la soluzione. Ma anche se riusciste a trovare una soluzione, potreste scoprire l’esistenza di un’intera famiglia di incantevoli figli del problema, per il cui benessere, potreste lavorare fino alla fine dei vostri giorni.
Nella scienza vogliamo progredire e ciò significa che dobbiamo poggiare sulle spalle dei nostri predecessori.
Se ripartissimo da dove cominciò Adamo, non vedo alcun motivo per cui dovremmo progredire più di quanto fu possibile a lui.
Come epistemologo, ho un solo interesse: cercare di scoprire la verità circa i problemi dell’epistemologia, sia che essa si adatti alle mie idee politiche sia che non vi si adatti. Ma non può darsi che, inconsapevolmente, io sia influenzato dalle mie credenze politiche?
La scienza è…un’avventura dello spirito umano, ma è forse la più umana delle arti creative: colma di errori e di miopie, mostra quelle illuminazioni improvvise che ci schiudono gli occhi sulle meraviglie del mondo e dello spirito umano.
Immaginiamo che il nostro sistema economico sia distrutto, ma sia preservata la conoscenza scientifica. In questo caso, è pensabile che tale sistema potrebbe essere ricostruito. Ma, immaginiamo che la conoscenza vada distrutta e siano preservate le cose materiali. (Ciò) sarebbe equivalente quel che potrebbe accadere se una tribù selvaggia occupasse un paese altamente industrializzato, ma abbandonato. Tale occupazione porterebbe alla completa scomparsa di ogni vestigio della civiltà.
Vedo nelle nuove gigantesche organizzazioni della ricerca scientifica un serio pericolo per la scienza. I grandi uomini di scienza erano solitari critici. Questo vale naturalmente per Schrödinger e Gödel, ed anche per Watson e Crick.
Lo spirito della scienza è mutato, come conseguenza della ricerca organizzata. Dobbiamo sperare che, nonostante tutto, continueranno ad esserci sempre grandi solitari.
La scienza è tenuta in gran pregio per la sua influenza liberatrice, come una delle forze più grandi che operino per la libertà umana.
Nella scienza dobbiamo usare l’immaginazione e idee ardite, anche se l’una e le altre devono sempre essere temprate dalla critica e dai controlli più severi.
La scienza pare essere l’unico campo delle attività umane del quale si possa dire tanto.
Ad ogni passo che facciamo, ad ogni nuovo problema che risolviamo, non soltanto scopriamo problemi nuovi ed irrisolti, ma scopriamo anche che, dove credevamo di poggiare su un terreno saldo e sicuro, tutto è compreso in modo incerto e oscillante.
Senza passione non si fa nulla, nella pura scienza meno che mai. L’espressione “amore della verità” non è una semplice metafora.
La scienza non poggia su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Il fatto che desistiamo dal conficcare più a fondo le palafitte, non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che, almeno per il momento, i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura.
(La) teoria della scienza come faro, (è quella) concezione secondo la quale è la scienza stessa a gettare nuova luce sulle cose, per cui essa non soltanto risolve problemi, ma, nel farlo, molti di più ne crea, non limitandosi a trarre profitto dalle osservazioni, ma provocandone di nuove.
Di solito inizio le mie lezioni…dicendo che il metodo scientifico non esiste. Aggiungo che dovrei saperlo, visto che sono stato, almeno per un certo periodo, il solo professore di questa inesistente disciplina nell’ambito del Commonwealth britannico.
Non ci può essere alcuna spiegazione che non abbia bisogno di un’ulteriore spiegazione.
L’idea di permettere ad alcuni uomini di interferire con i destini dell’umanità, soltanto perché hanno un’infarinatura di genetica, è troppo stupida.
Il martirio di Giordano Bruno ed il processo di Galileo, hanno contribuito al progresso della scienza, più di quanto l’Inquisizione abbia potuto fare per arrestarlo.
Effetto del Millepiedi
Se abbiamo appreso alcuni movimenti…ed essi sono sprofondati al di sotto del livello conscio, allora, se cerchiamo di eseguirli in modo conscio, ci accade di interferire con essi in modo così preponderante, da causarne l’interruzione. Chiamo questo fenomeno effetto millepiedi.
Il violinista Adolph Busch…mi raccontò di aver suonato il “Concerto per violino” di Beethoven a Zurigo. Dopo l’esibizione il violinista Huberman gli chiese come aveva fatto a suonare un determinato passaggio. Busch gli rispose che era molto semplice e scoprì poi di non essere più in grado di suonare quel passaggio.
Il ragno dice al millepiedi: “Guarda, ho soltanto otto gambe. Io riesco a controllarne otto, ma tu ne hai un centinaio. Non riesco ad immaginare come tu possa fare a sapere, ad ogni movimento, quali delle tue cento gambe muovere“. Al che il millepiedi risponde: “È molto semplice” e da quel giorno non fu più in grado di fare un movimento.
IGNORANZA
Noi non sappiamo niente, questo è il primo punto. Di conseguenza, dobbiamo essere molto modesti, questo è il secondo punto. Che non diciamo di sapere, quando non sappiamo, questo è il terzo punto. Questa è all’incirca la concezione che vorrei volentieri rendere popolare. Ma non è che ci siano troppe speranze.
Non sappiamo, possiamo soltanto tirare ad indovinare. I nostri tentativi sono guidati dalla fede non-scientifica, metafisica, nelle leggi, nelle regolarità che possiamo svelare, scoprire.
La nostra situazione è sempre quella di un uomo nero, che in un sotterraneo buio cerca un cappello nero, che forse non è lì. Tale è la nostra situazione
Siamo degli eterni ignoranti e cerchiamo di continuo di esplorare la realtà con le mani, con i piedi, con le orecchie o con gli occhi, insomma con i nostri organi di senso, che utilizziamo attivamente al fine di accertarci della realtà che ci circonda.
Fu il mio maestro ad insegnarmi, non soltanto che era tanto poco quel che sapevo, ma anche che, ogni sapienza alla quale io potessi aspirare, sarebbe consistita nel prendere più coscienza dell’infinità della mia ignoranza.
So di sapere poco, e neppure ciò è una mia scoperta: l’ho imparato da Socrate.
La nostra conoscenza può essere soltanto finita, mentre la nostra ignoranza non può che essere, di necessità, infinita.
Quanto più la nostra conoscenza si accresce, tanto più comprendiamo la vastità della nostra ignoranza.
La nostra ignoranza è illimitata e tale da toglierci ogni illusione. L’irresistibile progresso delle scienze naturali…ci fa continuamente constatare la nostra ignoranza…In questo modo, l’idea socratica dell’ignoranza…ha assunto un nuovo significato.
Quanto più impariamo sul mondo e quanto più profondo è il nostro apprendimento, tanto più consapevole, specifica ed articolata sarà la conoscenza della nostra ignoranza.
Dobbiamo avere continuamente in chiaro quanto enorme sia quel che non sappiamo.
Possiamo intravedere un barlume della vastità della nostra ignoranza quando contempliamo la vastità dei cieli: la semplice vastità dei cieli non è la causa più profonda della nostra ignoranza, ma è certamente una delle sue cause.
Sarebbe bene se tutti noi ricordassimo che, mentre differiamo per le poche, piccole cose che sappiamo, di fronte alla nostra infinita ignoranza, siamo tutti eguali.
La causa principale della nostra ignoranza sta nel fatto che soltanto il nostro sapere può essere circoscritto, mentre la nostra ignoranza è necessariamente illimitata.
La tesi che noi non sappiamo niente, va presa sul serio. È importante non dimenticare mai la nostra ignoranza. Non dobbiamo mai perciò dare a intendere di sapere e non dobbiamo mai utilizzare paroloni.
Se Goethe dice: “Soltanto i pezzenti sono modesti“, io vorrei rispondere: “Soltanto i pezzenti intellettuali sono immodesti”.
OSSERVAZIONE
Un’osservazione casuale è come un sasso imprevisto sul nostro sentiero: ci inciampiamo perché non ce l’aspettavamo…Quindi le cosiddette osservazioni casuali o scoperte accidentali, cioè scoperte in cui inciampiamo inaspettatamente, non sono così accidentali come si potrebbe credere a prima vista.
Il fatto che l’osservazione non può precedere i problemi, si può illustrare con un esperimento…prendendo voi stessi come cavie…(e) chiedendovi di osservare, qui ed ora. Spero che tutti voi stiate cooperando ed osserviate! Ma temo che qualcuno di voi, invece di osservare, provi il forte impulso a chiedermi: “Che cosa vuoi che osservi?” Se questa è la vostra risposta il mio esperimento è riuscito.
L’osservazione pura…non esiste. Tutte le osservazioni e, in particolare tutte quelle sperimentali, sono interpretazioni di fatti compiute alla luce di questa o quella teoria.
Non si può partire dall’osservazione: è necessario innanzitutto sapere che cosa osservare, si deve partire da un problema.
La funzione più importante dell’osservazione…è quella di aiutarci ad esaminare criticamente quelle congetture ardite che sono i mezzi con cui sondiamo l’ignoto.
L’osservazione è sempre selettiva, ha bisogno di un oggetto determinato, di uno scopo preciso, di un punto di vista, di un problema.
Tutte le osservazioni sono impregnate di teoria: sono interpretazioni alla luce di teorie.
Le teorie vengono prima dell’osservazione, per cui non possono essere i risultati di osservazioni ripetute.
È necessario avere una domanda, prima di poter sperare che l’osservazione ci aiuti in qualche modo a trovare la risposta.
La teoria: “tutti i corvi sono neri” proibisce l’esistenza di corvi bianchi e l’osservazione di un corvo bianco contraddice la teoria.
Cosa impedì ad Anassimandro di pervenire alla teoria secondo cui la terra è un globo anziché un cilindro? Era l’esperienza osservativa ad insegnargli che la superficie della terra…è piatta. Fu quindi… l’astratta indagine critica della soluzione di Talete, ad avvicinarlo alla vera teoria…e fu l’esperienza osservativa a portarlo fuori strada.
La scienza prende avvio dai problemi, non dalle osservazioni, queste tuttavia possono dare origine a un problema, soprattutto se sono inattese (e) se si trovano in contrasto con le nostre aspettative o teorie.
Le osservazioni non assomigliano affatto all’uva di Bacone, dalla quale scorre il vino della conoscenza: non sono la materia prima della conoscenza. Al contrario, le osservazioni presuppongono sempre una precedente conoscenza disposizionale.
La tesi che la nostra conoscenza cresca per l’accumulazione di osservazioni è un puro e semplice mito…confutato dal fatto che, un uomo cieco e sordo, può sapere di più e può arrecare più grandi contributi alla conoscenza, di uno con vista e udito acuti.
Problema
Inciampiamo in qualche problema. Tentiamo di risolverlo, ponendo qualche nuova teoria. Impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di soluzione. O, per dirla in tre parole: problemi – teorie – critiche.
Nel momento in cui credi di essere venuto a capo di qualcosa, tutto è perduto. Non veniamo mai a capo di qualcosa, i nostri problemi si spostano di continuo, vanno sempre più lontano.
Tutti gli organismi sono solutori di problemi, pur non essendo consapevoli della maggior parte dei problemi che tentano di risolvere.
Accade spesso che la riformulazione di un problema ci riveli quasi l’intera soluzione.
Quel che conta non sono i metodi o le tecniche, ma una certa sensibilità ai problemi e un’ardente passione per essi o, come dicevano i Greci, la dote naturale di provare meraviglia.
È soltanto in presenza di un problema che acquistiamo la consapevolezza di essere in possesso di una teoria.
È il problema che ci stimola ad apprendere, a portare avanti la nostra conoscenza, a sperimentare e ad osservare.
Gli uomini sembrano portati a reagire di fronte a un problema proponendo qualche teoria e aderendovi il più a lungo possibile (se è erronea, possono anche perire con essa, piuttosto che disfarsene), oppure combattendola, una volta scoperte le deficienze.
Riconsiderando la mia lunga vita, trovo che, a partire dal mio diciassettesimo anno, sono stato attratto dai problemi teorici. Fra questi dominavano i problemi della scienza e della probabilità. Queste erano le preferenze. Le soluzioni erano gli accidenti.
Non siamo studiosi di certe materie, bensì di problemi e i problemi possono passare attraverso i confini di qualsiasi materia o disciplina.
Non ci sono discipline né rami del sapere o, piuttosto, di indagine: ci sono soltanto problemi e l’esigenza di risolverli.
Tutti gli organismi, non soltanto l’uomo, pongono continuamente domande al mondo e cercano continuamente di risolvere problemi.
È troppo semplice e troppo comodo dire che un problema non è un problema soltanto perché non sono capace di risolverlo.
(La scienza) dovrebbe intendersi come un progredire da problemi ad altri problemi, di profondità sempre crescente.
Sono convinto che esista almeno un problema al quale sono interessati tutti gli uomini dediti al pensiero. È il problema della cosmologia: il problema di comprendere il mondo, compresi noi stessi e la nostra conoscenza, in quanto parte del mondo.
C’è soltanto un modo di imparare a comprendere un problema serio…tentare di risolverlo e non riuscirci.
Sostengo che, anche se i nostri tentativi di risolvere il problema falliscono continuamente, avremo imparato molto cimentandoci con esso. Quanto più tentiamo, tanto più impariamo, anche se falliamo ogni volta.
Per risolvere un problema difficile, non abbiamo soltanto bisogno di comprenderlo, ma abbiamo anche bisogno di un po’ di fortuna.
Il fatto che per ogni problema esista sempre un’infinità di soluzioni logicamente possibili, è uno dei fatti decisivi di tutta la scienza, è una delle cose che fanno della scienza un’avventura così eccitante.
SCOPERTE SCIENTIFICHE
Le scoperte di Oersted, Röntgen, Becquerel e Fleming, non furono davvero accidentali, anche se vi intervennero dei fattori casuali. Ognuno di essi stava cercando un effetto del tipo che effettivamente trovò.
Roentgen, interrogato sulla sua scoperta dei raggi X, spiegò: “Stavo cercando dei raggi invisibili“, raggi che sperava di scoprire…avvalendosi di uno schermo fluorescente (Ecco perché c’era lo schermo).
Anche la scoperta della penicillina non fu una scoperta casuale, poiché l’effetto battericida, osservato da Fleming, era ben noto e, quindi, non era neppure inaspettato. Inoltre Fleming era estremamente consapevole, anche prima della sua scoperta, della possibile importanza di questo tipo di effetto per scopi terapeutici.
La scoperta di Fleming non fu accidentale: fu il lavoro di un grande ricercatore che sapeva molto bene cosa stava facendo e che cosa valesse la pena di descrivere, anche se fu un fatto casuale che la muffa si rivelasse non tossica.
Fleming non fu l’osservatore passivo di un accadimento accidentale. Se si trattò di un caso accidentale, (fu un caso) che accadde ad una mente ben preparata e consapevole del possibile significato e della desiderabilità di “accidenti” di questo genere.
Alcune scoperte, come quella dell’America da parte di Colombo, corroborano una teoria (la sfericità della terra) e, contemporaneamente, ne confutano un’altra (le dimensioni della terra e la via più breve per l’India).
Le congetture di Colombo circa quello che aveva scoperto, erano di fatto sbagliate e così, Peary potè solamente congetturare, sulla base di teorie, di aver raggiunto il Polo. Ma tali elementi congetturali non rendono meno reali o meno significative le loro scoperte.
È un fatto strabiliante e poco conosciuto, che la prima macchina copiatrice è opera di quello stesso James Watt che ha inventato la macchina a vapore.
Ogni scoperta contiene un elemento irrazionale o un’intuizione creativa.
Sebbene non possa mai raggiungere né la verità né la probabilità, lo sforzo per ottenere la conoscenza, e la ricerca della verità, sono ancora i motivi più forti della scoperta scientifica.
Si è affermato che la storia delle scoperte scientifiche dipende dalle invenzioni…tecniche di nuovo strumenti. Al contrario, io ritengo che la storia della scienza sia, essenzialmente, una storia di idee.
Le lenti di ingrandimento erano già note da tempo, quando Galilei ebbe l’idea di applicarle ad un cannocchiale astronomico. La radiotelegrafia è, come noto, un’applicazione della teoria di Maxwell, che rimonta a Heinrich Hertz.
Giulio Cesare avrebbe detto che non può esistere qualcosa come un “Ave Caesar“, disegnato dalla scia di un aereo a reazione.
Specializzazione
Non credo nella specializzazione e negli specialisti. Tributando un eccessivo rispetto allo specialista, noi stiamo distruggendo la comunità del sapere, la tradizione razionalista e la scienza stessa.
Tanto la filosofia che la scienza perdono ogni attrattiva quando…diventano specialistiche e cessano di osservare ed interrogare gli enigmi del mondo.
La specializzazione può essere una tentazione per lo scienziato; per il filosofo è un peccato mortale.
SOCIETÀ
Bisogna riconoscere che la struttura del nostro ambiente sociale è…fatta dall’uomo, che le sue istituzioni e tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura, ma i risultati di azioni e decisioni umane ed alterabili da azioni e decisioni umane.
Si è sempre tentato di tenere insieme gli uomini con la forza o con le minacce. La minaccia dell’inferno era un tentativo di questo tipo. Più attuali sono le varie forme di terrorismo.
Una delle singolari circostanze della vita sociale è che mai nulla riesce precisamente nel modo prestabilito.
Gli ordini sociali non possono essere migliori dei loro membri.
Affermare che la nostra società non è giusta, è banale. La giustizia è un ideale. Ma ci siamo avvicinati alla giustizia più di ogni altra società che ci ha preceduto.
Alcuni critici rinfacciano alla nostra società la sua corruzione, benché ammettano che essa viene talvolta punita (Watergate). Forse non vedono qual è l’alternativa. Noi preferiamo quest’ordinamento ad un altro, nel quale nemmeno coloro che non si macchiano di delitti trovano protezione giuridica alcuna e vengono puniti anche quando non è contestata la loro innocenza (Sacharov).
Il sognare una società perfetta è pernicioso: i Puritani speravano di fondarla ed altrettanto fece Robespierre, ma quel che essi realizzarono non fu il cielo in terra, ma l’inferno di una spietata tirannide.
Scienza sociale
Agiamo con certi scopi in mente ma, oltre a questi, vi sono sempre altre conseguenze non desiderate delle nostre azioni che, in genere, non possono essere eliminate. Spiegare perché ciò non sia possibile, è il compito principale della teoria sociale.
Non c’è alcuna ragione per cui si debba credere che la scienza sociale sia capace di realizzare l’antichissimo sogno di svelare che cosa il futuro ha in serbo per noi.
Ciò che hanno in mente certe persone che parlano del nostro sistema sociale e della necessità di sostituire ad esso un altro sistema, è molto simile a un quadro dipinto su una tela, che deve essere completamente ripulita, prima che si possa dipingere un nuovo quadro.
Con Galileo e Newton, la fisica cominciò ad ottenere successi al di là di ogni attesa, lasciando indietro tutte le altre scienze e, dal tempo di Pasteur, il Galileo della biologia, anche le scienze biologiche si sono messe su una via analoga. Le scienze sociali, invece, non hanno ancora trovato il loro Galileo.
SOCIETA’ APERTA
Nel 1935-36 mi recai per la prima volta in Inghilterra. Io venivo dall’Austria, dove era al potere una dittatura relativamente mite, (ma) minacciata dal vicino paese nazionalsocialista. Nella libera atmosfera dell’Inghilterra potevo tirare un sospiro di sollievo. Era come se fossero state aperte le finestre. L’espressione Società Aperta trae origine da questa esperienza.
Con l’espressione Società Aperta designo, non tanto un tipo di Stato o una forma di governo, quanto un modo di convivenza umana, in cui la libertà degli individui, la non-violenza, la protezione delle minoranze, la difesa dei deboli, sono valori importanti.
Io sono stato in molti paesi, ma in nessun altro posto come gli Stati Uniti d’America ho respirato un’aria tanto libera. In nessun altro posto ho trovato così tanto idealismo, unito a tolleranza e desiderio di aiutare ed imparare…e una grande disponibilità nei confronti degli altri.
Le forme di vita e le convenzioni mutano in America con grande rapidità: le Società Aperte non sono molto stabili, proprio perché sono esposte alla discussione critica.
Questa civiltà non si è ancora totalmente ripresa dallo shock della sua nascita: il passaggio dalla società tribale o società chiusa, con la sua sottomissione alle forze magiche, alla Società Aperta, che libera le capacità critiche dell’uomo.
Il passaggio dalla società chiusa alla Società Aperta può essere considerato come una delle più profonde rivoluzioni, attraverso le quali è passato il genere umano.
La nostra civiltà occidentale ebbe origine dai Greci. Essi furono, a quanto ne sappiamo, i primi a compiere il passaggio dal tribalismo all’umanitarismo.
Una Società Aperta (basata sulla tolleranza e sul rispetto delle opinioni altrui) e una democrazia (una forma di governo consacrata alla protezione di una Società Aperta), non possono sopravvivere, se la scienza diventa proprietà esclusiva di un gruppo di specialisti.
La lotta per la Società Aperta cominciò di nuovo con le idee del 1789. Quando nel 1815, in Prussia, il partito reazionario cominciò a riprendere il potere, avvertì l’assoluta necessità…di un’ideologia. Hegel fu designato a soddisfare questa esigenza…rilanciando le idee dei primi grandi nemici della Società Aperta, Eraclito, Platone e Aristotele.
Soltanto nella nostra civiltà occidentale è stata riconosciuta e, addirittura, soddisfatta l’esigenza morale della libertà della persona…di uguaglianza di fronte alla legge, di pace, di evitare quanto più possibile l’uso della violenza. È questo il motivo per il quale reputo la civiltà occidentale la migliore che vi sia stata finora.
Se vogliamo restare umani, ebbene, allora, c’è una strada sola da percorrere: la via che porta alla Società Aperta.
La società chiusa è caratterizzata dalla fede nei tabù magici, mentre (nella) Società Aperta…gli uomini hanno imparato ad assumere un atteggiamento critico nei confronti dei tabù e a basare le loro decisioni sull’autorità della propria intelligenza.
Vorrei indicare due aspetti (della Società Aperta): in primo luogo, in una Società Aperta è possibile la libera discussione e questa discussione esercita un’influenza sulla politica. In secondo luogo, esistono istituzioni per la protezione della libertà e degli svantaggiati.
Soltanto in una Società Aperta le idee hanno l’opportunità di affermarsi.
Ingegneria Sociale
Come Socrate, (l’ingegnere sociale graduale) sa quanto poco sappia…perciò avanza un passo alla volta, confrontando i risultati previsti con quelli effettivamente raggiunti…ed evita di intraprendere riforme, di una complessità e di una gravità tali, che sia impossibile per lui districare le cause dagli effetti e sapere che cosa veramente stia accadendo.
L’approccio platonico…(è) tipico dell’ingegneria utopica, in contrapposizione ad un altro genere di ingegneria sociale, che ritengo il solo veramente razionale, definito ingegneria gradualistica.
L’ingegneria utopica è la pretesa di una ricostruzione globale della società, cioè di cambiamenti di immensa portata, le cui conseguenze pratiche è impossibile prevedere, data la limitatezza delle nostre esperienze.
(L’ingegneria utopica) pretende di pianificare razionalmente la società nella sua interezza, benché non si disponga, neanche in minima parte, della conoscenza fattuale, necessaria per legittimare una pretesa così ambiziosa.
L’ingegneria sociale utopistica è un fuoco fatuo (che) ci fa affondare (nella) palude estremamente pericolosa dell’illimitata burocrazia e dell’illimitato potere dello Stato. Se tentiamo, superbamente, di portare il paradiso sulla terra, riusciamo soltanto a trasformare la terra in un inferno.
TEORIA SOCIALE DELLA COSPIRAZIONE
La teoria sociale della cospirazione…è simile a quella rilevabile in Omero. Questi concepiva il potere degli dèi in modo che, tutto ciò che accadeva nella pianura davanti a Troia, costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell’Olimpo.
La credenza negli dèi omerici, le cui cospirazioni erano responsabili delle vicissitudini della guerra troiana, è venuta meno, ma il posto degli dèi nell’Olimpo omerico è ora occupato dai Vecchi Saggi di Sion, dai monopolisti, dai capitalisti o dagli imperialisti.
La teoria sociale della cospirazione è una versione della credenza in divinità, i cui capricci reggono ogni cosa…è una conseguenza del venir meno del riferimento a Dio e della conseguente domanda “Chi c’è al suo posto?”. Quest’ultimo è ora occupato da diversi uomini e gruppi potenti…cui si può imputare di aver organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo.
L’adozione della teoria della cospirazione difficilmente può essere evitata da quanti credono di sapere come realizzare il cielo sulla terra. La sola spiegazione dell’impossibilità di realizzare questo paradiso è la malvagità del demonio, che ha un interesse acquisto per l’inferno.
La teoria cospirativa della società…consiste nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale sta nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno…e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo.
Io non intendo affermare che di cospirazioni non ne avvengano mai. Al contrario, esse sono tipici fenomeni sociali (che) diventano importanti tutte le volte che pervengono al potere persone che credono nella teoria della cospirazione.
Cospirazioni avvengono, bisogna ammetterlo. Ma il fatto notevole che, nonostante la loro presenza, smentisce la teoria della cospirazione, è che poche di queste cospirazioni, alla fin fine, hanno successo.
I cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione.
Una cospirazione, mai, o quasi mai, si realizza nella maniera prestabilita.
STATO
Ciò che richiedo allo Stato è protezione, non soltanto per me stesso, ma anche per gli altri…per la mia propria libertà e per quella degli altri. Non desidero vivere alla mercé di qualcuno che ha pugni più grossi o armi potenti.
Un punto importante in qualsiasi teoria dello Stato non tirannico (quindi democratico), è il problema della burocrazia, perché le nostre burocrazie sono antidemocratiche. Contengono numerosi piccoli dittatori, che non vengono mai costretti a rendere conto delle loro azioni o omissioni.
Abbiamo bisogno della libertà per impedire che lo Stato abusi del suo potere e abbiamo bisogno dello Stato per impedire l’abuso della libertà.
Nessuno deve essere alla mercé di altri, ma a tutti si deve riconoscere il diritto di essere protetti dallo Stato.
L’interesse dello Stato non dev’essere invocato a cuor leggero per difendere misure che possono mettere in pericolo la più preziosa di tutte le forme di libertà, cioè la libertà intellettuale.
Io sono pronto ad accettare che la mia propria libertà di azione sia in qualche misura limitata dallo Stato, purché possa ottenere la protezione di quella libertà che mi resta.
So che alcune limitazioni della mia libertà sono necessarie, per esempio devo rinunciare alla mia libertà di attaccare, se voglio che lo Stato assicuri la difesa contro ogni attacco.
Non c’è libertà, se non è garantita dallo Stato e, inversamente, soltanto uno Stato che è controllato da cittadini liberi, può offrire loro una qualche ragionevole sicurezza.
Io sono per la libertà individuale e odio, come pochi, la strapotenza dello Stato e l’arroganza delle burocrazie. Ma purtroppo lo Stato è un male necessario, è impossibile farne completamente a meno.
Lo Stato dovrebbe anche provvedere a che le insufficienti disponibilità finanziarie dei singoli non impediscano loro l’accesso agli studi superiori.
Possiamo essere ridotti alla schiavitù, non soltanto da un dittatore…ma anche dallo stesso Stato, da una burocrazia anonima.
Lo Stato deve vigilare a che nessuno sia costretto dalla paura della fame o della rovina economica ad assoggettarsi ad una transazione iniqua.
Purtroppo è vero: più sono gli uomini e più c’è bisogno dello Stato.
È facile constatare che lo Stato è necessariamente un pericolo costante, o un male (come ho osato affermare), quantunque necessario.
La libertà dei miei pugni è limitata dal diritto degli altri di difendere il loro naso. Questa è l’idea fondamentale dello Stato di diritto.
Ciò che si può fare dall’alto e che si dovrebbe fare in ogni circostanza, ciò che è il dovere di ogni governo, è di cercare di instaurare lo Stato di diritto.
Ci serve una legge contro la violenza, contro l’omicidio. Questo non è altro che la regola, la norma, lo Stato di diritto.
Lo Stato di diritto consiste prima di tutto nell’eliminare la violenza.
È necessaria una Corte Costituzionale e, più di ogni altra cosa, una buona volontà.
Lo Stato è un male necessario: i suoi poteri non devono essere moltiplicati oltre necessità. Si potrebbe definire questo principio il rasoio liberale (per analogia col rasoio di Ockham, cioè, con il principio, secondo cui, gli enti non devono essere moltiplicati, oltre necessità).
NAZIONALISMO
L’orgoglio razziale non è soltanto una cosa stupida, ma anche sbagliata, anche nel caso in cui sia provocato dall’odio razziale. Ogni nazionalismo o razzismo è un male e il nazionalismo ebraico non rappresenta un’eccezione.
Il principio dello stato nazionale non è soltanto inapplicabile, ma non è stato mai neppure chiaramente concepito. Esso è un mito, è un sogno irrazionale, romantico ed utopistico, un sogno del naturalismo e del collettivismo tribale.
Poche fedi hanno generato più odio, crudeltà ed inutili sofferenze, della credenza nella validità del principio di nazionalità.
STORIA
Non c’è nessuna storia dell’umanità, c’è soltanto un numero illimitato di storie che riguardano tutti i possibili aspetti della vita umana. Uno di questi, è la storia del potere politico. Questa è elevata a storia del mondo, ma si tratta di un affronto contro l’umanità e la moralità
Quando si parla di storia dell’umanità si pensa alla storia degli imperi egiziano, babilonese, persiano, macedone e romano. In altri termini: si parla di storia dell’umanità e ciò a cui si pensa è ciò che a scuola si è imparato, è la storia del potere politico.
La storia della politica del potere non è che la storia del crimine nazionale ed internazionale e dell’assassinio di massa. Questa storia viene insegnata a scuola ed alcuni dei più grandi criminali vengono esaltati come suoi eroi.
La storia dei Grandi e dei Potenti, è nel migliore dei casi una commedia superficiale, un’opera buffa…Quello che è uno dei nostri peggiori istinti, la venerazione idolatrica del potere, ci ha spinto a ritenere reale proprio questa superficiale commedia.
Gli stessi storici, che ammirano Roma per la sua massima realizzazione, la fondazione di un impero universale, condannano invece Atene, per il suo tentativo di fare qualcosa di meglio.
Il fatto che Roma sia riuscita, mentre Atene è andata incontro all’insuccesso, non è una spiegazione sufficiente di questo atteggiamento.
Non ci può essere nessuna storia del “passato come è effettivamente avvenuto”; ci possono essere soltanto interpretazioni storiche e nessuna conclusiva; ogni generazione ha diritto di elaborare la propria.
Una storia concreta del genere umano, se ce ne potesse essere una, dovrebbe essere la storia di tutti gli uomini…di tutte le speranze, lotte e sofferenze umane. Infatti, non esiste uomo, che sia più importante di un altro uomo. Evidentemente, questa storia concreta non può essere scritta.
La vita dell’uomo singolo, dimenticato, ignoto, le sue pene e le sue gioie, la sua sofferenza e la sua morte, questo è il contenuto effettivo dell’esperienza umana attraverso i secoli.
Molti storici scrissero sotto il controllo di imperatori, generali e dittatori.
I fatti, sia quelli della natura sia quelli della storia, non possono decidere per noi, non possono determinare i fini che ci proporremo di perseguire. Siamo noi che introduciamo finalità e significato nella natura e nella storia.
Il pericolo del fanatismo e l’obbligo di contrapporsi ad esso senza tregua, è certo uno degli insegnamenti principali che possiamo trarre dalla storia.
Dalla storia si impara, ma la storia finisce oggi e ora.
STORICISMO
È la teoria, secondo la quale la storia ha un disegno…che ho chiamato “storicista“.
Per storicismo intendo una interpretazione del metodo delle scienze sociali, che aspira alla previsione storica, mediante la scoperta dei ritmi, o dei patterns, delle leggi, delle tendenze che sottostanno all’evoluzione storica.
(Lo storicismo è) il residuo di un’antica superstizione, anche se chi vi crede, è normalmente convinto che si tratti di una teoria assai moderna, progressista, rivoluzionaria e scientifica.
Il corso della storia umana è influenzato dal sorgere della conoscenza umana…noi non possiamo predire, mediante metodi scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica…perciò non possiamo predire il corso futuro della storia umana.
L’idea di una legge che determini la direzione e le caratteristiche dell’evoluzione, è un tipico errore del XIX secolo, derivante dalla diffusa tendenza ad attribuire alla legge naturale, le funzioni tradizionalmente attribuite a Dio.
Lo storicismo è tutto un errore. Lo storicista vede la storia come una specie di corrente d’acqua, come un fiume che scende e crede di poter prevedere dove passerà l’acqua, a partire da quel momento.
Si può studiare quel che è stato, ma quel che è stato è finito e da adesso in avanti non siamo in condizione di anticipare un bel niente, non siamo in grado di seguire la corrente, dobbiamo semplicemente agire e cercare di rendere le cose migliori.
Lo storicista non vede che siamo noi che scegliamo o ordiniamo i fatti della storia, egli crede, piuttosto, che la “storia stessa” determini, per mezzo delle sue leggi immanenti, noi stessi, i nostri problemi, il nostro futuro e persino il nostro punto di vista.
Lo storicismo non si oppone all’attivismo, anzi una sociologia storicistica può anche essere intesa come una specie di tecnologia atta (secondo la frase di Marx) a “rendere più brevi e meno dolorose le doglie del parto” di un nuovo periodo storico.
Lo storicismo è alla ricerca della via sulla quale è destinata a marciare l’umanità, vuole scoprire la chiave della storia…o il senso della storia.
La storia non è studiata per sé stessa, ma serve come il metodo delle scienze sociali. Questa è la metodologia storicistica.
Come il gioco d’azzardo, lo storicismo è figlio della nostra sfiducia nella razionalità e responsabilità delle nostre azioni.
EFFETTO DI EDIPO
Edipo uccise suo padre che non aveva mai veduto, ma questa azione, era il risultato diretto della profezia che aveva spinto suo padre ad abbandonarlo. Per questo motivo suggerirei di denominare effetto di Edipo l’influenza della previsione sull’effetto predetto.
Basta che un numero sufficiente di uomini creda al tramonto dell’Occidente, perché l’Occidente tramonti; persino quando, senza una simile propaganda, avrebbe proseguito la sua ascesa.
TELEVISIONE
Se a scuola un professore vi insegna quello che bisogna fare per introdursi illecitamente in una banca o per avvelenare un genitore, se vi dà tutte le informazioni utili per diventare un criminale, voi direte che quel professore deve essere rimosso…la stessa cosa dovrebbe valere per i professionisti della televisione.
La televisione è diventata davvero un grande orrore, anche se avrebbe potuto essere una benedizione.
Si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori e…l’audience li accetta, purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo…spezie sempre più forti sul cibo preparato, perché il cibo è cattivo e con più sale e più pepe si cerca di passar sopra anche a un sapore disgustoso.
Chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa essere ritirato a vita, qualora agisca in contrasto con certi principi. Questa è la via attraverso la quale io vorrei che si introducesse finalmente una disciplina in questo campo.
Colui che si candida a produrre televisione…gli piaccia o no, sarà coinvolto nell’educazione di massa, in un tipo di educazione che è terribilmente potente e importante.
Tutti coloro che sono coinvolti nel fare televisione agiscono come educatori, perché la televisione porta le sue immagini sia davanti ai bambini e ai giovani, che agli adulti. Chi fa televisione deve sapere di aver parte nell’educazione degli uni e degli altri.
La televisione produce violenza e la porta in case dove altrimenti violenza non ci sarebbe.
Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente, non può esistere a lungo, fino a quando il potere della televisione non sarà stato pienamente scoperto.
Noi oggi stiamo educando i nostri bambini alla violenza attraverso la televisione e gli altri mezzi di comunicazione….Penso tuttora che purtroppo noi abbiamo bisogno della censura.
TOLLERANZA
Quando, in un congresso che si teneva ad Hannover, difesi l’America, si ebbero tumulti ed urla di protesta e venni accompagnato da un’orchestra di fischi. Valutai questo fatto come segno che i miei ascoltatori non si fossero annoiati ed ero felice, giacché potetti credere, o illudermi, di stare spezzando una lancia per la libertà e la tolleranza.
L’atteggiamento di ragionevolezza ha dei limiti. Lo stesso vale per la tolleranza. Non si deve accettare incondizionatamente il principio di tollerare tutti gli intolleranti: se lo fate, sacrificate, insieme a voi, l’atteggiamento di tolleranza.
Se riconosciamo all’intolleranza il diritto di essere tollerata, allora noi distruggiamo la tolleranza e lo stato di diritto. Fu questo il destino della Repubblica di Weimar.
Tommaso Moro e John Fisher, entrambi compagni di Erasmo, morirono, non come martiri del Cattolicesimo Romano, ma come martiri dell’idea di umanesimo, come oppositori della barbarie, del dominio arbitrario e della violenza. Se oggi guardiamo al Cristianesimo come ad una forza a sostegno della pace e della tolleranza, testimoniamo la vittoria spirituale di Erasmo.
Noi dobbiamo essere tolleranti, tolleranti specialmente nei confronti delle idee etiche e religiose.
Socrate e Democrito, fecero la medesima scoperta etica…entrambi asserivano, quasi con le stesse parole: “Patire un’ingiustizia è meglio che fare un’ingiustizia“. Si può dire che questa convinzione porti alla tolleranza; come in seguito insegnò Voltaire.
Dobbiamo aver ben chiaro che necessitiamo degli altri per scoprire e correggere gli errori (e loro hanno bisogno di noi), in particolare di uomini cresciuti con altre idee e in una diversa atmosfera. Anche questo porta alla tolleranza.
TRADIZIONE
Alcuni tipi di tradizione sono propri di un luogo e non possono essere facilmente trapiantati. Mi riferisco alla tradizione scientifica…ho constatato che è difficilissimo trapiantarla dai pochi luoghi in cui è ben radicata. Essa fu distrutta in Grecia duemila anni fa e non si riaffermò per un tempo assai lungo.
Quand’ero in Nuova Zelanda acquistai una serie di dischi americani con il Requiem di Mozart. Quand’ebbe ascoltato quei dischi, capii cosa significava la mancanza di una tradizione musicale. Erano stati incisi sotto la direzione di un musicista che non era mai venuto a contatto con la tradizione che discende da Mozart. Il risultato era rovinoso.
I primi filosofi greci…cominciarono a discutere…invece di accettare la tradizione religiosa acriticamente, come se fosse inalterabile. Invece di tramandare una tradizione, la respinsero e, qualche volta, inventarono perfino un nuovo mito, per sostituirlo all’antico.
Non penso che possiamo mai liberarci completamente dai vincoli della tradizione. Il cosiddetto processo di liberazione è, in realtà, soltanto il passaggio da una tradizione a un’altra.
Siamo in grado…di liberarci dai tabù di una tradizione e possiamo farlo, non soltanto rifiutandola, ma anche accettandola criticamente.
Una delle componenti più importanti della civiltà occidentale è la cosiddetta tradizione razionalistica ereditata dai Greci. È la tradizione della discussione critica, non fine a sé stessa, ma volta alla ricerca della verità.
La filosofia greca era il prodotto di una tradizione e del bisogno imperioso di comprendere il mondo e così la tradizione fondata da Galileo ne rappresentava il rinascimento.
Se porto l’orologio al polso sinistro, non occorre che sia consapevole di accettare una tradizione. Ogni giorno facciamo centinaia di cose influenzati da tradizioni di cui non siamo coscienti.
Se non sappiamo di agire sotto l’influenza di una tradizione, non possiamo fare a meno di accettarla acriticamente.
La fonte di gran lunga più importante della nostra conoscenza è la tradizione. La maggior parte delle cose che conosciamo, le abbiamo imparate da esempi, o perché ci sono state dette, o perché le abbiamo lette nei libri, o imparando come criticare, come accogliere e accettare le critiche, come rispettare la verità.
UOMO
Ogni qualvolta muore un uomo, è un universo intero a venire distrutto. (Ce ne rendiamo conto non appena ci identifichiamo con quell’uomo).
L’uomo, si può dire, sembra essere non tanto un animale razionale, quanto un animale ideologico.
Abbiamo buone ragioni di credere che l’uomo, o meglio il suo antenato, fu sociale prima di essere umano.
Il genere umano non si è poi comportato tanto male. Nonostante il tradimento di alcuni dei suoi leaders intellettuali, nonostante gli effetti di istupidimento dei metodi platonici nell’educazione ed i risultati distruttivi della propaganda, ci sono stati sorprendenti successi. Molti uomini deboli sono stati aiutati e, da circa un centinaio d’anni, la schiavitù è stata praticamente abolita.
Quello che realmente conta è la piccola minoranza di uomini creatori…che creano opere d’arte o di pensiero, i fondatori di religioni e i grandi uomini di Stato. Sono questi pochi individui eccezionali che ci permettono di farci un’idea della vera grandezza dell’uomo.
Possiamo dire che dobbiamo la nostra ragione, come il nostro linguaggio, ai nostri rapporti con gli altri uomini.
Gli esseri umani sono insostituibili e, come tali, sono molto diversi dalle macchine. Sono capaci di gustare la gioia della vita, ma anche di soffrire e sanno affrontare la morte con piena consapevolezza. Sono degli io, dei fini a sé stessi, come diceva Kant.
Coloro che credono nell’uomo quale è e non hanno abbandonato la speranza di vincere la violenza e l’irrazionalità, devono esigere che ad ogni uomo sia dato il diritto di organizzare autonomamente la propria vita, nella misura in cui ciò è compatibile con gli eguali diritti degli altri.
Noi possiamo amare il genere umano soltanto in determinati individui concreti, ma mediante l’uso del pensiero e dell’immaginazione, possiamo renderci pronti ad aiutare coloro che hanno bisogno del nostro aiuto.
ANIMALI
Invece di farci crescere una ghiandola sulla punta di un dito, una ghiandola ad inchiostro e scrivere con essa, creiamo una penna. È questo che differenzia gli uomini dagli animali.
Pure gli animali hanno aspettative che dipendono dalle esperienze fatte nel passato. Conoscete sicuramente la storia del ratto che dice ad un altro ratto: “Ho addestrato così bene l’uomo dal camice bianco che, ogni volta che premo questa leva, mi porta qualcosa da mangiare”.
Ho ben pochi dubbi sul fatto che gli animali siano coscienti e che soprattutto sentano dolore e che un cane non stia in sé dalla gioia al ritorno del suo padrone. Congetturo però, che soltanto un essere umano, in grado di parlare, possa riflettere su sé stesso.
Il mio metodo di apprendimento per prova ed errore, mi sembra fondamentalmente lo stesso, tanto se praticato dagli animali inferiori, quanto da quelli superiori, dagli scimpanzé o dagli uomini di scienza.
GENERAZIONI
I nostri simili hanno il diritto ad essere aiutati; nessuna generazione dev’essere sacrificata per il bene di quelle future, in vista di un ideale di felicità che può non realizzarsi mai.
Tutte le generazioni sono transitorie. Tutte hanno eguale diritto ad essere prese in considerazione, ma i nostri doveri sono senz’altro vincolati alla generazione attuale e alla successiva.
INDIVIDUALISMO
L’emancipazione dell’individuo fu davvero la grande rivoluzione spirituale che ha portato alla disgregazione del tribalismo e all’emergenza della democrazia.
(Sono) individualista, nel senso che è tra i singoli individui che deve esistere un rapporto di giustizia e che, concetti come quello di umanità o persino di classe, sono astrazioni, talora assai pericolose.
L’individualismo…è la dottrina centrale del Cristianesimo (“ama il prossimo tuo“, dice la Scrittura, non “ama la tua tribù“) ed è il nucleo vivo di tutte le dottrine etiche che sono scaturite dalla nostra civiltà e l’hanno stimolata.
(L’individualismo) è anche la dottrina etica centrale di Kant (“devi sempre riconoscere che gli individui umani sono fini e non devi mai usarli come meri mezzi ai tuoi fini“). Non c’è alcun altro pensiero che abbia avuto tanta influenza nello sviluppo morale dell’uomo.
Vita
Vi sono (uomini) che pensano che la vita sia priva di valore perché ha fine. Non pensano che si potrebbe anche proporre l’argomento opposto: se non vi fosse fine alla vita, essa non avrebbe valore ed è il pericolo sempre presente di perderla che, in qualche misura, aiuta a renderci consapevoli del valore della vita.
La vita, l’universo stesso, prima che vi apparisse la vita, è creativo; ma la prova di questa creatività si ha prima ad opera della vita e la prova decisiva si ha attraverso Mozart.
Il senso della vita non è qualcosa di nascosto che possiamo trovare o scoprire, bensì qualcosa che noi stessi possiamo conferire alla vita stessa.
Possiamo conferire un senso alla nostra esistenza mediante il nostro fare e il nostro lasciar fare, il nostro lavoro e il nostro agire, con la nostra posizione rispetto alla vita, agli altri uomini e al mondo.
La vita ha, in ogni caso, un valore di rarità: è preziosa. Siamo inclini a dimenticarlo e a disprezzare la vita, forse per leggerezza, o forse perché la nostra bella terra e un po’ sovraffollata.
Con i miei ottantatré anni, sono oggi l’uomo più felice che conosca. Trovo la vita indescrivibilmente meravigliosa. Essa è sicuramente pure terribile…e, benché non di rado abbia attraversato momenti di disperazione e anche oggi abbia preoccupazioni più che pesanti, mi è capitato di essere “felice sino al cielo, triste sino alla morte” e sono felice.
VERITÀ
Lo status della verità, in senso oggettivo, come corrispondenza ai fatti, può paragonarsi a quello di una cima montuosa, normalmente avvolta fra le nuvole. Uno scalatore può, non soltanto avere difficoltà a raggiungerla, ma anche non accorgersene quando vi giunge, poiché può non riuscire a distinguere, nelle nuvole, fra la vetta principale e un picco secondario.
La scienza è ricerca della verità. Ma la verità non è verità certa.
La certezza non è un obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza. La verità lo è.
Nella nostra ricerca della verità, abbiamo sostituito la certezza scientifica con il progresso scientifico.
Nella scienza possiamo tendere alla verità e lo facciamo. La verità è il valore fondamentale. Quel che non possiamo raggiungere è la certezza. Ad essa dobbiamo rinunciare.
Cerchiamo la verità, ma non possiamo sapere quando l’abbiamo trovata. Non abbiamo un criterio di verità e siamo tuttavia guidati dalla sua idea come principio regolativo.
L’idea stessa di errore e di fallibilità, comporta quella di una verità oggettiva, come modello che possiamo essere incapaci di raggiungere (in questo senso, l’idea di verità è regolativa).
Ho definito la verità un’idea “regolativa” perché, pur non avendo un criterio di verità, abbiamo molti criteri di falsità.
Non vogliamo semplicemente la verità, ma più verità e una verità nuova. Non ci accontentiamo di “due volte due fanno quattro“, anche se questo è vero. La semplice verità non basta; quel che cerchiamo sono delle risposte ai nostri problemi.
Penso che dovremmo…ammettere che ogni conoscenza è umana ed è coinvolta nei nostri errori, pregiudizi, sogni e speranze e che non possiamo fare altro che cercare la verità a tentoni, anche se è situata al di là della nostra portata.
Se troviamo due banconote indistinguibili, abbiamo buone ragioni di credere che almeno una di esse è una contraffazione. Una banconota falsa non diventa autentica, se la falsificazione è perfetta o perché tutte le tracce storiche dell’operazione di contraffazione sono scomparse.
La critica e la discussione sono i soli mezzi di cui disponiamo per arrivare più vicini alla verità.
Non possiamo rendere vera una cosa con un tratto di penna, come cercano di fare talvolta i dittatori, per esempio facendo riscrivere la storia passata.
Sebbene esista la verità, non esiste alcun criterio di verità. Questo è molto importante perché molti filosofi confondono l’idea di verità con l’idea di criterio di verità.
Vi sono verità incerte…ma non esistono certezze incerte.
Un ricercatore di verità deve osare…di essere un rivoluzionario nel campo del pensiero.
(La ricerca della verità) è possibile soltanto se parliamo chiaramente e semplicemente ed evitiamo tecnicismi e complicazioni non necessari.
La verità…non è manifesta e d’altra parte sarebbe un errore credere, come credono Comte e Mill, che, rimossi gli ostacoli, la verità possa diventare visibile a quanti desiderano vederla.
La teoria che la verità è manifesta non soltanto educa fanatici, cioè uomini convinti che tutti coloro che non vedono la verità manifesta devono essere posseduti dal diavolo…ma può anche condurre all’autoritarismo.
Nella ricerca della verità sono necessari: a) fantasia; b) tentativo ed errore; c) la scoperta graduale dei nostri pregiudizi, con l’aiuto di a), b) e con l’aiuto della discussione critica.
La verità è qualcosa di oggettivo, la certezza qualcosa di soggettivo.
Non voglio affatto dire che gli individui non dicano mai il vero. Affermo soltanto che essi, nella misura in cui dicono talvolta qualcosa di comprensibile, dicono anche, con altrettanta frequenza, il falso.
Pizia di Marsiglia, il primo greco che raccontò di aver visto “il mare ghiacciato e il sole a mezzanotte“, divenne, per i suoi contemporanei, la figura proverbiale del bugiardo.
VIOLENZA
Se un uomo è deciso ad usare violenza, al fine di raggiungere i suoi obiettivi, possiamo dire che egli adotta comunque un atteggiamento violento, sia o non sia la violenza effettivamente usata, in un determinato caso.
L’uso prolungato della violenza può portare alla perdita della libertà, dato che è destinato a portare con sé, non il governo spassionato della ragione, ma il governo dell’uomo forte.
C’è soltanto un altro caso di uso della violenza nei conflitti politici che sono disposto a ritenere giustificato. Intendo riferirmi alla resistenza, una volta instaurata la democrazia, a qualsiasi attacco contro la Costituzione e l’uso dei metodi democratici.
La violenza genera sempre maggiore violenza.
Quando due persone non sono d’accordo…vi sono due soli modi di giungere (ad una soluzione): la discussione e la violenza. Oppure, se si tratta di un contrasto di interessi, le due alternative sono un ragionevole compromesso o il tentativo di eliminare l’interesse opposto.
Non è possibile ragionare con uno che ammira la violenza. Egli può sempre rispondere ad un ragionamento, con una pallottola, se non è trattenuto dalla minaccia di una violenza contraria alla sua.
Non si uccide mai un uomo se si adotta l’atteggiamento di prestare orecchio, prima di tutto ai suoi argomenti.
Anche Mahatma Gandhi era un combattente: un combattente per la non violenza.
ARGOMENTI VARI
Mentre è vero che il dolore offre qualche vantaggio, nella misura in cui costituisce un avvertimento, difficilmente esiste un vantaggio nell’avere un mal di denti cosciente…prima dell’invenzione dei dentisti…non c’era alcun vantaggio ad avere un mal di denti cosciente. Del resto, l’invenzione dei dentisti è una conseguenza del mal di denti.
Voi tutti conoscerete la storia del soldato che scoprì che tutto il suo battaglione (a parte lui, naturalmente) non marciava al passo. Io mi trovo costantemente in questa piacevole posizione. E sono molto fortunato poiché, di regola, alcuni altri membri del battaglione sono piuttosto disponibili a rimettersi al passo.
Sono grato al professor Wilfrid Sellars…per la gentilezza con cui definisce (il mio saggio Language and The Body – Mind Problem) “stimolante, efficace, sebbene ineguale“. Di tale limite, nessuno può essere più consapevole di me. Credo di essere sensibile al problema più di quanto la principessa di Andersen lo fosse al pisello.
Molti anni fa, quando vivevo in Nuova Zelanda, avevo un amico, il vecchio Dottor Farr, un professore emerito di fisica…sulla soglia degli ottant’anni, che manteneva interesse per gli studenti del suo vecchio dipartimento di fisica…Un giorno uno studente era chiaramente imbarazzato e, alla domanda “Cosa c’è che non va?”, balbettò: “Mi scusi, dottor Farr, ma il suo cappello è girato dalla parte sbagliata!”, Fulminea arrivò la risposta: “Come fai a sapere da che parte vado?”.
PASSI SCELTI DA OPERE DI POPPER
L’INDUZIONE
Secondo un punto di vista largamente accettato […]le scienze empiriche possono essere caratterizzate dal fatto di usare i cosiddetti “metodi induttivi”.[…]Già dall’opera di Hume si sarebbe dovuto vedere chiaramente che in relazione al principio d’induzione possono facilmente sorgere contraddizioni; e si sarebbe anche dovuto vedere che esse possono venire evitate, ammesso che lo possano, soltanto con difficoltà. Infatti il principio d’induzione dev’essere a sua volta un’asserzione universale.[…]Per giustificarlo, dovremmo impiegare inferenze induttive; e per giustificare queste ultime dovremmo assumere un principio induttivo di ordine superiore, e così via. In tal modo il tentativo di basare il principio d’induzione sull’esperienza fallisce, perché conduce necessariamente a un regresso infinito.
(K. Popper, Logica della scoperta scientifica)
LA FALSICABILITA’
Se vogliamo evitare l’errore positivistico, consistente nell’eliminare per mezzo del nostro criterio di demarcazione i sistemi di teorie delle scienze della natura, dobbiamo scegliere un criterio che ci consenta di ammettere, nel dominio della scienza empirica, anche asserzioni che non possono essere verificate. Ma io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di esser scelto, in senso positivo, una volta per tutte, ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza.
(K. Popper, Logica della scoperta scientifica)
LO STORICISMO
1. Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana.
2. Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica. […]
3. Perciò, non possiamo predire il corso futuro della storia umana.
4. Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica; cioè, di una scienza sociale storica che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.
5. Lo scopo fondamentale dello storicismo è quindi infondato. E lo storicismo crolla. […]
Ma può esserci una legge dell’evoluzione? […]
Io credo che la risposta a questa domanda debba essere “no”… I miei argomenti sono semplicissimi. L’evoluzione della vita sulla terra o della società umana, è un processo storico unico.
(K. Popper, Miseria dello storicismo)
VERITA’ E CONTROLLABILITA’ DI UNA TEORIA
La storia della scienza, come quella di tutte le idee umane, è storia di sogni irresponsabili, di ostinazioni e di errori. Ma la scienza è una delle pochissime attività umane — se non l’unica — in cui gli errori vengono sistematicamente sottoposti a critica e, sovente, corretti con l’andare del tempo. Per questo possiamo dire che, nella scienza, spesso impariamo dagli errori, e possiamo quindi, in questo ambito, parlare chiaramente e razionalmente di progresso. […] se l’accrescersi della conoscenza significa che operiamo con teorie di contenuto crescente, ciò deve anche significare che operiamo con teorie di decrescente probabilità (nel senso del calcolo delle probabilità). Se dunque il nostro scopo è l’avanzamento, o l’accrescersi, della scienza, un’alta probabilità (nel senso del calcolo delle probabilità) non può essere parimenti il nostro proposito: questi due propositi sono incompatibili. […] Uno scontro frontale si potrebbe forse evitare se non si fosse così generalmente inclini a supporre che uno degli scopi della scienza dev’essere un alto grado di probabilità…
(K. Popper, Verità, razionalità e accrescersi della conoscenza scientifica)
LA TEORIA DELLA DEMOCRAZIA
È mia convinzione che, esprimendo il problema della politica nella forma: “Chi deve governare?” o “La volontà di chi dev’essere decisiva?”, ecc., Platone ha prodotto una durevole confusione nel campo della filosofia politica. […] È evidente che, una volta formulata la domanda: “Chi deve governare?”, non si possono evitare risposte di questo genere: “i migliori” o “i più sapienti” o “il governante nato”… Ma una risposta siffatta, per quanto convincente possa sembrare — infatti, chi potrebbe propugnare il governo del “peggiore” o del “più grande stolto” o dello “schiavo nato”? — è, come cercherò di dimostrare, assolutamente sterile.[…] Ma ciò ci porta a un nuovo approccio al problema della politica, perché ci costringe a sostituire alla vecchia domanda Chi deve governare la nuova domanda Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?
(K. Popper, La società aperta e i suoi nemici)
TEORIA ED ESPERIENZA
Dunque la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di “assoluto”. La scienza non posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o “data”; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura.
(K. Popper, Logica della scoperta scientifica)
Sintesi di La scienza: congetture e confutazioni
A cura di Mario Trombino
Premessa
E’ il testo di una conferenza tenuta a Cambridge nell’estate del 1953 nell’ambito di un corso sugli sviluppi e le tendenze della filosofia britannica contemporanea, organizzato da British Council.
Il testo è apparso dapprima nella pubblicazione che raccoglieva le conferenze di questo corso, poi è entrato a far parte di una raccolta di conferenze e saggi, edita nel 1962, a cui Popper ha dato il titolo di Congetture e confutazioni. Di questa raccolta è il primo testo, e in qualche modo il più importante (la somiglianza dei titoli della conferenza e della raccolta è in effetti significativa), perché in esso Popper esprime le sue idee generali sulla scienza. La breve prefazione al volume, in cui Popper raccoglie il nucleo centrale delle sue idee, è in effetti una estrema sintesi proprio delle tesi di questa conferenza iniziale.
Non vi sono idee nuove rispetto agli scritti precedenti, in particolare rispetto alla sua opera fondamentale, la Logica della scoperta scientifica (1934).
Come vedremo nella sintesi che segue, in questa conferenza Popper racconta il percorso che lo ha portato alla elaborazione delle sue tesi, e non presenta tesi nuove. In una Appendice, però, elenca senza affrontarli nel dettaglio una serie di problemi aperti, prevalentemente di natura scientifica e logica.
Sintesi
La conferenza ha inizio con l’esposizione dell’argomento: Popper dichiara che presenterà una sintesi dei suoi lavori sulla filosofia della scienza a partire dal 1919. Allora, giovane studente a Vienna, il suo problema era il seguente: “esiste un criterio per determinare il carattere scientifico di una teoria?” Se esiste un simile criterio, sulla questa base si potrà “stabilire una linea di demarcazione fra scienza e pseudoscienza”. Dunque, ciò di cui si discute è il problema della demarcazione: come distinguere una teoria scientifica da una che non lo è?
Popper riferisce che nel 1919 si discuteva molto di psicoanalisi e di marxismo, oltre che dell’ultima novità della Fisica, la teoria della relatività elaborata da Einstein tra il 1905 e il 1915. In che cosa erano diverse queste teorie scientifiche? In questo:
- la teoria della relatività faceva predizioni sul comportamento della natura che, se non fossero state confermate, avrebbero mostrato che la teoria era in tutto o in parte sbagliata; ebbene, nel corso dell’eclisse del 1919 si poté misurare la curvatura della luce di una stella per effetto della gravitazione del Sole, curvatura esattamente prevista da Einstein; se l’osservazione avesse dato risultati diversi, la teoria di Einstein avrebbe dovuto essere abbandonata;
- la psicoanalisi e il marxismo non facevano alcuna previsione di questo genere; non erano teorie “a rischio” nel senso che qualsiasi cosa fosse accaduta nel loro campo di studio queste teorie avrebbero potuto interpretarla in modo da salvare la teoria stessa. Avevano un enorme potere esplicativo, ma questo era in realtà soltanto apparente: lo studio di queste teorie “sembrava avere l’effetto di una conversione o rivelazione intellettuale, che consentiva di levare gli occhi su una nuova verità, preclusa ai non iniziati. Una volta dischiusi in questo modo gli occhi, si scorgevano ovunque delle conferme: il mondo pullulava di verifiche della teoria”.
La differenza è evidente: nel caso della teoria della relatività “la cosa che impressiona è il rischio implicito nella previsione”. Negli altri due casi è la facilità con cui si ottengono conferme, a patto di interpretare i dati alla luce della teoria (la chiave in questo caso è il concetto di interpretazione di un fatto). Da qui la tesi: “il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità, o controllabilità“. Dunque la psicoanalisi e il marxismo non fanno parte della scienza, sono al di là della demarcazione (il che non significa che non siano utili o che non contengano verità: significa solo che non rispettano un criterio necessario per essere definite scienze; su di essi forse domani sarà possibile costruire delle vere scienze, perché in fondo tutte le vere scienze storicamente derivano da miti)
Naturalmente anche se una teoria è confutabile, ed è quindi scientifica, di fronte a dati che la confutano vi è chi tenta di salvarla: in questi casi c’è chi mette in atto una “reinterpretazione ad hoc della teoria, in modo da sottrarla alla confutazione. Una procedura del genere è sempre possibile, ma essa può salvare la teoria solo al prezzo di pregiudicare il suo stato scientifico”. Popper chiama tale operazione di salvataggio “mossa o stratagemma convenzionalistico”.
Sulla base del suo criterio di falsificabilità per la soluzione del problema della demarcazione, Popper prende posizione contro Wittgenstein. Questi nel Tractatus logico-philosophicus (1921) sostiene che le proposizioni filosofiche e metafisiche (e quindi i relativi problemi) sono del tutto prive di significato, e quindi non hanno senso. Infatti per Wittgenstein tutte le proposizioni dotate di senso rimandano a fatti d’esperienza. Dunque appartengono alla scienza soltanto le proposizioni (e quindi le teorie) che possono essere dedotte da fatti osservati. Popper ne conclude che per Wittgenstein il carattere scientifico è dato dalla verificabilità, e dunque che ci troviamo di fronte ad un “rozzo criterio di demarcazione basato sulla verificabilità”.
In discussione è qui che cosa significa che una proposizione ha o non ha un significato (per Wittgenstein nel Tractatus ha significato e senso solo se fondata sulla esperienza). Popper nota che al tempo delle discussioni all’interno del Circolo di Vienna (anni Venti e Trenta) la sua posizione contraria a Wittgenstein era stata mal compresa. “Il mio contributo venne interpretato dai membri del Circolo come una proposta per sostituire al criterio del significato come verificabilità un criterio del significato come falsificabilità”. In realtà, Popper dice di non essere affatto entrato nel merito del problema del significato (“mi è apparso sempre un problema verbale, un tipico pseudoproblema”), ma di avere proposto un problema diverso, appunto quello della demarcazione. Anche i problemi filosofici e metafisici, a suo avviso, hanno pieno significato, anche se non possono rientrare nel criterio di falsificabilità e quindi non sono problemi scientifici. Popper non rifiuta quindi una singola tesi di Wittgenstein, ma la sua stessa impostazione di fondo: l’idea che il senso di una proposizione, e quindi di un problema, dipenda dal suo rimando all’esperienza. Per Popper il significato e il senso dei problemi filosofici non dipendono affatto da questo (il tema sarà approfondito in altri saggi di Congetture e confutazioni)
Popper passa poi ad esaminare il problema dell’induzione. E’ il problema con cui si è confrontato Hume: come si passa da una molteplicità di osservazioni ad una teoria che permette di prevedere il comportamento della natura? E’ corretto e scientificamente affidabile il procedimento induttivo (che permette di passare da tanti casi particolari ad un enunciato generale)?
L’esempio tipico di Hume era questo: come possiamo essere certi che domani sorgerà il Sole sulla base del fatto che ogni giorno l’esperienza passata ci ha insegnato che il Sole è sorto? C’è una ragione per cui il futuro debba necessariamente somigliare al passato? La risposta di Hume era scettica (l’induzione non è uno strumento affidabile per la ricerca della verità); tuttavia l’uomo è portato a “credere” nell’induzione (a credenze del tipo “domani sorgerà il Sole”) perché guidato dall’abitudine. Ciò che ho visto molte volte accadere mi porta alla credenza che lo rivedrò ancora accadere.
Popper nota che si tratta di una spiegazione psicologica poco convincente. “Come ammette lo stesso Hume, anche una singola osservazione rilevante può bastare a creare una credenza o un’aspettazione”. E questo vale anche per gli animali: “Una sigaretta accesa fu avvicinata al naso dei cuccioli. Essi l’annusarono subito, ma scapparono e nulla li avrebbe più indotti ad riavvicinarsi alla sorgente dell’odore e ad annusarla ancora. Pochi giorni dopo reagirono alla sola vista di una sigaretta. O anche di un pezzo di carta bianca arrotolata, scappando via e starnutendo”. In realtà Hume, secondo Popper, ha torto: l’idea centrale di Hume è che noi osserviamo delle similarità, notiamo la ripetizione e creiamo quindi una abitudine; ma la somiglianza è tale rispetto a un parametro, che deve essere precedente alle osservazioni: “assumiamo le situazioni come simili, le interpretiamo come ripetizioni. (…) Dunque si tratta di ripetizioni soltanto da un certo punto di vista. Ciò che è per me una ripetizione, può non apparire tale a un ragno. Ma ciò significa che deve (…) esserci sempre un punto di vista prima che possa darsi una qualsiasi ripetizione.” Dobbiamo dunque “sostituire all’idea primitiva di elementi che sono simili la concezione di eventi cui noi reagiamo interpretandoli come simili”.
Allora l’interpretazione dei fatti osservati con cui costruiamo una teoria non è il prodotto di una costruzione basata sull’esperienza (induzione) ma una vera e propria invenzione: una congettura, un lanciarsi in avanti a prevedere il futuro, ma una congettura rischiosa, nel senso che l’esperienza successiva si incaricherà di confutarla o convalidarla. Dunque congetture e confutazioni, o, più semplicemente, un procedere per tentativi ed errori.
C’è dunque qualcosa di creativo nella elaborazione di un teoria scientifica. Certo, a monte c’è ancora dell’esperienza, a catena, nel senso che lo scienziato elabora la sua teoria come risposta creativa a problemi posti dalla realtà che osserva (ma la teoria non ne deriva semplicemente: va oltre l’esperienza interpretandola, creando una nuova concezione, nuova rispetto alle osservazioni fatte che devono essere spiegate). Che cosa c’è all’origine prima delle prime esperienze?
Se risaliamo indietro nella storia troviamo miti, anch’essi interpretabili come congetture nel senso che Popper dà a questo termine. E più indietro ancora? Troveremo idee innate che stanno a fondamento del pensiero dell’uomo?
Popper lo nega. Ma qualcosa di innato che spieghi l’origine del meccanismo della congettura e della confutazione deve pur esserci. Un regresso all’infinito non è accettabile. Questo qualcosa di innato sono le reazioni o risposte innate: non certo consapevoli, ma al modo del bambino appena nato che “si aspetta di essere nutrito e, potremmo sostenere, di essere protetto e amato”. “Siamo nati con delle aspettazioni”, con una “conoscenza psicologicamente o geneticamente a priori, precedente, cioè a qualsiasi esperienza osservativa. Una delle più importanti tra queste aspettazioni è quella per cui ci attendiamo di trovare [nella natura] una qualche regolarità. Essa è legata alla propensione innata a ricercare delle regolarità, o a un bisogno di trovare delle regolarità, come possiamo constatare dal piacere del bambino che soddisfa questa esigenza”.
Su questo punto Popper richiama Kant e la sua concezione della causalità come forma a priori. Kant avrebbe ragione nel proporre questa teoria per dare una soluzione non scettica alle ricerche di Hume. Ma Kant “volle dimostrare troppo. Nel tentativo di illustrare come è possibile la conoscenza, propose una teoria che aveva la conseguenza inevitabile di stabilire che la nostra esigenza di conoscere è sempre sicuramente soddisfatta, il che evidentemente non è esatto.”
Popper propone quindi di distinguere due diversi atteggiamenti dell’uomo:
- l’atteggiamento dogmatico, naturale nell’uomo e utile alla costruzione delle teorie (e alla loro difesa contro apparenti confutazioni o piccoli errori della teoria, che va quindi solo modificata): è proprio di chi ha credenze forti, di chi vede regolarità anche dove non ve ne sono;
- l’atteggiamento critico, proprio di chi è disponibile a modificare le proprie convinzioni.
Naturalmente l’atteggiamento dello scienziato è il secondo. Ma quello dogmatico, non scientifico o pseudoscientifico, è anche in realtà semplicemente pre-scientifico, nel senso che è più antico: “l’atteggiamento critico, infatti, non è tanto opposto a quello dogmatico, quanto sovrapposto ad esso: la critica deve essere diretta contro credenze esistenti e influenti, bisognose di revisione critica – in altre parole contro le credenze dogmatiche.” La credenze dogmatiche sono quindi la “materia prima” dell’atteggiamento critico. Nella scienza quindi le teorie non vengono trasmesse come dogmi, ma “piuttosto con la sfida a discuterle e migliorarle”. E’ la grande scoperta dei Greci, dei primi filosofi.
Naturalmente la logica ha un’importanza notevole per l’atteggiamento critico, perché i punti deboli di una teoria “si trovano generalmente solo nelle conseguenze logiche più remote che se ne possono derivare”.
E’ dunque razionale il procedimento per congetture e confutazioni (tentativi ed errori)? Certo, perché la nostra accettazione delle congetture è sempre provvisoria: non abbiamo di meglio, al momento. E “neppure c’è alcunché di irrazionale nel fare affidamento, a scopi pratici, su teorie ben controllate, giacché non ci è consentita nessuna condotta più razionale (…) del procedimento per congetture e confutazioni, che consiste
- nell’audace formulazione di teorie,
- nel tentativo di mostrare che tali teorie sono erronee
- e nella loro provvisoria accettazione se i nostri sforzi critici non hanno successo.”
Le ultime pagine sono dedicate all’esame di problemi specifici legati alla teoria dell’induzione, ad esempio al tema della probabilità: c’è chi sostiene che, se anche l’induzione non ci permette di raggiungere conoscenze scientificamente certe, ci permette almeno conoscenze altamente probabili. Ma, rileva Popper, la probabilità di un asserto è tanto maggiore quanto minore è il contenuto da esso affermato: la probabilità è cioè inversamente proporzionale al contenuto o al potere deduttivo, e quindi al potere di spiegazione. Pertanto ogni enunciato interessante e potente deve avere una bassa probabilità; e, viceversa,
un’asserzione con un’elevata probabilità sarà scientificamente priva d’interesse, perché dice poco e non ha alcun potere di spiegazione”.
Alla conferenza è allegata una Appendice dal titolo “Alcuni problemi della filosofia della scienza”, di cui si dà una descrizione sommaria. Si tratta di problemi tecnici molto complessi (calcolo delle probabilità, teoria quantistica, e simili)
In Schema
Problemi esaminati nella conferenza | Teorie e filosofi con cui Popper dialoga | Tesi di Popper |
Esiste un criterio per determinare il carattere scientifico di una teoria? E’ il problema della demarcazione | Teoria della relatività di Einstein, Psicoanalisi, Marxismo | Il criterio di demarcazione – tra una teoria scientifica e una che non lo è – è la falsificabilità della teoria |
Il significato e il senso dei problemi filosofici, e in particolare di quelli metafisici, dipendono dal rimando all’esperienza? | Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein | Il significato e il senso dei problemi filosofici, e in particolare di quelli metafisici, non dipendono dal rimando all’esperienza |
Problema dell’induzione: l’elaborazione di una teoria avviene per induzione? | La teoria dell’abitudine di Hume | L’elaborazione di una teoria non avviene per induzione: ogni teoria è in realtà una congettura che lo scienziato tenta di confutare e che accetta finché non vi riesce |
Poiché l’elaborazione di una teoria non avviene per induzione, ma è una congettura, qual è la sua fonte originaria? | Kant, Critica della ragion pura | E’ la reazione o risposta innata, non ancora consapevole |
E’ possibile salvare l’induzione come fonte di una conoscenza probabile, scientificamente valida? | Teorici non indicati espressamente | Le teorie scientifiche non sono probabili, al contrario sono altamente improbabili |
A cura di Marco Machiorletti
SCIENZA E METAFISICA
Uno degli aspetti più importanti della critica rivolta da Popper al Circolo di Vienna è l’insistenza con la quale egli sostiene che non solo la metafisica può essere dotata di significato, ma può persino avere un valore positivo per la scienza. Popper ritiene che le teorie possano nascere come metafisiche, per poi venire gradualmente trasformate in ipotesi scientifiche.
Il più convincente tra i vari esempi citati dal nostro filosofo è probabilmente quello dell’atomismo. Tale dottrina fu originariamente introdotta in Occidente da Leucippo e Democrito, per poi affermarsi con successo nel mondo antico, grazie a Epicuro in Grecia e Lucrezio a Roma. Si tratta di una teoria che in questa fase andrebbe classificata come metafisica piuttosto che scientifica. Una rinascita dell’interesse per l’atomismo antico si ebbe in Europa occidentale nel diciassettesimo secolo, allorché fu preso in considerazione dai più importanti scienziati dell’epoca. Anche a quel tempo, tuttavia, si trattava di una concezione metafisica.
Fu all’inizio del diciannovesimo secolo che John Dalton rielaborò l’atomismo per risolvere alcuni problemi nell’ambito della chimica, e fu solo verso la metà del secolo che James Clerk Maxwell introdusse l’atomismo nella fisica matematica in connessione con la teoria cinetica del gas. A partire dalla fine del secolo, l’atomismo può definitivamente essere considerato un’ipotesi scientifica; ma difficilmente questo sviluppo scientifico sarebbe stato possibile senza la precedente storia della metafisica atomistica.
Ne Il realismo e lo scopo della scienza (1983), Popper sviluppa la sua concezione della metafisica introducendo il concetto di programma di ricerca metafisico. Queste sono le sue parole: «l’atomismo è un eccellente esempio di teoria metafisica non controllabile la cui influenza sulla scienza è stata superiore a quella di molte altre teorie scientifiche controllabili». Dopo aver presentato altri esempi di teorie metafisiche che hanno influenzato la scienza, continua: «Ognuna di queste teorie servì, prima di diventare controllabile, come un programma di ricerca per la scienza. Indicò la direzione della ricerca, e il tipo di spiegazione che poteva soddisfarci; e rese possibile una sorta di valutazione della profondità di una teoria».
Questo passaggio è importante perché mostra il ruolo euristico della metafisica nel guidare la costruzione di ipotesi scientifiche, le quali nella maggior parte dei casi emergono nel corso dell’attività di uno scienziato o di un gruppo di scienziati al lavoro su un programma di ricerca. Tale programma è solitamente articolato alla luce di alcuni principi generali (o metafisici) e di idee che indicano la natura delle ipotesi specifiche che dovrebbero essere escogitate per interpretare fatti esistenti e per essere sottoposte a controllo sulla base di ulteriori osservazioni o esperimenti. Così le intuizioni generali sull’atomismo orientarono Dalton nell’elaborare un’ipotesi che spiegasse alcuni fatti della combinazione chimica, e Maxwell nel tentare di rendere conto delle relazioni osservate tra pressione, volume e temperatura dei gas. Senza le idee metafisiche dell’atomismo che guidassero i loro programmi di ricerca, è lecito dubitare che Maxwell e Dalton sarebbero arrivati a formulare le loro specifiche ipotesi scientifiche.
Karl Raimund Popper:
Scienza e filosofia
A cura di Enrico Rubetti
“Tutta la conoscenza rimane fallibile, congetturale. Non esiste nessuna giustificazione, compresa, beninteso, nessuna giustificazione definitiva di una confutazione. Tuttavia, noi impariamo attraverso confutazioni, cioè attraverso l’eliminazione di errori […]. La scienza è fallibile perché la scienza è umana”.
(Karl R. Popper)
L’opera Scienza e filosofia (1969), che conclude la ricerca iniziata con Logica della scoperta scientifica (1934), rappresenta la sintesi del pensiero epistemologico di Karl R. Popper, all’interno del dibattito sui criteri di validità della scienza. L’autore tratta degli scopi e delle responsabilità della scienza, dell’accrescimento del sapere scientifico e del processo di costruzione e verifica delle teorie. Il suo discorso verte sulla scienza più come processo e dinamica che come attività che muove da problemi e cerca, per risolverli, di creare teorie sottoponibili a verifica: un tentativo di «spiegare il noto mediante l’ignoto». Lo scritto più complesso contiene la critica all’essenzialismo (per es. cosa è la “gravità” in sé) e allo strumentalismo (per es. l’impiego di formule che usano l’accelerazione di gravità descrivono esattamente i fenomeni) ed espone la tesi dell’autore secondo la quale le teorie sono congetture sottoponibili a severi controlli critici.
1. Un punto di vista della conoscenza umana: le teorie come strumenti.
Il punto di vista strumentalistico esercita una grande attrazione: è modesto e molto semplice, se lo si paragona con l’essenzialismo.
Secondo l’essenzialismo, dobbiamo distinguere tra:
1. l’universo della realtà esistenziale
2. l’universo dei fenomeni osservabili
3. l’universo del linguaggio descrittivo (o della rappresentazione simbolica)
La funzione della teoria può essere descritta con la rappresentazione di ciascuno di questi tre universi mediante un quadrato.
· TEOREMA: a, b sono fenomeni; A, B sono le realtà corrispondenti, che stanno dietro queste apparenze, e α, β le descrizioni, o rappresentazioni simboliche, di queste realtà. E rappresenta le proprietà essenziali di A, B, ed ε è la teoria che descrive E. Ora, da ε a α possiamo dedurre β: ciò significa che possiamo spiegare, con l’aiuto della nostra teoria, perché a conduce (o è la causa di) b.
· DIMOSTRAZIONE: da questo schema si può ottenere una rappresentazione dello strumentalismo limitandoci semplicemente ad omettere I, cioè l’universo delle realtà che stanno dietro le varie apparenze. Allora α descriverà direttamente a, e β descriverà direttamente b, mentre ε non descrive nulla: è semplicemente uno strumento che ci aiuta a dedurre β da α.
· CONCLUSIONE: questo si può esprimere dicendo che una legge universale, o una teoria, non è un’asserzione vera e propria, ma piuttosto una regola, o un insieme di istruzioni, per derivare asserzioni singolari da altre asserzioni singolari.
Questo è il punto di vista strumentalistico. Un argomento a favore dello strumentalismo venne formulato da Berkeley che si basò sulla sua filosofia nominalistica del linguaggio, prendendo in esame la dinamica newtoniana. Secondo il filosofo l’espressione “forza d’attrazione” doveva necessariamente essere un’espressione priva di significato, dal momento che nessuno sarà mai in grado di osservare una forza d’attrazione. Ciò che possiamo osservare sono i movimenti, non le loro supposte “cause” occulte. Dal punto di vista della teoria berkeleyana del linguaggio, ciò è sufficiente a mostrare che la teoria di Newton non può avere alcun contenuto informativo o descrittivo. Coerentemente applicata, questa teoria equivale alla tesi che tutti i termini disposizionali sono privi di significato. Ciò induce a considerare, secondo l’ottica strumentalistica, che la discussione scientifica non si fonda su “oggetti” quali sistemi fisici sensibilmente certi e verificabili, ma solo sui risultati di osservazioni possibili.
2. Congetture, verità e realtà.
È sempre difficile interpretare le ultimissime teorie, e qualche volta queste ultime lasciano perplessi anche i loro stessi creatori, come accadde a Newton. Lo strumentalismo, secondo Popper, non è più accettabile di quanto non lo sia l’essenzialismo. A questo proposito il filosofo propone un “terzo punto di vista” – oltre all’essenzialismo e allo strumentalismo – del tutto singolare. Il nuovo punto di vista mantiene ferma la dottrina galileana, secondo cui lo scienziato tende a una descrizione vera del mondo o di qualcuno dei suoi aspetti e a una spiegazione vera dei fatti osservabili, e combina questa dottrina con la prospettiva, non-galileana, che, sebbene questo rimanga lo scopo dello scienziato, quest’ultimo non può mai sapere con certezza se le sue scoperte sono vere – anche se qualche volta può stabilire con ragionevole certezza che una teoria è falsa, o il suo grado di falsificabilità.
Secondo il “terzo punto di vista” le teorie scientifiche sono vere e proprie congetture: tentativi di indovinare altamente informativi riguardanti il mondo, i quali, pur non essendo verificabili possono essere sottoposti a severi controlli critici.
L’essenzialismo guarda al nostro mondo ordinario come una semplice e pura apparenza, dietro la quale esso scopre il mondo reale. Tuttavia questa teoria cade nel momento in cui sorge la consapevolezza del fatto che il mondo di ciascuna delle nostre teorie può essere spiegato, a sua volta, da mondi ulteriori, descritti da ulteriori teorie: da teorie situate a un livello più alto di astrazione, di universalità e di controllabilità. La dottrina di una realtà essenziale o ultima crolla insieme con quella di una spiegazione ultima.
Poiché le nuove teorie scientifiche sono, come le vecchie, vere e proprie congetture, esse sono veri e propri tentativi di descrivere questi mondi ulteriori. Così, siamo indotti «a considerare tutti questi mondi, compreso il nostro mondo di tutti i giorni, come egualmente reali, o, forse meglio ancora, come aspetti o strati egualmente reali del mondo reale».
Tutti i molteplici livelli di questa stratificazione sono egualmente reali, anche se potremmo definire i livelli più alti e più congetturali (cioè più stabili, più permanenti e con un più alto grado di astrazione e di invariabilità) come i più reali, proprio a dispetto del fatto che sono i più congetturali. Conseguentemente al ragionamento, Popper si domanda se «non dovremmo chiamare reali solo quegli strati di cose che sono descritti da asserzioni vere, e non da congetture che possono rivelarsi false». Solo controllando una congettura, e riuscendo a falsificarla, è possibile notare chiaramente che c’era una realtà, qualcosa con cui essa poteva collidere. Le falsificazioni permettono di stabilire dei punti di contatto con la realtà. E l’ultima e migliore teoria è sempre un tentativo di incorporare tutte le falsificazioni che siano mai state trovate in un determinato campo d’indagine, spiegandole in termini semplici, cioè controllabili.
«Ma se una teoria è controllabile, implica che eventi di un certo tipo non possono accadere, e così asserisce qualcosa intorno alla realtà». Le congetture controllabili, o tentativi di indovinare, sono dunque congetture intorno alla realtà; dal loro carattere incerto o congetturale segue soltanto che la nostra conoscenza circa la realtà che descrivono è incerta e congetturale. È un errore pensare che sia reale solo ciò che conosciamo con certezza come tale; e, scremata l’ipotesi strumentalistica, Popper ripropone il classico errore berkeleyano, nella forma di «essere è essere conosciuto».
Esiste allora un criterio di verità?
Le teorie sono pure invenzioni, idee che nascono dall’uomo: non si impongono sull’uomo, ma sono gli strumenti di pensiero che egli stesso si è creato, e questo è il punto di vista degli idealisti. Ma alcune di queste teorie possono scontrarsi con la realtà; e quando è possibile definire questo impatto, è possibile anche ammettere l’esistenza di qualcosa, di una realtà, a rammentare il fatto che le nostre idee possono essere errate: non siamo in grado di dare una descrizione “vera” della realtà, ma affermiamo che essa c’è, perché in alcuni casi la descrizione che ne diamo risulta “falsa”. In questo senso, Popper appoggia la tesi realista. Il suo è un realismo critico, che allo stesso tempo si avvicina al punto di vista dell’essenzialismo, secondo cui la scienza è capace di scoperte reali, e che, nello scoprire nuovi mondi, l’intelletto trionfa sulle esperienze sensibili.
Tuttavia la verità, nella scienza, non è mai un possesso, ma un ideale che guida il cammino della ricerca. Non c’è alcun criterio di verità che consenta di dire se una teoria è vera. Infatti, «una teoria è il suo contenuto e il contenuto di una teoria sono le sue infinite conseguenze». Ma i controlli effettivi sulle conseguenze di una teoria saranno sempre in numero limitato, per cui – afferma Popper in modo quasi paradossale – «anche se avessimo avuto la fortuna di trovare una teoria vera, noi questo non potremmo saperlo».
Bisogna abbandonare la convinzione che la scienza sia il campo di conoscenze certe e definitive. Noi possiamo avvicinarci alla verità, non raggiungerla e possederla stabilmente.
3. Verificabilità e falsificabilità.
Popper distingue due punti di vista, o due sfere di pensiero principali: filosofi verificazionisti o giustificazionismi della conoscenza (o della credenza) e filosofi falsificazionisti, o fallibilisti o filosofi critici della conoscenza (o delle congetture).
I membri del primo gruppo – i verificazionisti o giustificazionisti – sostengono, approssimativamente, che tutto ciò che non può essere sostenuto da ragioni positive non è degno di essere creduto, e neppure di essere preso in seria considerazione.
D’altra parte, i membri del secondo gruppo – i falsificazionisti o fallibilisti – sostengono, approssimativamente, che in linea di principio ciò che non può (per il momento) essere demolito dalle critiche è (per il momento) indegno di essere preso in seria considerazione, mentre ciò che, in linea di principio, può essere demolito dalle critiche, ed è in grado di resistere a qualsiasi sforzo critico, può essere falso, ma non è indegno di essere considerato e forse anche creduto, sia pure solo in via di tentativo.
· I verificazionisti, sostenendo la tradizionale lotta del razionalismo contro la superstizione e l’autorità arbitraria, esigono che una credenza si accetti solo se può essere giustificata da prove positive, cioè solo se si può mostrare che è vera o, almeno, che è altamente probabile. Una credenza può dunque essere accettata solo se è possibile verificarla o confermarla probabilisticamente.
· I falsificazionisti (il gruppo di fallibilisti a cui lo stesso Popper dichiara di appartenere), appoggiando le tesi degli irrazionalisti, credono di aver scoperto argomenti logici che mostrano che il programma del primo gruppo non può essere realizzato, che non si può mai dare ragioni positive che giustifichino la credenza che una teoria è vera. Ma, a differenza degli irrazionalisti, i falsificazionisti credono di aver anche scoperto un modo per realizzare il vecchio ideale dei razionalisti, riconoscendo che la razionalità della scienza non consiste nell’abito di fare appello a prove empiriche a sostegno dei suoi dogmi ma soltanto nell’approccio critico, o confutazione delle prove empiriche. Fondare la sicurezza, la certezza o la probabilità delle teorie scientifiche acquista scarso interesse per i falsificazionisti, che, consapevoli della fallibilità di tali teorie, cercano di criticarle, imparando dagli errori a procedere forse a teorie migliori, perché la conoscenza, infatti, «si accresce nella misura in cui impariamo dagli errori».
Considerando i loro punti di vista intorno alla funzione negativa o positiva delle prove, gli appartenenti al primo gruppo – i giustificazionisti – possono essere denominati «positivisti», mentre gli appartenenti al secondo gruppo – i fallibilisti – possono essere denominati critici o «negativisti», anch’essi, come i primi, interessati alla ricerca della verità, ma più concentrati ad attuare tale ricerca mediante la critica, talvolta distruttiva, di punti di vista che appaiono “chiaramente” paradossali. Il fallibilismo, pertanto, si configura come una sorta di non-sapere socratico, basato sulla consapevolezza di essere costantemente esposti all’errore e di non poter cogliere la verità con certezza.
4. Il principio di falsificazione.
Verità e contenuto si fondano sulla stretta relazione tra verisimilitudine e probabilità.
La probabilità logica rappresenta l’idea dell’avvicinamento alla certezza logica (o verità tautologica), attraverso una diminuzione graduale del contenuto informativo. Per l’altro verso, la verisimilitudine rappresenta l’idea dell’avvicinamento alla verità comprensiva: essa combina così verità e contenuto, mentre la probabilità combina verità e mancanza di contenuto.
Se ne deduce che lo scopo della scienza non è dunque la ricerca pura della verità, ma più propriamente la ricerca di una verità che sia dotata di una considerevole tendenza alla probabilità, o di un alto grado probabilistico.
Su tali presupposti Popper fonda la sua serrata critica dell’induttivismo – il principio metodologico sul quale si basava la tradizione empirista –, riprendendo le tesi di un empirista radicale come Hume, che aveva negato la possibilità di giungere legittimamente ad asserzioni generali, universali, procedendo da asserzioni singolari o particolari.
Ne consegue la critica del principio di verificazione, in quanto non applicabile alle leggi universali della scienza. Tale principio è solo un’utopia, poiché né le leggi scientifiche né «le teorie sono mai verificate empiricamente». Queste, pertanto, si configurano sempre come ipotesi. Ad esempio, per quanto siano numerose le verifiche a sostegno di una determinata ipotesi, basterebbe una ed una sola dimostrazione (o verifica) accettabile a sostenere il contrario (o la negazione) di tale ipotesi, per far crollare l’intera struttura della teoria stessa. Qualsiasi ipotesi, dunque, è potenzialmente falsificabile, in quanto in futuro potrebbe sempre dimostrarsi falsa. In quest’ottica il filosofo è portato a considerare le teorie – e la loro instabile struttura – come «assunzioni provvisorie, anticipazioni infondate» che non possono essere dimostrate.
La scienza è innanzitutto elaborazione di ipotesi. Popper sostiene con decisione il primato della teoria sull’esperienza, della struttura ipotetico-deduttiva della scienza su quella induttiva, e considera assurda l’opinione che essa possa partire da pure osservazioni senza alcun tipo di teoria. L’induzione è accettabile solo quando si muove all’interno di un ben preciso orizzonte teorico e non viene più considerata come un procedimento fondante.
Il filosofo introduce quindi uno dei concetti portanti del suo pensiero: il problema della demarcazione. Tale criterio di “demarcazione” fra ciò che chiamiamo scienza e ciò che definiamo non-scienza si fonda sul principio di falsificazione.
Le ipotesi generali in campo scientifico, frutto di elaborazione razionale, sono falsificabili, cioè «tali da poter esser smentite dall’esperienza». Pertanto, viene considerato “scientifico” un sistema di proposizioni che dispone di sistemi di controllo empirico che possano confutarlo. In altri termini, dato che una teoria o un’asserzione è falsificabile se esiste almeno un “falsificatore potenziale”, cioè un asserto di base che possa entrare in contrasto con la teoria, tale teoria, per essere considerata scientifica, deve prestarsi a controlli che possano – eventualmente – dimostrarne la falsità.
L’impostazione induttivista viene rovesciata: l’esperienza non serve a fondare una teoria, ma serve a confutarla. Mentre, sulla base del principio di verificazione, occorrerebbero infinite prove per “verificare” una legge, per il principio di falsificazione è sufficiente una sola prova per accertare che un’ipotesi scientifica è falsa («basta un solo cigno nero per smentire l’asserzione “tutti i cigni sono bianchi”»).
5. Scienza e metafisica.
La «demarcazione» fra la scienza e la metafisica sta nel fatto che le proposizioni di quest’ultima pretendono di collocarsi al di sopra di qualunque possibile smentita, si ritengono, cioè, incondizionatamente vere, oppure, come dice Popper, non sono falsificabili, sono cioè disposte in modo da non poter essere sottoposte a prove e a smentite da parte dell’esperienza. Questa caratteristica è comune anche alla psicoanalisi e al marxismo.
Pur demarcando la scienza dalla metafisica, Popper si differenzia dai neopositivisti per il fatto di non considerare – come questi – del tutto «prive di significato» le proposizioni della metafisica. Egli ritiene quindi innegabile il ruolo che le idee della metafisica hanno avuto nella storia e nello sviluppo della scienza, in quanto ipotesi speculative ma capaci di dare una visione ordinata del mondo, di fornire concetti in grado di orientare nella ricerca.
RUDOLF OTTO
La riflessione filosofica di Rudolf Otto (1896-1937), professore di teologia protestante prima a Gottinga e poi a Breslavia e Marburgo, si colloca all’ interno della “scuola fenomenologica” (sia pur con consistenti margini di autonomia di pensiero), fondata da Edmund Husserl e che annovera tra i propri maggiori esponenti Max Scheler e Nicolaj Hartmann. La sua opera del 1917 intitolata ” Il sacro ” esprime infatti una posizione di matrice fenomenologica riguardo alla tematica religiosa e venne per questo lodata dallo stesso Husserl, malgrado il suo autore non fosse propriamente un filosofo nè propriamente un fenomenologo in senso stretto. Nonostante la lieve “eterodossia” rispetto alla lettera del programma della scuola husserliana- divergenza che si esplica sostanzialmente in una parziale continuazione di temi kantiani , rigettati dai fenomenologi- ” Il sacro ” viene comunque a costituire un saggio di analisi volta a indagare l’ essenza autonoma del fatto religioso sulla base tanto dell’osservazione della coscienza religiosa individuale quanto dell’ imporsi oggettivo del suo manifestarsi, attuando nello studio di quest’ultima dimensione quel ” ritorno alle cose stesse ” nella loro datità originaria propugnato dalla fenomenologia ortodossa. La religione, per Otto, ” comincia con se stessa “, non è un che di derivato che possa essere compreso a partire da qualcos’altro: bisogna perciò indagare su ” ciò che ne costituisce l’intima essenza “. Questo è un punto cruciale: il momento centrale e costitutivo dell’esperienza religiosa viene rintracciato nella categoria del sacro , riconosciuto come ” ciò senza cui la religione stessa, ogni religione, non sarebbe “: si tratta di una categoria estremamente complessa e ricca di sfumature, in cui, accanto ad elementi razionali di spiegazione concettuale e metafisica (fondamentali affinchè la teologia non sia destituita di senso), si profilano anche elementi irrazionali, ineffabili e incomprensibili, concernenti il concreto vissuto religioso della coscienza individuale. Tali elementi si compendiano nella categoria, specifica, caratterizzante e irreducibile razionalmente, del numinosum , che si presenta come un dato fondamentale e originale, inesprimibile attraverso l’apparato concettuale consolidato della ragione e dell’etica: in quanto dotato di tali caratteristiche, esso non è immediatamente descrivibile concettualmente, ma va avvicinato a piccoli passi, in particolare attraverso gli effetti che suscita nella coscienza individuale. In primo luogo, il numinoso si riflette e si esplica nella coscienza individuale nel sentimento di sè come sentimento creaturale (già trattato da Schleiermacher come “sentimento di dipendenza”), di debolezza, impotenza e nullità di fronte all’ infinità del tutto. Volendo addurre una testimonianza veterotestamentaria per comprendere tale stato d’animo, basti pensare alle parole che Abramo pronuncia in ” Genesi, 18, 27 ” , osando rivolgere la parola a dio: ” mi sono fatto forza di parlare con te, io, che sono terra e cenere “. Questa prima determinazione, per quanto efficace, è tuttavia ancora eccessivamente soggettiva per essere abbastanza esauriente: occorre cogliere la dimensione oggettiva del numinosum , chiedersi cos’ è ” sentito oggettivamente fuori di me “. Qui Otto enuncia la propria famosissima definizione del sacro come mysterium tremendum et fascinans , definizione di cui è opportuno analizzare separatamente i singoli momenti. Il sacro è mysterium : il momento del mistero è basilare nell’esperire il sacro, che appare come ciò che sconcerta la ragione, che lascia senza parole e che sconvolge suscitando stati emotivi quali la meraviglia, lo stupore, lo sbigottimento di fronte a ciò che è mirum , trascendenza assoluta, “completamente altro”. La componente del mysterium nell’esperienza del sacro trova la propria espressione nel linguaggio allusivo della mistica, così come nel ricorso alla nozione del nulla da parte della cosiddetta “teologia negativa”, che intende tale nozione non in senso privativo, ma indispensabile per indicare l’eccedenza di ciò che qualunque attributo, anche il più eccelso, limiterebbe. Ma il mysterium è tremendum : con questo termine si intende in generale il timore reverenziale e religioso che il mistero eccita nella coscienza individuale. Questo senso dell’ inquietante, dapprima sotto la forma del terrore demoniaco negli stadi religiosi primitivi, successivamente nella forma purificata di brivido mistico e consapevolezza della nullità umana al cospetto del Tutto negli stadi religiosi più elevati, si metamorfosizza ancora nell’inavvicinabile maestà della potenza divina e nel sentimento creaturale che suscita: è il momento della majestas , che si assomma al tremendum insieme ad un’ altra sfaccettatura basilare dell’esperienza del numinosum da parte della coscienza individuale: l’ energia , corrispondente alle rappresentazioni simboliche dell’ ira di Dio e a tutto ciò che nel divino è vitalità, impeto, passione, volontà, forza. Il numinoso non è tuttavia soltanto tremendum , ma anche fascinans , e in ciò risiede la profonda ambivalenza su cui si articola l’ esperienza del sacro. Esso attrae, affascina, attira a sè, e questa imprescindibile forza attrattiva si intreccia con la spinta repulsiva generata dal tremendum : il movimento verso il mysterium , che la creatura tremante è spinta irrestistibilmente a compiere, culmina in una sorta di smarrimento ed ebbrezza, che si placano nel supremo momento della grazia e dell’amore divino, cui corrispondono la beatitudine e il rapimento estatico conosciuti dalla mistica d’Oriente e d’Occidente. Momenti lontani da qualunque determinazione razionale. Oltre a mysterium , tremendum e fascinans , Otto introduce un altro momento del numinoso, comunque essenziale per la completezza dell’ analisi: la categoria del sanctum , dell’ augusto , opposto a ciò che è impuro e contaminato. Qui non si intende tracciare un’opposizione di tipo etico, ma sottolineare come il primo termine del confronto, il sanctum , sia più nobile, abbia maggiore realtà ontologica e sia dunque degno di rispetto e obbligazione al di là di qualsiasi determinazione etica. Il momento della contaminazione, del peccato, accanto alle esperienze necessarie dell’ espiazione e della redenzione, pur presenti in ogni religione, verrà portato dal cristianesimo alla più completa comprensione. In seguito all’analisi dei momenti del sacro, Otto delinea quali possano essere i suoi mezzi di espressione: vi sono dei mezzi diretti (il culto, la preghiera comunitaria, la celebrazione del sacro) e indiretti (come i sentimenti che al sacro si associano, quali il terrificante, il sublime, il misterioso, e le espressioni artistiche, figurative e soprattutto musicali). Otto intende in seguito dimostrare come la religione si autofondi come autonoma esperienza del sacro nella coscienza individuale, cedendo a suggestioni kantiane che segneranno la distanza del pensiero del teologo dalla suola fenomenologica. Il problema è ora la disamina delle modalità attraverso cui il sacro emerge alla coscienza: Otto prende le distanze sia dalla possibilità empiristica sia da forme radicali di innatismo e si assesta sulla modalità intermedia dell’ “a priori” kantiano. Infatti, il sacro ha nell’anima umana la potenzialità del proprio sorgere, ma ciò non è sufficiente: esso necessita, per realizzarsi compiutamente, di stimoli esterni e sensibili, come mezzi e come occasioni ma non come fonti per scaturire dalla coscienza umana. Interviene un momento conoscitivo a priori, in cui la ragione, attraverso un movimento introspettivo e critico, porta a compimento ciò che è latente e non ancora perfettamente compiuto: questa parte dell’impianto dell’opera è estremamente debole dal punto di vista argomentativo, a causa probabilmente del modo artificioso in cui Otto intende saldare il momento razionale e il momento irrazionale del sacro in una nebulosa dottrina dello “schematismo del religioso” , secondo cui la ragione schematizzerebbe i momenti del sacro in altrettanti concetti razionali. La parte toretica dell’opera ” Il sacro ” costò a Otto molte critiche, inoltre, per i molti elementi riduzionistici che appiattiscono la concreta storicità delle religioni in una prospettiva a tratti astorica (malgrado per Otto la religione cristiana resti più la più alta in quanto portatrice della più completa moralizzazione e personalizzazione del divino) : ciò tuttavia non sottrae nulla alle innovazioni che Otto apportò alla riflessione sul fatto religioso, inteso come strettamente connaturato alla coscienza umana, non solo in filosofia, ma anche nell’ambito di altre scienze umane. E’ da ricordare, infatti, la teoria fenomenologica della religione affermatasi in sociologia sulla scorta delle preziosissime intuizioni del teologo.
JACQUES LACAN
Le tematiche psicanalitiche trattate da Jacques Lacan (1901-1981), mettendo in primo piano la nozione di inconscio, procedono verso l’abbandono della centralità del soggetto come chiave d’interpretazione del modo d’essere dell’uomo e della sua storia. Laureatosi in psichiatria, Lacan frequentò i surrealisti, interessati alla scrittura automatica attraverso libere associazioni e alle modalità creative del linguaggio onirico, ed entrò a far parte della “Société psychanalytique de Paris”, fondata nel 1926, ma nel 1953 operò una secessione e fondò la “Société française de psychanalyse”, che non fu riconosciuta dall'”Associazione psicoanalitica internazionale”. Nel 1963 ebbe luogo un’altra scissione in seguito alla quale Lacan costituì l’ “Ecole freudienne de Paris”, che però si dissolse nel 1980. Le sue tesi, elaborate soprattutto nel corso dei seminari del mercoledì tenuti a partire dal 1953 nell’ospedale di Sainte Anne, sono raccolte negli ” Scritti ” (1966), di assai difficile lettura. Lacan intende tornare all’insegnamento originario di Freud , che a suo avviso è stato travisato negli sviluppi successivi della psicoanalisi. Lacan, pur essendo considerato da molti un innovatore del pensiero freudiano, dichiara di voler “tornare all’insegnamento originario di Freud” e malgrado sia stato sconfessato più di una volta dalle istituzioni freudiane ortodosse si è sempre proclamato l’unico vero interprete dell’insegnamento di Freud. La rivoluzione freudiana è consistita nel detronizzare l’Io, riconoscendo nell’ inconscio , la vera voce dell’individuo: chi parla nell’individuo non è propriamente l’Io, ma l’inconscio. Come aveva mostrato Freud, soprattutto nell’ “Interpretazione dei sogni”, l’inconscio è ” strutturato come un linguaggio “, è ” desiderio che diviene linguaggio ” e l’analisi dell’inconscio è dunque fondamentalmente la decifrazione di tale linguaggio . Anche Lacan riprende da Saussure la concezione secondo cui la lingua e i segni sono autonomi rispetto alle prestazioni linguistiche individuali; in questo senso, il linguaggio dell’inconscio è il discorso dell’Altro rispetto al soggetto conscio. Alle due modalità della condensazione e dello spostamento, individuate da Freud nell’analisi dei sogni, corrispondono la metafora e la metonimia , che secondo Jakobson sono gli assi portanti di ogni lingua. In particolare, la metafora è la condensazione in una singola parola o immagine, mentre la metonimia, ossia il denominare una cosa con il nome di un’altra, con la quale essa è in relazione di dipendenza o di continuità, è analoga allo spostamento, cioè alla sostituzione di un’idea o immagine con altre associate ad essa. L’analisi e la terapia psicoanalitica non devono mirare a potenziare l’Io, cioè la dimensione conscia, ma consentire l’accesso alla verità dell’inconscio. La verità, infatti, risiedendo nell’inconscio, è anonima, non è oggetto di un sapere posseduto dall’Io; anzi, il sapere, in quanto dominio di un oggetto, si oppone, secondo Lacan, alla verità. Solo la psicoanalisi, operando una riduzione dell’Io, può lasciare che la verità parli, anche se mai nella sua interezza. Il soggetto o Io, secondo Lacan, non è il dato originario della vita psichica dell’individuo, ma il risultato di una costruzione. La prima tappa è costituita dallo stadio dello specchio , studiato da Lacan già prima della guerra. Tra i sei e i diciotto mesi, il bambino arriva a riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio e elabora un primo abbozzo dell’Io, ma all’interno dell’immaginario, ovvero entro una relazione duale di confusione tra sé e l’altro. Tale identificazione è primaria, matrice di tutte le altre, per esempio con la madre. Rispetto alla specularità dei desideri della madre e del bambino viene a interporsi la figura paterna e con essa l’interdizione dell’incesto (l’Edipo), su cui si fondano l’ ordine simbolico e la civiltà . Il padre, infatti, rappresenta ” la figura della legge “: la sua parola produce la rimozione del desiderio della madre. Ciò vuol dire, secondo Lacan, che l’ordine simbolico, ovvero il linguaggio, si fonda sulla rimozione dell’immaginario, ossia su una scissione fra psichismo inconscio e conscio. Con l’accesso all’ordine simbolico si accede, al tempo stesso, alla società e alla cultura, necessarie al sorgere della soggettività. Il simbolico è il luogo dell’inconscio impersonale, dove sono depositati i simboli linguistici e sociali, privi di significazione, finchè non s’incarnano in un individuo. Il soggetto conferisce significato a questi simboli, accentrandosi intorno a un’unità immaginaria, il Me, ossia facendo perno sull’immagine di sé, che estrania l’Io in un’alterità idealizzata e conferisce al mondo un carattere antropomorfico. L’inconscio, infatti, non ha un centro e quindi anche l’uomo è eccentrico e perde la propria unità nel momento in cui si riconosce nell’alterità della sua immagine esteriore, nella quale vengono a stratificarsi le sue identificazioni ideali. Secondo Lacan, è impossibile la ricomposizione dell’Io col Me : tra essi si colloca l’immaginario della pulsione di morte. Analogmente resta inattingibile il reale in sé, perché in mezzo c’è sempre il simbolico: il divieto paterno, spostando la pienezza del legame con la madre, ha fatto sì che si desidera ciò che non si ha, cosicchè il reale diventa lo scopo irraggiungibile, che perpetua eternamente il desiderio.
MICHEL FOUCAULT
“Oggi è possibile pensare solamente entro il vuoto dell’uomo scomparso. “
INTRODUZIONE AL PENSIERO
Michel Foucault, nato nel 1926 a Poitiers, studiò filosofia e psicologia all’Ecole Normale Supèrieure di Parigi e, in seguito, lavorò presso istituti culturali francesi a Uppsala, Varsavia e Amburgo e nel 1970 ricevette la nomina di professore di storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. Morì a Parigi nel 1984. Gli interessi di Foucault, in principio, si concentrano sull’epistemologia: il suo problema sta nell’individuare le condizioni storiche in base alle quali la malattia e la follia si sono costituite come oggetti di scienza, dando luogo alla psicopatologia e alla medicina clinica, strettamente connesse alla costruzione di luoghi chiusi (la clinica e il manicomio) in cui si instaura un rapporto di dominio tra medico e paziente. E questi sono proprio i temi che Foucault affronta nelle sue prime opere di successo, Storia della follia nell’età classica (1961) e Nascita della clinica (1963). Da queste ricerche emerge in Foucault la consapevolezza che la storia non è in prima istanza il risultato delle azioni coscienti degli uomini e che il vero campo della ricerca storica è dato non da quel che gli uomini hanno fatto o detto, ma dalle strutture epistemologiche che di volta in volta determinano quale è il soggetto e l’oggetto della storia. Le varie epoche, infatti, sono caratterizzate da un’ episteme (che, letteralmente, vuol dire ‘scienza’), concepita come sistema implicito, inconscio e anonimo, di regole e di eventuali riflessioni su tali regole, il quale definisce lo spazio di possibilità, entro il quale si costituiscono e operano i saperi caratteristici di tale epoca. Foucault arriva a sostenere che il passaggio da un’episteme ad un’altra non è un processo continuo governato da una logica interna di sviluppo e perfezionamento progressivo, ma avviene per salti e non è quindi propriamente spiegabile. Portare alla luce l’episteme, propria di ogni epoca, è compito di quella che Foucault definisce archeologia . Nell’opera Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966) Foucault porta avanti un’indagine storica, finalizzata a mettere in mostra che anche l’uomo, come oggetto di sapere specifico, è un’invenzione recente, che risale agli inizi del 1800 e che è collegata al trasformarsi dell’analisi della ricchezza in economia, della storia naturale in biologia e della grammatica generale in filologia. In mezzo a questi nuovi ambiti del sapere è collocato come soggetto unitario l’uomo, caratterizzato nei termini dei nuovi concetti cardine di questi campi: lavoro, vita e linguaggio. Da Kant in poi, ad avviso di Foucault, l’antropologia è la disposizione fondamentale che ha dominato il pensiero filosofico: essa ha indicata nell’uomo la matrice dei valori positivi e ha fatto intravedere nell’emancipazione dell’uomo la possibilità del ritorno di un regno propriamente umano. Ma, in questo modo, la filosofia si è addormentata in un nuovo sonno, diverso da quello dogmatico in cui era sprofondato Kant e consistente nel considerare l’uomo come base della conoscenza e della verità. L’archeologia mette in luce, viceversa, che pure l’uomo è un oggetto effimero, generato nel quadro di una precisa episteme, che oggi si sta infrangendo e frammentando. Già Nietzsche, proclamando a gran voce la morte di Dio, ha di fatto annunciato la morte dell’uomo , dal momento che uomo e Dio si appartengono a vicenda, e in questo modo Nietzsche ha fissato il punto a partire dal quale, stando a Foucault, la filosofia contemporanea può ricominciare a pensare. Riprendendo, ma senza palesarlo, motivi dell’ultimo Heidegger, Foucault conclude la sua opera asserendo che oggi è possibile pensare ‘ solamente entro il vuoto dell’uomo scomparso ‘ , dove per vuoto bisogna intendere non tanto una mancanza che va riempita, quanto l’apertura di un nuovo spazio entro il quale pensare. Questo implica, secondo Foucault, la fine di ogni umanesimo tradizionale, delle filosofie dell’impegno e dello storicismo. La considerazione della storia come processo continuo di crescita e dell’uomo come agente cosciente di tale processo sono, infatti, per Foucault due facce della stessa medaglia, le quali conducono a intendere la rivoluzione come ‘presa di coscienza’, cioè come operazione che ha al suo centro il soggetto. Ma oggi, stando a Foucault, psicanalisi, linguistica ed etnologia hanno decentrato l’uomo come soggetto, portando alla luce le leggi inconsce che presiedono ai suoi desideri, al suo linguaggio, alle sue stesse azioni e i meccanismi di produzione dei discorsi mistici: chi parla non è propriamente l’uomo, ma è la parola stessa . Questi temi, che hanno convinto Foucault ad avvicinare, nonostante le sue smentite, allo strutturalismo, sono state proseguite e approfondite in L’archeologia del sapere (1969) . Oggetto di quest’archeologia non sono le tradizioni, gli autori, le opere o le discipline, che rinviano tutte ad un soggetto cosciente come centro portante produttore di esse; essa ha invece il compito di dissotterrare e descrivere le regole che in una data epoca e società definiscono ‘ i limiti e le forme di dicibilità ‘, che determinano di che cosa è possibile parlare, che cosa si può costruire come sfera del discorso e quali sono le pratiche discorsive ammesse ed esercitate di fatto. I discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro, ma ‘ pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano ‘: essi sono dunque autosufficienti, si autoregolano e non sono riconducibili ad una causa o a un fondamento unico esterno ad essi, nè ad un soggetto trascendentale o empirico, nè a condizioni economiche e storico-sociali, nè allo spirito dei tempi. I discorsi però si inseriscono in una trama di rapporti di potere che permea ogni società: essi sono pratiche che dipendono dal potere, ma che generano anche potere. Il tema del potere diviene centrale nella filosofia dell’ultimo Foucault, a partire dalla lezione inaugurale al Collège de France, L’ordine del discorso , e poi nello studio sull’origine del sistema carcerario, intitolato Sorvegliare e punire (1975). Foucault fa ancora una volta riferimento a Nietzsche, che viene ora definito ‘il filosofo del potere’. Nietzsche, infatti, ha il merito di aver mostrato che ogni discorso, implicando una volontà di verità, ha insita in sè la volontà di potenza e che una delle procedure di selezione e di interdizione con cui il potere opera sui discorsi è data dall’opposizione tra vero e falso. Non solo, ma Nietzsche ha indicato nella genealogia il metodo che permette di individuare i modi in cui i discorsi si generano e scompaiono, senza postulare un ordine necessario o un senso unitario della storia. Foucault dice che ‘ ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri ‘. Questo vuol dire che sapere e potere sono indisgiungibili , in quanto l’esercizio del potere genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sè effetti di potere. Per potere però, spiega Foucault, non si deve intendere quello che emana da un soggetto cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del potere impersonale, onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Sotto questa luce, il potere è un insieme di rapporti di forza , diffusi localmente, non riconducibili ad una sola sede e così Foucault contrappone la propria microfisica del potere , mirante all’analisi delle molteplici e diffuse strategie di soggiogamento, alla macrofisica, propria della teoria di Marx, ad esempio, che dà più spazio all’opposizione tra dominatori e dominati. Di fatto, spiega Foucault, si è sempre allo stesso tempo ambo le cose, dominatori e dominati: si potrà essere dominati in fabbrica ma, magari, dominatori in famiglia. Rispetto a questi poteri così decentrati e variamente connessi la resistenza può essere condotta non da un’unica forza organizzata in partito, ma solo in lotte parziali, in una miriade di luoghi da parte di forze mobili e continuamente cangianti. I dispositivi di potere, attuando selezioni e interdizioni, impediscono il libero proliferare dei discorsi e originano una società disciplinare, che trova espressione nelle istituzioni del carcere, dell’ospedale, dell’esercito, della scuola, della fabbrica, dove sono attuate strategie di controllo, anche del corpo, esami, sanzioni. Il potere, però, non ha solo questa funzione spregevole, ma ne ha anche una positiva e apprezzabile: produrre nuovi ambiti di verità e nuovi saperi. Questa tesi affiora esplicitamente nelle ultime opere di Foucault, a partire da La volontà di sapere (1976), miranti a ricostruire una storia della sessualità . La sessualità, stando a Foucault, è un’invenzione moderna: essa ha a che fare, da un lato, con il problema di tenere soggiogati i corpi, ma, dall’altro lato, dà pure luogo ad un discorso sul sesso, in cui l’interdizione si intreccia con l’attenzione nei suoi riguardi e, dunque, con la costituzione di nuove forme di sapere. Sotto questo profilo, Foucault rifiuta la teoria di Marcuse secondo la quale la repressione è l’unico aspetto in cui la sessualità è vissuta nella società contemporanea. Muovendo da queste tematiche, Foucault arriva, nei suoi due ultimi scritti, pubblicati postumi nel 1984, L’uso dei piaceri e La causa di sè , a ritrovare una posizione alternativa alla modernità nell’antichità classica: qui, infatti, egli ravvisa all’opera, in opposizione alle morali prescrittive, imperanti a partire dal cristianesimo, la costruzione di una ‘ estetica dell’esistenza individuale ‘, basata su quelle che lui definisce le ‘tecnologie del sè’, volte all’autocostituzione di un soggetto padrone di sè. Così facendo, egli sembra riportare in auge proprio quella dimensione umanistica da lui sempre osteggiata.
SINTESI DEL PENSIERO
Prima sintesi: Foucault 1954-1961
Lungo i sentieri del sogno e della follia: un cammino che incontra e supera la fenomenologia
In questa sintesi si analizzano i primissimi lavori di Foucault, addirittura precedenti la “Storia dalla follia” , risalenti agli anni 1954-1961 circa. Particolare attenzione viene data alle influenze filosofiche e culturali che a quel tempo hanno condizionato maggiormente Foucault: la fenomenologia, soprattutto quella di Merleau-Ponty, la psicologia e la psicanalisi esistenziali, sviluppate, tra gli altri, da Binswanger, fino all’incontro, non ancora pienamente maturo a quest’epoca, con l’epistemologia di Canguilhem. I temi conduttori sono il soggetto, letto in una chiave esistenzialista, la malattia psicologica, una prima critica al razionalismo.
1. Il sogno e l’esistenza
Viene sviluppata l’analisi del sogno come dimensione a-logica dell’esistenza umana e, proprio per questo, privilegiata, in grado perciò di rivelare quei contenuti simbolici ed esistenziali più importanti per la comprensione da parte dell’uomo della propria natura più autentica. Notiamo qui una prima lettura critica della psicanalisi freudiana.
2. La malattia mentale
L’analisi qui si sposta sul tema della malattia mentale, vista non tanto come devianza patologica, ma piuttosto come una particolare modalità di esistenza, carica comunque di potenzialità, di originalità e creatività. Si tratta di un approccio ancora una volta esistenzialistico alla malattia, in polemica con il tradizionale approccio scientifico-medico.
3. La lezione di Canguilhem
Vengono messi in evidenza alcuni degli strumenti di analisi che Foucault ha elaborato a partire dall’epistemologia ‘storica’ di Canguilhem, in particolare relativi ai concetti correlati di ‘normale’ e di ‘patologico’, in seno al pensiero scientifico.
4. La follia
Viene brevemente presa in considerazione una delle opere più note di Foucault, “Storia della follia”, e si cerca di tracciare le coordinate teoriche che la caratterizzano, in quanto opera di passaggio, rispetto ai lavori precedenti e a quelli immediatamente successivi.
Seconda sintesi: Foucault 1961-1968
Lo sguardo che scruta oltre l’immediatamente visibile. Il corpo nella storia della medicina
Questa seconda sintesi prende in considerazione le opere foucaultiane degli anni Sessanta, in cui l’influenza dello strutturalismo gioca un ruolo piuttosto rilevante, senza però mai diventare adesione totale. L’attenzione è stata concentrata sull’analisi del percorso che la medicina ha seguito nel processo di conoscenza del corpo umano, della malattia, della salute e della morte; sul concetto di episteme delle varie epoche storiche.
1. Saperi e discorsi
Viene trattata l’analisi dei saperi e dei discorsi che, nella prospettiva foucaultiana, hanno la caratteristica di modificare e addirittura creare gli ‘oggetti’ che studiano, sprofondati come sono, al pari delle altre pratiche umane, nelle coordinate concettuali di una determinata epoca storica.
2. Dal segno alla funzione
Il percorso di analisi foucaultiano parte dal periodo compreso tra ‘600 e ‘700 circa e analizza l’episteme che organizza l’intera struttura conoscitiva di questa epoca.
3. Dalla funzione al tessuto
L’’epoca successiva è quella che prosegue fino all’Ottocento e fa riferimento alla nascita dell’anatomia patologica e alle forme e ai significati che il corpo assume in questa prospettiva.
4. L’Uomo, una creazione recente
Un accenno al concetto di Uomo e Umanesimo, ne “Le parole e le cose”.
Terza sintesi: Foucault 1969-1979
Il potere: il corpo immerso nella disciplina
In questa sintesi viene ripercorso il cammino di Foucault dalla fine degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, quello al cui centro sta la complessa riflessione sul potere – e di qui sulla costituzione del soggetto moderno e della corporeità: come il meccanismo delle relazioni di potere forma e utilizza il corpo; come il soggetto viene continuamente attraversato e costruito dalla rete del potere.
1. Nietzsche e la genealogia
Si tratta di un paragrafo introduttivo che mette in luce l’importante influenza esercitata su Foucault dalla lettura di Nietzsche, in particolare per quanto riguarda la concezione della genealogia come fondamentale strumento metodologico, del corpo, del soggetto.
2. La disciplina della punizione
Dal supplizio alla prigione: la riflessione di Foucault sulle ‘istituzioni totali’ ha qui inizio con la genealogia dell’istituzione punitiva, il cui modello disciplinare si riproduce nelle altre principali istituzioni quali l’esercito, la scuola, l’ospedale, la fabbrica.
3. Il sapere e la norma
Lo stretto rapporto che lega il sapere – la conoscenza – e il potere è uno dei punti caldi in cui si incentra la riflessione di Foucault. Viene qui ripreso ancora una volta Canguilhem, relativamente a quel dualismo tra normale e a-normale che regola le pratiche e i sistemi di pensiero delle società occidentali.
4. Devianza e resistenza
Il concetto di ‘resistenza’ – resistenza all’ordine che il potere costituisce – si pone come principale correlato del potere, correlato ad esso opposto ma allo stesso tempo paradossalmente complementare.
5. Sesso e sessualità
La sessualità viene rappresentata non come elemento naturale del patrimonio esistenziale dell’essere umano, ma come dispositivo storico delle società disciplinari, in aperta polemica con le correnti psicanalitiche di stampo marxista (Reich, Lacan, ecc).
Quarta sintesi: Foucault 1980-1984
La “svolta filosofica” dell’ultimo periodo: la scoperta dell’ethos
L’ultima sintesi si propone di interpretare la fase finale del percorso foucaultiano – improvvisamente interrotto dalla morte – come una fondamentale svolta filosofica, contrariamente alle più frequenti interpretazioni della critica, che leggono questa fase in chiave sostanzialmente continuista. Foucault scopre qui una dimensione etica che non troviamo mai nei suoi precedenti lavori; inoltre vi è una reinterpretazione del soggetto, non più soltanto sottomesso e plasmato dal potere, ma attivamente consapevole e capace di auto-costruirsi. Vengono utilizzate, per questa parte, non tanto le opere sistematiche, quanto piuttosto un buon numero di interviste e conferenze risalenti a quegli stessi anni.
1. La genealogia del soggetto morale
Il soggetto rimane anche in questa fase un qualcosa che si costruisce e non un substrato naturale impostato una volta per tutte; tuttavia esso assume ora caratteristiche positive: la capacità di autocostruirsi attraverso un complesso lavoro di perfezionamento di stessi, una paidéia fisica e spirituale, inaugurata da Socrate e chiamata cura di sé.
2. Sulla “morte dell’uomo”
Ancora richiamandosi a Nietzsche, Foucault ipotizza la fine di quelle forme di soggettività – sottoposte all’incessante opera del potere – che hanno caratterizzato la nostra epoca a partire dal ‘700. E’ ora – dice Foucault – di esplorate nuove forme di soggettività. Emerge una prospettiva di libertà e di creatività del tutto nuova.
3. La filosofia e l’Aufklärung
Foucault, in questi anni, rilegge Kant e l’Illuminismo secondo una nuova ottica, che inaugura la direzione e il compito che la filosofia riveste nell’epoca contemporanea: è la riflessione critica su se stessi e sul proprio presente storico.
GILLES DELEUZE
” Il pensiero, nessuno lo prende molto sul serio, tranne quelli che si considerano pensatori o filosofi di professione. Ma questo non impedisce affatto che esso abbia i suoi apparati di potere – e che sia un effetto del suo apparato di potere il fatto che possa dire alla gente: non prendetemi sul serio perchè io penso per voi, perchè vi do una conformità, delle norme e delle regole, un’immagine, alle quali voi potrete tanto più sottomettervi quanto più direte. “
VITA E OPERE
Nato a Parigi nel 1925, allievo di Jean Hyppolite e Ferdinand Alquié, pensatore prolifico ed intellettuale poliedrico, Deleuze ha orientato la sua ricerca su molti autori della storia della filosofia quali Spinoza, Leibniz, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, Foucault, dedicando a ognuno di essi dei “ritratti concettuali”. Si vedano : Nietzsche e la filosofia; La filosofia critica di Kant; Spinoza. Filosofia pratica; Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume. Ha consolidato una filosofia ” della differenza e del divenire ” nei classici Differenza e ripetizione e Logica del senso , affrontando gli aspetti pratici di tale posizione ne L’Antiedipo e in Millepiani , scritti in collaborazione con Felix Guattari. Con quest’ultimo è stato protagonista dopo il 1968 di una stagione teorica dedicata all’analisi della follia e della schizofrenia, sfociata nel movimento internazionale dell’antipsichiatria. (Laing, Cooper, Basaglia). Ma i lavori che più hanno caratterizzato il “pensiero nomade” del filosofo francese sono quelli dedicati al cinema, alla letteratura, alla pittura e alla psicanalisi. Le opere di riferimento del suo interesse per il cinema sono: Cinema 1. L’immagine movimento , Cinema 2. L’immagine tempo , Per la letteratura si vedano: Proust e i segni e Kafka. Per una letteratura minore, scritto con Guattari. Lo studio dedicato alla pittura è : Francis Bacon. Logica della sensazione . Per completare la sua riflessione su tutto il mondo dell’arte ha scritto a quattro mani con Carmelo Bene Superpositions. Nel 1991 era tornato a scrivere un libro di carattere divulgativo col suo inseparabile sodale Felix Guattari Qu’est ce que la philosophie ? . ” Quando scrivo su un autore il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo, o, se è morto, che potesse farlo piangere sulla tomba: pensare a lui, all’autore sul quale si scrive. Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell’erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare. ” (Dialogues, 1977) Dopo una lunga malattia Gilles Deleuze, si suicidò gettandosi dalla finestra del suo appartamento parigino. Se ne andava in questo modo uno degli ultimi grandi filosofi di questo secolo. Poco apprezzato dalla critica, sia italiana che straniera, il pensiero di Deleuze ha trovato pochissimi riconoscimenti in ambito accademico. Configurato come una costellazione di nozioni e concetti interconnessi fra loro, il sistema deleuziano ha perlustrato svariati campi di ricerca, dal cinema alla letteratura, dal teatro alla pittura, dalla psicanalisi alle questioni che riguardano la costituzione della soggettività e del suo divenire. Deleuze considerava la filosofia come una specie di operatività da bricoleur. Il filosofo come il falegname deve smontare, rimontare, mettere insieme, costruire; piuttosto che legno e chiodi, maneggia concetti e pensieri. E’ grazie a questa mobilità operativa che si rende possibile la creazione di un nuovo concetto. E’ necessario ” dire qualcosa di nuovo per creare qualcosa di nuovo “, amava ripetere.
“Il mondo non è nè vero nè reale, ma vivente“. (“Nietzsche e la filosofia”, 1970)
BREVE PRESENTAZIONE
Viene spesso riportata una frase di Foucault il cui significato appare enigmatico: ” un giorno forse il secolo sarà detto deleuziano “. Gilles Deleuze (1925-1995) è stato senza dubbio un maestro e un pensatore di grande profondità; però, a parte la collaborazione con Guattari, da cui è nato uno dei libri più letti e discussi della filosofia contemporanea, “L’Anti-Edipo” (celebre e molto discusso è l’incipit: ” l’Inconscio caga, fotte e piscia “), il suo lavoro si è svolto in modo abbastanza appartato, e solo tardivamente i suoi libri hanno iniziato a essere tradotti e conosciuti nel mondo anglosassone. L’affermazione di Foucault ha però una certa verosimiglianza, non tanto o soltanto perché il secolo sarebbe stato in qualche modo segnato dall’evento del pensiero di Deleuze, quanto perché Deleuze stesso è stato fortemente segnato dal pensiero del secolo. La caratteristica del pensiero deleuziano è il tentativo di pensare la contemporaneità filosofica in termini progressivi e innovativi; in lui si esprime un’idea della filosofia radicalmente sperimentale e fortemente orientata in senso emancipativo . Sperimentazione ed emancipazione (due tipiche parole chiave del Novecento) sono i princìpi orientativi del lavoro filosofico di Deleuze. La sua filosofia si presenta come una forma di costruzionismo (compito della filosofia è ” creare concetti “, come si ripete nell’ultimo testo scritto in collaborazione con Guattari, “Che cos’è la filosofia?” – di qui una certa affinità con i teorici analitici del linguaggio ideale); ma è dotata di motivi del tutto peculiari. In Deleuze il costruzionismo si connette a una forma di animismo , per cui si ammette che i concetti creati non siano entità inerti, ma al contrario siano capaci di autoformazione, e dunque siano dotati di una vita e una storia (è questa una circostanza in parte limitativa: lo sperimentalismo deve sempre fare i conti con l’autonomia delle “cose” di cui si occupa). L’ultima conseguenza è che l’emancipazione in gioco risulta essere un programma vasto e radicale: non è solo l’emancipazione degli esseri umani, ma è anche emancipazione degli oggetti e dei concetti. Fin dagli anni Settanta (“Conversazioni”, con Claire Parnet, 1977) il programma deleuziano si presenta come una liberazione del pensiero : liberazione da quelle strettoie logico-linguistiche che impediscono il movimento dei concetti e per questa via giungono a impedire l’effettivo movimento dei corpi.
” Non è il caso di chiedersi quale sia il regime più duro o il più tollerabile, perché è in ciascuno di essi che si scontrano liberazioni ed asservimenti… Non è il caso né di piangere né di sperare, si tratta piuttosto di cercare nuove armi .” (La società del controllo”, 1990)
IL PENSIERO
Negli ultimi sviluppi della filosofia francese è centrale la ripresa del pensiero di Heidegger e, soprattutto, di Nietzsche. In “Nietzsche e la filosofia” (1962) e in “Differenza e ripetizione” (1968), Deleuze indica in Nietzsche il pensatore che, contro il primato dell’unità e dell’identità, proprio della tradizione metafisica occidentale a partire da Platone, ha riconosciuto la positività del molteplice, del diverso e del divenire; egli interpreta la volontà di potenza di Nietzsche non come volontà di sopraffazione e di dominio, ma come critica a ogni forma di potere e invito alla trasgressione e alla liberazione del desiderio . Nell’opera scritta in collaborazione con Félix Guattari, “L’Anti-Edipo” (1972), egli conduce un’aspra polemica nei confronti della psicologia freudiana, accusata di contribuire alla repressione dei desideri inconsci a scopi di normalizzazione sociale. Il desiderio, invece, rappresenta la positività, è costruttivo e gli individui sono propriamente ” macchine desideranti ” o flussi di desideri, situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto. Alla produzione desiderante, che si manifesta e prolifera in maniera polimorfa, in ogni società si oppongono istanze antiproduttive, che facendo leva sulle paure ingabbiano i desideri. In questa situazione, la schizofrenia appare come una rivendicazione di libertà assoluta, volta al soddisfacimento di tutte le potenzialità umane. Una domanda compare sin dalle origini del pensiero occidentale: che cosa significa pensare? Essa racchiude in sé tutta l’enigmaticità di un transito, di un continuo traghettamento verso territori brulli, aridi o altri floridi, quasi estatici. Non basta la semplice intelligenza per pensare, poiché l’intelligenza esige strappare unicamente una risposta, una soluzione possibile che tragga nell’immediato dal sottile inganno dell’apparenza. Essa sembra accontentarsi di un guitto, dei pochissimi passi percorsi per accedere alla risoluzione di una contingenza, di ciò che è nel qui e ora. E già Platone mette in guardia da coloro che sono gli “imitatori dei sapienti”, ai quali bisogna guardare con disprezzo, poiché essi gettano discredito sugli amanti della conoscenza, coloro che inarcano il Logos rendendolo continua attesa, la tensione estrema verso il divenire del pensiero. Perché la domanda sul significato del pensare? Perché porsi ancora (in un ancora che è la simultanea traccia di un interrogare e di un lasciarsi interrogare) una simile domanda nell’epoca della tecnicizzazione dei saperi e dell’apparente tramonto dell’altra questione filosofica fondamentale, che attraversa tutta quanta l’ontologia, sul senso dell’essere? La questione non si presenta affatto, a nostro avviso, come il reiterare stanco di un assillo che tanto si sa senza risposta, poiché ne va della genuina consapevolezza che, come esseri viventi, ci collochiamo in un mondo che è il Mondo-della-Vita, la Lebenswelt husserliana che pone il soggetto nel suo essere diveniente. La domanda è di estrema attualità, intendendo con ciò un passaggio ineludibile della contemporaneità. La dispersione di un pensiero originario (la filosofia greca a noi giunta come sintesi del pensiero che ascrive a sé la lacerazione di qualsiasi prospettiva, ponendo al tempo stesso l’elemento del divenire come ciò-che-avviene, come avvenimento) crea sempre il ri-pensare una novità che sia creativa, altrettanto generatrice quanto quella originaria. E’ per questo che noi ancora oggi raccogliamo i frammenti del pensiero antico, cercando un’origine che non sia sistema ma, come ha affermato G. Deleuze, una sorta di “collage” collocato su un piano di consequenzialità. La contemporaneità è reduce da questa dispersione, dalla frammentarietà del soggetto occidentale che si disgrega dinanzi alle enormi masse di individui che emigrano (contaminando); dalla lenta evanescenza che indica una frattura tanto grande quanto inavvertita è la necessità di un’anestetizzazione del pensiero. Questa visione della fuga (per certi aspetti apocalittica se non fosse per l’assuefazione cui la nostra percettività è in parte condannata) minaccia un senso della permanenza che non esiste più, che è ormai dilatato assieme ai confini della Polis. Dilatazione determinata, a sua volta, dalla scomparsa di un centro riconoscibile, divenuto sempre meno visibile, sempre più latente. Ascrivendosi alla dimensione della filosofia-del-divenire (o dei-divenire), Deleuze pone la domanda: che cos’è la filosofia? Tale domanda è legata indissolubilmente alla prima (“che cosa significa pensare?”), poiché ermeneuticamente ne traduce il senso, rendendo il pensiero non qualcosa di astratto, ma di immanente. Una domanda, insomma, che nel suo svolgersi è farsi, indica cioè il fenomeno del pensare come filosofia, come la scienza che si assume la responsabilità di porre la domanda fondamentale su qualsiasi domanda. M. Ferraris ha posto giustamente attenzione alla differenza tra il domandare di Deleuze e quello di Heidegger. Entrambi partono da una proposizione di metodo, fondante, simile nella possibilità di accedere ad una alterità non formale del pensare. Tuttavia, mentre ciò che caratterizza il domandare di Heidegger è la ricerca dell’origine, dell’essenza ontologica prima che giustifichi il suo discorso metafisico (il pensiero dell’essere), Deleuze pone “una domanda essenzialmente giuridica su che cosa giustifichi il pensiero nel fare, attualmente e non ermeneuticamente, delle differenze, e, in modo più profondo e radicale, equivale a domandarsi se il pensiero stesso sia un’attività di per sè legittima.” Deleuze non dà per scontato nulla e quando pronuncia la domanda: “che cos’è la filosofia?”, sembra contemporaneamente affermare: ciò-che-è la filosofia, ossia il farsi della filosofia. Heidegger si chiede: cosa è da pensare (dieses zu-Denkende)? Il da-pensare diviene ciò che contemporaneamente si distoglie (abwendet) dall’uomo, ossia si sottrae, diviene mancanza, poiché, per Heidegger, l’uomo non domanda più circa il senso dell’essere, nonostante egli abbia in sé tale domanda. Deleuze si chiede: che cos’è la filosofia? A differenza di Heidegger, che si situa su un piano ontico, dinamico certo, ma sempre legato al tentativo di unire la dicotomia parmenidea essere/non essere, Deleuze risponde: la filosofia (il pensare) è un piano (infinito) di immanenza, sul quale i concetti si dispongono come delle isole, che definiscono (per differenze) i campi del sapere cui ineriscono. Deleuze introduce il tema della ripetizione come differente dalla rappresentazione. In Hegel, la rappresentazione è Vorstellung, ciò che è possibile mostrare attraverso la concettualizzazione, le immagini che contengono un’alterità che rimanda all’ambiguità della metafora. “Le rappresentazioni in genere -afferma Hegel- possono essere pensate come metafore dei pensieri e concetti.” La rappresentazione è ermeneutica, interpretazione che si fa nel mentre la parola (fonema), Logos, si accosta al languore dell’esplicazione, che è la necessità della relazione. Quindi, la rappresentazione diviene in quanto atto sociale. Al contrario, la ripetizione, attraverso la molteplicità del suo s-doppiarsi, del suo comparire nella medesimezza di ciò che è altro (senza mai essere simulacro), diviene il solco su cui il rizoma sovrappone le sue intersezioni, rendendo l’evento filosofico il nodo che si chiude e si apre alla comprensione. 2. “Il concetto dice l’evento, non l’essenza o la cosa.” L’evento è l’immediatamente altro che appare dinanzi a noi, cui la fenomenologia ha dedicato (a ragione) così ampio spazio. Se è vero che noi prendiamo le distanze dal già-accaduto nel momento in cui descriviamo l’evento (atto che indica una ripetizione) e lo comprendiamo, segniamo il non-afferrabile, l’essenza. Avvertiamo, in questo modo, la formazione di una differenza. Differenza tra il già-accaduto e l’essenza; differenza tra un atto originario (sottratto alla tentazione cartesiana del pensiero che tutto appercepisce) e una ripetizione che, proprio perché tale, è riproducibile. La ripetizione (non separabile dalla differenza) designa un movimento che è avvicinamento, ciò che dell’oggetto-evento giunge agli occhi dello spettatore. Nietzsche scardina la rappresentazione della (di una qualsiasi) Storia della filosofia, affermando semplicemente (con la forza del suo essere nella storia e, tuttavia, profondamente fuori dalla storia) che ogni speculazione che noi compiamo è già stata pensata dai greci, poiché il nostro pensiero è una continua attribuzione di valori. Nietzsche definisce questo processo la décadence dei greci. Egli si muove su un piano di discontinuità, crea cioè un’onda discendente tra l’esperienza del Logos e la subitaneità di un pensiero delle cose che si vorrebbe sempre nuovo, sempre originario. Noi reiteriamo, ripetiamo. E’ questa la scandalosa sentenza di Nietzsche-Zarathustra, di Nietzsche-Dioniso. Questa frattura depone nella contemporaneità il barlume di una consapevolezza. Un dissidio, lo chiamerebbe Lyotard. Un paradosso che non è contraddizione ma lega la tensione generata da opposti in un dissidio che non cerca soluzione, quindi sintesi. In questo dissidio si compie la differenza, il portale che apre all’essere (nella sua dimensione soggettuale) il carattere di alterità in sé insito. Soggettuale e non soggettivo. La distinzione non è casuale, poiché mentre la soggettività conduce al percorso cartesiano della riducibilità del soggetto alla ragione (Descartes pronuncia le parole “Cogito ergo sum”, presupponendo il pronome Ego nella sua indissolubile unicità trascendentale), la soggettualità apre alla possibilità dell’essere-soggetto nella diversità di un proporsi non solo pronominale ma di genere, che è quell’essenza della verità cui costantemente richiama Heidegger. Deleuze (ma si potrebbero citare Foucault, lo stesso Lyotard, Guattari), con la domanda iniziale “che cos’è la filoofia?”, indaga -non sentenziando alcunché- la mutevole condizione di tale soggettualità. Se, infatti, il soggetto si pone nell’epoca post-moderna come frammentazione del senso dell’essere, il soggettuale recupera la dimensione della presenza non stratificandola nelle mille tautologiche domande della metafisica, poiché la soggettualità s’inserisce nella piega del “pensiero del fuori” di cui parla Foucault e M. Blanchot. Il “fuori” è il pensiero dell’Altro ma anche dell’altro da sé, che il piano della schizo-analisi deleuziana ha messo in evidenza come l’antilinearità della ragione che determina un’altra funzione, lo sdoppiamento della coscienza. Se la soggettualità, allora, è divenire, essa si pone in un ambito d’immanenza particolare, poiché è coesistenza co-estensiva, si dilata cioè ai limiti (ancora il con-fine-limen) dell’Altro, determinando (ma andando oltre) quel mondo delle intersoggettività che in Husserl è piano d’immanenza preferenziale vissuta attraverso l’esperienza (Erlebnis), su cui il Mondo della vita (Lebenswelt) si adempie. La soggettualità apre l’Essere alla possibilità dello straniero come figura concettuale, i “personaggi concettuali” cui richiama Deleuze, come mimesi attraverso cui il soggetto individua nell’altro la coestensività nomadica del proprio divenire alterità. Lo straniero è il doppio (Der Doppelgänger) o il perturbante freudiano (Das Unheimliche) che rimanda a quella condizione dell’Esserci che Heidegger chiama spaesamento e che conduce ad una delle caratteristiche della contemporaneità come epoca di transizione. Nel volume deidcato a Foucault, Deleuze scrive: “…il doppio non è mai una proiezione dell’interiore, è al contrario un’interiorizzazione del fuori. Non uno sdoppiamento dell’Uno, ma un raddoppiamento dell’Altro. Non una riproduzione dello Stesso, ma una ripetizione del Differente. Non l’emanazione di un Io, ma la immanentizzazione di un sempre altro e di un Non-io.” Tale immanentizzazione è sì la condizione dello spaesamento (Unheimlich), generato dall’Essere gettato nel mondo (sua originaria e ultima condizione), ma rappresenta anche la dimensione fuori/dentro con cui continuamente si confronta l’uomo occidentale: il suo essere è una immanentizzazione dell’inevitabile rapporto con l’altro e con ciò che perturba, che inquieta. La soggettualità sta nel rapporto “immanente” con l’essere-presente, che è co-esistenza, si avvicina (dimensionalmente) al piano del con-esserci heideggeriano e dell’intersoggettività husserliana. In quanto temporalità, l’essere della soggettualità si manifesta nella contemporaneità, che è il tempo co-estensivo del presente (dei valori immanenti dell’età della tecnica), dove il presente si reitera in una sorta di ripetizione senza presupposti e, soprattutto, senza domande. Come ha scritto M. Perniola: “Il tempo è colmo di presente, così come lo spazio è colmo di presenze: non c’è più tempo per il passato e per il futuro, così come non c’è più posto per l’assenza.” Il presente della contemporaneità è ciò che rende simulacro la presenza. La contemporaneità eredita questa dimensione del presente come tutto cui fare riferimento, il qui e ora che soddisfa qualsiasi pulsione, qualsiasi desiderio purché sia mercificato, purché reso oggetto appetibile-godibile, nonché immediatamente fruibile. E’ il tratto schizofrenico collettivo, che situa il soggetto nella sua dimensione patologica quotidiana, rendendolo perfettamente idoneo alla trasparenza di una presenza (la propria) che ricerca disperatamente una originarietà, negandola. Dobbiamo continuare a rimanere in guardia circa il monito lanciato alcuni anni fa da J. Baudrillard? Egli dice: “Nell’indeterminazione il soggetto non è né l’uno né l’altro, resta semplicemente lo Stesso.” Ecco nuovamente la ripetizione. Ecco il Simulacro. 3. Una domanda è un’istanza che richiede attenzione. Su questo territorio (che designa un campo di afferenza, una filosofia della Terra che ci precede sempre nell’incedere della questione attorno alla cosa) non è banale o scontato sostenere che Deleuze ha attraversato, come Zenone, la cifra di un numero per giungere al nodo della plurivocità. Zenone di Elea è colui che viaggia, instancabilmente, cercando un passaggio, una zona d’ombra che lasci intravedere l’enormità di un orizzonte asimmetrico, disegnato non solo dall’incontro di due linee di confine: la Terra e lo spazio aereo. Con il tratto spezzato della discontinuità (atto peculiare della contemporaneità) ci situiamo in un territorio del pensiero che piega continuamente le proprie forme, arretrando dinanzi all’infantile tentativo di universalizzare il sapere, di renderlo campo precipuo di specialisti che settorializzano e si spartiscono il (vuoto) serbatoio della scienza. Ciò che chiamiamo contemporaneità designa l’istanza epocale che dalla modernità (che pone ancora la domanda sul senso dell’essere) giunge alla postmodernità (che frammenta il pensiero sul senso dell’essere) per rinnovare l’ulteriore passaggio che apre i confini dei divenire-pensiero, dei divenire-filosofia, lacerando e ricomponendo continuamente il Logos occidentale nella sua vanesia certezza. La riflessione di Deleuze-Guattari invita a manifestare costantemente una criticità capace di vedere-attraverso l’apparenza per andare, con un’espressione di Husserl, “alle cose stesse”, recuperando così un tramite di verità. Nella sottile piega della differenza si fa spazio nel “Theatrum Philosophicum” (espressione notoriamente foucaultiana) occidentale una didascalia che sconvolge la linearità, il continuum, la pro-gressione del pensiero-Logos (d’origine platonica ma abbondantemente saccheggiato dagli illusi sofisticatori dell’Uno che comprende in sé il Tutto). Tale didascalia è la discontinuità che preannuncia la complessità, il non-previsto che si porta oltre il già-accaduto (passato, tra(n)s-corso) e si realizza sul piano d’immanenza infinito, che Deleuze distende sotto i concetti. Il piano d’immanenza è l’anomalia selvaggia costituente il “perché?” di ogni interrogarsi, di ogni domandare che abbia un fondamento. Deleuze, nella contemporaneità, ritaglia uno spazio al senso del pensare, tracciando una mappa, una cartografia che si confronti con la complessità dei saperi, zone confinanti che si misurano con quella che egli stesso ha definito Geofilosofia, capace di rendere creativamente instabile qualsiasi sistema che abbia la pretesa di essere “globale.”. La Geofilosofia inevitabilmente richiama la multidimensionalità del concetto che si rapporta alla figura della Terra-Pensiero come piano del molteplice divenire filosofico), Dove si attesta il confine, se è vero, come sostiene M. Cacciari, che il con-fine lega inevitabilmente ad un altro luogo (topos) che è esso stesso immanenza, poiché si situa sulla medesima Terra? Nella contemporaneità il confine è l’immediatamente altro, il luogo della relazione e della prossimità, luogo, infine, che unisce il concetto tra l’uno e l’altro interstizio del pensiero. Eppure la contemporaneità si disillude della necessità di un pensiero dell’altro, delimita la terra come proprio con-fine, temenos da difendere strenuamente a costo di massacri e genocidi. (Noi sappiamo che la reale mossa del con-fine è la propria non-trasparenza, ossia il proprio sottrarsi nel momento in cui la linea è stata tracciata… la filosofia è questo estremo superamento, il passare-oltre la traccia designata). La contemporaneità delimita il pensiero ad essere-simulacro (tema caro a Deleuze-Klossowski), ossia eterna ripetizione di un medesimo che non è simulazione ma oggetto-pensiero, qualcosa che tende continuamente ad altro, una tecnica del pensiero che si compiace e che crea in sé il proprio carattere di differenza. Tracciare un piano d’immanenza significa individuare un oltre-confine; significa rendere possibile il percorso della filosofia nella contemporaneità, passando (senza lasciarsi fascinare) tra i simulacri ostentati dell’eccedenza che l’estrema mercificazione degli oggetti-pensieri presuppone. La teoria della complessità assottiglia la linea di confine, spostando continuamente il margine tra due territori, due o più regioni che si toccano. Essa cerca di risalire all’evento, fiancheggiandolo e installandosi in esso come un divenire. Il complesso evoca i mille piani, l’eterogeneità di un pensiero che rimane nella tensione creativa dei concetti e rifiuta di rifugiarsi sul palco ad osservare; il complesso vive il/del paradosso inconciliabile tra ciò che è possibile comprendere e ciò che invece rimane in uno stato di latenza a generare nuovi rizomi, nuove diramazioni frattaliche. Il caos spaventa perché è l’informe, l’irrappresentabile. Esso rientra in ciò che è perturbante, nella dimensione dello spaesamento, della mancanza di un territorio originario, poiché nell’informe il territorio non caratterizza in modo stabile i propri confini. Cosa fa il filosofo dinanzi al caos? Qual è la domanda che egli pone? Esiste qualcosa, in questa epoca di transizione che è la contemporaneità, che non sia estremamente seduttivo e, quindi, inconfessabile perché irrappresentabile? Se Deleuze si richiama (e col suo richiamare muta la propria voce proiettandosi verso l’altro) a Klossowski, a Blanchot è per chiarire il passaggio dell’inconfessabilità, dell’incommensurabilità come eccedenza possibile unicamente in un’epoca dove il segno è simbolo mercificato: il segno che eccede se stesso, infatti, si porta sempre in un altrimenti che è costantemente da indagare, perché dischiude un passaggio, il “pensare altrimenti” insito nell’abbraccio dell'”infinito intrattenimento.” “…nell’esperienza dell’impossibilità -afferma Blanchot- non predomina il raccoglimento immobile dell’unico, ma l’infinito capovolgimento della dispersione, processo non dialettico in cui la contrarietà è estranea all’opposizione e alla conciliazione e in cui l’altro non equivale mai allo stesso: dovremmo chiamarlo il divenire, il segreto del divenire?” Su questo segreto gioco d’accostamenti, funzioni di ripetibilità che si disperdono sul piano di una vita (che è quella di Deleuze), il filosofo costruisce le proprie geometrie, un alternarsi di spazi che richiamano sempre al “fuori”, all’essente-altro. 4. “Il filosofo riporta dal caos delle “variazioni” che restano infinite, ma diventate inseparabili su superfici o in volumi assoluti che tracciano un piano d’immanenza secante: non sono più delle associazioni di idee, ma dei riconcatenamenti per zona di indistinzione di un concetto.” Rintracciare lì, nel caos, una qualsiasi “logica del senso” può significare solo non indietreggiare, attestarsi tra le pieghe di una linea che silenziosamente smuove il riterritorializzarsi delle regioni epistemologiche, camminare come nomadi sui terreni instabili della (s)ragione che può tagliare in qualsiasi direzione il piano. In realtà, tale taglio è un attraversamento. Il pensiero fa da tramite, attraversa e unisce i solchi continui che coprono il piano filosofico, struttura che si designa come sovversiva, poiché metamorfizza il piatto procedere della continuità con il passato, che si vorrebbe esclusiva certezza dell’esatta predizione delle cose. Il futuro filosofico (che presuppone sempre la domanda “che cosa è il pensiero-filosofia?”) agisce dentro di sé le discontinuità del divenire soggettuale come il continuamente altro dei concetti che si creano, si formano e trans-formano, smussati dal martello nietzscheano che lentamente erode i margini della fissità, della staticità, di chi vorrebbe a ogni piè sospinto decretare la morte del pensiero critico. “Il piano d’immanenza -notano Deleuze-Guattari- prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene i movimenti che si lasciano piegare insieme.” Il pensiero-oggetto-merce, che nella contemporaneità è il pensiero che non riconosce il suo passato né si vede come pro-gettante, tende il suo sguardo unicamente al fare della tecnica che si compie da sé e che degenera a tal punto la propria vocazione a creare strumenti sì da trasformarsi esso stesso in un pensiero-della-tecnica onnicomprensivo. In questo contesto la domanda di Deleuze-Guattari “che cos’è la filosofia?” crea uno spazio di definizione e di territorializzazione, nel momento stesso in cui gli autori deterritorializzano l’agire filosofico, collocandolo in un territorio che è tramite esso stesso, una metaxy che unisce diverse afferenze che mai potrebbero richiamarsi ad un pensiero unico o della globalità. “La filosofia -affermano Deleuze-Guattari- si riterritorializza sul concetto. Il concetto non è oggetto ma territori.” Deleuze accoglie in pieno e fa proprio il suggerimento che con forza Nietzsche lancia dalle pagine de La volontà di potenza: bisogna costruire concetti, inventarli, poiché essi non nascono a caso ma dalla minuscola piega che fa intravedere un’apertura, ancora una possibilità. “Ecco -afferma Nietzsche- cosa finisce per spuntare nel cervello dei filosofi: non devono più soltanto lasciarsi regalare i concetti, non devono solo purificarli e chiarirli, ma devono anzitutto farli, crearli, costruirli e renderli persuasivi.” Il pensiero si fa piano di immanenza poieutica, creatrice, poiché diviene la contingenza che pone come imprescindibile la pratica critica dell’intenzione concettuale. In questo luogo altro (contingente perché umano), i solchi, i sentieri, le radure, i deserti e i fiumi divengono il paesaggio costruttivo della posizione del soggetto che si rapporta con altri soggetti, che intesse relazioni e si confronta costantemente con quella complessità frattalica che congiunge i diversi tasselli della polisemicità del pensiero, strappando al fantasma della realtà la negazione al proprio divenire. “Che cos’è la filosofia?” diviene, allora, il farsi della filosofia, che reclama a pieno titolo nella contemporaneità la necessità di una serrata critica dei saperi, ponendosi su quel piano di immanenza che non è astrazione, bensì contingenza. 5. Tecniche del Soggetto/Tecniche dell’Essere? La contemporaneità sembra portare in sé l’eredità post-moderna dell’estrema frammentazione della domanda sul senso dell’essere (si dice che Heidegger sia stato l’ultimo filosofo a porre tale domanda in senso metafisico, battendo ogni possibile via speculativa). La cifra del senso non sta più nella domanda “fondamentale”, ma nella possibilità di ritenere il non-senso non un errore di percorso, bensì un passaggio che apre nuove e inedite prospettive. Il non-senso, come il senso, è legato alla parola, all’evento che dischiude una prospettiva di alterità. Non-senso, come ricorda Parmenide, può avere il non-essere, tanto terribile nella sua pronuncia quanto profonda è, invece, la polisemicità racchiusa nell’essere. Platone ribalta la struttura concettuale parmenidea, poiché apre un senso al non-senso dell’essere. Apertura. Sembra essere questa la chiave di lettura. Deleuze (ammirevole critico, decostruttore e lettore di Platone) propone l’ampliamento del tratto caratteristico che, linguisticamente, viene assegnato al senso: un gioco, direbbe Wittgenstein. Deleuze suggerisce, appunto, un’apertura. “La logica del senso -afferma Deleuze- è necessariamente determinata a porre tra il senso e il non senso un tipo originale di rapporto intrinseco, un modo di compresenza, che possiamo per il momento soltanto suggerire, trattando il non senso come una parola che dice il proprio senso.” Esiste una distanza formale tra senso e non-senso che delimita la percezione dell’evento: ciò che è immediatamente comprensibile ha senso, ciò che non lo è si inscrive nel campo del non-senso. Deleuze scardina il taglio netto creato dalla ragione occidentale (il “famigerato” cogito cartesiano) che tutto vuole ascrivere a sé, sostenendo che “il senso è sempre un effetto”; parimenti anche il non-senso si pone come una gradazione del fenomeno, una possibilità che è differenza concettuale. Nel teatro di Differenza e ripetizione i concetti estendono il significato della rappresentazione, distinguendola dalla ripetizione. Nelle pagine profonde dedicate a Freud, Deleuze ammette la ripetizione a patto che non la si confonda con la rappresentazione e quindi la si sublimi attraverso la metaforizzazione del vissuto. La ripetizione è un meccanismo di difesa, una resistenza (inconscia) che impedisce il lineare svolgersi della terapia. Essa permette la dimenticanza che, a sua volta, permette la ripetizione. (Qui sta il gioco del transfert: qual è il luogo del vissuto per l’amore del terapeuta? Esso è nel setting che, come locus-spazio tangibile, contiene la ripetizione). Ancora, la ripetizione, secondo Freud, turba. “Vi è poi un’altra serie di esperienze che ci permettono anch’esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di “caso”.” Il gesto, che (per un lapsus?) Freud definisce involontario e non, invece, inconscio, fa da tramite: la ripetizione porta ad una reiterazione del qui ed ora che in psicoanalisi circoscrive la relazione alla dualità. In essa s’inserisce, sempre, un altro tramite, il perturbante appunto. Il passaggio che si vuole qui includere risiede nel ritenere la contemporaneità il luogo privilegiato del compimento pieno del pensiero della tecnica o, meglio, delle tecnologie. La società occidentale, che crede di espandere ad libitum i propri confini, rende trasparenza qualsiasi pensiero dell’Essere, del Soggetto, del Corpo: l’identità non coincide più con l’essere un soggetto ma si confonde, si dilata sino a perdere i tratti caratteristici che la filosofia tra Otto e Novecento ha suffragato. Le tecniche modificano sensibilmente il nostro approccio al soggetto che è/e non è più l’Altro, che sono e non sono più Io. La Cura (die Sorge), che sorregge l’impianto teoretico di Essere e Tempo di Heidegger, non è più la naturale propensione dell’Uomo (Esserci, Dasein) che intende sfuggire al proprio carattere di deiezione (Verfallen); non è più l’aver cura (Fürsorge) e il prendersi cura (Besorgen) nella dimensione dell’alterità che fenomenicamente rende significativa la presenza dell’Uomo. La Cura si è trasformata in “tecniche di cura” che trattano, modificano e ricompattano un “corpo senza organi”, senza semen, senza significato: il senso non sta più nel corpo che si muove, che vive, che soffre, che prova intensamente l’emozione della Lebenswelt (il Mondo della Vita in cui è racchiuso l’esperire del Lieb-Corpo e della Leib-emozione), ma nella tecnica che seduce il corpo, modificandolo in “sostrato” che deve provare qualsiasi eccedenza gli proponga il Mondo dei Simulacri. Se il tempo del fuori concede un ulteriore spazio al soggetto, esso si distende nella contemporaneità attraverso le mille intersezioni dei piani, che determinano a loro volta il continuo scambio dei divenire-filosofia. Da qui, la domanda deleuziana “Che cos’è la filosofia? ” ci osserva col suo interrogare sospettoso.
DIFFERENZA CONTRO DIALETTICA
Fin dal principio della sua carriera di pensatore, Deleuze si è proposto di continuare il programma nietzscheano di un ” rovesciamento del platonismo “, ossia rovesciamento delle forme tradizionali del pensiero e più specificamente della rappresentazione, che costituisce il centro e il termine comune della metafisica, della teoria della conoscenza, della logica e della morale tradizionali. È un programma che non ha subito variazioni e che viene fissato nei suoi tratti essenziali già nella prima opera originale di Deleuze, “Differenza e ripetizione”, del 1968. La differenza e la ripetizione , o meglio un certo modo di concepire la differenza, la ripetizione e il rapporto tra l’una e l’altra, sono le strutture entro le quali si è cristallizzata la visione occidentale dell’essere come rappresentazione. Io colgo, comprendo, rappresento un fenomeno in quanto ne individuo il ripetersi, al variare delle circostanze, ovvero il ripetersi-con-differenze, la ripetizione assoggettata alla differenza, e la differenza legata alla ripetizione. Tutto questo insieme poi si offre alla generalità del concetto, dell’universale: tutti i diversi cavalli che ripetutamente vedo si trovano avvinti, grazie al gioco di differenza-e-ripetizione, nella forma unica e normativa del concetto “cavallo”. Ma perché non dovrebbe essere possibile concepire la differenza “in sé”, e la ripetizione “pura”? Perché non dovrebbe essere possibile pensare al di fuori della generalità, ovvero del combinarsi normativo di differenza e ripetizione? È ovvio che molte acquisizioni intoccate del pensiero tradizionale vanno riviste: va rivista anzitutto la dialettica, che sembra uno sconvolgimento o un “rovesciamento” della rappresentazione, ma in realtà ne è solo la versione “in movimento”: e si tratta ancora di un movimento regressivo e negativo, che tende a creare zone di realtà privilegiate ed egemoniche. La dialettica è un caso esemplare di asservimento della differenza al negativo: nell’identità idealistica, hegeliana, ogni differente è pensato come il negativo ed è perciò sottoposto alla dominanza dell’identico. Attraverso il dominio del negativo, la dialettica riesce a integrare e neutralizzare le differenze, esattamente come la ragione metafìsica classica, che esorcizza le differenze creando “generalità”, leggi, princìpi universali. Come nella logica classica della rappresentazione, anche nella dialettica sopravvive il dualismo (essere/non essere, soggetto/oggetto, originale/copia). Il rapporto copia-originale che nella metafisica classica era pensato come nesso tra due ordini di realtà, una delle quali è gregaria rispetto all’altra, nella logica dialettica vale come rapporto reciprocamente costitutivo tra la cosa e il suo doppio, la cosa e l’ombra. L’ arte contemporanea, innegabilmente, ha rotto con questa logica della rappresentazione: presentando ripetizioni pure, cioè “doppi” o “moduli”, oggetti spaesati e spezzati, che ospitano realtà eterogenee al proprio interno o si scompongono, si sconnettono e diventano tutto, o qualsiasi altra cosa; sconvolgendo in infiniti modi la logica dell’originale e della copia; rompendo la chiusura della cornice, oltrepassando la coppia dogmatica dell’artista e dell’opera, e ogni prevedibile dualismo. Quel che l’arte ha fatto nella propria “logica” andrebbe fatto anche in filosofia: occorre una nuova logica, una nuova “immagine del pensiero”, ma anzitutto è d’uopo sconfessare ogni immagine normativa del pensiero, liberare il pensiero dall’assoggettamento a una forma-immagine predeterminata. Emerge qui l’obiettivo di una logica dell’emancipazione che è anzitutto emancipazione della logica all’opera nel pensiero e nella prassi materiale e sociale (corpo, famiglia). Quel che Deleuze persegue è l’idea di una ricerca filosofica come individuazione di ” nuovi modi di vivere e di pensareunivocità dell’essere (riprendendo Duns Scoto) come condizione per pensare l’infinita pluralità delle differenze. In base all’univocità dell’essere (operazione in se stessa affermativa, poiché assegna una stessa dignità ontologica ai modi dell’ente, non li gerarchizza più in base al negativo, all’esclusione), si può cogliere la pluralità degli enti senza soggiogarli gli uni agli altri, senza postulare il primato della ragione sulla follia, o del soggetto sull’oggetto, o la gregarietà dell'”altro” rispetto al “medesimo”. Più in generale e più radicalmente, è possibile sottrarsi a un’immagine del pensiero il cui ultimo esito sarebbe ” impedirci di pensare “.
FOLLIA ED EMANCIPAZIONE DEL PENSIERO
Nello scritto “Logica del senso”, del 1969 e negli scritti successivi, Deleuze mette a punto i particolari di questo orizzonte preliminare, che può considerarsi lo sfondo filosofìco entro il quale è maturato il poststrutturalismo. Per un decennio, a partire dal 1972, la collaborazione con lo psicoanalista Félix Guattari (1930- 1992) ha permesso a Deleuze di indagare le conseguenze delle sue tesi in ambito politico, nella pratica psicoanalitica, nella critica letteraria, in una specie di rifondazione generale della cultura su basi anti-dialettiche e anti-metafisiche . La sperimentazione di nuovi modi di vita e di pensiero, non più assoggettati alle forme e ai dualismi della rappresentazione, si apre nell “Anti-Edipo” (1972), a quella che la ragione classica definisce malattia mentale, e in particolare alla schizofrenia : un modo di vedere la realtà tipicamente refrattario alle forme centralizzate del soggetto, dell’oggetto, dell’opposizione dialettica. Lo schizofrenico vede mondi percorsi da altri mondi, persone e oggetti multipli, corpi senza organi o disarticolati. Lo schizofrenico, inoltre, è irriducibile alla formula familiaristica dell’Edipo a cui la psicoanalisi (e in particolare quella lacaniana, con l’idea di un “nome del padre” che fonda l’identità simbolica) riporta ogni evento detto “patologico”. I preliminari di questa visione postdialettica della follia sono non soltanto le indagini di Foucault sulla storia dei manicomi e della malattia mentale, ma quel vasto movimento di ridefinizione del disagio psichico che interessa la cultura psichiatrica degli anni Sessanta e Settanta. La caratterizzazione classica della nevrosi, attualizzata da Freud, poggia sull’idea di un conflitto tra difesa e desiderio, che viene risolto nella vita psichica in base a un compromesso (il disagio psichico o somatico, nelle sue varie forme). La malattia psichica appare dunque in questa prospettiva come il risultato di un conflitto paradossale, un tentativo di porre un limite al dibattito infinito e rischioso tra le ragioni del desiderio e quelle della difesa. La struttura logica della nevrosi, e particolarmente della schizofrenia, costituì uno dei principali centri di interesse di Gregory Bateson, che tra il 1950 e il 1956 (nel quadro dei seminari interdisciplinari da lui organizzati a New York con i cibernetici Norbert Wiener, Heinz von Fórster, il matematico von Neumann, la propria moglie Margaret Mead, l’epistemologo Warren McCulloch e altri), giunse a interpretare il conflitto psichico in termini di “double-bind” (doppio legame). A differenza di quanto avveniva nell’immagine classica della nevrosi, il double-bind include l’ambiente, e dunque implica una visione della psiche come sistema aperto. Perché si stabilisca un doppio legame, secondo la formulazione classica di Bateson, occorre che: una prescrizione sia giudicata non trasgredibile; che il suo contenuto sia ineffettuabile. L’esempio tipico è quello del padre che ordina di disobbedire. Si tratta di un “paradosso pragmatico”, la cui formula è assolutamente identica a quella stoica del “mentitore”, e come il mentitore genera un processo infinito, di tipo nevrotico (devo – non posso). Il ruolo dell’autoriferimento, da cui sorge la ricorsione o circolarltà infinita, qui è evidente nella stessa formula della prescrizione, che, come in p = “l’enunciato p è falso”, impone di non tenere conto della propria imposizione. Nell “Anti-Edipo” Deleuze e Guattari notano che questa logica del doppio legame non è la perturbazione occasionale che genera una situazione patologica, ma il tessuto logico dell’intera cultura occidentale. La “doppia presa” è precisamente la dialettica all’opera nella famiglia edipica; ogni triangolo familiare è saldamente radicato nel “devi e non puoi” dalla ricorrenza infinita. Ora, lo schizofrenico per lo più si preoccupa di finitizzare la logica paradossale della famiglia (creando un compatto e imprendibile “corpo senza organi”), per evitarne a tutti, a sé come al padre e alla madre, le conseguenze distruttive. La figura dello schizofrenico, che crea una diversa logica contro la logica triadica e dialettica della famiglia, emerge allora come argine sociale della normativa edipica e dialettica, come una specie di avanguardia del movimento di emancipazione. Di qui nasce l’idea politico-antropologica della schizoanalisi come una forma di analisi basata sull’assecondamento della metafìsica schizofrenica, e su una visione del reale pluralistica, affermativa ed energetica. “L’Anti-Edipo” ebbe un grande successo, in Francia e in Europa, e fornì i presupposti di una prosecuzione, lungo tutti gli anni Settanta, della contestazione operaia e giovanile del Sessantotto. Con “Mille piani”, del 1982, il programma dell’ “Anti-Edipo” è sviluppato in un’ipotesi di rifondazione generale della cultura, nell’idea di un’epistemologia decentrata e pluralistica, che raccoglie i risultati delle due dicotomie costruite negli anni precedenti: differenza contro dialettica, schizofrenia contro logica edipica.
LA PRATICA FILOSOFICA
Negli anni Ottanta, con il venire meno delle fortune del poststrutturalismo, la diffusione del postmodernismo e della decostruzione (due tendenze maturate dagli stessi presupposti delle prime teorizzazioni deleuziane) e con l’emergere di quella che fu definita la “svolta ermeneutica” del pensiero contemporaneo, si conclude provvisoriamente la collaborazione con Guattari, e Deleuze ritorna agli interessi logici ed estetici che avevano animato i suoi primi scritti. La logica anti-metafìsica e anti-dialettica delineata in “Differenza e ripetizione” viene ora applicata al cinema , e all’opera del pittore Francis Bacon. Deleuze scrive anche un saggio su “Foucault” (1986), morto nel 1984, e uno su Leibniz (“La piega”, 1988). Nel 1991 riprende la collaborazione con l’amico Guattari, gravemente malato, e pubblica “Che cos’è la filosofia?”, una messa a punto di quella visione della pratica filosofica che è alla base delle sue opere, e che veniva già fissata nei tratti essenziali in “Conversazioni”, del 1977, scritto con la compagna Claire Parnet. L’idea iniziale è la definizione di filosofìa come ” arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti “. Di qui conseguono due linee problematiche: anzitutto si tratta di spiegare perché questa sola definizione è quella giusta, perché la filosofìa non sarebbe riducibile alla riflessione, o alla discussione democratica (secondo la formula di Apel e Habermas); alla “conoscenza di sé”, o alla “meraviglia”. Quindi si tratta di chiarire che cosa sono e come si comportano i concetti e qual è la prassi (non il “metodo”, ma la tecnh , l’arte) che ne governa la creazione. Infine, si tratta di specificare qual è la differenza tra l’operare della scienza e quello della filosofia, tra l’operare della filosofia e quello dell’arte. La riflessione è certamente un’attività filosofica, ma ciascuna altra prassi comporta un momento di riflessione, e certo l’arte e la scienza non hanno bisogno della filosofia per riflettere sul loro lavoro. Quanto alla meraviglia e alla conoscenza di sé, si tratta di definizioni vaghe, che non colgono la specificità dell’oggetto, o che mirano a totalizzare la filosofia, facendone un sapere primo e plenipotenziario. Inoltre, e infine, la filosofia non è riducibile alla libera discussione democratica, perché, come mostra la prassi greca, socratica (primo paradigmatico esempio di filosofia come arte della polis, al modo apeliano e habermasiano), la pubblica discussione è in realtà un’agonistica del concetto, ossia: vengono proposte “creazioni” concettuali rivali, che si misurano l’una contro l’altra. Quanto alla natura dei concetti, in “Che cos’è la filosofia?”, viene tratteggiata un’immagine precisa della concettualità , che può essere così sintetizzata: a) c’è un caos di sfondo e di partenza, l’infinito caos in cui è immerso il pensiero; b) la filosofia sopraggiunge per generare un ordine e un orientamento nel caos, e a questo scopo i concetti svolgono il ruolo di altrettante articolazioni, figure o configurazioni; e; i concetti non vagano sconnessi, ma si collocano su un certo “piano di immanenza”, un “taglio” nel flusso del caos che può variare, e che da diverse modalità, usi e intonazioni ai concetti (per esempio nel kantismo il piano di immanenza è il trascendentale, nell’heideggerismo è l’essere tempo-linguaggio, nell’esistenzialismo è l’esistenza del singolo, nella fenomenologia è il mondo degli Erlebnisse, nell’ermeneutica è la tradizione, ecc.); d) i concetti hanno una storia e una vita: come tutte le cose create, e le creature viventi, scrivono Deleuze e Guattari, i concetti sono “autopoietici”, continuamente formano se stessi, e come tutte le cose create sono molteplici, complessi, autoreferenziali. L’ultima opera di Deleuze, morto suicida nel 1995, è una raccolta di saggi prevalentemente di argomento letterario, dal titolo “Critique et clinique” (1993), dove tra l’altro assimila l’ontologia heideggeriana a certe idee teorizzate dallo scrittore protosurrealista Alfred Jarry.a
” Chi ha già avuto un’idea e ne ha fatto un film sa che avere un’idea non è il semplice risultato di una riflessione. Avere un’idea è una specie di festa, non è una cosa che accade correntemente. “
IL CINEMA DEL PENSIERO
Gilles Deleuze, ne “L’immagine-movimento” e ne “L’immagine-tempo”, scritti entrambi negli anni Ottanta, sostiene la tesi secondo la quale, nonostante la grande abbondanza di mediocrità presente nella produzione cinematografica, i grandi autori del cinema possono essere paragonati non soltanto ad altri artisti, quali architetti, pittori o musicisti, ma anche a dei pensatori, che pensano attraverso delle “immagini-movimento” e delle “immagini-tempo” al posto dei concetti. Deleuze riallaccia le sue riflessioni sul cinema alle concezioni di Henry Bergson sulla natura del movimento e del tempo. Il cinema attraverso il montaggio arriva a dare un’immagine del tempo che può essere diretta se legata alle immagini-tempo o indiretta se proveniente dalle immagini-movimento e dai loro rapporti. Nella contrapposizione elaborata da Bergson tra il tempo inteso come durata nella coscienza e il tempo misurabile della matematica e degli orologi, il cinema si presenta come l’esempio tipico del falso movimento: esso, infatti, procede con due dati complementari, delle sezioni istantanee che si chiamano immagini e un movimento, o tempo impersonale, uniforme e astratto, che è nella macchina da presa e con cui si fanno “sfilare” le immagini. Il cinema dunque ricostruisce il movimento con delle sezioni immobili come il più vecchio dei pensieri (paradosso di Zenone). Tuttavia, sostiene Deleuze, non si può concludere l’artificialità del risultato a partire dall’artificialità dei mezzi: infatti il cinema, sebbene proceda con fotogrammi che sono delle sezioni immobili di tempo (sequenze di 18 o 24 immagini al secondo), ci restituisce un’immagine media (ovvero risultante dalla somma di tutti i fotogrammi) a cui il movimento non si aggiunge astrattamente, ma che appartiene invece all’immagine come dato immediato. Attraverso la cinepresa mobile e il montaggio, il cinema non ci offre un’immagine alla quale aggiungerebbe, solo in un secondo momento, il movimento, ma ci dà immediatamente un’immagine-movimento. Attraverso l’inquadratura, la macchina da presa ritaglia dallo spazio aperto del mondo un sistema chiuso, una sezione mobile del tempo-durata, un sottoinsieme fatto di immagini, di personaggi e di oggetti posti in relazione dinamica tra di loro. A differenza di quelle arti fatte di pose (scultura, pittura, fotografia), le quali rimandano a forme e idee eterne ed immobili, il cinema, come la danza e il mimo, libera valori “non-posati”, riporta il movimento all’istante qualsiasi; esso non cerca il “tutto”, poiché il movimento si fa solo se il tutto non è né può essere dato: appena ci si dà il tutto, il tempo diviene immagine dell’eternità e di conseguenza non c’è più posto per il movimento reale che è puro divenire senza sosta. Queste riflessioni aprono la possibilità per una nuova filosofia: mentre la filosofia antica si proponeva di pensare l’eterno, l’universale, il cinema diventa il portavoce dell’altra filosofia, capace di un modo di pensare nuovo che cerca il singolare, in ogni istante qualsiasi. L’inquadratura, il piano e il montaggio sono i mezzi attraverso i quali il cinema costruisce il suo sistema di relazioni tra immagini. L’inquadratura è il punto di vista, il sistema chiuso che comprende tutto ciò che è presente nell’immagine. Essa può comporsi secondo schemi geometrici, dinamiche di luci e ombre, “disinquadrature” e fuori campo, e il suo scopo è rendere l’immagine leggibile, oltre che visibile, dallo spettatore. Il piano rappresenta il movimento stesso, il rapporto tra le parti e il cambiamento che ne scaturisce è l’immagine-movimento stessa, la sezione mobile della durata secondo la visione bergsoniana. Attraverso esso si rende possibile una modulazione spazio-temporale grazie alla quale il tempo assume il potere di dilatarsi o concentrarsi e il movimento assume il potere di rallentare o accelerare. Infine il montaggio che rappresenta il tutto del film, l’idea che ci fa dono di un’immagine della durata e del tempo effettivi. Deleuze, ripercorrendo la storia del grande cinema d’autore, individua diverse scuole di montaggio che sembrano segnare un percorso di trasformazione da un cinema classico a un cinema moderno che si differenziano per la diversa immagine del tempo che hanno saputo dare: mentre il cinema classico ha veicolato un’immagine indiretta del tempo, proveniente dalle immagini-movimento e dai loro rapporti, il cinema moderno ha dato un’immagine diretta del tempo grazie ad immagini-tempo che hanno instaurato nel cinema un regime di scambio tra immaginario e reale, tra soggettività e oggettività, con il fine di comunicare l’idea del passaggio, del cambiamento quale natura stessa del tempo. Deleuze concepisce il tempo quale direttamente rappresentabile poiché l’immagine-tempo ha la facoltà di esprimere la natura del tempo, il fuggevole, in una forma compiuta: “ma la forma di ciò che cambia, non cambia, non passa. È il tempo, il tempo in persona…un’immagine tempo diretta, che da a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento”. Tra gli autori di immagini-movimento, Deleuze individua diverse forme di montaggio utilizzate: la tendenza organica della scuola americana, la tendenza dialettica della scuola sovietica, la tendenza quantitativa della scuola francese d’anteguerra e infine la tendenza intensiva della scuola espressionista tedesca. La scuola americana concepisce con Griffith un’idea di montaggio in cui i personaggi e le azioni sono presi in rapporti binari che costituiscono un montaggio alternato parallelo, con l’immagine di una parte che succede a quella di un’altra seguendo un ritmo, un’alternanza delle parti differenziate; ad esempio, il mondo dei poveri e il mondo dei ricchi, oppure il mondo dei buoni e quello dei cattivi, vengono presentati come sfere in conflitto, indipendenti le une dalle altre, appunto come modi paralleli, manicheicamente opposti, mentre si trascura il fatto, commenta Deleuze, che le parti in opposizione sono in realtà il frutto di una stessa causa, le due facce della stessa realtà sociale di sfruttamento. Le parti distinte entrano in conflitto, ma le azioni tendono a ricongiungersi, fino ad arrivare ad una situazione trasformata che costituisce una grande unità organica. Nei film russi di Eisenstein, Vertov, Pudovkin e Dovzenco l’obiettivo del montaggio è quello di comunicare l’idea di una meta unitaria da raggiungere (presa di coscienza, azione politica) attraverso una giustapposizione di situazioni legate tra loro e in evoluzione. L’opposizione dialettica, il passaggio da un opposto all’altro si realizzano attraverso il ricorso al patetico (l’immagine viene caricata di una tensione emotiva fino ad esplodere, ed emergere dall’insieme come “immagine al quadrato”; pensiamo, ad esempio, alla carrozzina del Potëmkin.) e al montaggio di opposizione: questo si differenzia dal montaggio parallelo poiché l’unità a cui riporta non è un semplice assemblaggio di parti giustapposte, ma una spirale organica che cresce attraverso le contraddizioni per arrivare ad un’unità più elevata, appunto ad una sintesi dialettica. Il cinema francese degli stessi anni è profondamente legato, invece, allo spiritualismo. Il movimento della macchina da presa rispecchia il movimento dell’anima, la passione. Le diffuse immagini d’acqua (mare, fiumi, riprese subacquee) diventano la forma di quanto non ha consistenza organica: l’astratto, lo spirito (ne “L’Atalante” di Jean Vigo l’acqua diventa il luogo dell’apparizione di fantasmi). Attraverso il montaggio accelerato, la polivisione, la sovrimpressione delle immagini, il tempo e il movimento diventano smisurati, incommensurabili: il sublime matematico kantiano fa così la sua apparizione nel cinema. Il senso del sublime dinamico, invece, emerge dai giochi di luce nei film dell’espressionismo tedesco. Il contrasto diventa la matrice del montaggio, luce e ombra creano un mondo striato, lo spazio è costruito attraverso una geometria gotica. La luce che si oppone alle tenebre, la vita che lotta con l’inorganico per emergere atterrisce l’immaginazione, ma dà vita allo stesso tempo ad una facoltà pensante attraverso cui ci sentiamo superiori rispetto a tutto ciò che ha il potere di annientarci. (Nosferatu di Murnau, Der Golem di Wegener, Frankenstein di Whale). Con l’immagine-tempo il montaggio tende quasi a scomparire a vantaggio del piano sequenza e della profondità di campo: l’uno trasmette il senso della continuità di durata, l’altro (sperimentato da Welles), facendo comunicare lo sfondo con il primo piano, il lontano con il vicino, rappresenta il rapporto tra passato e presente, ovvero un’immagine-tempo diretta. L’immagine-tempo inaugura uno stile frammentato che abbandona l’idea di montaggio come associazione, concatenamento tra immagini, per dare importanza alla spaziatura, al vuoto che si crea tra le immagini. Mentre l’immagine classica costruiva sequenze di montaggio secondo leggi di associazione o opposizione che sfociavano poi in concetti, l’immagine moderna instaura un “regno degli incommensurabili”, in cui le immagini non si associano più in maniera razionale, ma vengono spezzettate per poi essere riconcatenate. Il fuori campo e il falso raccordo assumono un nuovo senso. In Godard, ad esempio, a differenza del cinema classico dove persisteva l’ideale dell’identità e del sapere come totalità e armonia, il mixage sostituisce il montaggio: le immagini appaiono dissociate, non c’è più unità tra autore, personaggi e mondo; il rapporto tra il sonoro e il visivo diventa asincronico, la voce fuori campo si fa indipendente dalle immagini e la sua funzione è quella di produrre un sistema di sganciamenti e intrecci tra presente e passato. Qualunque sia la forma di montaggio scelta, la macchina da presa agisce come una coscienza giudicante, ritaglia una visione particolare dal flusso continuo della materia e, isolando una sezione nell’insieme infinito delle immagini, agisce come lo schermo nero posto dietro la lastra fotografica che fa sì che l’immagine si distacchi. Deleuze costruisce una vasta tassonomia di immagini cinematografiche, elaborandola sulla scia del sistema di classificazione generale delle immagini e dei segni stabilito dal logico americano Peirce. Se un’immagine può esprimere un concetto, possiamo pensare allora che esistono convenzioni simboliche e discorsive per interpretare i segni cinematografici? Ovvero esiste un repertorio codificato di immagini-significato come nella lingua oppure un’immagine, a differenza di una parola, non significa sempre la stessa cosa? Nel cinema troviamo tre tipi di immagini a costituire l’immagine-movimento: immagini affezione e pulsione (rappresentano la “primità”, secondo la semiotica di Peirce), immagini azione (“secondità”), immagini relazione (“terzità”). Vi sono immagini che hanno una relazione per così dire “naturale” con le cose che rappresentano, come nel caso di un ritratto che viene associato automaticamente al suo modello. Ciò che lega le due entità è soprattutto l’abitudine a vederle associate, il patrimonio comune di gesti che tutti noi compiamo; così, ad esempio, l’apparizione di un’arma richiama subito un significato di violenza o di dolore. Queste immagini sono dei cliché. In questo senso l’immagine filmica, come l’immagine poetica, non significa ma mostra, non è segno ma intuizione lirica, senso immanente all’immagine stessa, realtà direttamente presente senza mediazione simbolica o riformulazione del reale stesso. Il primo piano cinematografico è un’immagine affezione e il suo ruolo è quello di astrarre l’immagine dalle coordinate spazio-temporali per trasformarla in icona, espressione pura di un affetto che non esiste separatamente da ciò che lo esprime: nel vedere un volto sofferente vediamo la sofferenza in persona. L’immagine affezione esprime qualità o potenze considerate in sé, senza riferimento a nient’altro. L’affetto è impersonale, esprime il possibile senza attualizzarlo e si distingue da ogni stato di cose individuato, ma allo stesso tempo esprime qualcosa di singolare, all’interno di una storia che lo presenta come l’espressione di un’epoca o di un ambiente. Il film affettivo per eccellenza è, secondo Deleuze, La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer. Il regista astrae la passione dal processo attraverso un predominanza di primi piani del volto della santa, mentre il piano medio e quello generale sono costruiti con assenza di profondità come fossero anch’essi primi piani. Anche uno spazio qualsiasi può esprimere qualità e potenze ed essere quindi un’immagine affezione. A metà strada tra l’immagine affezione e l’immagine azione troviamo l’immagine pulsione, la quale rappresenta un affetto degenerato che si manifesta in un’azione “embrionata”, informe o perlomeno non formale. Troviamo immagini pulsione in tutti i film naturalisti; le pulsioni rappresentate sono spesso semplici come la fame ed il sesso e sono inseparabili dai comportamenti perversi che producono e animano. Buñuel, considerato con Stroheim e Losey uno dei massimi naturalisti del cinema, ha arricchito l’inventario di pulsioni e perversioni spirituali ancora più complesse, riguardanti questioni teologiche e filosofiche (in Simon del deserto, ad esempio). A differenza del realismo che si esprime attraverso immagini azione, il naturalismo esprime una violenza statica, interiore, che si impossessa dei personaggi e fuoriesce da essi fino a penetrare l’ambiente e a degradarlo. L’immagine-azione o “secondità” rappresenta tutto ciò che esiste solo opponendosi a qualcos’altro, come in una relazione duale: azione-reazione, eccitazione-risposta, situazione-comportamento. Ci troviamo all’interno della categoria del reale, dell’attuale, dell’esistente, dove le qualità e le potenze si attualizzano in stati di cose particolari. Siamo nell’ambito del realismo, il genere che ha fatto trionfare universalmente il cinema americano. Nel regno della “secondità” la situazione e il personaggio (o l’azione) sono due termini correlativi e antagonisti: l’ambiente agisce sul personaggio, il personaggio reagisce a sua volta in modo tale da rispondere alla situazione e modificare l’ambiente, pervenendo dunque ad una nuova situazione. Molti generi di film hanno una simile struttura: tutti i film di guerra; i film-documentario (Flaherty), dove si vede l’uomo, o la natura in genere, fronteggiare le sfide dell’ambiente; i film psico-sociali (King Vidor, Elia Kazan), dove da una comunità emerge la figura di un capo in grado di rispondere alle difficoltà della situazione (qui il realismo descrive una patologia dell’ambiente e le reazioni ad essa da parte dei personaggi che la subiscono); i film western (John Ford), dove il duale, lo scontro tra due forze antagoniste si esprime attraverso la rappresentazione del duello; i film storici (Griffith, De Mille, Hawks), dove sotto la forma dell’immagine-azione troviamo rappresentati i tre aspetti della storia definiti da Nietzsche: l’aspetto monumentale nei paralleli o nelle analogie tra una civilizzazione e un’altra (ha il suo capolavoro in Intolerance di Griffith), l’aspetto antiquario nelle ricostruzioni scenografiche e costumistiche, l’aspetto critico nella struttura stessa del film, da cui emerge sempre e comunque un forte giudizio etico sul passato narrato dalla storia. L’immagine azione ha tuttavia anche un’altra forma, una piccola forma sostiene Deleuze, dove questa volta è l’azione che svela la situazione, o un aspetto di essa, la quale a sua volta dà inizio ad una nuova azione. La nuova immagine azione procede per indizi, per ellissi e per equivoci. L’azione svela una situazione non data che viene dedotta dall’azione stessa, oppure una piccolissima differenza tra due azioni produce una grandissima distanza tra due situazioni, delle quali una sola è reale e l’altra apparente o menzognera. Questa nuova formula dell’immagine è comune a molti film gialli o polizieschi e al burlesque: in molti film di Chaplin l’azione è filmata mettendo in evidenza ogni sua più piccola differenza rispetto ad un’altra azione, per svelare così la grande distanza tra due situazioni. Deleuze cita l’esempio di Charlot che in guerra segna un punto ogni volta che spara, ma quando una pallottola nemica gli risponde, lo cancella. All’ultima categoria, detta “terzità”, appartengono quelle specie di immagini (immagini relazione) che hanno una relazione “astratta” con il senso che veicolano. Questa relazione è costruita su una convenzione e di conseguenza queste immagini rendono il film più difficile: esse vanno interpretate in quanto non sono leggibili intuitivamente e il loro senso va cercato nella storia che le riguarda, nella loro funzione di simbolo all’interno della cultura a cui appartengono, nel tessuto relazionale in cui sono inserite. Per esempio i gabbiani che attaccano gli uomini nel film Gli uccelli di Hitchcock (massimo creatore di immagini relazione secondo Deleuze) sono il simbolo (relazione astratta) dell’inversione del rapporto uomo-natura, e soltanto intuendo questa relazione siamo in grado di comprendere il senso dell’intero film. Ma sono proprio queste immagini ad avvicinare il cinema al pensiero e ad allontanarlo dai luoghi comuni. Deleuze si serve della classificazione delle figure del discorso di Fontanier per descrivere le diverse forme assunte dall’immagine relazione: così un’immagine può avere il valore dei tropi letterari ed essere letta come una metafora, una metonimia o una sineddoche oppure valere come allegoria, simbolo, sillogismo, e animare delle figure di pensiero. Il cinema può porre ora delle domande trascendenti o esistenziali, domande su Dio o sulla vita, e le pone attraverso delle immagini mentali che non rappresentano il pensiero di qualcuno, ma concernono gli stessi oggetti che possiedono un’esistenza propria al di fuori del pensiero e la relazione che si stabilisce tra essi. L’interpretazione si fa necessaria per la comprensione di queste immagini, per cogliere la relazione che le lega, poiché esse non sono unite naturalmente nello spirito, ma in virtù di una legge esterna. Il mentale mette in crisi l’immagine tradizionale del cinema e anche se si continuano a fare film d’azione, essi non esprimono più la vecchia anima del cinema che ora esige sempre più pensiero. La crisi dell’immagine azione dipende, secondo Deleuze, da molte variabili, dalla guerra e dalle sue conseguenze, dal vacillare del sogno americano, dall’inflazione delle immagini nel mondo esterno e nella mente della gente e dall’influenza sul cinema delle nuove tipologie del racconto, già sperimentate dalla letteratura. Cadono le illusioni e il realismo non è più in grado di raccontare il nuovo stato di cose. L’immagine non rinvia più a una situazione sintetica, ma dispersiva; i personaggi sono molteplici e non è più possibile distinguere un personaggio principale da uno secondario. La realtà stessa sembra lacunosa e confusa e il caso sembra essere il solo filo conduttore che lega gli avvenimenti. L’azione viene sostituita dalla flanerie, dal vagare senza meta e la nuova immagine vuole superare quelli che ormai sono diventati i cliché dell’immagine azione (gli eroi, il lieto fine). Il cinema americano si limita in questo nuovo contesto ad una mera critica, ad una denuncia che costituisce però una semplice parodia dei cliché che non conduce a nulla e che dunque non è pericolosa. Il nuovo progetto estetico, e politico, nasce in Europa con il Neorealismo in Italia, prosegue con la Nouvelle Vague in Francia e va oltre, fino a cambiare lo stesso cinema americano, con Welles e il New American Cinema, ed arrivare ad oggi con una ricerca che non sembra ancora esaurita. Con l’immagine mentale, l’immagine-movimento arriva al proprio limite, aldilà di essa troviamo l’immagine-tempo, costituita a sua volta da immagini ottico-sonore pure, immagini ricordo, immagini sogno, fino ad arrivare alle immagini cristallo. La nuova immagine allude a visioni del mondo alternative dove il tempo può seguire una linea spezzata o un percorso circolare e non essere più strutturato secondo l’idea di un fine a cui tendere. La realtà assume una nuova forma che è errante, ellittica, sempre ambigua. Il Neorealismo inaugura un nuovo cinema che Deleuze definisce del “veggente”. Alle situazioni senso-motorie del vecchio cinema d’azione realista si sostituiscono delle situazioni puramente ottiche e sonore: i personaggi dei nuovi film sembrano essere divenuti essi stessi degli spettatori di una situazione che subiscono senza poter reagire. Il personaggio è come consegnato a una visione piuttosto che impegnato in un’azione. I bambini, che nel mondo adulto soffrono “di una certa impotenza motoria”, sono spesso i protagonisti (in De Sica e in Truffaut) proprio perché più capaci di vedere e di sentire. Gli ambienti e gli oggetti che popolano le inquadrature acquistano valore per se stessi (Visconti e Antonioni). La banalità quotidiana oppure i ricordi d’infanzia, i sogni e le immagini soggettive animano le nuove immagini fino a confondere la realtà con lo spettacolo (Fellini); la realtà trascorre nell’immaginario e ne esce deformata dal pensiero, diviene una nuova realtà, creata dalla mente attraverso la parola e la visione, finché attuale e virtuale, reale e immaginario si fanno indiscernibili. Spesso nella sceneggiatura è assente ogni intreccio, proliferano i tempi morti e le conversazioni banali, oppure il silenzio. Le nuove immagini che esprimono il divenire, il passaggio, rappresentano l’essenza del tempo. Immagini visive e sonore rendono sensibili il tempo e il pensiero e fanno di essi uno strumento di conoscenza. L’immagine ottico-sonora rievoca un’immagine ricordo: l’immagine attuale (descrizione) si concatena con un’immagine virtuale (ricordo) componendo un circuito che va dal presente al passato per tornare al presente, attualizzando il ricordo attraverso il meccanismo del flash-back. Attraverso questo tipo di montaggio (di cui Mankiewicz è il più grande maestro, secondo Deleuze) si producono delle relazioni non lineari tra le situazioni, si impongono delle svolte nella narrazione, delle rotture di causalità che creano degli enigmi. Ancora una volta si instaura un circuito di indiscernibilità tra l’immagine attuale del presente e l’immagine attualizzata del virtuale-ricordo, mentre le immagini sogno emergono quando non si riesce a ricordare e l’immagine attuale del presente entra in contatto con l’elemento virtuale del sogno o del déjà-vu. Da questo nuovo tipo di immagine nasce il confronto tra cinema e psicanalisi e da qui ha anche origine il Surrealismo (Buñuel). Il montaggio è fatto da dissolvenze e sovrimpressioni che esprimono l’idea di un coinvolgimento del passato nel presente in una forma anarchica e da tagli improvvisi delle sequenze che producono l’idea di uno sganciamento, di una rottura. Si tratta per Deleuze (che riprende la teoria bergsoniana del sogno) di falde di passato fluide che emergono disordinatamente incarnandosi in delle metafore, senza presentarsi direttamente in immagini attualizzate del passato (come avviene nel ricordo). Tra le immagini sogno Deleuze pone anche i film della commedia musicale (i film di Minnelli fra tutti), in cui le danze sembrano voler riprodurre un mondo onirico, creare un sogno gigantesco ed esprimere il passaggio da questo alla realtà in un andirivieni che di nuovo marca l’indiscernibilità tra reale e immaginario. Infine l’immagine cristallo. Essa si produce quando “l’immagine ottica attuale si cristallizza con la propria immagine virtuale”, quando l’immagine presenta una doppia faccia insieme attuale e virtuale, producendo una nuova forma di indiscernibilità. Deleuze parla di immagini doppie per natura nelle quali l’indiscernibilità tra attuale e virtuale, presente e passato, reale e immaginario, vero e falso non si produce nella mente dello spettatore, ma è un vero e proprio carattere oggettivo di questo tipo di immagini. Un esempio efficace di immagine cristallo è l’immagine allo specchio: “l’immagine allo specchio è virtuale in rapporto al personaggio attuale che lo specchio coglie, ma è attuale nello specchio che lascia al personaggio soltanto una semplice virtualità e lo respinge fuori campo”. Tra i numerosi autori di immagini cristallo ricordati da Deleuze ci sono Orson Welles (ne la Signora di Shangai si ricorda la celebre sequenza della stanza degli specchi), Tarkovskij (un suo film si intitola appunto Lo specchio), Resnais (la confusione di passati-presenti di L’anno scorso a Marienbad). L’immagine reciproca del cristallo, presente e passata contemporaneamente, somiglia all’illusione della paramnesia, al déjà-vu: ricordo del presente, passato contemporaneo al presente stesso. Tuttavia l’immagine cristallo non ha una natura mentale o psicologica, ma esiste fuori della coscienza e nel tempo, quasi come un frammento di tempo allo stato puro. Il passato si forma contemporaneamente al presente e non dopo di esso e dunque il tempo si sdoppia in ogni istante e l’immagine attuale del presente che passa si forma simultaneamente all’immagine virtuale del passato che si conserva, fino a formare un circolo. Il reale si colloca all’esterno dell’immagine cristallo, l’avvenire è al di fuori del circolo, oltre l’eterno rinvio tra passato e presente. Molti autori di cinema scelgono di restare intrappolati nel cristallo, come Visconti, altri cercano uno slancio verso l’avvenire, Renoir ad esempio, altri ancora, come Fellini, si pongono il problema di come entrare nel cristallo e si aiutano con ricordi d’infanzia, fantasmi, fantasticherie.
CHE COS’E’ LA FILOSOFIA?
Deleuze e Guattari hanno pubblicato in Francia il saggio “Che cos’è la filosofia?”, in cui presentano in forma sistematica le loro idee sulla produzione teorica della seconda metà del XX secolo. Secondo loro, è questa una domanda che deve essere concepita in vecchiaia, nel farsi sera di una giornata di lavoro. E’ così, affaticati per il lungo cammino, e con molti bagagli, che possiamo tentare di incontrare ciò che ci interessa in mezzo alla diversità della produzione filosofica e porre a noi stessi la domanda oracolare: che cos’è la filosofia? La risposta data dai pensatori francesi, lo sappiamo, è che la filosofia è attività di creazione di concetti . Attività nel senso wittgensteiniano del termine, che richiama la nozione di filosofia come un fare, nel suo aspetto materiale. Ma non qualsiasi attività, piuttosto una attività di creazione, perché alla filosofia tocca creare e non scoprire, incontrare. Infine, una attività di creazione concettuale, perché il concetto è la materia e il prodotto della filosofia, la sua specificità. Scrivono che
” Il filosofo è l’amico del concetto, è in potenza di concetto. Ciò vuol dire che la filosofia non è una semplice arte di formare, inventare o fabbricare concetti, perché i concetti non sono necessariamente delle forme, dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, è la disciplina che consiste nel creare concetti. […] Creare concetti sempre nuovi è l’oggetto della filosofia. E’ proprio perché il concetto deve essere creato, che esso rinvia al filosofo come a colui che lo possiede in potenza o che ne ha la potenza e la competenza. […] I concetti non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come fossero corpi celesti. Non c’è un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li creano “.
Intendendo la filosofia come creazione di concetti, Deleuze e Guattari sottopongono a dura critica tre prospettive molto comuni quando oggi cerchiamo di definire la filosofia: secondo loro, la filosofia non è né contemplazione, né riflessione, né comunicazione . I filosofi francesi non stanno in alcun modo esercitando il disprezzo per la diversità delle filosofie e tentando di imporre un’unità; stanno piuttosto cercando una definizione possibile e plausibile di attività filosofica che possa essere applicata a tutte le filosofie, per quanto diverse e distinte esse siano. In questa impresa, tentano anche di dimostrare che determinate “definizioni” di filosofia non colgono, di fatto, la sua specificità. La filosofia non è contemplazione, come per molto tempo – per ispirazione soprattutto platonica – si è ritenuto, perché la contemplazione, anche dinamica, non è creativa; consiste nella visione della cosa stessa, considerata preesistente e indipendente dal proprio atto del contemplare, e non ha nulla a che vedere con la creazione di concetti. E neppure è comunicazione, e questo è detto contro due figure emblematiche della filosofia contemporanea: Habermas, con la sua proposta di una razionalità comunicativa, e Rorty e il neopragmatismo, che propongono una “conversazione democratica”. Perché la comunicazione può mirare soltanto al consenso, mai al concetto; e il concetto, molte volte, è più dissenso che consenso. E, in ultimo, la filosofia non è riflessione, semplicemente perché la riflessione non è specifica dell’attività filosofica: a chiunque è possibile (e non soltanto al filosofo) riflettere su qualsiasi cosa. Poiché tra noi è davvero cosa comune intendere la filosofia come una forma specifica di riflessione su determinati problemi, la critica di Deleuze è radicale, perché dice che la filosofia può riflettere, ma non è questo che la rende filosofia e non un’altra cosa.
” Non è riflessione perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere su una cosa qualsiasi: si crede di concedere molto alla filosofia facendone l’arte della riflessione, ma al contrario le si sottrae tutto, perché né i matematici hanno mai atteso i filosofi per riflettere sulla matematica, né gli artisti sulla pittura o sulla musica; dire che quando ciò accade essi diventano filosofi è uno scherzo di cattivo gusto, tanto la loro riflessione appartiene alle rispettive creazioni “. Non possiamo identificare la filosofia con nessuno di questi tre atteggiamenti perché nessuno di essi è specifico della filosofia, ” la contemplazione, la riflessione, la comunicazione non sono discipline, ma macchine per formare degli universali in tutte le discipline “. D’altra parte, è proprio della filosofia creare concetti che consentano la contemplazione, la riflessione e la comunicazione, senza cui questi atteggiamenti non potrebbero esistere. Se la filosofia guadagna in densità e identità come impresa di creazione concettuale, allora perde ogni senso la questione sempre discussa della utilità della filosofia o lo stesso annuncio, spesso ripetuto, della sua morte, del suo superamento: ” quando è il caso e il momento di creare dei concetti, l’operazione che ne consegue si chiamerà sempre filosofia, anche se le si desse un altro nome “. In un’altra occasione Deleuze aveva affermato che ” la filosofia consiste sempre nell’inventare concetti. Non mi preoccuperei affatto del superamento della metafisica o della morte della filosofia. La filosofia ha una funzione che rimane pienamente attuale, creare concetti. Nient’altro può far questo al suo posto. Certo la filosofia ha sempre i suoi rivali, dai ‘rivali’ di Platone fino al buffone di Zarathustra. Oggi sono l’informatica, la comunicazione, la promozione commerciale ad essersi appropriate dei termini ‘concetto’ e ‘creativo’ e sono questi ‘campioni del concetto’ a presentarsi come una razza spavalda che esprime l’atto di vendere come il supremo pensiero capitalista, il cogito della merce. La filosofia si sente piccola e sola danti a così grandi potenze, ma, se proprio deve morire, che almeno muoia dal ridere .” Un’altra critica interessante è quella che Deleuze e Guattari rivolgono alla discussione . Siamo abituati a vedere la filosofia come una forma di dibattito, di discussione, fedeli all’agonismo greco delle origini della filosofia. Ma Deleuze e Guattari dimostrano che, nella prospettiva della filosofia come creazione di concetti, la discussione può fornire elementi per la creazione di nuovi concetti, ma non è nella discussione che consiste l’attività filosofica.
” E’ per questo che il filosofo non è molto incline a discutere. Qualunque filosofo fugge quando sente la frase: adesso parliamo un poco. Le discussioni vanno bene per le tavole rotonde, ma è su un’altra tavola che la filosofia getta i suoi dadi cifrati. […] La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare. Non sopporta il dibattito, ma non perché sia troppo sicura di sé: al contrario, sono le sue incertezze che la spingono verso altre e più solitarie vie. Eppure Socrate non faceva della filosofia una libera discussione fra amici? La conversazione degli uomini liberi non è forse il culmine della socievolezza greca? In realtà Socrate non ha mai smesso di rendere impossibile qualunque discussione, sia con il rigido scambio di domande e risposte, sia con il lungo rivaleggiare dei discorsi. Ha trasformato l’amico in amico del solo concetto, e il concetto nel monologo spietato che elimina uno dopo l’altro i rivali “. Bene, non abbiamo tempo e non è nostro proposito presentare qui i principi topici dell’opera di Deleuze e Guattari. Vorrei però mettere in risalto alcuni punti che mi sembrano fondamentali per giustificare alcune considerazioni sull’esercizio dell’insegnamento della filosofia come attività con i concetti, ed anche di creazione di concetti. Il primo di questi aspetti riguarda la critica alle forme che normalmente le lezioni di filosofia assumono nelle nostre scuole. Non sono poche le metodologie di insegnamento della filosofia che, richiamandosi a Socrate e alla maiueutica, difendono e definiscono le lezioni di filosofie come lezioni fondate sul dialogo. In questo dialogo, ciascuno espone la sua opinione e cerca di ottenere consenso sulle tesi in discussione. Ma, se torniamo alla figura classica di Socrate, come colui che fa nascere la verità che è di fatto già dentro ciascuno, le lezioni di filosofia produrranno esperienze nelle quali si confrontano le differenti opinioni, fino a passare attraverso queste ai concetti? O si rimarrà soltanto al livello della confronto di opinioni? In questo caso la lezione non avrà nulla di filosofico, perché anche Socrate e Platone cercavano di passare dalla “doxa” (opinione) all’ “episteme” (scienza). D’altra parte, come abbiamo visto nel brano prima citato, Deleuze e Guattari osano porre in questione la figura “immacolata” di Socrate: non sarà, al contrario, un abile e astuto retore, che riesce a sconfiggere qualsiasi avversario nel dialogo, trasformandolo in un monologo? Se intendiamo Socrate in questo modo, che cosa resterà della lezione di filosofia come dialogo? Ecco un altro problema in relazione al concepire la lezione di filosofia come basata sulla metodologia del dialogo: su che cosa si deve dialogare? O, detto in altro modo: quale deve essere il contenuto del dialogo? Qualsiasi tema va bene, quel che importa è la forma, o vi sono temi che possono essere trattati filosoficamente ed altri che non possono esserlo? O, ancora, abbiamo qui la necessità intrinseca di coniugare forma e contenuto? Conosco molti professori che si accontentano, nelle loro lezioni di filosofia, di promuovere dibattiti e discussioni. Si parte dal principio che l’uso della metodologia del dibattito, del dialogo, o qualsiasi sia il termine che vogliamo usare, è sufficiente a far sì che la lezione “diventi filosofica”… Ma in una lezione come questa gli allievi “producono” qualcosa? E il professore stesso “produce”? In una lezione come questa è garantita l’attività con i concetti? Saranno prodotti concetti, o almeno gli allievi avranno accesso ai concetti, nel senso in cui Deleuze usa questo termine? Ho seri dubbi al riguardo. Un’altra forma che le lezioni di filosofia assumono è quella della contemplazione, e qui assistiamo alla completa negazione della filosofia come attività creatrice, perché la contemplazione, almeno a questo livello didattico-filosofico, porta quasi invariabilmente a una stasi, a una paralisi. In questo modello gli allievi sono spinti a contemplare determinate questioni così come sono concepite dai filosofi, e da questo trarre alcune conclusioni. Queste questioni da contemplare possono essere presentate in forma storica o problematica, ma in entrambi i casi non c’è da sperare in un’attività più produttiva. Infine, abbiamo la lezione di filosofia come lezione di riflessione, con la possibilità di una presentazione più tematica o più storica – o anche con un misto di entrambe le prospettive -, che ha l’obiettivo di indirizzare gli allievi verso una attività di riflessione su questi temi o problemi. Non vorrei riprendere le critiche che abbiamo già visto alla filosofia come riflessione, ripeterò soltanto che nella prospettiva deleuziana nessuna riflessione è, solo per questo, filosofica e, quindi, non sarà per il fatto di esercitare la riflessione in classe che avremo una lezione di filosofia. In questo modo a me sembra che la cosa più importante per le lezioni di filosofia sia intendere la filosofia come una attività, il che ci riporta al classico dibattito tra Kant ed Hegel: insegnare filosofia (cioè un contenuto) a il filosofare (cioè un metodo)? Intendere la filosofia come attività ci colloca in una dimensione in cui il processo non si separa dal prodotto. Quindi concepire la lezione di filosofia come un dialogo o un dibattito o anche come riflessione (in ogni caso come metodo) non garantisce la sua specificità, la sua identità filosofica. Manca qualcosa. Manca quello che Deleuze e Guattari identificano come il concetto , che è metodo e prodotto allo stesso tempo. Bene, se stiamo lavorando adesso sulla proposta di Deleuze e Guattari di concepire la filosofia come attività di creazione concettuale e quindi che le lezioni di filosofia nell’insegnamento medio siano centrate sul concetto, va chiarito che cosa è il concetto. In primo luogo, vale la pena ripetere che per questi autori soltanto la filosofia produce concetti. La scienza non opera con concetti, ma con quelli che loro chiamano “prospetti”, percezioni del reale espresse in proposizioni o funzioni; l’arte, da parte sua, lavora con “percetti” e “affetti” espressi in opere (siano esse plastiche, letterarie, musicali, e così via). Non ha quindi senso parlare di “concetti artistici” o di “concetti scientifici”, nella stessa misura in cui l’espressione “concetto filosofico” sarebbe una ridondanza. Poiché mantiene una relazione intrinseca con queste tre forme di esperienza del mondo e produrre sapere, ciascuna secondo le sue proprie caratteristiche, la filosofia assorbe qualcosa dalle arti e dalle scienze per produrre concetti, e può produrre concetti per esse. Ma la produzione di concetti è una attività filosofica e i concetti sono sempre oggetto della filosofia.
” Di fatto, o la filosofia ignora tutto del concetto oppure lo conosce a pieno titolo e di prima mano, al punto da non lasciarne nulla alla scienza, che non ne ha d’altronde alcun bisogno e che si occupa solo degli stati delle cose e delle loro condizioni. Le proposizioni o funzioni bastano alla scienza, mentre la filosofia non ha bisogno, dal canto suo, di invocare un vissuto che potrebbe dare solo una vita fantomatica ed estrinseca a concetti secondari di per sé esangui “.
Tenendo quindi come premessa che il concetto è frutto della filosofia, Deleuze e Guattari lo presentano come un modo per esprimere il mondo, l’ evento . Il proprio concetto si fa evento, o dà importanza, rilievo ad un determinato aspetto del reale. Il concetto appare allora come il modo proprio della filosofia per costruire la comprensione del reale, al contrario della scienza, che cerca di trovare nel reale le funzioni che permettono di comprenderlo. Ogni concetto è particolare e personale: ciascun filosofo, in quanto singolarità, crea i suoi propri concetti nella loro relazione col mondo e, con questo, crea il suo proprio stile: un modo particolare di pensare e di scrivere. I concetti sono creati a partire da problemi, collocati su un piano di immanenza . Questo piano è proprio solo dei concetti e pertanto della filosofia, ed è definito dal filosofo avendo come elementi: il tempo e il luogo in cui vive, le sue letture, le sue affinità e le sue idiosincrasie. E’ su questo piano che nascono i problemi e sono questi problemi a muovere la produzione concettuale. Ciascun filosofo o traccia il proprio piano oppure sceglie di operare su di un piano già tracciato; è per questo che è possibile parlare, per esempio, di platonismo, una volta che altri filosofi scelgano di abitare il piano dell’immanenza tracciato da Platone, e produrre concetti “platonici”, sulla scia della produzione del maestro. Molte volte assistiamo ad una vera e propria “appropriazione” di concetti. Ma prendere per sé il concetto di un altro filosofo significa dargli un nuovo senso, significa de-territorializzarlo e ri-territorializzarlo. Quindi il “furto” di un concetto è tutt’altra cosa dal plagio, perché finisce con l’essere un atto creativo: rubare un concetto, estrapolandolo dal suo contesto, significa trasformarlo, ricrearlo. E presentare il mondo attraverso dei concetti è, come abbiamo detto prima, una maniera di firmarlo. E’ per questo che possiamo parlare di un universo newtoniano, di un mondo cartesiano, platonico o kantiano, solo per citare alcuni esempi. La filosofia intesa come produzione concettuale non ha, perciò, minori pretese di universalità e di unità: ciascun filosofo definisce il proprio mondo; i suoi concetti sono strumenti che utilizziamo o meno, a seconda che siano o non siano interessante per nostri problemi. O, per usare un’altra metafora a cui sono molto affezionato, le differenti filosofie appaiono come diversi occhiali che ci mostrano differenti volti del mondo. E, chiaramente, non si tratta qui di far sì che le diverse filosofie si pongano l’una contro l’altra sperando che una trionfi sull’altra, ma di concepire la possibilità che convivano – tranquillamente o meno – tra loro. La prima sfida è intendere la filosofia – così come la scienza e l’arte – come una lotta contro l’opinione. Deleuze e Guattari dicono che siamo immersi nella opinione, che si presenta come l’unica forma per vincere il caos, che ci spaventa, ci angustia, fa sì che il nostro pensiero fugga da se stesso, le nostre idee si perdano nel vuoto. Ma l’opinione non vince affatto il caos, ma fugge da esso, come se questa fuga fosse possibile. E così l’opinione si consolida, nel gioco dell’oblio del caos, come se vivessimo tutti felici di non sapere – o non voler sapere – della sua esistenza, una volta costruito un mondo perfetto, in cui tutto è al proprio posto. Da qui l’importanza che hanno acquisito nella nostra società, ai più vari livelli, quelli che chiamiamo “opinionisti”; sono loro gli artefici di questa droga che si estende tanto quanto il buon senso (ci sia permesso questo gioco di parole con Cartesio…) e ci imprigiona sotto questo giogo. Ma questo significa vivere di apparenze, come denunciava Platone già quasi millecinquecento anni fa. Deleuze e Guattari reagiscono a questo conformismo, intendendo la filosofia, l’arte e la scienza come movimenti diversi compiuti per squarciare il caos, attraversarlo e imparare a convivere con esso, rigettando l’opinione generalizzante, che paralizza la creatività. Scrivono:
” Ma l’arte, la scienza, la filosofia esigono di più: esse costituiscono dei piani sul caos. Queste tre discipline non sono come le religioni che invocano delle dinastie di dèi o l’epifania di un solo dio per dipingere sull’ombrello un firmamento, come le figure di una Urdoxa da cui deriverebbero le nostre opinioni. La filosofia, la scienza e l’arte vogliono che noi strappiamo il firmamento e ci addentiamo nel caos “.
Andare nel mondo dei morti e tornare indietro, con nuovi elementi creativi: è questo che può offrirci la filosofia, come l’arte e la scienza. Nelle nostre lezioni di filosofia, quindi, dobbiamo far visita al mondo dei morti, dobbiamo far esercizio della immersione nel caos, per trovare in esso nuove potenzialità. Dobbiamo, infine, esercitarci a rifiutare le opinioni. La seconda sfida è quello del dialogo della filosofia con gli altri saperi, dialogo che ha anch’esso bisogno di essere produttivo. Credo che la strada giusta sia la trasversalità. A me sembra che i curricoli scolastici e accademici debbano sempre più abbandonare la prospettiva disciplinare, che è in crisi come modello di produzione/socializzazione dei saperi, e andare nella direzione di curricoli non disciplinari. Esercitando la creazione concettuale come adattamento, mi approprio del concetto di trasversalità, caro alla filosofia francese contemporanea, soprattutto a Foucault e a Deleuze, per proporre un curricolo in cui il movimento tra i saperi nella loro produzione/socializzazione/assimilazione avvenga in modo trasversale. Mi sembra importante sottolineare qui che il concetto di trasversalità, creato da Guattari più o meno alla metà degli anni sessanta (15), implica una impostazione rigorosamente non gerarchica. Poiché si trattava di ricercare una prospettiva sociale e libertaria di terapia che potesse contrapporsi all’impostazione borghese della psicoanalisi Guattari ha confrontato il concetto di trasversalità con quello di transfert , fondamentale in psicoanalisi. In quest’ultima, la relazione tra l’analista e il paziente è estremamente gerarchizzata; nella prospettiva di Guattari, la trasversalità rende possibile la strutturazione non gerarchica delle relazioni tra i pazienti e di questi con l’analista, creando un gruppo terapeutico in cui tutti sono egualmente importanti. E’ necessario sottolineare che questa nozione di trasversalità non si avvicina in nulla a quelli che i documenti più recenti di politica educativa chiamano “temi trasversali”, che null’altro sono se non modi per tradurre in pratica l’interdisciplinarietà, che a dire il vero non rompe con il curricolo disciplinare. Così, questi temi trasversali mantengono e rafforzano la gerarchia dei curricoli mentre la loro visione trasversale romperebbe questa gerarchizzazione, consentendo l’emergere di nuovi saperi e nuove pratiche. Nella prospettiva della trasversalità, la filosofia nell’insegnamento medio deve attraversale … aree di conoscenza e deve anche essere attraversata da esse, in modo da rendere possibile una prospettiva della complessità dei saperi e da alimentare in modo critico e creativo il processo di produzione dei concetti. La terza sfida è questa, che la questione dell’insegnamento della filosofia sia trattata filosoficamente; Deleuze e Guattari parlano di una “pedagogia del concetto”. Dobbiamo apprendere a lavorare con i concetti, dobbiamo essere apprendisti e artigiani nel lavoro filosofico. Nell’opera di cui abbiamo fin qui trattato, affermano che
” Se le tre età del concetto sono l’enciclopedia, la pedagogia e la formazione professionale commerciale, solo la seconda può impedirci di cadere dalle vette della prima nel disastro assoluto della terza, disastro assoluto per il pensiero, qualsiasi siano, beninteso, i benefici sociali dal punto di vista del capitalismo universale “.
Ora, è per noi, professori di filosofia, che l’insegnamento del sapere filosofico è questione vitale, siamo noi nella posizione privilegiata per garantire questa pedagogia del concetto .
A cura di Marco Baldino
LA CRITICA A WOLFSON
In “Louis Wolfson o il procedimento”, in “Critica e clinica”, Deleuze discute il testo di Louis Wolfson, “Le schizo et le langues” [1970]. Wolfson stesso è schizofrenico. Tema del saggio: il “procedimento” messo in atto da Wolfson per governare la propria esperienza. Il saggio è utile occasione per ricordare analoghi tentativi: Roussel, Brisset, Artaud. Deleuze critica la psicanalisi, ma non si tratta di una critica di prammatica. La psicanalisi – egli dice – ha un solo torto, quello di ricondurre le avventure della psicosi all’eterno ritornello del papà-mamma, cioè alla questione edipica. In realtà – sostiene Deleuze – lo schizofrenico, in quanto tale, pensa e agisce non all’interno di categorie familiari, ma all’interno di categorie mondiali, addirittura cosmiche. Secondo Deleuze il giovane Wolfson potrebbe accettare benissimo i suoi padre-e-madre così come sono, modificare alcune delle sue conclusioni svalutative nei loro confronti e magari ritornare alla lingua materna (che egli, con l’invenzione del procedimento, vuole in verità uccidere), quello che la psicanalisi non vede è il fatto è che Wolfson è malato non del suo padre-e-madre, ma del mondo. Tutta la questione del “procedimento” sembra a prima vista girare proprio intorno alla figura della madre e del padre di Wolfson: la resistenza nei confronti di tutto ciò che è metaforicamente riconducibile alla madre (la lingua madre, il cibo, la malattia di sua madre [il cancro]), l’esaltazione di tutto ciò che rinvia metaforicamente al padre (il sapere, le catene di atomi, le lingue straniere, [è questo che la psicanalisi insegna a vedere, è con queste categorie che insegna ad approcciare la psicosi]), ma non è così. Ciò che lo studente di lingue schizofrenico chiama “madre” è in realtà un’organizzazione di parole che gli è stata messa nelle orecchie: 1) “non è la mia lingua ad essere materna: è la madre che è una lingua”; 2) “non è il mio organismo che deriva dalla madre: è la madre che è una collezione di organi, a collezione dei miei organi”. Ciò che Wolfson chiama “Madre” è in realtà la “Vita”, ciò che chiama “padre” l’estraneità, ossia tutte le parole che non conosce, tutti gli atomi che continuano a entrare e uscire dal corpo: “non è il padre che parla le lingue straniere e conosce gli atomi, sono le lingue straniere e le combinazioni atomiche a essere mio padre”; il padre è il popolo dei miei atomi e l’insieme delle mie glossolalie – insomma il sapere. Tra il sapere e la vita vi è una lotta irriducibile. Il problema dello studente di lingue schizofrenico non è quindi un problema legato a questioni familiari (come liberarsi della madre malata, come assomigliare al padre assente), ma un problema metafisico: come giustificare la vita che è sofferenza e grido, come giustificare la vita che è “cattiva materia malata”. In un primo momento Wolfosn sembra optare per la seguente soluzione: la sola giustificazione della vita è il sapere, il quale è di per sé il Bello e il Vero . Ma un giorno incontra la “rivelazione”: la vita è assolutamente ingiustificabile, e allora la vita e il sapere non si contrappongono più, anzi, non si distinguono neanche più . Ecco allora il senso del procedimento: tutte la parole raccontano una storia di vita e di sapere; questa storia è ciò che c’è di impossibile nel linguaggio, il suo fuori. Questa storia è resa possibile solo da un procedimento che testimoni la follia . Il limite del procedimento di Wolfson è però che esso spinge sì il linguaggio al limite, ma non lo oltrepassa . Il problema è invece attraversare da vincitore le regioni della “sragione” , “affrontare dall’altro lato del limite [del linguaggio] le figure di una vita sconosciuta e di un sapere esoterico” . Secondo Deleuze questa navigazione pericolosa è riuscita a Roussel, a Brisset e Artaud, ma non a Wolfson, anche se Wolfson ha messo a nudo la trama del procedimento. Il libro di Wolfson – scrive Deleuze – non è un’opera scientifica. Un metodo scientifico implica infatti la determinazione di una totalità formalmente legittima, mentre è del tutto evidente che la totalità di riferimento di Wolfson (l’insieme indefinito di tutto quanto non è la “lingua madre”) è una totalità illegittima (mancano del tutto le regole sintattiche che facciano corrispondere i sensi a suoni e ordini le trasformazioni dell’insieme di partenza). Wolfson vive perciò il proprio pensiero come il duplice simulacro di un sistema poetico-artistico e di un metodo logico-scientifico.
Riassumendo:
Le caratteristiche fondamentali di tale “procedimento” sono le seguenti:
1) ad esso non corrisponde alcun metodo scientifico;
2) tale procedimento manca infatti del necessario riferimento ad una totalità formalmente legittima data;
3) non possiede regole in base alle quali ordinare le trasformazioni dell’insieme di partenza;
4) nello stesso tempo simula l’andamento di un sisitema poetico-artistico e, insieme, e contraddittoriamente, quello di un metodo logico-scientifico. Il procedimento di Wolfson è tuttavia un modo per governare un’esperienza che si presenta a tutta prima ingovernabile, e quindi, in un certo senso, esso è una sorta di Perí Physeos, una sorta di ontologia sorgiva. Il procedimento di Wolfson non consente di esplorare le regioni del fuori per tornarne vittoriosi, Wolfson non è Roussel, Brisset, Artaud, esso è piuttosto la registrazione sismografica del travaso delle forze del fuori nella grande regione del dentro, del venir meno della stessa frontiera dentro/fuori. Quello di Wolfosn non è tanto un problema di trasgressione, quanto un problema di implosione. Questa “implosione” produce una sospensione confusiva del pensiero e del non-pensiero, tanto da modificare, irreversibilmente, lo statuto stesso del filosofico. Si tratta della desintetizzazione dell’Occidente: la desintetitazzione è ciò che consuma tutte le totalità legittime e, insieme, i procedimenti eroici di esplorazione del fuori: non c’è più un vero e proprio fuori, o c’è sempre meno, e quindi non c’è più nemmeno un vero e proprio dentro.
PASSI TRATTI DALLE OPERE
La Società del controllo
I. Storia
Foucault ha collocato le società disciplinari tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo; giungono al loro apogeo all’inizio del Ventesimo. Procedono all’organizzazione di grandi ambienti di reclusione. L’individuo non cessa di passare da un ambiente chiuso all’altro, ciascuno dotato di proprie leggi: dapprima la famiglia, poi la scuola («non sei più in famiglia»), poi la caserma («non sei più a scuola»), poi la fabbrica, ogni tanto l’ospedale, eventualmente la prigione che è l’ambiente di reclusione per eccellenza. È il carcere che serve da modello analogico: la protagonista di Europe 51 può esclamare quando vede degli operai «ho creduto di vedere dei condannati…». Foucault ha analizzato molto bene il progetto ideale dell’ambiente di reclusione, particolarmente visibile nella fabbrica: concentrare; suddividere nello spazio; ordinare nel tempo; comporre nello spazio-tempo una forza produttiva il cui risultato deve essere superiore alla somma delle forze elementari. Ma ciò che Foucault conosceva era anche la brevità di questo modello: seguiva le società di sovranità, il cui obbiettivo e funzioni erano tutt’altre (prelevare piuttosto che organizzare la produzione, decidere della morte piuttosto che gestire la vita); la transizione si è data progressivamente e sembra che Napoleone abbia operato la grande conversione da una società all’altra. Ma le discipline conosceranno a loro volta la crisi a vantaggio di nuove forze che si metteranno lentamente al loro posto, precipitando dopo la Seconda guerra mondiale: le società disciplinari sono già qualcosa che non siamo più, qualcosa che cessiamo di essere. Ci troviamo in una crisi generalizzata di tutti gli ambienti di reclusione, prigione, ospedale, fabbrica, scuola e famiglia. La famiglia è un “interno” in crisi come tutti gli altri interni, scolastici, professionali ecc. I ministri competenti non smettono di annunciare delle riforme ritenute necessarie. Riformare la scuola, riformare l’industria, l’ospedale, l’esercito, il carcere: ma ciascuno sa che queste istituzioni sono finite, a scadenza più o meno lunga. Si tratta soltanto di gestire la loro agonia e di tenere occupata la gente fino all’installazione di nuove forze che premono alle porte. Queste sono le società del controllo che stanno per sostituire le società disciplinari. “Controllo” è il nome che Burroughs ha proposto per designare questo nuovo mostro e che Foucault riconosce come nostro prossimo avvenire. Anche Paul Virilio non smette di analizzare le forme ultrarapide di controllo all’aria aperta, che rimpiazzano le vecchie discipline operanti nella durata di un sistema chiuso. Non è il caso di ricordare le straordinarie produzioni farmaceutiche, le formazioni nucleari, le manipolazioni genetiche, per quanto siano destinate ad intervenire nel nuovo processo. Non è il caso di chiedersi quale sia il regime più duro o il più tollerabile, perché è in ciascuno di essi che si scontrano liberazioni ed asservimenti. Per esempio, nella crisi dell’ospedale come ambiente di reclusione, la settorializzazione, il day-hospital, l’assistenza domiciliare possono sia segnare nuove libertà, ma anche prender parte a meccanismi di controllo che possono competere con le forme più dure di reclusione. Non è il caso né di piangere né di sperare, si tratta piuttosto di cercare nuove armi.
II. Logica
I differenti “internati” o ambienti di reclusione attraverso i quali l’individuo passa sono delle variabili indipendenti: ogni volta si presume di ricominciare da zero, ed un linguaggio comune a tutti questi ambienti esiste, ma è analogico. Tanto che i differenti “controllati” sono delle variazioni inseparabili, che formano un sistema a geometria variabile il cui linguaggio è digitale (il che non vuol dire necessariamente binario). Le reclusioni sono modelli-stampi, delle distinte modellature, mentre i controlli sono una modulazione, come una modellatura auto-deformante, che si modifica continuamente, da un istante all’altro, o come un setaccio le cui maglie cambiano da un punto all’altro. Lo si vede bene sulla questione dei salari: la fabbrica era un corpo che portava le sue forze interne ad un punto di equilibrio, il più alto possibile per la produzione, il più basso possibile per i salari; ma nella società del controllo l’impresa ha sostituito la fabbrica, e l’impresa è un’anima, un gas. Senza dubbio già la fabbrica conosceva il sistema dei premi, ma l’impresa si sforza più profondamente d’imporre una modulazione di ogni salario, in stati di perpetua metastabilità che passano attraverso sfide, concorsi e colloqui estremamente comici. Se i giochi televisivi hanno tanto successo è perché esprimono adeguatamente la situazione dell’impresa. La fabbrica costituiva gli individui in corpo, per il doppio vantaggio e del padronato che sorvegliava ogni elemento nella massa, e dei sindacati che mobilitavano una massa di resistenza; ma l’impresa non cessa di introdurre una rivalità inespiabile come sana emulazione, motivazione eccellente che oppone gli individui tra di loro ed attraversa ognuno, dividendolo in se stesso. Il principio modulatore del “salario al merito” non manca di tentare anche la stessa Educazione nazionale: in effetti come l’impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola ed il controllo continuo a prendere il posto dell’esame. Questo è il sistema più sicuro per legare la scuola all’impresa. Nelle società disciplinari non si finiva mai di ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nelle società del controllo non si è mai finito con nulla, in quanto l’impresa, la formazione, il servizio sono gli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, come di un deformatore universale. Kafka che si trovava già a cavallo dei due tipi di società, ha descritto ne Il processo le forme giuridiche più temibili: l’assoluzione apparente delle società disciplinari (tra due reclusioni), il differimento illimitato delle società del controllo (in variazione continua) sono due modi di vita giuridici molto differenti e se il nostro diritto è esitante, esso stesso in crisi, è perché stiamo abbandonando una modalità per entrare nell’altra. Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l’individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa. Le società disciplinari non hanno mai riscontrato incompatibilità tra i due, il potere è al tempo stesso massificante ed individualizzante, cioè costituisce come corpo quelli sui quali si esercita e modella l’individualità di ciascun membro del corpo (Foucault vedeva l’origine di questa doppia cura nel potere pastorale del prete – il gregge e ciascuna delle bestie – ma il potere civile ha cercato di farsi a sua volta “pastore” laico con altri mezzi). Nelle società del controllo, al contrario, l’essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è una mot de passe [parola d’ordine nel senso di pass-word, codice d’accesso, N.d.t.] mentre le società disciplinari sono regolate da mot d’ordre [parola d’ordine nel senso di slogan, N.d.t.] sia dal punto di vista dell’integrazione che della resistenza. Il linguaggio digitale del controllo è fatto di cifre che segnano l’accesso all’informazione, o il rifiuto. Non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo. Gli individui sono diventati dei “dividuali”, e le masse dei campioni statistici, dei dati, dei mercati o delle “banche”. È forse il denaro che meglio esprime la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l’oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete. La vecchia talpa monetaria è l’animale degli ambienti di reclusione, mentre il serpente è quello delle società del controllo. Siamo passati da un animale all’altro, dalla talpa al serpente, nel regime in cui viviamo, ma anche nel nostro modo di vivere e nei nostri rapporti con l’altro. l’uomo delle discipline era un produttore discontinuo di energia, mentre l’uomo del controllo è piuttosto ondulatorio, messo in orbita su un fascio continuo. Perciò il surf ha già rimpiazzato i vecchi sport. È facile far corrispondere a ciascuna società dei tipi di macchine, non perché le macchine siano determinanti, ma perché esprimono le forme sociali in grado di dar loro vita e di servirsene. Le vecchie società di sovranità maneggiavano delle macchine semplici, leve, pulegge, orologi; mentre le più recenti società disciplinari avevano per equipaggiamento delle macchine energetiche, con il rischio passivo dell’entropia e il pericolo attivo del sabotaggio; le società del controllo operano per macchine di terzo tipo, macchine informatiche e computer, il cui pericolo passivo è l’annebbiamento e quello attivo il pirataggio e l’introduzione di virus. Non si tratta di una evoluzione tecnologica senza che sia più profondamente una mutazione del capitalismo. È una trasformazione già ben conosciuta che si può così riassumere: il capitalismo del XIX secolo è a concetrazione, per la produzione e di proprietà. Ha dunque eretto la fabbrica come luogo di reclusione, essendo il capitalista proprietario dei mezzi di produzione, ma anche, eventualmente, di altri ambienti concepiti per analogia (la casa familiare dell’operaio, la scuola). Quanto al mercato, esso veniva conquistato tanto per specializzazione quanto per colonizzazione, quanto per abbassamento dei costi di produzione. Ma, nella situazione attuale, il capitalismo non è più per la produzione, che viene spesso relegata alle periferie del terzo mondo, anche sotto le forme complesse del settore tessile, metallurgico e petrolchimico. È un capitalismo di superproduzione. Non acquista più materie prime rivendendo prodotti finiti: acquista invece prodotti finiti o assembla pezzi staccati. Ciò che vuol vendere sono dei servizi, ciò che vuole acquistare sono azioni. Non è più un capitalismo per la produzione, ma per il prodotto, cioè per la vendita e per il mercato. Esso è anche essenzialmente diffuso e la fabbrica ha ceduto il posto all’impresa. La famiglia, la scuola, l’esercito, la fabbrica non sono più ambienti analogici distinti che convergono verso un proprietario, Stato o potere privato, ma le figure cifrate, deformabili e trasformabili, di una stessa impresa che non ha nient’altro che gestori. Anche l’arte ha lasciato gli ambienti chiusi per entrare nei circuiti aperti delle banche. Le conquiste di mercato si fanno per presa di controllo e non più per formazione di disciplina, per fissazione dei corsi piuttosto che per abbassamento dei costi, per trasformazione del prodotto più che per specializzazione della produzione. La corruzione guadagna qui una nuova potenza. Il servizio vendite è diventato il centro e l'”anima” dell’impresa. Apprendiamo che le imprese hanno un’anima ed è la più terrificante notizia del mondo. Il marketing è ora lo strumento del controllo sociale e forma la razza impudente dei nostri maestri. Il controllo è a breve termine e a rotazione rapida, ma anche continuo ed illimitato, come la disciplina era di lunga durata, infinita e discontinua. l’uomo non è più l’uomo recluso, ma l’uomo indebitato. È vero che il capitalismo ha mantenuto come sua costante l’estrema miseria di tre quarti dell’umanità, troppo povera per il debito, troppo numerosa per la reclusione: il controllo ora non dovrà solamente affrontare la sparizione delle frontiere ma le esplosioni delle bidonville e dei ghetti.
III. Programma
Non c’è bisogno della fantascienza per concepire un meccanismo di controllo che dia in ogni momento la posizione di un elemento in ambiente aperto, animale in una riserva, uomo in una impresa (collare elettronico). Félix Guattari immagina una città in cui ciascuno può lasciare il suo appartamento, la sua strada, il suo quartiere grazie alla sua carta elettronica (dividuale) che faccia alzare questa o quella barriera, e allo stesso modo la carta può essere respinta quel giorno o entro la tal ora; ciò che conta non è la barriera ma il computer che ritrova la posizione di ciascuno, lecita o illecita, ed opera una modulazione universale. Lo studio socio-tecnico dei meccanismi del controllo, visti nel momento della loro nascita, dovrà essere categoriale e descrivere ciò che è già in procinto di installarsi al posto degli ambienti di reclusione disciplinare, di cui tutto annuncia la crisi. Può darsi che vecchi mezzi improntati alle antiche società di sovranità, riappaiano sulla scena, ma con gli adattamenti necessari. Ciò che conta è che noi siamo all’inizio di qualcosa. Nel regime delle prigioni: la ricerca di pene “sostitutive” almeno per la piccola delinquenza, l’utilizzo di collari elettronici che impongono al condannato di rimanere a casa in certe ore. Nel regime dell’istruzione: le forme di controllo continuo e l’azione di formazione permanente sulla scuola, il corrispondente abbandono di ogni ricerca all’università, l’introduzione dell'”impresa” a tutti i livelli di scolarità. Nel regime ospedaliero: la nuova medicina “senza medico né malato” che tratta malati potenziali e soggetti a rischio, non testimonia assolutamente di un progresso verso l’individuazione, come si dice, ma sostituisce ad un corpo individuale o numerico, la cifra di una materia “dividuale” da controllare. Nel regime d’impresa: i nuovi trattamenti del denaro, dei prodotti e degli uomini che non passano più per la vecchia forma-fabbrica. Sono degli esempi molto ridotti, ma che permettono di capire meglio che cosa si intenda per crisi delle istituzioni, cioè l’installazione progressiva e diffusa di un nuovo regime di dominazione. Una delle questioni più importanti riguarda l’inettitudine dei sindacati: legati in tutta la loro storia alla lotta contro le discipline o negli ambienti di reclusione, si potranno adattare o lasceranno il posto a delle nuove forme di resistenza contro le società del controllo? Si possono già cogliere delle anticipazioni di queste forme a venire, capaci di attaccare le gioie del marketing? Molti giovani pretendono, stranamente, di essere “motivati”, richiedono stage e formazione permanente; a loro toccherà scoprire ciò a cui questo li asservisce, come i loro antenati hanno scoperto non senza pena le discipline. Le spire di un serpente sono ancora più complicate dei buchi di una talpa.
Da «l’autre journal», n. 1, maggio 1990, ora in Gilles Deleuze, Pourparlers (1972-1990).
Filosofia e minorità
Minorità e maggiorità [majorité] non si oppongono solo in modo quantitativo. La maggiorità implica una costante ideale, una sorta di metro campione in base al quale essa può essere valutata, contabilizzata. Supponiamo che la costante, o campione, sia: uomo-bianco-occidentale-maschio-adulto-ragionevole-eterosessuale-metropolitano-che parla una lingua standard (l’Ulisse di Joyce o di Ezra Pound). È evidente che “l’uomo” qui è maggiore quand’anche risultasse numericamente inferiore ai bambini, alle donne, ai negri, ai contadini, agli omosessuali … ecc.. Il fatto è che egli compare qui due volte, la prima come costante, la seconda come variabile, quella stessa da cui la costante deriva. Allo stesso modo possiamo astrarre dalla costante un discorso diretto: si tratta della filosofia, ogni qual volta che questa ha creduto di parlare in nome di un’essenza dell’uomo, di una ragione pura, di un soggetto universale o di diritto . La maggiorità suppone uno stato di diritto e di dominio, non il contrario. È La maggiorità a supporre il campione, non viceversa. Vi è pertanto una determinazione diversa dalla costante che può essere considerata come minoritaria per natura quale ne sia il numero, vale a dire come un sotto sistema o un fuori-sistema (secondo i casi). Ma a questo punto tutto si capovolge. Mentre la maggiorità, nella misura in cui questa è analiticamente compresa nel campione, è sempre Nessuno – Ulisse -, la minorità è il divenire di tutti, il divenire potenziale di questi tutti, a misura di quanto vi sia in ciascuno di deviazione dal modello. Un briciolo di bellezza, un’escrescenza o un vuoto possono bastare, sono degli innesti di divenire. C’è un “fatto” maggioritario, ma è il fatto analitico di Nessuno, che si oppone al divenire minoritario di tutti. È per questo motivo che dobbiamo distinguere la maggiorità come sistema omogeneo e costante, le minorità come sottosistemi, e il minoritario come divenire potenziale e creato, creativo. Il problema non è mai acquisire la maggiorità, anche quando si instaura una nuova costante. Non c’è un divenire maggioritario, la maggiorità non è mai un divenire. Non c’è divenire se non minoritario. Le Donne, quale che sia il loro numero, sono una minoranza definibile come stato o sotto-insieme; ma esse non creano se non rendendo possibile un divenire, di cui non sono proprietarie, nel quale devono però rientrare; si tratta di un divenire-donna che concerne l’uomo tutto intero, compresi i non-donna. Lo stesso per i Negri: se i Negri debbono loro stessi divenire-negri, questo divenire tocca anche i non-negri . C’è un romanzo molto bello di Arthur Miller, Focus, che descrive il divenire-ebreo di un non-ebreo (e lo stesso vale per il film M. Klein, di Losey). È la stessa cosa per le cosiddette lingue minori: non si tratta semplicemente di sotto-lingue, idioletti o dialetti, ma di agenti potenziali per far entrare la lingua maggiore in un divenire minoritario di tutte le sue dimensioni, di tutti i suoi elementi (si veda ad esempio il Black-English). È necessario quindi distinguere le lingue minori, la lingua maggiore e il divenire-minore della lingua maggiore. È per questo motivo che Pasolini sosteneva che l’essenziale, nel “discorso libero indiretto”, non si trovava né in una lingua A né in una lingua B, ma «in una lingua X che non è altro che la lingua A in procinto di divenire realmente una lingua B». In breve: c’è una figura universale possibile della coscienza minoritaria, questa figura è il divenire di tutti, e questo divenire è creativo. Nel fissare la figura di una coscienza universale minoritaria ci si afferra a potenze di divenire che appartengono ad un altra dimensione, diversa da quella del Diritto e del Dominio. Sarebbe questo il compito della filosofia, in opposizione alle sue pretensioni maggioritarie astratte di ogni tempo. La filosofia sarebbe cioè attraversata da tutti questi divenire e in connessione con essi. I suoi discorsi sarebbero i discorsi liberi indiretti (anche nel linguaggio si è data troppa importanza alle figure retoriche, alle metafore, alle metonimie … ecc., mentre t utte le funzioni di linguaggio si districano altrimenti, nelle forme del discorso indiretto: un solo rumore, un solo linguaggio per tutti i popoli).
JACQUES DERRIDA
“La filosofia può essere considerata come una cartolina postale che è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione ma che in realtà non lo fa. La filosofia che raggiunge la destinazione e che si distrugge in quest’ ultima cessa di essere filosofia vera” (“La carte postale”).
VITA E OPERE
Jacques Derrida è legato a un movimento filosofico, sviluppatosi soprattutto a partire dagli anni Settanta, noto come “decostruzionismo”. Derrida è nato a El Biar, in Algeria, il 15 luglio 1930, da una famiglia di origine ebrea. “Maitre assistant” all’Ecole Normale di Parigi, e poi dal 1984 direttore di studi ali Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Derrida ha sempre alternato la sua attività m Francia a periodi di insegnamento negli Stati Uniti, alla Johns Hopkins Umversity, a Yale (dove è nata un’importante scuola decostruzionista), alla Cornell University e a Irvine. Nel 1983 viene eletto direttore del College International de Philosophie. Muore a Parigi il 9 ottobre del 2004, a causa di un tumore. Tra le opere più importanti di Derrida ricordiamo: “Introduzione a ‘L’origine della geometria’ di Husserl” (1962), “La scrittura e la differenza” (1967), “Della grammatologia” (1967), “La voce e il fenomeno” (1967), “Margini della filosofìa” (1972), “La disseminazione”(1972), “Posizioni” (1972), “Glas” (1974), “La verità in pittura” (1978), “La carte postale. De Socrate à Freud et au delà” (1980), “Parages” (1986), “Psyché. Inventions de l’autre” (1987) “Limited Inc.” (1988), “Dello spirito” (1988), “Donare il tempo. La moneta falsa” (1991) “Spettri di Marx” (1993), “Politiche dell’amicizia” (1994), “Addio a Emmanuel Lévinas” (1997). Un rilievo particolare va fatto sulla “scrittura” di Derrida, poiché essa è essenziale per il suo discorso filosofico. La produzione di questo pensatore (si calcola che sino a oggi consti di circa 70 libri e di uno sterminato numero di saggi, per la maggior parte tradotti m moltissime lingue) è quanto mai varia e veramente inusuale per un filosofo, spaziando m campi estremamente eterogenei e misurandosi allo stesso modo con testi filosofici e letterari (Hegel, Husserl, Heidegger, Nietzsche, Mallarmé, Blanchot, Baudelaire Celan ecc). Ancor più sorprendente è il carattere specificamente testuale di tali scritti, cioè la loro strutturazione e la loro “materialità”. Derrida stesso, riferendosi ai rapporti di reciproco rimando intercorrente tra i suoi testi, parla di ” strana geometria ” o di “labirinto” (in “Posizioni”). Il loro carattere innovativo sfiora lo sperimentalismo in testi come “Envois”, il cui carattere epistolare è indissociabile dal “contenuto”, o “Tympan” (in “Margini della filosofia”) e “Glas”, la cui struttura interna non si presta ad una lettura tradizionale: essi si presentano infatti come un innesto di brani che generano un testo ibrido, “mostruoso”, al punto che non si sa più qual è il testo principale e quale il commento o la nota. Una tale strutturazione interna ha lo scopo di mettere in discussione quella ” linearità del significante ” che costituisce uno degli assiomi principali dello strutturalismo e che risulta strettamente connessa alla scrittura alfabetica e alla concezione occidentale del tempo come successione di istanti-presenti. Derrida è anzi uno dei filosofi più attenti a forme di comunicazione multimediale, che coniugano cioè diversi mezzi espressivi e comunicativi (parola, immagine, accorgimenti tipografici), che si svolgono su più livelli e che sono inseparabili dal medium stesso. Una tale attenzione a cornei testi sono fatti è nel decostruzionismo un fatto fondamentale: esso incrina quella priorità dell’intelligibile sul sensibile che tradizionalmente si è espressa come secondarietà o addirittura inessenzialità dello scritturale e del materiale. Più che un certo voler-dire (senso, significato o contenuto) è infatti il come i testi funzionano e sono fatti il tema principale della decostruzione. Così, in La farmacia di Platone, egli mette in luce la contraddizione insita nello stesso pensiero di Platone: questi, infatti, da un lato condanna la scrittura, ma dall’altro lato definisce il pensiero come una forma di scrittura nell’anima.
” Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola…lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto. “
BREVE INTRODUZIONE A DERRIDA
Jacques Derrida, nato a El Biar (Algeri) nel 1930, ha studiato alla Ecole Normale Supérieure di Parigi sotto la guida di J. Hyppolite e di M. de Gaudillac. Dal 1983 è direttore di studi alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Dopo una serie di studi su Husserl, ha pubblicato nel 1967 “Della grammatologia”, “La scrittura e la differenza” e “La voce e il fenomeno”; del 1972 sono “La disseminazione” e “Margini della filosofia”. Successivamente sono tra l’altro comparsi “La cartolina postale” (1980) e “Psyche.Invenzioni dell’altro” (1987). E’ certamente uno dei filosofi più interessanti del nostro secolo: con Heidegger, Husserl e Lacan, ha contribuito ad una completa rivisitazione dei concetti e delle categorie proprie della filosofia classica occidentale. Alle sue opere, più recentemente, si sono ispirati o in qualche modo possono considerarsi vicini, quei pensatori particolarmente interessati al rapporto fra telematica e precarietà del soggetto. Abbagnano ha scritto che ” al centro del progetto filosofico di Derrida troviamo l’idea di una decostruzione della metafisica della presenza che ha caratterizzato la tradizione filosofica occidentale “. Secondo Derrida, infatti, il carattere fondamentale della filosofia occidentale è il logocentrismo o fonocentrismo , fondato sulla metafisica della presenza, nel senso indicato dall’ultimo Heidegger. A questa tesi, tuttavia, Derrida arriva partendo dall’analisi del rapporto fra la parola o logos, inteso come voce, e la scrittura, anche alla luce del mito raccontato nel “Fedro” di Platone. A suo avviso, nella tradizione occidentale la voce gode di un primato in virtù del fatto che essa è percepita e vissuta come qualcosa di presente e di immediatamente evidente: nella parola parlata è sempre immanente il logos. La scrittura, invece, è caratterizzata dall’assenza totale del soggetto, che l’ha prodotta: il testo scritto gode ormai di vita propria. Compito della grammatologia , dove “gramma” è assunto nel senso originario di lettera scritta dell’alfabeto, è di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello della scrittura, non dal logos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e rendendolo disponibile al di là del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilità e leggibilità illimitata. Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la différance , un termine da lui coniato che include i due significati cristallizzati nel verbo “differire”. In un primo senso, esso implica che il segno è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, che tra il testo e l’essere a cui esso rinvia c’è sempre una differenza, uno scarto che non può mai essere definitivamente colmato, ma lascia sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicità delle letture e delle interpretazioni. Ma, in un secondo senso, “differire” significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere una distanza tra noi e la cosa o parola assente nel testo: ciò vuol dire uscire dal primato della presenza, che caratterizza il logocentrismo. La “différance” equivale ad un accadere indipendente dai soggetti che parlano e che ascoltano, è un evento nel senso heideggeriano. Essa è agli antipodi della identità e della presenza: per questo, nei testi la verità non è originaria né unitaria né mai totalmente data, ma si trova come disseminata. E’ possibile, dal momento che inevitabilmente siamo entro il linguaggio costruito dalla ragione, andare oltre il logocentrismo e la metafisica della presenza? Secondo Derrida, questa strada è percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del logos che pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria, soprattutto nordamericana. Derrida non definisce né analizza articolatamente che cosa significhi decostruzione, ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica o letteraria. In generale, si può dire che la decostruzione sia la messa in opera della “différance” nella lettura dei testi, ossia l’atto di compiere il processo inverso rispetto a quello che ha portato alla costruzione del testo, smontandolo e rovesciandone le gerarchie di significato, che la metafisica della presenza tende a privilegiare, trattando le opere di filosofia come opere di letteratura e viceversa, giocando sulle opposizioni, sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su ciò che sta ai margini nel testo, in modo da sottrarsi al desiderio della definitezza. La decostruzione, più che una pratica teorizzabile e ripetibile, è qualcosa di simile all’esecuzione artistica. Attraverso la decostruzione è, secondo Derrida, possibile che si aprano varchi attraverso i quali intravedere ciò che viene dopo il compimento della nostra epoca, ossia al di là dell’epoca della metafisica. Derrida ha ripreso il pensiero di Heidegger risolvendo nello strutturalismo le sue riflessioni su due temi:
- – Il rapporto tra svelarsi e velarsi dell’Essere
- – Il rapporto tra destinarsi dell’Essere e linguaggio.
Lo strutturalismo linguistico ha capito che il linguaggio, il discorso è fatto dalle differenze nel loro sistema di rapporti (che ha dei contenuti ma questo fatto è secondario in quanto i contenuti sono un aspetto del sistema, l’aspetto variabile: non ci sono discorsi sulla verità): per lo strutturalismo c’è il ripetersi infinito dei linguaggi e delle differenze non una verità delle frasi. Heidegger ha capito che il linguaggio ed il discorso, soprattutto quello poetico, e la “casa” del destinarsi dell’essere all’uomo; essere che però decide se svelarsi o no nelle varie epoche. Derrida sostiene invece che tra l’Essere e il linguaggio c’è, come abbiamo visto, un rapporto di “différance” (Derrida scrive differance: la scrittura corretta del termine francese è difference: la pronuncia dei due termini è la medesima, anche se si scrivono in modo diverso). L’essere si “differanza” nel linguaggio, l’Essere si media nel linguaggio, si aliena però nel linguaggio, diventa altro da sé, si rende presente ma assente nello stesso tempo, diventa segno, diventa traccia. La verità si trasforma in traccia, si contamina, si intacca nel linguaggio che è segno, si dà nel linguaggio ma nega di essere quello che è il linguaggio stesso. Non c’è dunque nessun linguaggio privilegiato; quello poetico è equivalente a quello filosofico concettuale anche se è più vivo e meno preciso. In tutti e due i casi non si può dire che il linguaggio ti faccia “arrivare” alla verità e nemmeno che nel linguaggio ci sia il darsi delle verità e dell’essere; ci sono solo tracce della verità, c’è la “differance” dell’essere nelle tracce di sé. La verità (essere) è differantesi-differente nel-dal linguaggio. Si sa ciò che il linguaggio dice ma la verità, l’essere è il non detto del linguaggio. L’essere non si destina all’uomo nel linguaggio, ma si “differanza” nel linguaggio, e ciò di cui il linguaggio è “traccia” ; e solo traccia, traccia non è “niente” – come dice lo strutturalismo – ma non è nemmeno la cosa, l’Essere, la presenza. Ma cosa esiste allora? Esiste il parlare, il creare rapporti tra gli uomini ed il comunicare con il sistema delle comunicazioni; questo parlare però non contiene l’Essere, solo le sue tracce. La “grammatica” del testo scritto è il luogo dove “si aliena” l’Essere: non la “voce” in cui è meno evidente il “farsi differanza” dell’Essere: ma la “grafia”, il “segno scritto”, la “scrittura”, dove questo “farsi altro” è più “evidente”. Derrida usa il termine “differance” perché privilegia la scrittura sulla parola e soltanto scrivendo questa parola si riesce a capire il suo significato. La verità- l’essere non è nel “testo scritto” ma è “tra le righe”, “nell’interlinea” del testo scritto, nel “non detto” del testo scritto di cui il testo è la “traccia”. Forse, dice Derrida con un altro paragone, noi abbiamo non l’Essere, ma il suo “simulacro”, una statua dell’essere , una “parvenza” dell’essere. In questa situazione, il lavoro del filosofo è far capire che esiste questo “qualcosa” che è “fra le righe” del testo, capire che è “differance” non “Identità”, che è traccia dell’Essere e non presenza. Il compito del filosofo sarà quello allora di “decostruire” i testi, cioè smontarli, metterli in crisi, contraddirli. Chi compie quest’opera permette al lettore di capire che in esso non c’è l’essere, ma l’essere è oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue “tracce”. In questo modo il filosofo giunge, attraverso il suo lavoro di decostruzione, anche a forme di potere che stanno sotto a certi discorsi fatti passare per veri: decostruire è anche chiedersi: chi dice una cosa del genere? Da chi è fatto il discorso che stiamo leggendo? Con che scopo fa questo discorso? A chi giova questo discorso? Decostruire un discorso, “glossarlo”, “scrivere nei suoi margini” un commento che lo demolisce, farne la “parodia” è mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verità e nello stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo è per Derrida fare filosofia. In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verità è quello del ” colpo di dadi “; quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c’è l’essere (la verità): ma così facendo conferisci a quel testo un valore veritativo che esso non ha (e il filosofo ha il compito di dimostrartelo). Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello “spazio vuoto” che è in mezzo a “indecidibili” opposti. E’ così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è “né l’uno né l’altro”, ma lo spazio che è tra l’uno e l’altro, la “sbarra” che divide l’opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola “dentro” e la parola “fuori” una “sbarra” trasversale: la risposta è in “quella sbarra”), l’interlinea, l’indecidibile , il qualcosa che non sopporta la decisione. Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto. E’ in fondo una forma di “apofantismo” (posizione per cui la verità non può essere detta. Forse la verità si coglie ma non si può dire. E’ una forma di “scetticismo”, seppure molto “raffinato”). Per una confutazione (“decostruzione”) di questo pensiero si può adoperare, “raffinandole”, le consuete obiezioni per gli scetticismi: anche il dire che l’Essere “si aliena” (“si differanza”) ed è “indecidibile”, costituisce un'”affermazione” che implica un’istanza veritativa; anche tematizzare la “differanza” è un “colpo di dadi”? Anche affermare il “colpo di dadi” come il “vero” modo di tematizzare il venire-dell’-uomo-all’-essere (verità) è frutto di un “colpo di dadi”? Queste domande pongono lo scettico “post-heideggeriano” di fronte alla “necessità del pratico”, che è l’istanza ultima anche del “paradosso” di Aristotele (“quando dici che non vuoi filosofare, stai filosofando”): è inevitabile “agire” (anche quando questo agire è costituito dal “decostruire” i discorsi che mascherano interessi di potere) e nel “volere” di questo “agire” è implicito un “affermarne” la “bontà-verità”, è implicita – in altri termini – un'”istanza metafisica”: a questo non si sottrae, nonostante non lo metta a tema, neppure il neo-scetticismo di Derrida. Il “colpo di dadi” dice l’atto dell’uomo libero in ordine al verificarsi del “dire è”: ma lo dice in corrispondenza a un non-cogliere l’Essere, a un non-darsi a sufficienza dell’Essere (e ciò è la sostanza della “differance”): siamo alla denuncia di una presunta persistente sopravvalutazione paradossale dell’atto del soggetto di fronte alla persistente mancanza di realtà del darsi-dell’-Essere: il soggetto “pretende” di colmare la “sufficienza” di un essere che “non-si-dà-sufficientemente”. Ma questa concezione è presentata come “vera”, e non come “non-sufficientemente-dantesi”. Anche il modo con cui Derrida mette in relazione concetto e metafora potrebbe essere ripreso e indagato, in direzione dell’enucleazione dello “statuto simbolico” del “darsi-della-verità” in Gesù Cristo: Gesù è un “simbolo”, cioè una “storia” con un “nocciolo-profondità” da mettere a tema (ermeneuticamente) “concettualmente” ma che non esaurisce il concetto: l’incontro con la “res” (referenza, aspetto oggettivo, istanza metafisica) avviene anche nella “metafora”, in modo più vivo e ricco, e viene irrigidita e cristallizzata nel concetto, che precisa ma impoverisce. L’essere – secondo Derrida – è stato da sempre considerato come pienamente attingibile grazie al linguaggio, mediante il quale la verità viene trasmessa da soggettività individuale ad una comunità, il che equivale ad oggettivare la verità stessa. Tuttavia, se la verità è evidenza intuitiva – ossia presenza di qualcosa davanti ad una coscienza presente a se stessa – debbono essere ridiscussi sia la struttura dell’esistente che quella della verità stessa. Quel che ora è – nella sua finitezza – ovvero il presente, è, in ultima analisi, un nulla differito ed il nulla un essere differente. In opposizione alla tradizione filosofica, che ha fondato la propria attività speculativa sull’assunto che esistono coppie concettuali che si risolvono dialetticamente, Derrida propone un’inversione di tale logica: il divenire precede l’essere e il nulla, e solo grazie alla differenziazione possono ri-costruirsi nuove soggettività. La de-costruzione, staccate dalle mode che ne hanno fatto un metodo di interpretazione, diventa per Derrida il progetto di un ” nuovo, nuovissimo illuminismo “, la costante preoccupazione per l’altro verso e per cui dobbiamo coltivareun’ etica dell’ospitalità , ovvero l’apertura verso un avvenire che accade senza essere atteso, ad un dialogo che procede dal rispetto e che pone il tema della differenza come punto imprescindibile di partenza per un incontro fra gli uomini: “ come se lo straniero fosse innanzi tutto colui che pone la prima domanda, o colui al quale si rivolge la prima domanda (…); pertanto lo straniero, ponendo la prima domanda, mi mette in questione “. Ecco il punto cruciale, secondo Derrida, del tema dello straniero, di “colui che viene da fuori”, che “parla una strana lingua”, che produce inquietudine e sospetto. ” Lo straniero è in primo luogo straniero rispetto alla lingua giuridica nella quale sono formulati il dovere d’ospitalità, il diritto d’asilo, i limiti, le norme, i codici di polizia eccetera “. Il tema dello straniero per Derrida diventa, non solo metaforicamente, l’emblema di un’interrogazione che la società, ciascuna società, rivolge a se stessa: ” come se lo straniero fosse la questione stessa dell’essere in questione “. Grazie allo straniero la società non può fare a meno di interrogarsi sulla propria cultura, sulla lingua e le istituzioni giuridiche in vigore, in definitiva sul modo con cui attua una legge dell’ospitalità, ” coinvolgendo l’ethos in generale “. E del resto la parola latina “hostis” significa ospite ma anche nemico. La costellazione semantica, nel suo ambiguo oscillare tra termini opposti (oste, ostile, ospizio, osteggiare…), sembra costituire la trama della nostra identità. Ma c’è anche un secondo aspetto, non meno significativo: le ampie meditazioni di Derrida sulla sepoltura, sul nome, sulla memoria, sulla follia che abita il linguaggio, l’esilio e la soglia, ” sono altrettanti segnali rivolti alla domanda del luogo, che invita il soggetto a riconoscere d’essere per prima cosa un ospite “. Svolgendo quella che chiama ” il teatro invisibile dell’ospitalità “, il filosofo ripercorre alcuni tratti dell’elaborazione di Lèvinas, in particolare quelli in cui afferma che “il soggetto è un ospite” o che “il soggetto è un ostaggio”. La tesi centrale di Derrida è che vi è un’impossibile convivenza, una sorta di lacerazione tra ” l’ospitalità incondizionata che va al di là del diritto, del dovere o addirittura della politica ” e ” l’ospitalità circoscritta dal diritto e dal dovere “. In altri termini: “ dando per buona l’ospitalità incondizionata, come dar luogo a un diritto, a un diritto determinato, limitato e delimitabile, in una parola calcolabile? “. Il problema dell’ospitalità, conclude l’autore, ” è sovrapponibile al problema etico “.
A cura di Antonino Magnanimo
VITA E OPERE
Jacques Derrida nasce il 15 luglio 1930 a El Biar, presso Algeri, da famiglia ebrea. Proprio per questo, durante gli anni della Seconda guerra mondiale conoscerà le discriminazioni derivanti dalle leggi razziali emanate dal regime di Pétain. In gioventù entra in contatto con le correnti più vive della cultura francese e con le esperienze politiche dell’estrema sinistra non comunista. L’impegno politico resterà una costante della sua personalità che lo porterà negli anni seguenti a impegnarsi a favore del dissenso nella ex Cecoslovacchia comunista o a favore del movimento antirazzista in Sudafrica. Senza dubbio è uno dei più importanti filosofi di lingua francese del ‘900, la sua fama ha valicato i confini stessi della Francia e i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. Il suo pensiero, talvolta enigmatico e di difficile interpretazione, ha attratto diverse generazioni di filosofi. Principale ispiratore del “Collège international de philosophie” fondato a Parigi nel 1983, Derrida è direttore dell’ “Ècole des hautes études” dal 1984, ma ha insegnato anche in numerose università degli Stati Uniti. Derida si richiama ad Heidegger ma sono fondamentali per lo sviluppo del suo pensiero anche la psicanalisi, la linguistica, l’antropologia e la ricerca artistica. Egli opera una critica radicale della metafisica occidentale , operando una decostruzione delle strutture concettuali sulle quali essa poggia. Il filosofo francese è tra i più noti ma anche tra i più discussi e controversi pensatori degli ultimi decenni del ‘900. Appartenente alla generazione affacciatasi sulla scena filosofica intorno al 1960 (la generazione dei Foucault, Lyotard, Habermas, Rorty), ha in comune con questi suoi coetanei alcune problematiche cruciali, ma se ne distacca con proposte radicalmente innovative. Negli ultimi anni soltanto Rorty, tra i pensatori importanti della sua generazione, ha accolto con grande simpatia alcune tesi di fondo delle sue riflessioni. A differenza dagli altri, la sua influenza, fin dagli anni Sessanta, non ha riguardato soltanto gli ambienti filosofici ma si è estesa anche agli ambienti di critica letteraria, soprattutto nell’area americana. Alla ormai nota conferenza tenuta alla Johns Hopkins University nel 1966 (“La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane”) si fa risalire l’inizio del suo successo internazionale e la svolta decostruzionista. Formatosi nell’immediato dopoguerra in una tradizione filosofica dominata dall’influsso delle tre H (Hegel, Husserl, Heidegger), subisce inizialmente l’influsso di Sartre, da cui si distacca però molto presto per affrontare approfonditamente lo studio di Husserl cui dedica la sua prima importante pubblicazione “Introduzione a ‘L’origine della geometria’ di Husserl”. Oltre che con la tradizione occidentale, in quegli stessi anni, Derrida faceva i conti con la tradizione ebraica, della quale è ugualmente erede, essendo nato, come già accennato, vicino ad Algeri da famiglia ebrea. In particolare i nomi degli autori che sente più vicini, e che sono largamente presenti nei saggi raccolti in “Scrittura e differenza”, sono quelli di Jabès e di Lèvinas. Tra i lavori più importanti si segnalano: “Della grammatologia” (1967); “La pharmacie de Platon”, (1968); “Il fattore della verità” (1975); “Posizioni”; “La verità in pittura” (1978); “Introduzione a ‘L’origine della geometria’ di Husserl”; “La disseminazione” ; “La scrittura e la differenza”; “Il problema della genesi nella filosofia di Husserl”; “Politiche dell’amicizia”; “La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl”; “Margini della filosofia”. Nelle opere successive Derrida ha accentuato la sua critica della metafisica occidentale, mettendo capo alla scrittura come continuo differimento di senso. Ricordiamo: “Sopra-vivere” (1979); “La carte postale” (1980); “Dello spirito” (1987); “Psyché” (1987); “Limited Inc.” (1990); “La mano di Heidegger” (1991), “Oggi l’Europa” (1991); “Sproni: gli stili di Nietzsche” (1991); “Retorica della droga: intervista” (1993); “Ritorno da Mosca” (1993); “Spettri di Marx: stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale” (1994); “Memorie per Paul de Man. Saggio sull’autobiografia” (1995); “La religione: annuario filosofico europeo” (1995); “Donare il tempo: la moneta falsa” (1996).
L’IMPIANTO FILOSOFICO
Il filosofo francese esplora le possibilità a cui il linguaggio della filosofia occidentale è giunto:
1] aprirsi all’infinito e chiudersi su se stesso infinitamente;
2] giocare con la propria tradizione;
3] seguirne l’infinito arbitrio concettuale (la deriva del significante).
Questo fa di Derrida un vero filosofo, soprattutto nel senso paradossale, inaugurato da Nietzsche e dalla sinistra post-hegeliana, per cui “si è veri filosofi solo non essendolo”: si è filosofi puri in senso proprio e profondo, solo facendo i distruttori della filosofia. Derrida è un filosofo puro, ovvero un filosofo che si occupa della filosofia, essenzialmente per maltrattarla, ovvero per decostruire i testi della tradizione filosofia. Decostruzione vuol dire prendere due o tre parole, una frase, una qualche “spia testuale”, e giocarci sopra, in base per lo più al vecchio rovesciamento dialettico. Decostruire significa individuare le coppie concettuali (io-noi, vivo-morto, nulla-negazione, eccezione – regola) che si annidano in qualsiasi argomentazione, portarle fuori, e mostrare come, fronteggiandosi, gli opposti si annullano a vicenda, o si rovesciano l’uno nell’altro, e tutto si risolve in nulla. Qui si apre il paesaggio tipico del derridismo: non c’è nulla al di là del testo. Il testo è “semplice presenza differita”: io non sono presente, voi leggete queste mie parole, e io non ci sono. Inoltre, le cose di cui scrivo sono assenti. Dunque differenza non solo spaziale ma anche temporale, ovvero differanza ( differance ): perché ogni testo X è misurazione della distanza che separa X da qualsivoglia testo Y antecedente o conseguente. Questa presenza-assenza-differenza è, inoltre, primordiale e primigenia: la scrittura, si dice, viene dopo la voce, l’esperienza, il pensiero. Ma per scrivere pensiamo e abbiamo vita ed esperienza per trascrivere l’una e l’altra; “la nostra vita è narrazione pseudo-testuale”. C’è dunque, prima di ogni altra cosa, la Scrittura. Comprendiamo così ancora meglio l’essenza del decostruire: il prima e il dopo, il qui e il là, il sotto e il sopra si elidono a vicenda, ma in fondo tra il si e il no è meglio il no, tra l’eccezione e la regola è meglio l’eccezione, tra il “vivo della voce”, che tutti preferiscono, è meglio il “morto della scrittura”. Si tratta di nichilismo, e più specificatamente di dialettica negativa. La decostruzione rivela il suo vero volto, che è edificante, distruzione che edifica, in una sorta di omeopatia etico-filosofica, a sfondo vagamente anarchico. Questo è Derrida in breve e in essenza. Derida, nel dibattito degli ultimi decenni del ‘900, si è schierato apertamente, con posizioni di grande originalità, con coloro che affermano la necessità di andare “oltre la tradizione occidentale”. Nessuna metafora è in grado di uscire dal cerchio magico della metafisica, della “mitologia bianca” (“La mytologie blanche”, in Poétique, 1971) che rassomiglia e riflette la cultura dell’Occidente, quella in cui l’uomo bianco scambia il proprio pensiero con la forma universale della razionalità. Egli è tra i più assidui teorici del ” post-moderno “, e quindi fra i più criticati da Habermas, teorico del moderno, che lo qualifica come neo-nietzschiano nell’opera del 1985 “Discorso filosofico della modernità”. Derida è il più internazionalmente influente tra i teorici del post-moderno. Derrida utilizza uno stile di scrittura complesso e volutamente tortuoso che è andato a complicarsi sempre di più, stile caratterizzato dal rifiuto di un andamento discorsivo ordinario e dal ricorso frequentissimo a giochi di parole. Derida ribatte: ” non sono giochi di parole. I giochi di parole non mi hanno mai interessato. Piuttosto, sono fuochi di parole: consumare i segni fino alla cenere, ma anzitutto e con maggior violenza, attraverso un brio eccitato, slogare l’unità verbale, l’integrità della voce, frangere o effrangere la superficie calma delle parole, sottoponendo il loro corpo a una ginnastica allo stesso tempo gioiosa, irreligiosa e crudele”. Che ci sia crudeltà non solo verso le parole ma anche verso il lettore “plasmato dalla scuola”, Derrida lo confessa apertis verbis. Anche il lettore, quindi, è sottoposto a quella ginnastica, gioiosa, irreligiosa e crudele, se vuole tentare di comprendere i testi del discorso. Si tratta di testi, perciò, non solo difficilmente accessibili e comprensibili, ma anche difficilmente riassumibili. Derrida motiva e giustifica questa caratteristica pressoché unica dei suoi scritti sostenendo che vogliono essere qualcosa di radicalmente diverso e alternativo rispetto alle tesi di dottorato e in genere ai saggi di tipo scientifico-accademico quali si praticano all’università.
LA CARTOLINA POSTALE
Di fronte alle decine di cartoline , che di tanto in tanto preleviamo dalla cassetta delle lettere ciascuno di noi assume più o meno lo stesso atteggiamento: lettura veloce del testo, ringraziamenti al mittente, breve periodo di esposizione e abbandono nella più fredda indifferenza (cestino, scatola di cartone, album dei ricordi). Raramente a qualcuna riserviamo un trattamento migliore, per esempio servirsi delle più belle o di quella dell’amico più caro come segnalibro, ma alla fine tutte saranno raggiunte dallo stesso inesorabile destino: non verranno più guardate. Una volta che la cartolina , è giunta a destinazione ha esaurito la sua funzione, “la cartolina vive durante il tragitto” dal luogo di villeggiatura, passando per l’ufficio postale, alla cassetta delle lettere perché non appena giunge nelle mani del destinatario la sua fine è imminente. Ma allora perché non lasciare in viaggio la cartolina? Perché non godere del piacere di immaginarsi la nostra cartolina che vaga da un paese all’altro, da una città all’altra, da una strada ad un’altra, senza mai raggiungere il nostro portone di casa? Quante volte abbiamo aspettato invano l’arrivo di una cartolina e quante volte dopo essersi rassegnati al fatto di non riceverla più abbiamo fantasticato sulla sua erronea e prematura scomparsa. Ce la siamo immaginata persa nei meandri della città, nel brulichio, nella pluralità, nel disordine tipici delle metropoli. Derrida descrive la filosofia con la metafora della cartolina postale. La maggior parte delle volte la cartolina è ancora in viaggio quando noi siamo già di ritorno; per lo più capita che la cartolina non arrivi a destinazione, così facendo rimane in viaggio e conserva il suo essere-destinato in sé. Analogamente, la filosofia può essere considerata come una cartolina, che è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione ma che in realtà non lo fa. La filosofia che raggiunge la destinazione e che si distrugge in quest’ultima cessa di essere filosofia vera. Per questa ragione, Derrida preferisce tenere la filosofia in viaggio per far sì che sia sempre spedita oltre. Platone parla, Socrate scrive Per Derrida il passaggio al di là della filosofia non consiste nel voltare la pagina della filosofia (il che equivale il più delle volte al mal filosofare) ma nel continuare a leggere i filosofi in un certo modo. L’atteggiamento più generale di Derrida nei confronti della tradizione filosofica trova l’espressione più compiuta nella rilettura operata ne “La carte postale” del noto rapporto Socrate-Platone: in questa importante opera del 1980 infatti, utilizzando una miniatura medioevale trovata ad Oxford, Derrida mostra come il rapporto si sia rovesciato, nel senso che Platone parla, mentre Socrate scrive.Il rapporto Socrate-Platone era stato alla base di uno dei saggi più noti di Derida, “La pharmacie de Platon” del 1968, nel quale in maniera più accurata e organica, oltre che filologicamente molto ferrata, era stata proposta la tesi del logocentrismo o metafisica della presenza come filo conduttore di tutta la tradizione filosofica occidentale. E’ un saggio, anche questo, “pirotecnico” (fuochi di parole), nel quale lo scrupolo filologico è intrecciato con una sfrenata sarabanda di metafore e richiami da un dialogo all’altro di Platone. Egli cerca di mettere in discussione il logocentrismo della metafisica occidentale basata sull’opposizione “è o non è” (materia/forma, natura/spirito, corpo/anima, vero/falso, bene/male, essere/divenire, soggetto/oggetto). Derrida vuole decostruire questa tradizione non nel senso di abbandonarla completamente ma nel senso di aggiungervi qualche altra cosa. Parte dal fatto che la verità non è qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che accade. L’interesse principale è comunque dedicato al Fedro e in particolare alla sua parte finale, nella quale Socrate racconta il famoso mito del re egiziano Thamus che, di fronte all’offerta della scrittura da parte del dio Theuth, dopo matura riflessione decide di respingere l’offerta in quanto la scrittura è qualcosa di molto inferiore e di negativo rispetto alla parola.Questo mito, il cui significato è ripreso ricorrentemente in altri suoi scritti, spiega secondo Derrida il carattere fondamentale di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi: quello che fa definire questa filosofia come logocentrismo o metafisica della presenza. Infatti il contenuto esplicito e il significato del mito è che la parola è presenza, mentre la scrittura è assenza, negazione della presenza. Nel discorso parlato, cioè, l’anima ha “presente” in maniera immediata la verità; nel testo scritto questa immediatezza non c’è più. Nel parlare l’anima si esprime direttamente, è “presente”; nel testo scritto non c’è più, e questo vive una sua vita propria, da “orfano”, separato da chi gli ha dato origine. L’oralità è bene, la scrittura è male. Derrida talvolta parla di “parricidio” operato dal testo scritto nei confronti di chi gli ha dato origine.Tutto il male, il negativo, è assegnato “alla scrittura, che Platone definiva un orfano o un bastardo, opponendola alla parola figlio legittimo e bennato del ‘padre del logo'”. Umiliazione della scrittura, privilegio della parola, sono stati secondo Derrida i caratteri fondamentali della filosofia occidentale fino ad oggi; da qui la definizione di questa come “logocentrismo”. Scriverà in un colloquio dello stesso 1968, in maniera più chiara illustrando le caratteristiche del logocentrismo o metafisica della presenza : “la phoné è la sostanza significante che si dà alla coscienza come intimamente unita al pensiero del concetto significato. Da questo punto di vista, la voce è la coscienza stessa. Quando parlo, non solo ho coscienza di essere presente a ciò che penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al ‘concetto’ un significante che non cade nel mondo, che io intendo nel momento medesimo in cui lo emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera spontaneità, senza esigere l’uso di alcuno strumento, di alcun accessorio, di alcuna forza presa nel mondo. Beninteso questa esperienza è un inganno, ma un inganno sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura o tutta un’epoca”. La tradizione logocentrista, per Derrida, è quella ancora dominante nei nostri giorni. Questa tradizione è stata ripercorsa, o “ripetuta”, in maniera più o meno consapevolmente critica, dai filosofi più significativi del nostro tempo. Secondo Derida, quindi, il carattere fondamentale della filosofia occidentale è il logocentrismo o fonocentrismo , fondato sulla metafisica della presenza, nel senso indicato dall’ultimo Heidegger. A suo avviso nella tradizione occidentale sino a Heidegger incluso, la voce gode di un primato in virtù del fatto che essa è percepita e vissuta come qualcosa di presente e di immediatamente evidente: nella parola parlata è sempre immanente il logos. La scrittura, invece, è caratterizzata dall’assenza totale del soggetto, che l’ ha prodotta: il testo scritto gode ormai di vita propria. Compito della grammatologia , dove “gramma” è assunto nel senso originario greco di lettera scritta dell’alfabeto, è di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello della scrittura, non del logos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e rendendolo disponibile al di là del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilità e leggibilità illimitata. Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la ” differance “, un termine da lui coniato che include i due significati del verbo differire. In un primo senso, esso implica che il segno è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, che tra il testo e l’essere a cui esso rinvia c’è sempre una differenza, uno scarto che non può essere mai definitivamente colmato, ma lascia sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicità delle letture e delle interpretazioni. Ma, in un secondo senso, differire significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere una distanza tra noi e la cosa o parola assente nel testo: ciò significa uscire dal primato della presenza, che caratterizza il logocentrismo. La “differance” equivale a un accadere indipendente dai soggetti che parlano e che ascoltano, è un “evento” nel senso heideggeriano del termine.
LA DIFFERANCE
Derrida sostiene che tra l’Essere e il linguaggio c’è un rapporto di “differance”: l”essere si “differanza” nel linguaggio, si media nel linguaggio, si aliena nel linguaggio, diventa altro da sé, si rende presente ma assente nello stesso tempo, diventa segno, diventa traccia. La verità si trasforma in traccia, si contamina, si intacca nel linguaggio che è segno, si dà nel linguaggio ma nega di essere quello che è il linguaggio stesso. Heidegger ha torto perché non c’è dunque nessun linguaggio privilegiato; quello poetico è equivalente a quello filosofico-concettuale anche se è più vivo e meno preciso. In tutti e due i casi non si può dire che il linguaggio ti faccia pervenire alla verità e nemmeno che nel linguaggio ci sia il darsi delle verità e dell’essere; ci sono solo tracce della verità, c’è la “differance” dell’essere nelle tracce di sé. Si sa ciò che il linguaggio dice, ma la verità, l’essere è il non detto del linguaggio. L’essere non si destina all’uomo nel linguaggio, ma si “differanza” nel linguaggio, e ciò di cui il linguaggio è traccia; e solo traccia, traccia non è “niente”, come dice lo strutturalismo, ma non è nemmeno la cosa, l’Essere, la presenza. Ma cosa esiste allora? Esiste il parlare, il creare rapporti tra gli uomini ed il comunicare con il sistema delle comunicazioni; questo parlare però non contiene l’Essere, solo le sue tracce. La grammatica del testo scritto è il luogo dove si aliena l’Essere: non la voce in cui è meno evidente il “farsi differanza” dell’Essere: ma la grafia, il segno scritto, la scrittura, dove “questo farsi altro è più evidente”. Derrida usa il termine “differance” perché privilegia la scrittura sulla parola e soltanto scrivendo questa parola si riesce a capire il suo significato. La verità, l’essere non è nel testo scritto ma è tra le righe, nell’interlinea del testo scritto, nel non detto del testo scritto di cui il testo è la traccia. Forse, dice Derrida con un altro paragone, noi abbiamo non l’Essere, ma il suo “simulacro”, una statua dell’essere , una parvenza dell’essere. In questa situazione, il lavoro del filosofo è far capire che esiste questo “qualcosa” che è “fra le righe” del testo, capire che è “differance” non “identità”, che è traccia dell’Essere e non presenza. La nostra filosofia è sempre stata una metafisica della presenza la quale ha ordinato gerarchicamente le coppie di opposizioni dei diversi concetti di tipo centrale, dove il secondo termine rappresenta una derivazione negativa od un aspetto secondario od impuro del primo. La presenza struttura il nostro modo di vedere e di pensare ma quando essa entra a far parte di articolazioni logiche e temporali più complesse, perde la sua autorità. Per dimostrare ciò Derrida si serve del paradosso di Zenone di Elea sull’impossibilità del movimento. Secondo tale paradosso una freccia, negli infiniti istanti in cui si può scomporre il tempo del suo movimento sarebbe ferma. In questo caso la presenza del movimento non è presente in nessun momento della presenza della freccia che è tuttavia realmente in movimento. Per cui la presenza del movimento si produce solo nella misura in cui ogni istante è già segnato dalle tracce del futuro e del passato; il movimento può essere presente solo se l’istante presente è un prodotto dei rapporti tra passato e futuro. Se deve essere presente il movimento, la presenza deve essere già segnata dalla differenza e dal differimento, dobbiamo pensare il tempo come differenza, differenziamento e come differimento, presenza e presente sono un effetto di differenze. Decostruendo quindi l’opposizione presenza/assenza, si può esprimere la presenza in termini di assenza differente e differita. In un sistema linguistico, in ogni parola il significato sussiste in ragione della sua relativa diversità rispetto ad un’altra parola e tale differenza è rilevabile nelle tracce (vocali, desinenze, consonanti) dei vari termini da cui è necessario che la parola sia distinta per poterle attribuire un significato preciso. Si ha così quella concatenazione al rinvio, praticamente infinita la quale fa sì che ogni elemento, fonema o grafema, si costituisca a partire dalla traccia presente in esso degli altri elementi della catena o del sistema; questa concatenazione è il testo che non si produce se non nella trasformazione di un altro testo. Niente non è mai, in nessun luogo semplicemente presente od assente, ovunque e sempre ci sono solo differenze e tracce.
DECOSTRUIRE
Il compito del filosofo sarà allora quello di decostruire i testi , cioè smontarli, metterli in crisi, contraddirli. Chi compie quest’opera permette al lettore di capire che in esso non c’è l’essere, ma l’essere è oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue tracce. In questo modo il filosofo giunge, attraverso il suo lavoro di decostruzione, anche a forme di potere che stanno sotto a certi discorsi fatti passare per veri. Decostruire un discorso, glossarlo, scrivere nei suoi margini un commento che lo demolisce, farne la “parodia” è mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verità e nello stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo è per Derrida fare filosofia. In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verità è quello del colpo di dadi ; quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c’è l’essere (la verità): ma così facendo conferisci a quel testo un valore di verità che esso non ha. Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello “spazio vuoto” che è in mezzo a “indecidibili opposti”. E’ così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è né l’uno né l’altro, ma lo spazio che è tra l’uno e l’altro, la “sbarra” che divide l’opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola “dentro” e la parola “fuori” una “sbarra” trasversale: la risposta è in “quella sbarra”), l’interlinea, l’indecidibile, il qualcosa che non sopporta la decisione. Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto. E’ in fondo una forma di apofatismo , posizione per cui la verità non può essere detta. Forse la verità si coglie ma non si può dire (già Gorgia ipotizzava che se anche l’essere potesse essere colto, non sarebbe comunicabile). E’ una forma di scetticismo, seppure molto raffinato. In sintesi, dunque, per Derrida, questa strada è percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del logos che pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria, soprattutto nordamericana. Derida non definisce né analizza articolatamente che cosa significhi decostruzione, ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica o letteraria. In generale, si può dire che la decostruzione è l’atto di compiere il processo inverso rispetto a quello che ha condotto alla costruzione del testo, smontandolo e rovesciandone le gerarchie di significato, che la metafisica della presenza tende a privilegiare, trattando le opere di filosofia come opere di letteratura e viceversa, giocando sulle opposizioni, sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su ciò che sta ai margini nel testo, in modo da sottrarsi al desiderio della definitezza. La decostruzione, più che una pratica teorizzabile e ripetibile, è qualcosa di simile all’esecuzione artistica. Attraverso la decostruzione è possibile, secondo Derrida, che si aprano varchi attraverso i quali intravedere ciò che viene dopo il compimento della nostra epoca, ossia al di là dell’epoca della metafisica. Conosciamo la realtà ma ciò che è possibile lo conosciamo appena; l’ambito del possibile è quasi illimitato, quello del reale è molto limitato perché di tutte le possibilità è sempre una soltanto quella che si può trasformare in realtà.
POLITICHE DELL’AMICIZIA
Viviamo in un’epoca che non ama i confini. Destra e sinistra, conservatori e progressisti: le grandi opposizioni lasciano il posto a una conflittualità che ha smarrito le coordinate dell’antagonismo, ma non per questo risulta meno feroce. La confusione di ruoli e identità alimenta un odio tanto più accanito quanto meno fondato su opzioni ideologiche; e nelle molte voci che condannano consociativismi e trasformismi si avverte la nostalgia per una sana iniziativa. I teorici della democrazia sembrano dunque garantire le profezie di Carl Schmitt, il più antidemocratico dei filosofi della politica: meno c’è politica più ce n’è, meno ci sono nemici più ce n’è. Ma perché la coppia concettuale amico-nemico sarebbe inevitabilmente intrecciata? Derrida affronta il problema nel suo libro “Politiche dell’amicizia”, un’opera che al corpo a corpo con Schmitt dedica tre capitoli, ma che prende le mosse da un detto di Aristotele: “o miei amici, non c’è nessun amico”. Detto controverso, in quanto attribuito ad Aristolete da Diogene Laerzio, il quale attinge a fonti indirette. Accantonando i dubbi, Derrida assume la citazione a emblema del paradosso che insidia il tema dell’amicizia. A un primo esame il lamento aristotelico suona: chi ha troppi amici non ha nessun vero amico, l’amicizia è un bene raro, non si ha mai più d’un vero amico. Ma poi, fa notare Derrida, lo stesso Aristotele moltiplica il numero, affermando che l’arte della politica consiste nel creare quanta più amicizia possibile. Inseguendo questo enigma numerico attraverso la storia del pensiero, Derrida dimostra che esso trae origine da un’idea di comunità politica che ha assunto costantemente i tratti della fraternità; il politico slitta verso una configurazione “familiare” fondata su un tacito presupposto “naturalista”: famiglia, Stato, nazione, sono intrecciati nel nodo della nascita, del mito della terra e del sangue. Per scavare negli effetti di questo “paradigma fraterno”, Derrida rilancia il grido di Nietzsche in “Umano, troppo umano”, “nemici, non ci sono nemici” l’invito nietzschiano a sbarazzarsi del “cattivo gusto di voler andare d’accordo con molti” è lo spunto che gli consente di approfondire la critica di Schmitt alla fraternità democratica: l’amicizia fraterna esiste solo come sospensione della virtualità sempre presente dell’assassino; la guerra è il presupposto ineludibile della politica; l’eccezione fonda la regola. Ecco perché una certa sinistra si è innamorata dell’ultra-conservatore Schmitt; ecco perché le sue parole ci sembrano tanto attuali nel momento storico in cui le democrazie occidentali, senza più nemico, invece di avanzare verso la pace, sprofondano nella violenza di un’ostilità non più regolata dalle regole della guerra. E’ possibile andare oltre la cruda verità della coppia amico-nemico? La risposta di Derrida è un “forse” che ricorre in tutto il libro come annuncio di una ” democrazia a venire “, capace di proiettarsi oltre il principio di fraternità, di accettare la spoliticizzazione senza sprofondare nel conflitto senza regole: “è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell’amicizia (filosofica e religiosa) vi prescrivono di fraternità?”. La risposta è ancora un “forse” che rinvia alla speranza che un giorno sia possibile salvare libertà e uguaglianza dall’abbraccio mortale della fraternità. Speranza in una democrazia che non solo resterà indefinitamente perfettibile, dunque sempre insufficiente e futura, ma, appartenendo al tempo della promessa, resterà sempre, in ciascuno dei suoi tempi futuri, “a venire”.
XENOS
Durante un seminario svoltosi nel 1996, Derrida affronta il tema dello Straniero e dell’Ospitalità, e lo fa mostrandoci come nei dialoghi di Platone proprio la “figura dello straniero” (Xenos) sia quella che porta con sé e pone le domande fondamentali. In primo luogo, nel Sofista è proprio lo Straniero di Elea a porre la questione parricida che contesta la tesi ontologica di Parmenide, il logos del padre Parmenide: l’essere è, il non-essere non è. In secondo luogo, nell’Apologia di Socrate il ruolo dello straniero è rappresentato dallo stesso Socrate che, di fronte all’assemblea destinata a giudicarlo, dichiara di essere privo, estraneo, alla logica e al linguaggio retorici, e di essere come uno straniero. Ora, spiega Derrida, il primo problema è quello della lingua: “l’impossibilità di comunicare e di poter interagire con norme imposte dallo Stato, dal potere”. E qui comincia la reale questione dell’ospitalità: davvero è sufficiente che lo straniero parli la nostra lingua e si muova nelle nostre categorie per comprenderlo, accoglierlo e dargli ospitalità? Il secondo punto riguarda l’effettiva difesa di Socrate, che, di fronte alla prospettiva di essere condannato a morte, prega gli Ateniesi di considerarlo come se fosse davvero uno straniero, sia per l’età, sia per l’unica lingua che egli conosce: quella della filosofia e quella del popolo. “Socrate: dunque è semplice, mi sento spaesato nel linguaggio in uso qui. Come se, nella realtà, fossi uomo di un altro paese: penso che avreste indulgenza se mi esprimessi con l’accento e nel dialetto, nei giri di frase del mio ambiente nativo”. Oggi sappiamo grazie a numerosi studi che allo straniero giunto ad Atene si attribuivano precisi diritti e doveri che venivano automaticamente estesi anche alla sua stirpe. Ma, allora, come intendere autenticamente lo Straniero? L’accoglienza di qualcuno che dapprima appare come assolutamente Altro e Sconosciuto in realtà implica un obbligo di uniformazione: il diritto all’ospitalità impegna un gruppo etnico che accoglie un altro gruppo etnico “chiamandolo per nome e riconoscendone l’identità, accogliendolo in famiglia”. Si tratta di ospitalità di diritto. Ciò che d’impatto può apparire ospitalità senza limiti (chiunque giunga ad Atene viene accolto), in realtà impedisce l’autentica ospitalità: senza riconoscimento e identità nominale, essa infatti non è possibile. L’ospitalità assoluta esige apertura e offerta a chiunque, e più precisamente, come afferma Derrida, “all’altro assoluto, sconosciuto, anonimo, e che gli dia luogo, che lo lasci venire, che lo lasci arrivare e aver luogo nel luogo che gli offro, senza chiedergli né reciprocità (assumere doveri per avere diritti) né il nome”. Tornando a Socrate, lo Straniero che il filosofo auspica di essere è qualcuno da cui si pretende identità per essere riconosciuto: gli si chiede quindi il nome. Ma, allora, l’ospitalità consiste nell’interrogare chi arriva? La domanda può apparire molto umana, esprimere un autentico interesse: chi sei? come ti chiami? Oppure la vera ospitalità accoglie senza domande, viene offerta ad un soggetto non identificabile, si dona? È soprattutto nella cultura che questo dilemma appare nella sua complessità, quando cioè un singolo uomo sfugge momentaneamente alla propria identità nominale per diventare testimone di un popolo proveniente da tradizioni contemporanee e al tempo stesso ataviche. Fino a che punto è lecito forzare la comprensione di una cultura “Altra”? Fino a che punto le domande desiderano dischiudere autenticamente una cultura e non assimilarla nelle proprie categorie per trarne spunti di rapido consumo? La risposta è nell’individuo che, di fronte a etnie e culture diverse si ritrova ad essere egli stesso Altro e Diverso, e quindi nella propria volontà non di ri-conoscere, ma di conoscere e di farsi conoscere, nell’integrità e nel rispetto che ogni essere umano e quello che porta con sé merita.
IL DECOSTRUZIONISMO
Il panorama culturale e le componenti che agiscono sulla formazione di Jacques Derrida sono genericamente quelle della Nietzsche-Renaissance degli anni Sessanta del Novecento. Le indagini genealogiche nietzscheane costituiscono in quegli anni la chiave con cui il cosiddetto “poststrutturalismo” giunge a incrinare il carattere apollineo del formalismo strutturalista: l’indagine genetica – o meglio energetica- tende a leggere ogni costituzione di forma non già come sincronicità strutturale, ma come differenzialità dinamica, economica, effetto di determinati rapporti di forze. Come nelle indagini foucaultiane, ogni struttura rappresenta sempre una forma di dominio che si tratta di smascherare e di scuotere nelle sue fondamenta. Princìpi che nello strutturalismo assumono una funzione eminentemente ordinatrice – la differen- zialità sistemica, il principio della linearità del significante, la distinzione significato/significante – vengono così nel poststrutturalismo, e in particolare nel decostruzionismo derridiano, “distorti”, diventando piuttosto princìpi entropici, di disordine, di disorganizzazione, di liberazione del desiderio dalle repressioni del “sistema”. Insieme a Nietzsche, è dagli altri due tradizionali maestri del sospetto, Marx e Freud, che la filosofia di Derrida riceve infatti la sua impronta. Marx, al quale Derrida ha dedicato lo scritto “Spettri di Marx”, agisce nella componente politica che Derrida ritiene sempre indissociabile dall’operazione decostruttiva e smascherante, mentre Freud costituisce un termine di riferimento cui Derrida si richiama in momenti nevralgici della sua elaborazione teorica, come a proposito dei “concetti” di différance o di traccia: la figura di Freud è nel discorso di Derrida giocata soprattutto in contrappunto a un’altra sua fondamentale matrice, la fenomenologia di Husserl. Husserl costituisce il primo banco di prova della decostruzione: a lui, oltre al “mémoire” “Il problema della genesi nella filosofia di Husserl”, sono dedicati due tra i primi libri pubblicati da Derrida, l’ “Introduzione a ‘L’origine della geometria’ di Husserl”, del 1962, e “La voce e il fenomeno”, del 1967, di cui Derrida dice che ” è forse il saggio a cui tengo di più ” (“Posizioni”). Il rapporto di Derrida con la fenomenologia è fortemente influenzato da componenti psicoanalitiche: la decostruzione è una fenomenologìa, non di ciò che si presenta, di ciò che c’è, bensì di ciò che non si presenta nè può mai presentarsi, una fenomenologia cioè della traccia, di ciò che non c’è, di ciò – ripetendo qui la definizione che Derrida da della traccia in “La différance” – che si cancella nel momento stesso della sua iscrizione. Se la decostruzione è fenomenologica, lo è paradossalmente contro la fenomenologia: il suo scopo non è l’ epochè attuata in nome e in vista del senso, ma l’ epochè del senso, la messa tra parentesi del senso per aprire sull’orizzonte della sua costituzione, su un certo non-senso, ossia l’inconscio. Una tale presa di distanza dalla fenomenologia costituisce un momento interpretativo utile per comprendere anche il rapporto di Derrida con Heidegger e con l’ermeneutica. Indubbiamente, se l’indagine heideggeriana – ed ermeneutica in generale – è intesa come un tentativo di ricostruzione di un senso perduto, la decostruzione non è ermeneutica; se però si svolge fino in fondo – come pare fare Derrida – la difficoltà da Heidegger stesso evidenziata, e da Gadamer portata a chiarezza teorica, insita in ogni progetto ermeneutico di tipo ricostruttivo, la decostruzione, per quanto lateralmente, può anche essere intesa come una sorta di nichilismo ermeneutico o ermeneutica nichilista. I testi di Derrida appaiono spesso come commenti ad altri testi, filosofici o letterari, linguistici, antropologici o politici, il cui scopo non è la ricostruzione del loro senso, bensì l’evidenziazione delle loro pieghe autodestrutturanti. A Heidegger Derrida riconosce esplicitamente il merito di aver ispirato il suo progetto fìlosofico (innumerevoli sono i testi a lui dedicati: “Ousia e grammè”, “Dello spirito”, “Differenza sessuale-differenza ontologica”, “La mano di Heidegger”, ecc): ” nessuno dei miei tentativi sarebbe […] stato possibile senza l’apertura delle domande heideggeriane ” (“Posizioni”). Il debito più importante nei confronti di Heidegger consisterebbe in quella critica alla metafisica della presenza che costituisce l’orientamento costante della decostruzione e di cui Heidegger avrebbe consentito l’apertura con le indagini svolte in “Essere e Tempo”. Se la decostruzione ha una carica sovversiva veramente radicale, che sola spiega l’orientamento così marcatamente etico-politico e il particolare linguaggio che essa ha assunto soprattutto in tempi recenti (a fine Novecento Derrida non parla quasi più di différance, traccia, grammatologia, concetti che hanno giocato un ruolo primario nell’elaborazione dei suoi testi tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta), è solo alla luce della critica heideggeriana alla metafìsica della presenza. Essa comporta una serie di conseguenze paradossali, da Derrida esplicitamente assunte: da quella del carattere necessariamente avventuroso del pensiero che cerca di svincolarsi da tale metafisica (ovvero dalle sue presupposizioni logiche e gnoseologiche: dal principio di identità a quello dell’evidenza, dall’esigenza della fondazione al primato dell’ideale), alla tematizzazione cosciente e coerente dell’impossibilità teorica di una tale uscita. Il carattere paradossale della decostruzione costituisce una connotazione che ha da più parti suggerito un accostamento con le avanguardie artistiche, e in particolare con il dadaismo. La decostruzione non vuole comunque essere, nell’intento di Derrida, uno tra i tanti discorsi apocalittici sulla fine, e in particolare sulla fine della filosofia, quanto piuttosto un tentativo di delimitazione del discorso filosofico, che ha molto in comune, in effetti, con il programma dadaista: essa si pone al limite del discorso filosofico, limite ” a partire dal quale la filosofia è diventata possibile e si è determinata come episteme funzionante all’interno di un sistema di costrizioni fondamentali, di opposizioni concettuali al di fuori delle quali essa diventa impraticabile ” (“Posizioni”). Non stupisce quindi come lo stile volutamente asistematico e spesso distante dal modo tradizionale dell’argomentazione filosofica (si pensi a testi soprattutto degli anni Settanta come “La verità in pittura”, “La disseminazione”, “Glas”- che ha fatto quasi gridare allo scandalo – o “Envois”), il linguaggio fortemente idiomatico e l’uso, spesso ironico, della citazione, siano elementi non secondari, diremmo anzi intrinseci al procedere decostruttivo, il quale si configura esplicitamente come una commistione di linguaggi (filosofico, psicoanalitico, fenomenologico, politico) tra cui è difficile individuare quello dominante. Siamo in presenza di un insieme di tratti che hanno fatto di Derrida – sia in senso positivo sia in senso negativo – uno dei maggiori esponenti di quella che è stata definita condizione postmoderna .
COS’E’ LA DECOSTRUZIONE?
Definire la decostruzione è impresa che va immediatamente incontro a una radicale e inesorabile stroncatura da parte dello stesso Derrida: come scrive a un amico giapponese, ” ogni frase del tipo ‘la decostruzione è X’ o ‘la decostruzione non è X’ è a priori priva di pertinenza, è a dir poco falsa. Lei sa che fra i principali obiettivi di ciò che nei miei testi si chiama ‘decostruzione’ è proprio la delimitazione dell’onto-logica e anzitutto dell’indicativo presente della terza persona: S è P ” (“Pacific Deconstruction”, “Lettera a un amico giapponese”). Un tale avvertimento critico, lungi dal voler impedire ogni pro-posizione teorica a proposito della decostruzione, ha piuttosto lo scopo di attirare l’attenzione, mettendoli crudamente in luce, sui temi e le frontiere contro cui essa è impegnata: temi e frontiere che solo riduttivisticamente possono essere detti teorici, ma che sono sempre nel loro fondo soprattutto etici e politici. Se, come ha scritto, suo malgrado giustamente, Hilary Putnam (in ” Rinnovare la filosofia”) ” criticare il decostmzionsmo è come cercare di fare a pugni con la nebbia “, ciò è dovuto forse al fatto che finchè si pretende di condurre questa lotta sul piano puramente teorico, non si può che mancare il bersaglio. La decostruzione è infatti soprattutto una pratica, e una pratica di scrittura, nel senso che, per ragioni che vedremo meglio, affida alla scrittura una dimensione performativa che sarebbe irriducibile alla constatività teoretica, la funzione della scrittura, repressa nella metafisica occidentale, sarebbe infatti proprio quella di delimitare, attraverso il suo potenziale sovversivo, la pretesa di dominio della teoreticità. Ciò di cui ne va nella decostruzione è, dice Derrida, la delimitazione dell’onto-logica di una certa concezione dell’essere e di una certa logica ad essa coessenziale che si esprimono nell’interpretazione tradizionale – metafìsica – della terza persona dell’indicativo presente, della copula “è”. Si tratta di un problema eminentemente metafisico che Derrida assume da Heidegger e che consiste nel generale privilegio accordato nella metafìsica occidentale alle nozioni di “presenza” e di presente . Il termine decostruzione può anzi essere considerato come la fortunata traduzione del tedesco Destruktion, con cui Heidegger, nel par. 6 di “Essere e Tempo” indicava il compito preliminare, richiesto dall’indagine sul senso dell’essere nei confronti della storia della metafisica ereditata. Che la logica, a partire dal suo fondatore Aristotele, si costruisca su un indiscusso privilegio della forma enunciativa alla terza persona dell’indicativo – il discorso apofantico – è un dato del tutto evidente. Che tale privilegio abbia come sua giustificazione metafìsica la dottrina della sostanza e una certa concezione dell’essere e del linguaggio dominata dalla dottrina delle categorie, è altrettanto evidente, al punto da costituire un dato della nostra tradizione culturale talmente costante da confondersi con l’ovvietà se non proprio con la naturalità. Ciò che Derrida contesta – con un’analisi genealogica e smascherante degna di maestri del sospetto come Nietzsche, Marx e Freud – è invece proprio tale ovvietà, mostrandone il carattere storico, fondato cioè su una decisione che, in quanto tale, è più etico-politica che teorica. Tale analisi è condotta in riferimento soprattutto a Platone in “La farmacia di Platone” e a Husserl in “La voce e il fenomeno”. Platone rappresenta in un certo senso il luogo originario di una tale decisione mentre la fenomenologia husserliana ne costituisce la forma compiuta, essendo essa, per Derrida ” il progetto metafisico stesso nel suo compimento storico e nella purezza solamente restaurata della sua origine ” (“La voce e il fenomeno”). Metafìsica della presenza è il privilegio che le nozioni di “presenza” e di presente assumono nella definizione di tutti i concepì fondamentali della metafisica- esse anzi esprimono la nozione stessa di “fondamento”. In base a questo privilegio si struttura tutta una sene di coppie oppositive che improntano la concettualità metafìsica- originano/derivato, modello/copia, immediato (evidenza)/mediato (ripetizione) verità/inganno ecc. Il mito di Teuth, esposto nel Fedro platonico, fa vedere come queste coppie oppositive agiscano nel delineare lo statuto della filosofia che ha dominato la nostra cultura, cui è coessenziale la condanna della scrittura. Teuth è il dio della scrittura, ma la sua invenzione viene considerata un veleno, qualcosa di dannoso per la verità e per la conoscenza, non essendo che copia di copia (come ogni arte per Platone): pertanto essa non può che esporre alla perdita del senso, non può che allontanare dalla verità. Si nota in ciò l’eredità socratica – Socrate non scrisse nulla, per fedeltà alla forma dialogica, e perciò è il vero filosofo -, ma quel che Derrida tende a mettere particolarmente in luce è il nucleo etico che si cela in questa decisione epistemica: si tratta dell’imperativo socratico del “conosci te stesso”. Quel che il privilegio della presenza cela nel suo fondo è l’identificazione del sapere – e del bene – con la coscienza, con la presenza a sé. Tutto ciò che allontana da tale presenza a sé (l’arte, la copia, il mito, e dunque la scrittura, che “ripete senza sapere”) è errore, erranza, male. Ma, nota Derrida, non è la conoscenza di sé a dettare l’imperativo del conosci tè stesso: esso è dato in una iscrizione, il “delphikón gramma”, il quale prescrive – e dunque precede – ciò che si pretende porre a fondamento. La sistematica concettuale qui analizzata si ritrova fortemente riaffermata, ad avviso di Derrida, nella difesa husserliana del principio dei princìpi, quello, cartesiano, e dell’evidenza del cogito , assunto come fondamento della filosofia in quanto scienza rigorosa, episteme, con esso si pone, e perciò eventualmente anche cade, la possibilità di ogni riduzione, di ogni epoche, la possibilità stessa, cioè, della fenomenologia. È perciò fondamentale che la fenomenologia possa realizzare tale riduzione, evitando il più possibile l’inserimento di un elemento estraneo (del “mondo”) all’interno della descrizione fenomenologica stessa. Ne va qui, insomma, dell’ambiguo rapporto che Husserl ha sempre intrattenuto con il linguaggio, e con ogni forma di tecnicizzazione, a un tempo valorizzato nelle sue possibilità espressive e svalorizzato nel suo carattere di dissimulazione, sovrastrutturale, obiettivante. Nelle “Ricerche logiche” una tale ambiguità viene regolata attraverso la distinzione tra uno strato linguistico puramente espressivo, che garantirebbe la coincidenza di significato e segno, vale a dire la presenzialità del voler-dire (così Derrida traduce il termine tedesco Bedeutung, “significato”, per sottolinearne la dipendenza dall’intenzionalità) alla coscienza, e uno strato meramente indicativo, rivolto cioè a quella “trascendenza” (il mondo) che le riduzioni dovrebbero mettere tra parentesi, onde consentire quella piena immanenza della coscienza a sé che è l’elemento stesso dell’evidenza fenomenologica. Attraverso una discussione serrata, di cui Derrida aveva già dato prova nella sua “Introduzione a ‘L’origine della geometria’ di Husserl”, che è emblematica di quel movimento di “gira-volta”, come lo definisce Derrida stesso, che la decostruzione attua o scopre nei testi della tradizione metafisica, la distinzione husserliana viene minata in base ai presupposti stessi della fenomenologia, e in particolare in base alle riflessioni svolte nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo. Qui Husserl sostiene che il presente stesso (l’adesso nella sua puntualità) si compone continuamente e inevitabilmente con un non-presente, così come ogni percezione con una non-percezione. E allora, se non è possibile che il presente si dia in una forma assoluta, viene minata la possibilità stessa di una presenzialità a sé priva di rinvio, di indicatività (la vita solitària dell’anima, il platonico “monologo dell’anima con se stessa”), e quindi la possibilità di una presenzialità di fatto e di principio epochizzabile. Col che verrebbe a cadere, allora, la possibilità stessa dell’evidenza, dell’intuizione (“noesis”) senza intelletto (“dianoia”), della fenomenologia pura. Con l’esposizione di questi nuclei problematici non siamo però ancora giunti a delineare a fondo quella sistematica concettuale che Derrida chiama ” logocentrismo “, e che è un’ulteriore, consequenziale definizione della “metafisica della presenza”. Il logocentrismo è la tendenza, rilevabile all’interno di tale metafisica, a identificare presenzialità e logos (discorso parlato, vivo, cosciente), cosicché è il logos ad assumere una posizione centrale, fondatrice, originaria. Più propriamente, come scrive Derrida, il logocentrismo è il desiderio stesso di un centro, di un fondamento, su cui si costruisce il “bisogno di verità” della metafìsica. La vicenda della scrittura ha messo in luce come questa posizione centrale sia occupata dalla coscienza, e cioè dalla voce (“phoné”). La voce infatti è la coscienza, poiché garantisce la completa trasparenza dell’elemento espressivo, il suo immediato svanire nell’immediatezza del voler-dire, evitando quel che Platone paventava nella scrittura (“figlio bastardo e parricida”), e cioè la perdita del senso e l’incapacità di “difendersi” o, peggio, la possibilità di rivoltarsi contro il “padre-logos” (“La farmacia di Platone”). Che la metafisica sia sorta entro un orizzonte culturale che si avvale di una scrittura fonetica è un dato storico non secondario, poiché solo una scrittura fonetica avrebbe potuto consentire il sorgere di una concettualità in cui opposizioni come senso/lettera, spirito/materia, intelligibile/sensibile, verità/errore fossero sovrapponibili con quella voce/scrittura. Ma tutti i tentativi di relegare la scrittura a una funzione secondaria, accessoria e subordinata non sarebbero altro che tentativi di difesa dalla sua potenziale carica sovversiva, eversiva; che insomma nella vicenda della scrittura operi una sorta di “rimozione” è provato secondo Derrida dal fatto che, in realtà, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc. La decostruzione sfrutta il potenziale sovversivo – o quantomeno dislocante – di questi elementi scritti ma non dicibili, poiché essi consentono di operare differenze di senso inaudite, che segnano uno scarto rispetto al dominio fonologocentrico: ne vedremo un esempio – possiamo dire l’esempio – nel caso deella scrittura del termine différance.
DIFFERENZA, TRACCIA E SUPPLEMENTO
Nell’analisi genealogica della filosofìa socratico-platonica, condotta in “La farmacia di Platone”, Derrida mostra un’attitudine tipicamente nietzscheana. Ma l’emergenza del tema della scrittura sposta l’attenzione verso un ambito tematico più propriamente psicoanalitico: la messa in luce di uno schema familiare, al fondo della cosiddetta metafisica della presenza – schema in cui il logos occupa la posizione del padre – si avvale di tutto un armamentario interpretativo in cui concetti psicoanalitici come “rimozione”, “castrazione”, “sublimazione”, “pulsione di morte”, “coazione” ecc. giocano un ruolo di primo piano. L’analisi stessa del testo è condotta come un tentativo di individuazione di atti mancati, lapsus, mascheramenti, sintomi e brecce che la decostruzione sfrutta per inserirsi in sistemi che a prima vista – diremmo, nei loro “meccanismi di difesa” – appaiono solidi e inattaccabili. Di questa deriva psicoanalitica Derrida aveva dato una chiara anticipazione già in “La voce e il fenomeno”, scrivendo: ” ed è proprio intorno al privilegio dell’adesso, dall’adesso, che si svolge, in ultima istanza, questo dibattito, che non può somigliare a nessun altro, tra la filosofia, che è sempre filosofia della presenza, e un pensiero della non-presenza, che non è forzatamente il suo contrario, né necessariamente una meditazione dell’assenza negativa, anzi, una teoria della non-presenza come inconscio ” (“La voce e il fenomeno”). Questa teoria della non-presenza è riassunta nel concetto di “traccia”. La traccia (e qui Derrida riprende la definizione di Emmanuel Lévinas) è ” un passato che non è mai stato presente “, cioè la dimensione di un’alterità che non si è mai presentata ne potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: ” con l’alterità dell'”inconscio” abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati – passati o a venire – ma con un “passato” che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui “avvenire” non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente ” (“La diffèrance”). Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni: ” e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato “. Ed è infatti proprio questo l’esito principale consentito dalla nozione di traccia: quello di far intendere l’ordine del senso – della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l’insieme stesso della metafisica – come un ordine supplementare, radicalizzando con ciò quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che l’impresentabilità della traccia tende a far leggere ogni presentazione o rappresentazione come ciò che sta al posto della traccia “originaria”, la sostituisce, ne è insomma la scrittura, così come la coscienza, in un testo famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in “La scrittura e la differenza”, è la traccia “visibile” dell’inconscio. Questa “logica del supplemento” è ovviamente impensabile all’interno della logica (“Della grammatologia”): il supplemento supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa “appare”. ” Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c’è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento “. Una tale “logica del supplemento” o della traccia (supplementarità originaria) è quindi il “concetto fondamentale” di una nuova scienza (se essa fosse possibile), che Derrida chiama “grammatologia”: la grammatologia fa dell’essere dell’ontologia – di “ciò che c’è” – la traccia di ciò che “non c’è”, che non si presenta ne può mai presentarsi; la grammatologia costituisce in breve l’introduzione, all’interno dell’ontologia da sempre dominata dal principio di identità, di una differenzialità originaria, di uno scarto, di una cesura, che Derrida riassume nella nozione di différance. Una comprensione della nozione derridiana di différance – argomento di una famosa conferenza tenuta il 27 gennaio 1968 e poi compresa in “Margini” – non può che partire dal suo statuto di “scrittura”, dal modo in cui la parola stessa viene scritta, prima e piuttosto che dal suo contenuto “concettuale”: la sua “concettualità” è anzi tutta nella sua scritturalità. La différance è innanzitutto quel “lavoro” silenzioso che la scrittura opera al di là di ogni possibile concettualizzazione. Il termine francese usato da Derrida è volutamente scritto con la “o” anziché con la -e-, come sarebbe la sua forma corretta (différencè). Questa “violenza grafica” non ha conseguenze fonetiche percepibili, e perciò intelligibili: con ciò Derrida intende segnare uno scarto dal fonologocentrismo, ovvero dal privilegio del logos nel sistema concettuale dell’Occidente, di cui è diretta conseguenza – o addirittura causa – l’uso della scrittura fonetica. Privilegio del logos significa: a) privilegio del concettuale, del soprasensibile; b) solidarietà sistematica tra il concettuale (lo spirituale) e il fonetico (la voce, l’ascolto ecc.); e) centralità della coscienza nella fondazione della verità in quanto garante della prossimità tra il significante e il significato; d) condanna della scrittura in quanto possibilità di sviamento dalla verità, perché svincolata o pur sempre svincolabile dalla presenza di una coscienza; e) concezione della verità come rapporto a un’origine riattivabile; f) determinazione di questa origine come “presenza”. Con il suo lavoro “silenzioso”, la différance segna uno scarto rispetto a tutti questi punti, non però nella forma di una “opposizione”, bensì di un’alterità eccentrica rispetto al sistema oppositivo su cui si regola il logocentrismo. Questa eccentricità, è quella di un alterità non riconducibile all’identità, o meglio di un “luogo” altro come può essere l’inconscio o la “materia”. Si tratta di una collocazione che Derrida definisce a come “la voce media” (né…né…), e che nella parola stessa différance è espressa dalla terminazione -ance, propria di parole che, formate sul participio presente, restano sospese tra l’attivo e il passivo. Ma insieme al suo senso grammaticale, è il senso logico della terminazione media che qui importa: essa corrisponde alla forma indecidibile del “né…né… “, del tertium datur con cui e scardinata la razionalità metafìsica, fondata sui princìpi di non contraddizione e del terzo escluso. L’indecidibile è la “logica” stessa del decostruzionismo, un’ alogica che anziché scegliere tra due elementi opposti, appartenenti, per la loro stessa solidarietà sistematica, a un medesimo ordine concettuale, tende a farli collidere o a intrecciarli in maniera chiasmatica: il chiasma è la “x”, figura dell’incognita e della barratura dell’indecidibile. Da questo punto di vista la decostruzione è atetica, non approda cioè a nessuna tesi. La decostruzione della metafisica della presenza non può essere più radicale: non potendosi esprimere nella forma del discorso letico e apofantico “S è P” la decostruzione, attraverso l’indecidibile, si richiama a forme di discorso tradizione mente non apofantiche: quelle, come vedremo, dell’invocazione, del giuramento dell’invito, del ringraziamento, del perdono e finanche della preghiera Nella sua medietà, la provenienza terminologica dal participio del verbo différer allude al doppio significato, a un tempo sincronico e diacronico, di différance: 1) sincronico: la différance è da questo punto di vista una radicalizzazione (e perciò anche una decostruzione) di quel gioco sincronico delle differenze in cui lo strutturalismo saussuriano faceva consistere il significato. ” Nella lingua non ci sono termini positivi, ma solo differenze “, scriveva Saussure: è dal rapporto sincronico tra i vari termini, nel loro gioco differenziale, che si genera l’identità di un significato (è noto esemplo di Saussure della lettera “t”, che può essere scritta in mille modi diversi ma l’importante è che “non si confonda”, cioè si differenzi dalle altre lettere)- 2) diacronico-, la différance indica il movimento di “differimento” temporale (ritardo o anticipazione) che disloca continuamente l’origine in un altrove, in un luogo e in un tempo “altri”. Anche qui abbiamo a che fare con una radicalizzazione, quella della “differenza ontologica” heideggeriana, che si risolve iperbolicamente, e dunque paradossalmente, nella sua cancellazione: il senso ultimo (il significato trascendentale) non è “riappropriabile”, la differenza resta “assoluta”, e perciò cancellata (Derrida si richiama al proposito al concetto hegeliano di “differenza”, nella “Scienza della Logica”). Questo espacement (semento in sé privo di significato, ma condizione del significato: Derrida ricorda la funzione della spaziatura nella scrittura) indica quindi allo stesso tempo un differimento temporale e spaziale: ciò che è percepibile, intelligibile, cosciente ecc. non e che traccia di questo movimento, traccia della différance. In tal modo Derrida capovolge il sistema logocentrico, facendo del logos la traccia di un’origine perduta e portando m primo piano questo sistema di tracce in quanto scrittura. La scrittura è la traccia di un’origine assente, differenzialità pura, traccia che ha cancellato la sua origine come la ricerca della verità in Nietzsche, così la ricerca dell’origine giunge qui a un esito nichilistico, quello di risolvere o dissolvere il fondamento nel gioco dei rimandi senza termine ultimo. E, questa, quella nozione di “testualità generale” cui il decostruzionismo di Derrida è approdato e che ha avuto ampi sviluppi soprattutto in sede di critica letteraria.
LA TESTUALITA’ GENERALE
Concepito come un insieme di sostituzioni e di rinvii per i quali non è possibile alcun approdo ad una presenzialità ultimativa (un fondamento o un’origine che non siano a loro volta presi nel gioco differenziale), cioè come scrittura, il testo della metafisica assume i caratteri di ciò che Derrida chiama “testualità generale”. La testualità generale è la conseguenza, in sede linguistico-semantica, dell’affermazione nietzscheana della “morte di Dio”: essa comporta la cancellazione del significato e del significante trascendentali (come ancora per l’ermeneutica del primo Heidegger poteva essere l’essere), il loro “sprofondamento” (“mise-en-abìmè”) o la loro “messa in disparte” (“mise a l’écart”), cancellazione che Derrida accompagna con un atteggiamento che ricorda non a caso quello del nichilismo compiuto e dell’oblio attivo:
” Non vi sarebbe alcun nome unico, foss’anche il nome dell’essere. Ed occorre pensarlo senza nostalgia, cioè fuori dal mito della lingua puramente materna o puramente paterna, della patria perduta del pensiero. Occorre al contrario affermarlo, nel senso in cui Nietzsche mette l’affermazione in gioco, con un certo riso e con un certo passo di danza ” (“La différance”).
L’elisione del significato trascendentale è intesa come rapporto con un nulla: e se “non c’è nulla fuori del testo” ad arrestare il rinvio, il testo non è che una deriva di sensi, vale a dire disseminazione. Il vocabolo “disseminazione” è assunto da Derrida mettendo consapevolmente in comunicazione due termini tra cui non c’è etimologicamente alcuna parentela: “sema” e “semen”. Ma proprio questo “slittamento” e questa “collusione puramente esteriore”, questa esplicita “devianza dal voler-dire”, fanno del termine “disseminazione” una parola particolarmente adatta a significare quella dispersione del senso (“sema”) che, come nel caso della semente (“semen”), è sempre inscritta in ogni aspettativa di fruttificazione. La disseminazione non è quindi la polisemia: mentre la polisemia è sempre in qualche modo irreggimentabile, controllabile (diremmo: ubbidisce a un qualche “principio di realtà”), la disseminazione non è mai riconducibile all’ordine, si abbandona a un “principio di piacere” dispersivo che ha un rapporto necessario con il godimento e con la pulsione di morte. Nella sua mancanza di un principio ordinatore, la disseminazione configura il testo (e qui la differenza tra “linguaggio” o “scrittura” e “realtà” viene completamente a cadere) come una serie di innesti, ibridazioni, formazioni “mostruose”, che costituiscono una contestazione quanto mai radicale di due assunti della razionalità metafisica: 1) quello dell’identità e dell’identificazione, della possibilità di “definire”, operazione rassicurante che tende a difendere dall’alterità, a rimuoverla. In “Spettri di Marx” Derrida assimila la stessa ontologia al bisogno di identificazione (a tutti i livelli, da quello logico a quello politico), di purezza contro ogni forma di contaminazione, come difesa dall’evenienza dell’altro, il che si configura come un lavoro del lutto mai finito, e in particolare come difesa dalla sua possibilità di ritorno. L’identità si costituisce a prezzo di un’esclusione. Si tratta di un orizzonte – quello di una “ontologia” del fantasma (in francese “revenant”) – che Derrida chiama hantologie , termine formato sul francese “hanter”, che significa principalmente “ossessionare” (una casa “hantée par les fantomes” è una casa abitata dai fantasmi): la hantologie non è altro che la stessa grammatologia. Si capisce bene come, lungi dall’essere “rassicurante”, una tale hantologie sia invece inevitabilmente perturbante: il riferimento al saggio di Freud “Il perturbante” – in cui Freud analizza quel particolare fenomeno per cui in una situazione familiare si prova improvvisamente e inspiegabilmente una sensazione di “estraneità” e che ha molto a che fare con l’ossessione fantasmatica – è in Derrida esplicito; 2) quello della “linearità del significante, principio fondamentale dello strutturalismo, con cui viene sancito il rapporto di interdipendenza tra la scrittura fonetica e una certa concezione della temporalità come successione lineare, discreta, di istanti. Il testo come ibrido si presta invece a una lettura molteplice, su vari livelli e in più direzioni (possibilità che Derrida riscontra ad esempio nella scrittura ideografica, che non è fonetica), perché non assoggettabile a un centro unico, a una direzione principale, a un significato egemone. Si tratta di una concezione che, nella sua forma radicale – spesso praticata da Derrida come possibilità di leggere un testo in più modi diversi (sempre in “Spettri di Marx”, la non identificabilità ultima del senso fa sì che esso sia sempre più d’uno) – ha portato a una deriva interpretativa non priva di problematicità. I presupposti strutturalisti – antifenomenologici e antiermeneutici – di questo discorso sono chiari: lo strutturalismo ha inteso il processo di significazione come funzione del sistema, e quindi come indipendente dall’intenzionalità di un soggetto o di una “coscienza”, come un processo impersonale e quasi meccanico. La testualità generale come disseminazione è quindi il risultato di una doppia breccia che la decostruzione opera nella tradizione filosofica: contro l’idea fenomenologico-ermeneutica della coscienza come luogo in cui il senso trova il suo aggancio, o la sua possibilità di riattivazione, al di là di ogni possibile perdita (e ciò, abbiamo visto, è conseguenza della critica derridiana al logocentrismo), e contro l’idea strutturalista che fa del sistema un principio ordinatore in cui la differenzialità è allo stesso tempo comunque condizione di identificazione (di definizione, di istituzione di un limite), conseguenza, questa, dell’inserimento nelle nervature apollinee dello strutturalismo di una forza dionisiaca allergica a qualsiasi forma. Alcune affermazioni di Derrida consentono però di circoscrivere la deriva interpretativa della decostruzione: come scrive ad esempio in “Firma evento contesto”, ” in questa tipologia, la categoria di intenzione non scomparirà, essa avrà il suo posto, ma da questo posto, essa non potrà più comandare tutta la scena e tutto il sistema dell’enunciazione “. Non si tratterebbe dunque tanto della semplice eliminazione di un termine o di una funzione che nella storia della metafisica ha giocato un ruolo fondamentale (anzi Derrida mette in guardia contro il carattere semplicistico di una tale operazione), ma di negare ad esso una tale fondamentalità, un ruolo egemonico, trascendentale, vale a dire astorico. Se il conflitto fra Dioniso e Apollo non può essere risolto attraverso un rapporto di subordinazione o di rimozione è perché esso è la storia stessa, e cioè, m un senso paradossale perché ossimorico, la condizione trascendentale della storia: ” la divergenza, la differenza tra Dioniso e Apollo, tra lo slancio e la struttura non si cancella nella storia, poiché essa non è nella storia. È anch’essa, in un senso insolito, una struttura originaria: l’apertura della storia, la storicità stessa ” (“Forza e significazione”). Questo passaggio ci permette alfine di individuare il punto in cui il gioco differenziale, il tessuto di rinvii che caratterizza la testualità generale, assume una connotazione storica, riportando in primo piano il senso temporale della nozione di différance. La storia è una rete di rinvii, di invii, di destinazioni (è evidente la risonanza dell’associazione heideggeriana tra Geschickte, storia, e Geschick, invio o destino), ma, conformemente al carattere non unitario, ma ibrido, frutto di una serie di innesti senza corpo principale, della testualità generale, in tale concezione della storia non è possibile ravvisare alcun “telos” fondamentale, alcun destino (come la heideggeriana “storia dell’essere”), concezione che sottolinea una volta di più uno dei caratteri più marcatamente postmoderni della filosofia di Derrida: ” se la posta (tecnica, posizione, metafisica) si annuncia al ‘primo invio’, allora non vi è più LA metafisica ecc. […] e nemmeno L’invio, ma degli invii senza destinazione. Poiché ordinare le diverse epoche, soste, determinazioni, insomma tutta la storia dell’essere, a una destinazione dell’essere, è forse l’illusione postale più inaudita. Non c’è nemmeno la posta o l’invio, ci sono le poste e gli invii. […] In breve, non appena vi è, vi è différance […]; e vi è ordinamento postale, relais, ritardo, anticipazione, destinazione, dispositivo telecomunicante, possibilità e quindi necessità fatale di dirottamento ecc. ” (“Envois”). Questa concezione della storia rappresenta una sorta di iperbolizzazione delle due assenze strutturali della scrittura: assenza del destinatore (mittente) e assenza del destinatario (ricevente). La storia è davvero quel testo generale il cui senso non è mai definitivamente dipendente da una coscienza, poiché una coscienza non può mai dominarla: se la scrittura ha una dimensione imprescindibilmente testamentaria, è perché nessuna coscienza vivente le può mai sopravvivere, salvaguardandone il senso, secondo una pretesa che, come abbiamo visto, appare piuttosto come un tentativo di rimozione e che agiva nella condanna socratico-platonica, e idealistica in generale, della scrittura.
LA DEMOCRAZIA A VENIRE
Dalla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento l’interesse di Derrida si è sempre più spostato verso temi etici e politici, ancora una volta affrontandoli in maniera poco tradizionale, cioè con uno stile in cui poco spazio è lasciato alla “teoria” e che può essere inteso solo alla luce dei presupposti fondamentali della decostruzione. Gli anni Ottanta costituiscono un periodo di particolare vivacità a livello filosofìco-politico, poiché in essi si sviluppa quel dibattito tra moderno e postmoderno che coinvolge anche il decostruzionismo, e il cui avvio è segnato dal discorso di Jürgen Habermas, “Il moderno: un progetto incompiuto”, pronunciato nel 1980 in occasione del conferimento del premio Adorno. Secondo la tesi di Habermas, il postmoderno sarebbe contraddistinto dalla rinuncia all’ideale emancipativo della modernità, le cui radici si trovano nel razionalismo illuminista, ripiegando verso una forma ambigua di neoconservatorismo, che caratterizzerebbe soprattutto la filosofia francese contemporanea e i cui ispiratori sarebbero principalmente Nietzsche e Heidegger. Come si è detto, la curvatura politica è, come afferma lo stesso Derrida, assolutamente inscindibile dalla pratica decostruttiva: questo perché ogni struttura oppositiva (originario/derivato, modello/copia ecc.) che la decostruzione tende a scardinare non si presenta mai come una mera contrapposizione di termini, collocati su uno stesso piano e quindi con una stessa dignità assiologica, ma costituisce l’instaurazione di una forma di dominio dell’uno sull’altro, di subordinazione. D’altra parte, non si dà una condizione del pensiero che non sia al tempo stesso interconnessa con momenti istituzionali, che si tratta di comprendere e di disarticolare: l’impegno di Derrida nel GREPH (Groupe de recherches sur l’enseignement philosophique) per contestare la riforma Haby-Giscard, mirante a eliminare l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi a partire dal 1981, o nel College Intemational de Philosophie, un’istituzione volutamente atipica, è a tal riguardo significativo (alla riflessione sulle implicazioni filosofiche delle istituzioni e istituzionali del lavoro filosofico Derrida ha dedicato un libro che costituisce anche un importante documento di questi suoi impegni, “Du droit à la philosopbie”, 1990). Addirittura nella stessa nozione di différance è possibile rintracciare in nuce il potenziale etico-politico della decostruzione, attenta a denunciare ogni sistema di potere e di repressione dell’alterità attraverso un’azione sovversiva: ” [la différance] non governa su nulla, non regna su nulla e non esercita da nessuna parte alcuna autorità. Non si annuncia con una maiuscola. Non solo non vi è un regno della différance, ma essa istiga alla sovversione di ogni regno ” (“La différance”). La maniera con cui la différance contesta le forme del dominio è la sua stessa natura atetica e indecidibile: l’indecidibilità teorica è nel decostruzionismo il punto in cui si accumula la sua carica sovversiva, poiché, anziché occultarlo, apre davvero lo spazio della decisione, mostrando come ogni risoluzione dell’indecisione non sia frutto di una constatività teoretica, ma di una performatività, di un atto istitutivo, tetico. Secondo Derrida, alla base di ogni legittimazione non c’è mai una semplice descrizione, una constatazione, un fatto (come ad esempio la natura, a fondamento dei diritti umani), ma sempre un atto di decisione, una scelta performativa (il riferimento è alla teoria di Austin degli “atti linguistici”): ogni legittimazione istituzionale non può non implicare una filosofia. L’esplicitazione di un nucleo performativo all’interno di atti che si pretendono constativi è un passaggio importante, poiché non è che la messa in evidenza, da un altro punto di vista, del limite intrinseco della constatività pura, e cioè del privilegio logico della forma enunciativa. Sempre più, come si è anticipato, il linguaggio di Derrida si discosta dalla forma apofantica per assumere, non solo come proprio tema di indagine, ma anche come proprio medium espressivo, forme non apofantiche come invocazioni, giuramenti, imperativi, esortazioni, ringraziamenti ecc. Ne è prova l’espressione in cui Derrida concentra tutto un insieme di “concetti” e che ritorna sempre più spesso nei suoi ultimi scritti, e cioè “Viens!”. “Viens!” è un’invocazione, l’invocazione rivolta a un “tu”, e quindi assolutamente non inscrivibile nella logica apofantica, che privilegia la terza persona. Questo “tu” è l’altro, il quale può solo essere lasciato venire. “Viens!” significa un’apertura all’altro al di là di qualsiasi calcolo, programmazione, riassimilazione, prima di ogni identificazione e presentificazione. Polemizzando con la nozione heideggeriana di Ereignis come implicante ancora un tentativo di appropriazione (eignen), Derrida scriveva già nella conferenza sulla Différance: ” se la donazione di presenza è proprietà dell’ereignen […], la différance non è un processo di propriazione in un senso quale che sia. Essa non è ne la posizione (appropriazione) nè la negazione (espropriazione), ma l’altro “. L’altro sfugge a ogni tentativo di appropriazione, è lo straniero che si invita a venire, e per il quale Derrida auspica una politica dell’ospitalità. Insieme all’analisi dei fenomeni di identificazione nazionale, la riflessione sul tema dell’ospitalità costituisce uno dei momenti principali della speculazione politica di Derrida. Gramma costitutivo di questa riflessione è la coppia amico/nemico, e cioè ospitalità/ostilità. Derrida nota – appoggiandosi su riferimenti linguistici e sulla storia delle istituzioni – la parentela tra i termini hostis (straniero o nemico) e hospes (ospite, invitato), che ha dato origine a rapporti chiasmatici, a contaminazioni, a veri e propri intrecci tra l’essere ospite e l’essere straniero, l’essere amico e l’essere nemico (soprattutto in “Politiche dell’amicizia”), in cui etica e politica si oppongono e si associano continuamente. Ma il pensiero a cui Derrida impronta maggiormente questa sua riflessione è quello di Emmanuel Lévinas. Nel confronto con Emmanuel Lévinas – a cui Derrida riconosce, seppure con una certa presa di distanza, un debito particolare – il rapporto etica-politica emerge in tutta la sua problematicità. Tale rapporto non può più essere inteso come mera antecedenza dell’etica sulla politica, nella misura in cui l’etica stessa è ecceduta da un evento, l’evento politico, che accade – viene- prima ancora che un’etica sia pronta a recepirlo. In questo capovolgimento è possibile forse vedere la ripresa di un tema heideggeriano – quello del dato che precede ogni orizzonte di trascendentalità – rispetto alla problematica fenomenologica dell’intenzionalità: prima di ogni “coscienza di”, e quindi di ogni accoglienza (Lévinas, sottraendola all’orizzonte riflessivo husserliano, aveva definito l’intenzionalità come “accoglienza del volto, ospitalità e non tematizzazione”), un dato è lì – c’è o accade -, chiedendo di essere “ricevuto”, “accolto”. Si tratta del passare dell’altro che, scrive Derrida, ” ha già superato la soglia, non attendendo né invito né ospitalità né accoglienza “. La sua visita ” eccede ogni relazione dialogica da ospite a ospite. […] La sua effrazione traumatizzante deve aver preceduto ciò che normalmente chiamiamo ospitalità, precedendo persino, sebbene esse già appaiono sconvolgenti e pervertibili, le leggi dell’ospitalità ” (“Addio a Emmanuel Lévinas”). L’antecedenza del dato è, per Derrida, quella di una visitazione che viene senza preavviso, evento politico che precede e che anzi chiama a un’etica e, soprattutto, a un diritto dell’accoglienza, oggi sempre più urgente per il moltiplicarsi delle effrazioni di quelle soglie che sono i confini tra gli Stati, e di cui è emblema la vicenda politica stessa dello Stato di Israele. Una tale visitazione non solo è destinata a sconvolgere – o a decostruire – la definizione attuale del politico, ma anche quella del soggetto: esso, scrive Derrida, è infatti già ospite, anzi ostaggio, perché a sua volta accolto nel luogo in cui abita, perché già da sempre, e inevitabilmente, ” emigrato, esiliato, straniero ” nel luogo stesso in cui dimora. La politica dell’ospitalità – che Derrida proclama con particolare attenzione ai fenomeni contemporanei di attraversamento delle frontiere, da quelli “normali” dovuti alla cosiddetta “globalizzazione” o a emigrazioni fisiologiche a quelli “eccezionali” dovuti a movimenti di profughi, a spostamenti o deportazioni etniche, di cui le vicende di fine Novecento hanno offerto numerosissimi esempi (dal Ruanda al Kosovo) – sarebbe così il fondamento di una ” democrazia a venire ” che non intende chiudersi sullo stato di fatto delle democrazie occidentali, ma che vuole dischiuderle appunto sull’avvenire, su un futuro che – come è esplicito nel concetto di “traccia”, nel quale Derrida sintetizza quel che per lui è il rapporto con l’alterità – non è ne sarà mai presente: non a caso la nozione di “traccia” è mutuata da Emmanuel Lévinas, la cui riflessione etica è tutta centrata su una fenomenologia dell’altro. È questo del resto uno dei tratti più marcatamente ebraici del pensiero derridiano, che hanno un peso importante nella sua concezione politica: il problema dell’alterità inappropriabile, a partire da cui soltanto è possibile pensare una politica e ogni forma di relazione etica (come l’amicizia), conferisce al discorso di Derrida i toni del messianismo, o meglio, come lui stesso lo definisce in “Spettri di Marx”, di un deserto messianico, un messianismo desolante perché non ha alcuna Terra promessa, alcun luogo, in cui acquietarsi. Poiché, se una democrazia a-venire vuole davvero rispettare l’alterità dell’altro, non può mai preventivamente identificarlo, non può mai dire “che cosa” esso sia, non può pretendere di sapere che cosa avverrà, non può anticiparlo, può solo accoglierlo come si accoglie un ospite inaspettato: ” senza questa desolazione, se proprio si potesse contare su quel che viene, la speranza non sarebbe che il calcolo di un programma. Se ne avrebbe la prospettiva, ma non si attenderebbe più nulla ne nessuno. Il diritto senza la giustizia “.
L’AVVENIMENTO DELLA SCRITTURA
Il modello di testo che propone Derrida non è più omogeneo e padroneggiabile dall’autore che lo ha scritto, ma piuttosto strutturato in modo plurale e differenziale, pensabile come un tessuto di tracce e rinvii che ne fanno una manifestazione eventuale, un punto in perpetua trasformazione di un originario movimento di scrittura che impedisce qualsiasi sua riduzione ad una semplice forma di presenza. In realtà il proposito di Derrida sarà proprio quello di mostrare come ogni possibilità di presenza, di pienezza, di significato appartenga da sempre al movimento della significazione, ovvero a quell'”apertura della prima esteriorità in generale” che lega costitutivamente ogni presenza alla non-presenza dell’altro, ogni vita alla morte, ogni dentro ad un fuori. Per comprendere correttamente la sua prospettiva non si dovranno però intendere tali termini all’interno di semplici strutture oppositive, che li ricomprenderebbero all’interno di una logica dell’identità, quanto piuttosto si dovrà tentare di pensarli come coppie che si sollevano da quel fondo, da quella “riserva” costituita dal modo di accadere della traccia (che è già doppia, mai semplicemente se stessa, sempre eccedente, rinviante ad altro), dal quel gioco che si crea tra i segni di un testo e che corrisponde al lavoro attivo e supplementare della dif-ferenza, ovvero alla legge strutturale anonima, eccentrica e nascosta che è sottintesa ad ogni movimento significante. Al fine di ritrovare tale funzionamento autonomo dell’operazione testuale, Derrida propone così una pratica di lettura che, invece di proteggere i testi e di riconfermarli nella chiusura secolare da cui è nata la metafisica logocentrica e fonocentrica, li percorra sotterraneamente per aprirli dall’interno, guardando attraverso quella fessura che tali limitazioni, nonostante tutto, lasciano intravedere. L’intero progetto della Grammatologia può essere letto come un tentativo di decostruzione di quelle figure concettuali della metafisica occidentale che, formatesi in un preciso momento storico ed organizzatesi tutte attorno alla centralità di determinati nomi e forme verbali (quali ad esempio prossimità, immediatezza, voce, essere…), hanno assunto nel tempo una consistenza e una solidità tali da apparire come innocenti descrizioni linguistiche di strutture naturali ed eterne. Il testo in particolare si apre con l’annuncio di un movimento del linguaggio appena percettibile, quello del “significante del significante”, della lingua come scrittura, per cui essa, da semplice ed inconsistente doppio, “comincerebbe a debordare l’estensione del linguaggio”, a comprenderlo e a contaminare con la sua esteriorità ogni possibilità in generale di significato: “L’avvenimento della scrittura è l’avvenimento del gioco; il gioco oggi si riconsegna a se stesso, cancellando il limite a partire dal quale si è creduto di poter regolare la circolazione dei segni, e trascinando con sé tutti i significati rassicuranti, costringendo alla resa tutte le piazzeforti, tutti i rifugi del fuori-gioco che vegliavano sul campo del linguaggio” Tale avvenimento significa innanzitutto l’inizio della delimitazione dell’epoca metafisica, dominata dal privilegio della phonè, ovvero da un sistema linguistico che crede nella trasparenza e nella naturalità della sostanza fonica, nella vicinanza della voce alla presenza piena, e che da tale illusione produce l’idea di un senso esistente anteriormente, che non ha bisogno del significante per essere ciò che è, che può “aver luogo”, nella sua intelligibilità, prima della sua “caduta” fuori, della sua trascrizione verbale e sensibile. In tale struttura logocentrica la scrittura (come evidentemente appare nell’ideale della scrittura fonetica) scadeva al ruolo di tecnica rappresentativa, di strumento pratico per la traduzione di una parola piena e pienamente presente a sé e al suo significato. L’operazione di Derrida tenterà di mostrare invece come non solo tale concetto di scrittura abbia una portata storicamente limitata all’epoca della nostra cultura onto-teologica, ma che costituisca anzi la condizione stessa della possibilità dell’apparire e del mantenersi di tale epoca, “che si avvicinerebbe ora a ciò che è propriamente il suo esaurimento”. Esempio illuminante che testimonia questo stato dei fatti è quella che Derrida chiama ” la morte della civiltà del libro “: l’idea del libro è infatti quella di un luogo che riunisce in una presenza simultanea la totalità del significante, che può essere tale solo a patto che gli preesista una totalità di significato (“il libro della natura” o di Dio) che ne regoli così la sua iscrizione; è con tale operazione di “protezione enciclopedica” che l’epoca logocentrica si è opposta all'”energia dirompente, aforistica della scrittura”, si è garantita cioè la possibilità della sua stessa sopravvivenza. “Ma se il Libro fosse solo, in tutti i sensi dell’espressione, un’epoca dell’essere…se la forma del libro non dovesse più essere il modello del senso?”, solo in tal modo potrebbe farsi strada la possibilità di un illegibilità radicale, originaria, non più in relazione ad una leggibilità perduta o non trovata, ma anteriore alla stessa epoca del libro. L’annuncio della distruzione del libro rientra nel più ampio proclama della ” morte della parola “, della scomparsa “del primo significante”, del privilegio dell’ espressione orale come luogo di produzione dei primi simboli “in prossimità assoluta con l’essere”, nelle vicinanze immediate con un senso interamente leggibile, e che permette di preservarlo dal movimento corrosivo ed ambiguo del processo della significazione. Il modello di questo logos puro e naturale è contemporaneo all’epoca teologica, “il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita”: come il verbo divino è parola assoluta di una soggettività creatrice infinita, che crea le cose solo nominandole, così il linguaggio della metafisica, anche se espresso tramite un soggetto umano e finito, disponendo della voce come significante puro, è ancora pensabile in un rapporto immediato con il senso. Quando poi, al momento dei grandi razionalismi del XVII secolo, si costituirà l’idea di una soggettività come presenza assoluta a sé, come coscienza intuitiva che avviene nell’evidenza di sé, tale logos corrisponderà alla voce interiore della coscienza che intende se stessa, all’espressione spontanea della propria verità ed interiorità che non trae dal di fuori nulla, e che fonda perciò la possibilità di un’esperienza originaria di un significato che si produce in un’ideale cancellazione del significante: “nella chiusura di quest’esperienza la parola è vissuta come l’unità elementare e indecomponibile del significato e della voce, del concetto e di una sostanza d’espressione trasparente”. Di contro a questa parola se-dicente, ad un “logos che crede di essere padre di se stesso”, parola della vita (interiore) che sfugge al movimento del segno, la scrittura appare sempre seconda, istituita, “lettera morta e portatrice di morte”, scrittura “del di fuori”, perversa ed artificiosa, esiliata nell’esteriorità del corpo e delle passioni, ovvero in quel luogo ove si sono emarginate tutte le minacce all’unità del senso. Sulla scorta del pensiero nietzscheano, Derrida vede invece nella scrittura (e nella lettura) un’operazione “originaria” nei confronti del senso (il che non vuol dire, per semplice inversione, “che il significante sia ora fondamentale o primo”), il rischio permanente che minaccia di “spezzare il nome”, di immobilizzare nella ripetizione della lettera la creazione spirituale nella parola, di interrompere con uno sdoppiamento l’unità privilegiata e immediata del suono e del senso nella voce. Benché infatti l’intenzione dichiarata dell’ideale di scrittura fonetica sia evidentemente quella di proteggere “l’integrità del “sistema interno” della lingua” dall’esteriorità della notazione, dal pericolo della raffigurazione, di fatto succede che essa da sempre non vi riesca: “quel modello particolare che è la scrittura fonetica non esiste; mai una pratica è fedele in modo puro al suo principio”. Il fuori, ciò che dovrebbe rappresentare l’accidentale, l’inessenziale rispetto al dentro, alla logica interna ed interiore della parola, viene in realtà spesso analizzato con accenti che tradiscono una paura ingiustificabile verso ciò che dovrebbe solamente aggiungersi in modo esteriore ad una lingua inalterabile ed indipendente nella sua essenza. Il “vestito” della parola si trasforma così in travestimento, intrattenendo un rapporto con la sostanza che ri-copre “che è tutto meno che di semplice esteriorità”, producendo piuttosto una serie di ambigui e al tempo stesso seducenti effetti di “inversione e perversione” tra immagine e cosa, tra grafia e parola, tra significante del significante e significante del significato: “in questo gioco della rappresentazione, il punto d’origine diventa inafferrabile”; la “perversione” di questo rincorrersi di rimandi risiede proprio nell’allontanare indefinitamente la possibilità di risalire chiaramente alla fonte e nel lasciar invece apparire solo l’avvicendarsi dei rinvii di specchi che sdoppiano in se stessi ciò che riflettono, facendo perdere la semplicità e la singolarità della sorgente. Il punto è che per Derrida “l’usurpazione ci rimanda necessariamente a una profonda possibilità d’essenza”, mettendoci ormai nella situazione di intravedere come tale operazione di inversione e di disseminazione non appartenga solo alla scrittura, non colga indebitamente, pervertendolo, l’ordine “naturale” di un linguaggio puro ed innocente, ma costituisca il modo di accadere proprio di ogni significanza: “la scrittura non è segno di segno, salvo dire questo, il che sarebbe più profondamente vero, di ogni segno”. Una volta preso atto di quella che Saussure denomina l'”arbitrarietà del segno”, dell’istituirsi immotivato e convenzionale di uno spazio di iscrizione e distribuzione di differenze regolato da leggi autonome, si dovrebbe ormai essere nelle condizioni di escludere ogni possibile gerarchia o privilegio tra ordini di significanti. Superata la nozione di segno come immagine, come figura legata da rapporti di somiglianza con ciò che rappresenta, e quindi chiarito il funzionamento della lingua e della scrittura facendo riferimento alla capacità autonoma di sostenersi propria dei sistemi di segni, dovremmo ora esser nelle condizioni storiche di ammettere la “possibilità di un sistema totale di segni”, in cui il collegamento tra significanti non è più modellato sul legame lineare che univa il suono al senso, ma avviene attraverso una “rete pluridimensionale” di rimandi, e lo apre così ad essere investito da ogni direzione possibile di ogni possibile senso. Da qui il ricorso di Derrida alla nozione di traccia istituita per decostruire il concetto logocentrico di segno, e per offrirci un punto di vista non più fonocentrico entro cui elaborare un modo per concepire l’accadere della scrittura. La traccia è in primo luogo immotivata, il che non significa che sia in balia dell’uso dei singoli soggetti parlanti, ma semplicemente che non ha “nella realtà alcun “aggancio naturale” col significato”, ovvero che non è vincolata da alcun legame che in maniera necessaria, sicura, univoca le assicuri un unico modo di rinviare ad una presenza unitaria. Essa rappresenta la possibilità dell’annunciarsi del “totalmente altro” come tale, cioè dell’accadere, in ciò che non è esso stesso, di qualcosa il cui modo di esistere è “senza alcuna semplicità, alcuna identità..”. La differenza, infatti, per apparire come tale, non può mai presentarsi in maniera piena, ma solo nella dissimulazione del suo “come tale”, ovvero attraverso una struttura di rimando in cui si segna il rapporto all’altro non disponendosi nella presenza del significato, ma piuttosto nel differimento, ovvero nel modo proprio della traccia. In questo movimento del differire, la peculiarità del significante è quello di prodursi incessantemente come struttura di rinvio, di distrarsi continuamente da sé, di non essere mai prossimo, vicino, nella pienezza di sé. “Ciò che inaugura il movimento della significazione è ciò che ne rende impossibile l’interruzione. La cosa stessa è un segno”: per Derrida una volta inaugurata la possibilità del senso, esiste solo il differimento dei segni, ovvero il gioco di rinvio di strutture doppie che funzionano solo in una rete di infinite potenzialità di significazioni, mai nella semplicità dell’ evidenza intuitiva, nell’esperienza fenomenologica della forma pura della presenza. Una volta chiarito da Saussure come la condizione del “valore linguistico”, ovvero del potere di significazione del segno, risieda nel suo carattere differenziale, nel suo apparire solo entro una struttura di opposizioni, e superato a partire proprio da questa stessa direzione il pregiudizio fonocentrico, Derrida può suggerire, attraverso la nozione strategica di traccia, l’ ipotesi di un linguaggio che sia sempre stato nelle condizioni della scrittura, segno di segno e mai parola piena. Ed è in tale scrittura totale (o archiscrittura) che si dovrà vedere la possibilità generale di ogni movimento di significazione, di ogni articolazione differenziale tra i segni e di ogni rapporto all’altro. D’altra parte, il pensiero della traccia come “origine assoluta del senso”, come “dif-ferenza che apre l’apparire e la significazione”, ma che è essa stessa già da sempre in posizione di traccia, mai semplice presenza di senso, equivale anche al dire che non c’ è alcuna origine assoluta del senso, alcun fondo anteriore, esistente solo come presenza piena e sottratto alla condizione del rinvio ad un passato, ad un qui-da-sempre, che la traccia ritiene sempre in sé: “lo strano movimento della traccia annuncia tanto quanto ricorda”. Non potendo perciò ricorrere a concetti metafisici organizzati tutti sulla semplicità e sull’omeogeneità della presenza, si mostra come l’accadere della struttura della traccia non potrà prestarsi ad alcuna descrizione scientifica e positiva, a meno di tradirne la sua radicale passività, il suo rapporto costitutivo ad un passato assoluto che non potrà mai essere restituito all’evidenza della presenza. Un altro modello utile ad illustrare l’accadere decentrato di un linguaggio non più dominato dal privilegio della voce è per Derrida quello offerto dalla “scrittura teatrale”, visiva, immaginifica dei sogni: la parola, infatti, riveste nella sintassi onirica un ruolo paritetico agli altri elementi della messa in scena, ridiventando un gesto, un segno corporeo che non fa più da semplice tramite per un concetto, ma che si impone come una forma dotata di una fisicità che può avere un volume, effetti seduttivi ed emanazioni sensibili. Tale scrittura psichica, più simile ad una geroglifica che ad una fonetica, è scrittura originale, primaria, irriducibile nel suo funzionamento a subordinata e posteriore trasposizione di una parola viva e piena, comportando aspetti ideogrammatici, pittografici, pluridimensionali e visivi che nella linearità della parola orale, della “catena parlata”, tendono ad appiattirsi, fino a scomparire. Anche dalla radicalizzazione di questo modello, dal decentramento rispetto alla metafisica della presenza in cui è ancora immerso, per Derrida si offre indirettamente la possibilità di attingere al senso di ogni scrittura in generale come a quello di un movimento della traccia, che, pur operando con elementi comunque codificati (lungo il corso di una storia individuale e collettiva), è costitutivamente cancellazione di sé, non permette di essere avvicinata da alcun codice di lettura che la esaurisca. Ogni segno, verbale o non-verbale, può funzionare infatti a diversi livelli, entrando in configurazioni che non sono “prescritte” da una sua essenza, ma che scaturiscono dal gioco incessante della differenza, dal suo essere preso in una rete pluridimensionale di rimandi percorribile in direzioni non prestabilite. I segni così appaiono articolati come degli “indovinelli figurati”, come dei rebus mai leggibili a partire da una chiave interpretativa universale; così come avviene per colui che sogna, ogni esperienza inconscia “inventa la propria grammatica”, “produce i propri significanti”, introducendo nelle sue operazioni un “residuo puramente idiomatico”, un “corpo verbale” che inaugura ogni volta una nuova significanza e limita così definitivamente ogni possibilità di traduzione. Essendo quindi la materialità, il corpo dell’espressione verbale a lavorare ed agire nel sogno, ad imporsi e a non lasciarsi attraversare o trascurare a favore del significato (come avviene invece nel discorso cosciente), appare chiaro come qualsiasi sua traduzione completa sia impossibile, dovendo ogni passaggio ad un altro significante lasciar cadere proprio il corpo all’ opera. Messe in relazione al soggetto parlante, la passività della traccia e la sua struttura differenziale ci rimandano all’incoscienza fondamentale del linguaggio, al radicamento della parola cosciente nella lingua che la eccede e la costituisce; ma per evitare il semplice rovesciamento di una metafisica della soggettività in una speculare “metafisica della scrittura”, Derrida sottolinea che “Costituendolo e dislocandolo ad un tempo, la scrittura è altro dal soggetto, in qualsiasi senso lo si intenda. Essa non potrà mai essere pensata sotto al sua categoria; in qualsiasi modo modificata, sia essa affetta in modo cosciente o inconscio, essa sarà legata, per tutto il filo della sua storia, alla sostanzialità di una presenza impassibile sotto gli accidenti, o all’ identità del proprio nella presenza del rapporto a sé” Per descrivere la situazione di un soggetto che è consegnato a un linguaggio che continuamente lo disperde è esemplare a questo proposito per Derrida la figura del poeta, l'”uomo della parola e della scrittura” per eccellenza. Egli è al tempo stesso il soggetto del libro, la sua sostanza e il suo padrone, e il suo oggetto, suo servitore e tema. Mentre il libro è articolato dalla voce del poeta, il poeta si trova ad essere modificato e letteralmente generato dallo stesso poema di egli cui è il padre, ma che producendosi si spezza e si piega su se stesso, diventando soggetto in sé e per sé: “la scrittura si scrive, ma insieme si immerge nella propria rappresentazione”. In questa situazione, l’unica esperienza di libertà a cui il poeta può accedere, la sua “saggezza” consiste tutta nell’attraversare la sua passione, ovvero nel “tradurre in autonomia l’obbedienza alla legge della parola”, nel non lasciarsi sopraffare, abbassare a semplice servitore del libro. L’unica forma di libertà a cui può accedere un uomo che appartiene radicalmente, visceralmente ad un tradizione linguistica, sarà allora quella che passa attraverso il riconoscimento dell’essenzialità, della costitutività dei propri legami; tale “identificazione” però, per essere emancipante, non può implicare la chiusura, la semplice delimitazione di uno spazio a cui si deve appartenere in maniera esclusiva, quanto piuttosto costituire l’esperienza di un radicamento ad un “laggiù”, ad un “oltre-memoria”, ad un altrove che non è solo un passato assoluto, che è già da sempre stato (e non è una semplice forma modificata del presente, un presente-passato), irrimediabilmente perduto, ma anche l’apertura della possibilità di un’ avventura a-venire, di una traversata dei segni sempre lontana da qualsiasi forma di prossimità e vicinanza, da qualsiasi viaggio dalla meta prestabilita e sicura. Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’ origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve “assumere le parole su di sé” e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo “nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino”. Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro “fuori del giardino”, alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’ assenza, che “tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile”. Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore: “Scrivere, significa ritrarsi…dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola…lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto”. Così ogni scrittore, scrivendo, sacrifica la propria esistenza alla parola; ma questo stesso atto è anche consacrazione dell’esistenza per mezzo della parola. L’ambiguità essenziale che sta tra le significazioni, l’assenza che non si lascia inscrivere dalla lettera, irriducibile dall’ordine del discorso o della logica dell’ identità, è per Derrida originariamente necessaria al senso. Pretendere di dire il silenzio che “sottintende” il linguaggio, di riempire il simbolismo vuoto che marca il tempo morto in ogni testo, significa infatti non aver compreso e conosciuto il linguaggio, “il fatto che esso è la rottura stessa della totalità”, non avere avuto esperienza che ciò che la lettera dice è nell’ “involgersi su di sé del linguaggio”, che è nel vuoto che il linguaggio ottiene la possibilità di essere significante. Più che sostenuto dal contenuto discorsivo, infatti, è nella cesura, nell’interruzione – tra le lettere, le parole, le frasi, i libri – nella discontinuità e nell’inattualità, che il sorgere delle significazioni trova uno spazio di manifestazione, in cui esse vivono grazie alla “morte che si aggira tra le lettere”. Se “una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio”, e se la scrittura procede aforisticamente, per frammenti, per lapsus, ciò non accade in virtù di una semplice scelta stilistica o per dichiarare uno scacco, ma perché solo questa può essere la “forma dello scritto”, di un movimento che insegue e proviene da un’assenza, da una rottura, da un pensiero su un essere che non è né si manifesta mai esso stesso, non è mai presente, in questo momento, fuori della differenza. Derrida, per evidenziare il “movimento di emancipazione” del segno sia rispetto al soggetto parlante che e al contesto, e quindi anche rispetto alla situazione ideale di presenza della voce, introduce il termine spaziatura; la scrittura, prestandosi alla possibilità di marcare il “tempo morto”, disponendo di un simbolismo vuoto (di pause, di punteggiatura, di bianchi…), segna il rapporto originario che lega ogni linguaggio alla morte: “la spaziatura come scrittura è il divenir-assente e il divenir-inconscio del soggetto”. È infatti in ogni spaziatura silenziosa o non esclusivamente fonica delle significazioni, in ogni spazio non fonetico, che sono possibili concatenazioni e coabitazioni che non obbediscono più alla linearità del tempo logico, del tempo della coscienza e della “rappresentazione verbale”. In quanto rapporto del soggetto alla sua morte, il “movimento di deriva” che costituisce ogni scrittura corrisponde, in ritorno, alla costituzione stessa della soggettività, come desiderio di una presenza piena a sé. L’organizzazione della vita si effettua così a tutti i livelli secondo un'”economia della morte”, un lavoro di strutturazione e messa in forma dell’esistenza, del presente vivente ad opera di un’assenza originaria. D’altra parte il nome “scrittura” è, segna il gioco di due assenze, funziona cioè coprendo, occultando propriamente, ovvero in modo dissimulato, due posti vuoti: quello del signatario, del soggetto della scrittura, e quello del referente; di assenze cioè che, escludendo la pensabilità e la possibilità di un significato, interiore o mondano, sprovvisto di significante, “forano il linguaggio”, lo costruiscono come una rete di rimandi nel vuoto, aperta, che accade nella discontinuità e nella ritenzione della non-presenza. “La traccia affetta la totalità del segno nelle sue due facce”, contamina tutto il linguaggio con la sua struttura di presenza-assenza, di doppio movimento di “protensione e ritenzione”: solo nel concatenarsi di differenze è possibile ora l’apparire del senso, solo in quella scrittura che fugge qualsiasi situazione di stasi o di presenza assoluta, che eccede qualsiasi domanda d’essenza, e che, eppure, “non è nulla”, non è inesistente o insensata, ma ha comunque una qualche forma di esistenza (che non è quella della semplice presenza) e permette una qualche forma di senso (che non è quello pieno, sostanziale ed assoluto della metafisica), “non è ancora del tutto un segno [separato dalla forza] ma non è più una cosa [che si oppone al segno]”. La traccia non è più così né il significante di un significato (non c’ è più possibilità di manifestarsi di un senso fuori del significante) ma neppure l’unico significato di un significante senza significato, di un significante che non ha altra funzione se non quella di significare un altro significante; “…questa differenza non è niente, è il furtivo”, un’erosione “essenziale e insieme fugace” che accade alla “maniera del ladro”, che “svuota sempre la parola nella sottrazione di sé”, la potenzialità espropriante del linguaggio che ruba in fretta le parole che il soggetto crede di avere trovato, “molto in fretta, perché deve scivolare invisibilmente nel nulla che mi separa dalle mie parole, e trafugarmele prima ancora che io le abbia trovate, perché, avendole trovate, io abbia la certezza di esserne già sempre stato spogliato”. Ogni parola, da quando è parola, è infatti “originariamente ripetuta”, istantaneamente sottratta, “senza mai essere tolta”, a colui che parla e che se ne crede padrone; e tale sottrazione si produce come un’enigma, come una parola che nasconde la sua origine e il suo senso, che non dice mai da dove viene o dove va “perché non lo sa”, perché questa ignoranza, quest’assenza del suo proprio soggetto le è costitutiva. Allora quello che si chiama il “soggetto parlante” non è più “quello stesso e quello solo che parla”: facendo esperienza della parola, si scopre da sempre in una situazione di irriducibile secondarietà, di espropriazione radicale rispetto al luogo organizzato del linguaggio in cui ogni tentativo di collocazione è vano perché il posto è sempre mancante; “è la differenza che si insinua, come mia morte, tra me e me”. Riconoscere l’autonomia del significante, la sua sovrapersonalità e necessità rispetto all’ intenzione del soggetto parlante, coincide perciò da questo punto di vista col pensarlo nella sua storicità, ammettere la “stratificazione e potenzializzazione” storica del senso, che, come sistema storico, cioè “aperto da qualche lato”, deborda ogni struttura centrata, e continuamente è sull’orlo di smembrarsi, di farsi “costellazione in un sistema”. Ogni atto di parola, ed ogni atto di scrittura, diviene così un atto di lettura in un campo storico e culturale da cui si devono attingere le parole e le regole; ciò fa di ogni parola qualcosa di rubato, rubato alla lingua ed anche a se stessa, essendole già da sempre sottratta la proprietà e l’iniziativa, ed apre in ogni atto linguistico un foro, spalanca una porta attraverso cui la parola è sempre sottratta perché è sempre aperta: “essa non è mai propria al suo autore o al suo destinatario e fa parte della sua natura non seguire mai il percorso che conduce da un soggetto proprio ad un soggetto proprio”.
” Ora, se c’è uno spirito del marxismo cui non vorrei mai rinunciare, non è solamente l’idea critica o l’atteggiamento questionante […]. È piuttosto una certa affermazione emancipatrice e messianica, una certa esperienza della promessa che si può tentare di liberare da ogni dogmatica e persino da ogni determinazione metafisico-religiosa, da ogni messianismo ” (Spettri di Marx, pp. 115-116)
SPETTRI DI MARX
Spettri di Marx viene pubblicato da Jacques Derrida nel 1993 al centro dello scritto, che nasce come rielaborazione di una conferenza, troviamo l’idea del “comunismo postmoderno”, in riferimento al tema della “decostruzione”. Cerchiamo dapprima di sintetizzare il contenuto del libro per poi analizzarne alcuni punti teoreticamente fondamentali. Gli “spettri di Marx” a cui allude il titolo devono essere intesi in un doppio senso: da un lato, Marx come spettro; dall’altro, nel senso di spettri che ossessionavano Marx quand’era ancora in vita. L’idea di Derrida è che, per tutta la sua vita, Marx fu un ghostbuster impegnatissimo a dar la caccia a fantasmi: ne affiora allora l’immagine di un fantasma ossessionante e, al tempo stesso, ossessionato dai fantasmi. Il tema affiora bene nella convinzione marxiana secondo cui la realtà in cui viviamo è una realtà spettrale, per capire la quale occorre non già una ontologie, bensì una hantologie, vale a dire una messa al bando del fantasma. Si tratta di una realtà spettrale nel senso che il modo capitalistico di produzione è un mondo di automi senza soggetti, un mondo nel quale i morti (le merci) dominano sui vivi (gli uomini), i tavoli ballano, il capitale assume la forma di un vampiro che succhia il sangue ai lavoratori e il mondo stesso è fantasmaticamente capovolto. Ma – come nota acutamente Derrida – se ci si lascia prendere dalla foga del dare la caccia al fantasma, si finisce fatalmente per essere dominati da esso: in altri termini, se credi che coi fantasmi la si possa facilmente fare finita, ben presto ti ritrovi ad essere loro vittima. E Marx, soprattutto dopo il crollo del Muro di Berlino, è un fantasma che ci ossessiona: tutti – dal premier Berlusconi al papa – ne parlano come di uno spettro ossessionante. Questa, secondo Derrida, coincide con quella che Sigmund Freud chiamava la “fase giubilatoria della rielaborazione del lutto” e si configura, a ben vedere, come una forma di esorcismo. Detto altrimenti, chi annuncia a gran voce la morte di Marx, lo fa perché ossessionato dal suo spettro. Certo, un capitalismo che fosse forte, non avrebbe bisogno di fare ricorso a questo scongiuro. Anche in Derrida sembra tornare il fastidioso luogo comune dell’eccezionalità di Marx, come se non si trattasse di un cadavere (o di uno spettro) tra gli altri: e l’ossessione per il suo spettro è il sintomo di un capitalismo fragile. Il pensatore algerino insiste molto sul fatto che Marx rappresenti una delle più grandi ferite che l’umanità abbia ricevuto, alludendo al nesso tra marxismo e totalitarismo. Lo stalinismo sarebbe nato dalla paura dello spettro di Marx e, a sua volta, il nazismo avrebbe preso le mosse dalla paura di Stalin (lettura che non deve comunque essere accostata a quella proposta da Nolte, avverte Derrida). La grande falla del pensiero marxiano, dal punto di vista di Derrida, può così essere sintetizzata: Marx pensa la cosa giusta dal punto di vista sbagliato; pensa bene quando rileva che il mondo capitalistico è rovesciato, spettrale, abitato da cose vive e da uomini morti; ma Marx sbaglia, nella misura in cui – come vedremo tra poco – s’illude che esistano zone franche da fantasmi. Molto acutamente, Derrida fa notare che il grande spettro filosofico che ossessionava Marx era Max Stirner, contro il quale scrive ben tre quarti de L’ideologia tedesca (cosa che ben pochi interpreti mettono in risalto). Contro Stirner, che riconduce la realtà al singolo, Marx la riporta al genere umano: in comune, i due pensatori hanno il loro essere grandi esperti di spettri e nemici di essi, in nome della vita contro la morte, dell’essere umano contro il fantasma. Tutta la loro critica si risolve in esorcismo: essi credono di disincantare, ma in realtà riproducono lo spettro a intensità maggiore; e questo alla luce del fatto che essi sono convinti che il vero problema sia il fantasma e che esista un ambito di fenomeni non contaminato da esso (l’unico di Stirner, il genere umano di Marx). In particolare, nella prospettiva marxiana, non appena si va in avanti (società comunista) o indietro (società precapitalistiche), ecco che scompaiono i fantasmi (feticismo della merce, opacità della società, ecc.). Al contrario, Derrida è convinto che sia impossibile una zona libera da fantasmi: l’alone spettrale resta sempre e comunque. Ma, da pensatore postmtafisico e non arrogante, Derrida continua a criticare la società così com’è e lo fa in nome di Marx e del messianesimo. Derrida insiste poi su un tema a lui assai caro: quello dell’ospitalità. A ben vedere, la paura del fantasma è paura dell’altro; e un pensiero che, come quello marxiano, mira soltanto a fare la pelle ai fantasmi, porta in sé i germi del totalitarismo e vede la diversità e l’altro come spettri. La prospettiva di Derrida è tanto più lucida se si considera la sua straordinaria capacità di anticipare lo “spirito del tempo”: è infatti assolutamente vero che, dopol’89, Marx esiste soltanto come spettro, tanto presso i nemici dichiarati del marxismo quanto presso i suoi presunti amici (i partiti che a lui più o meno si richiamano). È bene soffermare l’attenzione su quattro dicotomie centrali per comprendere il discorso di Derrida:
1) spirito – fantasma
2) fine della storia – messianesimo
3) diritto – giustizia
4) vita – morte
Noi analizzeremo soprattutto la prima. Nella conferenza Dello spirito, egli aveva commentato alcuni luoghi in cui Martin Heidegger parlava di “spirito” (Geist) e ne aveva tratto la conclusione che il terreno su cui era potuto nascere il nazismo era la cultura, anche alla luce del fatto che le affermazioni più compromettenti e filo-naziste Heidegger le fa quando parla dello spirito. Ma che cos’ha di cattivo lo spirito? Il fatto di pretendersi sempre buono, cancellando le differenze; al contrario, il fantasma è sempre inteso come cattivo (solo Shakespeare sembra vederlo come positivo),ma in realtà è buono. Memore del suo passato di fenomenologo, Derrida cerca di unire il marxismo alla fenomenologia husserliana (operazione in cui si era già cimentato il filosofo vietnamita, Tran Duc Thao, scomparso enigmaticamente) e lo fa appellandosi al “segno”, come a dire che per fare la “riduzione eidetica” è pur sempre necessaria un po’ di materia. E se lo spirito è mero spirito, il fantasma ha sempre un po’ di materia (i fantasmi vengono immancabilmente raffigurati con le catene addosso), non è ubiquo (di solito vive in un castello): detto altrimenti, il fantasma è la versione materialistica dello spirito. Si pensi a quando Cristo resuscitato deve convincere i suoi discepoli di non essere un fantasma. Per quel che concerne la dicotomia fine della storia – messianesimo, Derrida si misura con la posizione di Fukuyama, che, com’è noto, sostiene che la storia è ormai finita: ma parlare di “storia finita” è, per Derrida, contraddittorio quanto parlare di “puro spirito”; infatti, anche se fosse finita, la storia ricomincerebbe, giacché ad ogni istante ne segue un altro. Proprio perché si aspetta sempre l’arrivo di qualche cosa, la storia va avanti, come già notava Husserl. La fine della storia, allora, non può coincidere con la fine del marxismo. Per quel che riguarda la dicotomia diritto – giustizia, Derrida preferisce curiosamente la giustizia, benché ci si sarebbe potuti aspettare che optasse per il diritto (che ha a che fare con la scrittura). La quarta dicotomia (vita – morte) rimanda al fatto che il vivere sia un sopravvivere e, in quanto tale, abbia un che di spettrale.
[ Questo estratto nasce da una mia rielaborazione della conferenza “Derrida interprete di Marx”, tenuta dal prof. Gaetano Chiurazzi, dal prof. Enrico Donaggio e dal prof. Maurizio Ferraris nel marzo del 2006 presso l’Università di Torino. Naturalmente eventuali errori e imprecisioni sono da attribuire al sottoscritto. ]
A cura dello SWIF
SPECULARE SU FREUD
Speculare-su “Freud” è la traduzione della seconda parte di un’opera apparsa nel 1980 (Parigi, Flammarion) con il titolo di La carte postale. De Freud à Socrate et au-delà, di cui era già apparsa la traduzione italiana della terza parte (La lettera rubata, Milano 1975) dedicata a Jacques Lacan e alla sua lettura di The Purloined Letter, “La lettera rubata”, il celeberrimo racconto di Edgar Allan Poe. Altro riferimento, questa volta legato all’occasione accademica: Speculare è la parte pubblicata di un seminario sull’argomento La vita la morte che Derrida tenne nel 1975 all’École des Hautes Études di Parigi, dedicato principalmente a Nietzsche ma allargato a Freud, a Heidegger, alla storia e all’epistemologia delle moderne scienze della vita, durante il quale Derrida intraprese un percorso in tre tempi e tre circoli, l’ultimo dei quali, appunto, è quello disegnato attorno a Freud e al testo forse più difficile ed oscuro che il padre della psicoanalisi ha lasciato in eredità: Al di là del principio di piacere. Il testo su Freud occupa un posto importante sia nell’ampia produzione del filosofo francese sia, più in generale, nella pratica testuale di un incrocio tra filosofia e psicoanalisi. In Derrida i riferimenti alla psicoanalisi sono innumerevoli e disseminati, tuttavia pare opportuno leggere Speculare accanto a “Freud e la scena della scrittura”, saggio contenuto in La scrittura e la differenza, e a Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, che sono due momenti in cui Derrida assume Freud come “oggetto” di indagine e mette in opera una sorta di riscrittura della psicoanalisi all’interno del discorso della filosofia. Questa operazione è tutto meno che neutra; anzi, essa è un modo per istituire delle “corrispondenze” (sia nel senso di missive, di invii, addirittura di cartoline postali sia nel senso di relazioni logiche) tra due grandi della nostra epoca che non si sono mai letti: Freud, appunto, e Heidegger. Ma se Freud e Heidegger si sono ignorati, ci dice Derrida, noi non possiamo non leggere l’uno assieme all’altro e cercare di articolare un discorso che tenga conto degli apporti, separati ma talvolta sorprendentemente convergenti, della psicoanalisi e di una certa filosofia. “Si ha qui una corrispondenza fra due autori che, secondo le apparenze e i criteri comuni, non si sono mai letti e tanto meno incontrati. Freud e Heidegger, Heidegger e Freud. Ci muoviamo nello spazio circoscritto e orientato da questa corrispondenza storica (…)” . Vicinanza e lontananza dell’uno rispetto all’altro (e viceversa) come se entrambi, ciascuno a suo modo, avesse pensato quella che Derrida chiama un’economia della morte, la legge che lega la vita e la morte. In questo senso, “…l’analitica esistenziale del Da-sein è inseparabile da un’analisi dell’al-lontanamento e della prossimità che non risulterebbe così estranea a quella del fort:da” . Infatti Speculare è una lettura (ma anche una scrittura) della scena in cui ha luogo il momento più denso della narrazione di Freud nell’Al di là del principio di piacere: l’esempio del gioco del rocchetto in cui il piccolo nipote, Ernst, si cimenta. Il gioco di avvicinamento e di allontanamento, di fort/da, in cui la posta – ipotizza Freud – è il controllo dell’angoscia prodotta dalla perdita dell’oggetto (il rocchetto che simbolizza la madre), è un gioco che si raddoppia nell’osservazione e nella scrittura di questa esperienza. Derrida mostra come le descrizioni di Freud, e il tentativo di avanzare una tesi che possa spiegare come questo gioco sia in rapporto all’al di là del principio di piacere, siano già scritte nella scena del rocchetto, secondo un legame di supplementarità che unisce la descrizione del gioco e la formulazione della tesi. Una scena è sempre inscritta nell’altra e viceversa, e mai l’una è del tutto riducibile all’altra. In un passo-chiave della sua analisi Derrida dice: “Ammettiamo che Freud scriva. Scrive di scrivere, descrive ciò che descrive, il che è anche ciò che fa, fa ciò che descrive, ossia ciò che Ernst fa: fort/da, con il suo rocchetto” . Se Ernst gioca al fort/da con il suo rocchetto, lanciandolo al di là del lettino e facendolo sparire, per poi trarlo a sé, facendolo ricomparire, Freud sembra fare altrettanto con la stesura de L’al di là. Il che porta Derrida a enunciare una sorta di legge che regola il rapporto tra il fort/da e la scrittura: “La scena del fort/da, quale che sia il suo contenuto esemplare, sta già da sempre scrivendo, in rapporto differito, la scena della propria descrizione. La scrittura di un fort/da è sempre un fort/da (…)” . Qual è l’effetto sulla scrittura del testo, del movimento del fort/da che è sempre un movimento che fa i conti, cioè che in definitiva “specula” con la morte? In che cosa lo riconosciamo, seguendo Derrida? L’effetto è quella che Derrida chiama l’ “atesi”, cioè l’impossibilità di avanzare, da parte di Freud. “Avanzare” sia in senso di avanzare una tesi sul rapporto tra il principio di piacere e la pulsione di morte (ricordiamo come il saggio prenda le mosse proprio dall’esigenza di spiegare alcuni fenomeni di ripetizione di esperienze traumatiche, il che avrebbe contraddetto il principio di piacere), sia, e soprattutto, “avanzare” nel senso di procedere al di là, al di là del principio di piacere, verso la morte e il suo principio. Ogni tentativo di procedere oltre (“facciamo ancora un passo…”, “ein Schritt weiter”, ripete Freud in continuazione a ogni ripresa di capitolo) è uno scacco, fino alla paralisi, fino alla necessità della ripetizione che lega ogni allontanamento a un riavvicinamento. Movimento che lascia sul posto, per così dire, che non fa avanzare di un passo la scrittura di Freud, secondo un “ritmo differenziale” che mette in scena, nella scrittura, l’oscillazione tra la vita e la morte.
DEL DIRITTO ALLA FILOSOFIA
Questo testo di Jacques Derrida che proponiamo è posto come prefazione al volume “Du droit à la philosophie” (1990), che raccoglie numerosi saggi e interventi su tematiche legate alla identità della filosofia e al suo insegnamento: “Du droit à la philosopbie” testimonia l’impegno di Derrida nel GREPH (Groupe de recherches sur l’enseignement philosophique) per contestare la riforma Haby-Giscard, mirante a eliminare l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi a partire dal 1981, o nel College Intemational de Philosophie, un’istituzione volutamente atipica; in particolare, con quest’opera Derrida argomenta in favore della filosofia (intesa come un diritto) e del suo insegnamento.
“Du droit à la philosophie” è stato all’inizio il titolo di un seminario che ho tenuto a partire dal gennaio 1984 in una situazione istituzionale assai singolare. All’inizio dell’anno accademico ero ancora, per il ventesimo anno, “maitre-assistant” all’Ecole Normal Supérieure – e questo seminario si tenne presso l’Ecole sotto i suoi auspici ma anche sotto quelli del Collège Internationa de Philosophie che io, insieme con altri, avevo appena fondato il 10 ottobre 1983 e di cui, nello stesso giorno, ero stato eletto direttore. Sapevo già che successivamente avrei lasciato l’Ecole Normal Supérieure per l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dove ero stato nominato “directeur d’études” (nella sezione Le istituzioni filosofiche). Non ho ancora potuto preparare per la pubblicazione i materiali predisposti per quel seminario. Nel corso di questa prefazione ne ricorderò soltanto i principali argomenti. In questa raccolta di testi ho conservato il titolo del seminario dell’84 e credo sia quindi opportuno riprodurre qui l’annuncio descrittivo del seminario che allora venne diffuso a cura del College International de Philosophie: “Du droit à la philosophie (destiner, enseigner, instituer)” La domanda, più ampia, circa la destinazione incrocerà quella sulla fondazione o sull’istituzione, in particolare sull’istituzione filosofica (scuola, disciplina, professione, e così via). Una simile istituzione è possibile? Per chi? Da parte di chi? Come? Chi decide? Chi legittima? Chi impone le proprie valutazioni? All’interno di quali condizioni storiche, sociali, politiche, tecniche? Al di là di una alternativa tra problematiche “interne” o “esterne”, sarà posta in questione la costituzione dei limiti tra l’interno e l’esterno del testo detto “filosofico”, i suoi modi di legittimazione e di istituzione. Saranno richiamati alcuni elementi della sociologia della conoscenza o della cultura, della storia della scienza e delle istituzioni pedagogiche, della politologia della ricerca: ma la di là della epistemologia di questi saperi, si comincerà col collocare la loro professionalizzazione e la loro trasformazione in discipline, la genealogia dei loro concetti operativi (per esempio “obiettivazione” “legittimazione”, “potere simbolico”, ecc.), la storia della loro assiomatica e gli effetti della loro appartenenza istituzionale. In questo spazio davvero ampio, sotto il titolo “Du droit à la philosophie” sarà tracciato lo schizzo di due percorsi divergenti: 1. Studio del discorso giuridico che, senza occupare il primo posto sulla scena, fonda le istituzioni filosofiche. Quali sono i suoi rapporti con il campo storico, sociale e politico? con le strutture dello “Stato moderno”? 2. Studio delle condizioni di accesso alla filosofia, al discorso, all’insegnamento, alla ricerca, alla pubblicazione, alla “legittimità” filosofica. Chi ha diritto alla filosofia? Chi ne detiene il potere o il privilegio? Che cosa limita di fatto l’universalità dichiarata della filosofia? Come si decide che un pensiero o un enunciato sono classificabili come “filosofici”? Anche se questa rete di domande non si distingue da quella che chiamiamo la filosofia stessa (se qualcosa di simile esiste e ha la pretesa dell’unità), si possono tuttavia studiare in contesti determinati le modalità di determinazione del “filosofico”, le divisioni che questo implica, i modi di accesso riservati all’esercizio della filosofia: le strutture d’insegnamento e di ricerca in cui la filosofia è dispensata come una disciplina, principale o complementare, gli ambienti extra-scolastici o extra-universitari, i “supporti” orali, quelli a stampa e così via. La questione del “supporto” (parola, libro, rivista, giornale, radio, televisione, cinema) non è puramente tecnica o formale. Riguarda il contenuto, la costituzione e i modi di formazione o di ricezione dei temi, degli enunciati, del corpus filosofico. Sono sempre gli stessi, dal momento che essi non sono più dati, dominati e accumulati, sotto forma di archivio librario, all’interno di istituzioni specializzate, sotto il controllo di persone o di comunità di “guardiani” autorizzati e, si suppone, competenti? Si partirà dai numerosi segni di mutamento osservabili almeno a partire dal XIX secolo, in modo più accelerato negli ultimi vent’anni. Filo conduttore per questo approccio preliminare: l’esempio del Collège Internazionale de Philosophie. E’ una nuova “istituzione filosofica”? Sono possibili molteplici interpretazioni sulla sua origine, sulle sue condizioni di possibilità, di destinazione”.
Titolo, capitolo, avvio del capitolo, ciò che è posto all’inizio, che è fondamentale, capitale: le domande sul titolo saranno sempre domande legate all’autorità, al privilegio e al diritto, al diritto al privilegio, alla gerarchia o all’egemonia. Il titolo “Du droit à la philosophie” (“Del diritto alla filosofia”) , ad esempio, ha nelle sue pieghe un capitale fatto di una molteplicità di possibili sensi, lì pronti per essere fatti valere. Si dovrebbe cominciare col decapitalizzarli. Bisognerebbe impiegare o spiegare questi significati. Ma questa forma, “Du droit à la philosophie”, può qui restare ciò che è, nella sua sintesi, soltanto nella misura in cui essa rimane la forma propria di un titolo: da questo deriva la sua autorità, dunque il potere, il credito – il privilegio di cui gode – di non poter mai diventare una semplice frase ed essere spiegata. Il suo privilegio, appunto, che è proprio della sua unicità come della posizione che occupa, è di poter tacere in modo da far credere – a giusto titolo, è da supporsi – di aver molto da dire. Questo privilegio è sempre garantito da convenzioni, quelle che regolano l’uso dei titoli nella nostra società, che si tratti di titoli di opere o di titoli sociali. Ma quando si parla di opere, la libera scelta, la virtù singolare di ciascun titolo è un privilegio, se così si può dire, legale e autorizzato. Si riceve il titolo di dottore, ma, per diritto e per principio, si sceglie sovranamente il titolo di un discorso o di un proprio libro – titolo che lui solo porterà. Non appena con queste parole, “Du droit à la philosophie”, si costruisce una frase, non appena la si espone, sicché l’equivoco comincia a sciogliersi, il potere del titolo comincia a dissolversi e la discussione ha inizio. Ed anche la democrazia, senza dubbio, ed in certo modo la filosofia stessa. Fin dove può andare questo movimento? La filosofia infatti, ed è questa la mia tesi, tiene al privilegio che espone. Essa sarà ciò che cerca di proteggere, dichiarandolo, con quest’ultimo o primo privilegio che consiste nell’esporre il privilegio che le è proprio alla minaccia o alla presentazione, talvolta al rischio della presentazione. Costruiamo delle frasi. Se io ad esempio dico, ed è il primo senso del mio titolo, “come si passa dal diritto alla filosofia?”, viene introdotta una certa problematica. Si tratterà per esempio dei rapporti che permettono di passare dal pensiero, dalla disciplina o dalla pratica giuridica alla filosofia e alle questioni “quid juris” in cui da tanto tempo si dibatte. Con maggiore precisione si tratterà del rapporto che va dalle strutture giuridiche che sostengono, implicitamente o esplicitamente, le istituzioni filosofiche (insegnamento o ricerca) alla filosofia stessa, se qualche cosa di simile esiste al di fuori, prima o al di là di una istituzione. In questo primo senso il titolo “Du droit à la philosophie” annuncia un programma, una problematica e un contratto: si tratterà dei rapporti tra il diritto e la filosofia. Ogni contratto implica del resto una questione di diritto e un titolo è sempre un contratto. Che, nel caso unico della filosofia, questo contratto sia destinato a più di un paradosso, ebbene è proprio questo il nostro tema privilegiato, il privilegio come nostro tema. In questo primo senso della frase, una sola delle cinque parole, la lettera à, si fa carico di tutta la determinazione semantica. Il senso qui ruota sui differenti valori che può assumere una à. Infatti il rapporto del diritto con la filosofia è concepito come quello di una articolazione in generale: tra due domini, due campi, due strutture o due dispositivi istituzionali. Ma con la stessa determinazione semantica di à, con lo stesso valore di in rapporto a, un’altra frase può annunciare un altro programma – e un’altra problematica. Si può a buon titolo osservare, infatti, che per analizzare questi problemi (diritto istituzionale e istituzioni filosofiche di ricerca e di insegnamento), bisogna parlare del diritto ai filosofi, bisogna parlare del diritto alla filosofia. Bisogna richiamare le questioni del diritto, l’enorme continente della problematica giuridica di cui i filosofi in generale – e soprattutto in Francia – parlano troppo poco, anche se e senza dubbio perché il diritto parla tanto attraverso loro: bisogna parlare del diritto alla filosofia, bisogna parlare alla filosofia del diritto, far discorso alla filosofia e ai filosofi dell’immensa, vasta questione del diritto. La “à” esprime ancora una articolazione, ma questa volta in un altro senso, quello del discorso rivolto a qualcuno, della parola detta verso qualcuno: bisogna parlare del diritto alla filosofia. Ma tutto questo non esaurisce affatto il rapporto “du droit à la philosophie”. Il sintagma francese “du droit à” può significare altre cose e portare ad un altro accesso semantico. Si dice “aver diritto a” per indicare l’accesso garantito per legge, il diritto di passaggio, il lasciar passare, lo Shibboleth, l’introduzione autorizzata. Chi ha diritto alla filosofia oggi, nella nostra società? A quale filosofia? A quali condizioni? In quale spazio privato o pubblico? Quali luoghi di insegnamento, di ricerca, di pubblicazione, di lettura, di discussione? Attraverso quali istanze e quali filtri di mediazione? Avere “diritto alla filosofia” significa avere un accesso legittimo o legale a qualche cosa la cui singolarità, identità e generalità resta tanto problematica che la si chiama con questo nome: la filosofia. Chi dunque può pretendere legittimamente alla filosofia? A pensare, dire, discutere, apprendere, insegnare, esporre, presentare o rappresentare la filosofia? Questo secondo valore di “à” (il rapporto non più come articolazione, ma come l’indirizzarsi verso) mette in luce un’altra possibilità. Ricapitolando, fin qui abbiamo tre frasi tipiche:
1. Qual rapporto lega il diritto alla filosofia?
2. Bisogna parlare del diritto alla filosofia – e dunque ai filosofi.
3. Chi ha diritto alla filosofia e a quali condizioni?
Se ora circoscriviamo il sintagma “diritto alla filosofia”, cosa che permette di fare della parola diritto tanto un avverbio quanto un nome, noi generiamo o riconosciamo lo spazio di un’altra frase e dunque di un altro campo di domande: è possibile andare diritto alla filosofia? di recarvisi immediatamente, direttamente, senza passare per nient’altro? Questa possibilità o questo potere garantirebbe di colpo l’immediatezza, cioè l’universalità e la naturalità dell’esercizio della filosofia. E’ questo che si vuol dire? E’ davvero possibile, come credono alcuni, far filosofia di colpo, direttamente, immediatamente, senza la mediazione della formazione, dell’insegnamento, delle istituzioni filosofiche, senza neppure la mediazione dell’altro o della lingua, di questa o quella lingua? Presa così, tra virgolette, l’espressione “diritto alla filosofia” in cui la parola “diritto” è presa come avverbio, ci dà la matrice di una quarta frase, di un quarto tipo di frase, ma anche l’avvio di un’altra problematica, che finisce con l’arricchire e sovradeterminare le precedenti. Alcuni sono dunque impazienti di accedere-direttamente-alle-cose-stesse-e-senza-attendere-tendere-direttamente-verso-il-vero-contenuto-dei-problemi-urgenti-e-gravi-che-si-pongono-a-tutti-ecc. Queste persone non mancheranno certo di giudicare scherzosa, affettata o formale, perfino inutile, una analisi che dispieghi questo ventaglio di significati e di possibili frasi: “Perché questa lentezza e questo compiacimento? Perché queste tappe linguistiche? Perché non si parla finalmente in modo diretto delle vere questioni? Perché non andar dritti alle cose stesse?” Ben inteso, si può condividere questa impazienza e pensare tuttavia – ed è il mio caso – che non soltanto non ci si guadagna niente a cedere immediamente ad essa, ma che questa illusione ha una storia, degli interessi, una sorta di struttura ipocritica che è sempre meglio cercare di riconoscere dandosi il tempo per il lavorio e l’analisi. Ne va infatti di un certo diritto alla filosofia. L’analisi dei valori potenziali che dormono o che giocano un ruolo al fondo dell’espressione francese “diritto alla filosofia” deve essere un esercizio di vigilanza e deve “essere in gioco” soltanto nella misura in cui il “gioco” è qui dei più seri. Per almeno due ragioni. L’una riguarda la questione del titolo, l’altra la questione della lingua.
1. “Diritto di…”, “diritto a…”: la presupposizione istituzionale
Avere il diritto di, il diritto a, significa essere autorizzati, giustificati a fare, a dire, a fare dicendo questo o quello. Un titolo autorizza, legittima, dà valore e unifica. Questo vale per qualche cosa, che perciò non è mai una semplice cosa, o per qualcuno che diviene allora “qualcuno”. Per qualcosa che non è mai una cosa: il titolo di un discorso o di un’opera, di un discorso in quanto opera, di una istituzione che è allo stesso tempo in qualche modo discorso e opera perché ha una storia che la sottrae all’ordine detto naturale e dipende da un atto del linguaggio. Il titolo è il nome dell’opera, in qualsiasi senso la si intenda (opera d’arte, opera politica, istituzione), unifica l’opera dandole un nome e fa sì che, così identificata, essa faccia valere il suo diritto all’esistenza e al riconoscimento: legalizzazione o legittimazione. Ciò che vale per l’opera (questa “cosa” che non è affatto una e non appartiene alla natura nel senso moderno del termine) vale anche per qualcuno, per il titolo di qualcuno, a dire, a fare, a dire facendo questo o quello, a fare delle “cose” con delle parole. Ma il titolo dato (o rifiutato) a qualcuno suppone sempre, ed è un circolo, il titolo di un’opera, cioè una istituzione, che sola può essere autorizzata a farlo. Solo una istituzione (titolo del corpo autorizzato a conferire i titoli) può dare a qualcuno il suo titolo. Questa istituzione può senza dubbio incarnarsi in persone, persino in una sola persona, ma questa stessa incarnazione deriva essa stessa da una qualche istituzione o costituzione. Che il titolo sia dato (o rifiutato) a qualcuno da parte di un corpo istituzionale significa che la custodia dei titoli, come la loro garanzia, spetta a chi, in quanto istituzione, detiene già il titolo. L’origine del potere di dare titoli o di legittimarli non può dunque mai mostrarsi fenomenicamente come tale. La legge della sua struttura – o la struttura della sua legge – implica che essa scompaia. Questo non è soltanto un circolo. Quanto meno il pensiero di un tale “circolo” obbliga a riformulare le immense questioni già “classificate” sotto i titoli classici di “rimozione”, di “repressione” o di “sacrificio”. I testi qui riuniti tentano, ciascuno alla sua maniera, di farsi carico di questa paradossale topica della presupposizione istituzionale. Una tale topica definisce così la struttura dell’istituzione come archivio (niente di meno di ciò che gli storici, insomma, chiamano storia): una istituzione custodisce la memoria, certo, è fatta per questo. Dei nomi e dei titoli ne fa dei monumenti, di quelli che ha dato, di quelli da cui ha ricevuto il suo. Ma, nel difendersi, può sempre capitare qualcos’altro, e la struttura del suo spazio interno ne viene modificata. Una istituzione può innanzitutto dimenticare i suoi stessi eletti: si sa che essa ne perde talvolta il nome in profondità sempre più inaccessibili. E questa selettività richiama innanzitutto, senza dubbio, la finitezza di una memoria istituzionale. Tuttavia il paradosso è altrove, benché esso sia anche l’effetto di una finitezza essenziale: ciò che si chiama una istituzione deve talvolta custodire la memoria di ciò che essa esclude e tenta selettivamente di consegnare all’oblio. La superficie del suo archivio è allora caratterizzata da ciò che essa tiene al di fuori, che espelle o non tollera più. Essa assume la figura inversa del rifiuto, si lascia identificare attraverso ciò che la minaccia o che essa sente come una minaccia. Per identificarsi, per essere ciò che è, per delimitare se stessa e riconoscersi nel suo nome, deve – per così dire – portare il suo avversario nel suo seno. Deve assumerne i tratti, persino sopportarne il nome come un marchio negativo. E capita che l’escluso, quello i cui tratti sono pesantemente scolpiti nel seno dell’archivio, iscritti nella superficie istituzionale, finisca col divenire a sua volta colui che porta la memoria del corpo istituzionale. Questo vale per la violenza fondatrice degli Stati, per le nazioni e i popoli che essa non manca mai di opprimere o di distruggere – e questo non ha mai luogo una volta per tutte, ma deve necessariamente avvenire continuamente o ripetersi secondo processi e ritmi diversi. Ma questo vale anche, su una scala in apparenza più modesta, per le istituzioni accademiche, l’istituzione filosofica in particolare. Di più, l’esempio accademico richiama strutturalmente l’esempio politico-statale. Per restare al di fuori della Francia e limitarci al passato, diciamo che l’Università di Francoforte non è soltanto, ma è anche l’istituzione che ha rifiutato di conferire a Walter Benjamin il titolo di dottore. Essa ha certo altri titoli per essere richiamata alla memoria, all’attenzione o all’ammirazione, ma se ci si ricorda di essa – e di alcune esclusioni per le quali è precisamente identificata – è anche grazie a una nota nelle opere complete di Benjamin. Saremmo in molti a conoscere il nome di Hans Cornelius se, alla fine del volume, una nota dell’editore delle opere complete di Benjamin non fosse dedicata a questo avvenimento, esemplare sotto diversi aspetti, e cioè il rifiuto dell'”Origine del dramma barocco tedesco” come tesi di dottorato? Come ogni pubblicazione, un insegnamento, per esempio un seminario sulla questione del diritto alla filosofia può, oserei dire dovrebbe sempre, problematizzare, cioè mettere in luce, per farne oggetto di una ricerca, i propri limiti e caratteri: a che titolo e in base a quale diritto noi siamo qui riuniti per fare esperienza del disaccordo o della discordia o per costatare che le premesse di una discussione non ci sono affatto o che non possiamo affatto intenderci sul senso e i termini di una simile costatazione? A che titolo e in base a quale diritto siamo qui, voi e io, io che prendo e tengo per il momento la parola senza averne apparentemente chiesto l’autorizzazione? Almeno in una certa misura si tratta di una apparenza: di fatto si sa bene che un processo lungo e complicato di autorizzazione (implicitamente richiesta a numerose istanze – accademiche, editoriali, dei media, e così via – più o meno d’accordo su questo o su quello) ha avuto luogo in precedenza, certo in modo assai poco naturale. Questo spazio (seminario, prefazione o libro), il luogo in cui questo atto ha luogo, niente ci assicura che appartenga alla filosofia e che abbia titolo a portarne il titolo. Come appunto annuncia il suo titolo, la questione trattata può portare al di là o al di qua del “filosofico” – di cui per il momento, e in linea di principio, non dobbiamo dare il senso. Infatti, la domanda “che cosa è filosofico?” appartiene alla filosofia? Si e no: risposta formalmente contraddittoria, ma per nulla vuota o evasiva. Appartenere alla filosofia non significa certamente fare parte di un tutto (una proprietà, uno Stato o una nazione, una molteplicità, una serie o un insieme di obiettivi, il campo di un sapere, il corpo di una istituzione, o anche di totalità aperte). Dalla necessità o dalla possibilità di questo “sì e no”, dell’impreciso limite che l’attraversa o l’istituisce, del pensiero di ciò che è filosofico che sembra qui essere richiamato, da tutto questo dipendono oggi la posta in gioco e le responsabilità più gravi. Quando si pone al soggetto di una scienza o di un’arte, la domanda “che cos’è …?” appartiene sempre, secondo i filosofi, alla filosofia. Le appartiene a pieno diritto. C’è qui il diritto della filosofia. Poiché ritiene di essere la sola a detenerlo, allora è un privilegio. La filosofia sarebbe questo privilegio. Essa non lo riceverebbe, sarebbe piuttosto questo potere ad essere in accordo con essa. Vi si ritrova il più antico tema della filosofia: la domanda “che cos’è la fisica, la sociologia, l’antropologia, la letteratura o la musica?” sarebbe di natura filosofica. Ma si può dire altrettanto della domanda: “che cosa è filosofico?” E’ la più e la meno filosofica di tutte, bisogna tener conto di questo. Questa domanda si distribuisce presso tutte le decisioni istituzionali: “Chi è filosofo? Che cos’è un filosofo? Che cosa ha diritto a ritenersi filosofico? Da che cosa si riconosce un enunciato filosofico, in generale e oggi? Da quale segno (c’è un segno?) si riconosce che un pensiero, una frase, una esperienza, una operazione, per esempio una didattica, è filosofica? Che vuol dire questa parola? Può essere intesa in riferimento a se stessa e ai luoghi stessi a partire da cui queste domande si formano e si legittimano?” Senza dubbio queste domande si confondono con la filosofia stessa. Ma per questa incertezza essenziale dell’identità filosofica, forse non sono già più filosofiche. Forse restano al di qua della filosofia che esse interrogano, a meno che esse non portino al di là di una filosofia che non sarebbe più la loro ultima destinazione. Una domanda posta alla filosofia sulla sua identità può rispondere almeno a due figure dominanti. Altri approcci sono senza dubbio possibili, ed è per identificarli preliminarmente che stiamo adesso lavorando. Ma intanto le due figure che possiamo osservare nella tradizione sembrano opporsi come essenza e funzione. Da un lato, quello dell’essenza (che è anche quello della storia, dell’origine, dell’evento, del senso e dell’etymon) si tenta di pensare la filosofia come tale, come ciò che essa è, ciò che essa sarà stata, ciò che essa avrà progettato di essere sin dalla sua origine – e precisamente a partire da un evento che ha luogo, nell’esperienza di una lingua, a partire dalla questione dell’essere o della verità dell’essere. C’è qui, in modo del tutto schematico, la figura heideggeriana della “distruzione”. Dall’altra parte, quella della funzione, e in uno stile all’apparenza più nominalista, si comincia col denunciare questo richiamo alle origini: esso non ci direbbe nulla sulla verità pragmatica della filosofia, cioè su ciò che essa fa o su ciò che si fa sotto il suo nome, sulle conseguenze che ne derivano, sulle scelte che essa compie o che qualcuno compie nell’atto del discorso, della discussione, delle valutazioni, nelle pratiche sociali, politiche e istituzionali. Bisogna piuttosto innanzitutto riafferrare la differenza piuttosto che il filo genealogico che la legherebbe a una qualche dimenticata origine. Questo pragmatismo funzionalista è il modello quanto meno implicito per le numerose interrogazioni moderne riguardo alla filosofia, siano essere condotte da filosofi, da sociologhi o da storici. Al di là di tutte le differenze e di tutte le opposizioni, in realtà trascurabili, queste due figure della questione riguardo alla filosofia (Che cosa è? Che cosa fa? Che cosa si fa di essa o con essa?) si presuppongono sempre l’un l’altra, per cominciare o per finire. Il pragmatismo nominalista deve ben darsi prima una regola per impegnarsi nelle proprie operazioni e per riconoscere i propri oggetti, ed è sempre a partire da un concetto della filosofia, esso stesso legato alla presupposizione di un senso o di una essenza, che si pensa l’essere-filosofico della filosofia. Il percorso che si richiama alle origini (e questo vale anche per Heidegger) deve presupporre a sua volta un evento, una concatenazione di eventi, una storia nella quale un atto filosofico non si distingue affatto da un “atto linguistico” reso possibile da una condizione arci-convenzionale o quasi contrattuale all’interno di una lingua data. Esso deve dunque presupporre questo momento in quanto istituente una “funzione” sociale e istituzionale, anche se i nomi più appropriati a queste cose vengono dati dopo una prova di “distruzione”. Se dovessimo elaborare o adattare un altro tipo di posizione problematica, sempre che questo sia possibile, bisognerebbe cominciare con il comprendere e formalizzare la necessità, se non l’ineluttabilità, di questo presupposto comune. E’ proprio su questa via che ci troviamo. Tutti i dibattiti richiamati in questo libro ce lo ricordano, che si tratti delle parole inaugurali del Greph, dell’Introduzione agli Stati Generali della filosofia, della fondazione del Collegio Internazionale di Filosofia o del rapporto della Commissione di Filosofia e di Epistemologia. Ogni volta io mi sono associato con vigore e senza equivoci alle lotte tendenti a difendere e a sviluppare ciò che spesso si chiama la “specificità” della disciplina filosofica oggi minacciata: contro la sua dispersione, o persino dissoluzione nell’insegnamento delle scienze sociali o umane; talvolta, rischio più tradizionale in Francia, nell’insegnamento delle lingue e delle letterature. Ma nello stesso tempo a coloro che vogliono fare un uso soltanto difensivo e conservatore, talvolta strettamente dogmatico o addirittura corporativo di questo argomento, bisogna ben ricordare che questa “specificità” deve restare la più paradossale. La sua esperienza è così quella di una aporia attraverso la quale è sempre necessario reinventare un cammino senza certezze. Questa non è soltanto la specificità di una disciplina tra le altre (anche se conviene ricordare che questa disciplina è così) con il suo campo di oggetti e il suo insieme di regole trasmissibili. Se essa deve restare aperta a tutte le interdisciplinarietà senza disperdersi, essa non si presta come una disciplina tra le altre alla tranquilla e regolare transazione tra i saperi alle frontiere stabilite tra i territori assegnati alle diverse discipline. Ciò che si è chiamato “decostruzione” è allora l’esposizione di questa identità istituzionale della disciplina filosofica: ciò che essa ha di irriducibile deve essere esposto come tale, cioè messo in luce, protetto, rivendicato, ma questo deve avvenire mentre l’identità di ciò che le è proprio si allontana da se stessa per riappropriarsi di sé – innanzitutto sin dalla più piccola delle domande che riguardano la sua natura. La filosofia, l’identità filosofica, è così un nome per un’esperienza che, nell’identificazione in generale, comincia con l’es-porsi: in altri termini, con l’andar via dalla propria terra. Aver luogo dove essa non ha luogo, là dove il luogo non è né naturale né originario né dato. Le questioni del titolo e del diritto hanno sempre una dimensione topologica. Nessuna istituzione fa a meno di un luogo simbolico di legittimazione, anche se l’assegnazione può essere sovradeterminata, all’incrocio di dati empirici e simbolici, fisico-geografici e ideali, all’interno di uno spazio omogeneo o eterogeneo. Un seminario può aver luogo (fisicamente, ma non senza trarne un beneficio simbolico che diventa la posta in gioco delle transazioni e dei contratti) in una istituzione determinata, tenuto da qualcuno che non vi appartiene (Jacques Lacan all’Ecole Normale Supérieure per parecchi anni, ad esempio), o da qualcuno che, “ancien élève” dell’Ens, tiene un insegnamento in nome di quell’altra istituzione pubblica che è l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales o perfino di una istituzione che non possiede alcun luogo fisico proprio e che, come il Collège International de Philosophie, fondato nel 1983, è a tutti gli effetti una associazione privata (regolata dalla legge del 1901), autonomo nel suo funzionamento e nei suoi orientamenti benché nel suo Consiglio di amministrazione siedano, statutariamente, i rappresentanti di quattro ministeri! La carta di questi “luoghi” richiede una descrizione sottile e le interferenze dei percorsi favoriscono una turbolenza propizia alla riflessione sulla storicità delle istituzioni, soprattutto delle istituzioni filosofiche. Se queste sono storicamente definite, questo significa che né la loro origine né la loro solidità sono naturali; e soprattutto che i processi per cui si stabilizzano sono sempre relativi, minacciati, essenzialmente precari. Là dove esse si mostrano ferme, stabili, durevoli o resistenti, ebbene questo tradisce innanzitutto la fragilità della fondazione. E’ sullo sfondo di questa “decostruttibilità” teorica e pratica, è proprio contro questa che l’istituzione si istituisce. E’ questo sfondo che la sua elevazione tradisce: essa lo segnala, come fa un sintomo, e lo rivela dunque, ma allo stesso tempo lo nasconde.
BERTRAND RUSSELL
La matematica non possiede soltanto la verità, ma anche la bellezza suprema, una bellezza fredda ed austera, come quella della scultura.
LA VITA, LE OPERE E LA FORMAZIONE CULTURALE
Bertrand Russell (1872-1970) nacque in Inghilterra, a Ravenscroft, da nobile famiglia, rimase preso orfano e fu educato dal nonno, lord John Russell. Nel periodo 1890-94 effettuò i suoi studi a Cambridge, dove si cominciava a respirare un’ aria di anticonformismo, avversa alla rigida morale vittoriana e ai tradizionali sistemi educativi. Qui si vennero formando personaggi quali il romanziere E. M. Foster, lo storico L. Strachey e l’economista J. M. Keynes, che avrebbero poi fatto parte del cosiddetto gruppo di Bloomsbury, animato anche dalla presenza di Virginia Woolf. Moore esercitò un’influenza decisiva su tutti i componenti del circolo, Russell compreso. A Cambridge Russell si interessò soprattutto di matematica e di filosofia e nel 1895 divenne membro del Trinity College. Una delle sue prime opere fu uno studio sulla socialdemocrazia tedesca, frutto delle sue osservazioni effettuate durante un viaggio in Germania. Gli interessi per la matematica e per la logica lo portarono a studiare Leibniz, in cui trovava espressa la tesi che i princìpi della matematica sono deducibili da princìpi logici tramite mezzi meramente logici: il risultato fu il volume Esposizione critica della filosofia di Leibniz del 1900. Ad avviso di Russell, il 1900 fu un anno decisivo della sua vita, perchè prendendo parte al Congresso internazionale di filosofia, tenutosi a Parigi, incontrò Giuseppe Peano e fu colpito dalla precisione da questi dimostrata nelle discussione, grazie all’impiego di un rigoroso simbolismo logico. Il risultato più apprezzabile di questa prima fase della riflessione di Russell é costituito da I princìpi della matematica , pubblicati nel 1903, a cui avrebbero fatto seguito i Principia mathematica (1910-1913) composti insieme con A. N. Whitehead. Nel 1912 Russell pubblicò una fortunata esposizione divulgativa del suo pensiero, I problemi della filosofia , e nel 1914 fu inviato a tenere una serie di lezioni ad Harvard, a Boston e ad Oxford, dalle quali ebbe origine il volume La nostra conoscenza del mondo esterno , del 1914. Durante la guerra, per via della sua attività pubblica a favore del movimento pacifista, Russell fu allontanato dall’insegnamento a Cambridge e condannato a sei mesi di reclusione in carcere, durante i quali compose l’ Introduzione alla filosofia matematica . Da allora la sua attività filosofica fu sempre intrecciata a battaglie politiche e sociali; nel 1920 fece un viaggio nell’Unione Sovietica, di cui condannò il totalitarismo nel volume Teoria e pratica del bolscevismo (1920). Nel 1920-1921 insegnò a Pechino e nel 1927 aprì con la seconda moglie una scuola sperimentale, dove era applicata una pedagogia non autoritaria. Tutto questo, unitamente ad una serie di scritti popolari, come L’educazione dei nostri figli (1926) , Matrimonio e morale (1929) , La conquista della felicità (1930) , Religione e scienza (1935), nei quali abbracciava posizioni spregiudicate su questioni religiose ed etiche, anche nel campo dell’etica sessuale, suscitò critiche dei benpensanti. A parere di Russell gli enunciati etici non hanno una dimensione conoscitiva, ma esprimono desideri, che nascono dall’esperienza immediata dell’individuo, sebbene mantengano una portata universale, nel senso che sono mossi dall’intento che il proprio desiderio diventi il desiderio di tutti. In particolare, si tratta di rendere possibili le condizioni che consentano a ciascuno di conquistare la felicità, rimuovendo ogni occasione di conflitto e, quindi, armonizzando tra loro i desideri individuali e rafforzando quelli che non producono effetti negativi sugli altri. Su questa base, Russell intervenne costantemente nel corso della sua vita a difendere la libertà degli individui e il loro diritto a perseguire la felicità, contro tutte le forme di ingiustizia e di imposizione autoritaria, politica o religiosa. Russell definì ‘buona’ la vita ‘guidata dall’amore e ispirata dalla conoscenza’, non asservita al potere e basata sulla tolleranza e sul dibattito razionale. Nel frattempo, Russell proseguiva i suoi studi filosofici, influenzato anche dalle teorie di Wittgenstein, che era stato suo allievo a Cambridge prima della guerra. I vari saggi, tra i quali anche la prefazione da lui scritta alla traduzione inglese del Tractatus logico-philosophicus (1922), espose le linee di una filosofia che egli definì ‘atomismo logico’ e nel 1927 pubblicò il saggio Analisi della materia . Soprattutto a partire dal 1938, Russell tornò ad intensificare le sue ricerche filosofiche, tenendo lezioni a Oxford, Chicago e Los Angeles. Nel 1940 gli fu offerto un incarico di insegnamento a New York, ma accusato di immoralità per le sue idee anticonformiste ne fu poi allontanato. Russell tenne allora le ‘William James lectures’ a Harvard, da cui ebbe origine il volume Indagine su significato e verità , del 1940. Fra il 1941 e il 1943 tenne lezioni presso la Barnes Foundation, negli USA, su temi che entreranno a costituire la Storia della filosofia occidentale , pubblicata nel 1945, che ebbe uno straordinario successo ed ebbe parecchie ristampe. Nel 1944, Russell rientrò in Inghilterra e ricevette un incarico di insegnamento a Cambridge, che egli tenne fino al 1950: frutto di tale insegnamento fu la sua vasta ed ultima opera filosofica, La conoscenza umana , del 1948. Nel 1950 ricevette il premio Nobel per la letteratura e successivamente prese posizione contro il maccartismo, propugnò il pacifismo e propose il disarmo unilaterale senza condizioni. Nel 1961 capeggiò un sit-in di protesta di fronte al Ministero britannico della Difesa e fu condannato a due mesi di carcere, ridotti ad una settimana a causa delle sue cagionevoli condizioni di salute. Gli ultimi anni della sua vita lo videro intervenire durante la crisi di Cuba, con lettere a Kennedy e Kruscev, e durante la guerra del Vietnam, con l’istituzione di un tribunale per i crimini della guerra, denominato Tribunale Russell. Nel 1967, poco prima che sopraggiungesse la morte, iniziò la pubblicazione delle sue memorie, intitolate Autobiografia ; nel 1970 lo colse la morte.
MATEMATICA E LOGICA
In un primo tempo, Russell fu influenzato dall’idealismo di Bradley e di Mc Taggart, che poi abbandonò, anche per via dell’influsso di Moore, aderendo ad una ‘posizione realistica’ , che riconosce l’esistenza della pluralità di oggetti, con i quali hanno a che fare l’esperienza comune e il sapere matematico. Ad avviso di Russell, alla base del monismo di Bradley c’é una logica erronea, che privilegia la forma soggetto-predicato: per Bradley infatti ogni proposizione attribuisce un predicato alla realtà assoluta, intesa come l’unico soggetto. Ma il nostro linguaggio ha non solo proposizioni del tipo soggetto-predicato, ma anche proposizioni che fanno riferimento a relazioni di maggiore e minore, di prima e dopo e così via. Un termine, che può assumere o no qualcuna di queste relazioni, deve rimanere invariato, ma allora ne consegue che, contrariamente a quanto aveva pensato Bradley, nessuna relazione modifica i termini tra i quali intercorre. Se ad esempio si esamina la proposizione ‘A é maggiore di B’ , si vede che questa relazione non é l’attribuzione di una qualità o proprietà ad un soggetto e, quindi, non é riducibile alla forma soggetto-predicato, in quanto dipende sia da A sia da B. Questo vuol dire che questa relazione é esterna sia ad A sia a B, cioè collega tra loro entità che sussistono indipendentemente da tale relazione: l’universo é dunque popolato di termini, cioè di entità, che in questa fase del suo pensiero Russell considera analoghe alle idee platoniche, le quali sono caratterizzate da relazioni esterne tra loro, ossia tali da non produrre una loro modificazione interna: e Russell afferma che ‘ il mondo improvvisamente diventò vario, ricco e solido ‘. Solo una logica delle relazioni può rendere conto della stessa operazione del contare, consistente nel porre in relazione termine a termine, e consentire in questo modo l’analisi di intere regioni della matematica, nelle quali sono essenziali le nozioni di ordine e di successione, per esempio tra numeri o tra punti, le quali non sono descrivibili nei termini della logica di soggetto-predicato. Al calcolo delle proposizioni e al calcolo delle classi, già ampiamente illustrato dalla logica simbolica, Russell affianca dunque una logica delle relazioni, caratterizzate dall’uso di simboli appropriati e i cui antecedenti possono essere ravvisati soprattutto nell’opera di Peirce. Russell riscontra vari tipi di relazioni: in primis distingue tra relazioni simmetriche e asimmetriche ; prendiamo R come simbolo per indicare la relazione e a e b per indicare i termini tra i quali essa intercorre: una relazione si dice simmetrica quando, se vale aRb , allora vale pure bRa e viceversa; di questo tipo é per esempio la relazione ‘fratello di’; infatti, se Giorgio é fratello di Marco, Marco é fratello di Giorgio. Una relazione si dice invece asimmetrica quando questo non vale: per esempio, se Giorgio é padre di Marco, allora Marco non é padre di Giorgio. Inoltre alcune relazioni godono della proprietà transitiva , per cui se aRb e bRc , allora aRc , mentre altre non ne godono. Ad esempio, godono della relazione transitiva le relazioni di maggiore e di minore: infatti se A é maggiore di B e B é maggiore di C, allora A é maggiore di C. Non si può invece concludere ad esempio che se A é padre di B e B é padre di C, allora A é padre di C ; qui non vale la proprietà transitiva. Nella sfera della logica proposizionale Russell introduce la distinzione tra proposizione e funzione proposizionale : quest’ultima é un’espressione avente ad esempio la forma ‘x é un uomo’ , dove x é una variabile sostituibile da un termine definito, detto costante , ad esempio dal termine ‘Socrate’, dando luogo alla proposizione ‘Socrate é un uomo’. Russell non restringe il rango delle entità delle entità che possono essere sostituite alla variabile in una funzione proposizionale; l’unica condizione é che la condizione sia ‘ qualcosa di assolutamente definito, riguardo al quale non vi é alcuna ambiguità ‘ . Una funzione proposizionale di per sè non é nè vera nè falsa; vera o falsa é la proposizione che si ottiene sostituendo la variabile con una costante. Risulta inoltre che una una funzione proposizionale può essere considerata come una classe di proposizioni: nell’esempio considerato, ‘x é un uomo’ é la classe di tutte le proposizioni che hanno come predicato ‘é un uomo’. Tra le proposizioni esiste una relazione di implicazione che Russell definisce materiale : essa si esprime nella forma ‘se P, allora Q’ ; in questo caso si può anche dire che Q é deducibile da P , se non si dà il caso che P é vera e Q é falsa. L’implicazione tra funzioni proposizionali é invece detta formale , dal momento che non riguarda singole proposizioni con i loro specifici contenuti materiali: così, ad esempio, ‘x é un uomo’ implica formalmente che ‘x é mortale’ , il che significa che ‘se x é un uomo, allora x é mortale’ . La conoscenza dell’opera del professore dell’università di Torino, Giuseppe Peano, autore di un Formulario di matematica , fu importantissima per Russell soprattutto per quel che riguarda la concezione dei rapporti tra matematica e logica . Peano aveva dimostrato che é possibile costruire l’intera teoria dei numeri naturali partendo da tre concetti fondamentali (zero, numero e successore immediato) e da 5 assiomi; per Russell questi tre concetti di Peano sono riducibili alle nozioni logiche di classe e di relazione. Questo vuol dire che la conoscenza matematica può essere pienamente giustificata mostrandone la derivabilità da queste nozioni meramente logiche. Egli avrebbe assolto a questo compito per mezzo della costruzione, tramite i simboli della logica, di un edificio puramente formale nei Principia mathematica , composti insieme a Whitehead: qui i teoremi della matematica pura sono dedotti a partire dalla definizione di zero, numero e successore, usando regole di derivazione delle proposizioni. Questa derivazione é attuata grazie all’ausilio di 4 operatori o costanti logiche: ‘non’ (negazione), ‘e’ (congiunzione), ‘o’ (disgiunzione) e ‘se…, allora…’ (implicazione). Russell é convinto che la matematica pura é la classe di tutte le proposizioni che hanno la forma dell’implicazione e che é compito della logica analizzare questa relazione. Ma per dimostrare che la matematica si fonda sulla logica, si deve anche dimostrare che i numeri naturali e, quindi, tutte le nozioni fondamentali dell’aritmetica, sono definibili in termini di classe . I numeri non coincidono con le classi di oggetti che sono contati, ma sono quel che tutte queste collezioni di oggetti hanno in comune. Russell definisce pertanto il numero cardinale come ‘ la classe di tutte le classi simili ad essa ‘ , cioè di tutte le classi i cui membri possono essere correlati uno ad uno. Ad esempio, una classe ha tre membri, se appartiene alla classe alla quale appartengono tutte le classi simili ad essa, dove ‘simile’ vuol appunto dire che i membri di tali classi possono essere correlati uno ad uno. In tal modo ogni discorso aritmetico su numeri é formulabile nei termini di un discorso meramente logico riguardante le classi e le loro relazioni. Ben presto tuttavia Russell prese atto che il concetto di classe, o di insieme, può dar luogo ad antinomie o paradossi . In particolare, il pensatore inglese individuò, già al termine della stesura dei Principi di matematica , una contraddizione relativa alla nozione di ‘classe di classi’ , la quale é essenziale per definire i numeri naturali. Egli distinse tra classi che non sono membri di se stesse, cioè non contengono se stesso come elemento: ad esempio, la classe degli uomini non é un uomo e, quindi, non é un membro di se stessa, mentre la classe di tutti i concetti é a sua volta un concetto e, quindi, contiene se stessa come elemento. A questo punto si pone l’interrogativo: la classe di tutte le classi, che non sono membri di se stesse, é membro di se stessa? Se si dice ‘sì’ , essa é una classe che é membro di se stessa, ma allora contiene se stessa come elemento e, quindi, non é più la classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento. Se si dice ‘no’, essa é una classe che non é membro di se stessa, ma allora appartiene alla classe delle classi che non contengono se stesse come membro e, quindi, contiene se stessa come elemento. Quale che sia la risposta data, ne consegue sempre e comunque l’opposto rispetto ad essa: questo vuol dire che la nozione di classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento genera contraddizioni. Questa antinomia faceva vacillare il programma logistico: quale é l’utilità nel definire i numeri in termini di classi, se la nozione di classe genera contraddizioni? Per risolvere questo problema, Russell elaborò la cosiddetta teoria dei tipi , in un primo tempo in una versione più semplice e poi i una più complessa, detta ‘ramificata’ . A suo parere, i paradossi nascono da un circolo vizioso, consistente nel ‘ supporre che una collezione di oggetti possa contenere membri definibili solo tramite la collezione presa come un tutto ‘ . Per evitare questo circolo vizioso, che consiste nell’ autoriferimento di una totalità o di una classe a se stessa, bisogna evitare che tale totalità sia predicata di se stessa e far sì che qualunque asserzione su di essa cada fuori dalla totalità stessa. Per Russell a questo si può provvedere distinguendo tra vari livelli o tipi di oggetti e predicati: di tipo 1 sono gli individui (ad es. Socrate), di tipo 2 sono le proprietà o le classi di individui (ad es, l’umanità), di tipo 3 sono le proprietà o le classi di proprietà e così via. Il paradosso delle classi sorge dal presumere che tutte le classi siano di un tipo solo, mentre é fondamentale che le proprietà di un livello o tipo superiore siano applicate, vale a dire predicate, solamente ad oggetti di tipo inferiore. Questo vuol dire che, data ad esempio la funzione proposizionale ‘se x é un uomo, x é mortale’ , la teoria dei tipi dà regole per i valori che x può ammettere. Ad esempio, da tale funzione é legittimo inferire la proposizione ‘se Socrate é un uomo, Socrate é mortale’ , ma non ‘se la legge di contraddizione é un uomo, allora la legge di contraddizione é mortale’ : quest’ultimo é solamente un gruppo di parole scevro di senso. Questo implica che ‘Socrate’ e ‘la legge di contraddizione’ appartengano a tipi diversi tra loro.
LINGUAGGIO E CONOSCENZA
La scoperta dei paradossi relativi alle classi portò Russell a riconsiderare il proprio originario platonismo, cioè l’assunzione dell’esistenza oggettiva di una molteplicità di entità; un problema particolarmente spinoso era dato dai cosiddetti oggetti non esistenti, di cui aveva parlato a suo tempo Meinong, come, ad esempio, il ‘quadrato rotondo’ . Sappiamo che oggi non esiste un re di Francia, ma é possibile interpretare una frase del tipo ‘l’attuale re di Francia é calvo’ senza riferirsi ad un’entità? A questi problemi Russell tentò di rispondere con un articolo di fondamentale importanza, intitolato Sul denotare , pubblicato nel 1905 su Mind , una delle più famose riviste inglesi di filosofia: in esso, Russell costruì quella che é nota come teoria delle descrizioni . Esempi di frasi denotanti sono ‘un uomo’ , ‘ogni uomo’ , ‘l’attuale re di Inghilterra’ , ‘l’attuale re di Francia’, e così via. Esse possono avere la funzione di soggetti grammaticali in una proposizione, ma bisogna per questo ammettere che esse si riferiscano ad entità? Per Russell se si possono riformulare in enunciati, che non contengono più frasi denotanti, non é più necessario supporre che tali frasi siano nomi che denotano entità. Diventa cioè possibile introdurre un principio di economia, una specie di rasoio di Ockham, nell’universo sovrappopolato di oggetti, di cui avevano parlato Meinong e Russell in persona, e non é più necessario assumere l’esistenza oggettiva di classi, punti, istanti, particelle. Così, ad esempio, una descrizione del tipo ‘ogni x é y’ é riformulabile in ‘per tutti i valori di x, x é y é vero’: in questo modo viene estirpato ‘ogni’ e non é più necessario assumere che esista una misteriosa entità il cui nome sarebbe ‘ogni’. La forma logica di questi enunciati viene perciò spiegata e chiarificata tramite una parafrasi in cui la descrizione viene abolita. Più complesse sono le descrizioni definite, precedute dall’articolo determinativo, ma anch’esse sono sottoponibili allo stesso tipo di analisi. Così, ad esempio, ‘l’autore di Ivanhoe é scozzese’ non predica una proprietà di una particolare entità, cioè non implica l’esistenza di un’entità, il cui nome sarebbe ‘l’autore di Ivanhoe’ . Tale frase infatti é parafrasabile come la congiunzione di tre proposizioni: 1 ) almeno una persona ha scritto Ivanhoe ; 2 ) al massimo una persona scrisse Ivanhoe; 3 ) chiunque abbia scritto Ivanhoe é scozzese. Come é evidente, qui non si assume più l’esistenza di un’entità chiamata ‘l’autore di Ivanhoe’ ; si può dire in modo comprensibile ‘l’autore di Ivanhoe é scozzese’ , anche se Ivanhoe non avesse autore; in tal caso l’enunciato risulterebbe falso. Allo stesso modo ‘l’attuale re di Francia é calvo’ ha senso, senza che per questo motivo si debba assumere l’esistenza di un’entità così denominata. La teoria delle descrizioni permette a Russell di affrontare il problema della conoscenza , riprendendo e sviluppando una distinzione tra due tipi di conoscenza, già presente in William James. La prima é la conoscenza diretta ( in inglese by acquaintance ), la quale ha come oggetto qualsiasi cosa di cui si sia consapevoli direttamente, senza che ci siano ragionamenti o conoscenze acquisite per altra via a far da intermediari. Questi oggetti sono i dati della percezione sensibile, ma anche gli universali, come la bianchezza, la somiglianza, ecc; essi sono i materiali in base ai quali si perviene con un lavoro costruttivo ad una seconda forma di conoscenza, la conoscenza per descrizione , la quale permette il superamento dei limiti dell’esperienza strettamente personale e la conoscenza delle proprietà di una cosa, anche senza avere esperienza diretta della medesima. Di questo tipo é per Russell la conoscenza degli stessi oggetti fisici, i quali, come diceva Moore, non ci sono noti per esperienza diretta, ma solo tramite un processo di inferenza a partire dai dati della nostra percezione: così perveniamo alla descrizione di un oggetto fisico come di quell’oggetto che causa determinati nostri dati percettivi. In questo senso, l’oggetto fisico detto tavolo, ad esempio, é una costruzione logica elaborata a partire dall’esperienza sensibile. Con questa teoria Russell vuole difendere non solo il senso comune, come faceva Moore, ma anche e specialmente la validità della conoscenza scientifica . La conoscenza della verità si articola su due livelli, la conoscenza immediata di proposizioni riguardanti dati di senso e relazioni logiche, la quale é dotata di certezza, e la conoscenza derivata da queste, la quale é suscettibile di errore. In particolare, si pone il problema della relazione tra i dati sensibili e le nozioni di spazio, tempo, materia, quali sono non solo usate, ma costruire una fisica matematizzata. A questo scopo Russell introduce il concetto di sensibilia , nell’opera intitolata La nostra conoscenza del mondo esterno (1914): i ‘sensibilia’ sono oggetti con lo stesso status ontologico e fisico dei dati sensibili, ma che di fatto nessuno percepisce. I dati sensibili, infatti, per Russell non sono stati mentali o costituenti di stati mentali e, quindi, nulla impedisce di supporre che esistano sensibilia come costituenti ultimi del mondo fisico. Sia le cose del senso comune, sia gli oggetti delle scienze fisiche risultano pertanto essere costruzioni a partire dai sensibilia: in particolare, una cosa del senso comune é solo la classe delle sue apparenze attuali o possibili. Questo vuol dire che quel che é reale di una cosa sono tutti i suoi aspetti, mentre la cosa stessa é solo una costruzione logica di riunificazione di questi aspetti. Gli oggetti fisici sono allora definibili come serie di dati sensibili, legati insieme da sensibilia, e la scienza fisica non necessita di ipotizzare oggetti fisici, come qualcosa di distinto dai nostri dati sensibili. Anche sotto questo profilo, Russell metteva in atto il principio di economia del rasoio di Ockham: quanto più é ridotto al minimo il numero delle entità necessarie, tanto minori sono i rischi di errore che si possono correre nell’enunciare le proprie teorie. Anche in altre opere, come Analisi della materia (1927) e La conoscenza umana (1948) , Russell tentò di dimostrare la continuità delle conoscenze acquisite dalla fisica con i dati percettivi dell’esperienza comune; fu sempre convinto che le conoscenze scientifiche dovessero essere accettate proprio perchè implicano un minor rischio di errori, ma riconobbe che, in generale, ‘ tutta la conoscenza umana é incerta, inesatta e parziale ‘ . Le discussioni con l’allievo Wittgenstein portarono Russell nel primo dopoguerra a rielaborare le proprie concezioni precedenti, dando luogo a quella che lui stesso definì la filosofia dell’ atomismo logico ; egli parte dall’assunto che la totalità del mondo é costituita da fatti atomici , i cui ingredienti sono i dati sensibili e gli universali: fatti atomici sono ad esempio che Socrate é morto o che A sta prima di B, dove A e B sono dati sensibili. Ai fatti atomici corrispondono, sul piatto linguistico, le proposizioni atomiche : di questo genere sono ad esempio ‘questo é rosso’ , cioè l’attribuzione di una proprietà universale semplice (rosso) a una particolare semplice (questo) o ‘Garibaldi fu il marito di Anita’ , cioè l’asserzione che determinati oggetti stanno fra loro in una determinata relazione. I fatti possono essere particolari o universali e trovano dunque espressione compiuta in proposizioni del tipo ‘questo é rosso’ o ‘tutti gli uomini sono mortali’ , ma i fatti di per sè non sono nè veri nè falsi, mentre vere o false sono le proposizioni che ne parlano, a seconda che corrispondano o meno ai fatti stessi. In questo modo Russell fa propria la teoria della verità come corrispondenza delle proposizioni ai fatti; tramite l’uso dei connettivi, cioè di quelle che aveva un tempo chiamato costanti logiche, si costruiscono a partire dalle proposizioni atomiche le proposizioni molecolari. La verità delle proposizioni molecolari dipende dalla verità delle sue componenti atomiche, cosicchè ad esempio ‘P é Q’ é vera se sono vere le proposizioni atomiche P e Q. Al centro della filosofia dell’atomismo logico c’é dunque lo studio delle connessioni tra il linguaggio e il mondo, al fine di raggiungere una conoscenza del mondo. Russell fu del parere che la domanda centrale dell’epistemologia fosse: perchè si deve credere a questo piuttosto che a quello? La risposta a questa domanda può essere fornita, a suo avviso, solo facendo riferimento alle conoscenze di base date dall’esperienza immediata. In questo senso Russell si sarebbe opposto ai tentativi di ridurre le questioni epistemologiche a questioni meramente linguistiche e a considerare la verità delle teorie scientifiche in termini di pura coerenza interna fra le proposizioni costitutive di una scienza. Allo stesso modo, Russell avrebbe aborrito come futile gioco o semplice contributo alla lessicografia l’analisi del linguaggio comune, sulla quale insisteva Wittgenstein e molti filosofi di Oxford di quegli anni.
IL PARADOSSO DEL BARBIERE
In campo filosofico, non si sa bene perchè, l’immagine dei barbieri e dei loro strumenti è piuttosto ricorrente: Guglielmo da Ockham, nel Medioevo, aveva impiegato filosoficamente il concetto di ‘rasoio’ per spiegare come sia opportuno ricorrere al minor dispendio possibile di energia esplicativa, tagliando via, proprio come fa il barbiere con il rasoio, il superfluo. Bertrand Russell, invece, esattamente nel 1901, ideò quello che è divenuto celebre come ‘paradosso di Russell’ o ‘paradosso del barbiere’, consistente in questo enunciato: in un paese dove tutti gli uomini sono rasati, esiste un solo barbiere il quale rade tutti gli uomini che non si radono da soli. Ma allora, chi rade il barbiere? Analizzando il problema con la teoria degli insiemi, è chiaro che nel paese esiste l’insieme degli uomini che si radono da soli e quello degli uomini che si fanno radere. Il barbiere si rade da solo? Impossibile, perchè il barbiere rade tutti gli uomini che non si radono da soli! Qualcun altro lo rade? No, perchè il barbiere rade tutti gli uomini che non si radono da soli! Ci troviamo di fronte ad un paradosso. Secondo Russell, per superarlo, bisogna correggere la nostra convinzione (errata) che per ogni proprietà debba per forza esistere un insieme: in qualche caso non si forma nessun insieme coerente.
ALFRED NORTH WHITEHEAD
Le nozioni di Passato e di Futuro sono fantasmi all’interno del fatto del Presente.
Alfred North Whitehead (1861-1947) è l’altro grande protagonista (con Russell e Moore) del rinnovamento logico-epistemologico maturato a Cambridge nei primi decenni del Novecento. Le sue opere più importanti sono Processo e realtà (1929), Il concetto di natura (1920), La scienza e il mondo moderno (1926) e Avventure di idee (1933). Pur avendo come sfondo la cultura scientifica del suo tempo, il realismo di Whitehead non è funzionale ad un’analisi critica della conoscenza e del linguaggio (come invece è in Moore), ma ha come esito la riproposizione di una metafisica ontologica che si richiama per molti versi a Platone (Whitehead fu definito l’ultimo platonico di Cambridge), per alcuni versi a Leibniz e per altri ancora a Hegel. Nella carriera filosofica di Whitehead si è soliti distinguere tre fasi, che non mancano però di apparire connesse da una vena “realistica” sostanzialmente unitaria. Il nucleo della prima fase è di carattere specificamente matematico e logico ed ha il suo momento culminante nella collaborazione con Russell alla stesura dei Principia mathematica . Nella seconda fase, legata all’insegnamento di Whitehead svolto a Londra, prevalgono gli interessi per le scienze naturali e la teoria di Einstein. Nella terza ed ultima fase, connessa ad un soggiorno negli Stati Uniti (presso la Harvard University) viene sviluppata la versione più matura del realismo organico di Whitehead, consegnata alla sua maggiore opera: Processo e realtà (1929). Il presupposto fondamentale del realismo di Whitehead è che l’oggetto della percezione (la natura) è qualcosa di diverso dal pensiero ; ciò non comporta però un dualismo tra pensiero e mondo naturale. L’originalità della concezione realistica whiteheadiana risiede nel tentativo di costruire, sulla base dei risultati della fisica più recente (in uno studio del 1922 Whitehead interpreta la teoria della relatività di Einstein), una cosmologia sistematica in cui trovino una spiegazione unitaria i processi del mondo organico e le forme della vita umana e della società nella varietà e nella continua integrazione dei loro molteplici aspetti: ” l’ufficio della filosofia è quello di sfidare le mezze verità costituenti i princìpi primi delle scienze. La sistemazione della conoscenza non può essere in compartimenti-stagno. Le verità generali si condizionano l’un l’altra, e i limiti della loro applicazione non possono essere adeguatamente definiti senza la loro correlazione in una generalità più vasta “. Il volume Il concetto di natura , pubblicato nel 1922, è il primo importante tentativo di chiarire i caratteri dinamici e relazionali del mondo naturale e di offrire un’alternativa non solo alle concezioni meccanicistiche della fisica sette-ottocentesca, ma anche ai modelli statici del materialismo e del “sostanzialismo” contemporanei. Tra gli aspetti più stimolanti dell’opera di Whitehead va annoverata la critica delle false astrattezze in cui sono incorse le metafisiche tradizionali coi loro dualismi irriducibili. Quella che il filosofo inglese definisce la ” duplicazione della natura in due sistemi di realtà “, vale a dire la natura quale è ipotizzata dalla fisica e la natura quale è data nell’esperienza sensibile, è responsabile di uno dei più tenaci errori che ha impedito di cogliere il carattere organico della natura. La stessa idea di sostanza, dice Whitehead, è indisgiungibilmente legata al pregiudizio della “localizzazione semplice” che disconosce la natura “processuale” dell’esperienza e i caratteri di creatività e di novità inerenti al mondo della natura e dell’uomo. Alla sostanza Whitehead contrappone l’ evento come ” elemento concreto primario ” della natura, che costituisce un nodo di relazioni non isolato nè isolabile dall’universo in cui è compreso: la realtà in generale è costituita da eventi forniti di prensioni (o percezioni) di tutti gli altri eventi del mondo, proprio come le monadi leibniziane erano un “punto di vista sull’universo”. Gli eventi hanno carattere soggettivo oppure oggettivo a seconda che, appunto, siano soggetto o oggetto di percezione, cioè percepiscano gli altri inglobandoli nella propria coscienza, o viceversa siano percepiti e inglobati dalla coscienza degli altri. E gli eventi non sono statici, ma dotati di una vivace dinamicità: ogni evento, infatti, è connesso con il tutto in un “processo” unitario in cui consiste la realtà nel suo insieme. Le singole individualità “concrescono” insieme al tutto di cui fanno parte e che idealmente le precede; ed è per questo che Whitehead, con la sua filosofia organica, fa riferimento ad Hegel, anche se il suo monismo tende a sposarsi con il pluralismo leibniziano. Nella sua summa filosofica del 1929, in cui “processo” e “realtà” non indicano termini antitetici ma intendono configurare aspetti dell’universo reciprocamente integrantisi, Whitehead giunge a formulare appunto una filosofia dell’organismo che, nonostante la vastità e le innegabili suggestioni del disegno speculativo, non appare priva di oscurità e di contraddizioni rispetto alle istanze da cui aveva preso le mosse. La nozione stessa di “processo” implica, ad esempio, che le sue realizzazioni ( gli ” enti attuali “, come li designa Whitehead) siano indicati come ” oggetti eterni ” , fondamenti immutabili che vengono postulati per spiegare il processo stesso. Egualmente, il concetto di Dio , introdotto da Whitehead non nel tradizionale senso trascendentale ma come sistema degli oggetti eterni, sembra assolvere all’interno del “processo” universale lo stesso ruolo che nelle metafisiche sostanzialistiche era stato designato come il fine ultimo e il principio unificatore del divenire. In altri termini, il processo della realtà (oltrechè dagli eventi) è costituito da una pluralità di forme ideali (o oggetti eterni) che si realizzano e si manifestano gradualmente in essi; questi oggetti eterni (che fanno trasparire il platonismo di Whitehead) restano astratti fino a che non abbiano occasione di concretizzarsi e attuarsi in un evento, che per questo motivo è anche detto del occasione attuale “. Poiché nelle loro più elevate espressioni gli oggetti eterni costituiscono il mondo dei valori supremi, la loro progressiva realizzazione nel tempo permette a Whitehead di dare un’interpretazione teologica del processo reale, il quale è considerabile sotto due aspetti. Da un lato, esso presuppone una del natura primordiale , che contiene in sé la totalità degli oggetti eterni come presupposto della possibilità del processo stesso; dall’altro, esso si traduce, con le sue graduali realizzazioni concrete delle idee eterne, in del natura conseguente . Le due nature (primordiale + conseguente) esprimono congiuntamente l’essenza di Dio. Come rivela lo stesso uso terminologico relativo alle due nature (che ricalcano la tradizionale distinzione tra “natura naturante” e “natura naturata”) la concezione teologica di Whitehead è immanentistica e panteistica: Dio coincide con la natura, ancorchè considerata non solamente nei suoi aspetti oggettivi e descrittivi, ma anche in quelli formali e normativi.
LUDWIG WITTGENSTEIN
Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciň che puň dirsi: dunque, proposizioni della scienza naturale- dunque qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare-, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro- egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia-, eppure esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto. Le mie proposizioni illustrano cosě: colui che mi comprende infine le riconosce insensate, se č salito per esse- su esse- oltre esse; (Egli deve, per cosě dire, gettar via la scala dopo che v’č salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciň di cui non si puň parlare, si deve tacere. (Tractatus, 6.53-7)
VITA E OPERE
Nato a Vienna da una famiglia alto borghese di religione ebraica, Ludwig Wittgenstein (1889-1951) si trovò immerso sin dall’infanzia in un clima intellettuale molto vivace ed inquieto. Nel primo quindicennio del Novecento Vienna era uno degli epicentri della cultura europea d’avanguardia: Freud vi aveva aperto il proprio gabinetto medico, e di lì andava organizzando il movimento psicoanalitico. In ambito filosofico-scientifico, Mach vi aveva appena pubblicato Conoscenza ed errore (1905) e stava ulteriormente approfondendo la critica al positivismo e le sue originali tesi empiriocriticiste, che tanta influenza avranno di lì a poco sui fondatori della scuola neopositivistica (anch’essa di origine viennese). E uno dei tratti caratterizzanti della cultura viennese di questo periodo è il profondo interessamento per la problematica del linguaggio, centrale nell’arte non meno che nella filosofia e nella scienza: un interesse testimoniato dalla riflessione di tanti viennesi sulla crisi di certe forme espressive, dalla correlativa ricerca di nuove forme (la dodecafonia in ambito musicale) e, in sede più speculativa, da un rinnovato studio del linguaggio sia in sé e per sé, sia nel suo rapporto col sapere e col mondo. E il principale tema di indagine di Wittgenstein fu appunto il linguaggio. A partire dal 1908 egli trascorse lunghi periodi di studio in Gran Bretagna, dapprima come studente di ingegneria all’università di Manchester e poi, dietro consiglio di Frege, come studente di logica e filosofia a Cambridge, sotto la guida di Russell (che all’epoca stava ultimando i Principia mathematica ), al quale si legò profondamente. E non a caso proprio in questo ambiente Wittgenstein elabora il primo nucleo di quello che sarà il suo capolavoro: il Tractatus logico-philosophicus , l’unica opera che egli volle dare alle stampe (fu pubblicato prima in una rivista austriaca nel 1921 e poi, nel 1922, a Londra, con una lunga introduzione di Russell). Nonostante lo stile arduo e inconsueto, il Tractatus fu accolto con vivissimo interesse sia in Inghilterra (il titolo dell’opera era stato suggerito da Moore), sia in Austria, dove presto diverrà un testo di riferimento fondamentale per i membri del Circolo di Vienna. Ma Wittgenstei non partecipò quasi mai ai dibattiti divampati dalla sua opera, né tanto meno entrò nel gruppo dei “circolisti” viennesi (dai quali si sentiva assai distante). Per vari anni sembrò anzi volersi allontanare dalla filosofia stessa, insegnando come modesto maestro elementare in alcuni paesi austriaci. Solo alla fine degli anni ’20 si arrese alle insistenze pressanti degli amici uscendo dal suo volontario isolamento. Nel 1929 tornò a Cambridge, dove stette per il resto della sua vita, circondato da una nutrita schiera di fedeli discepoli. Pur non pubblicando nulla, Wittgenstein riprese intensamente la propria riflessione e ricerca filosofica. Il punto di partenza fu nuovamente la problematica del linguaggio e del suo rapporto col mondo: ma fin dall’inizio egli non tacque la sua insoddisfazione nei confronti di molte delle tesi esposte nel Tractatus . I numerosi appunti che lasciò manoscritti ( Osservazioni filosofiche , 1929-30; Grammatica filosofica , 1932-34; Libro blu , 1933-34; Libro marrone , 1934-35), e che vennero pubblicati postumi, attestano il rilievo della sua evoluzione teorica in questo periodo. Altro e più consistente materiale inedito, in parte risalente ad un’epoca posteriore, prova che Wittgenstein andava realmente disegnando le linee di una nuova filosofia (e così si è potuto parlare di un “secondo Wittgenstein”): una filosofia che, esposta nei celebri seminari wittgensteiniani in un modo che è stato definito “socratico”, ebbe una grande risonanza non solo entro la cerchia dei diretti discepoli ma anche in un’area non piccola del pensiero inglese del tempo. Una parte del materiale appena citato venne dato alle stampe nel 1953 sotto il titolo di Ricerche filosofiche . Nonostante lo stato relativamente incompiuto, questa nuova opera fu salutata come il secondo grande libro di Wittgenstein; essa ha esercitato una grande influenza sul pensiero novecentesco: un’influenza forse anche maggiore di quella del Tractatus . Altri testi rilevanti ricavati dagli scritti inediti del filosofo sono le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1937-44), le Osservazioni sui fondamenti della psicologia (seconda metà degli anni ’40), Zettel (1945-48), Della certezza (1950-51) e le Osservazioni sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer (composte nel 1931, ma con alcune aggiunte molto posteriori). Ulteriori pagine diaristiche e autobiografiche e altre di interesse etico, religioso ed estetico sono state pubblicate in tempi e luoghi diversi (molto importanti sono anche le epistole).
IL TRACTATUS : INTERPRETAZIONI E PRINCIPI
Il Tractatus logico-philosophicus è una delle opere più complesse e importanti del pensiero novecentesco, e anche una delle più enigmatiche e controverse: assunta in un primo tempo come uno dei principali testi ispiratori del movimento neopositivistico (e di quanti coltivavano, in generale, un ideale di “filosofia scientifica”), in anni successivi è stata letta in modi molto diversi, ora come un testo sostanzialmente kantiano (poiché volto alla ricerca delle condizioni di possibilità e di dicibilità delle cose), ora come una riflessione anti-razionalistica e a suo modo perfino mistica (poiché si sottolineano soprattutto i limiti del dicibile e il rilievo di ciò che sta oltre tali limiti, rilievo che non è razional-scientifico, ma etico). Lo stesso Wittgenstein non ha mai fatto granchè per facilitare la comprensione del suo testo: da un lato egli sembra incoraggiarne una lettura in chiave spiccatamente logico-epistemologico-scientifica; anzi, il modello di sapere valorizzato da certe sue dichiarazioni appare di tipo molto forte, oggettivo, assolutizzante (come quando, nella prefazione del Tractatus , asserisce che ” la verità dei pensieri qui comunicati ” è ” intoccabile e definitiva ” e che ritiene ” d’aver definitivamente risolto i problemi affrontati “). Da un altro lato stanno invece considerazioni di natura molto diversa, che enfatizzano la ristrettezza dell’ambito di praticabilità del pensare/parlare rigoroso e il peso di quanto si dà fuori di tale ambito. Ma questo non basta: in una famosa lettera a Ludwig von Ficker, Wittgenstein volle una volta sottolineare la natura fondamentalmente morale del Tractatus : scriveva che ” il senso del libro è un senso etico “. E più avanti aggiungeva: ” il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante “. La dichiarazione è indubbiamente sconcertante: ma l’apparente paradosso che contiene si scioglie se la si interpreta come un riferimento a tutto quel mondo di vita e di esperienza di cui il Tractatus non aveva parlato perché situato fuori da ben precise coordinate logico-linguistiche (e che invece era quello davvero “importante”). Al di là delle auto-interpretazioni di Wittgenstein, riconosciuta l’esistenza di svariati significati (e per di più non univoci) della sua opera, resta certo un fatto: il Tractatus si inserisce a pieno titolo in quell’intensa stagione di riflessioni e ricerche primo-novecentesche nella quale filosofi di diversa provenienza teorica si posero il problema di una rifondazione della conoscenza e del sapere. In quest’ottica, il lavoro wittgensteiniano, se certo preannuncia e prepara le grandi investigazioni neopositivistiche, è anche meno lontano di quanto si possa comunemente immaginare dai testi del primo Husserl: di quell’Husserl che a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento si era cimentato nella ricerca dei fondamenti dell’aritmetica, nella riflessione su una logica “pura” e nella costituzione della filosofia come “scienza rigorosa”. Gli antecedenti più prossimi di Wittgenstein sono però altri: Frege, Mach e, in misura ancora maggiore, Russell. Anche indipendentemente dai temi particolari che legarono il giovane pensatore austriaco al più maturo filosofo inglese, ciò che è bene sottolineare è la sostanziale sintonia tra molti loro presupposti e ambizioni generali. A tal proposito, le caratteristiche e i propositi che accomunano i due filosofi (pur tenendo presenti le differenze, in primis l’attenzione wittgensteniana per quanto sta oltre le strutture logico-linguistiche del sapere rigoroso) sono i seguenti:
1) il progetto di rifondare il sapere, con l’ambizione di indicarne le strutture universali e oggettive;
2) la credenza nella validità esemplare e paradigmatica della scienza (per l’esattezza, della scienza formale) per ogni conoscenza che ambisca ad essere veritiera e rigorosa;
3) il correlativo atteggiamento ambivalente nei confronti della filosofia: per un verso praticata come indispensabile strumento della riflessione critico-rifondatrice del sapere, per un altro considerata una disciplina impura, non rigorosa, richiedente una specie di inveramento scientifico;
4) il convincimento che si danno “fondamenti” del sapere, o almeno dei princìpi meta-empirici generali, che è necessario cogliere al di là della molteplicità delle esperienze cognitive;
5) l’ulteriore convincimento che tale traguardo sia raggiungibile solo attraverso l’impiego di una complessa indagine logica;
6) l’assunto che il sapere si configura essenzialmente come un sistema di enunciati linguistici;
7) il principio che un’analisi del “sapere come linguaggio” è, insieme, un’analisi della realtà dal punto di vista gnoseologico, poiché quest’ultima si dà solo in quanto “detta” da uno strumento espressivo adeguato;
8) la correlativa tesi tra linguaggio e mondo vige una relazione di corrispondenza o isomorfismo;
9)l’ulteriore tesi che sia il linguaggio sia il mondo sono degli aggregati composti riducibili a determinazioni semplici e che su tali determinazioni è possibile (almeno idealmente) riconoscere un sapere rigoroso.
LINGUAGGIO E MONDO NEL TRACTATUS
Nella prefazione del Tractatus , Wittgenstein chiarisce qual è l’intento del libro: ” il libro tratta i problemi filosofici e mostra, credo, che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere…la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono dunque dell’avviso d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi “. Sulle orme dello stile adottato da Spinoza nell’ Etica , il Tractatus si presenta non come un’opera in qualche modo discorsiva, ma come un insieme di enunciati numerati (a volte abbastanza ampi e argomentati, a volte molto brevi e talvolta addirittura brevissimi) e legati tra loro da determinate connessioni logiche (corollari, deduzioni, inferenze, ecc). Più precisamente, esso muove da una matrice generativa costituita da 7 proposizioni centrali, dalle quali dipende tutta una serie di ulteriori proposizioni riguardanti questioni di logica, ontologia e filosofia del linguaggio e della matematica: 1) Il mondo è tutto ciò che accade; 2) Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose; 3)L’immagine logica dei fatti è il pensiero; 4) Il pensiero è la proposizione munita di senso; 5) La proposizione è una funzione di verità elle proposizioni elementari; 6) La forma generale della funzione di verità è: [px N(x ) ]; 7) Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Su un piano generale, il Tractatus contiene una concezione della realtà dal punto di vista conoscitivo strettamente intrecciata (fino a identificarvisi) con una concezione del linguaggio. Si deve idealmente partire da una cosa: il darsi del mondo. E il mondo è tutto ciò che accade e questo mondo, ovvero questa serie di accadimenti, è costituito interamente da fatti: ogni fatto (complesso) si compone di una pluralità di fatti elementari, detti da Wittgenstein ” stati di cose “, i quali a loro volta sono connessioni di ” oggetti semplici “. Questi ultimi rappresentano la ” sostanza del mondo ” e si possono aggregare in svariate composizioni o ” configurazioni “. Se è vero che l’esperienza gnoseologica si riferisce essenzialmente a tali configurazioni complesse, è anche vero che la sostanza del mondo è quella che si è detto: anzi, Wittgenstein sottolinea significativamente che “ l’oggetto [semplice] è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l’incostante ” (2.0271). A questa concezione del mondo corrisponde (in un senso molto organico) una concezione del linguaggio. La prima teoria radicale enunciata in merito da Wittgenstein riguarda il rapporto linguaggio-pensiero: si potrebbe infatti ritenere che dinanzi al mondo stia prima di tutto il pensiero. Ma non è così: nei riguardi del pensiero, Wittgenstein assume un atteggiamento anti-materialistica, anti-interioristica e anti-soggettivistica che non abbandonerà, grosso modo, mai. Anzi, nel Tractatus tale posizione è espressa in un modo particolarmente radicale, che in un secondo tempo verrà modificato. In primis, Wittgenstein dichiara che il pensiero è essenzialmente ” l’immagine logica dei fatti ” (proposizione 3): dove è da notare il privilegiamento ideale del fatto e la relativa subordinazione ad esso del pensiero, sia la natura logica che il pensiero degno del nome deve avere. In secundis, si afferma che il pensiero si dà tutto e soltanto nella sua espressione linguistica; più precisamente, il pensiero è linguaggio organizzato secondo una determinata forma; esso è, come recita l’enunciato 4, ” la proposizione munita di senso “. Dinanzi al mondo, quindi, sta il linguaggio . Occorre domandarsi come vada interpretata questa seconda polarità o dimensione: enunciando una tesi che Russell farà integralmente sua, Wittgenstein asserisce che il linguaggio è costituito da ” proposizioni molecolari ” complesse, riducibili a ” proposizioni atomiche ” elementari, non ulteriormente scomponibili. Queste ultime proposizioni sono gli enunciati linguistici più semplici, dei quali si può predicare il vero e il falso. In linea di massima, le proposizioni atomiche sono combinazioni di nomi corrispondenti agli oggetti: ” il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato ” (3.203).
LA RAFFIGURAZIONE E LE PROPOSIZIONI
Proprio a questo punto sorge uno dei problemi cruciali del Tractatus : quello del rapporto tra linguaggio e mondo (o tra linguaggio e fatto). E’ per risolvere questo problema che Wittgenstein elabora la sua celebre teoria raffigurativa del linguaggio. Per comprenderla a fondo, è bene ripetere che uno degli obiettivi del filosofo è di fare a meno della dimensione soggettivo-intenzionale cui una certa tradizione era ricorsa per spiegare il rapporto linguaggio/mondo. Tale rapporto costituiva un problema in quanto richiedeva che fatti ben precisi come i segni linguistici esprimessero altri fatti radicalmente diversi come i fenomeni della realtà. Ora, la soluzione di questo problema attraverso il riferimento a prerogative e funzioni mentali del soggetto appare a Wittgenstein poco verificabile, e tale da sollevare nuove e più complesse difficoltà. E la teoria della raffigurazione costituisce la nuova ed audace risposta wittgensteiniana al problema in questione. Il punto di partenza è, idealmente, il concetto di immagine: il fatto che delle proposizioni possano costituire una ” immagine della realtà ” appare sconcertante ed incomprensibile; ” a prima vista la proposizione [quale ad esempio è stampata sulla carta] non sembra un’immagine della realtà della quale tratta ” (4.011). Per comprendere come la proposizione riesca di fatto a raffigurare le cose, conviene pensare al fenomeno della proiezione, come fa Wittgenstein stesso. Sappiamo che un oggetto reale, tridimensionale può essere riprodotto proiettivamente secondo una prospettiva formale (geometrica), bidimensionale. Nonostante ogni possibile stilizzazione e deformazione, tale proiezione consente di riconoscere il modello di partenza; esiste dunque una sorta di regola attraverso cui un fatto (la proiezione) riproduce effettivamente e in modo comprensibile un altro fatto diverso. La stessa cosa avviene, sostanzialmente, nell’ambito che interessa a Wittgenstein: il fatto linguistico raffigura, secondo forme e mezzi propri, l’altro e diverso fatto costituito dagli oggetti reali. La proprietà di raffigurare un fatto è attribuita nel Tractatus in primis alle proposizioni elementari (o atomiche): ma come un’immagine dipinta rappresenta solo un fatto plausibile, che non è necessariamente accaduto, così la proposizione elementare rappresenta solo un fatto possibile ma non necessariamente reale, effettivo. Si tratta allora di verificarla: per Wittgenstein essa sarà vera se il fatto raffigurato sussiste effettivamente, falsa nel caso opposto; mentre ” il senso della proposizione è la sua concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non sussistere degli stati di cose ” (4.2), la sua verità o falsità consiste nell’effettiva esistenza o meno dello ” stato di cose ” espresso dalla proposizione stessa (4.25). Per quel che riguarda le proposizioni complesse (o molecolari), poi, che costituiscono la maggior parte delle espressioni linguistiche, la loro verità o falsità dipende per Wittgenstein dalla verità o falsità delle proposizioni elementari che le compongono: secondo la terminologia wittgensteiniana, sono ” funzioni di verità ” delle proposizioni elementari costituenti. Secondo la dottrina del significato risalente a Frege (e ripresa da Wittgenstein), solo le proposizioni elementari possono essere significative, ovvero possono essere immagini di fatti (significativo vuole insomma dire ciò, e solo ciò, che raffigura dei fatti); ma accanto a queste proposizioni ne esistono altre che possiedono caratteri molto particolari: le proposizioni della logica , che non sono immagini e non descrivono fatti. Esse sono, nella terminologia wittgensteiniana, ” tautologie “, nel senso che non hanno alcun significato extra-linguistico, ” non dicono nulla ” sul mondo. La loro funzione consiste nell’esprimere e analizzare le proprietà formali che le proposizioni devono avere per eseguire il loro compito raffigurativo: insomma, consiste nell’esame del funzionamento dei simboli e delle parole. Sotto questo profilo, tali proposizioni sono, in sé e per sé, sempre vere, poiché, dice Wittgenstein, solo le proposizioni che descrivono fatti possono essere false. Una delle conseguenze di questa interpretazione delle proposizioni logiche è il rifiuto della concezione realistica della logica, concezione secondo cui le proposizioni sono valide in rapporto ai fatti di questo mondo. A Wittgenstein tale tipo di validità pare debole: in effetti, alla luce dell’interpretazione realistica la logica non enuncerebbe (come vuole il filosofo austriaco) leggi vere per qualsiasi mondo possibile; per corrispondere a quest’ambizione, la logica deve avere a che fare non col mondo, ma con ciò che rende possibile qualsiasi descrizione del mondo. Ora, ciò che consente e realizza tale descrizione è il linguaggio. Solo attraverso il linguaggio le cose che descriviamo assumono volto e sostanza: che ne sarebbe di un mondo (anche ideale) senza un linguaggio che lo dice? E così, il linguaggio governa il mondo (sempre inteso non in un’accezione riduttivamente fisica, ma come l’insieme dei fatti, di tutto ciò che accade): lo governa nel senso che quest’ultimo viene definito solo in rapporto ai caratteri e alle leggi del tramite linguistico. Il che implica che quelle parti di mondo che non possono obbedire (o meglio, corrispondere) a tali caratteri e leggi non possono essere dette, e quindi non esistono dal punto di vista razionale-scientifico.
LA METAFISICA E LA TEORIA DEL MISTICO
Un’importante conseguenza della concezione del linguaggio tratteggiata nel Tractatus è la sostanziale vanificazione sia della metafisica sia dello scetticismo . Per Wittgenstein i problemi metafisici non si possono risolvere in quanto esulano dall’ambito di significanza del linguaggio. Infatti le proposizioni di tipo metafisico non raffigurano fatti, e quindi non sono formulabili nei termini di un linguaggio sottoponibile alla verificazione e alla falsificazione. Insensata è quindi la metafisica, ma non meno insensato è il tentativo di metterla in dubbio o di negarla, giacchè è possibile discutere o confutare solo ciò che è esprimibile in termini significativi, cioè in termini di verità o di falsità: ” d’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può pure avere una risposta. Lo scetticismo è non inconfutabile, ma apertamente insensato, se vuol mettere in dubbio ove non si può domandare. Perché dubbio può sussistere solo ove sussiste una domanda; domanda, solo ove sussiste una risposta; risposta, solo ove qualcosa può esser detto ” (Tractatus, 6.5-6.51). La polemica contro la metafisica e lo scetticismo, il rigetto degli enigmi nell’ambito dell’esperienza, l’ancoramento della sensatezza alla dicibilità e verificabilità secondo precise norme logico-linguistiche furono certo alcuni degli assunti del Tractatus che più entusiasmarono i lettori di ispirazione razionalistico-scientifica (nonché neopositivistica). Ma il Tractatus non si ferma a questo punto: al contrario, nella parte finale esso suggerisce, in modo cifrato eppur assai netto, il darsi di qualcosa che esiste anche se non può essere detto (detto, ovviamente, alla luce dei rigidi dettami di significanza empirica e formale delineati nello stesso Tractatus ); questo “qualcosa” è da Wittgenstein definito l’ ” ineffabile “, il mistico ” : ” v’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico ” (6.522). Anche se rigurgitante di una miriade di implicazioni filosofiche, la tesi dell’esistenza dell’ineffabile va interpretata, in primis, entro un preciso contesto logico-linguistico. Essa costituisce il corollario di quella concezione della possibilità e dei limiti delle proposizioni dotate di senso di cui prima abbiamo parlato. Wittgenstein vuole anzitutto circoscrivere l’ambito di quel che può essere detto, l’ambito, cioè, entro il quale il linguaggio vale (il linguaggio può raffigurare, ossia descrivere, i fatti nella loro struttura logica; e può mostrare la propria struttura logica). Relativamente a ciò, egli si affretta però a mettere in evidenza l’esistenza di qualcosa che eccede l’ambito del dicibile. Tale ambito, dice il filosofo, include in primo luogo certe questioni di teoria, anzi tutte le questioni che non sono esprimibili né in termini di fatti né in termini di enunciati logici: a cominciare da alcune nozioni centrali del Tractatus , come ad esempio la concezione del linguaggio come condizione di possibilità della descrizione delle cose; l’esistenza di una dimensione universale e non ricavabile induttivamente come il mondo ( ” non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è “, 6.44), la problematica dei fondamenti, i concetti di raffigurazione, significato e verità. In secondo luogo, il mistico include una serie di princìpi cruciali e di significati e valori che hanno la duplice caratteristica di esistere e di non essere dicibili/descrivibili secondo i caratteri del sapere rigoroso; per chiarire il proprio assunto, Wittgenstein dice che ” il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore- né, se vi fosse, avrebbe un valore ” (6.41). Ma se questo è vero, se cioè il senso è fuori del mondo, allora esso è inattingibile razionalmente, e così appartiene al mistico. Stessa cosa accade ad aspetti e nodi centrali dell’estetica, della morale, della stessa esistenza; tali sfere sono per Wittgenstein piene di questioni e di interrogativi che, non concernendo a rigore né fatti (cioè il campo del sapere empirico-significativo), né la struttura formale del linguaggio (cioè il campo delle proposizioni logiche), non sono raffigurabili, analizzabili, dicibili. Contrariamente all’immagine che una certa tradizione ha amato diffondere di Wittgenstein, egli fu sempre ben lungi dal sottovalutare le sfere poc’anzi citate. Era anzi profondamente convinto ch’esse contenessero alcuni dei problemi decisivi per l’essere umano: egli scrive che ” noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati ” (6.52).
FILOSOFIA TERAPEUTICA E ANTINOMIE
Il messaggio conclusivo del Tractatus è, in qualche maniera, duplice: per un verso, Wittgenstein sottolinea che il metodo e il contenuto di una riflessione teorica corretta non possono non coincidere col metodo e il contenuto del sapere scientifico, ovvero del sapere che descrive i fatti secondo le regole della logica. Connessi tra loro in un rapporto di isomorfismo (cosa su cui concorda Russell), fatti e proposizioni configurano senza residui il mondo del dicibile. Per un altro verso, Wittgenstein è il primo ad essere consapevole dell’esistenza di problemi e campi non esprimibili nel modo richiesto da determinati princìpi (quelli che governano la scienza dei fatti e le connessioni logiche) e, correlativamente, del fatto che la filosofia non può ridursi entro l’ambito determinato da tali princìpi. Se è vero, come asserisce un passo del Tractatus , che ” la totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale ” (intesa come la scienza dei fatti esistenti), è anche vero che vi sono molte altre cose oltre alla scienza naturale; anzi, la stessa filosofia ” non è una delle scienze naturali “. Ma cosa è, dunque, la filosofia? Essa, secondo Wittgenstein, anzitutto non è una dottrina, ma è un’attività: vale a dire che non può (e non deve) esprimere enunciati su fatti (che è il compito del sapere), ma deve svolgere una certa azione. Quest’ultima è caratterizzata già nel Tractatus (e ancora di più lo sarà negli scritti successivi) dall’essere essenzialmente “negativa” e “terapeutica”: negativa , nel senso che la filosofia deve dire che cosa il pensiero/linguaggio non può fare, denunciando in particolare l’illegittimità dell’aspirazione della riflessione corretta a cogliere princìpi assoluti, fondamenti oggettivo-totalizzanti, conoscenze meta-fattuali. Terapeutica , nel senso che essa deve, prima di tutto, eliminare false credenze intorno al linguaggio, procedere a quella che viene definita come un’opera di ” chiarificazione logica dei pensieri “, liberare l’uomo da miti e illusioni intorno alle possibilità del sapere. Questa interpretazione della filosofia (e della scienza) getta tuttavia una luce ambigua e inquietante sulla stessa opera di Wittgenstein: a ben guardare, il Tractatus non contiene quel discorso di pura scienza logico-linguistica che alcuni vollero scorgervi, ma è invece un’opera di filosofia, o addirittura di “vecchia filosofia”, che parla di questioni non raffigurabili né mostrabili scientificamente, involgendosi quindi in paradossi e contraddizioni. E in effetti, essa prescrive limiti rigidi all’esercizio dell’analisi teorica, e subito dopo li viola. Asserisce che si possono solo descrivere fatti (e strutture logiche intra- e inter-proposizionali), e subito dopo parla di altro (a cominciare dal linguaggio-mondo); in altri termini, dice cose propriamente indicibili. E Wittgenstein fu il primo a ravvisare la natura intimamente scissa e antinomica della propria opera. Forse, però, volle sperare che essa (evidenziando con la sua stessa contradditorietà l’impossibilità del filosofare alla vecchia maniera) avrebbe potuto essere in qualche modo l’ultimo libro di filosofia, aprendo magari una nuova fase del pensiero umano. Quel ch’è certo è che nell’ultima pagina del Tractatus (forse la più enigmatica) Wittgenstein decide di offrire al lettore non una sintesi positiva o un messaggio in qualche modo consolatorio, ma un riassunto drammaticamente lacerato dei principali temi del suo pensiero: la necessità per la filosofia seria di farsi scienza e l’impossibilità per essa di riconoscervisi compiutamente (la filosofia ” nulla ha a che fare ” con la scienza); la necessità di percorrere il rigoroso itinerario delle proposizioni dotate di senso, e la scoperta che tale percorso porta non al senso, ma all’insensatezza (alla presa di coscienza dell’esistenza e della rilevanza di tutto ciò che eccede il senso); la celebre, dolorosa e severa precisazione di non parlare delle cose che non si possono dire (dire, cioè, in modo logicamente e linguisticamente corretto) e la vivissima consapevolezza che queste cose indicibili sono tante (e forse sono le più importanti).
” Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi: dunque, proposizioni della scienza naturale- dunque qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare-, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro- egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia-, eppure esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto. Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende infine le riconosce insensate, se è salito per esse- su esse- oltre esse; (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. ” (Tractatus, 6.53-7)
LINGUAGGIO QUOTIDIANO E SIGNIFICATO COME USO
All’origine della “seconda filosofia” di Wittgenstein vi è la revisione di alcune tesi basilari del Tractatus , a cominciare dalle pretese della logica di presentarsi come l’unica garante del significato delle proposizioni. Il pensatore austriaco sposta inoltre l’attenzione dalla nozione di significato (come riferimento delle proposizioni elementari ai fatti) al nesso tra il significato medesimo e il concreto problema del comprendere le regole del linguaggio nella varietà dei suoi usi e delle sue finalità. Alla base di ciò sta la riabilitazione del cosiddetto linguaggio ordinario o quotidiano , il quale era stato in qualche modo messo da parte dagli indirizzi del pensiero (l’atomismo logico, il neopositivismo) orientati a privilegiare il linguaggio ideale delle scienze formali. Per il “nuovo Wittgenstein”, invece, all’interno della ” grammatica filosofica ” del linguaggio (questo è il titolo di un suo manoscritto risalente al 1932) devono trovare posto non già i canoni di un linguaggio ideale, bensì le regole per la comprensione del linguaggio quotidiano.
” Come sarebbe strano se la logica si dovesse occupare di un linguaggio ideale e non del nostro. Che cosa dovrebbe esprimere infatti quel linguaggio ideale? Di certo quello che esprimiamo nel nostro linguaggio abituale; ma allora la logica non può che occuparsi di questo. Oppure di qualcos’altro, ma come posso semplicemente sapere di cosa può trattarsi? L’analisi logica è l’analisi di qualcosa che abbiamo, non di qualcosa che non abbiamo. Sarà dunque l’analisi delle proposizioni come sono “. (Osservazioni filosofiche, 2)
E’ proprio l’assunzione del linguaggio ordinario a terreno dell’analisi logica a dare origine all’importante teoria del significato come uso , che costituisce il nucleo delle Ricerche filosofiche . In esse, Wittgenstein scrive che ” per una grande classe di casi anche se non per tutti i casi in cui ce ne serviamo, la parola significato si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio “. L’importanza di questa teoria è assai notevole, ed è legata ai princìpi rivelatisi estremamente stimolanti e fecondi. Anzitutto Wittgenstein ridimensiona nettamente il primato della struttura o della sostanza logica del linguaggio e del correlativo approccio logistico ad esso. Non già ch’egli intenda affermare la “illogicità” delle espressioni linguistiche, e neppure che contesti l’esistenza di linguaggi formali riconducibili a strutture (formali) rigorose. La sua tesi è che vi sono tipi di comunicazione linguistica i quali, ben lungi dal poter o dal dover essere valutati primariamente alla luce di criteri logico-formali (oggettivi e invarianti), rispondono a bisogni, esigenze e scopi da analizzare alla luce di criteri pratici (non univoci né universali). In secondo luogo, Wittgenstein riabilita un approccio in qualche modo pragmatico alla realtà linguistica: il linguaggio è, per lui, prima di ogni altra cosa, un’attività interagente con le più disparate componenti teoriche e pratico-esistenziali del vivere e del fare umano (con quello che Wittgenstein chiama anche lo “ stile di vita “). Comprendere un’espressione linguistica implica quindi non tanto il riferimento di essa a determinate essenze o strutture logiche pre-costituite, quanto la comprensione dei molteplici fattori (linguistici ed extra-linguistici) cooperanti nella determinazione del senso di tale espressione. Sotto questo profilo, la riconduzione del significato all’uso esprime appunto la reinserzione del fenomeno linguistico entro un contesto antropologico e socio-culturale più ampio.
LE DIVERSE FUNZIONI E I GIOCHI DEL LINGUAGGIO
A prescindere dalla concezione wittgensteiniana del significato come uso, troviamo anche una dottrina più direttamente linguistica. Al principio delle Ricerche filosofiche , Wittgenstein asserisce che quasi mai le parole funzionano come nomi, ovvero come etichette che incolliamo in modo rigido ed univoco sugli oggetti. Se le cose stessero sempre in questi termini, i problemi della definizione e della comunicazione espressiva risulterebbero molto più difficili: ma le cose non stanno così. Sia nel linguaggio scientifico sia (e in misura ancora maggiore) in quello ordinario, le parole si configurano piuttosto come mobili costrutti, come fluidi strumenti il cui significato muta in rapporto alle funzioni specifiche cui sono destinati. Ed è proprio la funzione , la funzione pratica del linguaggio, che deve essere concepita in maniera totalmente innovativa: una maniera non più univoca, ma pluralistica. In effetti, come sottolinea con particolare energia Wittgenstein (in un’evidente prospettiva autocritica rispetto a certe tesi del Tractatus ), lo scopo degli enunciati linguistici non è solo quello di raffigurare il mondo o di descriverlo:
” si pensa che l’apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti. E cioè: uomini, forme, colori, dolori, stati d’animo, numeri, ecc. Come s’è detto, il denominare è simile all’attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una preparazione all’uso della parola. Ma a che cosa ci prepara? ” (Ricerche filosofiche, par. 26)
E’ anche per rispondere a questa domanda che Wittgenstein propone di considerare tra i compiti primari dell’analisi filosofico-linguistica quello di individuare le varie funzioni svolte dall’attività del linguaggio. Mentre la teoria tratteggiata nel Tractatus assolutizzava in qualche maniera la funzione raffigurativo-denominativa, ora il “nuovo” Wittgenstein sostiene invece che ” con le nostre proposizioni noi facciamo le cose più diverse ” (par. 27). Un celebre esempio addotto nelle Ricerche filosofiche riguarda il linguaggio esclamativo. Wittgenstein menziona le seguenti esclamazioni: ” acqua! Via! Ahi! Aiuto! Bello! No! ” (par. 27). E’ evidente che queste locuzioni adempiono a compiti espressivi che nulla hanno a che fare con la funzione denominativa: le prime di esse esprimono un’invocazione, le seconde un ordine (o una “preghiera”), la terza un lamento, e così via. Il che dimostra, appunto, per riprendere un’espressione di Wittgenstein poc’anzi citata, che col linguaggio noi letteralmente ” facciamo le cose più diverse “. A queste cose, o, meglio, a queste attività, Wittgenstein ha dato il nome di giochi linguistici , espressione con la quale egli intendeva (probabilmente) sottolineare, da un lato, il carattere sociale e artificiale (nel senso, non negativo, di non-naturale, di elaborato culturalmente dall’uomo) dell’agire linguistico, e dall’altro lato il fatto che questo agire, nonostante la sua apparente gratuità e la sua relativa imprevedibilità, ha determinati fini ad esso immanenti, e soprattutto rispetta (come tutti i giochi) determinate regole. Ed è proprio laddove impiega la nuova definizione del fatto linguistico come gioco che Wittgenstein torna a sottolineare in modo molto efficace il fondamentale principio della pluralità delle funzioni linguistiche e degli asserti proposizionali:
” ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda, ordine? Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo segni, parole, proposizioni. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati “. (Ricerche filosofiche, 23)
IL PRAGMATISMO DELLA LOGICA E DELLA MATEMATICA
Pure dal riconoscimento della pluralità dei giochi linguistici consegue che la logica non offre un’analisi del significato delle proposizioni valida per tutti i casi, e che la ricerca di ” una forma generale della proposizione ” (la quale appariva l’obbiettivo dell’analisi logica linguistica) è inattuabile . In effetti, quel che sembra comune alla pluralità delle forme, degli enunciati linguistici e che si esprime in quelle specie di “superconcetti” che sono il linguaggio, l’esperienza, il mondo, l’io si fonda non già su presunti universali, su presunte essenze unitarie e univoche, bensì solo su semplici affinità, che non cancellano l’irriducibile particolarità e varietà dei vari significati e dei vari giochi linguistici. Per caratterizzare queste affinità, Wittgenstein si è servito del celebre concetto di somiglianze di famiglia . Come tra gli appartenenti a un unico ceppo familiare si possono intravedere certi tratti omogenei, per altro mai costanti-generalizzabili (A assomiglia a B in una certa caratteristica, B assomiglia a c in un’ altra caratteristica, ecc.), allo stesso modo nei linguaggi umani sono accettabili alcune parentele di varia specie e grado, che però non esibiscono mai concetti.
” Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparentati l’ un con l’ altro in modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti linguaggi. Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione somiglianze di famiglia; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e si incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperatura, eccetera. E dirò: i giochi formano una famiglia “. (Ricerche filosofiche, 65 e 67)
Di grande rilievo è anche il cosiddetto anti-mentalismo di Wittgenstein, il quale si collega all’orientamento pragmatistico cui si è fatto cenno poc’anzi. La caratteristica di una funzione come ad esempio il comprendere (o anche del volere, del sapere, del ricordare) va cercata non (mentalisticamente) in un processo psichico nascosto, ma nel fatto pragmatico di ” seguire una regola “, cioè nell’uniformarsi alle abitudini, agli usi e alle tecniche pratico-sociali di vita che concorrono variamente a costruire la storia naturale dell’uomo.
” Fare una comunicazione, dare o comprendere un ordine, e simili, non sono cose che possono essere state fatte una volta sola. Seguire una regola, fare una comunicazione , dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istruzioni). Seguire una regola è analogo a obbedire a un comando. Si viene addestrati a obbedire al comando e si reagisce ad esso in una maniera determinata. Per questo seguire una regola è una prassi. ” (Ricerche filosofiche, 199 e 202)
Particolarmente interessanti sono, infine, le conclusioni alle quali Wittgenstein perviene a proposito della natura della logica. Per l’ autore delle Ricerche i costrutti logici, ben lungi dall’ esprimere o riflettere verità universali-assolute, hanno un contenuto essenzialmente normativo: contengono semplicemente norme e convenzioni riguardando l’ uso dei simboli, delle parole. Il fatto che a tali costrutti si attribuisca un significato universale non dipende certo da una loro pretesa purezza e sublimità (come se, sottolinea Wittgenstein, anche la logica non fosse ” tenuta ad affliggersi con i particolari di tutto ciò che accade ” ed avesse a che fare solo con la presunta ” essenza di tutte le cose “): dipende soltanto da una loro particolare fruibilità ed efficacia pragmatica, legate a loro volta a precisi presupposti e ideali della conoscenza e del comportamento umano. Anche concetti apparentemente puri e universali come principio, legge, prova, deduzione, verità non sono in alcun modo superconcetti in grado magari di fondare un superordine. Anch’essi sono altro che strumenti espressivi, sostanzialmente non dissimili da tutti gli altri. Correlativamente, il loro uso ” deve essere terra terra, come quello delle parole ‘tavolo’, ‘lampada’, ‘porta’ “. Ne consegue che lo statuto dell’indagine logica non può essere quello assoluto e fondativo ch’ era stato teorizzato dall’atomismo logico e dal neopositivismo (oltrechè, in larga misura, dallo stesso Wittgeinstein del Tractatus ). Cade in particolare, quello che viene definito il pregiudizio della purezza cristallina della logica . Rinunciando a certe sue ambizioni, la logica si configura ora come modesta (ma sempre preziosa e insostituibile) analisi dei concetti e delle connessioni che governano determinate organizzazioni linguistiche in rapporto a fini e obiettivi molteplici e pratici – in rapporto a ciò che Wittgenstein chiama ” il nostro reale bisogno “. Anche in relazione alla matematica, il proposito di Wittgenstein è quello ch’ egli indica coll’ incisiva espressione di ” metterla in borghese “, sottolineando (in sintonia con certe posizioni del logico costruzionista-intuizionista Brouwer) il carattere pragmatico dei costrutti matematici, la loro natura di meri modelli delle operazioni consentite in un determinato linguaggio.
INTRODUZIONE AL TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS DI WITTGENSTEIN
A cura di Dario Zucchello
Logica e mondo
In un certo senso, nella logica noi dobbiamo non poter errare. Ciò è già in parte espresso in: La logica deve avere cura di se stessa. Si tratta di un giudizio di rara profondità e importanza. [L. Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Frankfurt a.M., 1984, p.89]
In questa annotazione del 2 settembre 1914, l’autore, il viennese Ludwig Wittgenstein, da poco meno di un mese volontario nell’esercito del suo paese e all’epoca impegnato sul fronte russo, fissava, citando una propria osservazione appuntata in data 22.8.14, un programma di ricerca ampiamente meditato nei tre anni precedenti, trascorsi a Cambridge. Nella cittadella universitaria inglese il ventiduenne rampollo di una delle famiglie economicamente più cospicue dell’impero asburgico era giunto nel 1911, dopo gli studi di ingegneria intrapresi a Berlino (1906) e proseguiti, con particolare interesse in ambito aeronautico, a Manchester (1908). L’ulteriore trasferimento implicava in realtà un più radicale mutamento di indirizzo di studi, con il definitivo abbandono della formazione tecnica (verso cui Wittgenstein mostrò comunque e sempre grande predisposizione) per quella squisitamente teorica, con una progressione dalla fisica, alla matematica, ai suoi fondamenti, quindi alla logica, che lo avrebbe condotto alla corte della personalità filosofica di maggiore carisma in quel settore di ricerca: Bertrand Russell.
Per rendersi conto delle implicazioni nella interpretazione logica dell’austriaco vale la pena leggere un altro testo risalente allo stesso 1914, al mese di aprile esattamente: si tratta della pagina iniziale del resoconto preparato da G.E. Moore sui colloqui intercorsi con Wittgenstein, allora ritiratosi in solitudine in Norvegia:
Le cosiddette proposizioni logiche mostrano le proprietà logiche del linguaggio e dunque del mondo, ma non dicono nulla.
Ciò significa che è sufficiente prenderle in considerazione per vedere tali proprietà; mentre in una proposizione autentica non si può stabilire sulla base di una semplice considerazione ciò che è vero.
È impossibile dire quali siano queste proprietà; infatti per poter fare ciò si avrebbe bisogno di un linguaggio che non avesse le proprietà in questione, ed è impossibile che esso possa essere un linguaggio nel vero senso della parola. Impossibile costruire un linguaggio impossibile.
[…]
Così un linguaggio che può esprimere tutto rispecchia certe proprietà del mondo attraverso le proprietà che deve possedere; e le cosiddette proposizioni logiche mostrano sistematicamente queste proprietà. [Ibidem, p.209]
L’interesse per la logica si rivela strettamente connesso alla preoccupazione per il linguaggio (per un linguaggio autentico) e all’impegno per garantirne la sensatezza rispetto al mondo. A suo modo, dunque, Wittgenstein riformulava un problema del programma filosofico russelliano (ripreso dal posteriore empirismo logico), quello di saldare i risultati dello sviluppo della logica simbolica o matematica e la lezione dell’empirismo: la logica avrebbe tracciato le relazioni tra i segni linguistici, con cui sono formulate proposizioni intorno alla natura.
Logica e linguaggio sono dunque alle radici, anche cronologiche, del Logisch-Philosophische Abhandlung (ovvero, nella versione suggerita da Moore per l’edizione inglese, Tractatus logico-philosophicus), come la stessa Prefazione dell’autore (1918) chiaramente rimarca, laddove ascrive al fraintendimento della logica del nostro linguaggio la posizione dei problemi filosofici. La Introduction che Russell compose per presentare la fatica dell’amico e discepolo rilevava altrettanto lucidamente lo stesso nodo: il punto di partenza dell’opera erano i principi del Simbolismo, i requisiti che un linguaggio logicamente perfetto dovrebbe soddisfare.
In questo senso la logica deve avere cura di sé: nella asciutta prospettiva degli appunti di lavoro di Wittgenstein, ma anche nella struttura filiforme del Tractatus, essa emerge nel ruolo essenziale di vera e propria condizione trascendentale, condizione di senso per un verso ineludibile, per altro indiscutibile. La filosofia doveva allora limitarsi a riflettere tale condizione per garantire la trasparenza di pensiero e linguaggio: consentire, in altre parole, una presa d’atto del manifestarsi delle proprietà logiche, immediatamente all’interno delle proposizioni logiche, e indirettamente al fondo di ogni proposizione significante.
In questa accezione essa diventava critica (in senso kantiano) del linguaggio, riecheggiando i coevi tentativi, per esempio, di Fritz Mauthner (da cui Wittgenstein però prende esplicitamente le distanze proprio nel Tractatus), in cui pure era assente la attenzione per la dimensione rigorosamente formale del simbolismo, ma che risultavano segnati dal trascendentalismo schopenhaueriano ben presente a Wittgenstein e da una forte esigenza antimetafisica, che, come spesso accadeva nella cultura austriaca contemporanea, era a sua volta espressione di una profonda istanza etica [A. Janik – S. Toulmin, La grande Vienna, Milano, 1975, cap. 5]. D’altra parte il saggio di Janik e Toulmin di cui proponiamo un estratto significativo tra le letture critiche ha avuto il merito di ribadire, nel contesto storico-culturale entro cui, almeno in parte, maturò l’opera di Wittgenstein, la centralità del tema della comunicazione proprio come problema etico, di autenticità, che si impone non solo in un minore come Mauthner, ma anche in personalità di assoluto primo piano della civiltà asburgica come Karl Kraus e Hugo von Hofmannstahl.
Ma nella affermazione wittgensteiniana La logica deve aver cura di se stessa c’è comunque qualcosa di peculiare: la convinzione di aver colto il nucleo traslucido e autosufficiente capace di riorientare ogni uso linguistico entro i limiti del senso. Nello stesso tempo, come può evincersi facilmente dalle precedenti citazioni, a tale nucleo logico veniva riconosciuta una portata ben al di là della astratta dimensione formale: le proposizioni della logica mostrano le proprietà logiche del linguaggio e dunque del mondo. La logica, per il filosofo del Tractatus, era dunque radicata nella realtà:
Tutto il mio compito consiste nel chiarire l’essenza della proposizione.
Cioè, nel rendere l’essenza di tutti i fatti la cui immagine è la proposizione.
Rendere l’essenza di ogni essere. [Wittgenstein, op. cit., p.129]
Questo appunto del 22.1.15 può leggersi accanto a un’altra famosa affermazione, contenuta in una annotazione più tarda, del 2.8.16:
Sì, il mio lavoro si è sviluppato dai fondamenti della logica alla essenza del mondo. [Ibidem, p.174]
Il filo che lega queste asserzioni è la certezza, in qualche misura (al di là degli esiti critici del Tractatus) metafisica, di avere con la propria ricerca svelato o, meglio, esibito il Wesen (essenza) della realtà, passando per la fondazione della logica: ciò che le proposizioni logiche manifestano sono proprietà formali non solo del linguaggio ma anche di ciò di cui esso può essere immagine: i fatti, la cui totalità, come recitano le prime proposizioni dell’opera, è il mondo.
Certamente la sostanza della tesi wittgensteiniana poggiava sull’assunto, indiscutibilmente ribadito nel Tractatus, del pensiero come proposizione e della proposizione come immagine proiettiva, e quindi della centralità della forma logica interna alla proiezione. È comunque indicativa, nuovamente anche per la genesi dell’opera, la direzione dell’indagine: dalla logica al mondo, a dispetto della organizzazione che alle sue proposizioni l’autore impose per la redazione finale. Partito dai principi del simbolismo, Wittgenstein aveva finito per concentrarsi sul problema di come le proposizioni possano significare, rappresentare il mondo.
La costruzione proposizionale del mondo
Solo la realtà interessa la logica. Dunque, le proposizioni solo nella misura in cui sono immagini della realtà. [Ibidem, p.97]
La logica si prendeva cura di sé poggiando solo sulla natura essenziale delle proposizioni, la quale si esprimeva nelle tautologie, proprie della logica, palesando le proprietà formali che il linguaggio deve condividere con la realtà per poterla raffigurare. La logica, in altre parole, presupponeva non fatti o oggetti logici, ma semplicemente che le proposizioni avessero senso e i nomi significato [H-J. Glock, A Wittgenstein Dictionary, Oxford, 1996, p.202]: in questo essa finiva per toccare il mondo.
Il movimento che le pagine dei Quaderni 1914-1916 consentono di rintracciare va dal linguaggio, dalla sua logica, verso il mondo. Ma il mondo con cui si aprirà il Tractatus non è immediatamente quello quotidiano, piuttosto, indirettamente, un costrutto funzionale alle esigenze linguistiche. Un mondo, in altre parole, in cui devono darsi elementi semplici che possano essere designati da termini linguistici (nomi) e complessi strutturati significati dalle proposizioni, che a loro volta organizzano nomi o altre proposizioni.
Il concetto generale della proposizione porta con sé anche un concetto generalissimo della coordinazione di proposizione e stato di cose: la soluzione di tutti i miei interrogativi deve essere massimamente semplice!
Nella proposizione un mondo è composto sperimentalmente. (Come quando nel tribunale di Parigi un incidente automobilistico è rappresentato con pupazzi ecc.).
Da ciò deve (se non sono cieco) subito rivelarsi l’essenza della verità. [Wittgenstein, op. cit., pp.94-5]
Come abbiamo in precedenza già rilevato, al fondo della ricerca di Wittgenstein può ritrovarsi la convinzione, semplicemente asserita, che le proposizioni siano immagini, raffigurazioni. Questa nota del 29.9.14 ci garantisce una utile prospezione in merito.
La proposizione raffigura uno stato di cose (Sachverhalt – relazione di cose) coordinandosi a esso, correlando i propri elementi semplici con quelli della situazione che intende descrivere-rappresentare. In questo senso essa la ricostruisce, con materiale arbitrariamente scelto (ma non arbitrariamente disposto), o piuttosto ne compone un modello:
La proposizione deve produrre un modello logico di uno stato di cose. Ciò è possibile solo perché ai suoi elementi furono arbitrariamente coordinati oggetti. […] [Ibidem, p.101]
Il riferimento all’episodio dell’aula di tribunale (che pare aver costituito veramente lo spunto per la teoria wittgensteiniana della proposizione-immagine) è sufficientemente esplicito sulla posizione del filosofo: il rapporto tra mondo e linguaggio è di tipo proiettivo e presuppone correlazione e isomorfismo, cioè una identità di articolazione quantitativa e, pur nell’ambito di sistemi di elementi qualitativamente diversi, una identità di forma tra fatto e proiezione. In virtù di tale continuità strutturale, in cui ritroviamo quanto in precedenza abbozzato parlando della logica, è possibile la comunicazione sensata.
Dalla proposizione si deve vedere la costruzione logica dello stato di che la rende vera o falsa. […]
La forma di una immagine si potrebbe definire ciò in cui l’immagine deve concordare con la realtà (per poterla raffigurare).
[…]
La proposizione costruisce un mondo con l’aiuto della propria impalcatura logica […]. [Ibidem, pp.103-4]
Queste annotazioni del 20.10.14 consentono di estrarre la condizione logica che è il vero e proprio ponte tra mondo e linguaggio (di qualsiasi tipo): nella alterità tra immagine e ciò di cui essa è immagine si inserisce il vincolo di identità garantito dalla forma logica.
La proposizione è una configurazione con i tratti logici del rappresentato e altri tratti ancora, ma questi saranno arbitrari e diversi nei diversi linguaggi segnici. [Ibidem, p.105]
Un mondo a uso del linguaggio
La esigenza delle cose semplici è la esigenza della determinatezza del senso. [Ibidem, p.157]
Del mondo nei Quaderni si parla poco e relativamente tardi (dalla metà del 1915), ma, come si intravede nell’appunto del 18.6.15, è chiara la sua funzionalità linguistica: garantire un senso alle proposizioni e un contenuto alle denominazioni. In particolare, affinché il linguaggio non si risolva in una nebulosa regressione da proposizione a proposizione e possa invece determinarsi, è necessario che le proposizioni rinviino in ultimo a proposizioni elementari edificate con elementi semplici come i nomi significanti cose.
È indicativa delle difficoltà che Wittgenstein incontrava nella gestione dei risvolti ontologici del problema questa annotazione del 17.6.15:
E sempre di nuovo ci assale l’idea che c’è qualcosa di semplice, di indivisibile, un elemento dell’essere, in breve una cosa.
[…] noi sentiamo che il mondo deve consistere di elementi. E ciò sembra essere identico alla proposizione che il mondo debba essere proprio ciò che è, debba essere determinato. […]
Il mondo ha una struttura fissa. [Ibidem, p.155-6]
L’approccio ontologico che ritroveremo commentando le prime proposizioni del Tractatus si delinea dapprima, in termini molto sfumati, come sentire (fühlen): il mondo nella sua Struktur di cose, elementi irriducibili che assicurano puntualità e definitezza alle proposizioni, si rivela all’intuizione, è avvertito appunto come istanza che non si lascia fondare razionalmente. Si tratta, insomma, di una cornice pregiudicata, destinata a soddisfare le esigenze di senso del nostro linguaggio.
Così il mondo è da un lato, metafisicamente, prospettato come mondo, come entità a sé, dall’altro se ne sottolinea la consistenza in elementi: entro questi estremi, di totalità strutturata e semplicità, si dispongono le combinazioni più o meno complesse cui corrisponderanno, sul piano linguistico le proposizioni (atomiche e molecolari).
Ma come devo spiegare ora l’essenza generale della proposizione? Possiamo ben dire: tutto ciò che accade (o non accade), può essere raffigurato con una proposizione. Ma qui abbiamo l’espressione accadere! Essa è altrettanto problematica.
Gli oggetti costituiscono il riscontro alla proposizione.
Gli oggetti posso solo nominarli. Dei segni li rappresentano. [Ibidem, p.143]
Al linguaggio spetterà dunque di fissare nella propria sintassi, con la configurazione dei propri segni e simboli, l’accadere in cui gli oggetti si combinano senza necessità. La dimensione dominante sul piano del contenuto linguistico, sensato nella misura in cui sia capace di raffigurare, sarà dunque quella della accidentalità, della possibilità dell’accadere o non accadere.
Tuttavia, accanto a un piano fisso che deve prevedere oggetti, semplici, Wittgenstein identifica sempre una costruzione, una impalcatura logica del mondo, assolutamente trascendentale:
Un enunciato non può riguardare la struttura logica del mondo, infatti, affinché un enunciato sia in generale possibile, affinché una proposizione possa avere senso, il mondo deve già possedere la struttura logica che essa appunto possiede. La logica del mondo viene prima di ogni verità o falsità. [Ibidem, p.103]
Un mondo incapsulato nel linguaggio
I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.
C’è realmente soltanto una anima del mondo, che io di preferenza chiamo la mia anima, e in base alla quale solamente concepisco le anime degli altri.
La precedente osservazione dà la chiave per decidere in che misura il solipsismo sia una verità. [Ibidem, p.141]
A partire dalla metà del 1915, ma poi, più abbondantemente, dall’estate 1916, cominciano a comparire nei Quaderni annotazioni riguardanti un tema cui il Tractatus, come vedremo, dedicherà alcuni densi passaggi, quello del solipsismo. Un tema che Wittgenstein assumeva direttamente dalla lezione dell’idealismo moderno, attraverso Schopenhauer, ma anche da quella di Russell (che lo aveva discusso in The Problems of Philosophy, 1912), e che si collocava, nella maturazione della sua opera, in una posizione delicatissima, a cavaliere tra il trascendentale, ciò di cui non si può sensatamente parlare in quanto condizione stessa della espressione sensata, e il trascendente, ciò di cui non si può parlare in quanto propriamente al di là dell’orizzonte dell’accadere.
La nota del 23.5.15 è in tale prospettiva molto esplicita: la identificazione dei limiti tra linguaggio (proposizioni, che descrivono gli stati di cose, ma anche il pensiero, che con esse e in esse si esprime [<<Il pensare infatti è una specie di linguaggio. Giacché il pensiero è naturalmente anche una immagine logica della proposizione e dunque una specie di proposizione>> 12.9.16. Ibidem, pp.177-8]) e mondo fa emergere sullo sfondo l’io, dalle cui decisioni linguistiche dipende la manifestazione della realtà. Tuttavia quel soggetto, quell’anima, quella coscienza (si tratta delle diverse modulazioni dello stesso concetto nella tradizione) non sono parte del mondo, non sono elementi-oggetti che si possano significare con termini capaci di combinarsi sensatamente con altri:
La strada che ho percorso è questa: L’idealismo separa dal mondo gli uomini come unici, il solipsismo separa soltanto me, e infine vedo che anch’io appartengo al resto del mondo; da un lato non resta nulla, dall’altro, unico, il mondo. Così l’idealismo sviluppato rigorosamente conduce al realismo. [Ibidem, p.180]
Nella tradizione idealistica, a partire da Descartes, il mondo era stato posto all’interno dell’orizzonte della coscienza, chiudendo il soggetto in una solitudine metafisica da cui era stato poi difficile uscire. Wittgenstein si ritrae dalle implicazioni sostanzialistiche della certezza del cogito e azzera la consistenza di tale metafisica, pur muovendosi lungo la stessa direzione. Dal momento che il soggetto è condizione trascendentale insuperabile, esso non sarà mai oggetto, cioè non rientrerà mai nel mondo della propria esperienza:
È comunque vero che io non vedo il soggetto.
È vero che il soggetto conoscente non è nel mondo, che non c’è alcun soggetto conoscente. [Ibidem, p. 181]
Così, dal lato del soggetto, che non c’è perché non si vede, rimane il nulla e la scena è conquistata completamente dal mondo. In tal senso, coerentemente condotto alle estreme conseguenze, l’idealismo sfuma nel realismo.
Il soggetto rimane contratto come in un punto inesteso, mentre resta la realtà coordinata a esso(2.9.16):
L’Io filosofico non è l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana con le proprietà psicologiche, ma il soggetto metafisico, il limite (non una parte) del mondo. [Ibidem, p.177]
È evidente allora che Wittgenstein conserva un ufficio rigidamente trascendentale all’io, posizionandolo come limite del mondo, in altre parole come ciò che contribuisce a definirlo (nel senso che il linguaggio è sempre linguaggio di un io, che le asserzioni sul mondo rimandano a un io che giudica, ecc.) pur non essendone parte.
La vita della conoscenza
Rispetto al testo del Tractatus che commenteremo, i Quaderni preparatori denunciano una riflessione ampia e tormentata sui temi conclusivi dell’opera: etica, religione e senso della vita. Per quegli aspetti, insomma, che segneranno a fondo anche la storia delle interpretazioni del Tractatus e che Russell stigmatizzava brevemente chiudendo la propria introduzione.
Il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo.
In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro sono riuscito a metterlo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne. [Citato in B. McGuinness, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), Milano, 1990, p.430]
Queste famose affermazioni di Wittgenstein (contenute in una lettera all’editore Ludwig von Ficker, dell’autunno 1919), che anticipano la altrettanto famosa proposizione 7 del Tractatus (Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere), si possono interpretare proprio tenendo conto dell’impegno di scavo documentato nelle annotazioni del 1916, che rappresentano davvero il “non scritto” cui si accenna nella comunicazione. Vale la pena citare integralmente l’appunto dell’11.6.16, in cui affiorano, concentrate, le grandi domande:
Che cosa so di Dio e del fine della vita?
So che questo mondo è.
Che io sto in esso come l’occhio nel suo campo visivo.
Che qualcosa in esso è problematico, ciò che noi chiamiamo il suo senso.
Che questo senso non risiede in esso, ma al di fuori di esso.
Che la vita è il mondo.
Che la mia volontà compenetra il mondo.
Che la mia volontà è buona o cattiva.
Che dunque bene e male sono in qualche modo congiunti al senso del mondo.
Il senso della vita, cioè il senso del mondo possiamo chiamarlo Dio.
E collegare a ciò la similitudine di Dio come padre.
La preghiera è il pensiero sul senso del mondo.
Non posso volgere gli avvenimenti del mondo secondo la mia volontà; piuttosto sono completamente impotente.
Solo così posso rendermi indipendente dal mondo – e in un certo senso quindi dominarlo – rinunciando a un influsso sugli avvenimenti. [Wittgenstein, op. cit., p.167]
Precipitano in queste righe asciutte preoccupazioni di senso, dettate forse dalla lettura degli esistenzialisti russi, Dostoevskij (citato nei Quaderni) e Tolstoj (una delle letture fondamentali nel periodo bellico), dalle pagine di Kierkegaard ovvero dal misticismo di Angelo Silesius. Si dischiudono la via all’espressione inquietudini che, come implicitamente ammesso dallo stesso Wittgenstein a von Ficker, hanno sullo sfondo emotivamente sostenuto l’indagine sulla essenza della proposizione.
D’altra parte la loro emersione si innesta all’interno della meditazione sul trascendentale limite del dicibile e sul soggetto: ciò si rivela sia nel richiamo al nesso tra occhio e campo visivo, sia nella (associata) introduzione del tema della volontà. Infatti, il dato di partenza è quello che abbiamo sopra ritrovato come esito dell’idealismo rigorosamente condotto: la pura effettività del mondo. Esso è: questo è ciò che sappiamo. Non possiamo sensatamente aggiungere alla constatazione né un perché, né un autentico che cosa, pena il superamento dell’orizzonte della fattualità che rende significante il nostro linguaggio.
Dalla emarginazione del soggetto metafisico al limite del mondo deriva anche la marginalizzazione del soggetto del volere, che svolge comunque la propria funzione trascendentale. Il mondo e la vita, infatti, coincidono: i fatti, cioè, sono sempre tali per un io che si rapporta loro innervandoli con le proprie aspettative. Esse non modificano i fatti, in questo senso assolutamente accidentali rispetto alla volontà, non hanno dunque effettività nel mondo. Tuttavia dispongono il soggetto nei confronti del mondo: in tale prospettiva trascendentale si potrà ancora parlare di valori, di bene e male:
L’etica non tratta del mondo. L’etica deve essere una condizione del mondo, come la logica. [Ibidem, p.172]
Ciò che negli appunti sembra premere maggiormente all’autore è comunque il nesso bene–felicità e male–infelicità, in altre parole la coincidenza spinoziana di virtù e premio, nonché la loro immanenza al soggetto del volere:
Come il soggetto non è parte del mondo bensì presupposto della sua esistenza, così buono e cattivo sono predicati del soggetto, non proprietà del mondo. [Ibidem, p.175]
Ma in che cosa consiste la felicità e dunque il bene? Wittgenstein offre degli spunti, in parte ripresi, come verificheremo, anche nel testo pubblicato:
Dostoevskij ha quindi ragione quando afferma che colui che è felice compie il fine della esistenza.
Ovvero si potrebbe anche dire così, che compie il fine della esistenza colui che non ha bisogno di alcun fine fuori della vita. Cioè propriamente chi è soddisfatto. [Ibidem, p.168]
La felicità sembra implicare un atteggiamento di distacco rispetto al mondo, la consapevolezza della sua inalterabilità da parte del soggetto, che si traduce in una rinuncia. Si tratta apparentemente di echi classici, stoici e epicurei, che Wittgenstein, in una lunga nota dell’8.7.16, innesta nel quadro della propria riflessione. La fattualità del mondo, il fatto che esso ci è dato, fanno sì che la nostra volontà si volga a esso come a un fatto compiuto, esterno, indipendente da essa. Questa percezione del mondo è quanto la tradizione ha chiamato fato, ma anche Dio. Wittgenstein, anzi, precisa che come tutte le cose stanno è Dio (2.8.16). Dal fato ci si può rendere indipendenti nella misura in cui si assuma un punto di vista contemplativo, si riesca a cogliere il mondo come un tutto:
L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte e etica. [Ibidem, p.178]
La felicità coincide allora con la accettazione della accidentalità del mondo rispetto al nostro volere e con la capacità di vivere nel presente, non nel tempo: questo significa, appunto, afferrare il mondo come un tutto compiuto. E questa è quella vita della conoscenza che Wittgenstein associa alla felicità:
Come può in genere essere felice l’uomo quando non riesca a evitare la miseria di questo mondo?
Attraverso la vita della conoscenza.
La buona coscienza è la felicità assicurata dalla vita della conoscenza. [Ibidem, p.176]
Il mondo di cui si parla in questi passaggi è ormai chiaramente un mondo totalità estranea all’io (indipendente e contemplato quasi da fuori), il cui valore l’autore fa coincidere con il divino, con quanto, in altre parole, si posiziona oltre l’accadere garantendogli un senso:
Credere in un dio significa comprendere il problema del senso della vita.
Credere in un dio significa vedere che con i fatti del mondo non tutto è esaurito.
Credere in Dio significa vedere che la vita ha un senso. [Ibidem, p.168]
Bibliografia
Edizioni:
Werkausgabe, Bd 1, Frankfurt a.M., herausgegeben von J. Schulte,
Tractatus logico-philosophicus, German text with an English translation en regard by C.K. Ogden. Introduction by B. Russell, London, 1992.
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Torino, 1983.
Per quanto riguarda la vita di Wittgenstein sono consigliabili:
N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Milano 1988
B. Mc Guinness, Wittgenstein. Il giovane Ludwig (1889-1921), Milano, 1990
R. Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, Milano, 1991.
Per quanto riguarda l’ambiente culturale e la formazione:
A. Janik – S. Toulmin, La grande Vienna, Milano, 1975
G.H. Von Wright, Wittgenstein, Bologna, 1983.
Per una presentazione di insieme:
A.J. Ayer, Wittgenstein, Roma-Bari, 1986
A.G. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Roma-Bari, 1985
A.C. Grayling, Wittgenstein, Oxford, 1988
A. Grieco, Wittgenstein, Milano, 1998
A. Kenny, Wittgenstein, Torino, 1984
D. Pears, Wittgenstein, London, 1997
H. Sluga – D.G. Stern (ed.), The Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge, 1996.
M. Sbisà, Wittgenstein, Roma, 1975
I. Valent, Invito al pensiero di Wittgenstein, Milano, 1989.
Studi di dettaglio:
G.E.M. Anscombe, Introduzione al Tractatus di Wittgenstein, Roma, 1966
F. Barone, Il neopositivismo logico, Bari-Roma, 1986
M. Black, Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, Roma, 1967
A.G. Gargani, Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgenstein, Firenze, 1966
H.-J. Glock, A Wittgenstein Dictionary, Oxford, 1996
J. Griffin, Wittgenstein’s Logical Atomism, Bristol, 1997
G. Hunnings, The World and Language in Wittgenstein’s Philosophy, Albany, 1988
E.-M. Lange, Ludwig Wittgenstein: <Logisch-philosophische Abhandlung>. Ein einführender Kommentar in den <Tractatus>, Paderborn, 1996
D. Marconi, Il mito del linguaggio scientifico. Studio su Wittgenstein, Milano, 1971
A. Maslow, A Study in Wittgenstein’sTractatus, Bristol, 1997
H.O. Mounce, Wittgenstein’s Tractatus. An introduction, Chicago, 1981
D. Pears, The false prison. A study of the development of Wittgenstein’s philosophy, vol. I, Oxford, 1987
G. Piana, Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein, Milano, 1973
E. Stenius, Wittgenstein’s Tractatus. A critical exposition of the main lines of thought, Bristol, 1996
Giovanni Piana
Wittgenstein lettore di Frazer
Nel 1967, la rivista «Synthese» (n.17, pp. 233-263) pubblicava, a cura di Rush Rhees, appunti ed osservazioni di Wittgenstein sul Ramo d’oro di Frazer: in tutto e per tutto una ventina di pagine che raccolgono in parte annotazioni risalenti al 1931 destinate ad essere utilizzate in un contesto più ampio, in parte commenti a citazioni stesi, probabilmente del 1948, su foglietti sparsi che Wittgenstein intendeva inserire nella copia del volume in suo possesso [1]. |1|
Nonostante il loro carattere frammentario e occasionale, a queste annotazioni si può riconoscere qualcosa di più che un valore puramente documentario: sulla loro base si può infatti districare uno sviluppo di discorso relativamente organico ed articolato, ricco di numerosi spunti interessanti. |2|
Il loro motivo conduttore è rappresentato da una critica di principio nei confronti di Frazer, critica che peraltro si presenta oggi, se considerata in se stessa, abbastanza ovvia. |3|
«Frazer sarebbe capace di credere che un selvaggio muoia per errore». «Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi… Le sue spiegazioni delle usanze primitive sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse». (p. 28) ; «…quale incapacità di comprendere una vita diversa da quella inglese del suo tempo!» (p. 23). |4|
Tutto ciò è acqua passata. A maggior ragione è necessario orientare il lettore, piuttosto che sugli aspetti esterni della critica, sul suo movimento e sulle sue motivazioni interne. In essa deve essere colta quell’angolazione che rinvia ad un preciso atteggiamento filosofico. D’altra parte, non va perso di vista il fatto che la stessa curiosità di Wittgenstein nei confronti dell’opera e della sua tematica appare direttamente suggerita da quella sorta di «invenzione antropologica» che troviamo così spesso in azione nella sua riflessione filosofica come un vero e proprio modo di argomentare finalizzato agli scopi analitici più vari e che Wittgenstein stesso teorizzava esplicitamente come un utile artificio metodico: «Egli soleva dire che il cosiddetto ‘metodo antropologico’ si era dimostrato particolarmente fruttuoso in filosofia: ossia il metodo che consiste nell’ immaginare ‘una tribù nella quale ci si comporta in questo modo…’» (R. Rhees, in L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1967, p. 43). Tenendo conto di ciò, la stessa critica nei confronti di Frazer si presenta come l’indice di una tematica positiva, con consistenti implicazioni di ordine generale, di cui questi appunti contengono forse qualcosa di più di un semplice cenno. |5|
Vogliamo passarne in rassegna la problematica. La tesi avanzata fin dall’inizio è che possiamo parlare di errore solo laddove vi siano opinioni, credenze, teorie. Ed inoltre: non ogni comportamento presuppone la posizione di un’opinione, né è lecito supporla in esso per renderne ragione. Le pratiche magiche descritte da Frazer sono anzitutto esempi di comportamenti ed il modo in cui esse vengono spiegate mostra con cruciale evidenza le conseguenze di questa equivoca intersezione di piani. |6|
Dobbiamo considerare la magia come pseudoscienza, secondo quanto sostiene Frazer? Allora la magia cadrà comunque sotto il titolo della conoscenza ed essa sarà tanto vicina alla scienza (e tanto lontana da essa) proprio perché nella magia si esprime una conoscenza falsa della natura. L’intera vita «selvaggia» sarà una vita nell’errore. E la spiegazione dei comportamenti di cui essa consiste dovrà invariabilmente tentare di rendere esplicite le opinioni che si suppongono celate in essi. Quelle opinioni debbono rendere conto di quei comportamenti: questi non sono altro che la loro coerente applicazione. |7|
Il primo attacco di Wittgenstein concerne questo atteggiamento di principio: «Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori» (p. 17). L’interesse nei confronti delle pratiche magiche sta in primo luogo nel fatto che presentano un materiale esemplificativo estremo. Si può errare fino a questo punto? La cosa, giustamente, ci sorprende. |8|
Dunque, il selvaggio crede veramente che per uccidere il nemico basti trafiggerne l’immagine? Che il re della pioggia abbia la pioggia in suo potere? Oppure che il sole sorga perché gli si fanno sacrifici? |9|
Se l’azione di trafiggere l’immagine del nemico viene considerata come l’applicazione coerente di una credenza implicita che il nemico venga in questo modo realmente ucciso, se dunque si ritiene che condizione di questo comportamento sia una teoria che conferisce all’immagine lo stesso statuto ontologico, la stessa forza d’essere di ciò che essa raffigura, come mai lo stesso selvaggio che talora si comporta così, talaltra intaglia a regola d’arte le sue frecce e costruisce una vera capanna? (p. 22) Perché si reca dal re della pioggia all’approssimarsi della stagione delle piogge? (p. 33) Perché compie all’alba le cerimonie per il sorgere del sole e di notte, molto semplicemente, accende un lume? (p. 34) |10|
Evidentemente, certe importanti distinzioni che sappiamo fare noi, le sa fare, anzi, le deve saper fare anche lui. Di fronte all’immagine di una vita immersa in un universo di credenze erronee, Wittgenstein sottolinea in primo luogo che vi è un impatto primitivo con la natura e che in questo impatto essa non può mostrarsi al selvaggio in altro modo se non come essa si mostra a tutti gli uomini, in tutta la sua durezza. La stessa possibilità della sopravvivenza è connessa al soddisfacimento di condizioni conoscitive minime, e queste chiamano in causa l’esperienza quotidiana della natura e le conoscenze abituali in essa ben fondate. |11|
Perciò potremmo arrivare a dire che «… se mettessero per iscritto la loro conoscenza della natura, essa non si distinguerebbe in modo fondamentale dalla nostra». Wittgenstein aggiunge: «Solo la loro magia è diversa» (p. 37). |12|
Ma evidentemente non si tratta di asserire che, in un modo o nell’altro, anche noi abbiamo la nostra magia. Le pratiche magiche vengono in questione essenzialmente per la loro evidenza esemplificativa. Sullo sfondo vi è il problema dei modi di agire, dei comportamenti in genere ed in particolare di quei comportamenti che ripropongono gli stessi interrogativi, gli stessi problemi, o problemi strettamente affini. |13|
Quando si è adirati, può accadere che si percuota un albero con un bastone (p. 34). Oppure: l’innamorato bacia talvolta il ritratto dell’amata o il suo nome (p. 21). «Se un uomo nella nostra (o nella mia) società ride troppo, io stringo quasi inconsapevolmente le labbra, come se con ciò credessi di poter tenere unite le sue» (p. 37). |14|
In casi come questi, l’andare alla ricerca di opinioni soggiacenti al gesto ci apparirebbe certamente assurdo. Ma allora ci deve apparire assurdo questo stesso atteggiamento nei confronti delle pratiche magiche e religiose in genere. Non vi è dubbio che in esse false opinioni e false credenze possano svolgere un ruolo; non vi è dubbio, dunque, che vi siano veramente la superstizione e l’ipocrisia. Ma ciò non toglie il problema di identificare in quelle pratiche la componente cerimoniale. Occorre anzitutto fissare il concetto di azione rituale (p. 26), bisogna chiarire la sua irriducibilità alla credenza superstiziosa, per determinare poi in che modo essa possa essere adeguatamente caratterizzata. |15|
Si apre così la via verso un’elaborazione positiva del problema: considerazioni di ordine linguistico forniscono ad essa una sorta di mediazione. |16|
Le poche ed efficaci annotazioni volte in questa direzione diventano tanto più ricche di significato se pensiamo, piuttosto che alla concezione «liberalizzata» del secondo Wittgenstein, alla rigida concezione del linguaggio teorizzata nel Tractatus. |17|
In breve potremmo dire: ora siamo disposti a prendere in seria considerazione l’uso simbolico-espressivo del linguaggio0 Ad esempio: le parole «la maestà della morte» rendono manifesto un peculiare modo di sentire un fatto. Il fatto si arricchisce qui di un «senso» che non è insito in esso, di una portata che lo trascende. Ma proprio questo arricchimento non potevano essere tollerati nel quadro dell’atteggiamento intellettuale del Tractatus. Alla Sachlichkeit ovunque dominante corrisponde la sublimazione di ogni senso trascendente: i fatti sono quello che sono e tutto ciò che emerge rispetto ad essi confluisce e rifluisce nella zona buia e inarticolata del silenzio mistico. |18|
Se ora siamo disposti a prendere in considerazione gli usi simbolico-espressivi delle parole, ciò non significa che ci muoviamo sulla linea di sviluppo dell’iniziale misticismo teorico, ma al contrario che sono venute meno le istanze sublimanti che conducevano ad esso. In fin dei conti, recuperiamo le dimensioni dei modi di sentire, nella loro molteplicità, nelle loro particolarità, nelle loro articolazioni. |19|
L’esempio fornito dalle parole «la maestà della morte» viene richiamato da Wittgenstein discutendo il destino tragico del sacerdote di Nemi. La stessa descrizione dell’usanza ci colpisce:«… qui avviene qualcosa di strano e di terribile» (p. 19). E «se al racconto del re-sacerdote di Nemi si affianca l’espressione ‘la maestà della morte’ si vede che sono una cosa sola. La vita del re-sacerdote presenta ciò che quella espressione intende» (p. 20). |20|
Dunque, ciò che è peculiare all’azione rituale è ciò che essa ha in comune con il linguaggio nel suo uso simbolico-espressivo: cosicché si apre un nuovo spazio di indagine che investe il piano del linguaggio e nello stesso tempo quello del comportamento. Ammettiamo che i fatti possano essere sotto la nostra presa nei modi più vari, che essi possano essere arricchiti da queste strutture di riferimento. E quel che più importa: tutto ciò non rinvia più ad un imperscrutabile «senso della vita», ma si presenta esplicitamente come una tematica che esige di essere sottoposta ad una chiarificazione sistematica. |21|
Sarebbe, io credo, materialmente erroneo ritenere che Wittgenstein si avvii a sostenere una sorta di autonomia del sacro o, in modo equivalente, si accinga alla difesa della specificità del linguaggio religioso. Se mai la linea di tendenza è quella di operarne la riconduzione all’interno della problematica generale della vita emotiva, con l’intento di vederci chiaro in essa. Ad una invocazione religiosa possiamo anche sottrarre lo sfondo di credenze che pesano su di essa: ciò che resta è ancora una invocazione (cfr. p. 17 e pp. 27-28). D’altra parte, lo stesso termine di «azione rituale» dovrà essere inteso in un’accezione abbastanza ampia da comprendere ogni gesto simbolico-espressivo, si tratti dell’atto di levarsi il cappello come saluto o di battere un pugno sul tavolo quando si è adirati. Vogliamo evitare un uso tanto ampio del termine? Bene. Ribadiremo in ogni caso che «tutti i riti sono di questa specie» (p. 34). |22|
Occorrerà perciò non fraintendere formulazioni che, prese in se stesse, possono prestarsi ad equivoci, come quando Wittgenstein osserva che l’affermazione «in parte sbagliata, in parte assurda» secondo cui «l’uomo è un animale cerimoniale» «contiene anche qualcosa di giusto» (p. 26). Ed anche i riferimenti alla vita emotiva, che sembrano in alcuni casi tendere ad un’unilaterale riduzione emozionalistica, non debbono essere intesi come se l’intera questione si risolvesse nella solita rivendicazione delle buone ragioni del sentimento. |23|
Il problema è in effetti un altro: si tratta di avviare concretamente un’indagine sui comportamenti in genere che non si imbatta da un lato o dall’altro, o da entrambi, in questa o quella colonna d’Ercole. Di ogni comportamento che abbia interesse per la sua tipicità dobbiamo essere in grado di rendere ragione. La riflessione filosofica deve poter estendersi correttamente in ogni direzione: l’intero linguaggio deve essere passato all’aratro (cfr. p. 27). |24|
Ad una prima lettura del testo, può forse sorgere il dubbio che proprio questo compito di chiarificazione analitica non soltanto non sia esplicitamente formulato, ma addirittura esplicitamente respinto. L’accento cade con tanta insistenza sulla necessità di disporsi in un atteggiamento meramente descrittivo da sembrare quasi che di fronte alle «azioni rituali» non dovremmo far altro che liberarci dai pregiudizi, dare di esse una fedele registrazione, ed allora il loro senso ci balzerà senz’altro agli occhi. Dopo di ciò, null’altro ci sarà da aggiungere: «Qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana» (p. 19). Oppure: «Si vorrebbe dire: ha avuto luogo questo e quest’altro: ridi se puoi» (p. 21). Riconosciamo dunque che quei comportamenti, quelle usanze hanno un senso così come lo hanno le parole nel loro uso simbolico-espressivo. Ma come potrà infine quel senso essere compreso se non attraverso il mostrarsi stesso dell’evento ed il suo afferramento simpatetico? |25|
Questo non è, io credo, ciò che sostiene Wittgenstein anche nei punti in cui egli più vivacemente sottolinea l’esigenza di lasciar parlare l’evento descritto. Le azioni rituali non sono semplicemente a disposizione. Il loro senso non è totalmente trasparente, purché lo sguardo non sia prevenuto. E nemmeno si tratta di ricondurle alla cieca a «forme di vita» considerate a loro volta come dati irriducibili. |26|
Al contrario esse possono e debbono essere oggetto di un’indagine effettiva. Questa indagine deve rivolgersi anzitutto alle fantasie intessute nell’evento rituale, che fanno corpo con esso e che realizzano in esso possibilità associative interne agli stessi materiali immaginativi. |27|
Come in Frazer, si è dunque anche qui interessati all’antica tematica dell’associazione delle idee (cfr. p. 39). Ma mentre in Frazer le regole dell’associazione vengono richiamate per spiegare la grossolana erroneità delle opinioni che si presumono implicite nei comportamenti, qui l’idea di regole associative interne ai materiali immaginativi deve fornire il filo conduttore per ricostruire i nessi che giustificano la simbolizzazione e ne dispiegano il senso. |28|
Molto semplicemente: vi è veramente una somiglianza tra il fuoco e il sole. Da questa somiglianza noi non dobbiamo necessariamente essere colpiti (p. 26). Ma essa può colpirci – tra il fuoco e il sole si può istituire un nesso immaginativo che orienta verso questa o quella possibilità di espressione simbolica. Così, entro il contesto di un’azione rituale, l’acqua può ben essere connessa con l’idea della purificazione; e dunque anche, ad esempio, con la malattia (p, 49). Certo, può essere che una pratica rituale comprenda la teoria infantile della malattia come sporcizia che può essere lavata via. Wittgenstein non nega che un’opinione possa appartenere al rito (p. 27). Nega che il rito possa essere spiegato con l’opinione: «Come vi sono ‘teorie sessuali infantili’ così vi sono in generale teorie infantili. Questo però non vuol dire che tutto ciò che fa un bambino abbia come ragione e origine una teoria infantile» (p. 49). |29|
Ciò che vi è di peculiare e di specifico nell’azione rituale è anzitutto la funzione simbolizzante: questa a sua volta poggia su possibilità associative materialmente fondate. |30|
In nessun caso tutto ciò implica che la funzione simbolizzante ed i nessi attraverso cui essa si realizza siano senz’altro palesi. Può essere anzi che l’evento si presenti alla superficie come disperso ed incoerente – può essere che le associazioni si effettuino attraverso anelli intermedi che restano oscuri, che dunque non sia affatto chiaro quali poli della complessa costellazione di comportamenti, di gesti, di parole, di cui l’azione rituale è costituita, debbano essere coordinati ed in che modo. Nessuna immedesimazione simpatetica ci può giovare alla comprensione. Ma soltanto, appunto, la descrizione: ed allora è ovvio che questa andrà intesa come una vera e propria ricostruzione che ha lo scopo di portare l’evento ad una presentazione perspicua. La descrizione deve rendere visibili le connessioni (p. 29), deve esibire, attraverso il riordinamento dei materiali, lo schema dei rapporti su cui la simbolizzazione è innestata: «’E così il coro accenna ad una legge segreta’: ecco come viene voglia di commentare la raccolta dei dati in Frazer. Di qui l’importanza di trovare anelli intermedi» (p. 29). |31|
Le considerazioni che fanno parte del secondo gruppo di appunti accentuano questa prospettiva mettendo in questione la rilevanza dell’«origine storica» dell’azione rituale ai fini della determinazione del suo senso. È opportuno tuttavia fissare i termini effettivi del problema proposto da Wittgenstein al fine di evitare una discussione anche troppo ovvia. |32|
Accade dunque, per procedere senz’altro ad un’illustrazione esemplificativa, che nel corso di una festa venga simbolizzato l’atto di bruciare un uomo. Si potrebbe allora avanzare l’ipotesi che una volta (in tempi remoti) un uomo venisse bruciato davvero – cosicché riusciremmo a spiegare perché la festa, anche nella sua forma attuale, colpisca lo spettatore: gli appaia, in certo modo , «sinistra». |33|
Evidentemente, ciò che qui può suscitare qualche dubbio non è tanto questa o quella ipotesi sull’origine, quanto la teoria della funzione simbolica implicita nell’istituzione di questa connessione lineare tra origine storica e struttura del senso. Infatti, se si assume che l’ipotesi sull’origine abbia una simile portata esplicativa, il simbolo dovrà essere inteso come una sorta di immagine dell’evento originario: questo si proietta in quello, come in una sua pallida copia. È come se la festa contenesse il ricordo di un passato lontano. Ed essa ci appare come ci appare in forza di esso (cfr. p. 44). |34|
Ma questo ricordo la festa lo contiene davvero? O, in altri termini: la posizione di quella ipotesi come ipotesi storica effettiva, suscettibile, con maggiore o minore difficoltà, di essere documentata, è essenziale perché la festa appaia provvista di quel senso con cui ci appare? Questo è appunto ciò che Wittgenstein nega, commentando in particolare la narrazione della festa di Beltane. Ed è chiaro che questa negazione ha di mira, più che l’apertura (o la chiusura) della tematica dell’incidenza del fattore storico, l’erroneità di quella teoria della simbolizzazione che pone, per così dire, il suo senso al dì fuori di essa. Al contrario, rappresenta un corollario dell’intero corso di pensieri che siamo andati sviluppando fino a questo punto la tesi che il senso inerisce alla simbolizzazione stessa, che esso non viene acquisito di riflesso o comunque dall’esterno dell’azione, ma si istituisce nel suo interno, cosicché esso deve in linea di principio diventare leggibile attraverso una descrizione-ricostruzione che porti alla trasparenza i nessi associativi in gioco. |35|
In rapporto all’esempio del sacrificio umano potremmo forse osservare: «Qui sembra che sia l’ipotesi (in senso genetico-storico) a dar profondità alla cosa» (p. 40). Eppure, se qualcuno resta colpito dalla cerimonia, che cosa propriamente lo impressiona: «1’ipotesi esposta (da lui o da altri) o già il materiale che conduce ad essa ?”.”Infatti non è soltanto il pensiero della possibile origine della festa di Beltane che porta con sé l’impressione, bensì quel che si chiama l’immensa probabilità di questo pensiero. In quanto viene ricavato dal materiale» (p. 47). |36|
Giungiamo così ad un’inversione del problema: non già la simbolizzazione come proiezione di un’origine, ma l’origine come proiezione della simbolizzazione. Questa inversione non è poi altro che un modo di proporre una precisa distinzione concettuale: l’origine come proiezione della simbolizzazione dovrà essere intesa come origine ideale, e nettamente distinta dall’origine in senso storico effettivo (cfr. p. 30). L’«ipotesi» sull’origine in senso ideale non è, in realtà, altro che la presentazione degli stessi nessi strutturali dell’evento nella forma di un processo. Ed è perciò in generale pensabile che una divaricazione possa prodursi tra origine storica effettiva e struttura attuale della simbolizzazione. Potremmo ipotizzare una origine futile per la «sinistra» festa di Beltane; ma se alla sua forma attuale inerisce una dimensione di «profondità», questa non viene tolta dalla verità dell’ipotesi sulla futilità della sua origine (cfr. p. 43). |37|
Questo è l’impianto di idee su cui si sviluppano le considerazioni di Wittgenstein. Ed è importante, sia al fine di un commento che scenda nel dettaglio sia per l’avvio di una riflessione critica, mettere chiaramente in luce la sua coerenza interna e l’atteggiamento di principio che sta alla sua base. |38|
[1] Questi materiali sono stati pubblicati in traduzione italiana nel 1975 in un libretto autonomo: L. Wittgenstein, Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, trad. it., di S. de Waal, Adelphi, Milano 1975, con un saggio di Jacques Bouveresse intitolato Wittgenstein antropologo in appendice. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione
PASSI TRATTI DALLE OPERE
Le condizioni di verità delle proposizioni
[4.024] Comprendere una proposizione vuol dire saper che accada se essa è vera.
[4.3] Le possibilità di verità delle proposizioni elementari significano le possibilità di sussistenza e d’insussistenza degli stati di cose.
[4.46] Tra i possibili gruppi di condizioni di verità vi sono due casi estremi. Nel primo caso la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari. Noi diciamo che le condizioni di verità sono tautologiche. Nel secondo caso, la proposizione è falsa per tutte le possibilità di verità: Le condizioni di verità sono contraddittorie. Nel primo caso chiamiamo la proposizione una tautologia; nel secondo, una contraddizione.
(Tractatus logico-philosophicus)
Filosofia e scienza naturale
[6.52] Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.
[6.521] La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso. (Non è forse per questo che uomini cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?)
[6.522] V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.
[6.53] Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale; dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha da fare; e poi, ogni volta che altri voglia dir qualcosa di metafisico, mostrargli che a certi segni nelle sue proposizioni egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro (egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia), eppure esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto.
(Tractatus logico-philosophicus)
La prova introduce un nuovo concetto
Quando dissi che una prova introduce un nuovo concetto intendevo qualcosa del genere: la prova introduce un nuovo paradigma tra i paradigmi del linguaggio; proprio come se qualcuno componesse un particolare blu con sfumature di rosso, stabilisse in qualche modo le particolari miscele di colore e gli desse un nome. Ma, quand’anche fossimo disposti a dare il nome di prova a un nuovo paradigma di questo genere, qual è l’esatta somiglianza tra una prova e un modello concettuale siffatto? Si vorrebbe dire: la prova cambia la grammatica del nostro linguaggio, cambia i nostri concetti. Instaura nuove connessioni e crea il concetto di queste connessioni. (Non stabilisce che queste connessioni ci sono, tuttavia non ci sono prima che la prova le abbia instaurate.)
(Osservazioni sopra i fondamenti della matematica)
Logica e Matematica
[6.2] La matematica è un metodo logico. Le proposizioni della matematica sono equazioni, dunque proposizioni apparenti.
[6.21] La proposizione della matematica non esprime un pensiero.
[6.211] Nella vita, invero, non è mai la proposizione matematica stessa a servirci: la proposizione matematica l’usiamo solo per concludere da proposizioni, che non appartengono alla matematica, ad altre, che parimenti non appartengono ad essa. (Nella filosofia la domanda: “Ma per che scopo usiamo quella parola, quella proposizione?” conduce sempre a preziose intuizioni.)
[6.2331] Il procedimento del calcolare provvede appunto questa intuizione. Il calcolo non è un esperimento.
[6.234] La matematica è un metodo della logica.
(Tractatus logico-philosophicus)
Il mentitore
Un tizio va tra la gente e dice: “Io mento sempre.” La gente risponde: “Bene, allora possiamo fidarci di te!” Ma non potrebbe darsi che lui intenda quello che ha detto? Non c’è la sensazione che non sia capace di dire realmente qualcosa di vero, qualunque cosa dica? “Io mento sempre!” “Ebbene che cosa si doveva dire di questa proposizione?” “Anche questa era menzogna!” “Ma allora tu non menti sempre!” “Ma sì, sono tutte menzogne!” Di quest’uomo diremmo, forse, che con “vero” e “mentire” non intende la stessa cosa che intendiamo noi. Forse intende una cosa del genere: quello che dice oscilla; oppure: niente viene proprio dal cuore. Si potrebbe anche dire: il suo “mento sempre” non era una vera e propria asserzione. Piuttosto, era un’esclamazione. Si può dunque dire: “Se non ha enunciato quella proposizione senza pensarci, allora deve aver inteso le parole in questo modo così e così; e non potrebbe averle intese nel modo consueto?”
(Osservazioni sopra i fondamenti della matematica)
Logica e calcolo
L’applicazione del calcolo deve badare a se stessa. Ecco che cosa c’è di vero nel “formalismo”. La riduzione dell’aritmetica alla logica simbolica deve rendere manifesta l’applicazione dell’aritmetica. È, per così dire, l’aggiunta grazie alla quale si riporta l’aritmetica alla sua applicazione. Come se prima si mostrasse a qualcuno una tromba priva dell’imboccatura, poi si portasse a contatto con il corpo umano l’imboccatura, che ci insegna come impiegare una tromba.[…] Il calcolo bada alla sua propria applicazione. Estendiamo le nostre idee dai calcoli con piccoli numeri ai calcoli con grandi numeri, nello stesso modo in cui immaginiamo che, se la distanza da qui al Sole si potesse misurare con un regolo, otterremmo lo stesso risultato che otteniamo, oggi, in un modo completamente diverso.
(Osservazioni sopra i fondamenti della matematica)
La critica a Frazer
Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori. Allora Agostino era in errore, quando in ogni pagina delle Confessioni invoca Dio? Frazer dice che è molto difficile scoprire l’errore nella magia – questo è il motivo per cui essa sopravvive così a lungo: per esempio una invocazione che abbia lo scopo di attirare la pioggia prima o poi risulterà sicuramente efficace. Ma allora è davvero strano che gli uomini per tanto tempo non abbiano scoperto che prima o poi piove comunque.[…] Qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana.
(Note sul “Ramo d’oro” di Frazer)
Il linguaggio come raffigurazione logica del mondo
[1] Il mondo è tutto ciò che accade.
[1.1] Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose.
[1.2] Il mondo si divide in fatti.
[2] Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.
[2.02] L’oggetto è semplice.
[2.0201] Ogni enunciato sopra complessi può scomporsi in un enunciato sopra le loro parti costitutive e nelle proposizioni che descrivono completamente i complessi.
[2.1] Noi ci facciamo immagini dei fatti.
[2.2] L’immagine ha in comune con il raffigurato la forma logica della raffigurazione.
L’inesprimibile
[6.522] V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.[…]
[7] Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.
(Tractatus logico-philosophicus)
RUDOLF CARNAP
La figura forse più rappresentativa e influente del movimento neopositivistico fu Rudolf Carnap (1891-1970). Nato a Ronsdorf in Germania, seguì le lezioni di Frege a Jena e si addottorò in Fisica a Friburgo nel 1921. Nel 1926 divenne Professore a Vienna ed entrò a far parte del Wiener Kreis, dirigendo la rivista “Erkenntnis” insieme a Reichenbach. Successivamente insegnò nell’Università di Praga e dal 1936 in quella di Chicago, da cui si trasferì nel 1952 a Princeton e nel 1954 nell’Università di Los Angeles, città dove morì. Nella sua prima opera sistematica, ” La costruzione logica del Mondo ” (1928), Carnap intende mostrare come il mondo si strutturi logicamente in un sistema di conoscenze, eretto a partire da una base empirica , la cui unità minima è l’esperienza vissuta elementare ( in tedesco, Elementarerlebnis ). Egli si richiama ai risultati delle indagini condotte dalla cosiddetta “psicologia della forma” ( Gestalpsychologie ), secondo cui i contenuti della percezione non sono semplici aggregati di elementi, ma totalità strutturate: nell’invarianza di tale struttura risiede il loro significato. Costituire un oggetto equivale, allora, a mostrare il significato del segno corrispondente ad esso, indicando i criteri di verità delle proposizioni in cui tale segno può comparire. A sua volta il significato delle proposizioni si costituisce solo entro un ‘sistema’, che stabilisca le regole di formazione e trasformazione delle proposizioni stesse. Attraverso queste operazioni di costituzione, l’esperienza si presenta come un campo strutturato secondo leggi logiche invarianti e oggettive, puramente formali. Grazie al formalismo logico , tutte le teorie scientifiche esibiscono una struttura logica e una comune derivazione dei loro concetti dalle medesime esperienze di base. Sono queste a fornire il materiale per il controllo empirico delle teorie scientifiche. Mettere alla base dell’edificio della scienza le esperienze elementari immediate, che sono soggettive e private, non rischia di condurre al soggettivismo o al solipsismo? Carnap risponde che si tratta soltanto di un solipsismo metodologico , il quale sarà abbandonato una volta che il mondo sia ricostruito o costituito nella sua struttura logica, perché allora gli enunciati saranno tradotti in termini fisici relativi a stati o condizioni di un corpo fisico e potranno, quindi, essere controllati inter-soggettivamente. In alcuni articoli pubblicati su “Erkenntnis” nel 1932-33, Carnap, influenzato anche da discussioni con Neurath, sostituisce alle esperienze vissute elementari i cosiddetti protocolli , ossia le registrazioni immediate di esperienze (per esempio: “in questo luogo e ora ci sono questi corpi”). Questi enunciati non richiedono di essere giustificati e servono da fondamento agli altri enunciati della scienza. Ciò non significa che questi ultimi derivino direttamente dagli enunciati protocollari: le leggi di natura, infatti, sono formulate nel linguaggio scientifico sottoforma di proposizioni generali, le quali hanno sempre il carattere di ipotesi perché da un insieme finito di proposizioni singolari, quali sono gli enunciati protocollari non può mai essere ricavata con assoluta necessità una proposizione universale: per esempio, il fatto di aver osservato che i cigni sono bianchi. Richiamandosi al fisicalismo di Neurath, anche Carnap ritiene che tutti gli enunciati empirici possono essere espressi in un unico linguaggio, ossia in un unico vocabolario e in un’unica sintassi, intesa come un insieme di regole per trasformare gli enunciati in altri enunciati: quest’ultimo linguaggio base è fornito dalla fisica, cosicchè per esempio l’enunciato protocollare: “il mio corpo vede rosso” può essere tradotto nell’enunciato: “il corpo C ora sta vedendo rosso”. In base a questi presupposti, Carnap può condurre, in un celebre articolo del 1931, intitolato ” Superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio “, una critica alla metafisica , mostrando che gli enunciati di essa sono privi di senso, in quanto fanno uso di termini che non hanno significato, ossia non hanno alcun riferimento empirico, com’è il caso del termine “nulla” usato da Heidegger, oppure combinano tra loro termini in modo sintatticamente scorretto. Il linguaggio della metafisica appare, allora, soltanto come un’espressione di sentimenti e i metafisici vengono paragonati da Carnap a ” musicisti senza talento ” : ” nel campo della metafisica (con inclusione di ogni filosofia dei valori e teoria normativa), l’analisi logica porta al risultato negativo, per cui le presunte proposizioni di questo ambito si dimostrano del tutto prive di senso. Si consegue così un radicale superamento della metafisica, quale non era ancora possibile partendo dai precedenti punti di vista antimetafisici […]. Come mezzo di espressione del sentimento della vita, l’arte è lo strumento adeguato, mentre la metafisica non lo è […]. Il metafisico crede di muoversi in un ambito riguardante il vero e il falso. In realtà, viceversa, egli non asserisce nulla, ma si limita a esprimere dei sentimenti, come un artista ” (“Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio”). L’influenza di Neurath, che mostrava come le proposizioni della scienza potessero essere controllate soltanto attraverso il confronto con altre proposizioni e non direttamente con i fatti empirici, fu determinante anche nello spostare l’attenzione di Carnap dalla dimensione semantica del linguaggio, ossia dal problema del rapporto tra i segni e le entità alle quali si riferiscono, alla dimensione sintattica , ossia alle relazioni dei segni tra loro. Il risultato di queste indagini è il volume ” Sintassi logica del linguaggio ” (1934). I filosofi, secondo Carnap, usano il “modo materiale” di parlare, ossia parlando in termini di cose, anziché di parole, come avviene nel “modo formale” di parlare: proprio per questo, essi cadono in pseudo-problemi, come quello sulla natura dei numeri. Secondo Carnap, occorre distinguere tra gli enunciati propri di un dato linguaggio e gli enunciati che parlano di questi stessi enunciati: i primi costituiscono il linguaggio-oggetto , mentre i secondi costituiscono il metalinguaggio , ossia un linguaggio che ha come oggetto un altro linguaggio. Carnap intende, appunto, costruire un metalinguaggio, ossia la teoria formale delle forme linguistiche: tale è la sintassi logica del linguaggio, che stabilisce le regole in base ai quali costruire le strutture linguistiche. Queste regole sono puramente formali, in quanto non fanno alcun riferimento al significato dei segni linguistici e delle loro combinazioni: esse sono regole di formazione, le quali determinano se un enunciato è ben formato, ossia è grammaticalmente corretto, e regole di trasformazione , le quali descrivono il modo in cui un enunciato può essere derivato da un altro. La sintassi logica consiste, dunque, nella costruzione di un linguaggio artificiale, puramente formale ed ha pertanto un carattere convenzionale. Essa non ha lo scopo di formulare proibizioni: ognuno può costruire la sua logica, purchè ne espliciti le regole sintattiche di formazione e combinazione di segni: in ciò consiste quello che Carnap ha chiamato principio di tolleranza . Esso viene da Carnap trattato nella ” Sintassi logica del linguaggio ” (1934): egli estende a qualsiasi tipo di linguaggio il modello dell’indagine operante nella meta-matematica di Hilbert e nella meta-logica di Tarski, che prescindono dalla considerazione del significato dei segni e delle formule matematiche o logiche, per considerarle in maniera meramente formale come segni formati in determinati modi e suscettibili di combinazioni e trasformazioni secondo precise regole. Queste regole di formazione e trasformazione dei segni possono essere fissate arbitrariamente, perché sono esse che definiscono il linguaggio al quale si devono applicare (ad esempio, ai vari rami della matematica); in ciò consiste il “principio di tolleranza” enunciato da Carnap. In tal modo, oggetto della sintassi logica diventano gli aspetti formali del linguaggio, non il linguaggio nel suo complesso, e la filosofia diventa logica della scienza, ovvero sintassi logica del linguaggio scientifico, in quanto non tratta degli oggetti di cui si occupano le varie scienze, ma solo delle frasi riguardanti tali oggetti: ” il nostro atteggiamento si esprime attraverso la formulazione del ‘principio di tolleranza’: non è nostro compito stabilire delle proibizioni, ma soltanto giungere a delle convenzioni […]. In logica non vi sono morali. Ognuno è libero di costruire la propria logica, cioè la propria forma di linguaggio, nel modo che vuole. Tutto ciò che si esige da lui, se egli intende dar ragione del proprio metodo, è che lo stabilisca chiaramente e suggerisca regole sintattiche invece di argomenti filosofici “. L’arrivo negli Stati Uniti d’America coincide per Carnap con un allontanamento dalle tesi più radicali sostenute dal Circolo di Vienna e con un rinato interesse per le indagini di “semantica”, a cui sono dedicate soprattutto l’ ” Introduzione alla semantica ” (1942) e ” Significato e necessità ” (1947). Sulle orme di Tarski, egli concepisce la semantica in termini meramente formali: egli distingue infatti tra “verità logica” e “verità di fatto”. La prima è basata solamente sul significato delle parole, in particolare su quello delle cosiddette “costanti logiche” (“e”, “o”, “non”, ecc), mentre la seconda richiede un accertamento dei fatti. In questo senso, la nozione di verità logica è strettamente connessa, secondo Carnap, alla nozione di “necessità”: quest’ultima indica la verità in qualsiasi mondo possibile. Così, per esempio, in qualunque mondo possibile, ossia indipendentemente dai fatti contingenti, è sempre vera la proposizione “è necessario che Dante sia fiorentino o non fiorentino”. Poiché verità logica e necessità sono strettamente congiunte, la cosiddetta “logica modale”, che studia gli enunciati nei quali entrano gli operatori “è necessario”, “è impossibile”, “necessariamente”, ecc, è da Carnap considerata un ramo della semantica. In questo senso, egli ritiene che gli enunciati modali siano da interpretare come asserzioni di proprietà semantiche riguardanti enunciati: per esempio, l’enunciato modale “A è necessariamente B” asserisce che “l’enunciato ‘A è B’ è necessario”. Contemporaneamente, Carnap procede, già in ” Controllabilità e significato ” (1936-37), a liberalizzare il criterio del significato, che il Circolo di Vienna aveva indicato nella verificabilità. Carnap interpreta il principio di verificazione come una semplice raccomandazione per chi intende costruire un linguaggio scientifico, senza rischiare di introdurre proposizioni metafisiche, come potrebbe essere la stessa proposizione “ogni proposizione è empirica”. Anziché insistere sulla verificabilità diretta di una teoria mediante dati empirici, Carnap distingue ora tra controllabilità , la quale è data dal fatto di avere a disposizione un metodo di verifica sperimentale, e confermabilità , quando un tale metodo non può essere indicato. In particolare, un enunciato può essere confermabile senza essere controllabile: ciò avviene quando sappiamo che una certa serie di controlli condurrebbero alla sua conferma, senza sapere come procedere a tali controlli. Egli distingue quindi vari livelli, che vanno dalla controllabilità completa alla controllabilità non completa, come quella riguardante le leggi di natura, che sono enunciati generali, sino alla semplice confermabilità, che è tuttavia sufficiente ad escludere gli enunciati propri della metafisica. In quest’ orizzonte di problemi, Carnap affronta anche le questioni dell’ induzione e della probabilità , in particolarità nell’opera Fondamenti logici della probabilità (1950). Egli ritiene, infatti, che ogni ragionamento induttivo, su cui si fonda la formulazione delle leggi scientifiche, è un ragionamento in termini di probabilità, cosicchè ” la logica induttiva, ossia la teoria dei princìpi di tale ragionamento, coincide con la logica probabilistica “. Questa, però, deve fondarsi non sul concetto di probabilità come frequenza, usato in statistica e privilegiato ad esempio da Reichenbach, ma deve intendere la probabilità come relazione logica tra due enunciati e, precisamente, come il grado di conferma di un’ipotesi ( conclusione ) sulla base di dati elementi probatori ( premesse ). In questo senso, ciò a cui mette capo l’inferenza induttiva è, appunto, la determinazione del grado di conferma di un’ipotesi.
MORITZ SCHLICK
A cura di Antonino Magnanimo
” Il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica, una proposizione è insensata se non esiste un metodo per verificarla. “
Moritz Schlick nasce a Berlino nel 1882. Studia fisica frequentando corsi a Losanna e a Heidelberg laureandosi in seguito a Berlino con M. Planck; coltiva interessi per i problemi morali ed estetici, sebbene la sua ricerca si sviluppi soprattutto verso l’analisi epistemologica delle nuove teorie scientifiche del tempo. Conduce studi sul tema della gnoseologia filosofica nel suo rapporto con la scienza e in particolare con la relatività di Albert Einstein, studi che verranno apprezzati negli anni della prima guerra mondiale dallo stesso creatore della teoria relativista. Insegna fisica all’Università di Kiel e dal 1922 filosofia delle scienze induttive a Vienna succedendo al grande fisico Ernst Mach. Proprio a Vienna sorgerà quel gruppo di studiosi e ricercatori che darà inizio al Circolo di Vienna. Per il Circolo pubblica saggi e articoli a sostegno delle tesi originarie dell’empirismo logico e del principio di verificazione. Muore nel 1936 sulla scalinata dell’Università di Vienna ucciso da uno studente nazista esaltato dal regime come colui che aveva tolto di mezzo una “filosofia viziosa”. Tra le opere ricordiamo: ” Saggezza di vita. Ricerca di una dottrina di felicità ” (1908); ” L’essenza della verità nella logica moderna ” (1910); ” Spazio e tempo nella fisica “(1917); ” Teoria generale della conoscenza ” (1918). ” Esperire, conoscere, metafisica ” (1926); ” Discorsi di etica ” (1930); ” Legge e probabilità ” (1935). Postumi sono stati pubblicati: ” Filosofia della natura “; ” Natura e cultura “; ” Aforismi “. Presso l’Università di Vienna Moritz Schlick dà vita nel 1922 al Circolo di Vienna , che per quasi vent’anni diffonde la proposta neopositivista. Nel 1929 viene pubblicato il manifesto del Circolo con il titolo ” La concezione scientifica del mondo ” che segna la data di nascita della filosofia neopositivista. Il Circolo di Vienna aggregò molti insigni intellettuali dell’epoca, diversi per formazione culturale, per interessi e per competenze (filosofi, sociologi, matematici, giuristi) per discutere sui temi enunciati da Wittgenstein nel suo ” Tractatus ” e per realizzare l’ ” Enciclopedia internazionale della scienza unificata “. Ai lavori di questo gruppo parteciparono Carnap, Neurath, Frank, Popper, Reichenbach, Gödel. Le elaborazioni vennero rese pubbliche attraverso la rivista ” Conoscenza ” (“Erkenntnis”), organo del Circolo. Con l’avvento del nazismo in Germania il gruppo si disciolse. Schlick fu assassinato, e un buon numero di partecipanti si trasferí a Chicago, negli Stati Uniti, dove diede avvio alla pubblicazione dell’ ” Enciclopedia “, nel 1938, avvalendosi anche della collaborazione di Bohr, di Russell e di Dewey. Sulla nascita del Circolo di Vienna che avrà, comunque, uno sviluppo autonomo, influisce profondamente il “Trattato logico- filosofico” di Wittgenstein. Nel suo insieme il movimento viene designato, oltre che come Neopositivismo, anche come “Empirismo logico” o “Positivismo logico”. Il Neopositivismo si sviluppa attraverso due fasi:
1) la fase europea dal 1923 al 1936, in quanto il Neopositivismo ha origine in Austria e Germania;
2) la fase americana in quanto soprattutto in America si rifugiano molti Neopositivisti dopo l’avvento del nazismo e l’avvio delle persecuzioni razziali.
Il Neopositivismo trova le radici nel Positivismo ottocentesco. Entrambi sono caratterizzati dall’esaltazione della scienza, dal metodo scientifico e dalla critica della metafisica. Il Positivismo considera scientifico il modello offerto dalla scienza sperimentale. Il Neopositivismo, particolarmente interessato alla matematica e alla fisica teorica, soprattutto in rapporto alla concezione di Einstein, critica la metafisica attraverso l’analisi del linguaggio che dimostra l’insensatezza delle tesi metafisiche. Il Positivismo condanna la metafisica perché opposta ai dati concreti dell’esperienza. Il Neopositivismo si preoccupa di distinguere tra scienza e non-scienza affrontando soprattutto le tematiche fondamentali relative alla critica della filosofia metafisica e alla verifica della sintassi logica del linguaggio della scienza precisando che le scienze naturali ed esatte sono scientificamente esprimibili mentre i valori etici, religiosi ed estetici sono trascendentali e quindi inesprimibili. I valori etici, religiosi ed estetici vanno testimoniati con la vita, non trattati teoricamente. I caratteri generali del Neopositivismo possono essere così sintetizzati:
- spiccato interesse nei confronti del linguaggio
- lotta alla metafisica con attività critica del linguaggio
- convinzione che solo il linguaggio scientifico è un linguaggio rigoroso e non equivoco
- principio di verificazione.
Il principio di verificazione è un principio fatto proprio dai Neopositivisti del Circolo di Vienna per separare gli asserti sensati delle scienze empiriche dagli asserti insensati delle varie metafisiche o anche delle fedi religiose. Schlick infatti considera dotate di significato solo quelle proposizioni che possono essere controllate attraverso l’esperienza sensibile, cioè attraverso la verificazione empirica. Una proposizione è scientifica se è verificabile. Solo le proposizioni scientifiche, basate sull’esperienza e quindi verificabili, sono dotate di senso. Le proposizioni della metafisica, essendo inverificabili, non hanno senso. Il principio è, dunque, un principio di significanza tendente a demarcare il linguaggio sensato dal linguaggio insensato. Il senso di una proposizione è il metodo della sua verifica. Ciò equivale a dire che hanno senso unicamente le proposizioni che possono essere verificate mentre quelle che non possono essere verificate sono prive di senso. E’ opportuno chiarire che dichiarare una proposizione priva di senso non significa affermare che essa è falsa, ma esattamente che è priva di senso. Le proposizioni metafisiche Dio esiste, l’anima è immortale sono proposizioni insensate, perché non verificabili. La Metafisica, l’Etica e la Religione, non potendo essere verificate empiricamente nei propri asserti, sono senza senso. La matematica e logica sono mute intorno al mondo, perché le loro basi non sono empiricamente verificabili Il principio di verificazione non ebbe vita facile già all’interno delle discussioni del Circolo di Vienna. Carnap, nel suo periodo americano, smise di parlare di verificabilità proponendo i concetti di controllabilità e confermabilità. Il “secondo” Wittgenstein andrà oltre il principio di verificazione con il suo principio di uso e la teoria dei giochi di lingua. Popper, da parte sua, criticò sin dall’inizio il principio di verificazione; e, invece di demarcare linguaggio sensato e linguaggio insensato, ha proposto, con il suo criterio di falsificabilità, una demarcazione tra scienza e non scienza. Influenzato dalla lettura del “Tractatus” di Wittgenstein, Schlick prende in esame le relazioni fra linguaggio e realtà e fa notare come ogni processo conoscitivo avvenga attraverso il linguaggio: non esiste conoscenza che non si presenti come un enunciato linguistico . Il linguaggio è essenzialmente legato all’esperienza. Alla base della conoscenza ci sono le proposizioni protocollari o protocolli, ossia le singole registrazioni di un dato dell’esperienza personale, precedente ad ogni elaborazione concettuale. Le proposizioni protocollari perciò costituiscono il punto di partenza indubitabile di ogni conoscenza in quanto in tutta semplicità, senza alcuna aggiunta o trasformazione o manipolazione, esprimono i fatti. Esse hanno valore conoscitivo solo in quanto fondate su proposizioni di osservazione empirica. E nell’uso che se ne fa, hanno esclusivamente valore ipotetico; cioè, per essere valide, debbono esser verificate dall’ esperienza personale. Nella ” Dottrina generale della conoscenza “, pubblicata nel 1918, Schlick sostiene, in linea con Mach, che la conoscenza è una necessità biologica , il cui soddisfacimento comporta piacere: una tesi che, per molti aspetti, può rievocare alla mente quella aristotelica secondo cui tutti gli uomini tendono naturalmente alla conoscenza. Poiché è impossibile raggiungere una conoscenza assolutamente certa, il compito di una teoria della conoscenza consiste non nel chiedersi in che consista la conoscenza certa, ma nell’analizzare le teorie per eliminare le proposizioni false. Ai dati e alle rappresentazioni meramente soggettive, la scienza sostituisce concetti , i quali sono segni di classi di oggetti caratterizzati da poche proprietà significative e rigorosamente definibili. Il concetto, dunque, conferisce rigore al sapere scientifico, ma al tempo stesso rappresenta un impoverimento rispetto alla realtà: da ciò deriva il carattere ipotetico e mai definitivo di tale sapere. Poiché il linguaggio è per sua essenza in rapporto con l’esperienza, il significato di una proposizione dipende dal suo esprimere o meno un dato di fatto. In seguito Schlick preciserà che il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica , intendendo con ciò che la proposizione ha significato quando è formulata in modo che i fatti espressi da essa siano verificabili, almeno in linea di principio, ossia quando, anche se mancano i mezzi tecnici per una verifica empirica, la verifica è tuttavia pensabile. L’impossibilità di principio di una verifica, ossia la sua impossibilità logica, rende la proposizione priva di senso. Non esistono problemi filosofici insolubili. Secondo il principio della verificabilità di principio, infatti, una risposta è logicamente impossibile se la domanda che viene posta è priva di senso. Compito della filosofia sarà quindi quello di chiarire il senso delle asserzioni e delle questioni . La metafisica rimane al di fuori della sfera del verificabile: è quindi priva di senso. Secondo Schlick, la metafisica è l’espressione di atteggiamenti emotivi, di sentimenti; essa ha tuttavia il ruolo positivo di dar voce all’ispirazione e di arricchire l’orizzonte della vita umana. Compito fondamentale della filosofia è quello di chiarire le proposizioni del linguaggio, in particolare del linguaggio scientifico, e di analizzare i problemi posti da esso per vedere se tali proposizioni abbiano senso oppure no. Nell’articolo ” La svolta della filosofia “, pubblicato sulla rivista “Erkenntnis” nel 1930, Schlick chiarisce apertamente quali sono le relazioni fra filosofia e scienza . La filosofia non è scienza, ma è l’attività con cui si chiarisce il senso degli enunciati: essa non è in grado di decidere se qualcosa sia reale o no, ma può solamente stabilire quale sia il significato dell’affermazione che tale cosa è o no reale. Che essa sia o no reale può essere deciso solamente dall’esperienza, che è il metodo consueto a cui si fa appello sia nella vita quotidiana sia nella scienza. Le circostanze empiriche, dice Schlick, sono rilevanti per sapere se una proposizione è vera, e ciò interessa allo scienziato, mentre non sono rilevanti per il significato di tale proposizione, che invece interessa al filosofo. E’ la scienza, dunque, che è in grado di verificare le proposizioni, ovvero di accertare la loro verità o falsità in base a dati di fatto: infatti, asserisce Schlick, ” la gioia di conoscere è la gioia della verificazione, l’entusiasmo di aver colto nel segno “. Ma se non sappiamo come procedere alla verificazione di una proposizione, ciò è segno del fatto che non sappiamo che cosa significhi tale proposizione. In alcuni saggi successivi, Schlick chiarisce che il criterio del significato è da ravvisare nella “verificabilità”, la quale non va confusa con la “verificazione di fatto”, né con una singola verificazione: essa consiste piuttosto nel rinvio ad esperienze possibili, in virtù delle quali la proposizione può risultare vera o falsa. Così, ad esempio, la proposizione “esistono montagne sull’altra faccia della luna” è verificabile, anche se di fatto all’epoca di Schlick non è verificata. Schlick respinge, pertanto, ogni concezione della verità come semplice coerenza interna tra le proposizioni di una teoria scientifica, qual era sostenuta da Neurath, in quanto la scienza è uno strumento per orientarsi tra i fatti. Nel saggio ” Significato e verificazione “, pubblicato nel 1936 sulla rivista statunitense “The Philosophical Review”, egli identifica l’esperienza con la possibilità di verificazione e definisce oggetto di esperimentazione possibile qualsiasi cosa non contraddica le leggi di natura . Così, ad esempio, la proposizione “i fiumi scorrono verso l’alto” ha un senso, in quanto è conforme alla grammatica ed è logicamente possibile, ma è falsa perché è fisicamente impossibile, cioè contrastata con le leggi di natura. Per “legge di natura”, Schlick intende ” una formula che ci consente di prevedere gli eventi “. La teoria dei quanti limita, a suo avviso, le possibilità di previsione, nel senso che restringe l’ambito di applicazione del principio della causalità e impone l’uso del calcolo della probabilità, ma la considerazione probabilistica non significa una rinuncia a conoscere: essa è invece il metodo adeguato per descrivere tutto ciò che si può dire del mondo. Le leggi di natura non sono dunque oggetto di una conoscenza assolutamente certa, ma in linea di principio, secondo Schlick, nulla nel mondo è inconoscibile. Certo esistono domande per le quali è logicamente impossibile trovare una risposta, ma ciò è segno che non si è propriamente formulata una domanda e si sono soltanto combinate parole senza senso, che originano pseudo-problemi, mentre nessun problema che abbia significato è in teoria insolubile.
QUINE
Empirismo, pragmatismo e comportamentismo, connessi ad una grande padronanza degli strumenti della logica formale, rientrano nell’opera del forse più grande filosofo statunitense del ‘900, Willard van Orman Quine. Nato nel 1908 ad Akron, nell’Ohio, Quine studiò logica e filosofia ad Harvard; nel 1933-1934 entrò in contatto, in Europa, con parecchi positivisti logici, specialmente con Carnap, ed insegnò poi all’università di Harvard. Fu autore di numerose opere, tra le quali vanno ricordate Metodi della logica (1950) , la raccolta di saggi Da un punto di vista logico (1953) , Parola e oggetto (1960) , I modi del paradosso e altri saggi (1966), Relatività ontologica e altri saggi (1969), Filosofia della logica (1970), Le radici del riferimento (1974). La maggior parte delle prime pubblicazioni di Quine hanno riguardato la logica formale. Successivamente egli ha gradualmente spostato i suoi interessi verso questioni di ontologia, epistemologia e linguaggio; dagli anni 1960 sostanzialmente egli ha sviluppato un suo progetto di “epistemologia naturalizzata” avente lo scopo di dare risposte a tutte le questioni sostanziali della conoscenza e del significato utilizzando metodi e strumenti delle scienze naturali. Quine ha decisamente rifiutato la visione secondo la quale c’è una “prima filosofia”, costituente un punto di vista teoretico in qualche modo precedente la scienza e capace di giustificarla. Entrambi queste prese di posizione generali fanno parte del naturalismo filosofico di Quine. Negli anni 1920 e 1930, le discussioni con Carnap, Nelson Goodman, Alfred Tarski e altri hanno condotto Quine a dubitare della tenuta della distinzione, fondamentale per il positivismo logico, fra “enunciati analitici” — quelli veri o falsi semplicemente in relazione ai significati dei termini che li compongono come Tutti gli scapoli non sono ammogliati — ed “enunciati sintetici”, veri o falsi in relazione ai fatti del mondo come “C’è un gatto sullo zerbino.” Un enunciato è analitico quando è vero solo grazie al significato dei suoi termini, senza riferimento ai fatti del mondo. Questa definizione dipende però dalla definizione della nozione di significato. Difatti, dice Quine, se comprendessimo a che cosa “il significato di T” fa riferimento, capiremmo anche cosa significa dire che i due termini T1 e T2 sono sinonimi: vorrebbe dire che i loro significati sono identici. Ad esempio la proposizione Tutti gli uomini non ammogliati sono scapoli è considerata analitica perché si intende che il significato di “scapolo” ed il significato di “non sposato” siano identici. Se cosi fosse, potremmo dire che una proposizione è analitica se può essere trasformato in una verità logica rimpiazzando sinonimo con sinonimo. Quindi Tutti gli uomini non ammogliati sono scapoli si trasformerebbe in Tutti gli uomini scapoli sono scapoli, che è una verità logica. Ma qui risiede il problema. Secondo Quine è la nozione di significato che va attaccata nella sua definizione classica. Egli rifiuta infatti il mentalismo che vuole che i significati siano determinati nella mente prima e oltre a ciò che è implicito nelle disposizioni al comportamento. In altre parole, secondo Quine, non si può fare riferimento al significato di una proposizione senza fare riferimento ai fatti del mondo. In essenza, per Quine le proposizioni analitiche e sintetiche non possono essere distinte –- e la distinzione deve essere dissolta. Il libro Word and Object (1960) riassume molto del precedente lavoro di Quine al di fuori della logica formale. Quine esamina i metodi che sarebbero disponibili a un “linguista sul campo” che cercasse di tradurre un linguaggio a lui prima sconosciuto. Egli osserva che ci sono molti modi per suddividere una frase in parole e diversi modi per distribuire funzioni tra le parole. Ogni ipotesi di traduzione potrebbe essere difesa solo ricorrendo al contesto: osservare quali altre sentenze un parlante nativo pronuncerebbe. Ma una analoga indeterminatezza comparirebbe ancora: ogni ipotesi di traduzione può essere difesa se si adottano abbastanza ipotesi compensatorie riguardanti altre parti del linguaggio. L’esempio proposto da Quine in proposito, ora divenuto leggendario riguarda la parola “gavagai” pronunciata da un nativo in presenza di un coniglio. Il linguista potrebbe tradurla con “coniglio”, o con “Guarda, un coniglio”, o “mosca del coniglio” (nome di un supposto genere di insetto che non abbandona i conigli), oppure “cibo” oppure “Andiamo a caccia”, o “Stanotte ci sarà una tempesta” (se i nativi hanno particolari credenze sui collegamenti conigli-tempeste), o anche “momentaneo stadio del coniglio”, “sezione temporale di una estensione tetradimensionale spazio-temporale di un coniglio”, “massa di coniglità”, o “parte di coniglio non individuata”. Alcune di queste ipotesi alla luce di ulteriori osservazioni possono diventare meno probabili — cioè ipotesi meno maneggevoli. Altre possono essere scartate solo ponendo ai nativi delle domande. Una risposta affermativa a “È questo lo stesso gavagai di quello precedente?” farà scartare “momentaneo stadio del coniglio”, e così via. Ma queste domande possono essere poste solo dopo che il linguista ha imparato a padroneggiare una buona dose della grammatica e del vocabolario astratto dei nativi; questo a sua volta può essere fatto sulla base di ipotesi derivate da più semplici frammenti di linguaggio collegate a osservazioni; e quelle sentenze, per parte loro, consentono interpretazioni multiple, come abbiamo constatato. Non c’è modo di sfuggire a questa circolarità. Infatti, essa interviene in forma analoga anche nella interpretazione di discorsi pronunciati nella lingua del linguista e anche nell’interpretazione delle proprie espressioni. Questa considerazione, contrariamente a una diffusa interpretazione meramente caricaturale di Quine, non porta allo scetticismo sul significato — o questo significato è nascosto e inconoscibile, oppure queste parole sono prive di significato. Quine giunge a concludere che c’è e ci può essere non più significato di quello che potrebbe essere imparato da un comportamento di un parlante. In realtà non c’è proprio alcuna necessità di sostenere tali entità come “significati”, in quanto la nozione di uguaglianza di significato non può ottenere alcuna spiegazione utilizzabile, ma dire che non ci sono “significati” non equivale a dire che le parole non significano. Di conseguenza a proposito di una traduzione da un linguaggio all’altro non si possono porre dilemmi di “giusto” o “sbagliato”. Ci sono solo questioni di “meglio” e “peggio”. E la scelta fra questi attributi non pone questioni di “accuratezza” come quella che sarebbe ordinariamente costruita: le teorie della traduzione sono migliori o peggiori, in relazione al migliore o peggiore successo con il quale predicono successivi enunciati e traducono secondo un più o meno semplice schema di regole. La tesi centrale che sta alla base della indeterminatezza della traduzione e di altri sviluppi dell’opera di Quine è costituita dalla relatività ontologica e dalla teoria correlata dell’olismo della conferma. La premessa dell’olismo della conferma è che tutte le teorie di quello che esiste (e le affermazioni derivate nel loro ambito) non sono sufficientemente determinate dai dati empirici (dati, dati sensoriali, evidenza); ogni teoria con la sua interpretazione dell’evidenza è ugualmente giustificabile. Così la Weltanschauung degli dei omerici secondo gli antichi greci è credibile quanto le onde elettromagnetiche del mondo dei fisici. Per quanto riguarda la sua personale credenza, Quine chiarisce alla fine dei Two Dogmas of Empiricism: « In quanto empirista io continuo a pensare lo schema concettuale della scienza, in definitiva, come uno strumento che serve a prevedere le future esperienze alla luce dell’esperienza passata. Gli oggetti fisici sono concettualmente importati nella situazione come convenienti intermediari non per definizione in termini di esperienza, ma semplicemente come presupposti irriducibili che possono essere confrontati, sul piano epistemologico, agli dei di Omero. … Da parte mia, in quanto fisico laico, io credo negli oggetti fisici e non negli dei di Omero; e considero un errore scientifico pensarla diversamente. Ma nel momento di stabilire un fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei differiscono solo per il loro grado e non per il loro genere. Entrambi i tipi di entità entrano nelle nostre concezioni solo come presupposti culturali. » Il relativismo ontologico di Quine lo conduce a concordare con Pierre Duhem quando ritiene che per ogni collezione di evidenza empirica ci sarebbero sempre molte teorie in grado di renderne conto, di inquadrarla. Quindi non è possibile verificare o falsificare una teoria semplicemente confrontandola con l’evidenza empirica; la teoria può sempre essere salvata con qualche modifica. Per Quine il pensiero scientifico ha formato una rete coerente nella quale ogni parte potrebbe essere alterata alla luce dell’evidenza empirica e nella quale nessuna evidenza empirica potrebbe costringere alla revisione di una parte. L’opera di Quine ha contribuito a una larga accettazione dello strumentalismo nella filosofia della scienza.
NICOLA ABBAGNANO
A cura di DIEGO FUSARO e dello SWIF
VITA E OPERE
Nicola Abbagnano nacque a Salerno il 15 luglio 1901, primogenito di una famiglia della borghesia intellettuale di quella città (il padre era avvocato). Studiò a Napoli, laureandosi in filosofia nel novembre 1922, sotto la guida di Antonio Aliotta, con una tesi che diede origine al suo primo libro, Le sorgenti irrazionali del pensiero (1923). Negli anni successivi insegnò filosofia e storia al Liceo Umberto I di Napoli, e dal 1927 al ’36 tenne l’incarico di Pedagogia e di Filosofia presso l’Istituto di Magistero “Suor Orsola Benincasa”; nello stesso periodo collaborò attivamente alla rivista “Logos”, diretta dal suo maestro Aliotta, della quale fu anche segretario di redazione. Dal 1936 al 1976 fu professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Torino, dapprima nella Facoltà di Magistero e poi, a partire dal ’39, nella Facoltà di Lettere e filosofia. Nell’immediato dopoguerra fu tra i fondatori del Centro di Studi metodologici di Torino. Nel 1950 fondò, insieme a Franco Ferrarotti, i “Quaderni di sociologia”; e dal 1952 fu condirettore, a fianco di Norberto Bobbio, della “Rivista di filosofia”. Tra il 1952 e il 1960 fu l’ispiratore del gruppo “neolluministico”, organizzando una serie di convegni a cui parteciparono gli studiosi di filosofia impegnati nella costruzione di una filosofia “laica”, aperta ai principali orientamenti del pensiero filosofico straniero. Nel 1964 iniziò la collaborazione a “La Stampa”. Nel 1972 si trasferì a Milano, dove – lasciato il giornale torinese – cominciò a collaborare al “Giornale” di Montanelli, e dove ricoprì la carica di consigliere comunale, eletto nelle liste del Partito liberale, e di assessore alla Cultura. Morì il 9 settembre 1990. E’ sepolto nel cimitero di Santa Margherita Ligure, dove da molti anni trascorreva le sue vacanze. La produzione teorica di Abbagnano durante il periodo napoletano – rappresentata, oltre che da Le sorgenti irrazionali del pensiero, da tre volumi dedicati rispettivamente a Il problema dell’arte (1925), a La fisica nuova (1934) e infine a Il problema della metafisica (1936) – si colloca sotto il duplice segno dell’insegnamento di Aliotta, dal quale derivò l’interesse per i problemi metodologici della scienza, e della polemica anti-idealistica, particolarmente evidente nel volume sull’arte. Trasferitosi a Torino, Abbagnano si rivolse allo studio dell’esistenzialismo, verso cui la cultura filosofica italiana stava ormai rivolgendo la sua attenzione, e di cui egli elaborò una versione originale in un libro che ebbe larga risonanza, La struttura dell’esistenza (1939); ad esso fecero seguito l’Introduzione all’esistenzialismo (1942) e i saggi raccolti in Filosofia religione scienza (1947) e in Esistenzialismo positivo (1948). Nel 1943 ebbe un ruolo di primo piano nel dibattito sull’esistenzialismo che si svolse su “Primato”, la rivista della fronda fascista che faceva capo a Bottai. Ma già negli anni immediatamente successivi alla guerra l’interesse di Abbagnano si rivolse al pragmatismo americano, soprattutto nella versione che ne aveva dato John Dewey, e alla filosofia della scienza, in particolare al neopositivismo. Nell’esistenzialismo, svincolato dalle implicazioni negative che egli scorgeva sia in Heidegger e in Jaspers, sia in Sartre, nel pragmatismo deweyano e nel neopositivismo Abbagnano vedeva le manifestazioni di un nuovo clima filosofico che egli contrassegnò, in un articolo del ’48, come un “nuovo illuminismo”. E lo sviluppo del suo pensiero negli anni Cinquanta è stato caratterizzato appunto per un verso dall’interesse per la scienza e, in particolare, per la sociologia, per l’altro verso dal tentativo di definire le linee programmatiche di una filosofia neoilluministica o, com’egli ebbe a chiamarla più tardi, di un “empirismo metodologico”. Risalgono a questo periodo i saggi raccolti in Possibilità e libertà (1956) e nei Problemi di sociologia (1959), ma soprattutto il Dizionario di filosofia (1961), una vera e propria summa dedicata alla chiarificazione dei principali concetti filosofici. Accanto ai volumi e ai saggi di carattere teorico Abbagnano ha pubblicato, fin da giovane, numerose monografie storiche: Il nuovo idealismo inglese e americano (1927), La filosofia di E. Meyerson e la logica dell’identità (1929), Guglielmo d’Ockham (1931), La nozione del tempo secondo Aristotele (1933), Bernardino Telesio (1941). Ma la sua impresa storiografica di maggior mole è rappresentata dalla grande Storia della filosofia edita dalla U.T.E.T. (1946-50), preceduta da un Compendio di storia della filosofia di carattere scolastico (1945-47). Ad essa avrebbe fatto seguito, pochi anni dopo, un’opera collettiva dedicata alla Storia delle scienze da lui coordinata, anch’essa apparsa presso la U.T.E.T. (1962). La produzione degli ultimi decenni, a partire dalla metà degli anni Sessanta, è in larga misura costituita da articoli apparsi su “La Stampa” o sul “Giornale”, poi confluiti in varie raccolte: Per o contro l’uomo (1968), Fra il tutto e il nulla (1973), Questa pazza filosofia (1979), L’uomo progetto Duemila (1980), La saggezza della vita (1985), La saggezza della filosofia (1987). L’ultimo libro, apparso pochi mesi prima della morte, è di carattere autobiografico, e reca il titolo Ricordi di un filosofo (1990).IL PENSIERO
La prima formulazione originale del pensiero di Abbagnano (dopo i tentativi giovanili di contrapporsi all’idealismo crociano e gentiliano attraverso la rivendicazione delle “sorgenti irrazionali del pensiero” o la rivalutazione dell’importanza filosofica del sapere scientifico) è strettamente legata all’introduzione della filosofia dell’esistenza nella cultura filosofica italiana, quale viene delineandosi nel corso degli anni Trenta soprattutto tra Torino e Milano, e alla discussione che su di essa si sviluppò prima e durante la guerra. Nel 1939 Abbagnano pubblicava La struttura dell’esistenza, un libro che – com’ebbe a scrivere quasi trent’anni dopo Norberto Bobbio – “non assomigliava a nessuna delle opere filosofiche che si erano andate scrivendo in quegli anni, anche nella forma, che era scabra, lineare, senza i soliti impeti oratori e le solite virtuosità dialettiche”, un libro “non facile” ma che “proprio perchè era scritto con rigore, guidato e sorretto da una rara disciplina mentale, si lasciava capire”. Per Abbagnano la filosofia è, come per Heidegger e anche per Jaspers, ricerca dell’essere, e questa ricerca avviene interrogando l’uomo, che è definito nella sua esistenza proprio dalla possibilità di porsi il problema dell’essere, cioè dallo “sforzo verso l’essere”. Abbagnano distingueva però nettamente la propria posizione filosofica da quella dei due maggiori esponenti tedeschi della filosofia dell’esistenza, e soprattutto prendeva le distanze dall’esito negativo a cui gli sembrava che entrambi approdassero. Secondo Abbagnano, Heidegger considera lo sforzo verso l’essere “rispetto al suo punto di partenza”, cioè rispetto alla situazione iniziale, cosicchè‚ “l’esistenza appare come un esistere dal niente”, e il niente diventa perciò “il termine che consente di definire l’esistenza e di stabilirla nella sua natura autentica”. Jaspers, invece, considera lo sforzo verso l’essere “rispetto alla sua situazione finale”, concependo l’essere “al di sopra dello sforzo che muove verso di esso” e cioè come trascendenza, inattingibile dalla ricerca. La conclusione è che la ricerca dell’essere diventa per Heidegger “esistere per il niente”, e per Jaspers “realizzazione della propria impossibilità” – vale a dire diventa nel primo caso “angoscia”, nel secondo “scacco”. Abbagnano respingeva così da un lato l’identificazione heideggeriana dell’esistenza autentica con il “vivere per la morte”, dall’altro la concezione jaspersiana di un essere inattingibile da parte dell’uomo, verso il quale la filosofia tende senza mai riuscire a raggiungerlo e, tanto meno, a oggettivarlo. All’esistenzialismo di Heidegger e di Jaspers egli contrapponeva un’impostazione per la quale “la situazione finale dello sforzo verso l’essere realizza la propria essenziale unità con la situazione finale”, e per caratterizzare questa unità faceva ricorso alla nozione di struttura qual era stata enunciata da Dilthey. L’esistenza ha una propria struttura, ma questa non è data all’uomo; essa si presenta invece come una possibilità da realizzare. L’esistenza si costituisce infatti come possibilità, e trova il suo fondamento nella possibilità della possibilità, cioè nella possibilità trascendentale. Abbagnano proponeva perciò – in polemica con Heidegger e con Jaspers, ma più tardi anche con il Sartre de L’être et le néant – un esistenzialismo “positivo”, rivolto a sottolineare la problematicità dell’esistenza e l’impegno dell’uomo. In questo contesto assumono un rilievo centrale la nozione di libertà e, strettamente collegata con essa, quella di scelta. L’uomo è definito, secondo Abbagnano, dalla possibilità di scegliere tra le possibilità che gli sono date, di realizzarne alcune e non altre – e in ciò consiste appunto la possibilità trascendentale. L’uomo può scegliere tra esistenza autentica ed esistenza inautentica, tra la fedeltà al proprio essere e la dispersione della quotidianità. La possibilità di scelta che Abbagnano gli attribuisce acquistava così un significato normativo, che Heidegger aveva invece escluso: “la norma è il dover essere della libertà come trascendenza”, un dover essere che coincide con il dovere di pervenire alla realizzazione della propria struttura. Contro l’idealismo, contro la dissoluzione dell’individuo nel processo di realizzazione dello spirito infinito (Croce) o nell’atto puro del pensiero (Gentile), Abbagnano rivendicava perciò la finitezza dell’uomo, la sua temporalità, la sua libertà di scegliere tra le possibilità offerte dalla situazione in cui si trova, il valore morale di questa scelta. Negli scritti immediatamente successivi a La struttura dell’esistenza, cioè nell’Introduzione all’esistenzialismo e nei saggi di Filosofia religione scienza e di Esistenzialismo positivo, egli perveniva al riconoscimento del fondamentale carattere problematico non soltanto dell’esistenza dell’uomo, ma di ogni realtà: la filosofia stessa è, per lui, “un sapere o una ragione problematica”. La ragione “finita”, consapevole della finitezza dell’uomo e del suo rapporto con un mondo anch’esso problematico, veniva così contrapposta alla ragione “giustificatrice” di stampo hegeliano. Su questa base Abbagnano definiva il rapporto della filosofia da un lato con la religione, dall’altro con la scienza. La filosofia addita all’uomo la via della ricerca, la religione quella della credenza. In quanto al rapporto con la scienza, esso è determinato dal fatto che la filosofia non è conoscenza, non può cioè pretendere di offrire ai risultati del sapere un’integrazione metafisica: la scienza esaurisce l’ambito di ciò che può essere conosciuto, e la filosofia non ha una via di accesso al mondo diversa dal sapere scientifico. Essa è invece un “compito” che si pone all’uomo in virtù della sua stessa esistenza. Questa definizione della filosofia e del suo rapporto con la scienza costituisce il punto di partenza della fase “neo-illuministica” del pensiero di Abbagnano, inaugurata dalla partecipazione – insieme con Bobbio e con Ludovico Geymonat, ma anche con matematici, fisici, ingegneri – ai dibattiti del Centro di Studi metodologici. Fin dal 1934 Abbagnano aveva dedicato un volume a La fisica nuova, prendendo in esame la teoria della relatività, la teoria dei quanti e il principio di indeterminazione di Heisenberg, e cercando di porne in luce il significato filosofico. Dopo il ’45, mentre andava maturando il distacco dall’esistenzialismo, l’interesse per la scienza ritornava a essere centrale nel suo pensiero. Contro le interpretazioni pragmatistiche o convenzionalistiche della scienza Abbagnano ne affermava il valore conoscitivo, anzi il carattere di conoscenza valida. Soltanto la scienza consente di “ordinare” e quindi di conoscere il mondo; la filosofia non costituisce una forma di conoscenza diversa o alternativa alla scienza, ma è piuttosto riflessione su di essa, è cioè indagine gnoseologica o epistemologica. Nello stesso tempo Abbagnano proponeva un’interpretazione del sapere scientifico rivolta a sottrarlo al determinismo della scienza ottocentesca, e in particolare alla categoria di necessità, che il positivismo classico ha avuto in comune con le metafisiche romantiche. Su questo terreno egli poteva rifarsi alla nozione di possibilità, quale egli l’aveva formulata nella stagione esistenzialistica. Se la scienza ottocentesca ha inseguito l’ideale di una concatenazione causale dei fatti, esprimibile in un sistema di leggi necessarie, la scienza contemporanea va invece in cerca di rapporti di condizionamento. Ciò vale non soltanto per la fisica, a partire dalla teoria della relatività e dal principio di indeterminazione, ma anche e soprattutto per le scienze sociali. E proprio sul terreno della sociologia – una disciplina verso la quale la cultura idealistica aveva proclamato l’ostracismo, considerandola una “falsa scienza” – Abbagnano dava un contributo importante, che si richiamava, del resto, al riconoscimento della socialità come dimensione fondamentale dell’esistenza umana. All’uomo è essenziale il rapporto con gli altri, e quindi la possibilità di comunicazione: spetta alla sociologia porre in luce le dimensioni concrete che questa possibilità assume, muovendo dalla sua struttura portante che Abbagnano individuava nell’atteggiamento. La fase “neoilluministica” del pensiero di Abbagnano si apre nel 1948, con l’articolo Verso un nuovo illuminismo, che nel pragmatismo deweyano e nel neopositivismo riscontrava un’ispirazione comune all’idealismo positivo, consistente nel considerare la ragione “ciò che essa è, una forza umana diretta a rendere più umano il mondo”. Da ciò il programma di una trasformazione razionale della realtà, in nome di una ragione “limitata” ma non per questo imponente, che si affiancava a una concezione “metodologica” della filosofia. Questa fase si concludeva nel 1961 con la pubblicazione del Dizionario di filosofia. Dopo di allora Abbagnano venne sempre più ponendo l’accento sui problemi dell’esistenza quotidiana e su una concezione della filosofia come “saggezza”, di chiara ascendenza platonica (e non a caso Platone fu, tra i filosofi del passato, l’autore da lui prediletto). Di fronte al fallimento del neo-illuminismo, in un clima culturale che aveva visto il successo di un marxismo proteso a raccogliere l’eredità dell’idealismo, il pensiero di Abbagnano si rivolgeva alla gente comune, assumendo uno stile sempre più “popolareggiante”. Se “la filosofia non consola” – come suonava il titolo di un saggio di un suo allievo morto giovanissimo – essa può almeno aiutare nelle scelte che ognuno deve compiere nella vita di ogni giorno, presentando le possibilità alternative che gli si prospettano: un compito estraneo alle scienze, a cui il sapere scientifico dà tuttavia un contributo indiretto, ma non perciò meno essenziale, attraverso la conoscenza del mondo e della stessa condizione umana.
GIUSEPPE RENSI
A cura di Tiziana Giuffrè
Giuseppe Rensi nacque a Villafranca di Verona nel 1871 e morì a Genova (città in cui tenne la cattedra di filosofia morale) nel 1941. Giovane avvocato socialista, fu costretto a riparare in Svizzera in seguito ai disordini del 1898.
La “filosofia dell’assurdo” elaborata da Rensi rappresenta un momento particolarmente significativo del pensiero italiano nel Novecento e degno di essere analizzato dal punto di vista sia teoretico che etico. Infatti essa si pone non solo come esempio di una riflessione originale, che è il frutto dello spirito con cui il Rensi ha interpretato preesistenti correnti di pensiero come il realismo e lo scetticismo, ma anche come momento di rottura nei confronti della tradizione filosofica dominante e come espressione di un tormento esistenziale che non si acquieta né con l’ottimismo filosofico, né con la dittatura di regime. Il dramma vissuto dal Rensi coincide con quello che vivono tutti coloro nei quali domina per qualche tempo una fede altissima e assoluta, che fa, poi, posto al dubbio più tetro. Nei quarant’anni di attività svolta in qualità di scrittore filosofico e polemista, egli ha tentato di approfondire i fondamenti primi del conoscere e dell’agire umano, sfidando i più consolidati ermeneuti e storiografi senza scoraggiarsi di essere fuori corrente. La sua ambizione è stata quella di sviluppare un pensiero che rimanesse pur sempre legato al vissuto, ma non più nel tentativo di ricomporne i frammenti secondo le classiche prevaricazioni sistematiche, bensì nell’intento di accettarne e riprodurne l’instabile morfologia. Fu questa la via che lo condusse allo scetticismo inteso come «filosofia della vita» e come «filosofia dell’epoca». Tutto ciò serve a spiegare il carattere altamente problematico del suo approccio alla tradizione filosofica. Essendosi volto con grande fervore all’analisi della filosofia hegeliana, questa gli rivelò contraddizioni e antinomie tali da insinuare in lui un dubbio, che non era quello metodico e sereno di Cartesio, ma, invece, il segno di uno scetticismo tragico e disperato, tale da non poter essere colmato da nessuna certezza duratura. Ma anche il realismo non è esente da contraddizioni. Esso, infatti, afferma che le cose esistono da sé, spazializzate, temporalizzate, categorialmente concatenate, avendo in sé le forme proprie della conoscibilità, le quali sono anche forme del loro Essere, del loro essere cose: esse sono, perciò, del tutto conoscibili. Di fatto, invece, esse si sottraggono per grandissima parte alla conoscenza; sono ciascuna un infinito, di cui noi, in un processo senza fine, scopriamo sempre nuove proprietà, così che quelle ancora da scoprire prevalgono infinitamente su quelle già scoperte. Emerge, dunque, il dramma dell’incomprensibilità della natura e della realtà da parte dell’uomo, in quanto ciò che è irrazionale è reale e ciò che è razionale è irreale e questo è anche il dramma dell’uomo che non ha legge interiore stabile e assoluta ed è perciò incapace di responsabilizzarsi. Se la filosofia ha una storia, sostiene il Rensi, ciò basta a mostrare che gli uomini non hanno mai conosciuto la verità, in quanto dire che la filosofia ha una storia equivale a dire che un sistema non offre mai una visione compiuta della verità e che nuovi sistemi intervengono, se non sempre a negare, a criticare quelle verità che li hanno preceduti. Il pensiero di Rensi finisce, cosí, col muoversi con un ritmo paradossale, attraverso, cioè, la pura negazione e la pura affermazione: negazione della ragione, affermazione della volontà. All’interno della volontà deve emergere la libertà, intesa come causalità. La libertà è imparentata con l’idea dell’essere, la quale è la base esplicita e diretta del conoscere: entrambe – idea dell’essere e libertà – sono come due facce di un’unica medaglia. La ragione – o la conoscenza – ha bisogno dell’intervento della libertà per la propria esplicazione; mentre la libertà, quando si è pienamente realizzata, è totalmente autonoma, e contiene in sé anche il conoscere: ciò avviene nell’amore. Infatti, l’uomo che ama – o che conosce – non è altro che l’essere umano pienamente realizzato. L’uomo è essenzialmente libertà; e quest’ultima altro non è che amore. E l’amore è pienamente autonomo, anzi è la stessa autonomia: l’amore ha in sé le sue ragioni e il conoscere La filosofia del Rensi si può suddividere in tre periodi ben distinti tra di loro, secondo l’indicazione che lui stesso tracciò nell’ “Autobiografia intellettuale” (1939): nel primo domina il misticismo idealistico; nel secondo lo scetticismo e il realismo; nel terzo il misticismo spiritualistico. Durante il primo periodo, che dura fino alla vigilia della prima guerra mondiale, Rensi tenta la fondazione di un misticismo venato di religiosità, che si rifà a Platone, San Paolo e Malebranche. Ne costituiscono un valido documento i volumi: “Le Antinomie dello spirito”; “Sic et Non: metafisica e poesia”; “Il genio etico e altri saggi”; “La trascendenza: studio sul problema morale”. Successivamente, l’urto delle ragioni espresso dalla violenza del conflitto europeo e mondiale portò il Rensi alla negazione della razionalità del reale: se gli uomini fanno ricorso alla violenza, ciò vuol dire che la ragione non esiste, ma che esistono solo le ragioni, in un mondo caotico e irrazionale che è pluriverso e non universo. Egli approfondì, perciò, la sua riflessione sull’irrazionalità del reale, che risulta centrale in tutta una serie di opere quali: “I lineamenti di filosofia scettica”; “La filosofia dell’autorità”; “La scepsi estetica”; “Introduzione alla scepsi etica”; “Apologia dell’ateismo”; ”Le aporie della religione”; e, infine, “Critica della morale”. Proprio nel corso di tale approfondimento il Rensi associa lo scetticismo all’irrazionalismo e si accosta al positivismo e al materialismo in funzione polemica nei confronti dell’idealismo del Croce e del Gentile. Siamo, cosí, nel pieno del secondo periodo al quale appartengono opere come: “Polemiche antidogmatiche”; ”Interiora rerum”; “Realismo”; “Spinosa”; “Le aporie della religione”; “Raffigurazioni Schizzi d’uomini e di dottrine”; “Le ragioni dell’irrazionalismo”; “Motivi spirituali platonici”; “Il materialismo critico”; “Vite parallele di filosofi: Platone e Cicerone; Ardigò e Gorgia”. Infine, nell’ultimo periodo prevale una forma di misticismo che non sorge, però, improvvisamente, essendo già chiaramente presente nelle opere maggiormente influenzate dallo scetticismo. Quest’ultimo fu, infatti, sempre sollecitato da un’innata, profonda religiosità, sicché non stupisce che il filosofo si apra alla voce del divino, poiché egli cerca nella negazione assoluta un criterio positivo che consenta la negazione stessa. Questo criterio, che ad alcuni critici è parso assimilabile al “Dio cristiano”, il Rensi lo definisce, piú semplicemente, come “il divino in me”. Appartengono a quest’ultimo periodo: ”Apologia dello scetticismo”; “Lo scetticismo”; “Schegge”; “Cicute”; “Impronte”; “Passato, presente e futuro”; “Sguardi”; “Frammenti d’una filosofia del dolore e dell’errore, del male e della morte”; “Paradossi di estetica e dialoghi dei morti”; “Poemetti in prosa e in verso”; “Testamento filosofico”; “La morale come pazzia”; “Lettere spirituali”; “Sale della vita”. Il realismo da una parte e lo scetticismo (politico, giuridico, etico ed estetico) dall’altra, non sono considerati dal Rensi contrastanti, contraddittori e inconciliabili tra loro. Per il realista esiste una realtà oggettivamente costituita fuori della coscienza del soggetto percipiente ed essa ha una sua struttura ordinata, è, cioè, costituita da «cose categorialmente concatenate tra di loro, che si rivestono da sé degli elementi categoriali, si unificano o si sintetizzano a mondo a sé» Per lo scettico la verità altro non è che la non verità, perché lo scetticismo si riduce alla negazione della razionalità del reale e della deducibilità di esso dalla ragione, cioé alla negazione del razionalismo e dell’idealismo. Lo scetticismo, infatti, nega che il mondo, il reale, i fatti abbiano una ragione, siano una ragione e che questa possa approdare al reale medesimo. Esso non si è mai sognato di negare la verità dei fatti, ma ha negato che questi siano deducibili dalla ragione pura, che vi sia una formula di ragione iniziale dalla quale tutti gli eventi si ricavano. Lo scetticismo nega l’esistenza di una verità assoluta: il reale è; è per questa non ragione che è; è senza essere deducibile dalla ragione; è e non è ragione Il reale non ha ragione, solo l’uomo possiede la ragione, intesa non come ragione pura ed assoluta, ma come potere di ragionare. L’uomo pretende che tutto l’essere abbia un perchè, che il suo bisogno di razionalizzazione e di spiegabilità diventi una proprietà di tutto l’essere. Ma per lo scetticismo c’è la verità intesa come certezza dei fatti, non la deducibilità di essi dalla ragione; ci sono i fatti e non la ragione dei fatti. Questi ultimi hanno verità nel senso di certezza; ma non c’è verità nel senso di ragione di essi. La verità non è afferrabile in quanto non c’è: l’inesistenza della verità vuol dire l’inesistenza dell’Essere. Essere è, perciò, una parola con la quale noi definiamo un certo fatto; ma un fatto d’altra natura non sarebbe più quello che noi chiamiamo Essere. Sarebbe la sua negazione, il non-Essere, il Nulla. L’Essere è un’idea o una determinazione nostra; è solo ciò che è tale per noi, ma nulla di assoluto; è solo ciò che è suscettibile di cadere nella percezione, cioè di essere visto e toccato, ciò che è spaziale- temporale, vale a dire ciò che è fenomenico. L’uomo, in quanto coscienza, possiede delle forme a priori che sono forme del reale; l’uomo stesso è un frammento del reale diventato cosciente. L’uomo intuisce a priori le forme come necessarie a cogliere la realtà, nonostante non abbia sperimentato tutta la realtà. Infatti egli sa a priori che tutto quello che si presenterà alla sua coscienza si presenterà nelle forme dello spazio e del tempo: ogni cosa, per essere entità manifesta, rivelabile, conoscibile, deve apparire nello spazio e nel tempo. La Ragione metafisica sostiene che il vero Essere Assoluto debba essere inspaziale e intemporale, che esista e permanga solo nel pensiero stesso. Ciò che non permane ma passa, ossia diviene, non è. Il divenire, infatti, è l’antitesi e la negazione dell’Essere, ma quest’ultimo è solo ciò che è spaziale- temporale- categoriale, fatto, cosa, fenomeno. Solo il Nulla (la morte) è ciò che è sempre uguale a sé, solo esso possiede la permanenza. Ma, essendo quest’ultima la caratteristica dell’Essere, solo il Nulla è il vero Essere e solo in esso si realizza il carattere dell’Essere vero, permanente e assoluto che si andava cercando. Scetticismo e realismo, perciò, sono tra loro complementari: infatti «solo se l’Essere e il Pensiero sono distinti e il secondo si trova dinanzi il primo come alcunché di diverso da sé che deve faticosamente penetrare a poco a poco, senza riuscirci mai del tutto, solo in questo caso, cioè nell’ipotesi del realismo, lo scetticismo è concepibile; non lo è più nell’ipotesi dell’idealismo, il quale identificando Essere e Pensiero rende quello a questo e poiché le cose per esistere hanno bisogno di essere percepite o pensate da un soggetto, esse stesse necessitano delle forme dello spazio, del tempo e delle categorie. Per il Rensi «il soggetto puro non è se non la mera possibilità dell’esperienza o conoscenza, una situazione o stato del mondo o delle cose che sia una possibilità di conoscenza di queste: e tale stato è semplicemente lo stato della loro esistenza, il loro esistere, se “esistere”=”manifestarsi”. Soggetto puro, vuol dire conoscenza potenziale, e perciò ancora cose puramente esistenti, mondo esistente, poiché “cose”=”entità manifeste”, conoscibili, agnoscibilia». «La realtà fenomenica esiste dunque a tutto suo agio da sé, indipendentemente da ogni coscienza o pensiero effettivo, vivente o in atto; esiste di questa sua esistenza assolutamente indipendente dal soggetto effettivo, pur consistendo tale esistenza nella manifestazione di sé, quindi nella conoscibilità, quindi nel riferimento ad un soggetto possibile, futuro che sopravvenga» Un punto nodale del binomio realismo-scetticismo è costituito dal modo in cui Rensi interpreta Spinoza, in quanto egli, da pensatore realista, immanentista e materialista, è interessato a celebrare l’identità spinoziana fra assoluto e finito. Ed infatti, parla dello spinozismo, come di un «perfetto ateismo» che si accompagna ad un «radicale irrazionalismo e un’ampia venatura di scetticismo» Esiste un ordine eterno delle cose, in cui le leggi determinano il prodursi, il perire, l’avvicendarsi delle singole cose; e questa legge eterna che fa sì che ogni cosa si possa produrre: si tratta di ciò che per Spinoza costituisce l’Essere. La Sostanza o l’ Essere costituisce, perciò, il presupposto delle cose; ciò vuol dire che continuano ad esistere un “primo”, che è il fondamento dell’essere, e un “derivato”, che è l’universo dei fenomeni. Anche in Spinoza, Rensi incontra l’assenza della storia. Infatti sottolinea: «Ma se per Spinoza nella realtà dell’Essere, il tempo non c’è, non c’è nemmeno la storia, non c’è evoluzione, l’una e l’altra sono illusioni… Il nascere e il perire, il fiorire e lo sfiorire, la sofferenza e la gioia, il successo e la rovina, la guerra e la pace, la democrazie e le tirannidi, il formarsi e il dissolversi di imperi, sono sempre allo stesso modo presenti in ogni punto del tempo dell’universo considerato come totalità, in quell’ogni punto che è adunque sempre lo stesso punto» L’esperienza del conflitto mondiale rappresentò per il Rensi, a livello teorico, una sorta di illuminazione che saldò gli elementi scettici presenti nella sua riflessione in una critica alla filosofia dell’assoluta libertà, ossia all’idealismo. Il nucleo centrale della filosofia idealistica è lo spirito considerato universale sia nel campo teoretico che in quello pratico. Secondo gli idealisti, infatti, noi predichiamo come bella, o vera, o buona qualche cosa, quando vi siamo costretti dalla potente evidenza di un’intuizione; ma, affinché il bello, il vero, il buono (così riconosciuti) abbiano valore di obiettività, bisognerebbe che a tutti si presentassero con la stessa evidenza, con un identico atto intuitivo. In breve, perché abbia luogo una universalità di diritto, questa deve essere accompagnata da una universalità di fatto: alla universalità razionale deve corrispondere un’universalità empirica. Allo spirito, per essere assoluto e universale, occorrerebbe l’universalità di fatto, ma questa, per gli idealisti non c’é. Ciascuno ha una propria intuizione, una propria evidenza, ed ognuna di esse ha uguale valore ed è degna di universalizzazione: la vita non è che un urto di queste evidenze e, quando l’urto si fa troppo forte, allora si determina la guerra. La guerra mondiale non è altro che un grandioso esempio di tutto ciò ed infatti il Rensi sottolinea come in essa, «tutti noi, popoli combattenti l’un contro l’altro, avevamo ragione. A ciascuno la ragione, proprio la ragione, forniva inesauribili ragioni, a sostegno dei principî da cui partivano, principî opposti e costanti, ma ognuno provveduto di eguale sovrana e incontrollabile legittimità» rispetto all’altro. Le cause intime della guerra non sono state cause occasionali, ma sono, invece, da identificarsi nelle differenti visuali della ragione umana che si sono tradotte in ragioni diverse e inconciliabili. Non si deve parlare, perciò, di universalità della ragione, ma di pluriversalità: non si può parlare di una sola ragione necessaria e assoluta, ma di molte ragioni, aventi ciascuna una propria verità, salde in essa con un attaccamento verso il veritismo. Rensi maturò, cosí, l’idea che «la ragione non è una, ma più antitetiche, e che queste più ed opposte ragioni sono certe sino al sangue e alla morte delle loro ragioni, e ciascuna sente che cedere circa queste sarebbe rinunciare alla ragione, e che di fatto la guerra è l’effetto e la prova» conducendo la sua critica alla filosofia della libertà in maniera analitica in tutti i campi, da quello teoretico a quello estetico, da quello pratico a quello giuridico e politico. I presupposti della filosofia dell’assurdo di Rensi, che può essere considerata la negazione teorica dell’ottimismo storicistico degli idealisti, sono facilmente rintracciabili in quello scetticismo che, come si è sottolineato, caratterizza tutta la sua riflessione filosofica. Non è, quindi, difficile riscontrare elementi di tale filosofia in tutta la produzione del Rensi, ma, poiché egli ha affidato ad un’opera specifica, appunto “La filosofia dell’assurdo” le sue convinzioni in proposito, l’analisi di questo testo può costituire un ottimo punto di partenza per illustrare il suo pensiero. È opportuno precisare, preliminarmente, che l’opera fu pubblicata in un periodo di «dolorosi avvenimenti esterni», come lo stesso Rensi afferma, e ciò contribuisce, indubbiamente, a spiegarne il profondo pessimismo. Questi dolorosi avvenimenti esterni sono da identificarsi con le delusioni politiche determinate dalla crisi del socialismo nell’immediato dopoguerra e dal consolidarsi del regime fascista, che perseguitò il filosofo, per il suo pubblico impegno contro il regime, fino a privarlo della cattedra di ”Filosofia morale” presso l’università di Genova nel 1934. Per il Rensi scetticismo e pessimismo emergono parallelamente nel corso della riflessione. Infatti gli scettici giudicano la realtà irrazionale, assurda e incomprensibile, ed offrono dunque il fondamento teorico ai pessimisti per affermare che essa, in quanto irrazionale, è dolorosa e disperante. C’è, alla base di tutto ciò un antropologia negativa, poiché il Rensi considera l’uomo cattivo per natura, irrimediabilmente minato dal «male radicale». Ma poiché il mondo presente è in preda al male e all’assurdo, diventa necessario immaginare un mondo che sia radicalmente diverso da quello originale, che sia altro da esso, indipendente da esso e che si configuri come la sua recisa negazione, sicché proprio la constatazione che l’assurdo regna nella realtà e nelle menti degli uomini diventa il fondamento della religione. La filosofia dell’assurdo è, soprattutto, una filosofia della storia il cui processo, secondo il Rensi, è interamente retto dal caso. Ed a sottolinearne l’identità egli riprende, invertendone i termini, una formula che era già stata propria di Schopenauer, sicché l’eadem sed aliter di quest’ultimo diviene l’aliter sed eadem. Nella sfera del reale emergono due fatti: le contraddizioni, come è provato dall’analisi della storia della filosofia e delle singole teorie filosofiche, al cui interno le contraddizioni emergono innegabili, e la storia, la quale altro non è che il sistema o la serie delle contraddizioni che si determinano nel reale. La storia consiste nell’eterno diverso da quel che in ogni momento c’è, ossia nell’eterno cambiare e contraddire quel che c’è. C’è storia proprio perché gli uomini, pensando in modo diverso, si contraddicono, hanno dispareri. Contraddizioni e storia sono unum et idem A partire da questo presupposto il Rensi chiarisce la genesi psicologica dell’ottimismo e della speranza, non senza fare ricorso all’autorità del Leopardi, il filosofo che egli pensa di poter contrapporre al Croce ed al suo ottimismo storicistico. Per Leopardi la speranza «è ordinariamente un tutt’uno, quasi, coll’atto di desiderio, e la speranza una quasi stessa, o un certo inseparabil cosa col desiderio»; per il Rensi essa è un’induzione che si fonda sulla disformità tra ciò che non è ancor dato e ciò che è già dato, poiché da ciò che non è ricava che esso sarà, da ciò che non accade ricava che esso accadrà. E, mentre l’uomo felice spera, ma non in misura eccessiva, l’uomo infelice spera in maniera frenetica e disperata. La speranza è, perciò, una cosa sola con il desiderio e diventa sempre piú intensa a mano a mano che il desiderio aumenta e, come tutti i nostri ragionamenti, le nostre interpretazioni, costruzioni, trasformazioni del reale, essendo frutto del desiderio, è una creazione della nostra volontà. E tuttavia, per le sue stesse caratteristiche, la speranza è una categoria dello spirito dotata di propria autonomia e destinata a costituire un tertium quid tra realtà ed irrealtà, poiché ha per oggetto ciò che non è reale ma che giudichiamo prossimo a divenire tale. Speranza, credenza, che è una forma più marcata di realificazione spesso generata dall’incapacità di accettare l’inesistenza del fatto creduto, e certezza, che viene ad identificarsi con la stessa realtà, costituiscono una serie ininterrotta e si distinguono solo per grado d’intensità. La filosofia può, quindi, essere considerata «come lo sforzo o la prestidigitazione per far sparire il fatto delle contraddizioni». La storia altro non è che l’esplicazione di una realtà irrazionale, di una serie di casi, ossia di assurdi: «Tutta la storia procede per assurdi. L’illusione del razionalista è quella che, contemplando egli la storia, in senso retrogrado, dal punto in cui egli si trova all’indietro, contemplando la storia già fatta, e scorgendovi dappertutto la concatenazione causale che certo v’è, fantastica che proprio quella concatenazione causale vi fosse già prima, preesistesse potenzialmente all’accadere effettivo, cosicché l’accedere effettivo non potesse aver luogo che secondo quella concatenazione, cosicché la logica e la ragione lo obbligassero previamente a svolgersi soltanto secondo quella; mentre qualunque altro svolgimento l’accadere avesse preso, avrebbe presentato la medesima concatenazione causale. Così il razionalista dimostra dottamente che per logica e ragione la storia doveva svolgersi appunto come si è svolta». La filosofia giustifica le contraddizioni affermando che lo stesso processo della vita e dello spirito si articola in un sistema dialettico all’interno del quale non vanno considerati il male ed il negativo, ma solo il loro contrario. E tuttavia il processo dello spirito ha sempre fuori di sé il suo punto di arrivo, sicché la razionalità ed il bene diventano un dover essere che, nello stesso momento in cui sta per acquistare le qualità dell’essere perde quelle della razionalità e del bene. Si giunge, così, al capovolgimento della formula hegeliana: per il Rensi il reale è irrazionale ed il razionale è irreale. La storia, perciò, altro non è che un continuo voler uscire dal presente, poiché esso è assurdo e cattivo. Si può dire, insomma, che vi è storia perché per sfuggire all’assurdo e al male presenti gli uomini tendono ad una razionalità e ad un bene che si offrono a loro nell’avvenire. La critica del Rensi a qualsiasi filosofia che si fondi sul presupposto di una processualità mai compiuta, sta nel fatto che essa, automaticamente, priva il presente di ogni senso, perché lo proietta in un futuro mai realizzato e mai realizzabile, con il risultato che la realtà appare assurda. La genesi delle contraddizioni è spiegata dal Rensi secondo una duplice prospettiva. Per la prima, che potremmo definire storica e che richiama sia certe analisi del Rousseau, sia quel pessimismo che nel Leopardi è stato appunto definito “storico”, la realtà è diventata irrazionale con il sorgere della ragione. Per l’animale non esistono l’rrazionalità, la crudeltà, l’ingiustizia, l’imperfezione delle cose, ma, quando la scimmia si accorse di saper ragionare commise l’enorme pazzia di separarsi dalla vita naturale e di opporsi ad essa. La ragione creò tutto il male e l’assurdo, costituendo, infine, la pazzia, in quanto dalla stessa natura si sollevò ed emerse il nembo delle contraddizioni, degli assurdi, delle incomprensibilità, del male, del peccato, delle ingiustizie, insomma degli eterni problemi di carattere spirituale e sociale. Solo eliminando questa deviazione dalla natura che fu la ragione, e ridiventando animale, l’uomo potrebbe far sparire tutto il male, l’assurdo nello stesso nulla in cui essi si trovavano prima dell’avvento della ragione. Per la seconda è la visione del reale caratterizzata dalla singolarità a generare le contraddizioni. L’uomo è, infatti, misura di tutte le cose, sicché risulta essere vero quel che a ciascuno appare tale. Inoltre le cose vengono percepite nella loro fenomenicità e particolarità, non nella loro essenza. Ogni ragione, ogni mente, chiusa nel proprio universo spirituale, riscontra in ogni altra una non-ragione. Per poter affermare che le diverse menti ineriscono ad una sola ragione, esse dovrebbero essere assolutamente d’accordo: è questa la condizione necessaria perché si possa dire che qualcosa è conosciuto con validità assoluta, ossia è razionale. Ma poiché le nostre menti divergono su tutte le questioni la ragione non c’é, cosí come, nel divergere dei nostri orologi non c’è piú l’ora esatta. Non esiste la ragione, ma solo le ragioni. Già Pascal aveva sostenuto che la mente umana, proprio per l’impossibilità di trovare dei punti fermi di riferimento, si rifugia alla fine nello scetticismo. Tempo e spazio sono le condizioni dell’esistenza dell’assurdo, perché è solo grazie ad essi che realtà si configura come molteplice. Nello spazio si vedono le cose una accanto all’altra, mentre nel tempo esse si sentono venire una dopo l’altra. Se ogni movimento e accadimento cessassero, scomparirebbe del tutto il tempo: tempo e vita, tempo e storia sono, perciò, la stessa cosa. Tempo e male sono due facce della stessa medaglia, in quanto uno suppone e richiama necessariamente l’altro: il tempo altro non è che l’eterna ed inutile fuga dal male eternamente presente. Ogni presente si precipita sempre verso l’avvenire, perché in esso manca qualcosa che ci dovrebbe essere, proprio perché il presente, la realtà è nel male. Il tempo è, perciò, la categoria dell’irrazionale e del male: infatti se si fosse nel bene, non ci sarebbe piú tempo. Proprio perché storia e tempo sono l’eterna fuga dall’eterno presente dell’assurdo e del male, la storia altro non è che il permanere nell’assurdo e nel male, ed essa si pone sempre come novità e ripetizione: «Ripetizione ed assurdo. Assurdo perché ripetizione, ripetizione perché eternità d’assurdo. Tale il concetto della storia che il senso di storicità, nella sua piú moderna acutizzazione ed intensificazione ci ribadisce» Lo spazio è il mezzo mediante il quale possono esistere le cose e le parti diverse in luogo dell’assoluto identico, il modo attraverso il quale l’Uno può diventare Piú, dar fuori in parti, in cose diverse l’una dall’altra che, in quanto tali, si contraddicono a vicenda. L’Uno rappresenta la ragione ed il nulla; i Piú cioè il mondo, sono l’assurdo e la realtà L’essere, la realtà non è che il manifestarsi delle cose, il loro essere percepibili o conoscibili, perciò ciò che si sottrae alla percettibilità e non ne possiede gli elementi, non possiede neppure la realtà e, quindi, non esiste. Ciò che esiste, ciò che è, è costituito da elementi percepibili, spaziali, temporali, estesi, cioé materiali. Affermare che esiste qualcosa che non ha tali caratteristiche è solo un non-senso.
RODOLFO MONDOLFO
” La conoscenza critica della realtà è la premessa necessaria ad ogni azione storica. Significa che il materialismo storico è – come io credo di averlo definito con una certa esattezza – una concezione critico-pratica. Dalla critica della realtà sociale alla praxis storica: questo cammino segna il superamento dell’antitesi di volontarismo e fatalismo in un concetto realistico e vivo della necessità storica. Tanto più realistico e tanto più vivo, in quanto la formula sopra enunciata si rovescia nella sua reciproca; perché se non è possibile cangiare senza interpretare, d’altra parte solo chi vuol cangiare ed agire sa interpretare. Lo sforzo teorico del filosofo è vano se non è accompagnato e sorretto dalla volontà d’azione: soltanto nella praxis storica quindi si compie e si saggia nella sua verità la critica della realtà sociale. “
VITA E OPERE
Rodolfo Mondolfo, nato a Senigallia il 20 agosto 1877, è l’ultimo di quattro fratelli di una famiglia di origine ebraica. Dopo aver frequentato il liceo della città marchigiana, nel 1885 si era iscritto alla sezione di filosofia e filologia dell’Istituto di sudi superiori e pratici di Firenze. Fu grazie al fratello Ugo Guido, che da Firenze si accingeva a trasferirsi a Siena per completare gli studi universitari, che egli entrò in contatto con un gruppo di giovani studenti che si ritrovavano presso la casa fiorentina di Ernesta Bittanti in via Lungo il Mugnone. Rodolfo, di qualche anno più giovane, poté incontrare e successivamente entrare in rapporti d’amicizia con Ernesta, futura moglie di Cesare Battisti, con lo stesso Battisti all’epoca giovane studioso di geografia, con lo storico della letteratura Alfredo Galletti, con Gaetano Salvemini e Gennaro Mondaini. Fu in questo stesso gruppo di amici, grazie alle frequenti discussioni e alle letture comuni sotto lo sguardo attento di maestri della qualità di Pasquale Villari, che maturò una sorta di adesione collettiva al nascente Partito socialista. Gli anni della formazione fiorentina, le discussioni interne a quella piccola comunità di giovani intellettuali appassionati per le questioni sociali e per i problemi non risolti nel processo di unità nazionale, rimasero un punto di riferimento per il successivo percorso intellettuale e politico di Mondolfo. Per le sue qualità di storico della filosofia, legato all’apprendimento del mestiere di esperto lettore di testi, non va dimenticata l’incidenza della lezione di Pasquale Villari, del grecista Girolamo Vitelli, dello storico della filosofia Felice Tocco, dal quale venne indirizzato ai primi studi sull’associazionismo e sulla psicologia cartesiana. Per l’evoluzione delle sue posizioni politiche, sempre legate a un forte impegno intellettuale e teorico, Mondolfo rimase nel tempo legato agli orientamenti del riformismo turatiano, aprendosi, specie rispetto alla diagnosi del caso italiano e delle sue crisi, alle interpretazioni di Salvemini. Quando Mondolfo giunse a Bologna nel 1913, dopo aver insegnato a Padova e a Torino, aveva appena pubblicato presso l’editore Formaggini il suo ” Materialismo storico in Federico Engels “. Negli anni precedenti, oltre ad essersi impegnato nel lungo e tormentato lavoro di studio e di redazione di tale opera, si era confrontato con i nodi principali della filosofia moderna sviluppando un particolare interesse per il pensiero etico-giuridico nei suoi rapporti con la politica e la realtà sociale. Una ricerca che avvicina Mondolfo al leader del socialismo francese Jaurès, nel tentativo di rendere compatibile all’interno del materialismo storico l’assunzione di alcuni elementi del giusnaturalismo e della tradizione rivoluzionaria dei diritti dell’uomo, e che si inquadra in un significativo sforzo di etica della politica e del socialismo. Non a caso Mondolfo, intrecciando passione politica e ricerca, intervenne più volte sui rapporti tra socialismo e filosofia: su L’Unità salveminiana, su Critica sociale, ma anche sulle più significative riviste dell’antifascismo, quelle dirette da Piero Gobetti e da Carlo Rosselli, “Energie Nuove”, “Rivoluzione liberale” e “Quarto Stato”, dando volutamente vita ad un dialogo proficuo fra generazioni. Anche la fortunata raccolta di studi ” Sulle orme di Marx ” (1919), è espressione di un’analoga tensione: il socialismo italiano aveva bisogno di una propria autonoma coscienza teorica, una coscienza che fosse strumento di analisi della realtà e che sapesse cogliere la vitalità del rapporto soggetto/oggetto; un marxismo interpretato secondo la formula di matrice gentiliana di ” rovesciamento della prassi “. Nel contempo questa proposta teorica non poteva prescindere dall’analisi di due grandi eventi spartiacque: la Rivoluzione russa e la prima guerra mondiale con i suoi effetti sulla crisi del dopoguerra italiano. Fattori di grande impatto e di cambiamento epocale che trovano adeguata trattazione nell’accresciuta terza edizione di ” Sulle orme di Marx “, in particolare nel I volume che raccoglie gli ” Studi sui tempi nostri “. Secondo Mondolfo, nella doppia veste di autore e di direttore della collana, il nuovo volume offre ” una nuova vigorosa analisi della crisi contemporanea, una del problema sociale del dopoguerra e un ampio studio sulla rivoluzione russa: il primo tentativo di sintesi storica della genesi, degli aspetti e dell’evoluzione del grande fatto storico “. Ad indicare la rilevanza del nesso fra indagine storica, politica, economico-sociale del dopoguerra e ricerca marxiana, che appunto si incarica di indicare le orme di Marx da seguire nell’azione, va ricordato il dibattito che le varie edizioni dell’opera, tre nell’arco di quattro anni, e che progressivamente andava accrescendosi, contribuì a produrre fuori e dentro l’area socialista e il mondo accademico. Dibattito che ebbe tra i protagonisti, per citare solo alcuni nomi rappresentativi di generazioni diverse e di diversi orientamenti politici e filosofici, Gaetano Mosca, Carlo Rosselli, Balbino Giuliano, Lelio Basso, Ermanno Bartellini, Ernesto Cesare Longobardi, Guido De Ruggiero, Adriano Tilgher, Alessandro Levi. Fra le pieghe di quel dibattito, solo parzialmente ricostruito nel suo orizzonte teorico-politico generale, vanno ricercate le ragioni di fondo dell’iniziativa editoriale, del progetto della collana e delle singole opere da essa promosse e pubblicate. Nel 1923, con i tredici titoli fino ad allora stampati e con i contatti già avviati per altre opere chiamate ad arricchire la collana, si era già chiaramente delineato l’articolarsi del progetto. I testi già usciti e l’annuncio degli altri volumi vengono dal direttore della collana inquadrati in tre titoli, sorta di sezioni, alle quali corrispondono tre proposte di promozione commerciale per l’acquisto dei volumi: ” Socialismo e movimento operaio “; ” Il fascismo e i partiti politici italiani “, gruppo di testi ai quali si collega il volume di Panunzio su ” Diritto, forza e violenza “; infine ” Problemi del dopoguerra “. Dei due titoli che successivamente verranno pubblicati, ” La Rivoluzione liberale ” di Gobetti e i ” Saggi intorno alla concezione materialistica della storia ” di Antonio Labriola curati da Luigi Del Pane di cui non si fa menzione nella presentazione del 1923, non è difficile riconoscere la collocazione all’interno di una di queste tre sezioni. Così come i volumi annunciati ma non realizzati: è il caso dello scritto di Balbino Giuliano ” Il fascismo secondo un nazionalista “, di cui si annuncia l’imminente pubblicazione, o il volume di Gino Luzzato, ” Politica ed economia nell’Italia d’oggi “, annunciato nel volume di Filippo Turati. Dedicato alla storia e alla teoria del movimento operaio e socialista è l’opera capitale di Mondolfo ” Sulle orme di Marx “, III edizione, la cui analisi dei problemi politici e sociali del dopoguerra ci conduce alla celebre inchiesta su ” Il fascismo e i partiti politici italiani “, anch’essa imposta dalla cronaca, dalla storia recente, dagli effetti dirompenti della crisi italiana. ” Da quando, per l’accrescimento delle sue schiere e per lo sviluppo della sua azione politica, il fascismo è apparso nella sua importanza di fatto storico, si sono moltiplicate in contrasto le apologie dei seguaci e le polemiche degli avversari “. In tale contesto, dove passioni e conflitti rendono impossibile la ” serenità della conoscenza storica, l’unica anticipazione possibile del giudizio della storia era in una raccolta sistematica delle visioni e valutazioni di tutti i diversi partiti politici “. Da qui l’idea di raccogliere ” i punti di vista dei diversi partiti politici sul fascismo, chiamando a scrivere sull’argomento rappresentanti eminenti di tutti, per offrire al pubblico il poliedrico gruppo delle divergenti visioni “. Su questa importante impresa mondolfiana già Renzo De Felice ha avuto modo di esprimersi, pubblicando nel 1966 presso l’editore Cappelli l’intero materiale dell’inchiesta ” Il fascismo e i partiti politici “, sottolineando anche in tempi più recenti l’importanza documentaria e la qualità delle analisi. In queste note è possibile solo constatare la grande articolazione del progetto e, appunto, la qualità e la rappresentatività degli autori chiamati a collaborare. Dai fascisti Adolfo Zerboglio e Dino Grandi, il primo autore di uno scritto analitico, legato alla ricostruzione degli eventi, il secondo ” pieno di ardore e vibrante di fede, che qualche critico ha giudicato la mente più pensosa e viva, per cultura e per fede filosofica, che sia apparsa nel movimento fascista “, al giornalista Mario Missiroli con il suo studio critico su ” Il fascismo e la crisi italiana “.Dalle presenze oltremodo scomode, dal repubblicano Guido Bergamo, alle firme altrettanto significative e pesanti dell’anarchico Luigi Fabbri, dell’avvocato ex-popolare Cesare Degli Occhi, agli esponenti socialisti Giuseppe De Falco e Giovanni Zibordi. Mancano all’appello i nazionalisti, per i quali è in cantiere il saggio di Balbino Giuliano che però non verrà pubblicato, e i comunisti, che rifiutarono di aderire all’iniziativa. Programmati ma non realizzati gli interventi del popolare Filippo Meda e del nazionalista Roberto Forges Davanzati, che dopo aver promesso la collaborazione a un volume Studi sul fascismo ” stimarono più prudente chiudersi in un’astensione diplomatica “. Discorso a parte merita la pubblicazione del volume di Sergio Panunzio, ” Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza ” (1921), che si ” collega con la raccolta sul fascismo, rappresentando quasi una teorizzazione dell’azione di questo “, per il quale Mondolfo compose una prefazione intitolata “Forza e violenza nella storia” (aprendo una discussione). Nel 1922 era iniziato il carteggio che più significativamente caratterizza l’attività di Mondolfo come direttore della collana. Si tratta delle lettere scambiate con Gobetti in vista della pubblicazione de ” La Rivoluzione liberale “. Pubblicazione che avvenne nel 1924, dopo un lungo lavoro di rielaborazione e di nuova articolazione del materiale originario (gli articoli apparsi su “Rivoluzione liberale”), ma che egli, probabilmente per un delicato contenzioso con l’editore, non volle o non poté annunciare nel 1923. Non è questo il luogo per entrare nel merito della pubblicazione dell’opera gobettiana e del ruolo di attenta e partecipe supervisione esercitato da Mondolfo. Già Norberto Bobbio, pubblicando le lettere di Mondolfo a Gobetti, ha avuto occasione di inquadrare il loro rapporto intellettuale, politico e teorico, mettendo in luce gli elementi di dissenso e prendendo in considerazione la collaborazione di Mondolfo alle riviste gobettiane e le critiche che Gobetti e i suoi collaboratori riservarono all’autore di ” Sulle orme di Marx “. Rimane interessante considerare alcuni elementi che emergono dal carteggio: a partire da una testimonianza che Mondolfo rilasciò a Renato Treves in una lettera del 25 dicembre 1963 relativa ai suoi rapporti con Gobetti: ” la corrispondenza con Gobetti [da parte di Mondolfo andata distrutta nel 1939 con l’esilio argentino] si svolse a proposito della collaborazione di lui alla “Biblioteca di studi sociali” che io dirigevo allora per l’editore Cappelli di Bologna nella quale egli desiderò pubblicare la prima edizione del libro La rivoluzione liberale […]. Ricordo che allora mi scrisse che desiderava che il suo libro uscisse in quella raccolta alla quale diceva io avevo dato una fisionomia a lui grata; e ricordo che sui problemi dei vari capitoli da inserire e dell’ordine in cui disporli avemmo a scambiarci alcune lettere “. Dalla corrispondenza di Mondolfo risulta che Gobetti propose la pubblicazione dello scritto, sotto forma di raccolta di saggi e articoli vari, il 19 luglio 1922. All’epoca la collana aveva dato alle stampe i testi di Mondolfo, Turati, Panunzio, Missiroli, Zerboglio e Grandi; mancavano ancora i volumi di Luigi Fabbri e Cesare Degli Occhi, per completare l’inchiesta sul fascismo, e i saggi di Salvemini, Carli e Viterbo. Non è quindi difficile immaginare che Gobetti fosse interessato proprio all’inchiesta sul fascismo e alle riflessioni mondolfiane, che pur egli non condivideva fino in fondo, sulla crisi del dopoguerra dettate in ” Sulle orme di Marx ” e negli articoli che il professore dell’Università di Bologna aveva pubblicato sulle riviste gobettiane. La risposta di Mondolfo è positiva. Chiede un rinvio di un anno per rispettare i precedenti accordi con l’editore e rilancia, dando una prima indicazione che nel corso della corrispondenza verrà ulteriormente specificata, raccomandando ” di dare alla raccolta un assetto organico, in modo che risulti un libro piuttosto che una raccolta, di cui i vari scritti appaiono capitoli e non articoli disgiunti e indipendenti “. Un impegno di lavoro che Gobetti porterà fino in fondo, integrando, sfumando giudizi troppo pesanti o perentori, componendo nuove parti e nuovi capitoli. Il direttore editoriale Rodolfo Mondolfo, che pur con Gobetti era entrato più volte in contrasto, svolse il proprio lavoro, rispettando e incoraggiando il giovane autore, tutelando l’editore, contribuendo a dare alle stampe un testo che grande fortuna ebbe nel secondo dopoguerra, visto che dopo il 1924 la furiosa reazione fascista distrusse buona parte della collana mondolfiana.
IL PENSIERO
Nonostante le aspre critiche mossegli da Croce e da Gentile, il marxismo aveva continuato a svilupparsi in Italia e a dare rilevanti frutti anche sul piano teorico, grazie soprattutto all’opera di Rodolfo Mondolfo (1877-1976). Marchigiano di origini ebree, ebbe un’originaria formazione positivistica (fu in qualche misura vicino alle posizioni di Ardigò) e, a partire dal 1903, collaborò a “Critica sociale”, la rivista diretta da Filippo Turati. Nel 1910 diventò professore all’Università di Torino e, in seguito, a quella di Bologna; però nel 1938, a cause delle infami leggi razziali varate dal regime fascista, fu costretto ad abbandonare l’insegnamento e l’Italia, riparando in Argentina come esule. Proprio in Argentina ottenne una cattedra prima all’università di Cordoba e poi a quella di Tucumàn. Dopo la guerra, pur ritornando di tanto in tanto in Italia, continuò a vivere in Argentina, dove si spense nel 1976. Mondolfo scorge nel marxismo il punto culminante delle concezioni della libertà e della democrazia, elaborate dal pensiero politico moderno: il marxismo è la filosofia di cui il movimento operaio ha bisogno per realizzare il compito storico che gli spetta, la realizzazione del regno della libertà. A illustrare le caratteristiche del marxismo inteso come progetto finalizzato all’attuazione della libertà, Mondolfo dedica una nutrita serie di studi, da ” Il materialismo storico di Federico Engels ” (1912) all’insieme di studi dal titolo ” Sulle orme di Marx ” (1919, più volte riediti), fino alla raccolta, curata da Norberto Bobbio, ” Umanismo di Marx ” (1968). La linea interpretativa del marxismo era sempre stata divisa (e sempre lo sarà) su un punto essenziale: chi, come Althusser e Geymonat, legge il marxismo come filosofia deterministica e materialistica, e chi, come Mondolfo e Gramsci, lo legge invece come “filosofia della prassi”, quasi come una sorta di umanesimo che ravvisa nell’agire libero degli uomini il motore della storia. Certo, spiega Mondolfo, non si tratta di una libertà assoluta, poiché l’uomo trasforma con la sua azione la natura e la storia sempre a partire da condizioni date, e l’ambiente da lui trasformato reagisce, a sua volta, sull’uomo, che procede a ulteriori trasformazioni, secondo un ritmo che Mondolfo, riprendendo l’interpretazione di Giovanni Gentile, definisce “ la prassi che si rovescia “. Questo vuol dire che ogni momento del processo storico condiziona sempre il successivo e che, tra i vari momenti, esiste un legame di continuità. Una rivoluzione può dunque aver luogo solamente se sono mature le condizioni storiche che la rendono possibile: sotto questo profilo, Mondolfo giudicherà la rivoluzione russa del 1917 una forzatura del processo storico, costretta a impiegare la violenza, come metodo d’azione, e a fondarsi sulla dittatura di un gruppo rivoluzionario e non del partito operaio. In opposizione a questa forma di “volontarismo”, che trascura le reali condizioni storiche in atto, Mondolfo riconosce il peso della struttura economico-sociale, ma escludendo sempre ogni forma di concezione fatalistica dell’evoluzione storica e abbracciando invece le posizioni del socialismo riformista. Dopo l’avvento del fascismo, Mondolfo si dedicò prevalentemente a studi di storia della filosofia, soprattutto antica, ma sempre alla luce del presupposto di una continuità tra le varie epoche storiche: sotto questo profilo, soprattutto con i volumi su ” L’infinito nel pensiero dei Greci ” (1934) e ” La comprensione del soggetto umano nella cultura antica ” (1955), egli tenderà a mettere in evidenza la presenza di concezioni dell’infinito e della soggettività nel mondo antico, in polemica contro la tesi di Gentile secondo cui la filosofia degli antichi sarebbe stata esclusivamente una forma di oggettivismo e una dialettica del pensato, non del pensare.
JEAN-FRANCOIS LYOTARD
A cura di Antonino Magnanimo
“Quella che stiamo vivendo è una stagione sconvolgente, attraversata da mutamenti rapidissimi, che lasciano in piedi le condizioni di stabilità per tratti brevissimi, lo spazio di un mattino travolto dalle trasformazioni scientifico-tecnologiche. “
VITA E OPERE
Jean-François Lyotard è morto nell’aprile del 1998 all’ospedale Necker di Parigi. Aveva 73 anni e, secondo quanto riportato dall’Università di Emory (Atlanta) dove insegnava dal 1991, era malato di leucemia. Professore emerito presso l’Università di Parigi dal 1984, aveva insegnato alla Sorbona. Durante la sua carriera ha scritto più di 40 testi, tra cui il più celebre rimane ” La condizione postmoderna ” (1979), una ricerca commissionatagli dal governo canadese che è finita presto per divenire un punto di riferimento nel dibattito filosofico e culturale degli ultimi anni del Novecento. Con quel libro Lyotard ha proposto una vera e propria categoria interpretativa della società contemporanea, la “società postmoderna”, la cui caratteristica peculiare è il venir meno delle ” grandi narrazioni ” metafisiche (illuminismo, idealismo, marxismo) che hanno giustificato ideologicamente la coesione sociale e ne hanno ispirato, nella modernità, le utopie rivoluzionarie. Con il declino del pensiero totalizzante si è aperto, secondo Lyotard, il problema di reperire criteri di giudizio e di legittimazione che abbiano valore locale e non più universale. Di formazione fenomenologico-marxista, ha svolto per dodici anni lavoro politico ed è stato uno dei redattori della rivista “Socialisme ou barbarie” (importante gruppo di minoranza della sinistra francese). Ha partecipato ai principali movimenti di contestazione e all’esperienza delle avanguardie artistiche. Sono significativi i seguenti saggi di Lyotard: ” La phénoménologie “, (1954); ” Discorso, figura o” (1971) ; ” Economie libidinale “, (1974); ” Dérives à partir de Marx et Freud ” (1973) ; ” La condition postmoderne ” (1979); ” Essai sur le secret dans l’oeuvre de Baruchello ” (1982); ” Il dissidio ” (1983); ” Le différend ” (l984); ” L’enthousiasme. La critique kantienne de l’histoire ” (l986); ” Heidegger et les juif ” (1988); ” La guerre des Algériens, Ecrits l956-l963 ” (l989); ” Leçons sur l’Analytique du sublime ” ( l99l); ” Lectures d’enfance ” (l99l); ” Signé Malraux ” (l996).
IL PENSIERO
Lyotard è universalmente noto come il primo teorizzatore del postmoderno in filosofia, grazie alla ricerca sociologica ” La condizione postmoderna ” (1979). Nel volume viene presentata la tesi secondo la quale la modernità è giunta al suo compimento e ci troviamo ormai nel postmoderno. Il progetto della modernità di conferire un senso unitario e globale alla realtà, individuandone i fondamenti e facendo leva su una scienza unitaria, si è costruito sull’asse di tre grandi meta-racconti:
- Illuminismo
- Idealismo
- Marxismo
Questi grandi quadri di riferimento si sono ormai consumati, né sono stati sostituiti da costruzioni altrettanto forti e unitarie. Come ha detto Weber, si è ormai nell’epoca del disincanto. La loro frantumazione ha fatto emergere la pluralità e le differenze e ha moltiplicato le forme del sapere. Contrariamente alle critiche tradizionali nei confronti della scienza, Lyotard non nutre nostalgia per l’unità e la totalità perduta, ma riconosce la positività di ciò che è molteplice, frammentato, polimorfo e instabile. Egli ritiene, anzi, che non si tratti soltanto di prendere atto di questo processo in corso, ma di contribuire alla sua affermazione, attraverso pratiche di regionalizzazione dei campi del sapere. Occorre smascherare l’inconsistenza di presunte unificazioni, la rottura dei canoni tradizionali, la diffusa ibridazione , ossia la contaminazione dei generi. Lyotard è conosciuto, tra le altre cose, per aver coniato il fortunato termine di postmoderno per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Il filosofo francese si domanda: la scrittura, la pittura, il buon cinema , insomma gli oggetti della nostra creatività, si può dire che sono prodotti dal sistema? Per le automobili si vede bene che è il sistema a produrle, che ci sono uomini che si mettono al servizio della produttività, in modo da conseguire una perfezione sempre maggiore. La stessa cosa si può dire per i missili interstellari o per gli aerei. Ma quando si scrive, quando si dipinge, quando si fa musica si può dire che è il sistema a produrre tutto ciò? C’è un’ azione del sistema, sia pure inconsapevole e invisibile? Il carattere invasivo dello sviluppo e della logica della produzione penetra addirittura nei laboratori, nelle redazioni, persino nella camera dove lo scrittore lavora per ottenere, alla fine, il prodotto che il sistema saprà smerciare e far circolare. Per Lyotard la crisi delle cosiddette avanguardie deriva dal fatto che il sistema impone questo ordine. Spesso si è sentito dire: “ne abbiamo abbastanza di pittori inguardabili e di scrittori illeggibili. Dateci dei prodotti decifrabili e spendibili!”. Il sistema esige una merce che possa essere messa in circolazione sul mercato culturale. Qui subentra la nozione di industria culturale : il sistema penetra fin nella testa del pittore, del cineasta o dello scrittore per fargli fare ciò di cui il sistema ha bisogno, perché la cultura continui a circolare. Il concetto di postmoderno, quindi, indica il bisogno di una politica capace di favorire l’adattamento dell’umanità allo sviluppo tecnologico, altrimenti insopportabile . Il filosofo francese illustrando,come abbiamo visto, la sua visione del sistema evidenzia anche la presenza di una necessaria resistenza al sistema, al mercato culturale specialmente nell’arte. Questo è il compito delle avanguardie, sintomo eclatante della crisi dell’Occidente. Lyotard denuncia, inoltre, il travisamento del concetto di postmoderno, che sfocia in una sorta di pornografia dei media . In sostanza, lo studioso si contrappone con forza allo Strutturalismo e al Marxismo, cioè a sistemi di pensiero globalizzanti; afferma l’esistenza di dimensioni e campi che solo parzialmente sono riducibili alla comunicazione e alla discorsività; dichiara l’irreversibilità del processo culturale che ha visto la fine dei grandi sistemi teorici e l’affermarsi, invece, di una molteplicità di linguaggi che sono fra loro incommensurabili, o, comunque, irriducibili l’uno all’altro. Ne è derivata una perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato, nella società, e sono cresciuti i “processi di atomizzazione”. La stessa filosofia, come attività che avanza pretese alla universalità del suo discorso in termini di verità, viene dichiarata decaduta, può tutt’al più sopravvivere come discorso che tenta di giustificare uno dei mondi parziali dei giochi linguistici in cui è suddiviso il mondo postmoderno frammentato. L’ Italia, l’Occidente e il mondo vivono in una temperie culturale che circonda quanto i manuali di storia ci raccontano sulla fine del primo millennio. Ovviamente, siamo in anni assai lontani dalle paure medioevali, eppure si ha netta la sensazione dell’incertezza e del disagio, della chiusura di parecchi cicli e di parecchi discorsi. Le metafore interpretative con cui si cercano i caratteri salienti del tempo in cui viviamo sono esse stesse divenute scontate; quella che stiamo vivendo è una stagione sconvolgente, attraversata da mutamenti rapidissimi, che lasciano in piedi le condizioni di stabilità per tratti brevissimi, lo spazio di un mattino travolto dalle trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna, iniziata nei secoli XVII e XVIII e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, che sono antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano: essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. Ciò implica la tesi della perfettibilità tanto dell’individuo quanto della collettività politica e in genere dell’umanità; tutte e tre queste entità sono percepite come soggetti impegnati ad affermare nel mondo attraverso il lavoro, la cultura, l’arte, la scienza, la tecnica. In sintesi, l’uomo moderno ha fiducia in se stesso come creatore e protagonista di una civiltà nuova, enormemente più avanzata e più democratica di ogni epoca precedente e in costante movimento verso ulteriori traguardi. L’idea forte della modernità è dunque il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione per un’opera di chiarificazione, di illuminazione nei confronti del mondo e di se stesso. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si fonda sul disconoscimento della sussistenza di valori ultimi, in grado appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordinamento della società, di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un’effettiva intelligibilità alla vita umana e alla società. Lyotard trae con coerenza le conseguenze di questo nichilismo dei valori ultimi nell’epoca post-moderna. Ciò significa che il rapporto dell’individuo con la propria tradizione culturale cessa di configurarsi come un processo di interiorizzazione. Ne segue l’esautoramento della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. Gli studiosi che sono intervenuti nel dibattito sulla post-modernità hanno illustrato ulteriori aspetti dell’epoca postmoderna che appaiono strettamente connessi con il nichilismo dei valori umani che ne costituisce il fondamento. Innanzitutto, la perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale: ciò non può stupire se si considera che a partire dai “philosophes” dell’età dei Lumi l’intellettuale è stato, per definizione, l’avanguardia, la coscienza della modernità. E’ intuibile allora che la fine della modernità, in quanto determina lo svuotamento della socializzazione a modelli di valore, comporta la perdita di autorità dell’intellettuale nella società. In una società che rifiuta il riferimento a valori ultimi, e che, per di più, si compiace di questo rifiuto, il compito di indicare criteri universali di verità, moralità e giustizia cessa di essere ritenuto importante. La convinzione che non sussistano valori ultimi, fondamenti stabili, comporta inoltre la perdita di credibilità intellettuale della nozione stessa di soggetto umano. Molti dei più autorevoli intellettuali di fine Novecento hanno teorizzato, appunto, la scomparsa del soggetto umano, rispecchiando in tal modo una caratteristica essenziale della nostra epoca postmoderna. Lo scrittore marxista americano F. Jameson sottolinea che le società occidentali contemporanee, contrassegnate dalla postmodernità, sono affette da “patologia della personalità”, che si manifesta nella destrutturazione del tempo biografico e nella frammentazione dell’identità. Per definire il malessere dell’uomo occidentale contemporaneo sono divenute inadeguate le categorie d’impronta soggettivistica che venivano utilizzate nei primi decenni del secolo: angoscia, alienazione, impegno inteso come adozione di una decisione rischiosa e responsabilizzante. In quest’epoca di “morte del soggetto” compare la sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato e si ha la percezione della società come spogliata di ogni storicità. Da qui nasce l’incapacità di quella visione retrospettiva che è requisito indispensabile per suscitare la prospettiva di un futuro e orientarsi verso di esso. Jean Baudrillard, inoltre, ha illustrato la correlazione fra frammentazione dell’identità e immagine frammentata del mondo e dell’uomo confezionata dai mass media contemporanei i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Il tempo diventa una successione di momenti non correlati tra loro, una serie di momenti presenti isolati e privi della profondità che è associata alla percezione del passato e del futuro. Per lo spettatore dei media tutto si riduce a godere l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Le società occidentali presentano, quindi, una gamma di sintomi di impoverimento esistenziale che, considerati dal punto di vista storico, definiscono una condizione di post-modernità, ma in verità presentano anche molti dei connotati più positivi della modernità:
- lo sviluppo delle strutture della società post-industriale, più complesse, flessibili e differenziate rispetto a quelle della società industriale;
- il declino delle ideologie totalizzanti;
- la diminuzione di individui dalla personalità autoritaria;
- l’accresciuta tolleranza e accettazione delle “diversità” etniche, sociali e religiose;
- l’incremento delle comunicazioni e degli scambi;
- l’internazionalizzazione dell’informazione, dell’economia e della cultura;
- la tendenza alla parità tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro;
- l’accresciuta sensibilità verso i diritti di tutti i cittadini e, particolarmente delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di handicap);
- l’indebolimento del formalismo sociale e della deferenza verso l’autorità politica e sociale.
Ma il riconoscimento di questi processi di modernizzazione non può indurre a trascurare che essi si trovano a coesistere con i fenomeni psicologico-culturali post-moderni. E da questa coesistenza oggi risulta che in ampia misura la modernità si configura, per così dire, come un involucro, una forma vuota, soprattutto per le giovani generazioni. E’ presente anche un notevole degrado esistenziale che molte delle maggiori personalità intellettuali dell’Occidente tra l’Ottocento e il primo Novecento hanno presagito. Esso si manifesta in sintomi quali carenza di progettualità e distacco da valori ultimi, che sono classificabili come indicatori di crisi della modernità. N. Elias, infine, con riferimento all’atteggiamento nei confronti della morte, sostiene che al contrario dei suoi antenati, dalla preistoria al primo Novecento, l’uomo occidentale dell’epoca post-moderna è incapace di affrontare la morte nei suoi diversi aspetti: la comunicazione con il moribondo, la preparazione della salma, la sepoltura, la familiarizzazione e l’educazione all’idea della morte, una partecipazione emotiva intensa. La morte è divenuta un tabù come lo fu il tabù sessuale in epoca vittoriana e i rituali di lutto pubblici e privati si sono penosamente impoveriti. I nostri antenati sapevano affrontare la morte perché avevano di essa un’esperienza psicologica dotata di autenticità: per loro la morte racchiudeva gli elementi della terribilità, della fascinazione e del mutamento radicale. E ciò indipendentemente dalla credenza o meno in un’esistenza al di là della morte. L’odierna elusione e banalizzazione della morte attraverso il silenzio e rituali degradati è spiegabile con l’impotenza a integrare nel proprio vissuto le dimensioni fondamentali della esistenza. Appare evidente, allora, che, qualora si ritenga di condividere con Lyotard e gli altri assertori del postmoderno la tesi del declino dei valori costitutivi dell’epoca moderna, si prospetta l’esigenza di ulteriori considerazioni. In Italia, in particolare, persino la stampa più legata ai valori della modernizzazione non ha esitato a denunciare l’opacità, la “stupidità” degli anni Ottanta, che hanno visto l’espansione della condizione postmoderna. R. Dahrendorf sostiene che si possono notare due segnali molto chiari che ci indicano le dissoluzioni della società avanzata. Il primo è la rinuncia alla storia, il lasciare che il fare, il progettare ci derubino del passato; il secondo è la straordinaria difficoltà che i partiti politici di oggi hanno nel definirsi, nel darsi un programma. I giovani non hanno più né i grandi maestri del passato, né i punti di riferimento nel presente.
TEILHARD DE CHARDIN
” Chiedersi se l’universo si sviluppa ancora significa decidere se lo spirito umano è, o non è, tuttora in corso di evoluzione. Ora, a questa domanda io rispondo senza alcuna esitazione: sì. “
Pierre Teilhard de Chardin nasce a Sarcenat (Alvernia) nel 1881. Muore a New York nel 1955. Scienziato (paleontologo e geologo) , filosofo e teologo francese. Entrò nella Compagnia di Gesù nel 1899. Partecipò a spedizioni scientifiche importanti tra le quali quella in Cina del 1926 che portò alla scoperta del discusso sinantropo, l’ominide fossile vissuto nel Pleistocene medio (200-300.000 anni fa). Ampliò il campo della sua ricerca scientifica al dibattito cosmologico e teologico e ciò lo rese inviso agli ambienti ufficiali della chiesa cattolica. Tra le sue opere (tutte postume), meritano di essere menzionate: “ Il fenomeno umano ” (1955), “ La comparsa dell’uomo ” (1956), “ La visione del passato ” (1957), ” L’ambiente divino ” (1957), ” L’avvenire dell’uomo ” (1959). A cavallo tra Ottocento e Novecento un cattolico, Teilhard de Chardin, interpreta la prospettiva evoluzionistica avanzata da Darwin come processo non già privo di finalità specifiche, bensì governato da Dio, dando vita ad una specie di “evoluzionismo finalistico” che però non fu accettato dalla Chiesa (che anzi lo condannò severamente). Sarà invece Bergson ad accettare (con il concetto di “evoluzione creatrice”) l’evoluzionismo e a depurarlo dagli elementi di meccanicismo e anche da quelli finalistici. Il pensiero di Teilhard de Chardin matura in un periodo di grande fermento scientifico in cui gli studiosi umanisti da un lato s’interrogano sul futuro della civiltà occidentale (Toynbee, Fourastier, Jaspers ecc) , il positivismo va in crisi e i fisici teorici fanno saltare le classiche sicurezze nei confronti della “realtà” aprendo il varco allo sgomento umano verso un universo che appare sempre più paradossale. Dopo aver citato le opere di Eddington, di Sir J. Huxley e di Ch. Galton-Darwin, Teilhard si meraviglia nel notare la debolezza delle basi su cui vengono fatte poggiare le loro anticipazioni del futuro. Egli cerca serie “estrapolazioni”, primo passo verso una vera “scienza dell’avvenire”. Alla concezione materialistica del darwinismo e del positivismo, egli oppose una cosmologia che assumeva sì il principio dell’evoluzione, anzi lo estendeva alla realtà spirituale, ma non sottoposta al puro determinismo e al puro materialismo. L’universo (verso l’uno) è la storia di un movimento globale del cosmo: il cosmo si è mosso, una volta, tutto intero, non soltanto “localiter” ma “entitative”. E si muove ancora. La natura è “divenire”, è “farsi”. Il suo movimento passato è l’evoluzione fin qua, è la sua storia che si lascia ordinare in una progressione di forme sempre più complesse e perfezionate. Anche lo psichismo più elevato che conosciamo, l’anima umana, non sfugge a questa legge comune a tutte le cose. Ma, si chiede Teilhard, quale può essere il motore profondo dell’intera ascesa delle forme di vita? Teilhard rileva che la trasformazione morfologica degli esseri pare essersi rallentata proprio quando sulla Terra il pensiero faceva la sua comparsa. Considerando questa coincidenza insieme al fatto che l’unica direzione costante seguita dall’evoluzione biologica è stata quella del più grande cervello, ovvero della maggior coscienza, egli risponde alla sua stessa domanda ipotizzando che forse il motore dell’evoluzione è stato il “bisogno” di pensare, di conoscere. L’evoluzione pare dunque essersi “fermata” quanto a nuovi esseri e nuove forme. Ciò significa che avendo prodotto l’organo del pensiero (per l’appunto la coscienza) l’evoluzione procederà solo se la coscienza medesima, nell’uomo, svilupperà se stessa giungendo a percepirsi come ente universale responsabile di un movimento che non sarà più, come per il passato, tutt’uno con la trasformazione delle forme materiali, ma tutt’uno con il movimento autocosciente del pensiero. E poichè è l’uomo il veicolo ed il portatore di questa conquista universale che è costato al cosmo miliardi di anni di lavoro, è solo se l’uomo dirà sì al suo compito e alla sua responsabilità universale che l’evoluzione potrà proseguire. Perchè ciò accada è necessario che l’uomo si renda conto del valore biologico (morfogenetico) dell’azione morale e che ammetta la natura organica dei legami interindividuali. Teilhard legge anche la storia della coscienza e ancora una volta proprio nel movimento della coscienza fino ad oggi trova motivo di fede nell’avvenire dell’uomo e dell’universo: l’uomo d’oggi porta in sè, tra gli altri, Platone e Agostino ma mentre loro credevano in coscienza d’impegnare, attraverso l’esercizio del proprio pensiero e della propria libertà, una piccolissima parte di mondo quanto a spazio e durata, oggi un uomo che agisca alla massima coscienza possibile sa che la sua scelta ha una ripercussione su miriadi di secoli e di esseri viventi. Sente in se stesso le responsabilità e la forza di un Universo intero. Vi è un’azione umana che matura a poco a poco sotto la moltitudine degli atti individuali. La monade umana è da tempo costituita. Quella che si sviluppa è l’animazione (l’assimilazione) dell’universo da parte della monade, la realizzazione cioè di un pensiero umano consumato. Il secondo punto da rilevare è che rispetto agli avi, l’uomo di oggi può agevolmente farsi cosciente dei legami con i suoi simili e con la natura, e la sua coscientizzazione allarga la sua stessa personalità e il suo corpo reale: ” i nostri padri si consideravano come interamente contenuti nei limiti dei loro anni terrestri e del loro corpo. Noi abbiamo fatto esplodere queste dimensioni ristrette e queste pretese. Umiliati e ingranditi dalle nostre scoperte, noi ci accorgiamo, a poco a poco, di essere avvolti in prolungamenti immensi; e, come risvegliati da un sogno, ci rendiamo conto che la nostra regalità sta nel servire, quali atomi intelligenti, l’opera in corso nell’universo “. La materia, secondo Teilhard, porta fin dalla sua origine la “coscienza” come principio organizzativo sicchè l’evoluzione non è processo dterministico, ma anche teleologico. L’evoluzione dalla pre-vita (mondo inorganico) alla vita (“biosfera”) tende alla produzione del mondo dell’uomo e del pensiero (“noosfera”) , come al suo culmine. L’uomo non è però il punto finale: l’universo e l’uomo tendono a un punto Omega: il Cristo cosmico, punto di aggregazione di tutta l’umanità. ” Sarà l’opzione finale: un mondo che si ribella o un mondo che adora. Allora, su un atto che compendierà il lavoro dei secoli, su un atto (finalmente e per la prima volta totalmente umano), la giustizia passerà e tutte le cose saranno rinnovate “.
JOHN LANGSHAW AUSTIN
A cura di Antonino Magnanimo
“ Occorre fare attenzione alle trappole che il linguaggio ci prepara perché il mondo delle parole è caratterizzato da arbitrarietà e da inadeguatezza rispetto al mondo delle cose. “
John Langshaw Austin nasce a Lancaster il 26 marzo 1911. I suoi interessi vanno dalle ricerche di analisi linguistica a quelle sul pensiero antico. Si è dedicato prevalentemente all’insegnamento al Christ Church College dell’Università di Oxford dal 1952 fino alla morte, sopraggiunta prematuramente l’8 febbraio 1960. La sua filosofia si inserisce nella tradizione dell’analisi del linguaggio ordinario, prevalente a Oxford e Cambridge tra gli anni ’40 e gli anni ’50. Fondamentali sono le sue ricerche sui cosiddetti ” speech acts ” (“atti linguistici”), esposte in lezioni tenute tra il 1951 e il 1955, pubblicate poi con il titolo ” How to do Things with Words ” ( ” Come fare cose con le parole “), dove viene introdotta la nozione di “enunciato performativo”. La teoria degli atti linguistici (distinti in locutori, illocutori e perlocutori a seconda che l’enunciato sia descrittivo, esprima un’intenzione o un’azione del parlante o infine un’emozione, preghiera o persuasione) fa di Austin uno dei più fini analisti del linguaggio ordinario. Nel saggio ” Altre menti ” (1946) critica la concezione della conoscenza come stato interno del soggetto. In vita pubblicò soltanto articoli, ora raccolti in ” Saggi Filosofici ” (1961), intraduzione italiana di Guerini e associati, Milano 1990. Postumi sono stati pubblicati da colleghi e allievi alcuni importanti corsi e manoscritti: ” Senso e sensibilia “, da un corso del 1947, pubblicato nel 1964 da Warnock, traduzione italiana Lerici, Roma 1968; ” Come fare cose con le parole “, da un corso del 1955, pubblicato nel 1964 da Urmson, traduzione italiana Marietti, Genova 1987. Austin è originale rappresentante della filosofia analitica , indirizzo di pensiero che si richiama a Moore e alla seconda fase del pensiero di Wittgenstein, ma anche a Russell e a Frege. I suoi principali esponenti fanno capo alle università inglesi di Cambridge e Oxford e a quella di Harvard, negli Stati Uniti. L’analisi a cui fa riferimento la filosofia analitica ha avuto una pluralità di significati. Quello prevalente ha identificato la filosofia con una sistematica e minuziosa analisi del linguaggio, volta, da un lato, ad esaminare i problemi posti dal linguaggio, con gli errori e i fraintendimenti che esso comporta, e, dall’altro, a individuare e a risolvere problemi chiarendo il significato delle proposizioni adottate. Anche se continueranno ad esservi sostenitori della necessità di costruire un “linguaggio perfetto” (i Costruttivisti) , la filosofia analitica ha, in larga misura, abbandonato il presupposto dell’assolutezza del linguaggio ideale e della messa in discussione del linguaggio ordinario in nome di un linguaggio ritenuto rigoroso e scientifico. La filosofia analitica svolge soprattutto un’opera di ricerca e di chiarificazione concettuale e linguistica con la quale studia non solo il linguaggio scientifico, ma anche il linguaggio comune tanto da venire designata anche come “filosofia del linguaggio ordinario”. Intende il significato dei termini non come corrispondenza fra essi ed elementi della realtà (come aveva sostenuto il primo Wittgenstein), ma in riferimento al loro uso e alla correttezza di tale uso rispetto alle regole prescritte dal sistema linguistico di cui essi fanno parte. L’analisi logico-linguistica viene intesa come opera di chiarificazione concettuale volta a risolvere problemi. Se ne mette, perciò, in rilievo la funzione euristica, cioè la capacità di trovare soluzioni ai problemi teorici ma si punta anche a ricostruire una “geografia dei concetti” del nostro pensiero. Vi è una costante attenzione verso i più disparati tipi di linguaggio, verso le concrete forme d’uso dei linguaggi, piuttosto che verso i loro princìpi logico-formali. Di qui anche l’interesse per una grande varietà di discipline, per i loro linguaggi e significati: dall’etica alla politica, dalla psicologia alla matematica, alla storiografia, alla religione. La filosofia analitica esprime anche un interesse positivo per l’uso linguistico dei termini nelle proposizioni della metafisica che non vengono trattate come pseudo-proposizioni, cioè proposizioni prive di senso (come aveva fatto, ad esempio, Carnap) ma solo studiate con lo scopo di comprendere quel particolare “gioco linguistico”, lo specifico uso dei termini e delle proposizioni che esso adotta e che è determinato dalle regole interne al gioco stesso. Austin insieme a Ryle domina la scena intellettuale di Oxford nel secondo dopoguerra. In lui l’appello al linguaggio ordinario acquista maggior peso. Il linguaggio ordinario va preso in massima considerazione perché è “ricco” e quindi può costituire un utile strumento di analisi e paragone per il filosofo che lavora in aree “filosoficamente calde” e che si sono sviluppate magari sotto il segno della super-semplificazione. Austin assume il linguaggio ordinario come oggetto privilegiato dell’analisi filosofica, ponendosi il compito di fare una specie di inventario delle più comuni espressioni che vi sono usate. Il linguaggio ordinario costituisce un oggetto di studio molto più ricco e significativo di quelli offerti dai saperi altamente formalizzati. Mentre, infatti, i filosofi studiano concetti astratti e perciò generalissimi e semplificatori, gli analisti devono concentrarsi sui concetti del linguaggio ordinario, in quanto ricchi di sfumature e di una vasta gamma di significati che solitamente vengono trascurati dal filosofo tradizionale. Per Austin bisogna dedicarsi all’analisi linguistica in filosofia, perché le parole, che sono uno strumento per noi importantissimo, non ci inducano in inganno. Occorre fare attenzione, dunque, alle ” trappole che il linguaggio ci prepara “, perché il mondo delle parole è caratterizzato da arbitrarietà e da inadeguatezza rispetto al mondo delle cose. L’analisi del linguaggio, delle parole, delle loro definizioni, delle loro etimologie, è un lavoro preliminare essenziale per impostare bene le questioni teoriche e avviarne la soluzione. Il filosofo inglese non considera questo lavoro sul linguaggio come sostitutivo e alternativo rispetto ad altri metodi filosofici, ma come un’attività preliminare all’indagine filosofica e, più in generale, a quella teorica. Naturalmente, fa presente Austin, quest’appello al linguaggio comune non è l’ultima parola in filosofia; ma, si noti, essa è la prima. Scrive Austin in ” Una difesa per le scuse ” (1956): ” noi adoperiamo una raffinata consapevolezza dei termini per affinare la nostra percezione dei fenomeni “. In ” Come far cose con parole ” (1962) esamina quelle espressioni (enunciati performativi) con le quali noi non tanto parliamo di cose quanto piuttosto facciamo cose. Filosofi del linguaggio ordinario, nel senso prima precisato, i filosofi di Oxford hanno prestato particolarmente attenzione al linguaggio:
- etico-giuridico ( ” Il linguaggio della morale ” di Hare; ” Filosofia morale contemporanea ” di Warnock);
- storiografico (Gardiner, ” La natura della spiegazione storica “; Dray, ” Leggi e spiegazione in storia “;
- religioso (Flew, Hare, Hich, Mitchell);
- metafisico (Strawson, Hare, Hampshire, Waismann).
Austin è noto come l’autore della teoria degli atti linguistici . Più che l’aspetto descrittivo del linguaggio, a cui la filosofia ha dato molto spazio, essenziale è lo studio delle funzioni, cioè degli usi linguistici. Ogni parola o proposizione ha, infatti, più usi, ciascuno dei quali va considerato distintamente. La tesi di Austin è che si debba evidenziare non solo il carattere descrittivo del linguaggio, ma anche quello operativo. Egli parla, quindi, della necessità di valorizzare adeguatamente la funzione di prestazione (“performance”) del linguaggio, quella, cioè, nella quale esso si configura come un fare, legato all’azione, all’esecuzione di atti. Austin distingue, così, gli “enunciati constativi” dagli “enunciati performativi” o operativi: gli enunciati constativi constatano dei fatti e come tali li descrivono; gli enunciati performativi compiono azioni e, in tal modo, tendono a realizzare modifiche nella situazione esistente. I primi possono essere veri o falsi, i secondi possono essere efficaci o inefficaci, cioè avere o non avere successo, realizzarsi o meno, senza che ci si debba chiedere se siano veri o falsi. Essi non descrivono un evento o un’azione, ma servono proprio a compiere quell’azione. Successivamente, Austin accantona tale distinzione e sviluppa la tesi della funzione operativa, attiva, del linguaggio mediante una teoria degli atti linguistici, secondo la quale ogni espressione linguistica è un atto: anche l’enunciato ritenuto constativo è un’azione (ad esempio, dire “domani vado a…” equivale a un impegno, a un atto, è enunciazione performativa e non solo indicativa e descrittiva). Così, egli distingue tre possibili e distinti aspetti di un atto linguistico, entro i quali classifica gli enunciati inizialmente descritti come constativi e performativi:
- l’ atto locativo è quello con cui si dice qualcosa dotato di significato (ad esempio, “quella porta è aperta”) e può essere studiato dal punto di vista fonetico, lessicale o grammaticale;
- l’ atto illocutivo è un atto effettuato col dire qualcosa: esso, oltre a informare, constatando una data realtà (ad esempio, il fatto che quella porta sia effettivamente aperta), può contenere un’esclamazione, una preghiera o un suggerimento (ad esempio, l’invito a chiudere quella porta aperta). L’atto illocutivo ha quindi una forza collegata alla reale intenzione di chi compie quell’atto linguistico.
- L’ atto perlocutivo è l’atto compiuto per il fatto di dire qualcosa: quello per cui si raccoglie il suggerimento (o comando, invito, ecc.) implicito in quell’atto “illocutorio” e si esegue ciò che viene suggerito (si chiude, cioè, la porta). Mette in evidenza l’interattività costitutiva del linguaggio, cioè gli effetti sugli interlocutori che l’atto linguistico determina.
Queste distinzioni sono ormai patrimonio comune della Filosofia analitica, così come lo è il senso del suo appello al linguaggio ordinario e la visione della finalità dell’analisi.
JOHN RAWLS
L’americano John Rawls è unanimemente considerato uno dei più influenti filosofi politici del Novecento. Anche i suoi più strenui oppositori lo ammettono, come, ad esempio, Robert Nozick, il quale ha affermato che coloro che si occupano di questi temi o devono lavorare con Rawls o devono spiegare perché non farlo. E Amartya Sen giunge a considerare la teoria della giustizia rawlsiana ” di gran lunga la più influente – e […] più importante – che sia stata presentata in questo secolo “. Nato a Baltimora nel 1921, John Rawls ha studiato a Princeton e a Oxford e ha insegnato nella prestigiosa Università di Harvard. I suoi scritti principali sono: “Una teoria della giustizia” (1971) e “Liberalismo politico” (1993). La giustizia è per Rawls ” il primo requisito delle istituzioni sociali “, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Come una teoria, egli argomenta, deve essere abbandonata o modificata se non risulta vera, così le leggi e le istituzioni devono essere abolite o riformate se sono ingiuste, anche se fornissero un certo grado di benessere alla società nel suo complesso, in quanto “ ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri ” (“Una teoria della giustizia”). Già in queste battute iniziali è possibile individuare la posizione dell’autore, nettamente contraria all’utilitarismo, disposto a sacrificare gli interessi degli individui sull’altare della Società, come Rawls stesso afferma chiaramente nella critica all’utilitarismo classico contenuta nel suo testo. Il ruolo della giustizia così configurato non consente, secondo Rawls, che possa definirsi giusta una società che pensi di poter controbilanciare i sacrifici imposti a pochi con una maggiore quantità di vantaggi goduti da molti. In una società giusta si devono dare per scontate ” eguali libertà di cittadinanza “. Ad avviso di Rawls, l’eguaglianza nel godimento delle libertà fondamentali è un diritto assoluto, che non ammette eccezioni nè compromessi. L’unico caso in cui sia tollerabile un’ingiustizia perpetuata ai danni della libertà è quello in cui si è costretti ad evitare un’ingiustizia ancora maggiore come, ad esempio, nel caso desunto dalla storia antica in cui rendere schiavo il prigioniero di guerra (privandolo della libertà personale) rappresenta un passo avanti rispetto all’usanza di ucciderlo. Dopo aver chiarito queste posizioni di fondo sulla giustizia (e sul primato della libertà individuale), si pone, tuttavia, il problema di fondare su basi razionali alcuni essenziali criteri di giustizia che possano valere per tutti gli uomini, intesi kantianamente come esseri razionali interessati a cooperare tra loro. Si tratta di arrivare a delineare alcuni princìpi di giustizia, razionalmente condivisi da tutti i membri della società, sulla cui base, poi, decidere circa le pretese di accesso ai beni primari da parte dei singoli. Rawls si rende conto che gli individui di una società hanno obiettivi e fini diversi; ma proprio per questo ritiene necessario che gli uomini raggiungano un comune accordo sui criteri della equa distribuzione dei beni essenziali. In altre parole, è necessario stabilire in via preliminare una ” pubblica concezione di giustizia “, che formi ” lo statuto fondamentale di un’associazione umana bene-ordinata “. Da questo punto di vista ben si capisce come mai Rawls insista tanto nel ritenere che l’idea più importante della società non sia quella di “bene”, ma quella di “giusto”. Anzi, egli sostiene che una società si dirà “bene-ordinata” non solo se tende a promuovere il benessere dei suoi membri, ma se è anche regolata da una concezione pubblica della giustizia, che richiede due condizioni: a) che ogni individuo accetti e sappia che gli altri accettano i medesimi princìpi di giustizia; b) che le istituzioni fondamentali soddisfino in modo riconosciuto tali princìpi. In mancanza di un accordo tra i membri di una società su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, osserva Rawls, risulta più difficile stabilire legami vantaggiosi di convivenza civile, in quanto diventano dominanti il sospetto e l’ostilità. II problema che ora si pone è quello di giustificare razionalmente le regole di giustizia da far valere all’interno delle moderne democrazie o, come preferisce l’autore, delle società bene-ordinate. Rawls ha avuto il merito di mettere in scena (nel senso teatrale dell’espressione) nel suo libro il contesto in cui vengono scelte le regole fondamentali del gioco sociale. Parte del successo della sua opera, come è stato osservato da alcuni critici, può ascriversi proprio al suddetto procedimento di rappresentazione, che colpisce e affascina la fantasia del lettore. Rawls immagina una situazione iniziale ( original position ) in cui i singoli individui scelgono i princìpi di giustizia in condizione di assoluta eguaglianza, in quanto sono privi di un certo numero di informazioni relative alla propria condizione futura nella società. La scelta viene, cioè, effettuata sotto ” un velo di ignoranza ” ( veil of ignorance ). Infatti, nota Rawls, coloro che fossero a conoscenza di essere ricchi potrebbero considerare ingiuste eventuali imposte a scopo assistenziale, mentre coloro che fossero a conoscenza del loro stato di povertà sarebbero molto probabilmente a favore di quelle stesse imposte. Il “velo di ignoranza” ha il compito di escludere la conoscenza di quei fattori contingenti che porrebbero gli uomini in conflitto tra loro, rendendo impossibile qualsiasi accordo sui princìpi di giustizia. Il “velo di ignoranza” rende eguali le parti nella posizione originaria: infatti, tutti hanno gli stessi diritti nella procedura di scelta dei princìpi e ognuno può avanzare proposte razionali da sottoporre al giudizio e all’accordo altrui. Le parti vengono, dunque, presentate come razionali e reciprocamente disinteressate, in quanto nessuno può pensare di avvantaggiarsi dalla scelta di taluni criteri. I princìpi di giustizia che ne scaturiscono sono il risultato di un accordo equo, proprio perché conseguito in una condizione iniziale equa. In questo senso la teoria rawlsiana può legittimamente definirsi “una teoria della giustizia come equità “. Giustizia come equità significa che i princìpi di giustizia sono appunto quelli che le persone razionali, preoccupate della propria sorte, sceglierebbero in condizione di eguaglianza iniziale, qualora cioè nessuno fosse manifestamente avvantaggiato o svantaggiato da contingenze sociali o naturali (velo d’ignoranza). Rawls attribuisce a Kant l’ispirazione della sua teoria. Come l’etica kantiana è sostanzialmente incentrata sulla scelta autonoma di persone razionali, libere ed eguali, così quella di Rawls, grazie al velo di ignoranza, fa discendere la giustizia dall’accordo di persone libere e indipendenti, in quanto non determinate da motivi egoistici e contingenti. Si tratta di un’etica dell’autonomia, che esclude ogni eteronomia morale, come chiaramente dice Rawls nel seguente brano:
“ Credo che Kant abbia sostenuto che una persona agisce autonomamente quando i princìpi della sua azione sono scelti da lui come l’espressione più adeguata possibile della sua natura di essere razionale libero ed eguale. I princìpi in base ai quali agisce non vanno adottati a causa della sua posizione sociale o delle sue doti naturali, o in funzione del particolare tipo di società in cui vive, o di ciò che gli capita di volere. Agire in base a questi princìpi significherebbe agire in modo eteronomo. Il velo di ignoranza priva le persone nella posizione originaria delle conoscenze che le metterebbero in grado di scegliere princìpi eteronomi. Le parti giungono insieme alla loro scelta, in quanto persone razionali libere ed eguali, conoscendo solo quelle circostanze che fanno sorgere il bisogno di princìpi di giustizia “.
Inoltre, approfondendo il rapporto con Kant, Rawls proclama che i princìpi di giustizia sono da considerarsi come “imperativi categorici” nel senso kantiano. Infatti, con “imperativo categorico” Kant intende quel principio di condotta morale che si addice a una persona in virtù della sua natura di essere razionale, libero ed eguale. In altri termini, l’imperativo morale kantiano è categorico proprio perché prescinde da scopi o desideri particolari. Al contrario, un imperativo è ipotetico in quanto ci indirizza a fare certe mosse in vista di certi fini specifici: ” agire a partire dai princìpi di giustizia significa agire a partire da imperativi categorici, nel senso che essi si applicano al nostro caso indipendentemente dai nostri scopi particolari “. A questo punto i riferimenti teorici di Rawls sono chiari: abbandonata la tradizione utilitarista, dominante nell’area anglo-americana, egli si riallaccia, anche se in termini nuovi, al contrattualismo che aveva trovato in Kant il suo momento più alto: “ è mio scopo presentare una concezione della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale, quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau e Kant “. C’è, però, da osservare che il neo-contrattualismo di Rawls si differenzia dal contrattualismo classico in un punto fondamentale: il contratto sociale di Hobbes, Locke, Rousseau, Kant aveva come fine quello di giustificare razionalmente il potere dello Stato, cioè quel potere che non ammette al di sopra di sé altro potere, non quello di proporre un modello di società giusta, che è al contrario lo scopo della teoria di Rawls. Definito il contesto ideale in cui gli esseri umani dotati di ragione e di senso morale potrebbero accordarsi sulla scelta equa dei princìpi di giustizia, Rawls procede a indicare in concreto tali princìpi. Naturalmente, si tratta pur sempre di una scelta etica, che ha il compito di prospettare solo alla lontana una determinata società politica. In altri termini, i princìpi di giustizia che stiamo per tratteggiare non vanno intesi come norme di comportamento pratico: essi sono dei criteri orientativi di carattere etico, bisognosi di essere ulteriormente tradotti in termini di prassi politica e istituzionale, una volta che gli uomini abbandonino la condizione originaria e il velo di ignoranza. Il primo principio afferma che ogni persona ha un eguale diritto al più esteso sistema di libertà fondamentali , compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti gli altri. Il secondo principio sostiene che le ineguaglianze economiche e sociali, ad esempio nella distribuzione del potere e della ricchezza, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ognuno (in particolare per i membri meno avvantaggiati della società) e se sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti. Rawls ha dato varie formulazioni dei due princìpi, ma l’aspetto più importante e comune a tutte è il fatto che la scelta deve prescindere da intenti particolaristici (pensare a se stessi) o utilitaristici (pensare alla maggioranza), e deve invece essere compiuta in nome dell’universalità della natura umana. In questo senso, non è ammissibile che ” alcuni abbiano meno affinchè altri prosperino “; ciò può essere utile, ma non è giusto (è questo il succo della critica rawlsiana all’utilitarismo). Invece, ” i maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un’ingiustizia, a condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo “. La libertà è da Rawls considerata come il primo e fondamentale principio di giustizia: essa deve essere goduta in modo eguale da tutti. Spingendo più nei particolari l’analisi, Rawls articola varie tipologie di libertà fondamentali:
a) la libertà politica: diritto di voto, attivo e passivo;
b) la libertà di parola e di riunione;
c) la libertà di pensiero;
d) la libertà personale e quella di possedere la proprietà privata;
e) la libertà dall’arresto e dalla detenzione arbitrari.
Queste libertà sono prioritarie rispetto al secondo principio di giustizia che, come abbiamo detto, afferma l’equa distribuzione del reddito e la pari opportunità di accesso alle cariche pubbliche. Tutti i valori sociali – libertà e opportunità, ricchezza e reddito, e le basi del rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale a meno che una distribuzione ineguale, di uno o di tutti questi valori, non vada a vantaggio di ciascuno. L’ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti. Rawls ha dedicato maggiore spazio all’analisi e alla spiegazione del secondo principio di giustizia, che risulta effettivamente il più difficile da definire (chi sono, ad esempio, i “meno avvantaggiati”?). Egli reputa naturale l’esistenza all’interno delle società di gruppi meno favoriti (e ritiene, quindi, che ciò non costituisca ingiustizia); pensa, però, che occorra una “riparazione” verso i meno fortunati da parte della società giusta. Le società aristocratiche, egli osserva, sono ingiuste perché assumono le ineguaglianze naturali come una condizione necessaria ed eterna sulla cui base le persone vengono ingabbiate in caste chiuse. Una società giusta, al contrario, deve praticare il “principio di riparazione” secondo il quale se ” si vuole assicurare a tutti un’effettiva eguaglianza di opportunità, la società deve prestare maggiore attenzione a coloro che sono nati con meno doti o in posizioni sociali meno favorevoli. L’idea è quella di riparare i torti dovuti al caso, in direzione dell’eguaglianza. Per ottenere questo obiettivo dovrebbero essere impiegate maggiori risorse nell’educazione dei meno intelligenti invece che in quella dei più dotati, almeno in un determinato periodo della vita, quello dei primi anni di scuola “. In termini più generali, Rawls adotta come elemento cardine della sua teoria della giustizia il cosiddetto ” principio di differenza “, che egli collega all’idea di fratellanza (contenuta nella celebre rivendicazione dei rivoluzionari francesi del 1789, insieme alla libertà e all’eguaglianza). ” Il principio di differenza sembra corrispondere al significato naturale della fraternità; cioè, all’idea di non desiderare maggiori vantaggi, a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene. La famiglia, in termini ideali, ma spesso anche in pratica, è uno dei luoghi in cui il principio di massimizzare la somma dei vantaggi è rifiutato. In generale, i membri di una famiglia non desiderano avere dei vantaggi, a meno che ciò non promuova gli interessi dei membri restanti. Il voler agire secondo il principio di differenza ha esattamente le stesse conseguenze. Coloro che si trovano nelle condizioni migliori desiderano ottenere maggiori benefìci soltanto all’interno di uno schema in cui ciò va a vantaggio dei meno fortunati “. A volte, osserva ancora l’autore, si pensa che l’ideale della fraternità non si addica alla società, in quanto implica legami affettivi e sentimenti che non è realistico attendersi dai membri del corpo sociale, ma ciò dimostra semplicemente che la nostra democrazia è ancora incompleta, dal momento che dei tre princìpi proclamati nel 1789 la fraternità è quello più trascurato. Al contrario, Rawls propone una concezione della società anti-meritocratica e cooperativa, per cui i membri, se agiscono razionalmente, non possono che ritenere dannose le ingiustizie. Il principio di differenza viene da Rawls collegato alla regola del maximin (abbreviazione di maximum minimorum ), in base alla quale bisogna migliorare il più possibile la situazione di coloro che stanno peggio o, con un’altra formulazione, le ineguaglianze sono ammesse quando massimizzano, o almeno contribuiscono generalmente a migliorare, le aspettative di lungo periodo del gruppo meno fortunato della società . Alla regola del maximin si attengono, secondo Rawls, gli individui nella posizione originaria, quando, incerti sulla propria condizione sociale futura (non sanno se saranno tra i più o i meno avvantaggiati), scelgono razionalmente la soluzione più equa dal punto di vista morale. Da sottolineare, infine, l’enfasi con cui Rawls collega i suoi princìpi di giustizia agli ideali democratici del 1789: “ possiamo associare alle tradizionali idee di libertà, fraternità ed eguaglianza l’interpretazione democratica dei due princìpi di giustizia nel modo che segue: la libertà corrisponde al primo principio, l’eguaglianza all’idea di eguaglianza del primo principio unita all’eguaglianza di equa opportunità, e la fraternità al principio di differenza “. In “Political liberalism” (1993) Rawls ha rielaborato la sua teoria della giustizia in direzione di un liberalismo politico attento alla sfida del pluralismo, cioè impegnato a risolvere il problema ” com’è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e eguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili, benché ragionevoli? ” (“Liberalismo politico”). In “Una teoria della giustizia” la condivisione dei princìpi di giustizia era presentata come la condivisione di una sorta di dottrina morale. In “Liberalismo politico” si afferma invece che la teoria della giustizia è una dottrina politica autonoma rispetto a qualsiasi dottrina religiosa, filosofica e morale (poiché in caso contrario perderebbe la sua universalità), anche se cerca, in esse, un consenso supplementare. Infatti, pur essendo indipendente da ogni dottrina comprensiva ragionevole (e quindi da ogni concezione metafisica ed epistemologica), la concezione politica della giustizia cerca un “consenso per intersezione” ( overlapping consensus ) da parte delle varie dottrine filosofiche, morali e religiose ecc. Per queste caratteristiche, il liberalismo politico appare come la risposta più funzionale all’esigenza odierna di una società bene ordinata basata sul pluralismo e sulla giustizia. Nell’ambito di questi approfondimenti, Rawls ha riformulato i due princìpi di giustizia nel modo seguente: a) ogni persona ha uguale titolo a un sistema pienamente adeguato di uguali diritti e libertà fondamentali; l’attribuzione di questo sistema a una persona è compatibile con la sua attribuzione a tutti, ed esso deve garantire l’equo valore delle uguali libertà politiche, e solo di queste; b) le diseguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, essere associate a posizioni e cariche aperte a tutti, in condizioni di equa eguaglianza delle opportunità; secondo, dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società. Questi sviluppi, ammonisce Rawls in una nota, non eliminano, semmai confermano, la sostanza del suo liberalismo egualitario: ” qualcuno ha pensato che sviluppando le idee del liberalismo politico io intendessi rinunciare alla concezione egualitaria della Teoria. Nessuna delle mie revisioni implica […] un simile cambiamento, e penso che questo sospetto sia infondato “.
ROBERT NOZICK
L’opera di Rawls ha destato un acceso dibattito, con prese di posizione a favore e contro la sua teoria della giustizia. Tra le posizioni contrarie spicca per importanza quella del filosofo statunitense Robert Nozick (nato nel 1938), anche lui professore ad Harvard, che nell’opera “Anarchia, stato e utopia” del 1974 ha espresso un punto di vista opposto a quello di Rawls, rigettando sia l’anarchismo che lo statalismo e sostenendo la tesi utopica di una libertà quasi illimitata dell’individuo . Pur partendo, come Rawls, da premesse ispirate al liberalismo classico e da un’analoga posizione critica nei confronti dell’utilitarismo, Nozick sostiene una visione radicalmente individualista della vita, che comporta la drastica riduzione della sfera di intervento dello Stato negli affari dei cittadini (“Stato minimo”). Una posizione questa che, da un lato, lo allontana dalla visione democratica di Rawls e, dall’altro, lo avvicina ai programmi della destra neo-liberista e alle teorie di Friedrich von Hayek (1899-1992), a cui egli esplicitamente si richiama e che sono aspramente critiche nei confronti delle Politiche del Welfare State (Stato sociale). Nozick si riallaccia alla tradizione liberale classica, da John Locke a John Stuart Mill per sostenere l’assoluta priorità degli individui sulla società . Egli è convinto che oltre gli individui non si dia altra entità significativa. L’assunto di fondo della sua filosofia è che ci sono soltanto individui , con le loro vite personali e i loro diritti. Con l’espressione “diritti” Nozick intende i diversi confini che limitano le legittime sfere di azione dei singoli: queste sfere sono “inviolabili”, ovvero non possono essere varcate senza il consenso dell’individuo. Analogamente a Locke, Nozick ritiene che l’individuo abbia il diritto di perseguire liberamente (cioè, libero da costrizioni esterne) i propri piani di vita attraverso il diritto alla proprietà , che, se posseduto a giusto titolo, non può subire nessuna limitazione. Per quanto riguarda il tema della giusta proprietà, Nozick (in sintonia sempre con Locke) ci offre pagine di grande rilevanza e profondità. Il suo ragionamento si compone di tre argomenti. Il possesso della proprietà è giusto se rispetta queste condizioni: 1) giustizia nell’acquisizione : valida acquisizione originaria da parte di qualcuno di cose non possedute da nessuno o tramite donazione; 2) giustizia nei trasferimenti : valido passaggio della proprietà da individuo a individuo fondato cioè, su uno scambio volontario e non imposto violentemente o fraudolentemente; 3) conclusione: la giustizia nel possesso della proprietà è storica, cioè dipende dalla correttezza dei vari trasferimenti che la proprietà ha subito a partire dalla validità dell’acquisizione originaria. A questo punto si pone una questione molto importante: se i diritti degli individui sono talmente forti ed estesi, quale spazio resta allo Stato e alle sue funzioni? La risposta di Nozick e che lo Stato deve interferire il meno possibile nella vita individuale: lo Stato deve essere minimo e non intrusivo. I suoi compiti sono quelli del “guardiano notturno” della concezione liberale classica, cioè di garantire nell’ambito del proprio territorio il rispetto della legge, attraverso la punizione (con l’uso della forza) per chi trasgredisce. Soltanto uno stato minimo, ridotto strettamente alle funzioni di protezione contro la forza, il furto, la frode, di esecuzione dei contratti, e così via, è giustificato; qualsiasi stato più esteso violerà i diritti delle persone di non essere costrette a compiere certe cose, ed è ingiustificato. Al di fuori di questi compiti lo Stato non può e non deve andare, altrimenti lede i diritti degli individui: lo stato non può usare il suo apparato coercitivo allo scopo di far sì che alcuni cittadini ne aiutino altri, o per proibire alla gente attività per il suo proprio bene e per la sua propria protezione. Uno Stato che pensasse di provvedere a redistribuire il reddito e a riequilibrare le condizioni sociali, perseguendo politiche di “riparazione” nei confronti delle persone meno avvantaggiate, è uno Stato che non considera le singole persone come fini, ma semplicemente come mezzi in vista del bene della Società, intesa come la maggior parte, degli uomini (alla maniera dell’utilitarismo) o la totalità (alla maniera di Rawls). Secondo Nozick, non si può estendere alla società il discorso che vale per gli individui: ” come individuo, ciascuno di noi a volte preferisce sottoporsi a dolori o sacrifici per ottenere un benessere maggiore o per evitare un danno maggiore […] Perché non sostenere, analogamente, che qualche persona deve fare sacrifici da cui altre persone trarranno vantaggi maggiori, per amore del bene sociale complessivo. Ma un’entità sociale, il cui bene sopporti qualche sacrificio per il proprio bene, non esiste. Ci sono solo individui, individui differenti, con le loro vite individuali. Usando uno di questi individui per il vantaggio di altri, si usa lui e si giova agli altri e basta. Che cosa succede? Che gli viene fatto qualcosa a profitto di altri. Ciò è nascosto sotto il discorso del bene sociale complessivo “. Comportandosi in questo modo, osserva Nozick, lo Stato non rispetta e non considera sufficientemente il fatto che ogni persona è una persona separata e che la sua è l’unica vita che possiede. Quella persona non riceve dal suo sacrificio un bene che ne superi il valore, e nessuno ha facoltà di imporglielo, e meno di tutti uno stato o un governo che pretenda la sua fedeltà e che perciò dev’essere scrupolosamente neutrale nei confronti dei propri cittadini. In definitiva, Nozick è convinto che non sia giustificato alcun sacrificio da parte di un individuo per solidarietà con gli altri. Questa rigida visione individualista viene in parte estesa anche agli animali , che non devono essere considerati oggetti nè mezzi per accrescere il piacere degli uomini. Nozick – in una comunanza di sentire con le tesi animaliste di alcuni filosofi attivi in quegli stessi anni in area anglo-americana, come Singer – ritiene illecita la caccia, anche perché il cibarsi di animali non è un fatto necessario alla salute, ma costituisce semmai un “vantaggio supplementare” che soddisfa soltanto il gusto. Pertanto, egli conclude, non è giusto usare gli animali per motivi futili, quali un incremento di benessere o di felicità per gli uomini. A questo punto Nozick ripropone una nota considerazione avanzata già dal filosofo utilitarista Bentham, secondo cui la domanda circa la differenza tra uomini e animali non è se questi ultimi possano ragionare o parlare, ma se possano soffrire. Posta la radicale diversità degli individui, Nozick passa a spiegare in che modo gli individui e i gruppi possano realizzare piani di vita così profondamente differenti. Se Wittgenstein, Russell, Picasso, Mosè, Einstein, Socrate, Ford, Gandhi, Sinatra, Colombo, Freud, Edison, Jefferson… voi e i vostri genitori – dice in tono provocatorio Nozick – siete individui differenti, sarà possibile trovare “un genere di vita” unico che sia il migliore per ciascuna di queste persone? Nozick pensa che dobbiamo abbandonare l’utopia di una società perfetta, valida per tutti, e che, al contrario, dobbiamo prendere in considerazione l’utopia di un luogo in cui la gente sia libera di associarsi volontariamente per tentare di attuare la propria individuale visione della vita, senza imperla agli altri. L’utopia, dunque, dev’essere una struttura-per-la-libertà, che superi sia l’anarchia (di un ipotetico “stato di natura”) sia lo Stato pianificatore (che obbliga qualcuno a fare sacrifici per aiutare altri). No all’anarchia dello stato di natura e allo statalismo, sì all’utopia della libertà: ecco spiegato il titolo dell’opera principale di Nozick, che costituisce un’ottima sintesi della sua filosofia.
JACQUES MARITAIN
A cura di Giancarlo Galeazzi
“L’ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e sociale dell’umanità è l’inaugurazione di una città fraterna, la quale non comporta la speranza che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si ameranno fraternamente, sibbene la speranza che lo stato esistenziale della vita umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione, la cui misura è la giustizia e l’amicizia. ” (“Per la giustizia”)
VITA E OPERE
La vita di Jacques Maritain (nato a Parigi nel 1882, morto a Tolosa nel 1973) è suddivisibile in quattro periodi. Nel periodo giovanile,tra il 1900 e il 1906, si collocano alcuni incontri fondamentali: oltre che con Raissa Oumancçoff (Rostov, 1883 – Parigi, 1960), che divenne sua moglie, con Péguy, Bergson, Bloy, che influì sulla conversione dei Maritain avvenuta nel 1905. Nel secondo periodo, che va dal 1905 al 1930, Maritain visse in Francia (salvo il biennio degli studi di biologia a Heidelberg presso H. Dreisch) e contribuì alla rinascita del tomismo, pubblicando nel 1914 la sua prima opera su “La filosofia bergsoniana” e nel 1922 il volume intitolato “Antimoderno”, e creando, nello stesso anno, i cosiddetti Circoli tomistici. Dal 1914 è professore di storia della filosofia moderna all’Institut Catholique di Parigi. Dal 1923 a Meudon la casa dei Maritain diventa luogo di incontri culturali di filosofi, teologi, scrittori, poeti, artisti. Prosegue la sua attività di professore (dal 1928 insegna logica e cosmologia) e di conferenziere in Francia e in vari paesi europei e americani. Nel 1926 avviene il distacco dall’ “Action Française”, movimento di destra, per il quale aveva simpatizzato prima della condanna di Pio XI. Dal 1930 al 1960 si colloca un nuovo periodo, che è avviato dallo scritto “Religione e cultura”. Nel 1932 pubblica il suo capolavoro, “Distinguere per unire (o i gradi del sapere)”, e nel 1936 l’opera sua più famosa, “Umanesimo integrale”, che susciterà intorno a Maritain vivaci polemiche. Tra il ’35 e il ’37 prende posizione contro l’invasione dell’Etiopia, il bombardamento di Guernica, la guerra di Spagna. A causa del nazismo i Maritain si trasferiscono negli Stati Uniti (1940-44) e a New York Jacques insegna nelle università di Princeton e della Columbia, e tiene conferenze in numerose città americane. È anche tra gli animatori della resistenza francese. Nel 1942 pubblica ” I diritti dell’uomo e la legge naturale”, l’anno successivo “L’educazione al bivio”, e nel 1944 il volume di metafìsica e morale significativamente intitolato “Da Bergson a Tommaso d’Aquino”. Dal 1944 al 1948 è a Roma quale ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. In questo periodo pubblica due sintetiche ma importanti opere: il “Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente” e “La persona e il bene Comune” (1947). Dal 1948 al I960 i Maritain risiedono nuovamente negli USA, e a Princeton Jacques insegna filosofia morale. Importante anche il suo contributo in tema di diritti umani e di pace. Nel 1951 pubblica il suo capolavoro di filosofia politica, “L’uomo e lo stato”; nel 1953 il suo testo base di estetica, “L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia”; nel 1957 le lezioni “Per una filosofia della storia”; nel 1959 la sua opera pedagogica completa, “Per una filosofia dell’educazione”, e nel 1960 l’esame storico di “Filosofia morale”. Nel 1960, durante uno dei periodici rientri in Francia, Raissa muore a Parigi. L’ultimo periodo va dal 1960 al 1973, quando Maritain vive presso la comunità di Tolosa dei Piccoli Fratelli di Gesù. Nel 1961 riceve dall’Accademia francese il Gran Premio della Letteratura, e nel 1963 riceve il Gran premio nazionale delle Lettere. Durante il Concilio ecumenico Vaticano II è da Paolo VI più volte interpellato su alcune questioni dibattute. Nel 1965 Papa Montini gli consegna il Messaggio dei Padri conciliari agli intellettuali. Nel 1966 pubblica “Il contadino della Garonna” sul concilio e sul dopo-concilio, e il libro pone Maritain al centro di rinnovate polemiche. Nel 1970 entra a far parte dei Piccoli Fratelli di Gesù. La sua ultima opera, “Approches sans entraves”, esce postuma qualche mese dopo la sua morte.
LE DIFFERENZE NEL PENSIERO DI MARITAIN
Sono essenzialmente due le peculiarità che contraddistinguono la filosofìa maritainiana: essa risulta caratterizzata per un verso da unitarietà di ispirazione e per altro verso da articolazione di percorso. Infatti, nell’itinerario speculativo di Maritain possono essere individuati tré periodi diversi e, insieme, può essere rintracciato un filo conduttore che li accomuna. Con ciò si intende dire che, sostanzialmente, il programma di Maritain è rimasto sempre lo stesso, pur se specificato in diversi modi, anche in relazione alla contingenza storico-culturale. Riguardo alla costante, si può dire che il pensiero di Maritain si caratterizza (per usare il titolo di una delle sue prime opere) come antimoderno , nel senso che Maritain sviluppa una decisa critica alla modernità, di cui, peraltro, sa apprezzare certi aspetti; in altre parole, Maritain si caratterizza per un atteggiamento che, seppur critico nei confronti della modernità, non gli impedisce di coglierne gli aspetti positivi, di operare cioè una valutazione che ne mette in luce non solo le ” verità impazzite “, ma anche i ” guadagni storici “. Questi ultimi si possono adeguatamente valorizzare, a condizione di abbandonare l’orizzonte della modernità, vale a dire l’immanentismo, che non permette alla pur valida esigenza di umanesimo di essere effettivamente umanistica. Infatti, non l’umanesimo, ma il suo carattere antropocentrico è ciò che Maritain critica. Pertanto, il suo programma può essere sintetizzato con il titolo di un’altra sua opera, “Umanesimo integrale” (1936): si tratta di un umanesimo antimoderno che attraversa la modernità pervenendo alla ultra-modernità, operando così una serie di acquisizioni oltre che di rifiuti. Quest’opera di discernimento è effettuata grazie al tomismo , inteso come una filosofia cristiana che, ispirandosi a Tommaso, è capace di accogliere e assimilare le anime di verità che si trovano nella cultura moderna e che, liberate dalla loro caratterizzazione immanentistica (o antropocentrica), sono conciliate con altre acquisizioni classiche, producendo un’inedita sintesi che va al di là del premoderno e del moderno, e caratterizza la posizione maritainiana come ultra-moderna (una filosofia per i tempi nuovi). Tale è l’ umanesimo integrale , che è umanesimo (cioè valorizzazione dell’uomo) in termini di integralità antropologica e integrazione assiologica; si tratta infatti di un umanesimo che vuole valorizzare tutto l’uomo, e dunque essere rispettoso della integralità della persona umana, e che vuole valorizzare quanto di positivo c’è nelle diverse concezioni dell’uomo, realizzando una loro feconda integrazione. È, questo, il duplice significato dell’aggettivo “integrale” con cui Maritain qualifica il suo umanesimo, connotato come un ” ideale storico concreto ” da individuare attraverso una pars destruens (la critica all’antropocentrismo) e una pars costruens (la proposta di un nuovo umanesimo). La continuità del pensiero maritainiano non deve far dimenticare la diversità di momenti in cui si articola. Tré sono quelli fondamentali: il primo si colloca negli anni Dieci e Venti del Novecento; il secondo va dagli anni Trenta agli anni Cinquanta; il terzo comprende gli anni Sessanta e Settanta. Queste tré fasi, pur accomunate dal programma di nuovo umanesimo, si differenziano per il diverso modo in cui vengono configurate la parte destruens e quella costruens della riflessione maritainiana. Nel primo periodo la critica è svolta soprattutto nei confronti del positivismo e dell’idealismo , e la proposta si connota come rinascita del tomismo. Nel secondo periodo la critica riguarda per un verso l’individualismo (borghese) e per altro verso il collettivismo (marxista) , e la proposta è quella di una nuova cristianità. Nel terzo periodo la critica concerne il relativismo e il nichilismo e la proposta va in direzione della liberazione dell’intelligenza e di una nuova spiritualità. Lungo questo percorso, Maritain svolge in chiave tomista una riflessione che può definirsi personalista , in quanto l’idea di persona è alla base della critica e della proposta di Maritain in ciascuna fase del suo itinerario speculativo.
LE DIVERSE FASI DEL PENSIERO DI MARITAIN
Nella prima fase del suo pensiero, la posizione di Maritain si caratterizza come reazione alle culture della separazione e dell’identità. La separazione è imputata a quelli che Maritain chiama i ” tré riformatori ” – Lutero, Cartesio e Rousseau (i quali hanno, rispettivamente, opposto natura e grazia, ragione e fede, natura e ragione) – e all’identità operata in diverso modo dall’idealismo e dal positivismo. A tutto ciò Maritain risponde rivendicando il valore del tomismo come filosofia dell’essere incentrato sulla persona, che è da difendere nella sua universalità di contro agli individualismi e nella sua concretezza di contro ai trascendentalismi. In questa prima fase la concezione maritainiana è essenzialmente anti-individualista (contro i tré riformatori) per un verso e anti-monista (contro l’idealismo e il positivismo) per l’altro. La seconda fase vede Maritain impegnato contro gli imperialismi culturali antichi e moderni e contro i totalitarismi ideologici di destra e di sinistra ; è così che Maritain si fa assertore di una epistemologia e di una metafisica esistenziali, caratterizzate dal pluralismo noetico e realistico in alternativa all’ontologismo classico e allo scientismo moderno, non meno che all’idealismo e al positivismo, e si fa anche assertore di un personalismo in termini di difesa della dimensione individuale in alternativa al collettivismo, e della dimensione comunitaria in alternativa all’individualismo. Al liberalismo e al socialismo, che approdano, nei loro esiti estremi, al totalitarismo nazista e a quello sovietico, Maritain oppone il personalismo caratterizzato in senso pluralistico e solidaristico. Sono emblematiche di queste vedute opere come “I gradi del sapere” e “Umanesimo integrale”, che, dal punto di vista della filosofia dell’essere e del sapere per un verso e della filosofia della cultura e della politica per l’altro, sono alternative al neopositivismo, all’esistenzialismo, al marxismo. Quello di Maritain è un umanesimo che s’ispira al Vangelo; ma tale richiamo ha carattere non specificamente confessionale ma etico, non propriamente religioso ma valoriale, mettendo in luce ciò che nella sua radice è motivato cristianamente ma nella sua espressione è aperto universalmente. Da “Lettera sull’indipendenza” del 1935 a “La persona e il bene comune” del 1947, il personalismo maritainiano viene presentato come una terza via; in realtà è una vera e propria via alternativa, che non ha nulla di mediano. Infatti, per quanto conservi il richiamo a certi valori liberali e socialisti (che poi, secondo Maritain, sono valori cristiani secolarizzati), va oltre l’individualismo borghese e il collettivismo marxista, e rifiuta con decisione il loro esito immanentistico e le varie forme di totalitarismo ideologico in cui sboccano, così come il realismo maritainiano dal punto di vista metafisico e noetico si caratterizza per un organico pluralismo , in base al quale si rispettano le articolazioni della realtà e i gradi del sapere, superando gli imperialismi di tipo ontologico e quelli di tipo empiriologico. Nella terza fase, il filosofo nella società (come suona il titolo di un’opera del 1960) si trova impegnato a far valere le ragioni della filosofia dell’essere e della persona in un contesto storico profondamente mutato, per cui deve misurarsi con nuove sfide culturali, sociali, religiose ed educative. Sotto questo profilo opere come i due discorsi sulla pace, “L’uomo e lo stato”, “Il contadino della Garonna” e “Per una filosofia dell’educazione” offrono interessanti indicazioni in direzione di una rinnovata ispirazione personalista capace di far fronte al nichilismo veritativo, al machiavellismo politico, al secolarismo antireligioso e al totalitarismo tecnocratico. In particolare, “L’uomo e lo stato” condivide con le opere precedenti l’ispirazione personalista (evidente fin dal titolo con la priorità data all’uomo, di cui l’opera rivendica il primato quale persona rispetto allo Stato quale strumento), ma diversamente da opere precedenti insiste su un concetto più laico di democrazia come razionalizzazione etica della vita sociale : il suo fondamento è la persona (da qui il richiamo ai diritti, come espressione della sua dignità); il suo metodo è il pluralismo di tipo collaborativo e non disgregante, e il suo fine è la pace non come assenza di conflitti ma come capacita di risolverli in modo non violento anche attraverso organismi internazionali. La nuova sfida è, dunque, quella della società complessa, caratterizzata dalla tentazione del relativismo. Da qui l’attenzione riservata al problema del rapporto tra verità e libertà e al significato della tolleranza . Questa non va intesa come sopportazione (che nasconde l’integralismo) nè come indifferenza (che approda allo scetticismo), ma come dialogo che si realizza nell’amicizia, cioè nel confronto e nella collaborazione. Dunque nelle tré fasi dell’itinerario maritainiano troviamo prima un’impostazione prevalentemente anti-individualistica, poi anti-ideologica e infine anti-relativistica: di volta in volta si è configurato un bivio, di cui una delle due possibilità è quella umanistica in opposizione rispettivamente all’individualismo, all’ideologismo e al nichilismo. Tré espressioni, queste, che a ben vedere hanno qualcosa in comune: l’incapacità di tenere insieme elementi che, invece, sono coessenziali: la verità e la libertà , senza le quali l’idea stessa di persona è compromessa. Da parte di Maritain c’è dunque il rifiuto dell’enfatizzazione dell’individuo (come nei tré riformatori), dello Stato (come nei totalitarismi) e , della massa (come nella società dei consumi): la persona è più che l’individuo egocentrico, è più che lo Stato totalitario, è più che la società massificata. La persona è soggetto, che ” ha fame e sete dell’essere ” ed è impegnato nella ” conquista della libertà “. Da quanto detto, dovrebbe risultare che Maritain dagli anni Venti agli anni Trenta agli anni Sessanta è stato impegnato in un’inedita riproposta del tomismo, finalizzata a rendere possibile una conciliazione di pre-modemo e moderno (in quello che l’uno e l’altro hanno di positivo) per una concreta difesa della persona umana nei diversi campi del conoscere, dell’agire e del fare. Esaminiamo dunque più da vicino questi diversi settori – epistemologico, politico, pedagogico ed estetico – in cui Maritain ha dato il suo contributo di impegno speculativo e pratico.
I TEMI PRINCIPALI
In Maritain l’idea di epistemologia si configura come teoria del sapere, in quanto secondo lui il sapere non è solo quello sapienziale (del pensiero classico) nè solo quello scientifico (del pensiero moderno), ma è sia sapienziale che scientifico, e pertanto una teoria del sapere deve occuparsi dell’uno e dell’altro. Le scienze si distinguono in scienze empiriche e scienze formali . Le scienze empiriche (che Maritain chiama “empiriologiche”) si distinguono in “scienze empiriometriche” (matematizzate) e “empirioschematiche” (non matematizzate): le prime si subordinano in senso forte alla matematica, cioè non si costituiscono senza di essa, invece le seconde si subordinano in senso debole alla filosofia, cioè si costituiscono senza di essa, seppure ad essa si colleghino per essere complete. Mentre le scienze sperimentali si collocano al primo grado di astrazione, le scienze matematiche si collocano al secondo grado. Mentre quelle sono induttive, queste sono deduttive. Ma, pur nella differenza, le une e le altre si configurano come sapere di tipo scientifico. Invece, hanno una caratterizzazione ontologica la filosofia della natura , che si colloca al primo grado di astrazione, e la metafìsica, che si colloca al terzo grado di astrazione formale. Bisogna peraltro ricordare che ” tutti e tré i gradi della visualizzazione astrattiva sono, a diverso modo, impegnati con l’essere (non solo la conoscenza metafìsica) “. Per Maritain si tratta insomma di tenere ferma la verità di Aristotele (il sapere ontologico della natura) e la verità di Galilei e di Kant (il sapere empiriologico della natura); il problema contemporaneo è quello di sviluppare la filosofia della natura tenendo conto dei progressi della scienza della natura. Lo sviluppo della filosofia della natura è positivo in relazione non solo alle scienze, ma anche alla metafìsica. Con l’ ontologia entriamo nel dominio della sapienza, che è filosofica, ma non solo filosofica; oltre alla metafisica, che ” è una sapienza della ragione ” ed ” è naturale per sua essenza “, è bene riconoscere il sapere teologico, che si distingue in teologia dogmatica, che ” è una sapienza di fede e di ragione, una sapienza di fede che usa la ragione “, e teologia mistica, che ” è una sapienza di amore e di unione “. Dunque, al culmine dei gradi del sapere si trova la mistica, la cui specificità è innegabile, ma è altrettanto innegabile che pure si tratta di un sapere, da tenere distinto e unito agli altri gradi del sapere. Bisogna subito rilevare che il problema politico è stato tra i problemi privilegiati da Maritain, anzi, si può senz’altro affermare che ad esso l’autore ha dedicato il maggior numero di opere. La cosa non deve stupire, perché, in una qualche maniera, nella politica trova il banco di prova la filosofìa maritainiana, che mostra come le impostazioni di carattere ontologico ed epistemologico, lungi dall’essere astratte questioni, costituiscano invece il fondamento dell’agire e del fare: la morale e la politica per un verso, la pedagogia e l’estetica per l’altro risultano i terreni privilegiati per tradurre i princìpi metafìsici nella concretezza dell’essere persona. Detto questo, bisogna aggiungere che, tra i tanti problemi politici affrontati da Maritain, quello principale è il problema della rifondazione della democrazia , un problema che si colloca nell’orizzonte del significato che deve essere attribuito alla politica. Due le concezioni che si scontrano al riguardo: quella tecnica o antiumanistica e quella etica o umanistica: l’opzione maritainiana è stata sempre per quest’ultima, chiarita compiutamente lungo un itinerario che si può suddividere in tré fasi. Nel decennio che va da “Antimoderno” (1922) a “Strutture politiche e libertà” (1933) si ha un periodo di preparazione, in cui prevale un atteggiamento di critica della democrazia, così come si era andata configurando: non si tratta di un Maritain antidemocratico, bensì di un Maritain critico delle contraddizioni che rinviene in certa democrazia reale. Proprio dalla denuncia delle fragilità della democrazia si fa strada in Maritain l’esigenza di operare una sua rifondazione: dunque, prima ancora che in presenza dei totalitarismi ideologici, è in presenza della pseudo-democrazia (fattore favorente di questi stessi totalitarismi) che Maritain avvia la sua riflessione di filosofo della politica. Una riflessione che viene sviluppata nel decennio che va dal 1933 al 1943: in questo periodo – che comprende opere come “Umanesimo integrale” e “Cristianesimo e democrazia” – Maritain è impegnato nella lotta ai totalitarismi ideologici (frutto del machiavellismo) e nella legittimazione della democrazia in termini religiosi, evidenziando il nesso tra democrazia e cristianesimo sul piano valoriale. Contemporaneamente, non manca di denunciare ancora una volta i pericoli di una pseudo-democrazia che prepara il totalitarismo tecnologico. Le varie forme di totalitarismo nascono da una politica che, in modi diversi, non riesce ad essere autenticamente democratica. Il problema allora – e siamo al periodo che va dal 1943 al 1969 cioè da “L’educazione al bivio” alla seconda edizione di “Per una filosofia dell’educazione”- é quello di evidenziare la connotazione umanistica della politica, il che significa per un verso denunciare la tentazione della tecnocrazia e per altro richiamare ancora una volta alla dimensione etica della democrazia. Nella rifondazione che della democrazia Maritain opera in termini etico-religiosi, prima, ed etico-laici, poi, rimane costante l’individuazione dei caratteri distintivi della democrazia, mentre variano le motivazioni legate prima all’idea di “nuova cristianità” (“Umanesimo integrale”) e poi all’idea di società pluralistica (“L’uomo e lo stato”). Ma al di là di queste diverse ispirazioni, è costante l’indicazione di una democrazia come politica personatistica, pluralistica, comunitaria e antiperfettistica, cioè fondata: sul primato della persona come valore in sé; sul rispetto del pluralismo come valorizzazione delle diversità individuali istituzionali, culturali ecc, sul raggiungimento del bene comune, che non è la somma dei beni individuali o della maggioranza, ma è il bene della società in quanto composta di persone; sulla consapevolezza che nulla di mondano può essere assolutizzato, per cui riconoscere l’assoluto come trascendente può immunizzare dalla tentazione del perfettismo politico. Per tutti questi caratteri, la democrazia configura la politica come razionalizzazione etica, e non come mera razionalizzazione tecnica.
LA PEDAGOGIA
Anche se la produzione pedagogica di Maritain non è quantitativamente rilevante (al problema dell’educazione ha, infatti, dedicato uno solo dei sessanta volumi che compongono la sua opera omnia ), è da dire che rilevante è l’importanza di “L’educazione al bivio” ( primo nucleo di “Per una filosofia dell’educazione”) sia in sé, come si può vedere esaminando le diverse edizioni dell’opera; sia in collegamento ai capolavori di filosofia politica come “Umanesimo integrale” (per realizzare un umanesimo integrale ci vuole un’educazione integrale) e “L’uomo e lo stato” (per attuare la democrazia ci vuole anche l’insegnamento del valore della democrazia); sia nel contesto dell’itinerario speculativo maritainiano, di cui condivide la duplice connotazione di continuità e differenziazione (per cui l’educazione è sempre un processo di umanizzazione da realizzare in modo aderente alle divise situazioni culturali e storiche); sia, infine, nell’ambito del dibattito pedagogico novecentesco, con particolare riguardo al rapporto tra pedagogia e filosofia e tra pedagogia e politica. Maritain, senza misconoscere il contributo delle scienze dell’educazione e delle tecnologie nell’insegnamento, richiama con decisione la connotazione filosofica della pedagogia, e insieme il suo stretto nesso con la politica, nel senso che c’è tra educazione e democrazia un circolo virtuoso, per cui una implica l’altra vicendevolmente essendo entrambe finalizzate a rendere possibile all’uomo la conquista della libertà. E’ beneinsistere sul nesso educazione-democrazia, rilevando che i tré momenti corrispondenti alle tré edizioni dell’opera pedagogica di Maritain (nel 1943 esce “L’educazione al bivio”, che costituirà la prima parte di “Per una filosofia dell’educazione”, pubblicata nel 1959 e poi ripubblicata, con modifiche, nel 1969), rappresentano altrettanti momento di quella rifondazione della democrazia a cui Maritain era tanto legato. Negli anni ’40, la democrazia viene vista come l’alternativa politica al totalitarismo ideologico, cioè al nazifascismo, alla cui cultura della morte viene contrapposta la cultura della vita così come al primato dello stato e della razza viene contro il primato della persona e dei valori: su tutto ciò deve insistere l’educazione. Negli anni Cinquanta l’ accento viene posto sul pluralismo (peraltro già richiamato precedentemente) come condizione per valorizzare concretamente la persona e permettere il perseguimento del bene comune, e ancora una volta l’educazione si fa carico di tali istanze. Infine, negli anni Sessanta il valore della democrazia viene affermato in contrapposizione al nuovo totalitarismo, quello tecnologico, che tende per un verso all’individualismo e per altro verso alla massificazione. Le ragioni della democrazia contro lo statalismo, il prassismo e la tecnocrazia sono le ragioni stesse dell’educazione, che può aiutare a tenere vive le motivazioni etiche, ossia umanistiche, della democrazia, richiamando la necessità che la politica sia incentrata sulla persona umana e finalizzata al bene comune nel rispetto del pluralismo. Ad una tale impostazione, l’educazione deve aspirare secondo la sua specificità, per cui muove dall’antropologia e, attraverso la metodologia, mira alla teleologia. Questo, tradotto maritainianamente, significa muovere dall’educando concepito come persona in crescita (ma persona a pieno titolo), di cui l’educazione costituisce il ” risveglio umano “; significa, poi, puntare alla sua formazione integrale e armonica, che superi cioè le unilateralità e le scissioni, che Maritain denuncia nei cosiddetti sette errori dell’educazione contemporanea, per cui l’educazione si trova al bivio, nel senso che è chiamata a scegliere tra un’impostazione umanistica e posizioni pseudo-umanistiche o addirittura anti-umanistiche; significa, infine, adottare una metodologia nè permissiva nè autoritaria ma all’insegna della libertà come conquista che trova nell’educazione liberale (umanistica) per tutti la condizione per evitare il vuoto metafìsico ed etico, nemico dell’educazione non meno che della democrazia. Nei quarant’anni lungo i quali ha sviluppato la sua concezione estetica , Maritain ha dedicato all’argomento molteplici scritti: quello estetico è, infatti, uno dei problemi su cui il filosofo si è più arrovellato, e anche in questo caso il suo itinerario mostra una sostanziale continuità e, insieme, una non minore esigenza di specificazione. Così, costante è l’esigenza – espressa fin dalla prima opera, “Arte e scolastica” – di evitare l’intellettualismo e l’irrazionalismo estetici: l’arte si distingue per un duplice carattere: è intellettuale (è virtù dell’intelletto pratico) e autonoma (nel suo dominio è sovrana). Detto questo, bisogna aggiungere che l’arte trova nella poesia la sua espressione più elevata, e che la caratteristica peculiare della poesia è l’intuizione (o emozione) creatrice, che nasce da quel preconscio spirituale che è stato trascurato dalla psicoanalisi, la quale ha insistito solo sull’inconscio materiale. In tal modo, sulla concezione tomistica dell’arte come recta ratio factibilium s’innesta una moderna concezione (espressa in opere come “Frontiere della poesia” e “L’intuizione creatrice nell’arte e nella poesia”) della poesia come creatività, che ” nasce nell’anima alle misteriose fonti dell’essere “, per cui la poesia risponde all’esigenza di creare e manifestare in bellezza. Si può dunque affermare che per Maritain la poesia è per un verso naturalmente collegata all’arte, e per altro verso essa trascende l’arte: sia perché la poesia è attuazione della libera creatività dello spirito (nell’arte invece l’attività creativa non è libera, ma finalizzata alla produzione e fruizione dell’opera), sia perché la poesia è conoscenza, cioè a modo suo comunione spirituale con l’essere (mentre l’arte appartiene alla sfera operativa). Con la conseguenza che la poesia si estende oltre il piano dell’arte, nel senso che una speciale espressione poetica può rientrare in qualsiasi attività, quando l’animo dell’uomo abbia però raggiunto certe grandezze; in tal caso, però, la poesia è come imprigionata; pertanto si può affermare che la poesia trascende l’arte, e questa tuttavia rimane il suo vero dominio. Chiarito il rapporto dell’arte con la conoscenza, è opportuno fare ora riferimento a quella che Maritain chiama “La responsabilità dell’artista” e che dà il titolo alla sua ultima opera di estetica, dove Maritain rivendica l’ autonomia dell’arte e della morale (in quanto la prima riguarda l’opera e la seconda l’uomo), ma insieme ne evidenzia il collegamento, giacché l’uomo appartiene all’una e all’altra come produttore intellettuale e agente morale. Ancora una volta si tratta di distinguere per unire, cosa diversa dal separare o dall’identificare. Sulla base della sua impostazione, Maritain rifiuta la concezione anarchica (secondo cui ” non ha importanza ciò che si scrive “) e quella totalitaria (secondo cui ” ciò che si scrive deve essere controllato dallo stato “), così come rifiuta l’estetismo (secondo cui l’arte è per l’arte) e il populismo (secondo cui l’arte è per il popolo). Anche il rapporto dell’artista con la società va visto all’insegna ” di un vero senso del bene comune e del rispetto dell’intelligenza e della coscienza, che il bene comune richiede come base “. In questa prospettiva si deve collocare la libertà dell’arte, che pertanto non ha carattere assoluto, in quanto la società umana legittimamente può voler proteggersi da certe conseguenze prodotte da opere artistiche: in tal caso, però, ” è compito della comunità sociale più che dello stato ” e occorre far leva sull’opera educativa, sull’ ethos nazionale, sull’esercizio di vantazione, sull’autoregolamentazione responsabile, sulla libera discussione e sulla critica. Si devono soprattutto richiamare la prima e l’ultima di queste funzioni: quella dell’educazione, che ” fornisce alla mente i poteri vitali di resistenza, criticità e discriminazione “, e quella della critica, che ha ” un compito di purificazione e illuminazione incessante, prima riguardo all’attività creativa stessa dell’artista, in secondo luogo riguardo alla consapevolezza comune delle persone “.
PAUL RICOEUR
“La riflessione è l’appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio d’essere, attraverso le opere che testimoniano di questo sforzo e di questo desiderio. Per questo motivo la riflessione è piú di una semplice critica del giudizio morale; anteriormente a ogni critica del giudizio, essa riflette su quell’atto di esistere da noi dispiegato nello sforzo e nel desiderio. ” (Sull’interpretazione. Saggio su Freud)
VITA E OPERE
Con l’altro grande maestro dell’ermeneutica fìlosofica novecentesca, Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, per la sua costante opera intellettuale e per la sua intensa attività di magistero e di dialogo che si estende ormai su scala planetaria e che è stata unanimemente riconosciuta nelle sedi più autorevoli della comunità culturale, scientifica e fìlosofica internazionale (come testimoniano anche il premio Hegel di Stoccarda nel 1985 e il premio Balzan per la filosofia conferitogli nel 1999), può essere considerato uno dei testimoni e dei protagonisti più sensibili della coscienza filosofica del Novecento. Testimone prezioso non solo per il valore intrinseco della sua multiforme opera, ma anche per il suo collocarsi in un ideale crocevia delle molteplici e più vitali tendenze della ricerca filosofica odierna, ” tendenze che raramente si sono incontrate e che spesso hanno preferito seguire percorsi talora paralleli, ma reciprocamente ignorantisi ” (D. Jervolino, “Ricoeur. L’amore diffìcile”). Da questa prospettiva, nella storia della filosofia del Novecento l’originale snodarsi del cammino riflessivo di Ricoeur dalla fenomenologia all’ermeneutica e dalla metafìsica alla morale rappresenta una rilevante e significativa eccezione: ” egli può contemporaneamente essere riconosciuto come un autorevole filosofo ‘continentale’ ed essere accettato dagli ‘analitici’ come un interlocutore interno alla loro problematica “. Nell’epoca di pensiero post-hegeliano, lo stile riflessivo della filosofia deliberatamente frammentario praticato da Ricoeur è uno ” stile di mediazione incompleta tra mediazioni rivali ” (P. Ricoeur, “Per un’autobiografia intellettuale”); questo stile, al quale Ricoeur si è mantenuto fedele nel corso di tutto il suo fecondo itinerario filosofico, costituisce di fatto un ampio tentativo di mediazione tra le esigenze epistemologiche della fenomenologia, delle scienze umane a base strutturale, e di taluni esiti delle filosofie analitiche da una parte – e l’ermeneutica nei suoi risvolti ontologici ed esistenzialistici dall’altra. Lo stesso Ricoeur, in una delle sue ultime opere, “La nature et la règle” del 1998 (“La natura e la regola. Alle radici del pensiero”), ha precisato la sua personale posizione filosofica scrivendo:
” Ritengo di appartenere a una delle correnti della filosofia europea che si lascia essa stessa caratterizzare da una certa diversità di etichette: filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica, filosofia ermeneutica. Riguardo al primo termine – riflessiva -, l’accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l’esteriorizzano rispetto a se stessa. Jean Nabert è il maestro emblematico di questo primo ramo della corrente comune. Il secondo termine – fenomenologica – designa l’ambizione di andare alle ‘cose stesse’, cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all’esperienza, priva di tutte le costruzioni ereditate dalla storia culturale, filosofica, teologica; quest’intento, diversamente dalla corrente riflessiva, porta a mettere l’accento sulla dimensione intenzionale della vita teorica, pratica, estetica, ecc. e a definire ogni tipo di coscienza come ‘coscienza di…’. Husseri rimane l’eroe eponimo di questa corrente di pensiero. Riguardo al terzo termine – ermeneutica – ereditato dal metodo interpretativo applicato in un primo tempo ai testi religiosi (esegesi), ai testi letterari classici (filologia) e ai testi giuridici (diritto), l’accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura dell’esperienza umana. Sotto questa terza forma la filosofia mette in questione la pretesa di ogni altra filosofia di essere priva di presupposti. I maestri di questa terza tendenza si chiamano Dilthey, Heidegger, Gadamer “. Paul Ricoeur è nato a Valence il 27 febbraio 1913. Dopo aver compiuto gli studi di filosofia a Rennes, dove consegue durante l’anno accademico 1933-1934 la “maitrise” con una dissertazione dedicata al “Problème de Dieu chez Lachelier et Lagneau”, esponenti della filosofia riflessiva francese, si trasferisce a Parigi per continuare gli studi e nel 1935 consegue l’ agrégation, che gli consente l’insegnamento nei licei in varie sedi di provincia. Nel 1948 succede a Jean Hyppolite nella cattedra di Storia della filosofìa a Strasburgo, nel 1950 ottiene il “Doctorat d’état” con “Le volontaire et l’involontaire” e la traduzione in francese di “Ideen I” di Husserl, mentre nel 1957 viene chiamato alla Sorbona ad occupare la cattedra di Filosofia generale come successore di R. Bayer. Amico di Emmanuel Mounier, partecipa attivamente al movimento personalista anche come uno dei fondatori e collaboratori della rivista Esprit. Discepolo di Gabriel Marcel, durante la prigionia in Germania studia Jaspers e Husserl. Protagonista della vita intellettuale parigina degli anni ’60, insegna Filosofia a Nanterre dal 1966 al 1970, Università della quale è stato anche rettore. Nel 1974 assume la direzione della “Revue de métaphysique et de morale” e fonda il “Centre de recherches phénoménologiques et herméneutiques”. Dopo aver insegnato per tré anni a Lovanio, termina la sua carriera di docente universitario nel 1980. Successivamente ha insegnato in modo stabile dal 1980 al 1990 alla Divinity School dell’Università di Chicago. Legato all’Italia da intensi rapporti intellettuali stabiliti con gli studiosi della sua opera filosofica ed ermeneutica, ha partecipato ai colloqui filosofici organizzati a Roma da Enrico Castelli e alle attività culturali dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Muore nel 2005. Fra le sue opere principali ricordiamo: “Karl Jaspers et la philosophie de l’existence” (1947, in collaborazione con M. Dufrenne); “Gabriel Marcel et Karl Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe” (1948); “Philosophie de la volante 1. Le volontaire et l’involontaire” (1950); “Historie et vérité” (1955); “Philosophie de la volente 2. Finitude et culpabilité, I. L’homme faillible, II. La symbolique du mal” (I960); “De l’interprétation. Essai sur Freud” (1965); “Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique” (1969); “La métapbore vive” (1975); “La sémantique de l’action” (1977); “Temps et récit, I-II-III” (1983-1985); “Du texte a l’action. Essais d’herméneutique” (1986); “A fècole de la phénoménologie” (1986); “Lectures on Ideology and Utopia” (1986); “Le mal. Un défi a la phi losophie et a la théologie” (1986); “Soi-méme comme un autre” (1990); “Lectures 1. Autour du politique, 2. La contrée des philosophes, 3. Aux frontières de la philosophie” (1991-1992-1994); “La critìque et la conviction” (1995); “Le fusto” (1995); “Réflexion fatte. Autobiographie intellectuelle” (1995).
LA FILOSOFIA DELLA VOLONTA’
Alle tematiche dell’ermeneutica contemporanea Ricoeur, dopo una prima formazione esistenzialista (di stampo jaspersiano), si è progressivamente accostato già a partire dagli anni Cinquanta, nel suo primo periodo speculativo relativo al progetto fenomenologico giovanile di un’antropologia filosofica che costituisce la “Philosophie de la volante”- inerente l’analisi eidetica, fenomenologica e dialettica delle strutture fondamentali del rapporto tra volontario e involontario e la descrizione di quella figura “storica” esemplare che è la volontà cattiva, l’interpretazione della funzione del linguaggio mitico-simbolico, il tema del corpo proprio, l’analisi del tema della libertà colpevole e la riflessione filosofico-etica, ermeneutica ed ontologica sul problema della simbolica del male attraverso la specificità del linguaggio della confessione della colpa intesa come emergenza misteriosamente responsabile della finitudine, della fallibilità e della fragilità affettiva dell’uomo -, che comprende nel primo volume “Le volontaire et l’involontaire” del 1950 (“Filosofìa della volontà 1. Il volontario e l’involontario”), nel secondo “Finitude et culpabilité” del 1960 (lo stesso anno del capolavoro di Gadamer, “Verità e metodo”), in due tomi: “L’homme faillible” e “La symbolique du mal” (“Finitudine e colpa”, in un unico volume). L’uscita di “Finitude et culpabilité” a distanza di dieci anni da “Le volontaire et l’involontaire” rappresenta un momento importante della successiva evoluzione del pensiero fìlosofico di Ricoeur. Infatti, egli, pur dichiarando ancora di voler delineare una ‘antropologia essenziale’, tuttavia assume come filo conduttore della ricerca il concetto di fallibilità dell’uomo, e precisamente la possibilità di compiere il male, dapprima, e la colpa compiuta, poi. In tal modo l’approccio fenomenologico è abbandonato per intraprendere la via ermeneutica: il carattere oscuro ed opaco della colpa, infatti, fa sì che non si possa accedere direttamente ad una ’empirica della volontà’, ma si debba ricorrere all’aiuto di una mitica concreta, cioè è necessario il ricorso al linguaggio mitico e simbolico che da sempre ha narrato la colpa. “Le symbole donne a penser” è la quasi intraducibile formula che Ricoeur usa per esprimere una via mediana tra logos e mythos, una via che unisce l’ascolto della ricchezza simbolica con il comprendere, con una riflessione cioè che ne promuova il senso, ed in un simile tentativo si congiungeranno l’immediatezza del simbolo con la mediazione del pensiero. La svolta ermeneutica” della seconda parte della “Philosophie de la volante” (“L’homme Faillible” e “La symbolique du mal”) traduce la consapevolezza più matura di Ricoeur circa l’insufficienza del metodo riflessivo per una effettiva comprensione del soggetto. La riflessione fa appello all’interpretazione, l’empirica della volontà si realizza concretamente come meditazione dei simboli e dei miti nei quali si esprime l’esperienza della colpa. L’approccio al simbolo, peraltro, rimanda a sua volta alla riflessione. Il simbolo non è solo alla fine del cammino della riflessione filosofica; per la reciprocità del rapporto fra riflessione e interpretazione, il simbolo suscita, promuove, alimenta la riflessione: il cogito, ormai, come io penso, io voglio, io sono, si muove nella pienezza, nella “grazia” del linguaggio. Senonché, il dominio dell’interpretazione non è la terra serena nella quale il senso viene donato, ma la terra accidentata e violenta nella quale il senso viene messo in questione, le certezze apparenti vengono contestate, le illusioni smascherate e le ermeneutiche rivali si affrontano in una lotta senza fine. Ciò che viene pensato attraverso la mediazione della simbolica del male e della sua interpretazione è la condizione umana nella sua costituzione paradossale e antinomica: cioè la fragilità affettiva, la costitutiva sproporzione e l’essere con- flittuale dell’uomo. Ricoeuer scrive che ” il conflitto appartiene alla costituzione più originaria dell’uomo; l’oggetto è sintesi, l’io è conflitto; la dualità umana si supera intenzionalmente nella sintesi dell’oggetto e s’interiorizza affettivamente nel conflitto della soggettività ” (“Finitudine e colpa”). Nel suo incompiuto e poi abbandonato grand project filosofìco giovanile, Ricoeur va alla ricerca di una “filosofia della soggettività” e di una “filosofia della Trascendenza” che convergano in una filosofia radicale “senza assoluto”, cioè di ” una filosofia dei limiti dell’uomo “. La filosofia non è la voce dell’essere, ma l’ermeneutica della vita, vita di esseri umani di carne e ossa, esseri di desiderio e di parola, plurali e fragili, capaci di agire e di patire, di inter-agire e di com-patire. Nello spazio della vita e del linguaggio una filosofia senza assoluto congiunge la disciplina del discorso sensato con la capacità di ascolto e di decifrazione delle tracce molteplici e pluriformi dell’alterità che essa ritrova incessantemente nel cuore inquieto del sé. La condizione umana si rivela essenzialmente come condizione ermeneutica coestensivamente itinerante poiché sia l’ homo viator che l’ homo ermeneuticus richiedono inderogabilmente una mèta ricca di senso, pertanto la stessa ragione filosofica non può essere superata in un discorso speculativo che sia ” specchio della sensatezza senza residui dell’essere “. Tuttavia, se la filosofia è radicalmente ermeneutica, quest’ultima è impegnata in un movimento che dal testo, paradigma della condizione carnale e finita dell’uomo, porta verso ciò che è oltre il testo: l’azione, l’esistenza, l’ipseità, in una parola, è al di fuori di ogni retorica vitalistica, la vita nel suo significato pienamente umano. Il discorso filosofico fenomenologico-ermeneutico del primo Ricoeur della “Filosofìa della Volontà” complica un rapporto costante con la “non filosofia” (“non-philosophiè”). La filosofia non è mai un inizio assoluto, ma è sempre un dubbio, un’interrogazione, su un sapere nel quale e a partire dal quale essa si interroga e su cui dubita: per questo la filosofia è riflessione. La riflessione fa appello all’interpretazione: ponendo se stessa, la riflessione comprende la propria impotenza a superare l’astrazione vana e vuota dell'”io penso” e la necessità di recuperare se stessa decifrando i propri segni perduti nel mondo della cultura. Tra riflessione, ermeneutica e libertà e tra ricerca del senso, filosofia generale della creatività umana interpretabile attraverso la mediazione simbolica del linguaggio e questione del soggetto intesa come ” messa in questione del soggetto ” c’è un’intima correlazione che indica la direzione nella quale si muove la “via lunga” della fenomenologia ermeneutica di Ricoeur.
FENOMENOLOGIA ED ERMENEUTICA
Allievo sia di Marcel che di Husserl, formatosi “a l’école de la phénoménologie”, Ricoeur ha tentato costruttivamente di compiere ” l’innesto dell’ermeneutica sulla fenomenologia “, innesto considerato come una possibile risposta anche all’interrogativo posto sul destino della fenomenologia e sul percorso successivo dell’ermeneutica post-heideggeriana. Ricoeur è consapevole che su questa strada è già stato preceduto da Heidegger, la cui prima opera rilevante “Essere e tempo” segnava fin dal 1927 la torsione in senso ermeneutico del pensiero fenomenologico e il passaggio dal piano delle pazienti analisi della vita della coscienza a quello delle ardite costruzioni ontologiche, destinate a riproporre alla filosofia del Novecento l’immane compito di una ripetizione del problema dell’essere e della sua comprensione. Nel saggio introduttivo “Esistenza e ermeneutica” del 1965 che apre “Il conflitto delle interpretazioni” del 1969, una tra le opere non solo cronologicamente centrali della sua biografia intellettuale ma anche tra le più note, nella quale la curvatura “ermeneutica” del suo pensiero raggiunge il proprio culmine, Ricoeur, per fondare l’ermeneutica nella fenomenologia, contrappone, con un’immagine resasi ormai famosa, la ” via corta ” dell’ontologia della comprensione di Heidegger, che si colloca immediatamente ” sul piano di una ontologia dell’essere finito, per ritrovarvi il comprendere non più come un modo di conoscenza, ma come un modo d’essere ” e nella quale l’ermeneutica diventa una provincia dell’Analitica del Dasein, alla “via lunga” dell’interpretazione, cioè un itinerario più tortuoso e faticoso della filosofia ermeneutica che passa attraverso le scienze umane (linguistica, psicanalisi, critica dell’ideologia), un itinerario che attraversa nei diversi livelli – semantico, riflessivo ed esistenziale – l’universo dei segni e il conflitto delle ermeneutiche rivali prima di giungere, risalendo da Heidegger alla fenomenologia dell’ultimo Husserl reinterpretata in termini heideggeriani, alla ” terra promessa ” dell’ontologia della comprensione: una terra promessa per una filosofia che ” comincia col linguaggio e con la riflessione “, in cui il ” soggetto che parla e riflette “, come Mosè, ” può soltanto scorgerla prima di morire “. Ponendosi di fronte alle esigenze di questa ontologia della comprensione, Ricoeur mostra come l’apporto della fenomenologia alla reimpostazione del problema ermeneutico nella sua dimensione ontologica sia duplice: 1) se si guarda all’ultimo Husserl (quello della Krisis) è possibile constatare che da una parte, la critica dell'”oggettivismo” concerne il problema ermeneutico non soltanto indirettamente, dal momento che contesta la pretesa dell’espistemologia delle scienze naturali di fornire alle scienze umane il solo modello metodologico valido, ma anche direttamente, dal momento che mette in questione il tentativo di Dilthey di fornire alle Geisteswissenschaften un metodo oggettivo quanto quello delle scienze naturali. D’altra parte, l’ultima fenomenologia di Husserl articola la sua critica dell’oggettivismo su di una problematica positiva che spiana la via ad una ontologia della comprensione: questa nuova problematica ha per tema la Lebensweit, il “mondo della vita”, cioè uno strato dell’esperienza anteriore al rapporto soggetto-oggetto, che ha fornito a tutte le varietà del neo-kantismo il loro tema conduttore; 2) per Ricoeur non si tratta soltanto di integrare epistemologicamente la radicalità dell’ ermeneutica heideggeriana; ma anche di effettuare una completa ricognizione fenomenologica del linguaggio e del mondo della vita, che Heidegger aveva escluso perseguendo un passaggio immediato dalla comprensione alla ontologia. In generale, la “via corta” heideggeriana, secondo Ricoeur, “non apre a” un’epistemologia dell’interpretazione e a una semantica dei linguaggi della comprensione, che riflettano sulle forme linguistiche dell’esegesi, e sul comprendere storico, psicanalitico, antropologico. Pertanto, il tema autoriflessivo, che mostra come il soggetto dell’interpretazione non sia il cogito all’origine del senso, ma sia già da sempre un essere-interpretato e un’apertura sul mondo, deve essere completato da un’analisi epistemologica e semantica dell’interpretazione. È, dunque, meglio partire dalle forme derivate della comprensione e mostrare in esse i segni della loro derivazione: ciò presuppone ed implica che si prendano le mosse dal piano stesso in cui si esercita la comprensione, cioè dal piano del linguaggio. È in quanto avviene continuamente nel linguaggio e nel movimento della riflessione la via ardua dell’interpretazione da seguire per ricercare un’ontologia della comprensione come modo di essere, evitando però due possibili fraintendimenti: il primo consisterebbe nel considerare la prospettiva indicata da Ricoeur un semplice rilancio del progetto fenomenologico e una rottura netta con Heidegger e con la sua eredità; il secondo consisterebbe nel non istituire il nesso ermeneutica-epistemologia o su un piano trascendentalistico, o su un piano enciclopedico, poiché in entrambi i casi la spiegazione prevarrebbe sulla comprensione. Sostituire alla “via corta” heideggeriana dell’Analitica del Dasein la “via lunga” ricoeuriana che prende Ravvio attraverso le diverse forme di analisi del linguaggio significa non soltanto conservare costantemente il contatto con tutte le discipline che cercano di praticare l’interpretazione in modo metodico, ma anche resistere ” alla tentazione di separare la verità, propria della comprensione, dal metodo, messo in pratica dalle discipline nate dall’esegesi ” (” Il conflitto delle interpretazioni”) ed affrontare la lettura dell’esistenza umana ” sulla base dell’elucidazione semantica del concetto di interpretazione, comune a tutte le discipline ermeneutiche “.
L’ARCO ERMENEUTICO
La “via lunga” per costituire un’ermeneutica ontologica per Ricoeur passa anche attraverso il metodo, l’epistemologia e il confronto con le discipline dell’interpretazione, cioè attraverso la riflessione sulle valenze logiche ed epistemologiche dello spiegare e del comprendere. L’obiettivo perseguito dal filosofo francese è quello di compiere il tentativo di mediare l’alternativa ed affermare – dopo Dilthey e parallelamente a Gadamer – la complementarità tra spiegare e comprendere. In Gadamer, secondo Ricoeur, il problema di una epistemologia ermeneutica non viene eluso, tuttavia la coppia verità e metodo dev’essere sottoposta ad una lettura in termini meno antitetici, altrimenti rimane insoluto il problema dell’istanza critica, ovvero il rapporto della spiegazione con la comprensione. Ricoeur dice: ” ciò contro cui mi oppongo, se volete, è un’ontologia separata che abbia rotto il dialogo con le scienze umane. Ecco, è questo che mi ha colpito in Gadamer. Tra verità e metodo secondo me bisogna cercare un cammino perché la filosofia è sempre morta tutte le volte che ha interrotto il suo dialogo con le scienze ” . Ricoeur non condivide la tensione tra verità e/o metodo che lo stesso titolo della maggiore opera gadameriana Verità e metodo esplicitamente evince, poiché in esso i due momenti (quello veritativo della comprensione e quello metodico della spiegazione) sembrano essere alternativi e contrapposti: ” il problema allora è quello di sapere fino a che punto l’opera meriti di intitolarsi Verità e metodo, o se non dovrebbe piuttosto essere intitolata Verità o metodo ” (“Dal testo all’azione”). Nella prospettiva ricoeuriana la soluzione di tale alternativa, che costituisce “l’aporia centrale dell’ermeneutica”, passa attraverso la discussione critica dei tré principali campi dove il rapporto tra spiegazione e comprensione viene oggi dibattuto: la teoria del testo, quella delazione e quella della storia. Dalla correlazione e dal gioco di rinvii che si determina tra testo, azione e storia può scaturire l’idea di una dialettica spiegare/comprendere, cioè la costruzione della teoria dell’arco ermeneutico” in cui lo “spiegare di più” aiuta a “comprendere meglio” e da cui nasce il circolo dell’interpretazione, che Ricoeur esplicita a partire dai saggi degli anni ’70 (cfr. P. Ricoeur, Che cos’è un testo?). Nel ricomporre il gioco alternato e la dialettica spiegare/comprendere, per la quale spiegare e comprendere non si riassumono in un “rapporto di esclusione”, ma nel processo di interpretazione dei testi, ove la dimensione epistemologica e quella ontologica possono articolarsi in un intreccio nuovo e fecondo, la conclusione a cui perviene Ricoeur è duplice: a) sul piano epistemologico non ci sono due metodi, l’uno esplicativo e l’altro comprensivo. ” A rigore, solo la spiegazione è metodica. La comprensione è piuttosto il momento non metodico che, nelle scienze dell’interpretazione, si compone con il momento metodico della spiegazione. A sua volta, la spiegazione svolge analiticamente la comprensione “, della quale costituisce sia la “mediazione obbligata” che l’istanza critica, nella prospettiva dello “spiegare per meglio comprendere”. In questa direzione diventa allora possibile situare ” la spiegazione e la comprensione a due stadi diversi di un unico arco ermeneutico dal cui rapporto dialettico emerge il carattere paradigmatico dell’interpretazione, che racchiude il “senso” immanente del testo e che da origine al “circolo ermeneutico- inteso come “struttura insuperabile della conoscenza applicata alle cose umane “; sul piano ontologico, vi è un problema più fondamentale sulle condizioni della dialettica spiegare/comprendere. ” Se la filosofia si preoccupa del “comprendere” è perché esso testimonia, nel cuore dell’epistemologia, un’appartenenza del nostro essere all’essere che precede ogni costituzione in forma di oggetto, ogni opposizione di un oggetto ad un soggetto “. Il termine “comprensione”, nella sua costitutiva densità, designa nel contempo ” il polo non metodico, dialetticamente opposto al polo della spiegazione in ogni scienza interpretativa, l’indizio non più metodologico ma propriamente veritativo della relazione ontologica di appartenenza del nostro essere agli esseri e all’Essere “. Nel saggio “Logica ermeneutica?” del 1981, Ricoeur, proponendo fra l’altro una rilettura antimetodica dell’ermeneutica fìlosofìca di Verità e metodo di Gadamer, afferma non soltanto che la filosofìa ermeneutica ” non è un’antiepistemologia, ma una riflessione sulle condizioni ia non epistemologiche della epistemologia “, ma ribadisce esplicitamente il presupposto esistenzialistico della complementarità tra epistemologia e ermeneutica allorquando sostiene che ” comprensione e spiegazione non si oppongono come due metodi. In senso stretto, solo la spiegazione è metodica. La comprensione è il momento non metodico che precede, accompagna e circonda la spiegazione. In questo senso, la comprensione include la spiegazione. Di rimando, la spiegazione sviluppa analitica mente la comprensione “. In Ricoeur non c’è posto per l’aut-aut del metodo e della verità: il luogo privilegiato della loro articolazione è il testo. L’ermeneutica si definisce operativamente come lavoro dell’interpretazione testuale, che ha nel testo il punto focale, e testo è qualsiasi discorso/issato dalla scrittura che nel contempo lo rende irriducibile e non assimilabile direttamente alle modalità discorsive del dialogo ed autonomo semanticamente dall’intenzione soggettiva dell’autore; esso si realizza nella complessa relazione-mediazione con l’atto della lettura, che a sua volta appare un atto concreto nel quale si completa l’autonomia dell’opera e si dischiude il destino aperto del testo (del “mondo” del testo, che Gadamer chiama la “cosa” del testo): grazie alla scrittura, il “mondo” del testo può far esplodere il mondo dell’autore, mentre è nel cuore stesso della lettura che, indefinitamente, spiegazione e comprensione si oppongono e si conciliano integrandosi. Il fine della lettura non è tanto quello di recuperare l’intenzione presunta dell’autore quanto quello di mettersi in ascolto del testo, confrontarsi con esso in una sorta di dialogo a distanza che ci invita a comprendere meglio il senso veicolato dal testo stesso. L’autore del testo parla attraverso il testo ma questo, per molti aspetti, se ne libera; chi resta a parlare è il testo, che ci trasporta nel suo mondo e ci orienta nella sua direzione in virtù della dinamica dello spiegare e del comprendere, cioè dell’interpretare: ” spiegare è liberare la struttura, cioè le relazioni interne di dipendenza che costituiscono la statica del testo; interpretare è intraprendere il cammino di pensiero indicato dal testo, mettersi in marcia verso l’oriente del testo ” (“Dal testo all’azione”). Ciò che è vero delle condizioni psicologiche lo è anche delle condizioni sociologiche della produzione del testo. Ad un’opera (letteraria o d’arte) in generale è essenziale tanto la capacità di trascendere le proprie condizioni psicologiche di produzione quanto la capacità di aprirsi a una serie illimitata di letture, anch’esse situate in differenti contesti psicologici e socio-culturali. D’altra parte, alla liberazione del testo dall’autore corrisponde un analogo processo di autonomizzazione rispetto al lettore. ” In breve, sia dal punto di vista psicologico che sociologico, il testo deve potersi decontestualizzare in modo da lasciarsi ricontestualizzare in una nuova situazione: precisamente questo costituisce l’atto di lettura “. L’affrancamento dall’autore trova la propria complementarità sul versante di colui che riceve il testo (fruitore). A differenza della situazione dialogica nella quale si ha “il faccia a faccia” determinato dall’esperienza del discorso, ” il discorso scritto fa nascere un pubblico che si estende virtualmente a chiunque sappia leggere “. La liberazione della cosa scritta dalla condizione dialogica del discorso comporta il fatto che il rapporto tra scrivere e leggere non è più un caso particolare del rapporto tra parlare e ascoltare. L’autonomia del testo produce una “conseguenza ermeneutica” importante, la distanziazione: essa non soltanto è costitutiva del fenomeno del testo come scrittura ma è anche la condizione dell’interpretazione. Allontanandosi dallo strutturalismo e dalle posizioni dell’ermeneutica romantica secondo Ricoeur, l’approccio corretto al testo si fonda sulla distanziazione creata per mezzo della scrittura e sulla oggettivazione prodotta per mezzo della struttura dell’opera: il compito ermeneutico pertanto va ricercato nella nozione di mondo del testo che soltanto conferisce il senso profondo dell’opera. L’opera letteraria, nella sua originale dimensione referenziale, attraverso la finzione e la poesia ci distacca dalla realtà quotidiana della vita e ci dischiude la possibilità di intrattenere con la stessa realtà un rapporto diverso, che raggiunge il mondo non più solamente al livello degli oggetti manipolabili, ma al livello che Husserl designava con l’espressione di Lebenswelt e Heidegger con quella di essere-nel-mondo. “Essere-nel-mondo” heideggerianamente designa il modo di essere dell’uomo, che costitutivamente è gettato a vivere nel mondo. La stessa comprensione diviene così una struttura dell’essere-nel-mondo poiche ” il momento del “comprendere” risponde dialetticamente all’essere in situazione come progetto dei possibili più propri entro le situazioni stesse in cui ci troviamo “. In effetti, ” ciò che c’è da interpretare in un testo, è una proposizione di mondo di un mondo tale da essere abitato in modo da progettarvi uno dei miei possibili più propri “. Il mondo del testo non è quello del linguaggio quotidiano, ma è il prodotto della finzione. ” Grazie alla finzione, alla poesia si aprono nella realtà quotidiana nuove possibilità di essere-nel-mondo. Finzione e poesia mirano all’essere, non più sotto la modalità dell’essere-dato, ma sotto la modalità del poter-essere. Con ciò stesso la realtà quotidiana subisce una metamorfosi in favore di ciò che si potrebbe chiamare variazione immaginativa che la letteratura opera sul reale “. Il testo diviene così il medium attraverso cui noi comprendiamo noi stessi in quanto esso vive attraverso l’entrata in scena della soggettività del lettore. La distanziazione creata dalla scrittura consente l’appropriazione del testo alla situazione presente del lettore: ” essa è comprensione in virtù della distanza, comprensione a distanza “. Di conseguenza, l’appropriazione è dialetticamente legata alle oggettivazioni strutturali dell’opera, in quanto il testo non risponde all’autore ma al senso, che consente a sua volta l’appropriazione del “mondo dell’opera” Ciò di cui io mi approprio è una “proposizione del mondo”: ” essa non è dietro al testo, quasi fosse un intenzione nascosta, ma davanti al testo, come ciò che l’opera dispiega scopre rivela “. Esporsi al testo significa ricevere dal testo “un io più vasto” in quanto con la lettura e la comprensione del testo si viene introdotti nelle variazioni immaginative dell’ego che il testo stesso dispiega. Comprendere, dunque è comprendersi davanti al testo: comprendersi, per il lettore, significa comprendersi davanti al testo e ricevere da esso le condizioni di emergenza di un sé altro dall’io e che suscita la lettura. Per Ricoeur il valore espresso dal modello del testo (della sua scrittura lettura ed interpretazione) presenta un significato paradigmatico coestensibile all’azione umana e sociale sensata: poiché il testo, in quanto discorso, presuppone l’agire (il discorso stesso è una forma di azione) e l’azione, polimorfa e molteplice come i discorsi degli uomini, può essere considerata essa stessa come un quasi-testo da leggere, spiegare e interpretare Al pari del processo di oggettivazione in cui avviene la fissazione del discorso tramite la scrittura anche certe azioni imprimono il loro segno sul tempo, lasciano una traccia, che nel tempo sociale da luogo a degli effetti duraturi, a delle configurazioni persistenti che si vanno ad inscrivere m quei documenti dell’azione umana in cui si deposita la memoria storica. Memoria che è .archivio di senso, da ri-leggere e interpretare, .mondo da aprire e da scoprire per potersi ricomprendere dentro alle sue proposte di senso. Un’azione sensata può travalicare i confini attuali del suo accadere come evento e presentare una dimensione di importanza che supera la pertinenza relativa alla sua situazione iniziale, sviluppando così significati che possono essere ripresi, riattualizzati e ricontestualizzati in situazioni sociali e comunicative diverse da quelle in cui l’azione si è prodotta, per cui ” la sua importanza consiste nella sua pertinenza duratura e, in alcuni casi, nella sua pertinenza onnitemporale “. Il contenuto di senso veicolato e significato dall’evento azione si rivolge a una serie indefinita di possibili lettori, così come il testo offerto alla lettura resta a disposizione di chiunque sappia leggere. Se rapportata alla logica dell’interpretazione testuale, anche l’azione umana si presenta come un campo di costruzioni possibili che produce una significazione caratterizzata da una plurivocità specifica legata alla ” relazione tra le dimensioni intenzionali e motivazionali ” dell’azione stessa. In altre parole, come conclude Ricoeur, ” come un testo, così l’azione umana è un’opera aperta, il cui significato è “in sospeso”. È perché essa “apre” delle nuove referenze e ne riceve una pertinenza nuova che anche gli atti umani sono in attesa di nuove interpretazioni che decidono del loro significato. Tutti gli eventi e tutti gli atti significativi sono, in questo modo, aperti a questa sorta di interpretazione pratica grazie alla prassi presente. L’azione umana, anch’essa, è aperta a chiunque sappia leggere “. Dall’ermeneutica del testo si passa così all’ermeneutica dell’azione, nella direzione di una prassi rischiarata da quel “comprendersi davanti al testo” nel quale l’io si riconosce come Sé. Ricoeur è dunque consapevole che la propria ermeneutica non dimentica mai che tra l’atto di dire (e di leggere) e l’agire effettivo il legame mimetico non è mai del tutto spezzato poiché fra le cose dette ci sono le esperienze di uomini che agiscono e che soffrono, e che gli stessi discorsi sono a loro volta azioni.
DALLA PSICANALISI ALL’ERMENEUTICA DEL SE’
Nel secondo periodo speculativo, quello relativo agli ultimi trent’anni del Novecento, l’itinerario e l’impegno fìlosofico-ermeneutico ed ontologico di Ricoeur è contraddistinto da tré fasi principali. La prima degli anni Sessanta è costituita da un serrato confronto con la psicanalisi e le scienze umane, da un’analisi del conflitto delle ermeneutiche rivali e da una riflessione critica con la linguistica anglosassone e con la cultura filosofica e semiologica francese egemonizzata dallo strutturalismo e dalla lettura “strutturalistica” di Freud, Nietzsche e Marx: questa fase è esemplata in “Dell’interpretazione. Saggio su Freud” (1965) e in “Il conflitto delle interpretazioni” (1969). La seconda degli anni Settanta-Ottanta, durante la quale Ricoeur, dopo aver concluso la sua carriera accademica in Francia, è stato significativamente presente nella cultura filosofica nordamericana, svolgendo un ruolo particolarmente importante di “mediatore” fra due mondi culturali e filosofici reciprocamente distanti e diversi come quello “continentale” e quello angloamericano. Durante questo periodo, assistiamo ad un ampliarsi dell’orizzonte dell’ermeneutica ricoeuriana; la trilogia di “Tempo e racconto, I-II. La configurazione nel racconto di finzione – III. Il tempo raccontato”; “Dal testo all’azione” del 1986, che dall’interpretazione dei simboli e dal confronto con i protagonisti (Gadamer ed Habermas) del dibattito che ha contrapposto ermeneutica e critica delle ideologie passa ad affrontare i temi della teoria del testo, della metafora, del racconto, e all’interno della quale si registra la permanenza della questione del soggetto nella tematica della creatività del linguaggio, della temporalità, del testo come paradigma dell’azione sensata e del compimento dell’interpretazione dei testi nell’ermeneutica dell’azione. La terza degli anni Novanta è pervasivamente caratterizzata da un’alta lezione di filosofia che spazia dall’ermeneutica del sé alla filosofia pratica, dalla storia della filosofia alla religione, dalla filosofìa politica alla filosofia del diritto e della giustizia, dall’etica all’estetica, dai problemi di attualità alla ricostruzione autobiografica, lezione che si è concretizzata soprattutto in alcune tra le sue ultime opere, tra le quali in particolare spicca “Sé come un altro” (1990), che senz’altro esprime la summa ermeneutica e teoretica del discorso filosofico di Ricoeur. Nella svolta ermeneutica, di Ricoeur, che ha inizio negli anni Sessanta, il confronto con la psicanalisi e il passaggio attraverso Freud, a cui egli ha dedicato il volume “De l’interprétation” del 1965 e i saggi contenuti in “e conflit des interprétations” del 1969, è stato di importanza decisiva. “ Per chi è cresciuto alla scuola della fenomenologia, della filosofìa esistenzialista, del rinnovamento degli hegeliani e delle ricerche di tendenza linguistica, l’incontro con la psicanalisi costituisce uno choc considerevole. Quello che viene affrontato e messo in discussione infatti, non è l’uno o l’altro tema della riflessione filosofìca, ma l’insieme del progetto filosofico stesso. Il filosofo contemporaneo incontra Freud nello stesso campo di interessi di Nietzsche e Marx; tutt’e tré stanno davanti a lui come i protagonisti del sospetto, i penetratori degli infingimenti. Nasce con loro un problema nuovo, quello della menzogna della coscienza e della coscienza come menzogna ” (“II conflitto delle interpretazioni”). La lettura ricoeuriana di Freud è nel contempo critica e filosofìca, mentre esclude volutamente sia la competenza dell’analista e l’esperienza diretta dell’analisi sia la considerazione delle scuole post-freudiane. Secondo Ricoeur, l’opera scritta da Freud fa sì che la psicanalisi non solo appartenga al movimento della cultura contemporanea, ma interpretando tale cultura, la modifichi radicalmente: dandole uno strumento di riflessione, la segna durevolmente. “ La psicanalisi è un movimento della cultura, perché l’intèrpretazione che essa da dell’uomo verte principalmente e direttamente sulla cultura nel suo insieme; con essa l’interpretazione diventa un momento della cultura; essa cambia il mondo interpretandolo ”. Con Freud la psicanalisi si eleva al livello di una vera e propria ermeneutica della cultura nella quale viene ricondotto in scena il conflitto fra tradizione e critica. La psicanalisi è strettamente legata all’ermeneutica, in quanto interpretazione dei sogni e della cultura; essa lavora sul linguaggio e sui simboli. Per i motivi intrinseci alle conclusioni cui perviene, il discorso della psicanalisi diventa uno dei luoghi privilegiati del conflitto delle interpretazioni che prende forma sotto i tratti di una archeologia della coscienza opposta ad una teleologia del senso: questi motivi rendono la psicanalisi più adatta all’integrazione reciproca di filosofìa riflessiva ed esercizio ermeneutico concreto. Il filosofo formatosi alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie e ambigue, cioè non sono così come esse appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia tale quale appare a se stessa: in essa, senso e coscienza del senso coincidono. Dopo Marx e Nietzsche, con Freud siamo entrati nel dubbio sulla coscienza: la coscienza è sempre anche falsa coscienza e in quanto tale richiede un lavoro interpretativo capace di comprendere il senso latente-patente, nascosto-mostrato, simulato-manifestato. A partire dai maestri dell’ermeneutica del sospetto , la comprensione è una ermeneutica: cercare il senso, ormai, non significa più compilare la coscienza del senso , ma decifrare le sue espressioni. Traducendo l’attenzione per il problema ermeneutico in un’originale riflessione sul modello interpretativo proposto dalla psicanalisi, Ricoeur muove dall’idea di un “contraccolpo” della psicanalisi sulla filosofia, consistente nella de-costruzione del Cogito e delle pseudo-evidenze della coscienza: lo studio della psicanalisi risponde nelle intenzioni di Ricoeur alla necessità di esplorare criticamente i limiti della filosofia della coscienza. Freud, agli occhi di Ricoeur, insegnandoci a dubitare della coscienza, ha sollevato un dubbio radicale sulle certezze di Cartesio e poi di Husserl facendo balenare l’idea che la coscienza immediata e la certezza di sé celino in realtà una falsa coscienza. In un certo senso, dunque, Freud .avrebbe prodotto la “crisi” della filosofia del Cogito ed avrebbe stimolato l’avvento di una nuova filosofia dell’uomo e del soggetto in grado di fare della coscienza non più un dato bensì un compito. Come dice lo stesso Ricoeur nel “Saggio su Freud”, nella metapsicologia freudiana “ la coscienza cessa di essere ciò che è meglio conosciuto per diventare essa stessa problematica; vi è d’ora innanzi una questione della coscienza, del divenir cosciente, al posto della cosiddetta evidenza della coscienza ”. Seguendo Freud nel difficile compito dell’interpretazione psicanalitica dei sogni e dei sintomi neurotici e analizzando la topografia della coscienza, che pone, al di sotto del consapevole, l’inconscio e il preconscio, Ricoeur rileva una certa tensione tra l’energetica e l’ermeneutica nella lettura freudiana della psiche. Di fatto, il problema epistemologico del freudismo è appunto quello di situare correttamente nella struttura decorso psicanalitico il rapporto tra energetica ed ermeneutica che fanno a prima vista vista dell’opera di Freud un discorso misto e ambiguo. Freud può essere letto sia da un l’unto di vista genetico-energetico, ossia il punto di vista dell’economia delle forze psichiche in gioco, sia da un punto di vista ermeneutico, ossia dal punto di vista della scoperta del senso delle espressioni psichiche. Ricoeur propone di considerare ambedue le dimensioni del discorso poiché ritiene che in Freud l’energetica passa attraverso una ermeneutica, e l’ermeneutica scopre una energetica, e che portarla possibilità del desiderio si annuncia entro e mediante un processo di simbolizzazione e di una ermeneutica del simbolo stesso. Il desiderio è nell’uomo un quid insuperabile sia a livello conoscitivo sia pratico: la psicanalisi stessa non supera questo livello conoscitivo, perché, in quanto interpretazione, è la conoscenza indiretta, tramite i sintomi che decifra, di ciò che, nella rappresentazione, non passa nella rappresentazione. Nella lettura fìlosofica ricoeuriana di Freud, la psicanalisi si presenta nella e per la riflessione come un’archeologia del soggetto. Come interpretazione archeologica dell’uomo, la psicanalisi è il primo passo che si impone alla riflessione per superare il vuoto e l’astrazione della prima verità, che è l’ “io penso”, “io sono”. Essa, come archeologia del soggetto, testimonia che il conoscere non è mai staccato dalla vita, ma che si radica sempre nell’esistenza concreta, intesa come desiderio e sforzo. Ma, concedendo credibilità alla psicanalisi, la ripetizione fìlosofica del freudismo si conclude allora in una filosofia della riflessione? Ricoeur stesso riconosce che il concetto di archeologia del soggetto è estremamente astratto fino a quando non lo si pone in un rapporto di opposizione dialettica con il concetto complementare di “teleologia del soggetto”: “ solo il soggetto che ha un ‘telos’ ha una ‘archè’ ” (Dell’interpretazione. Saggio su Freud”). Nella loro reciproca dialettica, che permette una duplice lettura della psiche, l’archeologia del soggetto si manifesta in un movimento analitico e regressivo verso l’inconscio (inteso come ordine dell’arcaico e del primordiale); mentre la teleologia del soggetto si esprime .con un movimento sintetico e progressivo verso lo spirito (inteso come ordine del dover-essere futuro). L’archeologia del soggetto trova il suo modello nell’interpretazione psicanalitica della cultura e si propone di spiegare le figure successive con quelle anteriori. Il suo presupposto è che l’uomo sia l’essere destinato a rimanere preda della sua infanzia. La teleologia del soggetto trova il suo modello nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel e si propone di spiegare le figure anteriori con quelle posteriori. Il suo presupposto è la coscienza come compito, ossia come verità assicurata solamente alla fine del processo. Nella dialettica fra procedura archeologica e procedura teleologica si costituisce il terreno filosofico più propizio perché emerga la complementarità tra due ermeneutiche altrimenti tra loro irriducibili e contrapposte applicata alle formazioni mitico-poietiche della cultura: un’ermeneutica amplificatrice o recuperatrice, attenta al sovrappiù di senso, incluso nel simbolo, che la riflessione ha il compito di liberare nello stesso tempo in cui essa deve arricchirsene elevandola alla pienezza significante e un’ermeneutica demistificatrice che si inscrive in una tradizione facile da identificare, quella di un’ermeneutica del sospetto sulle tracce di Marx, Nietzsche e Freud. Il primo tipo è un’ermeneutica che non soltanto mira alla costruzione del senso, invita all’ascolto e pone così le basi per una comprensione dei segni attraverso i quali il sacro può manifestarsi, ma a cui spetta cogliere il significato dei simboli e preparare la strada alla rivelazione di un senso che può rinnovare totalmente l’esistenza dell’uomo. Il secondo tipo, sempre attuale, è un’ermeneutica che ha il compito di denunciare gl’inganni e di abbattere gl’idoli per consentire all’uomo di vedere “più a fondo in se stesso.
METAFORA, TEMPO E RACCONTO
II fenomeno della innovazione semantica legata a operazioni di sintesi che creano nuove entità del discorso, ovvero la produzione di un senso nuovo attraverso le procedure creative del linguaggio polisemico e attraverso il potere creativo e lo schematismo dell’immaginazione produttrice e il confronto con le fondamentali problematiche del tempo, della storia e della funzione narrativa e mimetica del racconto, costituiscono il centro di gravita della riflessione ermeneutico-filosofica svolta da Ricoeur nelle due “opere gemelle” “La metafora viva” (1975) e “Tempo e racconto” (1983-1985), pubblicate l’una dopo l’altra ma concepite insieme. La teoria ricoeuriana della metafora elaborata – a partire da Aristotele oltre Aristotele- lungo un percorso che originalmente dall’antica retorica, attraverso le semiotica e la semantica moderne, perviene all’ermeneutica, si configura come una teoria filosofica rivolta prevalentemente a rivalutare il senso, il significato e la funzione ermeneutica ed ontologica della metafora viva al livello del discorso e non della semplice denominazione. È attraverso la metafora, quale manifestazione e luogo di produzione del linguaggio creativo e veritativo, che noi uomini facciamo l’esperienza della metamorfosi del linguaggio e della metamorfosi della realtà. Secondo Ricoeur, la necessaria revisione e critica della tradizione retorica della metafora sposta il problema della metafora da una semantica della parola ad una semantica del discorso. Per una lunghissima storia che inizia con i sofisti greci e si dispiega, attraverso Aristotele, Cicerone e Quintiliano, per giungere a morire negli ultimi trattati di retorica del XIX secolo, la metafora è stata classificata schematicamente nelle sei seguenti proposizioni: 1) la metafora è un “tropo”, ossia una figura di discorso che riguarda la denominazione; 2) la metafora è un’estensione della denominazione realizzata mediante una deviazione del senso letterale delle parole; 3) la ragione di tale deviazione si trova, per la metafora, nella somiglianza; 4) la funzione della somiglianza è di fondare la sostituzione del senso figurato al senso letterale di una parola che avrebbe potuto essere utilizzata nello stesso luogo; 5) il significato sostituito non comporta quindi nessuna innovazione semantica; 6) poiché non comporta alcuna innovazione, la metafora non fornisce alcuna informazione sulla realtà: per tale ragione essa può essere annoverata tra le funzioni emozionali del discorso. Per Ricoeur, la “ scintilla di senso ” costituiva della metafora viva, cioè l’enunciato metaforico, vero e proprio “ poema in miniatura ”, non è più da considerarsi un ornamento stilistico, un nome improprio, una sostituzione lessicale motivata dalla somiglianza, ma è una “ predicazione bizzarra ”, un’ “ attribuzione impertinente ”: non è un fenomeno di parola, una “ denominazione deviante ”, ma un evento testuale e discorsivo che, carico di una potenzialità di ri-figurare la realtà e insieme capace di scoprire dimensioni ontologiche nascoste dell’esperienza umana e di trasformare la nostra visione del mondo, produce, attraverso lo slancio dell’immaginazione, una nuova pertinenza concettuale, nella quale un senso nuovo viene creato proiettando una nuova comprensione del mondo. La “verità metaforica”, sospendendo la “referenza” ordinaria per attivare quella secondaria, “divisa”, “spezzata”, contribuisce, come dice Ricoeur, a una ridescrizione del reale e, più generalmente, del nostro essere-al-mondo, in virtù della corrispondenza fra un vedere-come sul piano del linguaggio e un essere-come sul piano ontologico: essa è la verità di un mondo ridescritto e riconfigurato che ha di mira “ l’essere non più secondo le modalità dell’esser-dato, bensì secondo quelle del poter essere ” (“Dal testo all’azione”). In continuità e parallelamente con la riflessione iniziata nella Metafora viva relativa ad una teoria frammentaria della creatività del linguaggio, la riflessione sul rapporto fra temporalità, storia e funzione narrativa del racconto viene svolta da Ricoeur nell’imponente trittico di Tempo e racconto, dando così concretezza al disegno della “via lunga” dell’ermeneutica tra fenomenologia, epistemologia ed ontologia prospettata negli anni Sessanta. Il tempo è il tema filosofico che regola dall’inizio alla fine Tempo e racconto, come sottolinea l’ordine dei termini nel titolo. La problematica della funzione narrativa del racconto come luogo in cui il tempo diviene tempo umano è invece affrontata in due sezioni distinte: l’una incentrata sulla configurazione, cioè sulle operazioni narrative operanti all’interno stesso del linguaggio (linguaggio ordinario, storia, finzione) nella forma della costruzione dell’intreccio dell’azione e dei personaggi; l’altra sulla rifìgurazione, ovvero sulla trasformazione dell’esperienza viva del tempo mediante il racconto: rifigurazione che viene situata da Ricoeur al livello di un ampio confronto tra una aporetica della temporalità – che attraverso le analisi di Agostino, Aristotele, Husseri, Kant e Heidegger, fa emergere lo scarto tra il “tempo vissuto” e il tempo fisico-cosmico che appare non attraversabile speculativamente e mostra che la temporalità non si lascia dire nel discorso diretto di una fenomenologia, ma richiede il discorso indiretto della narrazione – e una poetica della narratività, la quale, se ricollocata entro una ermeneutica della coscienza storica della storicità dell’esistenza, può dar voce – attraverso la mediazione aperta svolta dalla narrazione (nelle sue varie forme: racconto storico e racconto di finzione) e dalla mutevolezza dell’identità narrativa (quale capacità umana di narrarsi) – all’esperienza esistenziale della temporalità (nella sua dialettica di passato, presente e futuro). L’idea direttrice generale, secondo Ricoeur, è che nel racconto il tempo viene organizzato, parimenti, solo l’esperienza temporale permette al racconto di divenire significativo: il racconto porta a compimento la sua corsa soltanto nell’esperienza del lettore, del quale esso “rifìgura” l’esperienza temporale. Secondo questa ipotesi, il tempo è in qualche modo il referente del racconto, mentre la funzione del racconto è di articolare il tempo in modo da conferire ad esso la forma di un’esperienza umana. Come dice Ricoeur: “ la posta in gioco ultima e dell’identità strutturale della funzione narrativa e dell’esigenza di verità di ogni opera narrativa, sta nella natura temporale dell’esperienza umana. Il mondo dispiegato da qualsiasi lavoro narrativo è sempre un mondo temporale. […] Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo; per contro il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale ” (“Tempo e racconto”). Il problema che si pone è quindi quello del passaggio dalla configurazione all’interno del testo del racconto, alla rifigurazione del mondo reale del lettore, fuori dal testo del racconto. Nell’affrontare questo problema all’ermeneutica spetta pertanto il compito d’indagare il complesso delle operazioni che consentono all’autore del racconto di presentare al lettore la sua “storia”, distinguendola dall’esperienza quotidiana, ma senza lacerare i fili che ad essa la connettono. Nei confronti della costruzione dell’intrigo narrativo, l’ermeneutica, nel circolo tra racconto e temporalità, è dunque chiamata a svolgere una triplice “mimesis” intesa in senso dinamico come un processo attivo di imitazione e rappresentazione dell’azione. Imitazione creatrice nel triplice senso: “mimesi come precomprensione dell’azione, in quanto l’azione umana è già strutturata linguisticamente; mimesi come capacità dell’opera narrativa di configurare, di dare forma al mondo delle azioni umane- mimesi, infine, come capacità dei testi narrativi di alimentare una nuova prassi di ri-figurare l’azione.
IL SE’ E L’ALTERITA’
Una dimensione implicitamente ontologica orienta la complessa analisi della soggettività, dell’ermeneutica del sé e della dialettica del Medesimo e dell’Altro che Ricoeur ha svolto nella fase matura del suo itinerario fìlosofico con l’insieme degli studi che compongono la sua opera “Soi-méme comme un autre” del 1990. Partendo dalla critica dell’immediatezza originaria della coscienza tipica delle filosofìe del soggetto di matrice cartesiana e riprendendo le nozioni di primato della mediazione riflessiva e di ermeneutica dell’io, già formulate nelle sue precedenti opere, e tentando di stabilire un rapporto tra la filosofia analitica del linguaggio e la fenomenologia ermeneutica Ricoeur afferma dapprima che il soggetto non è un centro trasparente, autoponentesi e autofondantesi, ma è un’identità che non può non porsi la domanda su quel sé che ciascuno è nel rapporto costitutivo con l’altro; poi affronta il problema dello statuto del soggetto m primo luogo, nel riferimento ai processi linguistici di identificazione e di enunciazione e, in secondo luogo, stabilendo un confronto con la teoria dell’agire sociale e con la riflessione di tipo etico. Alla base dell’argomentazione di Ricoeur sta la distinzione tra due significati contrapposti dell’identià: identità come idem che rinvia alla continuità del medesimo (mémeté) e alla definizione sociale dell’individuo, da un lato; identità come ipse, riferita alla singolarità personale imprevedibile, dall’altro Oltre a considerare la dialettica complementare che si stabilisce e si intreccia tra identità- idem e identità- ipse, Ricoeur interpreta la dimensione ipse dell’identità anche come dialettica del sé e dell’altro: il Sé dell’uomo è altro da se stesso, è alterila. Questa alterità la filosofia non riesce a denominare in modo univoco: essa è il corpo l’altro uomo, la voce della coscienza. Tré prospettive filosofiche attraversano in Sé come un altro la fatica ermeneutica dell’ultimo Ricoeur, che egli stesso ha così sintetizzato: “ nella prima, viene ricercato per il se uno statuto che sfugga alle alternanze della esaltazione e della decadenza che affettano le filosofie del soggetto alla prima persona: dire sé non è dire io. Ritenuto il riflessivo di tutte le persone grammaticali – come nell’espressione: la cura di sé – il sé postula la deviazione attraverso analisi che portino ad articolare in modo diverso la questione chi? Chi è il parlante del discorso? Chi è l’agente o il paziente dell’azione? Chi è il personaggio del racconto? A chi viene imputata l’azione posta sotto l’egida dei predicati-buono” od “obbligatorio”? [Queste sono] indagini essenzialmente improntate alla cosiddetta filosofia analitica, con la quale l’ermeneutica del sé entra in un dibattito molto serrato. Seconda prospettiva: Y identità suggerita dal termine “mème” va scompo- sta m due principali significazioni: l’identità-idem di cose che permangono immutate nel tempo, e l’identità -ipse di colui che mantiene se stesso soltanto sul modo di una promessa mantenuta. Infine (terza prospettiva), l’antica dialettica del Medesimo e dell’altro deve essere rinnovata se l’altro da sé si dice in molti modi- il “come” dell’espressione “sé come un altro” può significare, allora, un legame più stretto rispetto a qualsiasi comparazione: sé in quanto altro ”. L’ermeneutica del sé, configurata nell’opera Sé come un altro, nelle sue intenzioni si presenta come una filosofia pratica che non ha ambizione di fondazione ultima ma alla quale “non fa difetto nè la sicurezza nè la confidenza generata dall’attestazione di sé come un altro”. Con quest’opera, di alto rilievo filosofico, Ricoeur si è riconosciuto di appartenere pienamente a quella che Jean Greisch ha definito l’età ermeneutica della ragione.
MAURICE BLONDEL
“Dobbiamo costruire una scienza dell’azione: scienza che non sarà tale se non sarà totale, perché qualunque maniera di pensare e di vivere deliberatamente implica una soluzione completa del problema dell’esistenza; scienza che non sarà tale se non determinerà per tutti una soluzione unica, esclusiva di tutte le altre. Giacché, per essere scientifiche, le mie ragioni non debbono avere per me piú valore di quanto non ne abbiano per gli altri, né lasciare luogo a conclusioni diverse dalle mie. In questo ancora il metodo diretto di verifica pratica vuole essere completato; rimane da mostrarlo“. (L’azione)
VITA E OPERE
Nato a Dijon il 2 novembre 1861, Maurice Blondel apparteneva ad una antica famiglia della Borgogna, che aveva dato al paese notai, medici, ufficiali, ma non ancora professori. Trascorse l’infanzia a Dijon in una dimora antica, in un ambiente appartato dove regnavano pace e tenerezza. Sognava di divenire sacerdote; poi, in seguito ad un ritiro spirituale, scelse la via del mondo, che significava per lui sposarsi e divenire docente all’Università. La sua famiglia passava le vacanze nella proprietà di Saint-Seine-sur-Vingeanne, vicino a Dijon. Blondel vi scoprì la liturgia e la campagna. Conobbe gli insetti e le loro metamorfosi, come più tardi, in Provenza, ammirerà le cicale e le piante grasse. Questo amore precoce per la natura segnò profondamente la sua giovinezza, gli diede sensibilità per intendere il valore simbolico del reale, cioè la poesia stessa. Nella proprietà di Saint-Seine, durante due anni di ritiro e di silenzio, isolato in una camera al secondo piano, davanti al paesaggio dei boschi e dei luoghi bagnati dal calmo Vingeanne, fu preso dapprima dal desiderio della apologetica; poi, a poco a poco, si lasciò condurre alle severe esigenze della filosofia più rigorosa. Scrisse diverse redazioni della sua tesi, “L’Action”, che difese nel 1893. Blondel studiò al liceo di Dijon. Ebbe come professore di filosofia Alexis Bertrand, che lo avviò allo studio di Leibniz, cui Blondel più tardi consacrò la tesi latina, e di Maine de Biran. All’Università, conseguì la licenza in lettere e il baccalaureato di diritto. Grazie soprattutto a Henri Joly, approfondì la conoscenza di Leibniz. Si preparò poi da solo per l’École Normale Supérieure, dove fu accolto nel 1881 e dove restò fino al 1885. Dopo l’aggregazione, insegnò nei licei di Chaumont, Montauban e Aix-en-Provence. Nel 1889, prese un congedo per preparare la tesi che doveva renderlo celebre. Ma, sul momento, non venne compreso: per due anni gli fu rifiutato un posto nell’insegnamento superiore, col pretesto che le sue conclusioni erano cristiane e che la ragione si trovava così spossessata di sé per l’intrusione della religione rivelata nel campo in cui essa sola doveva regnare. Ma questo duplice disprezzo per il suo metodo e per il suo fine fu superato. Nell’aprile del 1895, Blondel fu chiamato all’Università di Lille, poi, nel dicembre 1896, a Aix, dove insegnò fino al 1927, e fu uno di quei rari maestri che hanno non solo studenti, ma discepoli. Venuto il tempo di una pensione prematura, cui fu costretto dalle malattie, in particolare dalla cecità quasi totale e da una crescente sordità, rimase a Aix fino alla sua morte, il 4 giugno 1949. A buon diritto, allora, questo digionese è passato alla storia come “il filosofo d’Aix”. Alla Ecole Normale ricevette l’influenza soprattutto di due professori: Boutroux, che non fu solo per lui un professore di filosofia e di storia della filosofia, ma che gli dette un appoggio che non venne mai meno; e Ollé-Laprune, l’autore de “De la Certitude Morale”, che gli insegnò che ” lo sguardo dello spirito è sempre solidale con la vita dell’essere “. Se dunque Blondel ha pensato ad una tesi sull’azione, lo deve in parte a Ollé-Laprune, anche se l’ispirazione fu soprattutto sua. Dopo la difesa di questa tesi importante e difficile, caratterizzata da una dialettica rigorosa e da uno stile imperioso, ricca di profonde risonanze pascaliane, Blondel è condotto a esplicitarla e a difenderla in diversi articoli e soprattutto in mirabili lettere. Da parte cattolica, fu talvolta accusato di razionalizzare il cristianesimo, di farne una filosofia; dal lato universitario, fu al contrario accusato di misconoscere l’autonomia della filosofia, di renderla religiosa. Ma egli trovò anche dei difensori: tra i primi il Brunschvicg, che, suo oppositore all’inizio, ne fu presto conquistato. Egli riconobbe il rigore puramente razionale della sua opera e gli divenne amico. Anche ad Aix, dove si rifugiò durante l’occupazione, trovò difensori ed amici. Tra i cattolici a lui vicini si ricordano i suoi allievi Mulla e il Padre Auguste Valensin; poi l’abate Wehrlé e soprattutto un oratoriano che fu entusiasta della lettura de “L’Action”, il Padre Laberthonnière, con il quale Blondel collaborò per trenta anni, prima che emergessero differenze di temperamento e di metodo soprattutto. Negli “Annales de philosophie chrétienne” Blondel pubblicò, nel 1896, l’importante “Lettre sur les exigences de la pensée moderne en matière d’apologétique et sur la méthode de la philosophie dans l’étude du problème religieux”, che, più de “L’Action” suscitò violente controversie. In un’altra rivista, La Quinzaine, fece apparire “Histoire et dogme”, che, con “L’Action” e la “Lettre”, forma un insieme di scritti che s’illuminano reciprocamente e che procedono da un unico movimento dello spirito. Blondel volle ritirarsi un poco dalla lotta e moltiplicò gli scritti occasionali: articoli di storia della filosofia su Pascal, Descartes, Malebranche; inoltre concesse a Frédéric Lefèvre una esposizione del proprio itinerario filosofico in forma di intervista e scrisse ancora opere sulla filosofia cristiana. L’Action è stata per lui non più che una sorta di introduzione. Più ancora che una dottrina esplicita, essa imponeva un modo di filosofare. Il 4 marzo 1915 Blondel scriveva ad un eccellente interprete e amico, Paul Archambault: ” L’Action non è una filosofia intera. Essa non mi appare che un capitolo di una dottrina generale che suppone una unità originaria, un’immediatezza primitiva, un realismo originale; ma è un’unità implicita che, tramite il progresso stesso della vita e del pensiero, dovrebbe essere analizzata in una sorta di trinità reale del pensiero, dell’azione e dell’essere, per terminare nell’unione finale e esplicita “. Egli impiegherà circa venti anni per scrivere la sua trilogia, ma avrà la gioia di portarla quasi a compimento. Nel dicembre 1934 si apre il terzo periodo del pensiero blondeliano con la pubblicazione del primo tomo de “La Pensée”: l’autore ha 73 anni ed è tuttavia un inizio. Dal 1934 al 1937 appaiono i cinque volumi della trilogia: “La Pensée” (2 volumi), “L’Être et les êtres”, “L’Action” (la ripresa in due volumi dell’antica Action). Infine la pubblicazione nel 1944 e nel 1946 di due volumi (il terzo, pur previsto, non fu scritto) de “La philosophie et l’Esprit Chrétien” porta a compimento il lavoro e trasforma la trilogia in una tetralogia. Da “L’Action” a “L’Esprit Chrétien” non c’è che un’unica intenzione di fondo. È ragionevole dolersi che la sua ultima e necessaria spiegazione sia stata così tardiva: i critici non sono riusciti a capire la sua strada, e lo hanno reso esitante sul suo ultimo percorso. Anziano e malato, Blondel non ha potuto trovare nella tetralogia lo slancio della giovinezza. Per timore di obiezioni e incomprensioni, egli pensa spesso più a prevenirle che a sviluppare il suo pensiero, e questo rende il suo stile prudente e spigoloso, di lettura faticosa. Ma non si può parlare di seconda filosofia. Noi pensiamo che con tutti i suoi errori la tetralogia è un’opera capitale della riflessione filosofica di tutti i tempi. Senza di essa, si corre il rischio di fraintendere Blondel, come bene mostrano le incomprensioni che seguirono “L’Action” e la “Lettre”. È bene insistere sull’unità del progetto blondeliano. Per Blondel la vita umana è “una metafisica in azione”. Ma questa metafisica deve essere esplicitata attraverso uno sforzo rigoroso e ascetico. La filosofia è questo stesso sforzo sempre incompiuto, perché la riflessione non può esaurire mai l’attività spontanea e irriflessa, cioè il vissuto. Da qui il disegno di Blondel di dare all’azione uno statuto metafisico. Come ha detto Duméry, reintegrando l’azione (l’azione effettiva, quella che incarna le nostre intenzioni e le rende manifeste ed efficaci) all’interno della ricerca filosofica, Blondel ha allargato il campo della filosofia: ha fatto pervenire alla coscienza filosofica un settore d’esperienza che le sfuggiva. Ma Blondel ha scelto l’azione per ragioni ancor più profonde che riguardano il suo essere più intimo, la sua essenziale spiritualità, prima ancora che egli avesse imparato a riflettere su di essa. Se Blondel prese per oggetto di riflessione l’esistenza concreta, e non il pensiero astratto, fu in funzione del fine ultimo che perseguiva. Si trattava di scoprire, nel cuore stesso dell’uomo, il bisogno del soprannaturale. Ma non si poteva far sorgere l’idea del soprannaturale da un’analisi del concetto di natura (ovvero di natura umana). La sola via possibile era scoprire, attraverso un’analisi non psicologica, ma riflessiva, la logica dell’azione per mettere in luce ciò che essa non afferma esplicitamente, ma che implica. Il metodo fu proprio quello di una dialettica delle implicazioni. Blondel è stato un filosofo dell’azione perché voleva essenzialmente essere un filosofo della religione: non un filosofo cristiano dello spirito, ma un filosofo dello spirito cristiano. E la sua intenzione di fondo era quella di realizzare il programma indicato da una celebre formula di Lachelier: il ruolo della filosofia è di comprendere tutto, anche la religione. Così tutta l’opera blondeliana si sviluppa sotto il duplice segno della grandezza e della debolezza della filosofia. Grandezza, perché vuole comprendere tutto e, in via di diritto, nulla sfugge alla sua investigazione; debolezza poiché essa non si fonda né si chiude su se stessa, e manifesta in questo la propria insufficienza. Blondel ha riassunto un giorno la sua filosofia in un paragone impressionante. Al Panteon di Agrippa, a Roma, l’immensa cupola non ha la chiave di volta, ma un’apertura centrale da cui discende tutta la luce di cui si illumina l’interno. Allo stesso modo, la costruzione della nostra anima, come un’opera incompiuta, poggia non su un pieno, ma su un vuoto, un vuoto necessario perché passi l’illuminazione divina, senza la quale i nostri occhi sarebbero completamente ciechi e noi non potremmo portare a termine alcun compito. Se nell’uomo c’è un autentico destino che dà senso alla sua vita, non è possibile che la filosofia se ne disinteressi; se questo destino è, come afferma il cristianesimo, soprannaturale, non è più possibile che la filosofia vi giunga con le sue sole forze -in caso contrario, il soprannaturale non sarebbe più gratuito, cioè non sarebbe propriamente soprannaturale. Da questa opposizione segue lo statuto della filosofia: obbligata a porre un problema che non può risolvere perfettamente, essa resta necessariamente incompiuta, ma può rendere conto della sua stessa incompiutezza. Non può esserci filosofia senza sistema; ma non può esserci filosofia nemmeno se il sistema si chiude su di sé. In questo senso si può dire che l’idea di sistema aperto definisce il blondelismo. Questa filosofia dell’insufficienza conduce a riconoscere l’insufficienza della filosofia. Esporre la filosofia di Blondel significa analizzare la sufficienza e l’insufficienza, la debolezza e la grandezza della filosofia; e mostrare che il pensiero si sforza sempre più raggiungere il livello dell’azione, dell’esistenza e del vissuto senza che, tuttavia, possa mai giungervi pienamente; e che il pensiero non è la vita né può tenerne il luogo, perché ne è non altro che il verbo. La filosofia di Blondelè stata prima filosofia dell’azione, poi filosofia della religione; è stata filosofia dell’azione perché voleva già essere una filosofia della religione.
IL PENSIERO
Maurice Blondel (1861-1949), maggior rappresentante della “filosofia dell’azione”, si ispira a Ollé-Laprune, di cui fu allievo. La sua opera più importante si intitola “L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica”, pubblicata nel 1893, e riedita, in un completo rifacimento in due volumi, negli anni 1936-37. “L’action” si propone di dare una risposta all’inquietudine spirituale dell’uomo moderno che si interroga sul senso della vita e sul proprio destino. L’esordio, con accenti che anticipano i modi della letteratura francese esistenzialistica, entra subito nella centralità della questione:
” Ha o non ha un significato la vita umana, e l’uomo ha una destinazione? Agisco, ma senza neppur sapere che è azione, senza aver desiderato di vivere, senza conoscere precisamente chi sono, anzi neppure se sono. Questa parvenza d’essere che si agita in me, queste azioni lievi e fugaci di un’ombra, sento dire, recano in sé una responsabilità che pesa per l’eternità e, neppure a prezzo del sangue, posso comprare il nulla che non è più per me: sarò dunque condannato alla vita, condannato alla morte, condannato all’eternità! Come e per qual diritto, se non l’ho né saputo né voluto? Metterò in pace la mia coscienza. Se c’è qualcosa da vedere, ho bisogno di vederla. Imparerò forse se questo fantasma che sono a me stesso, con questo universo che porto nel mio sguardo, con la scienza e la sua magia, con lo strano sogno della coscienza, ha sì o no qualche solidità. Scoprirò indubbiamente che si cela nei miei atti, in quell’ultimo fondo dove, senza di me, mio malgrado, subisco l’essere e mi ci aggrappo “
Per giungere alla soluzione di questi enigmi ci vuole lo studio dell’azione: non la ragione riflessiva, non l’intenzionalità cosciente, ma l’azione è, nella vita umana, il fatto più generale e più costante di tutti, quello che, meglio della ragione e della coscienza, esprime il nucleo più profondo dell’essere umano, anche ciò che si nasconde alla chiarezza trasparente ma limitata delle idee consapevoli. Per Blondel, l’essenza dell’uomo è data dalla volontà , la quale si divide al proprio interno in volontà volente e volontà voluta : la prima esprime l’elemento attivo della volontà, ciò che essa vuole realizzare con le sue forze spirituali; la seconda indica invece l’esito reale della volontà, i risultati che essa consegue nel mondo oggettivo. Poiché la volontà voluta (ossia il risultato conseguito) appare sempre inadeguato rispetto alla volontà volente (all’ideale perseguito), ne nasce una dialettica per cui la volontà volente tende sempre a trascendere la volontà voluta: di fronte ai risultati di ogni volontà voluta sorge, quindi, una nuova volontà volente, che condurrà a una ulteriore volontà voluta e così via. Questo processo costituisce la dialettica dell’azione , nella quale si esprime non solo la dimensione specificamente umana, ma l’intera realtà. Le determinazioni oggettive del mondo esterno – in primo luogo il corpo, poi il mondo naturale – non sono infatti che espressioni della volontà voluta, cioè rappresentano la realizzazione della volontà considerata sotto l’aspetto dei limiti che essa incontra nella sua espansione. Analogamente, i diversi livelli del mondo sociale – la famiglia, la patria, l’umanità – non sono che gradi successivi del processo di realizzazione della volontà attraverso la dialettica di volontà volente e volontà voluta. Finché si rimane nell’ambito del finito, questa dialettica non avrà alcun termine, poiché la volontà volente sarà sempre insoddisfatta dei risultati conseguiti nella volontà voluta. Bisogna invece realizzare la condizione in cui tra la volontà e la sua realizzazione ci sia una corrispondenza perfetta, ovvero, secondo la terminologia di Blondel, sia possibile ” voler volere “. Ma ciò è possibile soltanto quando l’uomo trascende se stesso e il mondo finito per giungere a Dio e all’infinito. L’esigenza di Dio è dunque intrinseca alla stessa natura finita dell’uomo e scaturisce da essa: per questo Blondel – nella “Lettera sulle esigenze del pensiero contemporaneo in materia di apologetica” (1896) – definisce metodo dell’immanenza la sua via per giungere a Dio. Attraverso il metodo dell’immanenza Blondel influisce potentemente sulla corrente del modernismo – in particolare su Lucien Laberthonnière – alla cui base vi è il convincimento che i dogmi della fede non hanno valore se non in quanto sono attivi nell’interiorità della coscienza umana. In opere più tarde – “Il pensiero” (1934), “L’essere e gli esseri” (1935) – Blondel rinuncia alla risoluzione dell’intera realtà nel processo dell’azione e, accanto a quest’ultima, ammette l’esistenza autonoma del pensiero e dell’essere, sebbene i tré momenti – azione, pensiero, essere – rimangano strettamente congiunti. In ogni caso, anche per l’essere e il pensiero, Blondel ripropone il processo di continuo trascendimento di sé che aveva individuato nella volontà: anche in questo caso, quindi, l’esito delle riflessioni di Blondel è il necessario superamento del finito nell’infinito e il riconoscimento dell’esigenza di Dio che è intrinseca alla natura umana. Blondel collaborò con lo pseudonimo di Bernard de Sailly agli Annali di filosofia cristiana, l’organo del movimento modernista diretto da Laberthonnière: egli però non condivise mai a fondo i princìpi del modernismo e specialmente dopo la sua condanna da parte di Pio X nel 1907 se ne staccò in maniera inequivocabile. Il tema peculiare di Blondel è la ricerca dell’unità fondante il reale a partire da un’analisi dell’esistenza umana intesa a mostrarne l’immanente tensione verso l’assoluto (e appunto di qui il nome di sistema “dell’immanenza”). Blondel pone i termini del problema muovendo dall’opposizione, originaria, fattuale, ineliminabile, tra il desiderio della volontà di potere qualsiasi cosa e le costrizioni delle cose esterne alla volontà stessa. Presa coscienza di questa contraddizione, la filosofia cessa di essere speculazione passiva e diventa pensiero agente: giacché scorge la perenne insoddisfazione dell’uomo per tutto ciò che egli ha voluto o può volere e la conseguente esigenza di trascendere la volontà finita. Ora, il trascendimento è realizzato da un atto di volontà, che in questo non avviene soltanto in senso “trascendentale” (nell’accezione kantiana del termine) tale per cui esso si limiterebbe a porre un fondamento all’azione nel mondo dell’esperienza sensibile, ma in senso specificamente “trascendente”, tale per cui nell’azione è posto a fondamento il volere assoluto, divino, in cui la volontà umana concilia la sua contraddizione originaria, coglie la sua identità con l’essere e con il pensiero. Ed essendo la contraddizione segno di imperfezione ed esigendo la perfezione, il rinvio all’assoluto si fa necessario. La stessa dialettica si riscontra anche nel rapporto tra gli esseri finiti e l’essere infinito: dove, ancora una volta, Dio appare come colui che soltanto è capace di appagare l’infinita esigenza (“desiderium naturale et inefficax ad infinitum”) che l’uomo ha per l’infinito. Nello scritto “L’Essere e gli esseri”, Blondel ripropone l’antico problema di tutte le ontologie: se l’Essere è Uno, come mai sono possibili gli esseri molteplici? Si può trovare una risposta solamente a patto di muoversi all’interno della vita cosciente dell’uomo. Questi mette in atto uno sforzo immenso ” per consolidare gli esseri in se stessi ” ma il risultato è uno scacco a metà: ” c’è abbastanza in essi perché sia impossibile annientarli, c’è troppo poco ancora in essi perché bastino a se stessi in una consistenza piena e definitiva “. Quindi, da un lato abbiamo certezza dell’essere in quanto ne facciamo esperienza intorno a noi e in noi stessi, giacchè “siamo”, sicchè non abbiamo bisogno di cercare l’essere come se ci fosse estraneo; dall’altro, percepiamo l’incompiutezza dell’essere delle cose e del nostro essere stesso, ma insieme scopriamo che l’essere consapevole che noi siamo è “capax Dei”. Si riapre, dunque, l’alternativa e si ripropone la responsabilità che grava sull’esercizio della libertà: accettare o no di dare consistenza piena al proprio essere e all’essere delle cose finite nell’apertura all’Essere assoluto. E’ qui che si riconferma il primato dell’azione: solamente attraverso di essa, la sua decisione responsabile, noi possiamo fondare nell’Essere la nostra vita e, con essa, quella dell’intero universo.
VILFREDO PARETO
BREVE SINTESI
Vilfredo Pareto (1848 – 1923) era un economista e sociologo che, appena laureato in Economia, partecipò attivamente alla battaglia liberista contro il protezionismo e l’asservimento dello stato a interessi privati. Le sue principali opere economiche sono il Corso di economia politica (1898) ed il Manuale di economia politica (1906). La sue teorie vedono l’economia come la scienza che ha per oggetto le azioni logiche dell’uomo per raggiungere i fini adeguati tramite i mezzi a disposizione. Ogni soggetto compie delle azioni secondo i suoi gusti, operando a seconda della disponibilità dei beni e della tecnologia, che vengono definiti ostacoli. L’equilibrio finale tra gusti e ostacoli è descritto dall’analisi economica. Pareto sostiene che la sociologia, alla quale si dedica fervidamente dal 1897, è il seguito logico dell’economia, poiché serve a ritrovare le condizioni che garantiscono l’equilibrio della comunità. La società è composta da elementi che interagiscono fra di loro e tendono a compiere imprese prevalentemente negative, che Pareto definisce azioni non logiche, in quanto non mettono in atto la consapevolezza dei mezzi rispetto ai fini. Ciò può accadere quando le persone si comportano seguendo l’istinto, oppure tengono conto solo dei parametri soggettivi invece di considerare anche quelli oggettivi, basando le azioni su fattori culturali e non logico-sperimentali. Pareto basa lo studio sociologico sulle teorie, ovvero sulle credenze associate alle azioni, dividendole in teorie logico/sperimentali (che riflettono fedelmente le azioni logiche) ed in teorie non logico sperimentali, che, nonostante la loro falsità scientifica, svolgono un ruolo centrale sulla società facendo leva sulla loro illusorietà. Queste teorie negative sono composte da elementi quasi logici, tramite cui le persone razionalizzano a posteriori i loro istinti e sentimenti, che prendono la definizione di derivazioni. L’altra faccia delle teorie non logico/sperimentali sono i residui positivi dell’autentica teoria logica. L’applicazione più famosa di questa concezione sociologica è la teoria della circolazione delle élites. Secondo questa teoria i residui sono distribuiti incongruamente nella società, che a causa di questa iniquità si divide in una classe dominante ed in una classe dominata, composta dalle persone meno dotate. La classe dominante è responsabile della forma politica della società e delle sue condizioni di equilibrio. Nella società ideale, si verifica un costante equilibrio dinamico tramite il ricambio continuo e regolare dell’élite. Quando ciò non è possibile, si può verificare un equilibrio statico o una situazione sovversiva, che conduce ad un nuovo sistema politico e sociale (rivoluzione). Quest’ultimo mutamento, secondo le considerazioni di Pareto, non potrebbe mai essere positivo, in quanto la rivoluzione è sinonimo di regresso. Queste considerazioni si distanziano notevolmente dalle teorie del materialismo storico e del darwinismo sociale, che invece vedono nel progresso una forma di evoluzione.
Il metodo
L’uomo non è quell’essere razionale che credono gli economisti. Le azioni umane possono essere contemporaneamente assurde e positive. Sono importanti da considerare i fatti, e per il Pareto, anche i valori sono fatti. Dei fatti Pareto non vuole coglierne l’essenza. Affermare l’assurdità di una dottrina non significa affermare che sia inutile. Pareto non crede che la scienza possa comprendere la totalità del reale e dei fatti osservati, anche se ciò potrebbe sembrare. Il confronto con i fatti è l’unica rigidità del suo metodo.
La teoria dell’azione. Residui e derivazioni.
La distinzione tra azioni logiche e non, non ha senso e non è possibile senza un criterio logico. Nel giudicare logica un’azione, questa deve rispettare 2 condizioni: – sia intenzionata in modo logico; – predisponga adeguatamente i mezzi per raggiungere un fine. L’azione non logica è un’azione che non rispetta entrambi i criteri richiesti dal metodo sperimentale.. Le azioni logiche sono poche, si hanno presso i popoli “civili” (dov’è sviluppata la scienza) e riguardano in gran parte economia e scienza. Non esclude che, a seconda del contesto, un’azione non logica possa rivelarsi logica. Ad esempio prima della battaglia il generale romano consultava gli aruspici davanti alla truppa. E’ un’azione non logica perché i mezzi non sono adeguati al fine (vittoria). Tuttavia il generale, così facendo, dava convinzione ai soldati à l’azione diveniva logica. Un’azione non logica non è irrazionale. Il sociologo non deve indagare sul dove hanno origine le azioni non logiche o cosa sono, ma su quali fatti le danno luogo. Partire dai fatti senza considerare l’origine. Gli esseri umani agiscono in base a impulsi, istinti, sentimenti e sentono insopprimibile il dare una veste logica alle loro azioni, quasi sempre illogiche. 1° genere: Azioni piuttosto rare che non hanno una condotta logica. Sono rare perché gli uomini razionalizzano le azioni più assurde. 2° genere: Quasi la totalità delle azioni umane. Gli atti non sono logicamente connessi al risultato ma lo sono nella coscienza di chi agisce. (ad es. le danze magiche per la pioggia) 3° genere: Azioni con risultato logico avendo il soggetto compiuto atti giusti per raggiungerlo e però senza averci pensato. Azioni istintive (come le palpebre che si chiudono se un oggetto sta per colpire l’occhio). 4° genere: Azioni intenzionate in modo logico che hanno un risultato oggettivamente logico. Ciò che gli uomini fanno non corrisponde a ciò che si proponevano di fare. (gli imprenditori che cercano di ridurre i costi dei loro prodotti non si propongono di abbassare i prezzi sul mercato, tuttavia il risultato è questo).
Cos’è un’azione?
Un’azione si compone di 2 parti, la prima corrisponde a impulsi che rinviano a istinti, sentimenti e simili, la seconda consiste nelle razionalizzazioni, nelle giustificazioni che gli uomini danno alle loro azioni. Il primo elemento è costante, l’altro varia. Ad es. in tutte le culture l’omicidio è proibito e punito. Tuttavia le motivazioni della proibizione sono diverse, da ragioni religiose a giuridico/logiche. La proibizione dell’omicidio è la parte costante, le motivazioni sono quella variabile. Pareto non vuole sapere cosa sono i residui: se dovuti a sentimenti, istinto o altro. Definiti i contenuti dell’azione, composta da una parte costante, il residuo, e di una variabile (la derivazione).
Sei residui fondamentali
1- Istinto delle combinazioni; 2- La persistenza degli aggregati; 3- Il bisogno di manifestare i sentimenti con atti esterni; 4- L’istinto di socialità; 5- L’integrità dell’individuo; 6- Residuo sessuale. I primi 2 sono i più importanti (PROGRESSO e CONSERVAZIONE) Le altri 4 classi sono la classificazione dei comportamenti umani in società.
La stratificazione sociale e la teoria delle elites.
Per Pareto in ogni tempo e ogni luogo, la storia del passato ci mostra gli individui divisi in gruppi che si procurano i beni sottraendoli ad altri gruppi che a loro volta fanno lo stesso. Ogni società è divisa in 2 gruppi (strati): quello dei GOVERNANTI e quello dei GOVERNATI. Tale gerarchia non manca mai. Di solito lo strato superiore costituisce una ELITE minoritaria. L’elite è costituita da coloro che hanno gli indici più elevati nella rispettiva attività. Queste elites vanno divise in 2 parti: quella che detiene il potere e quella che vuole sottrarglielo. Lo stare al potere infiacchirà la prima elite che prima o poi dovrà cedere il potere all’altra elite, più giovane e agguerrita. La circolazione e la lotta tra elites è indispensabile. Il sistema sarà più in equilibrio più la classe al potere saprà inglobare quella in ascesa. Devono mescolarsi gli uomini forti (leoni) con quelli furbi (volpi). (tipico di Machiavelli) La circolazione delle elites è inconvertibile e utile per la prosperità. Pareto conclude che si può immaginare una società con gerarchia stabile, ma non avrebbe nulla di reale. La gerarchia finisce col mutare. La storia della società umana è la storia dell’avvicendarsi delle aristocrazie.
Il sistema sociale e il suo mutamento.
Egli ha un’idea di un sistema in equilibrio alla cui base è il conflitto. E’ un equilibrio dinamico. La dinamicità è basata sui due residui fondamentali (progresso e conservazione). Il prevalere del primo spinge la società verso il nuovo, il secondo residuo tende a consolidare e preservare. E’ la legge del pendolo che determina un equilibrio instabile soggettivo a mutamenti ciclici analoghi. Gli interesse agiscono sui residui e sulle derivazioni. I residui agiscono sugli interessi, e le derivazioni agiscono sui sistemi economici modificando gli interessi. A una società in cui prevale l’istinto delle combinazioni succede una società in cui prevale la persistenza degli aggragati. Il sistema sociale oscilla, le oscillazioni variano. Le società cambiano lentissimamente in quanto i residui cambiano lentissimamente. C’è dunque una teoria ciclica del mutamento sociale che non torna però esattamente allo stesso punto di partenza. I residui non cambiano. Le manifestazioni cambiano lentamente. Le derivazioni cambiano velocemente.
IL PENSIERO
Vilfredo Pareto (1848-1923) fu prima ingegnere, poi economista, infine sociologo. Nacque a Parigi nel 1848, suo padre era un marchese in esilio in Francia per ragioni politiche. Rientra in Italia nel 1859 a Casale Monferrato. Nel 1870 si laurea a pieni voti in ingegneria. Viene assunto dalle ferrovie. Passa dalle ferrovie alle ferriere. Nel ’20 giudica la situazione italiana caotica e pericolosa, si dimostra contrario al partito socialista. L’anno seguente il fascismo attrae la sua attenzione, come al solito, scettica: ma poi cambia idea. “Speriamo che Mussolini rinnovi l’Italia. E’ un uomo di stato di primissimo ordine”, ma comunque si rende conto della violenza esagerata dei fascisti. Il fascismo lo inserisce nelle liste dei senatori da presentare al re. La sua adesione resta comunque cauta. Muore nel 1923. Nella cultura italiana del tempo Pareto ha una dimensione quasi iconoclasta. Nato in Francia da famiglia italiana, quando completa gli studi di ingegneria al politecnico di Torino mantiene nella sua cultura l’impronta del positivismo francese. Rispetto agli studiosi italiani dell’epoca, progressisti prudentissimi o caratterizzati da un massimalismo adolescenziale, egli appare teso a distruggere preconcetti, sentimentalismi, pulsioni missionarie, utopie, demagogie. La sua posizione è rigorosamente scientifica. ” Spinto da un desiderio di apportare un complemento indispensabile agli studi di economia politica e soprattutto ispirandomi all’esempio delle scienze naturali, io sono stato indotto a comporre il mio ‘Trattato di sociologia’ il cui unico scopo – dico unico e insisto su questo punto – è di ricercare la realtà sperimentale per mezzo dell’applicazione alle scienze sociali dei metodi che hanno fatto le loro prove in fisica, in chimica, in astronomia, in biologia e in altre scienze simili “. Questa dichiarazione, che si trova negli “Scritti sociologici”, pubblicati nel 1946, è la sintesi degli obiettivi di Pareto. Egli vede il sistema sociale come un sistema fisicochimico nel quale le molecole sono rappresentate dai singoli umani con le loro particolarità che interagiscono al momento della “miscelazione sociale”. Nel “Trattato di sociologia generale”, apparso nel 1916, Pareto mette sotto analisi l’irrazionalità del comportamento umano, trascurandone la razionalità, già trattata a fondo nei testi di economia da lui scritti. Tuttavia, contrariamente a quanto fa Veblen negli Stati Uniti, egli non opera il distacco dalla teoria economica ma ne integra le astrazioni per arrivare, attraverso lo strumento sociologico e psicologico, alla spiegazione di quelle manifestazioni del comportamento umano che l’analisi economica non è riuscita a penetrare. Pareto, insomma, vuole separare in modo concettuale le componenti razionali dell’azione dalle componenti non razionali. Un esempio preso dal “Trattato”:
” Un politicante è spinto a propugnare la teoria della ‘solidarietà’ dal desiderio di conseguire quattrini, onori, poteri… E’ manifesto che se il politicante dicesse: ‘Credete a questa teoria perché ciò mi torna conto’, farebbe ridere e non persuaderebbe alcuno; egli deve dunque prendere le mosse da certi principi che possano essere accolti da chi l’ascolta… Spesso chi vuoi persuadere altrui principia col persuadere se medesimo; e, anche se è mosso principalmente dal proprio tornaconto, finisce col credere di essere mosso dal desiderio del bene altrui “
. Nel distinguere i fatti umani Pareto individua un nucleo costante costituito da manifestazioni di istinti, sentimenti, interessi che egli definisce “residuo”, e un nucleo variabile costituito da tentativi di giustificare razionalmente l’irrazionale, detto “derivazione”. Su questa distinzione Pareto costruisce l’edificio della sua sociologia e arriva alla formulazione della teoria dell’equilibrio sociale che, a somiglianza di quella dell’equilibrio economico, appoggia sui fattori individuali già citati e sui fenomeni d’insieme, di gruppo, ai quali i fattori individuali danno vita. Quando Pareto passa al settore politico, conclude che la società ha una struttura elitaria, che le masse sono incapaci di governarsi, che le élite (data la legge della competizione e della conseguente selezione dei più forti) sono destinate ad ascendere e a decadere (teoria della circolazione delle élite). I popoli, sostiene Pareto sulla “Rivista italiana di sociologia” del luglio 1900, ad eccezione di brevi periodi di tempo, sono sempre guidati da un’aristocrazia, intendendo questo termine come indicativo dei più forti, dei più energici, dei più capaci sia nel positivo sia nel negativo. Ma per legge fisiologica le aristocrazie non reggono all’onda lunga e perciò la storia umana procede
” mentre una gente sale e l’altra cala. Tale è il fenomeno reale, benché spesso a noi appaia sotto altra forma. La nuova aristocrazia, che vuole cacciare l’antica o anche solo essere partecipe dei poteri e degli onori di questa, non esprime schiettamente tale intendimento, ma si fa capo a tutti gli oppressi, dice di voler procacciare non il bene proprio ma quello dei più: e muove all’assalto non già in nome dei diritti di una ristretta classe, bensì in quello dei diritti di quasi tutti i cittadini. S’intende che, quando ha vinto, ricaccia sotto il giogo gli alleati o al massimo fa loro qualche concessione di forma. Tale è la storia delle contese dell’aristocrazia, della plebs e dei patres a Roma; tale, e fu ben notata dai socialisti moderni, è la storia della vittoria della borghesia sull’aristocrazia di origine feudale “.
Pareto non perde d’occhio quanto accade attorno a lui. E’ il momento in cui imperversano logomachie ideologiche, i partiti prendono sempre maggior forza organizzandosi meglio e quindi meglio penetrando nel tessuto sociale del paese. Il socialismo è sulla cresta dell’onda, fa diga in difesa dei diritti dei contadini, dei mezzadri, dei braccianti, degli operai, si presenta come pista di lancio dell’umanità verso il “mondo giusto e di uguali”. Ma cosa pensa Pareto del socialismo? Si sente spesso parlare – egli risponde nel libro “I sistemi socialisti” – di un’economia politica liberale, cristiana, socialista, eccetera. Dal punto di vista scientifico ciò non ha senso. Una proposizione scientifica è vera o falsa, non può adempiere un’altra condizione, come quella di essere liberale o socialista. Voler integrare le equazioni della meccanica celeste mercé l’introduzione di una condizione cattolica o atea, sarebbe un atto di pura follia. Ma se tali caratteri accessori sono assolutamente respinti dalle teorie scientifiche, essi non mancano mai, invece, fra gli uomini che studiano queste teorie. L’uomo non è un essere di pura ragione, è anche un essere di sentimento e di fede, e il più ragionevole non può esimersi dal prendere partito, forse anche senza averne netta coscienza, a proposito di alcuni dei problemi la cui soluzione oltrepassa i limiti della scienza. ” Non vi è un’astronomia cattolica e un’astronomia atea “, specifica Pareto, ” ma vi sono astronomi cattolici e astronomi atei. Voler dimostrare il teorema del quadrato dell’ipotenusa con un appello agli ‘immortali principi del 1789’ o alla ‘fede nell’avvenire della Patria’ sarebbe perfettamente assurdo. E’ lo stesso che invocare la fede socialista per dimostrare la legge che, nelle nostre società, regola la distribuzione della ricchezza. La fede cattolica ha finito col mettersi d’accordo con i risultati dell’astronomia e della geologia che la fede dei marxisti e quella degli etici, dunque, procurino anch’esse di conciliarsi coi risultati della scienza economica! “. Quando Pareto dà alle stampe il “Trattato di sociologia” (è il 1916) sta divampando in pieno la prima guerra mondiale. A chi studia la scena internazionale con attenzione e distacco scientifico appare chiaro che l’analisi di Vilfredo Pareto (da alcuni anni in Svizzera, chiamato alla cattedra di economia politica presso l’università di Losanna) trova riscontro frequente nella realtà dei fatti che stanno accadendo. Un’altra conferma viene alla fine del grande massacro, nel 1918: la caduta delle aristocrazie tedesca, russa, austriaca, esito di quel grande scontro fra élite internazionali che è stato il conflitto appena concluso. Qualche anno dopo, dal suo tranquillo osservatorio di Losanna, Pareto vede scorrere sullo schermo della storia i drammatici anni del dopoguerra italiano. Accade qualcosa di simile a quello che aveva immaginato Marx. Ma nel fluire degli avvenimenti non si riscontra la dialettica prevista dal filosofo tedesco (anche se in Russia la rivoluzione dell’ottobre 1917 fa nascere la “grande illusione”). Anzi, quanto avviene in Italia sembra la conferma sperimentale della teoria delle élite: conquista il potere la “élite fascista” che in un primo momento si fa portavoce delle masse e poi si allea – essendo incerto il rapporto di forza – con la vecchia “aristocrazia” che voleva cacciare, per essere ” anche solo partecipe del potere e degli onori di questa “. Più tardi la nuova élite stipulerà un’altra alleanza, anche questa da manuale paretiano: quella con la Chiesa romana. Anni dopo, nuove conferme: in Germania la presa del potere da parte del nazismo e l’alleanza con la grande borghesia tedesca; in Unione Sovietica il socialismo non diventa realtà e i popoli della Grande Russia si trovano dominati, anziché dall’aristocrazia guidata dallo zar, dall’élite espressa dal partito al potere.
OTTO NEURATH
Otto Neurath (1908-1945), importantissimo rappresentante del Circolo di Vienna, sul problema della verificazione assunse una posizione infinitamente diversa da quella di Schlick. Nato a Vienna, si era addottorato in matematica a Berlino ed era stato consulente economico del governo comunista in Baviera, nel 1919; arrestato, era sfuggito alla condanna grazie anche all’intervento di Max Weber. Tornato a Vienna, fece parte del Circolo dei neo-positivisti, nel 1940 emigrò in Olanda e poi a Oxford, dove morì. Nel 1931 egli pubblicò in “Erkenntnis” un articolo intitolato “Fisicalismo”, nel quale sostenne – probabilmente influenzato da Wittgenstein – che è impossibile trascendere il linguaggio per confrontarlo con la realtà, come pretendeva il criterio empirico di significanza, sostenuto da Schlick. La verità di una proposizione non dipende dal confronto di essa con un fatto, perché fatti e proposizioni sono entità non omogenee, inconfrontabili. Non esistono, dunque, enunciati elementari, che si riferiscano, attraverso i dati della sensazione, a una realtà esterna al linguaggio. Per Neurath è un mito che a fondamento del sapere scientifico vi siano fatti o esperienze elementari o proposizioni che li esprimono e non il linguaggio nella sua totalità. In realtà, anche le proposizioni che registrano presunte esperienze vissute elementari, ossia quelli che Carnap chiama “protocolli”, essendo legate a esperienze individuali, non godono di una posizione privilegiata rispetto ad altri tipi di proposizioni, ma devono anch’esse essere verificate e ciò può avvenire solamente attraverso il confronto con altre proposizioni. La verità di una proposizione consisterà, allora, nella sua concordanza logica con altre proposizioni e, al limite, con l’insieme degli enunciati della scienza: in tal modo, alla nozione di verità come corrispondenza con i fatti, Neurath, analogamente a quanto aveva fatto Duhem, sostituisce la nozione di verità come coerenza di un’asserzione con la totalità delle altre asserzioni . Il che significa che la conoscenza non parte mai da zero, da una sorta di tabula rasa. Per illustrare questo punto, Neurath usa una metafora nautica: ” siamo come marinai che devono ristrutturare la loro nave in mare aperto e che non sono in grado perciò di ricominciare da capo “. Le proposizioni osservative non sono il punto di partenza dell’indagine, ma l’esito a cui essa perviene e servono a rispondere alla domanda se le previsioni formulate dalla teoria si sono o no avverate: è la contraddizione con proposizioni osservative che conduce ad abbandonare la teoria stessa. In determinate condizioni, tuttavia, anche i risultati dell’osservazione empirica devono essere trascurati, se contraddicono determinate teorie generali. La scienza è dunque un linguaggio, il quale è una costruzione fisica, fatta di suoni e segni scritti: della sua struttura si può parlare senza contraddizioni usando i mezzi del linguaggio stesso. La più progredita tra le scienze è la fìsica, cosicché il linguaggio della fisica è quello più adeguato per analizzare il linguaggio, a condizione di concentrarsi sulla sintassi, ossia sulle connessioni interne tra gli enunciati, anziché porsi la pseudo-questione della corrispondenza tra essi e i fatti extralinguistici. In ciò consiste il cosiddetto fisicalismo di Neurath; estendendo il modello del linguaggio della fisica a tutte le scienze è possibile perseguire l’ideale della scienza unificata. Anche la sociologia, come ogni altra scienza, non può studiare un solo tipo di oggetti, isolati dagli altri: i comportamenti umani non possono essere isolati dall’insieme degli altri fenomeni naturali e, pertanto, devono essere descritti in termini fisici, ossia mediante coordinate spazio-temporali. Allo stesso modo, anche il linguaggio scientifico non può essere isolato dal linguaggio quotidiano e dalla comunità scientifica che lo produce, sicché le stesse teorie scientifiche risultano strettamente legate ai contesti sociali nei quali sorgono ed è perciò illusorio pretendere da esse la purificazione totale da ogni ambiguità e una assoluta obiettività.
ORTEGA Y GASSET
A cura di Giorgia Baldin e Diego Fusaro
” Quando insegni, insegna allo stesso tempo a dubitare di ciò che insegni. “
“Il senso della vita, quindi, non è altro che accettare ognuno la propria circostanza e, nell’accettarla, trasformarla in una creazione nostra. L’uomo è l’essere condannato a tradurre la necessità in libertà. ” (“Il tema del nostro tempo”)
CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
1883: Ortega nasce a Madrid sotto la Restaurazione di Alfonso XII di Borbone; suo padre, J. Ortega Munilla, scrittore e giornalista, dirige “El Imparcial”, autorevole quotidiano, di orientamento liberale, fondato dal suocero E. Gasset y Artime; è per questo motivo che Ortega dirà poi di essere “nato su una rotativa” (così, ad esempio, Mozart, nel campo della musica);
1891-97: studia presso il collegio dei Gesuiti di Mitraflores; durante questo periodo perde lentamente la sua fede cattolica, anche sotto l’influenza di Renan;
1905-6: dopo essersi laureato in filosofia, si reca in Germania per completare i suoi studi filosofici; si iscrive all’Università di Lipsia e, successivamente, a quella di Berlino e, l’anno seguente, segue a Marburgo i corsi universitari dei filosofi neo-kantiani H. Cohen e P. Natorp; sotto la loro guida si avvicina al socialismo di ispirazione kantiana e fabiana di E. Bernstein; nello stesso periodo stabilisce rapporti di amicizia con N. Hartmann e H. Heimsoeth;
1907-8: ritorna a Madrid; partecipa alla fondazione della rivista “Faro”, sulle cui pagine scriverà articoli di fuoco contro il Governo presieduto dal conservatore La Cierva; l’anno successivo è nominato professore di psicologia, logica e etica nella Scuola sup. di Magistero di Madrid; poi si reca di nuovo in Germania, dopo essere stato anche in Italia;
1914-16: dopo la pubblicazione delle Meditaciones del Quijote (’14), fonda con Azorín e E. D’Ors la rivista “España” e l’anno successivo inizia personalmente la pubblicazione di “El Espectador” (’16), di cui usciranno otto volumi;
1920-29: dopo la pubblicazione di España invertebrada, (’20), fonda la “Revista de Occidente”, che diventa la più prestigiosa di filosofia e scienze sociali; Ortega si reca per la seconda volta in Argentina (’29) dove ha numerosi “aficionados” fra i giovani intellettuali. Il dittatore Primo de Rivera ordina il 7 marzo del ’29, l’arresto di numerosi studenti che avevano protestato per le ingerenze politiche nella vita universitaria: Ortega risponde al sopruso rinunciando alla cattedra e continuando il suo corso di lezioni “Qué es filosofia?” nel teatro Barceló di Madrid, con uno straordinario successo di pubblico;
1930-34: pubblica l’articolo “El error Berenguer” che contribuisce efficacemente alla liquidazione della Monarchia e alla istaurazione della seconda Repubblica; esce La rebelíon de las masas (’30) che consacra Ortega autore di fama internazionale; continua la sua battaglia a favore della Repubblica; auspica la formazione di un partito nazionale ispirato a un socialismo liberale: amareggiato per lo scarso esito del suo appello, Ortega si ritira dalla vita pubblica attiva per concentrarsi nei suoi studi;
1936-42: le forze reazionarie cercano di rovesciare la Repubblica: è la guerra civile; i comunisti costringono un gruppo di intellettuali, tra i quali anche Ortega, a firmare un manifesto a favore della Repubblica: Ortega lascia disgustato la Spagna in volontario esilio (’36); soggiorna con Azorín e altri esuli a Parigi, in Olanda, in Argentina (’39); ritorna in Europa, nel ’42, e si stabilisce a Lisbona;
1946-55: il Governo franchista gli concede di rientrare a Madrid, dove vivrà isolato, censurato, avversato sia dal Governo che dalla Chiesa (aspra e violenta la critica dei Gesuiti); nel ’51 riceve la laurea “honoris causa” dall’Università di Glasgow; si incontra a Darmstadt con M. Heidegger con il quale stabilisce un rapporto di cordiale amicizia; muore a Madrid il 17 ottobre del ’55: il governo franchista diffonde la notizia falsa secondo la quale Ortega al momento della morte avrebbe chiesto e ottenuto i sacramenti; la notizia fu subito smentita da una lettera dei figli di Ortega.
“Ogni cosa concreta è costituita da una somma infinita di relazioni. Le scienze procedono discorsivamente, cercano ad una ad una queste relazioni, e, pertanto, avranno bisogno di un tempo infinito per esaurirle tutte. È questa la vera tragedia della scienza: lavorare per un risultato che non raggiungerà mai pienamente. ” (“Meditazioni del Chisciotte”)
VITA E OPERE
Josè Ortega y Gasset nasce a Madrid il 9 maggio 1883. Il padre era direttore de “El Imparcial”, giornale di orientamento liberale. Studia dai gesuiti e in seguito all’Istituto di Studi Superiori di Deusto (Bilbao). A Madrid torna per proseguire gli studi universitari e si laurea in filosofia nel 1904, con una tesi su “Los terrores del an-o mil” (“I terrori dell’anno mille”). L’anno precedente, intanto, aveva conosciuto il filosofo spagnolo Unamuno. L’anno successivo alla laurea, si trasferisce in Germania: si iscrive all’Università di Lipsia, poi di Berlino e, successivamente, a Marburgo, fu discepolo dei neokantiani Hermann Cohen e Paul Natorp. Nel 1907 torna nella sua città natale per insegnare presso la Scuola Superiore del Magistero e si sposa con Rosa Spottorno. Il 1910 è l’anno della sua nomina di professore di metafisica all’Università Complutense di Madrid e tra gli studenti ascoltava le sue lezioni Maria Zambrano, che comparirà ben presto nel panorama filosofico ed intellettuale. Da questi anni inizia la sua intensa attività intellettuale divisa tra le sue aule e il periodico del padre, fino a quando, nel 1923, lo stesso anno del colpo di stato con cui prese il potere il dittatore Primo de Rivera, fonda la “Revista de Occidente”. Fu proprio a causa della sua avversione ai tentativi di politicizzazione della vita universitaria, che Ortega rinunciò alla cattedra per protesta: era il 1929. Allo scoppio della guerra civile del 1936, Ortega va, come molti altri, in esilio: dapprima a Parigi e nei Paesi Bassi e in seguito, constatando che la guerra civile non si avviava ad una rapida soluzione, in Argentina e quindi in Portogallo. Ma nel 1945, dopo varie negoziazioni e con la costernazione di amici e discepoli, fa ritorno a Madrid, grazie al permesso del governo franchista e riottiene la cattedra. Nel 1948, fonda con il suo allievo Julian Marias, l’Istituto de Humanidades in cui esercita la docenza. Muore a Madrid il 17 ottobre 1955. Autore prolifico, a cavallo tra il pragmatismo e l’esistenzialismo, la maggior parte della sua opera consiste in saggi e articoli sui periodici, che Ortega considerava come mezzi adeguati per la creazione di un clima intellettuale collettivo e per introdurre il pensiero europeo in Spagna. Tra le sue opere: “Meditazioni sul Chisciotte” (1914), “Spagna invertebrata” (1921), “Il tema del nostro tempo” (1923), “La disumanizzazione dell’arte” (1925), “Cos’è la filosofia?” (1929). Di risonanza internazionale “La ribellione delle masse” , del 1930 e i saggi: “Intorno a Galileo” (1933), “Storia come sistema” (1936) e “Idee e credenze” (1940). Del 1940 è anche “Sulla ragione storica” e del 1949 “Meditazioni d’Europa” e “L’uomo e la gente”.
“La condizione dell’uomo è, in verità, stupefacente. Non gli viene data né gli è imposta la forma della sua vita come viene imposta all’astro e all’albero la forma del loro essere. L’uomo deve scegliersi in ogni istante la sua. È, per forza, libero. ” (“Il tema del nostro tempo”)
BREVE SINTESI DEL PENSIERO
E’ difficile dare una precisa collocazione alla filosofia di Josè Ortega y Gasset (1883-1955), poiché essa pare per sua natura sfuggire ad ogni definizione, ad ogni ingabbiamento. Nel percorso filosofico del pensatore spagnolo occupano un posto privilegiato le riflessioni di Husserl, di Dilthey, di Heidegger e, solo in un primo momento, dei neokantiani. Rispetto alla filosofia dell’altro grande protagonista del panorama filosofico spagnolo del ‘900, Unamuno, il pensiero di Ortega y Gasset si colloca in posizione pressoché antitetica: se Unamuno insisteva costantemente sul piano mistico del riscatto dal mondo e dell’immortalità, Ortega y Gasset, invece, pone laicamente l’accento sulla destinazione assolutamente terrestre dell’uomo, sul primato indiscusso del bisogno di felicità e di sicurezza da soddisfare nella dimensione storica e mondana. Unamuno, legato alla Spagna mistica dei Calderòn e dei Giovanni della Croce, si propone di ispanizzare l’Europa; Ortega, intriso di quella cultura centro-europea che trova i suoi massimi esponenti in Goethe e Kant, auspica che la Spagna possa ad essa integrarsi. Dopo una iniziale adesione alle tesi dei neokantiani di Marburgo, il pensatore spagnolo se ne distacca, rinfacciando ad esse un eccesso di idealismo e di intellettualismo: il neokantismo cede in lui il passo all’attenzione per la fenomenologia di marca husserliana, di cui Ortega non esita ad accogliere il metodo e, soprattutto, il presupposto costituito dal “mondo-della-vita” (pur criticandone l’impostazione a suo avviso ancora troppo idealistica che trapelava dalla nozione di “epoché”). In particolare, Ortega y Gasset fa sua la centralità della vita valorizzata da Husserl, il suo ritorno alle cose stesse: resta soprattutto colpito da una pagina delle “Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica”, in cui si parla del “mondo nel quale mi trovo e che è insieme il mio ‘mondo circostante’“. Proprio dalla nozione di “circostante” nasce l’elaborazione della filosofia orteghiana, la quale sostituisce però alla “coscienza” di cui parla Husserl l’uomo concreto, calato nel mondo materiale: infatti, ciò che veramente “ esiste non è la coscienza – e in essa le idee delle cose – bensì un uomo che esiste in un contesto di cose, in una circostanza anch’essa esistente” (“La idea de principio en Leibniz y la evoluciòn de la teoria deductiva”). La vita è, secondo Ortega, una relazione tra un io e una circostanza, poiché “ ciò che veramente c’è ed è dato è la mia coesistenza con le cose, insomma questo fatto assoluto: un io nella sua circostanza“. Nelle “Meditazioni sul Don Chischotte” (1914) aveva scritto: “io sono io e la mia circostanza, e se non salvo questa non mi salvo nemmeno io“. La vita circostanziale a cui allude Ortega è l’accadimento originario per via del quale l’uomo, catapultato fuori di sé, lontano dalla sua intimità, si trova ad esistere fuori di sé, in quell’oggettività delimitata spazialmente e temporalmente che è, per l’appunto, la circostanza. E’ un rapporto problematico: l’uomo vive le cose circostanziali come a lui straniere, quasi ostili, e deve piegarle ai bisogni del suo vivere. In questa prospettiva, “salvare la circostanza” per salvare noi stessi significa darle un senso, e ciò è il compito della cultura e di quello che ad essa sta a fondamento: la ragione, ma non quella fredda ed astratta del razionalismo, che pretende di dar leggi alla vita; bensì quella che è al servizio della vita, quella cioè che crea teorie che la chiariscano a se stessa e le diano sicurezza. Questa tipologia di ragione viene da Ortega definita – per distinguerla da quella del razionalismo di matrice cartesiana – “ragione vitale”, con un evidente riferimento alla sua internità rispetto alla vita stessa, di cui è strumento. La verità a cui conduce questa ragione non è quella della scienza, ma è quella della vita: a questa tematica, il filosofo spagnolo dedica due saggi, “Sensazione, costruzione e intuizione” (1913) e “Verità e prospettiva” (1916). Con lo sguardo rivolto a Leibniz, Ortega si schiera contro ogni teoria che propugni “l’erronea credenza che il punto di vista dell’individuo sia falso“, giacchè, viceversa, esso è “l’unico da cui il mondo possa essere guardato nella sua verità“. Ne consegue che, se la realtà “si offre in prospettive individuali“, allora si può dire che ciascuno di noi è assolutamente necessario, insostituibile; non solo ogni singolo, ma addirittura ogni gruppo, ogni specie, poiché ciascuno “è un organo di percezione distinto da tutti gli altri e come un tentacolo che raggiunge frammenti di percezione dell’universo inattingibili da tutti gli altri“. Ecco perché, nel saggio “Le Atlantidi” (1924) Ortega y Gasset arriva alla conclusione che nessuna cultura, neppure quella europea, ha il diritto di pretendere di avere un’egemonia sulle altre; ogni cultura è uno specchio della verità. Soprattutto durante gli anni Venti e Trenta, il filosofo spagnolo elabora – sulla base della circostanzialità della vita – un’antropologia volta ad evitare riduzionismi (sia naturalistici, sia spiritualistici): l’uomo è un animale fantastico, del tutto diverso da ogni altro, poiché è il solo a non potersi mai definitivamente adattare al mondo circostante; in virtù del suo potere immaginativo, l’uomo duplica la realtà, creando un mondo interno e suo. Certo, l’uomo è anche un animale “tecnologico”, che si serve delle innovazioni tecnologiche per piegare la circostanza, aggredendo il mondo, ma si tratta di vittorie fragili e di breve durata, che in definitiva vedono l’uomo sempre come perdente. E’ durante gli anni ’30 che Ortega intensifica il suo rapporto con la filosofia di Heidegger, protagonista indiscusso di quegli anni: ne scaturisce la ferma convinzione che la filosofia debba affrontare il problema dell’essere, scavalcando l’alternativa tra idealismo e realismo (l’essere non è né le cose esistenti in sé, né le cose pensate). L’essere dev’essere secondo Ortega cercato nella datità della vita, cioè nella “pura coesistenza di un io con le cose, delle cose dinanzi all’io” (“Algunas lecciones de metafisica”). All’ontologia spetta quindi il compito di individuare le categorie costitutive della vita: vivere è – heideggerianamente – “trovarsi nel mondo” a patire e insieme ad agire le cose in una mutua relazione, nella condizione di poter progettare se stessi in un margine di libertà; allora, se la vita è “un fa farsi”, l’essere non è un qualcosa di già costituito, e che né le cose né l’uomo hanno per sé l’essere, il quale è, pertanto, “ciò che manca alla nostra vita, l’enorme buco o vuoto della nostra vita” (“Algunas lecciones de metafisica”). Ma – distaccandosi in questo da Heidegger – la domanda metafisica intorno all’essere non è originaria e costitutiva dell’esistenza: anzi, la filosofia come ricerca dell’essere inerisce sempre a una determinata situazione storico-culturale, e dunque non è detto che sia perenne. Con queste considerazioni sullo sfondo, Ortega, nella maturità del suo pensiero, approda allo storicismo: la ragione vitale diventa ragione storica. Gli scritti che documentano questa nuova stagione della riflessione orteghiana sono soprattutto “Intorno a Galileo” (1933), “Storia come sistema” (1935) e “La ragione storica” (1940): in esplicito contrasto con la tesi hegeliana della razionalità salvifica della storia, Ortega afferma con Dilthey che è la ragione stessa ad essere storica (e non la storia ad essere razionale), in quanto intrinseca alla vita dell’uomo (che, come abbiam detto, è un “da farsi”). Ma con questo Ortega non vuol ridurre la storia ad una mera sequenzialità caotica di eventi: in sintonia con Heidegger, sostiene la storicità dell’uomo e, come conseguenza, la necessità di porre un nucleo a priori, una sorta di ontologia della realtà storica (“istoriologia” la chiama Ortega), il cui ufficio è di dare la teoria della struttura essenziale della vita storica. In quest’ottica, il sapere storico si edificherà attraverso ipotesi che permettano di connettere quel nucleo a priori con i fatti empirici: per la conoscenza storica, in definitiva, è bene adottare lo stesso procedimento ipotetico-deduttivo adottato da Galileo per costruire la scienza della natura. In opposizione a Dilthey, Ortega respinge la distinzione tra spiegare e comprendere, sostenendo che la comprensione della vita umana debba sempre far in qualche modo riferimento a spiegazioni causali. Ne “La ribellione delle masse” (1930), che fu salutato dai contemporanei come un testo destinato ad avere il successo de “Il capitale” di Marx o de “Il contratto sociale” di Rousseau, Ortega prende in esame la crisi culturale e spirituale che travaglia l’Europa a lui contemporanea, ravvisandone l’origine nell’ “avvento delle masse al pieno potere sociale“. Ciò è il segno del venir meno della funzione della cultura, minacciata dalla massificazione dei valori e dei comportamenti: “la massa travolge tutto ciò che è diverso, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia ‘come tutto il mondo’, chi non pensi come ‘tutto il mondo’ corre il rischio di essere eliminato“. L’uomo-massa, non identificabile con una particolare classe sociale, è l’uomo medio, senza qualità, soddisfatto di essere quel che è, non intenzionato a migliorare perché si considera già perfetto. La sua ‘cultura’ è fatta di “luoghi comuni, di pregiudizi, di parvenze di idee, o semplicemente di vocaboli vacui che il caso ha ammucchiato nella sua coscienza“. Insomma, essa non è che barbarie: l’unico desiderio che ha l’uomo-massa è di soppiantare gli uomini a lui superiori; ed è così che, appunto, nasce la ribellione delle masse, l’azione diretta e la violenza come prima ratio, quando in una civiltà fondata sulla volontà di convivenza, sulla democrazia liberale, non potrebbero che essere l’ ultima ratio. E’ questa – dice Ortega – la “Magna Charta” della barbarie, di cui è fulgido esempio il fascismo. A questa degenerazione della civiltà, Ortega contrappone la formazione di una minoranza aristocratica, composta da uomini eletti, nobili, che facciano dello sforzo, dell’urgenza di trascendersi la norma trascendente della propria vita. Il filosofo spagnolo continuerà a lungo ad interrogarsi sul ruolo delle minoranze intellettuali nel bel mezzo della crisi di civiltà che affligge l’Europa negli anni ’30 e nei decenni successivi: maturerà la convinzione che il compito dell’intellettuale non è immediatamente politico, ma semmai è quello di educare l’opinione pubblica, di promuovere l’eticità e la formazione di credenze idonee a rilanciare la vita degli uomini.
ESPOSIZIONE DEL PENSIERO
Ortega y Gasset, ritenuto da Albert Camus il più grande scrittore europeo, dopo Nietzsche, si affermò come il più brillante saggista della sua generazione con la pubblicazione, nel 1914 poco più che trentenne, delle “Meditaciones del Quijote”; nello stesso anno è accolto nella Real Académia de Cencias Morales y Políticas. L’anno successivo fonda con Azorín e E. D’Ors la rivista “España” (Semenario de Vida Nacional). Le “Meditaciones”, il primo libro di Ortega, dopo la pubblicazione di alcuni “Articulos” (1902-13), ritenuto fondamentale nella sua vasta produzione socio-politico-filosofica, è ‘emblematico”: si tratta, infatti, quasi come tutte le successive opere orteghiane, di una raccolta di “ vari saggi pubblicati da un professore di Filosofia in “partibus infidelium ”; alcuni come questa serie di “Meditazioni del Chisciotte” trattano temi elevati; altri, temi più modesti; altri ancora, temi inutili; tutti, direttamente o indirettamente finiscono per riferirsi alle circostanze spagnole. Per l’autore, questi saggi sono – come la cattedra, il giornalismo o la politica – modi diversi di esercitare una stessa attività, di esprimere uno stesso sentimento… “ Il sentimento che mi muove è il più vivo che trovo nel mio cuore; … si tratta, o lettore, di saggi di amore intellettuale “ (Meditazioni del Chisciotte). Il libro comprende un prologo al Lettore, una “Meditazione preliminare”, e una Meditazione prima: il “Leit motiv” è il Don Chisciotte di Cervantes, che è l’opera d’arte e di cultura più alta che la Spagna abbia prodotto. Ma lungo la traiettoria che parte da Cervantes, Ortega giunge a Stendhal, Dostojewskij, Proust, Yoyce, attraverso anche Shakespeare, Goethe, Schelling, Heine, Dickens, Flaubert, ma anche attraverso l’Iliade e l’Odissea di Omero; e attraverso, Platone, Galileo, Descartes, Leibniz, Kant, Nietzsche, e così via. Libro quindi strategico e fondamentale nella biografia intellettuale orteghiana, in cui, peraltro, affronta il Don Chisciotte. Così Ortega continua: “ insieme ad argomenti rilevanti, in queste Meditazioni si parla frequentemente di minuzie; si prendono in considerazione dettagli del paesaggio spagnolo, del modo di conversare dei contadini, delle danze e dei canti popolari, dei colori e degli stili nel vestire e negli arredi, delle peculiarità della lingua, e, in generale, delle piccole manifestazioni in cui si rivela l’interiorità di una razza ”. Ma ecco il punto: come è suo stile abituale, in tante digressioni, divagazioni accessorie, dettagli, citazioni, antinomie, spesso “paraboliche”, Ortega inserisce dei pensieri – chiave, delle riflessioni più o meno apodittiche che attraversano tempi e luoghi (oltre il XX secolo, la Spagna e l’intera Europa): la “ piena coscienza delle circostanze ”, in queste Meditazioni. Ortega, infatti, avverte: “ Facendo molta attenzione a non confondere ciò che è grande e ciò che è piccolo, affermando sempre la necessità della gerarchia.. considero urgente concentrare anche la nostra attenzione riflessiva, la nostra meditazione, su ciò che si trova nei pressi della nostra persona. L’uomo dà il massimo delle sue capacità quando acquisisce la pien coscienza delle sue ‘circostanze’; attraverso di esse comunica con l’universo. La Circostanza! Circum – stantia! Le cose mute che ci circondano! Vicine, vicinissime a noi, mostrano le loro tacite fisionomie con un gesto di umiltà e di desiderio, come bisognose di farci accettare la loro, offerta … Tutti, in varia misura, siamo eroi e tutti suscitiamo umili amori. Sono stato un lottatore: un uomo sono stato, “prorompe Goethe”. La caducità, limmediato, il momentaneo nella vita ci rende, insieme, eroi della circostanza e umili: La vita, moltitudine di necessità private che nascondono pudiche il viso nei recessi dell’animo perché non si vuole concedere loro cittadinanza; intendo dire, senso culturale. … Vita individuale, immediatezza, circostanza, sono nomi diversi per una stessa cosa: quelle parti della vita dalle quali non si è ancora estratto lo spirito che racchiudono, il loro logos. E poiché spirito, logos non sono altro che ‘senso’, connessione, unità, tutto l’individuale, l’immediato, il circostante, sembra casuale e privo di significato ”. Ed ecco che, a poco a poco, si delinea la vita individuale come “res dramatica”, “insecurites”, “pathos”, “skepsi”, e infine come “naufragio” e “ricerca di approdo”: l’immediato, il circostante, l’occasionalità soggiogano la vita dell’uomo. La vita come circostanza e come ricerca; a tale riguardo Ortega prorompe: “ dobbiamo cercare per la nostra circostanza, il luogo appropriato nell’immensa prospettiva del mondo, scavando esattamente in ciò che essa ha di limitato, di peculiare. Non bisogna restare perpetuamente in estasi di fronte ai valori ieratici, ma conquistare per la nostra vita il posto che le spetta in mezzo ad essi. Insomma: il riassorbimento della circostanza è il concreto destino dell’uomo ”. Ed ancora: “ io sono io e la mia circostanza, e se non la salvo non salvo neanche me stesso ”. Pertanto la speculazione filosofico – culturale di Ortega, che parte dal Don Chisciotte di Cervantes (“ un Cristo gotico, macerato da angosce moderne, un cristo ridicolo del nostro quartiere, creato da un’immaginazione dolente ”), si sostanzia di un’angoscia tutta moderna, lacerante, – a volte però anche “ludica”, “sportiva” (com’è la vita) -: l’uomo è “dis-orientato” in un mondo che non conosce, è “naufrago”, smarrito, incerto, dubbioso; è alla ricerca, coma il Don Chisciotte, di nuovi lidi. Il Chisciotte è l’uomo moderno. Ora, proprio Ortega ci autorizza, con le sue meditazioni sulla vita individuale, a cogliere con particolare evidenza alcune “circum-stantiae” della propria vita, le cui “circostanze” hanno chiaramente influito in varia maniera, sulla vita intellettuale, esistenziale di Ortega: una vita intensa, lacerante, spesso angosciante che ha portato Ortega esule, profugo, inquieto, ramingo per il mondo; un “novello Ulisse” alla ricerca di sempre nuovi approdi; ma, a volte, anche un tragico Don Chisciotte; non diversamente dall’“uomo folle” della pagina nietzschiana, “è venuto troppo presto”: “troppo presto per le generazioni che ci hanno preceduto”. La complessa e multiforme produzione orteghiana non è monolitica, rigida, bensì aperta, flessibile, poliedrica, variamente sfaccettata: all’interno di essa vi sono opere prettamente filosofiche (o sociologiche, o politiche o estetiche, o storico-filosofiche), ma più spesso il pensiero orteghiano è pur sempre intessuto di riflessioni sparse che vanno dall’arte alla politica, dalla filologia alla storia, e alla filosofia, ecc… Ciò nondimeno la filosofia orteghiana, pur nella sua “a-sistematicità” (che per altro ha fatto uscire dai gangheri filosofi come M.F. Sciacca, che lo liquida accusandolo di essere “un filosofo senza filosofia”, ed altri filosofi nostrani), può essere raggruppata e scandita, sia pure con grosse aperture e in modo molto flessibile – con notevoli e ripetute eccezioni -, in quattro fasi fondamentali, proprio per evitare ulteriori fraintendimenti e grossi scivoloni di critici poco disponibili alle “fratture” del pensiero di un grande filosofo. Ciò ovviamene non contrasta con l’ispirazione sostanzialmente unitaria della sua meditazione incentrata sull’uomo, pur nel “mare dei dubbi” che Ortega ha continuamente attraversato: dubbio, interrogazione, ricerca incessante; da qui anche antinomie, aporie, contraddizioni, incertezze, prospettive, che caratterizzano la filosofia vitale-esistenziale orteghiana. In particolare si possono evidenziare, in modo duttile e senza alcuna rigidità, tenuto anche conto che spesso il pensatore madrileno riprende temi accennati o trattati in precedenza, in rapporto alla “propria circostanza” e alla “circostanza spagnola” e agli influssi di volta in volta subiti o superati, quattro fasi:
1) una prima fase giovanile di “neo-kantismo critico” (dal 1902 al 1914), in cui Ortega, influenzato dai maestri marburghesi rispetto ai quali è alla ricerca di una propria via, si apre al tema della vita come problema di individualizzazione rispetto al mondo della natura e della cultura;
2) una seconda fase “antropologica” (dal 1914 al 1928), durante la quale, dopo la pubblicazione delle Meditazioni, privilegia la “dimensione biologio-vitale”, per poi concentrarsi sulla conoscenza dell’uomo e della circostanza;
3) una terza fase (dal 1920 al 1934), in cui Ortega, sotto l’influsso di Heidegger e Dilthey, approda “all’ontologia della vita come biografia e storia”, coniugando lo storicismo esistenziale con la sociologia, in modo molto personale ed originale;
4) una quarta fase, verso gli Anni Quaranta, nella quale Ortega avvia una “radicalizzazione” dell’idea di filosofia in rapporto con quel pessimismo ed ansia sistematica, non disgiunti dalle preoccupazioni per la situazione sociale e politica spagnola ed europea.
Con le “Meditaciones del Quijote” del ’14 Ortega aveva abbandonato il continente idealista, considerando l’uomo non un essere ontologicamente indipendente, bensì un essere legato alla sua circostanza e alla sua “Umwelt”; in tal senso Ortega fu uno degli anticipatori dell’esistenzialismo europeo (e di M. Heidegger di “Essere e Tempo”, in particolar modo). Il suo pensiero, oltre ad anticipare alcune tematiche heiggeriane (per esempio il concetto di verità come “aletheia”: “dispiegarsi luminoso delle possibilità proprie dell’uomo”), riprende, in modo del tutto originale, il concetto di Nietzsche di “prospettivismo”: “la realtà è sempre in un rapporto dinamico con l’io” (“io sono io e la mia circostanza”), sicché la vita è da intendersi come un “molteplice di possibilità umane mai esaurite”. Al razionalismo metafisico e scientifico, Ortega oppone la “ ragione vitale ” che si manifesta essenzialmente nel dar forma al “fare”, muovendo non da astratte categorie gnoseologiche, ma dalla concretezza storica delle sistuazioni e degli “usi” sociali. Di qui la funzione della cultura, che il pensatore spagnolo vede gravemente minacciata dalla moderna massificazione. Il suo pensiero è eminentemente aporetico, problematico, intessuto di notevoli contraddizioni, che fanno di lui un controcorrente, un accentuatore di tutti i motivi critici e delle più acute istanze polemiche, non – conformiste (avanzate sempre con il suo “charme” di grande scrittore paradossale); sostenitore accanito del laicismo e dell’antidogmatismo in ogni campo, dalla politica alla pedagogia, denuncia ogni forma di misticismo come “fenomeno patologico della mente umana”. Ortega più europeista e continentale di Unamuno, in conformità alla sua educazione germanica (studiò per dodici anni in Germania), che finì per fare di lui più un “ figlio di Kant e di Goethe che di Calderon e della Croce ”, ha incarnato il momento dell’Europa in Spagna, offrendoci, nella sua filosofia come stile di vita, una perfetta reincarnazione iberica dell’uomo faustiano, dell’occidente problematico, scisso, ansioso, preoccupato, continuamente in preda alla febbre della conoscenza e del dubbio. Il filosofo per Ortega, a differenza di ogni altro scienziato, si immerge nell’ignoto; il più o meno noto è “ particella, porzione, scheggia dell’universo ”. Il filosofo si situa dinanzi al suo oggetto in un atteggiamento diverso da quello di ogni altri ricercatore. Egli ignora quale sia il suo oggetto; alle altre scienze è dato un oggetto, ma l’oggetto della filosofia come tale è totale e poiché non è dato, si potrebbe definirlo, molto essenzialmente, “ l’oggetto di indagine, ciò che è perennemente ricercato ”. La filosofia “ è una scienza senza supposizioni ”: Ortega intende un sistema di verità che si è costruito senza ammettere come “suo fondamento nessuna verità”; non è sufficiente il non errare: è molto meglio l’accertarsi (il controllo critico). Bisogna eliminare dalla conoscenza la democrazia del sapere, secondo la quale esisterebbe solo ciò che tutti possono conoscere”. Il “Leit-motiv” di “Cos’è filosofia” è: la filosofia è conoscenza di tutto quanto esiste; queste parole suonano, per Ortega, con tutta la loro carica di “ elettricità intellettuale ”, con “tutta la loro ampiezza e tutta la loro drammaticità”. La prima delle esigenze che si impone al tipo di verità filosofica è quella di non accettare come vero nulla che noi stessi non abbiamo già provato e verificato. E pertanto sospendiamo le nostre credenze più abituali e plausibili, quelle che costituiscono il supporto o il retroterra nativo su cui noi viviamo. In questo senso “ la filosofia è antinaturale e paradossale, nella sua stessa radice ”. La doxa è l’opinione spontanea e abituale; ma in quanto tale essa è l’opinione “naturale”. La filosofia si vede obbligata a superarla, ad andare al di là di essa o, sempre nei suoi limiti, a cercare sotto di essa un’altra opinione, un’altra doxa, più ferma di quella spontanea: insomma “ la filosofia è para-doxa ”. “ Filosofare è non vivere ”: una dimostrazione grandiosa della causa per cui la filosofia è costitutivamente “un paradosso”; “ filosofare non è vivere; è disfarsi coscientemente delle credenze vitali ”. In questo “mare di dubbi” (antinomie, aporie, incertezze, prospettive), in tutto l’irrompere di momenti così contrastanti “ l’uomo non deve fermarsi in una sola cosa perché allora diviene matto: bisogna avere mille cose, una confusione nella testa ”, ci avverte Ortega (Nietzsche diceva “ci vuole un caos dentro di sé per generare una stella danzante”), ci sembra di poter affermare che una certa continuità si disegna a rivelare una sotterranea coerenza nel pensiero orteghiano, pur così aporetico, scisso, a-sistematico: il dogmatismo e il bigottismo che Ortega combatte per tutta la vita sono quelli di una ragione che procede noncurante della realtà circostanziale, nella superba costruzione di “ventosi edifici” di concetti e di scienza: Ortega ha sempre negato l’esistenza di una verità assoluta e afferma che la realtà si compone di “ infinite prospettive tutte ugualmente vere e autentiche, e che la sola prospettiva falsa è quella che pretende di essere l’unica vera ”. Perché mai, si chiede Ortega qualche anno dopo, “ dei miei studi in Germania, così rigorosamente scientifici, compiuti soprattutto in quell’universo dove la filosofia era allora più difficile, più tecnica, più esoterica, ho tratto la conclusione che avrei dovuto dedicarmi per non pochi anni a scrivere articoli di giornale? ”. Questa è la questione centrale per la comprensione di tutta la speculazione filosofica di Ortega che forse non è mai stata affrontata con sufficiente chiarezza. Ortega ci spiega che aveva studiato per un semestre a Lipsia, combattendo il suo primo disperato corpo a corpo con la “Critica della ragion pura” che presenta “difficoltà davvero immense per una mente latina”. Nel semestre successivo andò a Berlino; verso il 1908 passò un anno intero a Marburgo e nel 1911 vi tornò; Marburgo era la città del neo-kantiano: “ si viveva nella filosofia neokantiana coma in una cittadella assediata, in costante, ‘chi va là!’. Tutto ciò che stava intorno era sentito come un nemico mortale: i positivisti e gli psicologisti, Fichte, Schelling, Hegel. erano considerati così ostili che non venivano nemmeno letti. A Marburgo si leggeva soltanto Kant e, previamente tradotti in kantismo, Platone, Cartesio e Leibniz… Ma devo aggiungere tre cose: la prima è che a Marburgo, per l’esattezza, non si insegnava filosofia; era necessario conoscerla già, averla imparato già dal seno materno. La seconda cosa è che i neokantiani non lanciavano le giovani menti verso problemi aperti sui quali fosse possibile e interessante lavorare. Non si conoscevano altre questioni se non quelle già risolte neokantiane si caratterizzavano per lo scarso repertorio dei problemi, inquietudini e curiosità. Ma quest’aspetto si ricollega alla terza cosa … che non mi azzardo a dirla adesso… ”. La considerazione dell’uomo è in verità stupefacente, precisa Ortega: non gli viene data né gli è imposta la forma della sua vita come viene imposta all’astro e all’albero la forma del loro essere. L’uomo deve scegliersi in ogni istante la sua. È, per forza, libero: similmente parlerà Sartre. Questa libertà di scelta consiste nel fatto che l’uomo si sente intimamente sollecitato a scegliere il meglio, e quale sia “ il meglio è una cosa che non dipende dall’arbitrio dell’uomo ”. Fra le molte cose che in ogni momento possiamo fare, possiamo essere, ce n’è sempre una che si presenta come quella che dobbiamo fare, che dobbiamo essere; ha insomma il carattere di necessità. Questa è il meglio. “ La nostra libertà di essere questo o quest’altro non è libera dalle necessità ”. Al contrario ci coinvolge maggiormente in essa: “la necessità umana è il terribile imperativo di autenticità. Chi ‘liberissimamente’ non lo esegue, falsifica la sua vita, la ‘dis-vive’, si suicida. Ci si lascia la libertà di accettare la necessità. Ed ancora più paradossalmente drammatico, incalza Ortega: “ per noi quello che si chiama pensare scientifico psicologicamente non è altro che una verità della fantasia, è la fantasia dell’esattezza. La vita umana è innanzitutto lavoro poetico, invenzione del personaggio che ognuno di noi e che ogni epoca deve essere. L’uomo è romanziere di se stesso… Ebbene, la vita è innanzitutto … un genere letterario! ”. A lui avviso Ortega ha scelto, conformemente alla sua circostanza “il suo genere letterario”: essere, cioè, discorsivo, dialogico, colloquiale, aperto, proprio del metodo socratico: la sua è “arte maieutica” (Socrate, non ci ha lasciato, infatti, nessuno scritto); e l’articolo di giornale, il saggio breve – frutto soprattutto di lezioni universitarie, conferenze accademiche in luoghi pubblici, discorsi politici, dibattiti che Ortega ha privilegiato per tutta la sua esistenza (poi raccolti in volumi) – costituiscono il modo più autentico di dialogare e di interloquire con il vasto pubblico (lettori, uditori, politici, studenti, “aficionados” fra i giovani intellettuali di tutto il mondo europeo e americano): da ciò il carattere vivo, palpitante, immediato, circostanziale, sempre attuale, serrato, polemico, ma anche “asistematico”, “aporetico”, “socrativo” dei saggi orteghiani. Ortega non ha mai voluto imprigionare il suo pensiero in una gabbia chiusa, la “ prigione del pensiero kantiano ” dalla quale Ortega è fuggito via, per tutta la sua esistenza: l’uomo non deve fermarsi in una sola cosa perché allora diviene matto; bisogna avere mille cose, una confusione nella testa. Da qui la grande attualità di Ortega: sulla base degli undici volumi delle sue Obras Completas, risulta chiaro che la filosofia orteghiana è una delle più complesse, suggestive e stimolanti del XX secolo, ricca di geniali intuizioni e di profetiche anticipazioni e centrata sui temi fondamentali della cultura contemporanea.. Per Ortega l’uomo eredita la tradizione creata dagli altri uomini e questo lo distingue dall’animale, e “ aver coscienza di essere eredi significa aver coscienza storica ”: in ogni caso, non solo l’essere sommersi nell’enigma originario, fa scatenare l’attività dell’intelletto. Difatti – fa presente Ortega – “ nell’area fondamentale delle nostre credenze si aprono, qua e là, come botole, enormi abissi di dubbi. Il dubbio agisce nella nostra vita allo stesso modo della credenza e appartiene alla sua stessa stratificazione. Il dubbio non è un “non-credere rispetto al credere” e non è neppure “un credere che nega rispetto a un credere che afferma”; dubbio significa “stare nell’instabilità in quanto tale”: “è la vita nell’istante del terremoto permanente e definitivo ”. E ci troviamo “ nel mare dei dubbi ” allorché “ presi fra due credenze antagonistiche che cozzano fra loro e ci fanno rimbalzare dall’una all’altra, ci troviamo senza la terra sotto i piedi ”. Ebbene, sentendosi sprofondare “nel mare dei dubbi”, l’uomo reagisce e cerca di uscirne. Per questo, comincia a pensare. L’intelletto è il congegno più a portata di mano su cui l’uomo fa assegnamento. “ Quando crede non è solito servirsene, perché è uno sforzo faticoso, ma quando cade nel dubbio vi si afferra come a un salvagente ”. Le falle delle nostre credenze sono quindi il luogo vitale nel quale le idee compiono il loro intervento. Ed è così, allora, che capiamo subito “ il carattere ortopedico delle idee: esse agiscono là dove una credenza si è infranta o si è indebolita ”. “ Quel poco che l’uomo ha ottenuto è costato millenni e millenni e lo ha ottenuto a forza di errori, imbarcandosi cioé in fantasie assurde che sono rimaste strade senza uscita da cui è dovuto tornare indietro malconcio. Ma questi errori, vissuti come tali, sono gli unici ponts de repere che possiede, sono ciò che ha veramente ottenuto e consolidato… A forza di sbagliare, sta delimitando l’area del possibile esito: da ciò l’importanza di non dimenticare gli errori e questo è la storia ” (Idee e credenze, in Aurora della ragione storica). Ed ancora: “ apprendiamo dagli errori, non abbiamo certezze, i fatti scientifici sono nostre costruzioni. E le idee restano idee… Chi crede, chi non dubita, non mette in moto l’angosciosa attività della conoscenza. Questa nasce dal dubbio e mantiene sempre viva la forza che l’ha generata. L’uomo di scienza deve continuamente tentare di dubitare delle proprie verità. Queste sono verità della conoscenza, solo nella misura in cui resistono a ogni possibile dubbio. Vivono quindi un conflitto permanente con lo scetticismo. Tale conflitto si chiama prova ” (Intorno a Galileo). Per questo, “ evitare l’errore è un ideale meschino ” (Popper); e il “ panico dell’errore è la morte del progresso” (Whitehead); come ebbe a dire Einstein, un’idea – cioé un’idea buona – è davvero rara. Avanziamo per tentativi ed errori; è l’errore il debole segnale che ci permette la risalita difficile e tortuosa, dall’oscurità della caverna in cui tutti ci troviamo. Ed Ortega, a tale riguardo, afferma: “ anche nel dubbio si sta. Solo che in questo caso lo stare ha un aspetto terribile. Siamo nel dubbio come in un abisso, ossia cadendo. Esso è quindi la negazione della stabilità ”. Certamente, Ortega non è riuscito a completare la costruzione del suo edificio teorico; spesso le opere sono incomplete: tuttavia in esse ci sono le linee generali di un grande cantiere in cui sono presenti i più solidi materiali della cultura contemporanea, dalla filosofia della scienza alla sociologia, dalla linguistica alla fenomenologia. Si potrà anche criticare il “sincretismo” di Ortega, ma si dovrà anche riconoscere che tale “sincretismo non è un facile eclettismo”. Esso nacque dallo sforzo di fondere correnti di pensiero che scorrevano – e tuttora scorrono – separate. Qui sta indubbiamente il suo limite, se si amano i sistemi teorici chiusi e rigorosamente unitari; ma qui sta anche il suo fascino, se si concepisce la filosofia come una “ ricerca senza fine, che continuamente problematizza i suoi risultati ”. In una lettera indirizzata a E.R. Curtius nel 1929 Ortega annunciò il progetto di scrivere “un purana filosofico Sobre la razón vital”; qualche anno dopo precisò allo stesso Curtius di aver intenzioni di enucleare il sistema filosofico che da tempo si portava dentro in due opere intitolare “El hombre y la gente” e “Aurora de la razón histórica”: nella prima avrebbe tratteggiato una “statica sociale”; nella seconda “una dinamica”. La guerra civile, l’esilio e le continue malattie impedirono a Ortega di portare a termine il suo ambizioso programma di lavoro, sicché la sua teoria generale della società e della storia è rimasta una costruzione incompiuta. Tuttavia i numerosi e ampi frammenti che Ortega ci ha lasciato sono sufficienti per considerare la sua impresa teorica una delle più suggestive e grandiose del nostro secolo, degna senz’altro di essere paragonata a quella di Croce e di Toynbee. Ogni sistema è per Ortega un “ labirinto, un circolo chiuso ”, dove il pensiero, una volta compiuta la sua parabola, insegue se stesso, e dalle cose vede soltanto ciò che si accorda col suo programma. Per queste evidenti ragioni la critica di Ortega non è sempre pacificatrice, ma continua a gettare semi e germogli di insoddisfazione: e non sempre si sa “con certezza” in quale direzione.
“Vivere significa, fin dall’inizio, essere costretti ad interpretare la nostra vita ” (“Aurora della ragione storica”)
L’ INDIVIDUO, LA CIRCUM-STANTIA E IL MONDO
Nelle “Meditazioni sul Chisciotte”, Ortega scrive una frase che ben circoscrive la sua concezione dell’uomo: ” io sono io e la mia circostanza “. Per ” circostanza “, Ortega non vuole indicare soltanto l’ambiente fisico in cui ogni essere umano vive, ma anche l’ambiente sociale. La “circostanza” orteghiana è la base che si impone ad ogni uomo già a partire dalla sua nascita: è il luogo, il tempo, la società: “ circostanza! Circum-stantia! Le cose mute che stanno nei nostri più prossimi dintorni! “. Con questo insieme di poliedriche concretezze, con questo orizzonte al cui centro è il singolo, l’uomo deve costantemente rapportarsi. Si giunge ad una prospettiva che non è mai decisa una volta per tutte, anzi, la prospettiva adottata va di volta in volta messa tra parentesi. L’ Io deve continuamente impegnarsi in questo rapporto gnoseologico-etico con il suo circostante e operare uno sguardo di se stesso proiettato all’esterno per non arenarsi in una visione soggettiva e unilaterale delle decisioni prese, seguendo la propria personalissima vocazione. La visione orteghiana della circostanza quale cifra del vitale soggettivismo, non è da confondere con un esasperato individualismo. Anzi, si crea un legame, un ponte di connessione estremamente inscindibile tra il mio mondo e il mondo. Si è all’interno di uno scambio alchemico tra ambiente ed essere. Non vi è in Ortega un essere ontologico astratto, certo, perché la metafisica sistematica, come lo spirito spagnolo vuole, non è accettata dal filosofo del razio-vitalismo. Per essere si intende l’essere concreto, proprio come l’amico filosofo Unamuno, che parlava di ” uomo in carne ed ossa “, o della sua allieva Maria Zambrano, che ebbe la fortuna di assistere alle lezioni di Ortega, docente di metafisica all’Università di Madrid. E’ essenziale mettersi in relazione problematica ed autentica con la propria “circostanza”, perché questo rapporto elastico, mai rigido, permette all’uomo di trovare il senso della vita, della propria vita, trovando la propria vocazione e permettendogli di attuarla. Così spiega Josè Ortega: ” il senso della vita consiste nell’accettare ciascuno la propria inesorabile circostanza e, nell’accettarla, convertirla nella propria vocazione “. Riassumendo questi passaggi essenziali: Ortega presenta l’essere reale che deve essere legato all’osservazione delle cose concrete e non astratte e universali: la loro immediatezza non costituisce la totalità, così come la circostanza individuale non è un mondo chiuso, ma una parte dell’universo. L’uomo singolo esamina parti dell’universo, costituito dalla sua circum-stantia in cui egli stesso è incluso, e ha un’idea astratta del totale. Le parti e il totale hanno bisogno l’uno dell’altra al fine di un’autentica comprensione: come non è ammissibile una scelta estrema tra i due poli, così è imprescindibile un vitale e prospettico dialogo tra il limitato conosciuto e l’illimitato sconosciuto. Per conosciuto e sconosciuto, si intende una conoscenza fenomenologica. La verità è pertanto la verità di singole parti della realtà, del circum-stante di cui ho avuto percezione sensoriale: l’ho visto, l’ho toccato. Io ne ho fatto esperienza hic et nunc . La verità assoluta è riscontrabile, quindi, nell’immediatezza di una personale percezione, nasce dall’incontro tra il punto di vista soggettivo e corporale con l’oggetto osservato, scoperto, esperito. Per fare un semplice esempio: se dico che qui c’è un cane, nessuno può dubitare che ci sia, nemmeno Dio, ma questo è vero qui e ora, non in un altro luogo e in un altro momento. La verità ha quindi sempre un valore prospettico: ciò che ho visto in quel ben determinato momento è esattamente ciò che ho visto e non è detto che, ad uno sguardo successivo, non scopra un aspetto prima magari celato o da me ignorato. Allo stesso modo non è detto che la mia personale scoperta successiva non implichi una verità opposta alla precedente. Quando osservo un oggetto non ho mai una visione tridimensionale, ma bidimensionale. Per vedere ciò che sta dietro o di lato, devo cambiare prospettiva e allora scopro qualcosa che precedentemente non avevo visto perché non potevo vederlo. Quindi: il punto di vista mi offre una verità, sì, ma mai globale bensì prospettica. Si potrebbe fraintendere Ortega e attribuirgli un certo dualismo tra soggetto/oggetto. In realtà, per quanto finora si sia fatta menzione di soggetto conoscente e oggetto conosciuto, era solo a fini esemplaristici. Non dimentichiamo la frase iniziale con cui si è aperto il paragrafo: ” io sono io e la mia circostanza ” e la spiegazione successiva con cui si indicava il legame di continuità ( continuum ) tra i due termini. C’è un soggetto, l’ “io”, e c’è un oggetto, che è la circum-stantia, ossia una realtà che è composta dal concreto sociale, temporale, esperenziale del singolo. “Io” e “circostanza” non sono due insiemi separati e nemmeno la contiguità sarebbe un termine adatto: perché “io” e “circostanza” non si toccano soltanto, bensì si integrano e uno dà senso all’altro, si situano sul medesimo piano del reale: ” questo settore della realtà circostante costituisce l’altra metà della mia persona: solo con il suo tramite posso integrarmi ed essere pienamente me stesso io sono io e la mia circostanza, e se non salvo lei non salvo neppure me “. Quali sono le implicazioni nell’ambito della vita del singolo, dell’uomo? Vivere hic et nunc , essere operanti, presenti, adattarsi all’ambiente e adattare l’ambiente a noi stessi, scoprire ed attuare la propria vocazione. Vita non è mera biologia, ma anche biografia e soprattutto una particolare autobiografia che si scrive in tempo reale: si è più volte accennato alla “vocazione” del singolo e alla necessità di scoprirla ed attuarla. Questo implica un ulteriore passaggio: ” l’uomo è l’essere condannato a tradurre la necessità in libertà “. Analizziamo innanzitutto il concetto orteghiano di libertà: alla sua base c’è la fantasia. E’ questo il tramite per cui l’ “io” inventa la propria esistenza. Si tratta di una forza che rende l’uomo essere progettante, che senza tregua confronta i progetti elaborati nel mondo interiore del soggetto con la situazione del mondo esterno. Si esercita la libertà per ” decidere ciò che dobbiamo essere in questo mondo “: “dobbiamo”, scrive Ortega. Quindi esercitare la libertà individuale, fantasticare e attuare il proprio personale progetto seguendo la propria vocazione è una necessità . E’ necessario esercitare la libertà e autoprogettarsi. La vita è necessariamente anche immaginazione, fantasia che guida la ragione nella scoperta di nuovi orizzonti, dando corpo a concetti inediti per la formulazione di nuove idee. Cosa che la ragione, per sua costituzione, non potrebbe fare da sola.. Chi è quindi l’uomo? Niente di estremo, né angelo né bestia (corre il ricordo all’ Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola e al discorso di Dio ad Adamo al momento della creazione) ma un essere finito e limitato dalla propria circostanza, da un punto di vista prospettico del mondo e da ciò che la realtà concreta gli offre, un essere concreto che deve cercare di corrispondere alla sua vocazione, migliorando se stesso e il circostante. L’uomo quindi agisce e trasforma non solo il suo “io”, ma anche la realtà fisica e quella sociale. In tal caso è utile soffermarsi sul concetto di generazione . Ortega ne individua ben tre, ognuna con una propria peculiarità.
- La generazione cumulativa è la generazione all’interno della quale ogni individuo appartiene, un insieme di persone che condividono, nella stessa categoria spazio-temporale, il medesimo retroscena fatto di problemi, emergenze, difficoltà, speranze.
- La generazione polemica è invece formata da quell’insieme di uomini che si oppongono al lascito di chi li ha preceduti, anche se spesso è una rottura più apparente ed ideologica che reale, perché i mutamenti collettivi hanno in genere vita breve.
- Tuttavia la generazione polemica può divenire decisiva e apportare vere e proprie rivoluzioni che concretizzano una nuova configurazione alla collettività. All’interno della generazione (cumulativa), questi individui sono sempre minoranze scelte dotate di fantasia e coraggio. La storia quindi si muove, si sviluppa, si trasforma. E’ uno sviluppo comprensibile a partire dall’azione creatrice di individui intraprendenti, che hanno corrisposto alla propria vocazione.
“Il mondo che troviamo, esiste; però nello stesso tempo, non è sufficiente a se stesso, non sostiene il suo proprio essere, proclama il suo non essere e ci obbliga a filosofare; percbé questo è filosofare, cercare al mondo la sua integrità completarlo in Universo e costruire alla parte un tutto dove si collochi e poggi. Il mondo è un oggetto insufficiente e frammentario, un oggetto fondato in qualcosa che non è lui, che non è ciò che è dato. Questo qualcosa ha, pertanto, una missione sensu stricto fondamentante, è l ‘essere fondamentale.
IL CONCETTO DI FILOSOFIA
Quando Ortega concluse i suoi studi filosofici in Germania, non si entusiasmò per la filosofia tedesca. Anzi, proprio qui sviluppa la consapevolezza di dover uscire dall’idealismo: “ salviamoci nelle cose “, scrive. E questo tornare al concreto della circostanza sembra proprio la peculiarità spagnola di cui manca l’Europa. In un articolo della rivista spagnola “El basilisco”, compare un interessante articolo di Jacinto Sánchez Min~ambres (“Ortega y el nacimiento de la posmodernidad”), secondo il quale “la filosofia orteghiana può essere analizzata come antecedente di detto movimento”, di cui furono introduttori Nietzsche e Heidegger. Come testo di base da cui partire per una trattazione della postmodernità orteghiana, Min~ambres cita “Il tema del nostro tempo” (1923). Vediamo di cosa tratta questo breve ma denso volume. Come già si è detto nel precedente paragrafo, il nostro filosofo parla insistentemente della necessità della circostanza per l’uomo. Si è parlato di hic et nunc , di prospettiva. La filosofia orteghiana può essere in effetti definita come una filosofia circostanziale. Nel testo che ci accingiamo a trattare, l’argomento riprende spostando, si potrebbe dire, lo sguardo dall’uomo e la sua vita, alla conoscenza e al suo rapporto con la verità. La domanda di base è: ” come accostarsi alla verità, che è una e invariabile, dentro la vitalità umana, che è per essenza mutevole e varia da individuo a individuo, da razza a razza, da età a età? Se vogliamo attenerci alla storia (…) dobbiamo rinunciare all’idea che la verità si lasci catturare dall’uomo “. A questa domanda Ortega propone tre possibili risposte: le prime due hanno una base storica, sono già state battute dalla storia della filosofia; la terza è la sua personale risposta e coincide con la sua filosofia, con il suo filosofare. 1) Il relativismo è la prima risposta che sfocia da questo accostamento tra la verità oggettiva e universale e la soggettività individuale: è rinuncia alla verità. Ma ciò che il relativismo offre è in realtà ” più difficile di quel che sembra a prima vista “. Perché ” se non esiste la verità, il relativismo non può prendere sul serio se stesso. In secondo luogo, la fede nella verità è un fatto radicale della vita umana: se la amputiamo, questa viene convertita in qualcosa di illusorio e di assurdo “. 2) La seconda via già battuta è il razionalismo . La ragione cartesiana è una sorta di soggetto astratto che prescinde dalla mutevole individualità, ma in questo modo si produce un dualismo pericoloso: vita e concreto da una parte e ragione e astratto dall’altra. La ragione, scrive ancora Ortega, ” ci abilita a raggiungere la verità ma (…) in cambio non vive, irreale spettro che scorre immutabile attraverso il tempo, estraneo alle vicissitudini che sono sintomi di vitalità “. L’ errore razionalista (così lo definisce, prendendo in causa Socrate), che ha creato secoli di predominio dei sistemi filosofici, ha una ragione psicologica alle sue spalle, che spiega come sia stato possibile una vita tanto lunga e incontrastata. Nella stessa opera che stiamo trattando, Ortega descrive i concetti puri come ” immutabili, perfetti, esatti “. Infatti all’interno di questi logoi , non si trovano princìpi contrari che sporchino l’ideale che tali concetti portano con sé: ” l’uomo virtuoso è sempre, contemporaneamente, più o meno vizioso; ma la Virtù è esente dal Vizio “. I concetti puri ” si comportano secondo leggi esatte e invariabili ” e danno perciò all’uomo una certezza, una sicurezza che produce appagamento, a prescindere dalle contraddizioni che caratterizzano la vita: formano un mondo ideale, sostituendosi alla realtà, per cui la vita quotidiana, al loro confronto, è deficiente, mancante, inesatta e imperfetta. Ma noi viviamo qui: hic et nunc ! Queste due vie, quindi, sono impercorribili. Se è vero che la ricerca della verità è un imprescindibile bisogno umano, è altrettanto vero che tanto un mortifero astrattismo quanto una concreta visione unilaterale, non conducono a nulla. 3) Ciò a cui Ortega aspira è piuttosto un tutto con le sue parti e questo traguardo si può raggiungere solo attraverso la prospettiva . Nella prefazione alla “Meditazione sul Chisciotte”, scrive: “ quando ci apriremo alla convinzione che l’essere definitivo del mondo non è materia né anima, non è una cosa determinata ma una prospettiva? “. Scartare quelle due vie non significa ricominciare da capo, ma ” invertire la relazione “. Torniamo un attimo alla concezione orteghiana di filosofia. Ortega introduce il ‘concetto’ dell’ amore , che non è altro che ” un allargamento dell’individualità (…) lega cosa a cosa e tutto a noi, in una salda struttura essenziale “: in questo senso la filosofia è ” scienza generale dell’amore (…) impulso verso una connessione globale “. C’è una differenza sostanziale tra comprendere e sapere. Comprendere è con-prendere, abbracciare, alla sua base c’è un sentimento, se si vuole, che conduce il soggetto pensante a calarsi nell’oggetto pensato e a non acconsentire a un dualismo freddo e impenetrante. Tant’è che Ortega prosegue, sempre nella prefazione di “Meditazioni sul Chisciotte”, dicendo che ” la filosofia è idealmente il contrario della notizia, dell’erudizione (…) tornarvi nella nostra era equivarrebbe a una regressione alla filologia, come se la chimica tornasse all’alchimia o la medicina alla magia “; insomma, ha fatto il suo tempo, bisogna andare oltre. Se la prospettiva deve divenire la cifra per il raggiungimento della verità, ecco che deve cambiare anche l’esposizione della propria idea. Propongo, in tal senso, le parole stesse del nostro filosofo:
“Anche i libri di intenzione scientifica cominciano ad esser scritti con uno stile meno didattico e da manualetto; per quanto è possibile si sopprimono le note a pie’ di pagina e il rigido apparato meccanico della prova viene sciolto in un’elocuzione più organica, vivace, personale. A maggior ragione si dovrà farlo nei saggi di questo tipo, dove le dottrine, pur essendo per l’autore convinzioni scientifiche, non pretendono di essere ricevute dal lettore come verità. Io offro solo ‘modi res considerandi’, possibili nuove maniere di guardare le cose. Invito il lettore a saggiarle da solo; che provi se in effetti procurano visioni feconde; egli, dunque, in virtù della sua intima e leale esperienza, ne proverà la verità o l’errore. Nelle mie intenzioni queste idee hanno un compito meno grave di quello scientifico: non debbono ostinarsi a farsi adottare dagli altri, ma vorrebbero solo ridestare nelle anime sorelle altri pensieri fratelli, fossero pure fratelli nemici “.
Da queste parole si evince il compito essenziale della filosofia: permettere ad ogni singolo uomo di orientarsi nella realtà e di trovare la propria verità, vagliare le varie proposte secondo la propria personale esperienza e farle proprie, rielaborarle anche, per adattarle alla propria vita, per la propria vita. Tramite questo procedimento, che richiede ” attenzione riflessiva “, ” meditazione a ciò che si trova vicino alla nostra persona “, l’uomo acquista un’autenticità esperenziale, una consapevolezza di vivere che non si esaurisce nella propria singolarità, anzi: ” l’uomo rende il massimo della sua capacità quando acquista la piena coscienza delle sue circostanze. Attraverso di esse comunica con l’universo “. Tornando ora al concetto introdotto all’inizio di questo paragrafo, si può meglio comprendere la tesi di Min~ambres, che vede Ortega quale precursore del postmodernismo (sarebbe meglio dire ‘della postmodernità’, togliendo dal pensiero orteghiano ogni -ismo, che condurrebbe ipso facto ad un’astratta quanto sterile scientificità dogmatica). La postmodernità è fondamentalmente un superamento del relativismo e del razionalismo. Ortega propone un’altra ragione: la ” ragione vitale “, strettamente connessa alla prospettiva, per cui risulta evidente che vi siano ” infinite prospettive, tutte ugualmente veritiere e autentiche (…) ogni individuo è un punto di vista essenziale. Giustapponendo le visioni parziali di tutti, si riuscirebbe a ottenere la verità totale ed assoluta “. In un articolo (“Ni vitalismo ni racionalismo”) Ortega riassume la sua teoria sulla ragione e spiega in quali circostanze essa scade in razionalismo:
” La ragione, che consiste in mera analisi o definizione, è in effetti la massima intellezione, perché scompone l’oggetto nei suoi elementi e pertanto ci permette di vederne l’interno, di penetrarvi e renderlo trasparente. Di conseguenza, la teoria che aspiri ad essere pienamente tale dovrà essere sempre razionale. Ma, contemporaneamente, la ragione si rivela una mera operazione formale di dissezione, un semplice strumento di discesa dal composto ai suoi elementi. Ed esistono composti infiniti -tutte le realtà- che sono pertanto irrazionali. D’altra parte, gli elementi cui si può eventualmente giungere sono ugualmente irrazionali. Di modo che : la ragione è una piccola zona di chiarezza analitica che si apre tra due strati insondabili di irrazionalità. Il carattere essenzialmente formale e operativo della ragione la conduce inesorabilmente verso un metodo intuitivo, opposto ad essa, ma di cui essa vive. Ragionare è un puro combinare visioni non ragionabili. Questo è, a mio giudizio, il ruolo della ragione. Tutto ciò che è in più, degenera in razionalismo “.
Quella “ragione vitale” di cui si è parlato poco sopra, è il “logos del Manzanares”. Il Manzanares, piccolo fiume di Madrid, rappresenta l’umile e piccola realtà, la circostanza che deve essere salvata dalla ragione. Questa nuova ragione deve iniziare a prendersi carico anche di quelle cose apparentemente banali e insignificanti che sembrano non essere state finora sufficientemente elevate per essere prese in considerazione. Il razionalismo è uno sguardo arrogante ed escludente che genera lamenti inascoltati, umiliazione e “rancore”. Questi elementi semplici e umili, apparentemente non adeguati alla ragione, fanno parte integrante della superficie, della terra, dell’ hic su cui viviamo quotidianamente. A tal proposito, Ortega scrive:
” Non sono le grandi cose, i grandi piaceri o le grandi ambizioni, a trattenerci sulla superficie della vita, ma questo momento di benessere accanto al fuoco, d’inverno, questa gradevole sensazione di un bicchiere di liquore bevuto, quel modo in cui calpesta il terreno, nel camminare, una fanciulla gentile che non amiamo né conosciamo; quella genialità che l’amico geniale ci dice con la sua buona voce abituale. Mi sembra molto umano l’episodio di quel disperato che andò a impiccarsi a un albero e mentre si metteva la corda al collo sentì l’aroma di una rosa ai piedi del tronco e non s’impiccò “.
“Da quello che si pensa oggi dipende quello che si vivrà domani sulle strade e nelle piazze.
L’INTERPRETAZIONE DI ZAMBRANO
Maria Zambrano (1904-1991) fu allieva di Josè Ortega y Gasset, all’Università di Madrid, quando Ortega deteneva la cattedra di metafisica. Pensatrice e filosofa spagnola, Zambrano è una figura di rilievo internazionale, forse ancora poco conosciuta in Italia ma di cui la critica sta iniziando ad occuparsi. Sembra allora interessante tentare, tramite la lettura di alcuni suoi frammenti, un approccio al pensiero orteghiano tramite il pensiero di chi l’ha conosciuto e che fece del suo maestro un alimento vitale da assimilare e superare.
” Appare evidente che non c’è opera del molto umano pensiero che non mantenga una qualche relazione, sia pur lieve, con un’attitudine religiosa, benchè questa possa passare, come tale, inavvertita. Ma una volta messa in luce -se solo la si studia con la sottigliezza necessaria, ma così rara finora- questa attitudine si mantiene nella sua leggerezza come la guida di tutta un’opera, e persino di tutta una vita. Nel caso del lavoro filosofico spagnolo indiscutibilmente più puro e più chiaro, quello di don Josè Ortega y Gasset, la testura intima di una religiosità autentica, da lui stesso dichiarata, si rivela immediatamente con la sua dea, l’Aurora; già religione, quindi. Una singolare religione che non si esprime come tale, come succede anche in Miguel de Unamuno, che, secondo un topico insistente, rappresenterebbe il suo polo opposto. La verità è che nessuno di questi due pensatori, giunti a fronteggiarsi in una Spagna che dava le spalle alla filosofia, offre una religione dogmatica; hanno entrambi, considerati nella loro azione, un carattere aurorale. Ma nell’epoca di Ortega y Gasset l’Aurora appare esplicitamente come una guida, così nel prologo delle ‘Meditaciones del Quijote’. E’ in quel testo che si rivela limpidamente la sua vocazione di scrittore che, senza tregua ma senza fretta, sogna e tenta di praticare la riforma dell’essere spagnolo; quella riforma che, se si realizzasse, costituirebbe a nostro avviso un’autentica tramutazione. Agli spagnoli tutti Ortega offre una preghiera, la sua preghiera: “al mattino, quando mi alzo, recito una brevissima preghiera vecchia di mille anni, un versetto del Rig-Veda che contiene queste pochissime parole alate: ‘Signore, risvegliaci allegri e dacci conoscenza!’ “. Così predisposto, si immergeva nelle molteplici occupazioni della sua vita feconda: la cattedra di metafisica “in partibus infidelium” -come dichiarò lui stesso-, il giornale, le riviste che fondò e in particolare la “Revista de Occidente” e la sua casa editrice, le sue importanti attività politiche e le sue altr4e numerose attività, tutte ben note, e tutte sotto il segno dell’Aurora. Nella seconda navigazione della sua vita le sue attività penetrarono nella struttura dello Stato spagnolo e di istituzioni fondamentali come l’Università. (…) La sua vita stessa fu aurorale, e questo gli consentì di vedere in modo premonitore certi fenomeni sociali con grande nitidezza e precisione, come nella Rebeliòn de las masas, opera peraltro travisata, utilizzata in un senso completamentedifferente all’interno di paesi interi, da ideologie estranee al suo essere come al suo pensiero. Agli pseudopensatori da cui per un certo periodo l’Europa si è vista gratificata, sembra così naturale che l’Aurora del pensiero -del pensiero di ortega, in questo caso- si converta in occaso, o come tale sia percepita. Ho avuto davanti agli occhi, e credo anche tra le mani, un libro di Ortega già in bozze, intitolato La aurora de la razòn històrica. (…) Resta indelebile nella mia memoria quella invocazione che egli reputava centrale nella sua opera: la Aurora. Aurorale era anche disporsi a scoprire il “logos del Manzanares” [ piccolo fiume che attraversa Madrid evocato ad esempio, nella premessa delle Meditazioni sul Chisciotte, di un logos attento alla vita e capace di farsi carico e riscattare le circostanze anche apparentemente insignificanti, come appare il Manzanares. ndr] nom era espressione di uno speciale attaccamento a Madrid o alla Spagna, benchè questa fosse presente in altissimo grado. Era ragione, e in quanto tale -detto con le parole dello stesso Ortega-, “ragione d’amore”. Così anche le circostanze, che pure sono state evocate in modo così diverso, secondo lui chiedevano di venire considerate, integrate al logos, salvate. E l’esercizio della ragione, ci rimase sempre fedele, era per lui, in origine, esplicitamente, un esercizio d’amore. Si imponeva dunque, nel pensiero, di fornire sempre, come ragione, ragioni d’amore. Un logos che costituisce un punto di partenza indelebile per il mio pensiero, perché mi ha permesso di pensare: mi ha dato respiro per pensare, ormai per conto mio, il mio sentire originario riguardo a un logos che si facesse carico delle viscere, che arrivasse alle viscere e fosse per esse alveo di senso; che elevasse alla ragione ciò che fatica e duole senza tregua, riscattando la passività, la fatica e anche l’umiliazione di quanto palpita senza essere udito, perché non ha parola. Un logos che, seguendo Empedocle, deve essere ben distribuito nelle viscere, e che sia, l’ho già detto, voce delle viscere, luce del sangue. (…) Fu proprio lui, con la sua concezione del logos espressa nel logos del Manzanares, ad aprirmi la possibilità di avventurarmi per un tale cammino, dove ho incontrato la ragione poetica: forse l’unica ragione che sarebbe in grado di far recuperare il respiro alla filosofia e di salvarla – nello stesso modo di una circostanza – dalle tergiversazioni e dalle trappole di cui è rimasta prigioniera. “
” Ortega y Gasset distingue le idee dalle convinzioni. Le idee sono figlie del dubbio, come tutto ciò che è pensiero, e come pensiero sono perciò figlie della solitudine umana, che si manifesta solo nell’individuo. Le idee sono state quindi pensate un giorno da una persona determinata, in un momento determinato. Al contrario, potremmo dire che le convinzioni appartengono al passato, infatti le collochiamo sempre nel passato quando ci accorgiamo di averne, visto che spesso neppure ci rendiamo conto che sono convinzioni; la nostra vita ne è piena e basta. Quando si pensa, invece, si va verso il futuro: ogni idea è diretta verso il futuro e lo prepara. Viceversa, le convinzioni le sentiamo sempre provenire dal passato: per questo ci sostengono e ci offrono un riparo quando il futuro si fa oscuro e sembra chiudersi davanti ai nostri occhi. “
“ Nel suo ‘Ensimismamiento y alteraciòn’, Ortega y Gasset indica la differenza tra l’uomo e l’animale nel fatto che l’uomo sente la necessità di raccogliersi in se stesso, di entrare in un luogo proprio, in una specie di “chez soi”, così dice, in cui ritirarsi dall’attenzione verso ciò che lo circonda, mentre gli animali – in particolare le scimmie antropomorfe di cui analizza il comportamento – sono in continua agitazione, assorti nell’attenzione verso ciò che li circonda, totalmente occupati a vivere, come abbiamo detto. L’uomo può e si sente persino obbligato a trattenere questo “dover vivere” per entrare dentro di sé, là dove la sua solitudine lo sta aspettando. Qui ovviamente continua a vivere, ma in maniera del tutto differente. Oltre a vivere come l’animale, vive in modo diverso “.
” Ne ‘La ribellione delle masse’ (…) si denuncia il fenomeno del “pieno”; pieno nei teatri, nei tram, nella strada…un pieno che è andato aumentando. Come un oceano, la massa ha invaso piano piano tutto quanto. La massa… Ortega caratterizza l’uomo della massa come colui che riconosce solo i propri diritti, avido di usare e di godere delle cose che non solo non è capace di creare, ma neppure conosce. L’uomo, dunque, che vive dei risultati dei prodotti, il cui processo di creazione gli è del tutto sconosciuto e, ancora più grave, persino indifferente. La minoranza, invece, si caratterizza per l’ansia di perfezione, per una specie di godimento nell’essere esigente con se stessa, era una costante tensione vitale “.
” Definendo la Ragione Vitale, il filosofo Ortega y Gasset sostiene che vivere umanamente significa dover scegliere tra le circostanze. Ma esiste una scelta preliminare, decisiva per eccellenza: è quella che facciamo di noi stessi. Ho sempre inteso la formula di Ortega, “Siamo costretti ad essere liberi”, come equivalente a quest’altra: “Siamo costretti ad essere persone”. Eppure non è lo stesso se oltre a esservi costretti si vuole anche esserlo, perché è solo allora che si è davvero liberi. E’ solo allora che si realizza la libertà, quella comune e quella propria “.
” Nel primo, il più poetico, il più bello dei suoi libri, ‘Meditazioni del Quijote’, Ortega parlava delle circostanze come di supplici che chiedono di essere salvati, e diceva anche di Manzanares, umile fiume di Madrid, ha il suo logos, ha la sua ragione. Ortega non si assoggettò ai grandi sistemi filosofici che non arrivano a riscattare, ma nemmeno a guardare, il logos del Manzanares; in seguito, il pensiero di Ortega y Gasset è stato interpretato come una conoscenza strategica per adattarsi alle circostanze. Mentre è il contrario, è un sapere di salvezza, un sapere di trasformazione, e anche solo per questo, gli rimarrò fedele “.
“La bellezza che seduce coincide poche volte con la bellezza che fa innamorare.
L’INCONTRO CON HEIDEGGER (1951)
Vorrei riferire brevemente due ricordi di Ortega y Gasset. (…) Il primo ricordo risale all’agosto del 1951. Ci incontriamo nella città alemanna di Darmstadt, dove in una stretta cornice si celebrano annualmente conferenze su un determinato tema. Quell’anno si trattava il tema “L’uomo e lo spazio”. Tra gli uomini di scienza e gli architetti che erano stati invitati a parlare, ci contavamo Ortega e io. Dopo la mia conferenza, dal titolo “Edificare, abitare, pensare”, un oratore iniziò a sparare violenti attacchi contro ciò che avevo detto e affermò che la mia conferenza non aveva risolto le questioni essenziali, che piuttosto le avevo “depensate”, cioè, dissolto in nulla per mezzo del pensiero. In questo momento prese la parola Ortega y Gasset, prese il microfono dell’oratore che aveva al suo lato e disse al pubblico le seguenti parole: ” Il buon Dio necessita dei “depensatori” perché gli altri animali non si addormentino”. L’ingegnosa uscita fece cambiare di colpo la situazione. Ma non era soltanto un’uscita ingegnosa, era soprattutto cavalleresca. Questo spirito cavalleresco di Ortega, manifestato anche in altre occasioni di fronte ai miei scritti e discorsi, è stato tanto più ammirato e stimato da me poiché so per sicuro che Ortega ha negato a molti il suo consenso e sentì una certa inquietudine per alcune parti del mio pensiero che sembrava minacciare la sua originalità. Una delle notti seguenti lo incontrai di nuovo in occasione di una festa nel giardino della casa dell’architetto municipale. In un’ora avanzata stavo facendo un giro per il giardino, quando mi imbattei in Ortega solo, con il suo grande cappello in testa, seduto sul prato con un bicchiere di vino in mano. Sembrava depresso. Mi presi una sedia e mi sedetti insieme a lui, non solo per cortesia, ma anche perché mi affascinava la grande tristezza che emanava dalla sua figura spirituale. Fu subito evidente il motivo della sua tristezza. Ortega era disperato per l’incapacità del pensare di fronte alle potenze del mondo contemporaneo. Ma allo stesso tempo si staccava da lui anche una sensazione di isolamento che non poteva essere prodotta dalle circostanze esterne. All’inizio riuscimmo soltanto a parlare con molta difficoltà; subito dopo il colloquio si incentrò sulla relazione tra il pensiero e la lingua materna. I lineamenti di Ortega si illuminarono subito; si trovava nei suoi “dominios” e dagli esempi linguistici che pose, supposi quanto intensamente e immediatamente pensava dalla sua lingua materna. Alla nobiltà si unì nella mia immagine di Ortega la solitudine della sua ricerca e allo stesso tempo un’ingenuità che stava certamente molto lontano dalla semplicità, perché Ortega era un osservatore penetrante che sapeva molto bene misurare l’impressione che la sua apparizione voleva ottenere in ciascun caso. Il secondo ricordo porta la mia memoria alla ampia casa di un medico alle altezze della Selva Nera, dove una mattina di domenica, in un circolo di numerosi ascoltatori (…) era in discussione il concetto di “essere” e l’etimologia di questo vocabolo fondamentale della filosofia. (…) La sera dello stesso giorno offrì a me e a tutti i presenti l’impressione più intensa e durevole della grande personalità di Ortega y Gasset. Parlò di un tema che nè era stato previsto né era stato formulato e che può, ciò nonostante, trovar cifra nel titolo “L’uomo spagnolo e la morte”. E’ certo che ciò che ci disse gli era familiare da molto tempo, ma il come lo disse ci disvela quanto più avanzato era rispetto ai suoi ascoltatori in un campo che ora ha dovuto oltrepassare. Quando penso a Ortega torna ai miei occhi la sua figura tale quale la vidi quella sera, parlando, tacendo, nei suoi modi, nella sua nobiltà, nella sua solitudine, nella sua ingenuità, nella sua tristezza, nel suo molteplice sapere e nella sua seducente ironia”.
“Delle idee (…) possiamo dire che le produciamo, le sosteniamo, le discutiamo, le propaghiamo, combattiamo a loro favore e siamo perfino capaci di morire per esse. Quello che non possiamo è vivere di esse.
IDEE E CREDENZE
Scrive Ortega nel saggio “Idee e credenze”: ” con l’espressione ‘ idee di un uomo’ possiamo riferirci a cose molto differenti “. Il termine idea è di per sé molto vago e confuso, perché include i pensieri occasionali, i pensieri ragionati, le verità scientifiche, perfino le stramberie: ma sono comunque pensieri che abbiamo in mente e che perciò presuppongono l’esistenza di un uomo concreto che le pensa. Le idee presuppongono sempre l’uomo e sono necessarie per la sua vita, in quanto attraverso di esse l’uomo si orienta nel mondo e nella sua circum-stantia. Ma, pur essendo di base idee, due sono le diramazioni, le sottospecie: le idee-credenze (“ideas-creencias”) e le idee-pensate (“ideas-ocurrencias” o “pensamientos”): solo queste ultime possono essere nominate di rigore “idee” ( per praticità le nomineremo rispettivamente con i termini credenze e idee, così come Ortega fa, ma solo dopo aver specificato, appunto, la loro comune derivazione dal termine idea).
” Delle idee (…) possiamo dire che le produciamo, le sosteniamo, le discutiamo, le propaghiamo, combattiamo a loro favore e siamo perfino capaci di morire per esse. Quello che non possiamo è…vivere di esse. Sono opera nostra e suppongono già la nostra vita, la quale si colloca in idee-credenze che non produciamo noi stessi, che, in generale, neppure ci formuliamo e che, chiaramente, non discutiamo né propaghiamo né sosteniamo. Con le credenze propriamente non produciamo nulla, finchè stiamo semplicemente in esse. (…) Il linguaggio volgare ha inventato l’espressione “stare nella credenza “.
In effetti nella credenza si sta, e l’idea si tiene e si sostiene. Ma è la credenza a tenerci e a sostenere noi stessi . Non giungiamo alle credenze dopo un raziocinio rigoroso: mentre le idee propriamente dette esistono nel momento stesso in cui noi le pensiamo, ” la nostra relazione [con le credenze] consiste nel…contare su di esse, sempre, senza pausa “. A tal proposito Ortega suggerisce un esempio tratto dalla vita quotidiana: siamo in casa e, per un qualsiasi motivo, vogliamo uscire in strada. Arrivando alla porta di casa nessuno si sarà posto la questione che ci sia una strada, che essa esista. E’ fuor di dubbio che per uscire in strada sia essenziale che una strada esista, eppure non ci si pensa e non lo si mette in dubbio. Ma non si potrebbe dire che l’esistenza o meno della strada non sia intervenuta nel comportamento di chi vuole uscire di casa. La prova consiste nel fatto che se si arrivasse alla porta e si scoprisse che la strada è sparita, si avrebbe una violenta sorpresa. Perché? Perché quell’uomo nell’atto di uscire, pur non pensando all’esistenza della strada, ci contava, sapeva che c’era senza averci pensato, non l’ha messa in dubbio e non l’ha sottoposta a vaglio critico. Che la strada esista fa parte delle nostre credenze: quelle idee in cui ” viviamo, ci muoviamo e siamo “. Si potrebbe cambiare esempio, passando da una credenza del singolo uomo, ad una credenza collettiva. Quando frana una montagna o straripa un fiume, noi siamo soliti chiamare tempestivamente la protezione civile o i vigili del fuoco. Questo nostro atteggiamento è coerente con una credenza che non mettiamo in discussione, derivante da una concezione scientifica della realtà, secondo cui, in questi casi, una montagna frana e un fiume straripa se ha piovuto troppo e la terra ha ceduto. Ma se ci spostiamo in India, o in Africa, di fronte alla violenza della natura, per prima cosa i bramini o gli stregoni invocano gli dei e compiono riti che ne plachino l’ira. Da molti occidentali, questo comportamento potrebbe essere considerato ridicolo o inferiore, non vero; eppure molti di noi, di fronte ad una malattia inguaribile, chiedono grazia a Dio e si recano in chiesa o in pellegrinaggio, percorrendo magari qualche centinaio di metri in ginocchio. Non ha importanza, quindi, la questione sulla veridicità o meno di una credenza. Ciò che basta è che sia creduta: si tratti di un singolo o di una civiltà intera. Le credenze operano in noi, noi contiamo su di esse senza pensarci: sono la nostra interpretazione della realtà, anzi, ” poiché sono credenze radicalissime si confondono per noi con la realtà stessa -sono il nostro mondo e il nostro essere “. Ma in quanto interpretazione non ragionata e non pensata, nel momento in cui, per un qualsivoglia motivo, la mettiamo in dubbio ed entriamo nell’incertezza, la credenza diviene idea discussa. Cos’è quindi il dubbio ? Qual è il rapporto tra dubbio e credenza?
” Le credenze -scrive Ortega- sono la terra ferma su cui ci affanniamo. […] Il dubbio (…) è un modo della credenza e appartiene allo stesso strato di questa nell’architettura della vita. Anche nel dubbio si sta. Soltanto che in questo caso lo stare ha un carattere terribile. Nel dubbio si sta come si sta in un abisso, cioè, cadendo. E’, quindi, la negazione della stabilità. All’improvviso sentiamo che sotto i nostri piedi cede la fermezza terrestre e ci pare di cadere, cadere nel vuoto (…) Viene ad essere come la morte nella vita, come assistere all’annullamento della nostra propria esistenza. (…) La differenza tra fede e dubbio non consiste in un credere. Il dubbio non è un “non credere” di fronte al credere, né è un “credere che non” di fronte a un “credere che sì”. L’elemento differenziale sta in ciò che si crede. La fede crede che Dio esista o che Dio non esista. Ci pone, quindi, in una realtà, positiva o “negativa”, ma inequivoca, e, pertanto, stando in essa ci sentiamo collocati in qualche cosa di stabile “.
Il dubbio è pertanto la cifra dell’instabilità. E’ uno stare sulla terra scossa da un terremoto che non accenna a smettere, a placarsi. Il linguaggio volgare, ha un immagine specifica che ben rende l’idea e che Ortega riprende: ” trovarsi in un mare di dubbi “, l’uomo in balia di qualcosa di fluido e instabile, scivoloso, che non concede sicurezza. Esattamente l’opposto della credenza, simbolicamente definita come uno stare sulla terra ferma. Perché si dubita? Perché il dubbioso si trova a dover decidere tra due credenze antagonistiche, inconciliabili. Per uscire da questo mare di dubbi, il dubbioso deve risolversi ad aggrapparsi a qualcosa. A che cosa? All’ intelletto : ” [l’uomo]mentre crede non è solito usarlo, perché è uno sforzo penoso [Ortega usa il termine spagnolo ‘penoso’, che si può rendere con ‘doloroso’, ‘difficile’. Si capisce quindi l’accezione del termine non unicamente negativa]. Però cadendo nel dubbio si attacca ad esso come ad un salvagente “. A questo punto, tramite l’uso dell’intelletto e il ragionare, entrano in gioco le idee: intervengono nei vuoti delle nostre credenze e l’instabilità, l’ambiguità, sparisce. ” Come si ottiene questo? Fantasticando, inventando mondi. L’idea è immaginazione. All’uomo non è stato dato nessun mondo già determinato “. L’idea, quindi, non è un fatto su cui contiamo, ma è una conclusione: è il risultato a cui perveniamo dopo un ragionamento tramite l’intelletto. Infatti, scrive Ortega:
” L’idea ha bisogno della critica come il polmone dell’ossigeno e si sostiene e afferma appoggiandosi su altre idee che, a loro volta, sono a cavallo di altre formando un tutto o un sistema. Organizzano, quindi, un mondo a parte dal mondo reale, un mondo integrato esclusivamente da idee di cui l’uomo si sa produttore e responsabile. Di modo che la solidità dell’idea solida si riduce alla solidità con cui tollera di essere riferita a tutte le altre idee. Niente di meno, ma anche niente di più (…) La verità suprema è quella dell’evidente, ma il valore dell’evidenza stessa è a sua volta teoria, idea e combinazione intellettuale. Tra noi e le nostre idee, quindi, si ha sempre una distanza insuperabile: quella che va dal reale all’immaginario. In cambio, con le nostre credenze siamo sempre uniti. Perciò si può dire che le siamo “.
Costruire idee, farsi delle idee, è un appiglio essenziale per poter vivere in quella che è una vita enigmatica, contraddittoria. L’uomo deve decidere cosa fare, come comportarsi, come e cosa scegliere per la sua circum-stantia: e lo fa immaginando, confrontando e quindi, eventualmente, accettando. ” Questi mondi immaginari sono confrontati con l’enigma dell’autentica realtà e sono accettati quando sembrano aggiustarsi (ajustarse) ad essa con la massima approssimazione “. Aggiustarsi, non adeguarsi! Ortega usa questo termine per scostarsi dal termine tradizionale di adaequatio : vita enigmatica ed intelletto non possono uguagliarsi, pareggiarsi, sovrapporsi. Non combaciano e non potranno mai farlo, perché appartenenti a due piani diversi. Possono invece avvicinarsi, cercare un punto di somiglianza, smussando i loro estremismi inconciliabili. Con il tempo, quest’idea immaginata e ragionata, discussa e criticata, può divenire a sua volta credenza, un punto fermo dato per scontato, un pensiero consolidato usato inconsciamente, fino a quando un uomo, o una civiltà intera, non la porrà nuovamente in dubbio.
“In confronto ad un romanzo, la scienza sembra la realtà stessa. Ma in paragone alla realtà autentica si avverte ciò che la scienza ha di romanzo, di fantasia, di costruzione mentale, di edificio immaginario.
SCIENZA E REALTA’
Ortega non critica la scienza in se stessa, il suo valore: tende piuttosto a sottolineare il carattere limitativo che la costituisce. Certamente, riconosce il contributo essenziale della tecnologia, che ha consentito uno sviluppo tale da rendere l’uomo autosufficiente in confronto alla vita animale dipendente direttamente dalla natura. La tecnologia è una sorta di veicolo che conduce l’essere umano verso la felicità; ma resta il fatto, incontrovertibile, che tale mezzo è e rimane esterno all’uomo, non ha una morale, e lascia all’uomo una sensazione di vuoto. La scienza, in generale, di cui la tecnologia è solo una parte, ci offre affermazioni, leggi, teorie che altro non sono se non idee ben riuscite, fantasie sperimentate e generalizzate. L’uomo inventa tali idee tramite l’uso dell’intelletto a cui si aggrappa nel momento in cui, senza più alcun appiglio, si scopre naufragare nel mare di dubbi, in cui si trova quando determinate credenze e pensieri dati per scontati iniziano a vacillare. Soffermandoci ancora un attimo sui termini idea/credenza, abbiamo sottolineato l’importanza che la credenza ha per ognuno di noi, via via fino a includere generazioni o nazioni intere. Con la credenza l’uomo ha un rapporto del tutto particolare che opera al suo interno senza che intervenga un uso cosciente e consapevole dell’intelletto. L’uomo conta sulle proprie credenze, sta nelle proprie credenze. Viceversa, le idee (e con tale termine si indicano anche le teorie scientifiche) intrattengono con l’uomo che le formula, o che semplicemente le accoglie, un rapporto che esula dall’atto di fede, in quanto prodotti di lucida razionalità, conseguenza ragionata di un calcolo attento. L’idea è il prodotto di un agire e mantiene, quindi, una forte peculiarità attiva e cosciente, rispetto al passivo e interno credere nella propria credenza, in cui l’uomo si adagia (nel senso positivo del termine). Certo, le teorie scientifiche, e le idee in generale, non restano fuori dal dubbio: importante è imparare dagli errori, farne tesoro e mettere continuamente a prova le ipotesi. Nel saggio “Intorno a Galileo”, Ortega y Gasset scrive:
” L’uomo di scienza deve continuamente tentare di dubitare delle proprie verità. Queste sono verità della conoscenza, solo nella misura in cui resistono ad ogni possibile dubbio. Vivono quindi in un conflitto permanente con lo scetticismo. Tale conflitto si chiama prova “.
La prova è ciò che consente ad una teoria di divenire verità scientifica:
” Oggi l’uomo sa che quelle figure del mondo che immaginava in passato non sono la realtà. A forza di sbagliare, sta delimitando l’area del possibile esito. Da ciò l’importanza di non dimenticare gli errori e questo è storia “.
Ma qual è il rapporto tra scienza e realtà? Ortega a tal proposito è preciso:
“ In confronto ad un romanzo, la scienza sembra la realtà stessa. Ma in paragone alla realtà autentica si avverte ciò che la scienza ha di romanzo, di fantasia, di costruzione mentale, di edificio immaginario “.
Ciò significa che la realtà eccede sempre le formule intellettuali. La struttura stessa delle teorie scientifiche impedisce l’entrata in gioco della realtà concreta. Questo perché la scienza converte ogni singolo caso in ciò che lo accomuna ad altri: livella un dato, un oggetto concreto, un particolare fenomeno ad altri dello stesso genere, smussando e prescindendo dalle intrinseche e naturali differenze concrete. In altre parole: astrae. Ben si comprende, dunque, quanto poco si concilii la scienza astraente con l’incomparabile vita individuale e la concreta realtà. Non si tratta, dunque, di criticare la validità della scienza, ma di individuarne il limite . La concezione scientifica della realtà va integrata perché non esauriente. L’astrazione, d’altra parte, è essa stessa limitata. E’ impossibile scoprire una formula universale che abbracci la totalità delle relazioni in cui un uomo, un oggetto, un dato si trovano al momento della sperimentazione o della formulazione della teoria. E’ certamente all’interno della vita che ogni cosa si affaccia per essere conosciuta. La vita resta un fatto radicale da cui non possiamo prescindere: ma qui non si sta trattando di un ideale di vita o di un’astratta idea della vita, che accomuni tutto e tutti: si parla di vita concreta e reale, autentica per me, autentica per te, inserita nella circum-stantia. Si intende ora meglio quanto sia tangibile la lontananza : astratto versus cocreto e, meglio specificando, astrazione universalizzata versus parte concreta. Scrive Ortega nelle “Meditazioni”: ” nella realtà non ci sono che parti; il tutto è l’astrazione delle parti e ha bisogno di loro “. I limiti strutturali della scienza, non vanno ad indicare la scienza in senso stretto ma include, in ambito filosofico per esempio, i 2400 anni di filosofia sistematica, che ha in sé il predominio assoluto della ragione quale facoltà umana superiore. Su questo punto di vista sono perfettamente d’accordo Ortega e la sua allieva Maria Zambrano: la Spagna si distingue dal resto dell’Europa per il suo impatto negativo con i sistemi filosofici. La Spagna è spagnolità, non spagnolismo, spagnolità nel senso di biografia dell’essere, che si contrappone alla bibliografia dell’essere tipica dell’europeismo. In altre parole: la critica, seppur ben mirata, alla scienza e al sapere scientifico in genere, ben si concilia con il sentimento e l’atteggiamento mentale spagnolo, che forma come un’isola di poesia circondata da un mare europeista di ragione dogmatica.
“In generale, della maggior parte delle cose che esistono per noi non abbiamo conoscenza, ma facciamo affidamento su di esse. Il caso più estremo di questo è la nostra persona: in nulla l’uomo suole rendersi conto meno che di se stesso e, ciò nonostante, su nulla fa più costantemente affidamento che su se stesso. Tutte le verità evidenti hanno questo carattere: che quando per la prima volta le scopriamo ci sembra che già le sapessimo in anticipo, ma non ci eravamo calati in esse. Quanto forma parte della mia vita forma una parte perché mi rendo conto di questo, e solo in quanto me ne rendo conto (la vita si rende conto di se stessa)”.
SUGLI STUDENTI
Il professore Ortega y Gasset tiene la lezione introduttiva al suo corso di Metafisica . L’ esordio è a prima vista scoraggiante, quasi inaccettabile in un corso di filosofia: “ studiare la metafisica è una falsità “. Il professore subito spiega ai suoi studenti, probabilmente alquanto perplessi, il significato specifico della sua affermazione: l’attributo non è certo riferibile alla Metafisica, quanto piuttosto al fatto di studiarla in quanto disciplina. Ma ” quanto ho affermato non vale solo per la Metafisica, benchè per essa valga in modo eminente. In sostanza lo studiare in generale sarebbe una falsità “. L’ esistenza di una qualsiasi disciplina è certamente dovuta allo sforzo intellettuale di alcuni uomini che, nel corso degli anni e dei secoli, hanno integrato il loro sapere e la loro esperienza. Sono dovute probabilmente all’ intuizione di un uomo e alle integrazioni, ai ripensamenti successivi di altri; perché, come ben si sa, ogni pensiero ed ogni scoperta hanno una propria storia e una propria evoluzione. Ciò che Ortega sottolinea, però, è il fatto che le verità, cifra di ogni singola disciplina, sono state cercate e volute da uomini che ne sentivano la necessità: questo significa che se determinati uomini non avessero avuto il bisogno, la spinta di arricchire o di arrivare ad un pensiero, tale pensiero non esisterebbe e non si studierebbe.
” Se non ci sentiamo bisognosi di un pensiero, esso non sarà per noi una verità. Verità è ciò che acquieta un’ inquietudine della nostra intelligenza. Senza questa inquietudine non c’ è l’ acquietamento “.
Ma gli studenti? Il loro compito è ben risaputo: conoscere il pensiero cercato e voluto da altri uomini. La situazione mentale e psichica dello studente di fronte ad una disciplina già pronta all’ uso e da imparare, è certamente opposta all’atteggiamento dello studioso: ” questi non si è trovato prima con la scienza stessa, sentendo poi la necessità di possederla, ma ha piuttosto sentito prima una necessità vitale, non scientifica, che lo ha portato a cercarne la soddisfazione e, avendola trovata in certe idee, è risultato che queste idee erano la scienza “. Per quanto riguarda lo studente, per lo meno la maggioranza degli studenti (lo sottolinea con decisione Ortega) il massimo a cui si può pensare è che trovino interessante la disciplina e la studino con piacere. Di solito lo studente non critica, non dubita sulla verità che sta studiando, ma si limita ad acquistarla e a masticarla, spesso controvoglia, magari al fine di superare un esame: per questo si trova quasi costretto, comunque spinto da una “necessità esterna”, che non sente come urgente, vitale. La prova è che se quel testo o quella scienza specifica, tra cui, per esempio la stessa metafisica, non gli stesse di fronte, non ne sentirebbe la necessità. Viceversa l’ uomo di scienza si avvicina alle verità via via sostenute nelle diverse discipline con un atteggiamento più cauto e sospettoso, ” più ancora: col pregiudizio che non è vero quanto sostiene il libro (…) cercherà di disfare quello che si presenta come già fatto. Uomini siffatti sono quelli che continuamente correggono, rinnovano, ricreano la scienza “. La grande maggioranza degli studenti, insomma, ” coloro che realizzano il significato vero -non utopico- delle parole ‘studiare’ e ‘studente’ ” fingono una necessità non veramente sentita, mentono, commettono una falsità . E’ vero, sostiene Ortega, che molti studenti si applicano in discipline specifiche in cui sono particolarmente portati, per cui sentono una predisposizione. Gli eventuali obiettori della tesi orteghiana, userebbero in questo caso il termine “curiosità”, che il filosofo onestamente riporta. Ma a scanso di equivoci Ortega sottolinea l’ etimologia di ‘curiosità’ , controbattendo tempestivamente quanti attribuiscano allo studente una sincera curiosità nell’ affrontare i testi e le verità in essi contenute, fortunate eccezioni a parte. ‘Curiosità’ deriva dal termine latino ‘cura’ (attenzione, premura, riguardo). Da qui termini come ‘curato’ (sacerdote), ‘pro-curatore’, ‘curatore’. Da qui anche ‘curiosità’. ” Curiosità è, dunque, accuratezza, preoccupazione. Al contrario, incuria è trascuratezza, superficialità; e sicurezza è assenza di attenzioni e preoccupazioni “. Perciò, quando si dice che è la curiosità a portarci alla scienza, o si intende la “necessità immediata”, oppure ci si riferisce all’ accezione negativa, probabilmente molto più in uso, di curiosare futile e puerile. ” Non perdiamo tempo dietro idealizzazioni della dura realtà, con ingenuità che ci portano a sminuire, sfumare, addolcire i problemi, a renderli inoffensivi. Il fatto è che lo studente tipo è un uomo che non sente la diretta necessità della scienza, o la preoccupazione per essa, e tuttavia si vede costretto ad occuparsene. Questa è appunto la falsità generale dello studiare “. L’ uomo si ritrova sempre più spesso a fare qualcosa che intimamente non gli appartiene. Si è già parlato (cfr. “L’ individuo, la circum-stantia e il mondo”) della necessità, per l’uomo, di seguire la propria vocazione e di auto-progettarsi. Ebbene: se studiare è ritrovarsi in una condizione dovuta a necessità esterne, ad una “necessità morta”, allora ” lo studente è una falsificazione dell’uomo. Perché l’ uomo è propriamente solo ciò che è autenticamente, per un’ intima e inesorabile necessità. Essere uomo non è essere, ovvero non è fare, qualunque cosa, ma è essere ciò che si è irrimediabilmente “. Eppure, pur essendo ormai l’ insegnamento un falso tollerato e ormai abituale, non si può non studiare. Pur essendo una necessità mediata, è una necessità. Ciò che Ortega, professore di Metafisica, intende proporre come soluzione ” non consiste nel decretare che non si studi, ma nel riformare profondamente quel fare umano che è lo studiare e, di conseguenza, l’essere dello studente. Per questo è necessario rovesciare l’insegnamento e dire: l’insegnamento, anzitutto e fondamentalmente, non è altro che insegnare la necessità di una scienza; e non insegnare la scienza stessa la cui necessità è impossibile far sentire allo studente “.
“Bisogna essere personalissimi nella critica se si vogliono creare affermazioni o negazioni possenti; personale forte e buon giostratore. Così le parole sono credute, così si fanno rimbalzare nel tempo e nello spazio i grandi amori e i grandi odi.
LA CRITICA
Si è accennata l’ importanza della critica, soprattutto se in qualche modo pregiudizievole, quale metodo spontaneo di fare scienza . Ma in che senso la critica è necessaria, o meglio, qual è la critica necessitata nel raggiungimento della verità? A 19 anni, il primo dicembre del 1902, nella rivista “Vida Nueva” scrive e pubblica il suo primo articolo: “Glosas”. Così inizia: ” parlavo ieri con un amico, uno di quegli uomini ammirevoli che si dedicano seriamente alla caccia della verità e vogliono respirare certezze metafisiche: un pover’ uomo “. Tagliente, sottilmente ironico come sempre, il filosofo madrileno. Questo “pover’uomo” in realtà, aveva chiesto al giovane Ortega un’ opinione su una critica, non meglio precisata, di un tale che, secondo il giudizio del suo interlocutore, mancava di imparzialità: ” lo lasciai perdere e non risposi. Se avessi infranto la sua credenza nell’ imparzialità, avrei ottenuto solo di fargli versare qualche lacrima sul nuovo idolo morto. E’ un uomo che si nutre di certezze indubitabili “. Prescindendo ora dal notare quanto già sia presente il suo pensiero non ancora formulato, soffermiamoci ora sulla modalità in cui il giovane (e poi maturo) Ortega intende il termine “imparzialità”. E’ freddezza, personalità annullata a favore di un punto di vista che tralasci la soggettività e l’ unilateralità specifiche dell’ interpretazione, a favore dell’ oggettivo punto di vista della maggioranza. E qual è la critica che ne deriva? ” Inchiodare sul davanti delle cose e dei fatti un distintivo bianco o uno nero; trascinarli nella parte dei cattivi o nella parte dei buoni. Sempre inchiodare, sempre trascinare “. Il punto di vista della massa; la massa non è che un ” innumerevole serie di zeri “, ciò che la fa essere è l’ unità, dietro la quale i singoli individui sono vuoti: mero raggruppamento, grande numero, insomma. Criticare secondo l’opinione della massa, cercare a tutti i costi una verità apatica e poi lavarsene le mani è l’ impegno della critica oggettiva : costruire una normalità di bello, di giusto, di bene e accattivarsi la simpatia e il benestare della maggioranza. Eppure, sottolinea il giovane madrileno, la critica impersonale non ottiene l’ affermazione della massa di cui tale critico esprime il parere, ” non entra nel cervello plumbeo della folla “. E’ interessante notare la scelta orteghiana di questo termine. La gamma di sinonimi che l’ aggettivo ingloba in sé spazia metaforicamente in diverse direzioni: grigio, pesante, ottuso, lento, noioso. La massa, quindi, come simbolo che incarna l’ oggettività, l’ impersonale e morta trasposizione della vivacità personale del singolo. La scelta del termine lascia certamente trasparire il giudizio del giovane Ortega, che poi verrà sviluppato e portato a maturazione, nei confronti dell’ universalizzazione, l’ astrazione, il sistema. E’ un esempio pratico di cosa intenda veramente per critica. E ora lo vedremo attraverso le sue parole: “ bisogna essere personalissimi nella critica se si vogliono creare affermazioni o negazioni possenti; personale forte e buon giostratore. Così le parole sono credute, così si fanno rimbalzare nel tempo e nello spazio i grandi amori e i grandi odi. Ah! Dimenticavo! Bisogna anche esser sinceri (…) Morale: non si può far critica senza sporcarsi le braghe “. E’ difficile staccarsi dal coro, dissociarsi, esprimere con passione la propria critica: ” quando vedranno nell’appassionarsi una cosa magnifica e buona? ‘Paradossi’, esclamano. Tutti gli uomini si giudicano capaci di passione; ignorano che le passioni sono dolori immensi, purificatori… “. La critica è una lotta.
“Chi vuole capire la Spagna deve osservare i suoi quadri.
LA FELICITA’
Ortega y Gasset è un filosofo poco studiato in Italia, ma uno dei più letti in America. Attivo in Spagna nella prima metà del secolo è un anticipatore di molti temi che poi diverranno dominanti nella filosofia esistenzialista. E’ apprezzato più da scrittori e intellettuali in genere che non da filosofi di professione – forse per il suo stile chiaro e poco specialistico – nonostante che alcune sue opere, come “La ribellione delle masse”, siano stati degli autentici best-seller. Non è facile trovare le sue opere in libreria, ma le “Meditazioni sulla Felicità” sono ancora in catalogo ed è possibile procurarsele con una certa facilità. L’essere umano è secondo Ortega ciò che manca di fronte alla vita, quell’ente particolare che è sempre in debito con la vita. La vita non basta a se stessa e l’essere umano soffre per questo – come scrive Fontanelle – di “una certa difficoltà ad essere”. Per lo stesso motivo il pensiero di ogni uomo è essenzialmente rivolto verso l’Altro, verso la sua “circostanza”, e l’uomo è sostanzialmente emigrante, in quanto consiste nel suo “non essere ancora”. Così come l’amore è in continua gravitazione intorno alla persona amata e l’Eros si nutre d’immaginazione e illusioni, l’uomo è in continua migrazione oltre se stesso. L’ammirazione che sa provare per qualcuno o il suo desiderio di conoscenza sono costituenti decisivi del suo sviluppo spirituale perché possono aiutarlo ad orientarsi nella propria circostanza e a fargli individuare la propria peculiare prospettiva sul mondo che lo circonda. La sua condizione è quella d’un “animale ipotetico”, originariamente dubbioso e spaesato, ma portato a credere e ad accomodarsi dentro le sue credenze. La sua vita è insicurezza, “preoccupazione” (Ortega preferisce questo termine a quello di “cura”, utilizzato da Heidegger per definire un concetto analogo) che si manifesta in un continuo aver qualcosa da fare, e quindi è storia delle sue illusioni e dei suoi naufragi. Per l’uomo l’universo è uno spettacolo che manca d’integrità e così il suo pensiero si aggira alla periferia del proprio mondo nel tentativo di poterlo abbracciare con lo sguardo. Appoggiandosi all’orizzonte che può scorgere dal suo peculiare punto di vista, ognuno produce così la sua rappresentazione – a volte mutuata da altre correnti e intese dire, altre volte maturata nella propria solitudine essenziale – attraverso il continuo dialogo con l’Altro, di volta in volta incarnato dagli altri particolari che lo circondano e dai loro particolari punti di vista, dalle tradizioni culturali che ha condiviso o dalla sua idea dell’assoluto, che può in taluni casi coincidere con la sua idea di Dio. All’inizio v’è dunque “l’esigenza d’essere” che caratterizza la vita, e d’altra parte la vita è l’unico luogo dove l’universo può riconoscersi: questo è il paradosso fondamentale che la costituisce. L’universo può riconoscersi solo nella vita e questa è essenzialmente “mancanza ad essere”, ricerca di un punto di vista organico che le fornisca l’unitarietà e compattezza necessarie per poter trovare la propria felicità, ma sempre al prezzo di un’inquietudine che si rinnova oltre ogni certezza ed all’interno di ogni credenza. “La felicità – diceva Mérimée – è come una voglia di dormire”. Ortega non è molto d’accordo, a meno che non s’intenda con tale espressione il desiderio di uscire da noi stessi. E’ infatti solo quando sappiamo lasciarci assorbire da qualche occupazione o interesse, a concentrare la nostra attenzione su qualcosa o qualcuno, che riusciamo a non avvertire ciò che sta all’origine di ogni infelicità, ovvero “lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto (…). Quanto minore è l’estensione delle nostre attività, in misura maggiore saremo spettatori di noi stessi”, sospesi a metà strada tra i nostri propositi non realizzati e i nostri tentativi repressi. Per questo possiamo, secondo Ortega, provare invidia per le persone ingenue, “la cui coscienza sembra trasferirsi interamente in ciò che stanno facendo, nel loro lavoro, nel godimento del loro gioco o della loro passione”.
” Io sono io e la mia circostanza, e se non salvo quella non mi salvo nemmeno io. “
ORTEGA E HEIDEGGER
Le riserve manifestate nei riguardi di Heidegger da Ortega – il quale si è comunque in più occasioni professato un suo ammiratore – potrebbero venire anch’esse ricondotte alla considerazione che per il filosofo spagnolo non solo è illegittimo trasformare sostrati in essenze, ma che nessun sostrato umano è riducibile ad una sua presunta essenza, in qualsiasi modo la si consideri, costituendo piuttosto la risultante di un complesso di modalità d’essere e di prospettive culturali che interagiscono tra loro senza stratificarsi necessariamente secondo una determinata struttura ontologica, e pertanto senza aver bisogno di alcun gergo particolare per giustificare tale struttura inglobandone i riferimenti salienti in ogni scansione concettuale. Sotto questo profilo, la filosofia orteghiana potrebbe assomigliare per certi versi a quello che sarebbe potuta essere quella di Heidegger una volta passata al setaccio delle critiche del filosofo francofortese, ma anche di quelle di Calogero e di Lowith. Ortega può infatti fornirci un valido esempio di come sia possibile introdurre certe tematiche ed incentrarvi la propria riflessione anche facendo a meno di un gergo specifico e conservando un livello stilistico di esemplare intelligibilità. Lasciando i concetti nella loro forma prosaica, in un rapporto di continuità con la riflessione che li ha originati e con l’esperienza della vita che ne costituisce lo sfondo, potremmo dire, citando ancora una volta le parole di Adorno, che l’argomentazione orteghiana trascende “ciò che dice tramite ciò che dice nel corso del pensiero”, trascendendo quindi ogni volta sé stessa in forma dialettica. Quest’aspetto della sua opera e del suo stile non costituisce un effetto involontario di scarso rilievo: “la mia più grande preoccupazione” – scrive infatti Ortega – “è che anche il lettore meno colto non si perda in questi luoghi impervi in cui l’ho portato: ciò mi costringe a ripetermi più volte e a distinguere le tappe della nostra traiettoria” (Au, 266). Così come Adorno, anche Ortega affronta il tema del linguaggio heideggeriano, e anche a suo giudizio Heidegger “non è né più né meno difficile di qualsiasi altro pensatore privilegiato, cioè che abbia avuto la fortuna di vedere per la prima volta paesaggi finora mai visti” (Fe, 174). Tuttavia, a differenza di Adorno, oltre ad essere un critico a volte severo di Heidegger, Ortega è anche un suo estimatore, e tale posizione ambivalente si riflette in particolare nell’analisi del suo “gergo” filosofico. Nelle breve saggio sul convegno di Darmstadt del 1951 egli per esempio così si esprime a proposito dello stile heideggeriano: “Heidegger, come ogni grande filosofo, ingravida le parole e da queste poi emergono i più meravigliosi paesaggi con tutta la loro flora e tutta la loro fauna” (Fe, 173). Sembra una dichiarazione di stima incondizionata, e tuttavia, nello stesso scritto, troviamo anche il passo seguente: “Heidegger è profondo sia che parli del ‘bauen’ che di qualsiasi altra cosa. Ma siccome so dire soltanto quello che penso e devo dire quasi tutto ciò che penso, ho bisogno di aggiungere che non solo è profondo ma che, inoltre, vuole esserlo, e questo già non mi va più bene. Heidegger, che è geniale, soffre di mania di profondità. Perché la filosofia non è soltanto un viaggio verso il profondo. E’ un viaggio di andata e ritorno ed è quindi anche portare il profondo in superficie e renderlo chiaro, evidente, ovvio. Husserl, in un famoso articolo del 1911, disse che considerava un’imperfezione della filosofia quello che in essa era sempre stato lodato, cioè la profondità. Nella filosofia si cerca precisamente di rendere evidente ciò che è latente, di portare in superficie ciò che è profondo, di arrivare a concetti chiari e distinti, come diceva Cartesio” (Fe, 173-174). Pur non considerando Heidegger un pensatore difficile Ortega, reputando la chiarezza un pregio essenziale di ogni filosofia, in quanto sintomo della piena consapevolezza conseguita sui temi che tratta, ritiene che il pensatore tedesco vi rinunci spesso a causa della sua mania di “profondità” e di una certa tendenza a “sguazzare nell’abissale” (cfr., Fe, 174). Ciò non toglie tuttavia che apprezzi il suo stile e non ne risparmi le lodi. Difficile, secondo Ortega, non è Heidegger, ma veramente difficili – e ingiustificatamente difficili – sono Kant, Fichte, Hegel, “perché nessuno dei tre vide mai con piena chiarezza ciò che pretendeva di aver visto. Questa affermazione sembra insolente, ma coloro che hanno studiato bene questi tre pensatori geniali sanno che è vero, anche se non hanno il coraggio di dichiararlo. No, Heidegger non è difficile; anzi Heidegger è un grande scrittore. Questo suonerà agli orecchi di non pochi tedeschi come un nuovo paradosso. Proprio a Darmstadt ho sentito dire con mia sorpresa, da molte persone, come cosa già decisa e scontata, che Heidegger tormenta la lingua tedesca, che è un pessimo scrittore. Mi dispiace di dover dissentire totalmente da una simile opinione…” (Fe, 175). Ortega giunge a dire che – tenendo conto delle difficoltà che ogni filosofo autentico si trova di fronte – quello di Heidegger gli sembra “uno stile meraviglioso” (Fe, 176). Ogni pensatore infatti “si trova davanti alla lingua in una situazione abbastanza drammatica”, di fronte alla quale “non ha altra scelta che crearsi un linguaggio perfino per intendersi con se stesso (Fe, 178)”. “Stando così le cose” – si chiede ancora Ortega – “in cosa consiste un buono stile filosofico? Secondo me consiste nel fatto che il pensatore, evadendo dalla terminologia vigente, si immerge nella lingua comune, ma non per usarla e basta, per usarla così com’è, ma riformandola partendo dalle proprie radici linguistiche, tanto nel vocabolario come, a volte, nella sintassi (Fe, 178-179)”. Da questo punto di vista Heidegger avrebbe la capacità di trapassare e annullare il senso corrente e più esterno della parola, facendo invece emergere dai suoi strati semantici sottostanti il senso fondamentale, da cui i significati più superficiali provengono e che parallelamente nascondono (cfr. Fe, 179). Secondo Ortega lo stile è sempre, sia nelle arti, sia nella vita, “qualcosa che ha a che vedere con la voluttuosità, è una forma sublimata della sessualità”, e quello filosofico di Heidegger, “così egregiamente riuscito, consiste soprattutto nell’etimologizzare, nell’accarezzare la parola nella sua radice arcana” (Fe, 180). Rispetto al problema dello stile filosofico Heidegger non costituisce certo per Ortega il caso più discutibile, ma tale problema sembra invece riguardare l’intera tradizione filosofica. “Un buono stile filosofico è stato molto poco frequente nel passato. L’argomento non è mai stato toccato. Nessuno, che io sappia, si è occupato dello stile filosofico e della sua storia. Se qualcuno lo facesse troverebbe molte sorprese…” (Fe, 181). Ad un primo sguardo, le maggiori riserve di Ortega non sembrano quindi collegate all’aspetto stilistico dell’opera heideggeriana, ma andrebbero piuttosto ricercate nel modo di tematizzare e sviluppare alcuni concetti affini reperibili nell’opera dei due autori. Di fronte al dubbio, avanzato da alcuni suoi contemporanei, che la sua filosofia abbia attinto ampiamente da quella del filosofo tedesco, Ortega, pur riconoscendo e sottolineando alcune affinità di fondo, tiene a precisare che sono al massimo due o tre i concetti di Heidegger che non preesistano, a volte con una anteriorità di tredici anni, nei suoi saggi (Fi, 266). “Occuparsi dell’avvenire è pre-occuparsi. L’avvenire ci occupa perché ci preoccupa: Heidegger ha chiamato questo ‘Sorge’, ma io lo chiamavo già da molti anni prima – e l’ho pubblicato nel 1914 – ‘preoccupazione’ (Fe, 236). Ma in questo contesto, nel rivendicare cioè l’autonomia e talvolta la priorità del suo pensiero rispetto a quello heideggeriano e nel contrapporgli in modo sottile la migliore pertinenza del proprio lessico filosofico alle problematiche che si propone d’introdurre, si spinge ad avanzare critiche che mettono in una luce completamente diversa gli elogi che abbiamo visto in precedenza e che rivelano anche qualche analogia con le critiche mosse da Adorno. “L’esagerazione del concetto d’essere praticata da Heidegger si spiega facendo notare che la sua formula ‘l’uomo si è sempre interrogato sull’essere’ o ‘s’interroga per l’essere’ acquista senso solo se per essere intendiamo tutto quello su cui l’uomo si è interrogato; cioè, se facciamo dell’essere il gran gattopardo, ‘la bonne à tout faire’ e il concetto omnibus. Però questa non è una teoria; questa inflazione del concetto d’essere sopravviene proprio quando tutto raccomandava l’operazione contraria: restringere, precisare il suo significato” (Pl, 270). Come se non bastasse, Ortega sostiene che in Essere e Tempo Heidegger dimostra di non avere idee abbastanza chiare su cosa sia “l’essere” di cui parla con tanta insistenza. “E’ inconcepibile che in un libro intitolato Essere e Tempo, dove si pretende di ‘distruggere la storia della filosofia’, in un libro, inoltre, composto da un calvo e furioso Sansone, non s’incontri la minima chiarezza su ciò che significa ‘Essere’, e tuttavia s’incontri questo termine modulato in innumerevoli variazioni flautate… (Pl, 275)”. Poi la sua critica si fa più mirata e spregiudicata. Heidegger distingue infatti secondo lui tre tipi di essere: “l’essere come servire per qualcosa, che è il modo di essere degli utensili o strumenti (Zuhandensein); l’essere del martello e dei martelletti. L’essere come ‘trovarsi qui – ciò che incontriamo qui – (Vorhandensein), e l’essere come ‘stare nel qui’ (Da-sein), che è l’essere dell’uomo; e che in Heidegger prende il posto del consueto e naturale termine ‘vita’ con l’arbitrarietà terminologica che è sempre stata frequente nei pensatori germanici; i quali, non sono semplicemente ‘soli’ come ogni creatura umana, ma convertendosi in modo anomalo in ‘solitari’ rinchiusi dentro di sé, ‘autistici’, invertono il linguaggio destinato a far comunicare l’individuo col suo prossimo e si mettono ‘a parlare con se stessi inventando una lingua di uso intimo e intrasferibile (Pl, 275-276)”. Che significato assumono dunque, alla luce di questi passi, i precedenti elogi allo stile heideggeriano? Possibile che lo stile “meraviglioso” di cui parlava poc’anzi fosse capace di così poca chiarezza su temi tanto fondamentali? Difficile crederlo, soprattutto considerando l’importanza attribuita da Ortega proprio alla chiarezza e distinzione che dovrebbe caratterizzare le idee filosofiche. Le precedenti e apparentemente contrastanti valutazioni potrebbero tuttavia risultare compatibili qualora interpretassimo quegli apprezzamenti come venati da una riserva ironica di stampo socratico, e li considerassimo rivolti alla loro efficacia retorica piuttosto che alla loro chiarezza e pregnanza teoretica. Tuttavia, sebbene la prosa di Ortega sia spesso venata da una certa ironia, l’importanza che l’opera di Heidegger ha avuto nello sviluppo della filosofia orteghiana induce piuttosto a ritenere di trovarci di fronte a un giudizio oscillante e ambivalente, sulla cui linea divisoria vale la pena di soffermarsi. Se da un lato infatti Ortega apprezza lo stile di Heidegger al punto di ritenerlo capace di accarezzare le parole fino alle loro più arcane radici e di “mettere il lettore in immediato contatto con l’etimologia della lingua tedesca”, permettendogli addirittura di risalire fino all’anima collettiva tedesca, tale stile lascia però trasparire a suo avviso – come abbiamo visto – una certa mania di profondità, tende cioè a gonfiare i concetti, e primo tra tutti quello di “essere”, il quale, nonostante le molte pagine che gli sono dedicate, rimane secondo Ortega sostanzialmente non chiarito. Anche la sostituzione del termine “vita” con quello di “Hallarse ahi” (Dasein) testimonierebbe secondo Ortega della diffusa arbitrarietà terminologica sempre presente nei pensatori tedeschi, i quali sarebbero portati a usare il linguaggio non per comunicare innanzi tutto con altri esseri umani, ma essenzialmente per comunicare con sé stessi, dando vita a linguaggi privati non trasferibili (Pl, 276). Se quest’ultima attitudine è propria di ogni linguaggio, nel caso di Heidegger essa sembra sviluppata in maniera ipertrofica, tale cioè da comportare un’atrofia dell’altra irrinunciabile funzione di ogni linguaggio, ovvero di quella che aspira a farsi intendere dagli altri e a intenderli (Ibidem; nota). Venendo ora alle critiche più specificatamente teoretiche, si può notare come queste siano strettamente collegate ad osservazioni “stilistiche”, che ci accompagnano quindi fino al cuore delle riserve orteghiane sulla filosofia di Heidegger. Pur considerando Essere e Tempo un’opera “mirabile” (Fi, 266) e pur dichiarando il proprio debito nei confronti della filosofia tedesca in generale (Fi, 267), Ortega – lo abbiamo visto – sostiene che nell’opera heideggeriana vi sono appena due o tre concetti che non preesistessero, “a volte con una anteriorità di tredici anni”, nei suoi libri. Senza entrare qui nel merito di tale convinzione, bisogna però notare che se il pensatore castigliano rivendica in più occasioni l’indipendenza della propria filosofia da quella di Heidegger, una simile rivendicazione può aver senso solo nella misura in cui abbia riscontrato delle effettive analogie tra le rispettive opere. In effetti, Ortega ritiene senz’altro giusto affrontare la questione dell’essere, ma non pensa che Heidegger lo abbia fatto con quel radicalismo che era necessario. In Essere e Tempo, a suo avviso, in fondo non si fa altro che distinguere diversi sensi dell’essere stesso, indagando varie classi di enti e differenziandole da quell’ente unico che è il “Dasein”, senza tuttavia porsi l’unica domanda radicale che ci si poteva porre in proposito, ovvero cosa voglia dire l’interrogarsi su “che cosa è qualcosa” prima di sapere a quale classe di enti questo qualcosa appartenga. Non essendosi posto questa semplice domanda – che non parte dal “chi” s’interroga, ma dall’essere stesso dell’ente interrogato prescindendo dalle qualità che ne fanno un tipo particolare di ente – Heidegger avrebbe finito col girarle intorno gonfiando il concetto di essere, ed estendendolo “a ogni ultimità sulla quale l’uomo si interroga, risultando che l’uomo stesso è domanda dell’essere se per essere si intende tutto quello di ultimativo sul quale l’uomo si interroga” (Fi, 261). In pratica, secondo l’Heidegger di Ortega, l’uomo sarebbe, in quanto Esserci, quell’ente particolare che si interroga sul senso dell’Essere come senso ultimativo, e pertanto l’Essere risulterebbe comprensibile solo a partire da tale interrogazione dell’Esserci; ma in questo modo l’essere dell’Esserci stesso finisce col costituire a sua volta il soggetto di tale domandare, che quindi non farebbe altro che interrogarsi su sé stesso. In questa disamina orteghiana credo si possa scorgere quel rimprovero di soggettivismo o idealismo mascherato che già abbiamo visto costituire uno dei momenti salienti della critica sia di Calogero che di Adorno, soggettivismo che, sebbene celato da un circolo vizioso, a sua volta camuffato abilmente in “un gioco di parole”, finirà col condurre Heidegger in “un vicolo cieco”, consentendo allo stesso Ortega di prevedere con largo anticipo il mancato completamento di Essere e Tempo (Fi, 261). Sebbene imputi alla filosofia heideggeriana di essere un po’ troppo “melodrammatica”, fino a paragonarla ad una sorta di “meditatio mortis” (Sa, 131-132), e interpreti la pretesa di Heidegger di prendere le distanze dall’esistenzialismo in generale come l’effetto di un tipico “snobismo intellettuale” (Fe, 165, nota), Ortega considera comunque Heidegger come “uno dei più grandi filosofi mai esistiti” (Fi, 262) e giudica quella che era a suo avviso l’intuizione fondamentale di Essere e Tempo – ovvero il ritenere la vita come un compito, come un “aliquid faciendum” – sostanzialmente affine al suo modo d’intendere la vita nell’ambito della propria filosofia. Tra tutte le riserve avanzate da Ortega, quella che imputa ad Heidegger di proporre dei giochi di parole per mascherare dei circoli viziosi mi pare invece la più pertinente, anche perché – oltre a costituire il momento comune con l’analisi svolta da Adorno rispetto al “gergo heideggeriano”, analisi che tuttavia procede del resto in modo tutt’affatto indipendente – una simile obiezione è già presa anticipatamente in esame dallo stesso Heidegger in Essere e Tempo. Nel secondo paragrafo infatti Heidegger scrive che l’elaborazione del problema dell’essere significa: “render trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è anche determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca: dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci (Dasein). La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede l’adeguata esposizione di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere. Ma un’impresa del genere non incorre in un evidente circolo vizioso? Che cos’è se non un muoversi in un circolo vizioso determinare un ente nel suo essere e poi pretendere di impostare su tale determinazione il problema dell’essere? L’elaborazione del problema non assume già come ‘presupposto’ ciò che solo la soluzione del problema è in grado di apportare? Le obiezioni formali, come quella del ‘circolo vizioso nella dimostrazione’, sempre facile a sollevarsi a carico d’indagini sui principi, sono sempre sterili in sede di riflessione sui procedimenti concreti della ricerca. Esse non hanno alcun peso nella comprensione delle cose e impediscono il progresso dell’indagine. Ma in effetti, nell’impostazione del problema da noi discusso, non ha luogo alcun circolo vizioso. Un ente può esser determinato nel suo essere senza che debba per ciò stesso esser già disponibile il concetto esplicito del senso dell’essere. Se così non fosse, non si darebbe ancora fino ad oggi alcuna conoscenza ontologica, mentre la sussistenza di essa è ben difficilmente negabile. L’essere è senz’altro presupposto da tutte le ontologie finora esistite: ma non come concetto disponibile, non come ciò di cui si va alla ricerca. La ‘presupposizione’ dell’essere ha il carattere di un colpo d’occhio preliminare sull’essere, in modo che, in base a questa prima ispezione, l’ente in esame venga provvisoriamente articolato nel suo essere. Questo colpo d’occhio direttivo sull’essere nasce da quella comprensione media dell’essere in cui già da sempre ci muoviamo e che, alla fine, appartiene alla costituzione essenziale dell’Esserci. Un ‘presupporre’ del genere non ha nulla a che fare con l’assunzione di un principio da cui si ricavano deduttivamente delle conseguenze. Nell’impostazione del problema del senso dell’essere non può aver luogo alcun ‘circolo vizioso’, perché la risposta a questo problema non ha il carattere di una fondazione per deduzione, ma quello di una ostensione che fa vedere il fondamento. Nel problema del senso dell’essere non ha luogo alcun ‘circolo vizioso’, bensì un singolare ‘stato di retro – o pre-riferimento del cercato (l’essere) al cercare quale modo di essere di un ente. L’influenza essenziale che il cercare subisce dal suo cercato fa parte del senso più proprio del problema dell’essere. Ma ciò significa soltanto che l’ente che ha il carattere dell’Esserci ha un rapporto col problema dell’essere stesso, rapporto che forse è anche del tutto particolare. Ma con ciò non abbiamo già dimostrato il primato ontologico di un ente e presentato l’ente esemplare che deve fungere da interrogato primario nel problema dell’essere? Le discussioni che abbiamo fatto finora non hanno né dimostrato il primato dell’esserci né deciso a proposito della sua funzione possibile o anche necessaria di interrogando primario. Tuttavia si è annunciato qualcosa come un primato dell’Esserci” (Et, 23-24). Alla luce di questo lungo passo si può ritenere che il problema del “circolo vizioso” che viene sollevato da Ortega sia anche per Heidegger un problema che può, rispetto alla sua impostazione della tematica dell’essere, sorgere in maniera spontanea; e sebbene, stando alla sua risposta, non si tratti di un vero circolo vizioso, l’assunzione dell’Esserci come luogo privilegiato da cui porre il problema dell’essere pare sia destinato, fin da queste pagine, a condizionare in maniera determinate tutta l’analisi successiva. Ma per quale motivo secondo Heidegger l’obiezione virtuale di cadere in un circolo vizioso non sarebbe un’obiezione pertinente? Essenzialmente, pare di capire, perché non siamo di fronte ad una fondazione di tipo deduttivo, ovvero non siamo di fronte ad una fondazione analoga a quella propria della geometria euclidea, dell’Etica spinoziana o anche della stessa prova ontologica di S. Anselmo e Cartesio. Qui non verrebbe presupposto nelle premesse ciò che poi si troverebbe nella conclusione, ma piuttosto il cercato (l’Essere) verrebbe indagato a partire da una sua modalità particolare e accertata solo in via preliminare e provvisoria, ovvero a partire da quell’ente particolare che è l’Esserci, e che è particolare proprio in quanto si interroga sul senso dell’essere. In effetti, sebbene non siamo di fronte ad un circolo vizioso deduttivo, potremmo chiederci tuttavia se la risposta di Heidegger possa sanare l’obiezione avanzata da Ortega. Il fatto che un concetto, per quanto in sospeso possa essere, venga utilizzato (come “cercato”) per chiarirne un altro (L’Esserci) che a sua volta s’interroga sul senso dell’essere che gli coappartiene, sebbene non sia un circolo vizioso di tipo deduttivo, potrebbe essere considerato un circolo vizioso definitorio, che pur potendo rivelarsi utile al fine di chiarire il mutuo rapporto dei concetti che si vogliono definire, rischia di trasformare tutta l’impostazione e lo sviluppo del problema in esame in una rete di rimandi reciprochi, la quale, a sua volta, sarebbe poi facilmente scambiabile per una struttura di tipo argomentativo. In questo caso, sia le obiezioni di Adorno che quelle di Ortega resterebbero insoddisfatte, in quanto la circolarità definitoria permette, nello sviluppo della riflessione, di dar vita ad architetture teoretiche che hanno tuttavia la pretesa di dimostrare qualcosa e che si reggono pur sempre sulla circolarità definitoria proposta in sede preliminare. E’ quanto sostiene lo stesso Heidegger quando, verso la fine del brano citato, precisa che, fino a quel momento, non è stato dimostrato il primato dell’Esserci, ammettendo tuttavia che esso è stato annunciato, e sottintendendo che esso verrà in seguito dimostrato. Ora, è evidente che per dimostrazione egli non intende qui quel tipo di ragionamento che procede per via deduttiva: Essere e tempo non ha certo la struttura dimostrativa de “l’Etica” spinoziana, né potrebbe averla. Ma allora, a quale altro tipo di dimostrazione può riferirsi se non a quella struttura definitoria suscettibile di sviluppo che è già preannunciata fin dal suo primo elemento fondamentale, ovvero fin dall’iniziale inerenza e coappartenenza reciproca dell’Esserci e dell’essere, del “cercante” e del “cercato”? In qualsiasi disciplina scientifica, ma anche da buona parte della tradizione filosofica classica, una definizione che comporti un riferimento al soggetto all’interno del predicato sarebbe ritenuta quantomeno scorretta. Il dire per esempio che un certo concetto, o ente X, è definibile come il rapporto che sussiste tra tale ente X e tal altro ente Y introduce inevitabilmente in un circolo vizioso, giacché è evidente che l’X “definiendum” non può essere usato nello stesso modo dell’X “definiens”. In questo caso, infatti, si sarebbe potuto semplicemente sostenere che una caratteristica fondamentale di X consiste nel il suo modo di rapportarsi ad Y (ovvero, per esempio, che una caratteristica essenziale dell’essere umano è l’interrogarsi sul senso dell’essere in generale alla luce del senso del proprio essere; l’essere essenzialmente sospeso al senso e all’esito di tale domanda), cosa che è esattamente quanto Heidegger si guarda bene dal fare per evitare di ricadere di nuovo in una dimensione ontico-esistentiva di tipo soggettivistico, che tra l’altro avrebbe reso superfluo e ridondante il suo gergo. Proprio per questo, una simile “viziosità” definitoria, che caratterizza il nuovo soggetto “Esserci”, è cosa ben diversa dal “circolo ermeneutico”. Nella storia della filosofia e della cultura questo era già attivo molto prima dell’opera heideggeriana e della sua successiva “urbanizzazione”. Esso non dovrebbe secondo Heidegger “essere degradato a circolo vizioso e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile”, poiché in esso si nasconderebbe “la qualità positiva del conoscere più originario”; ma in definitiva, nonostante queste avvertenze, rimane piuttosto arduo distinguere una forma di circolarità feconda da una viziosa. Il problema concerne semmai, più che la viziosità o meno di tale struttura circolare, che secondo Heidegger si fonda sulla stessa struttura del “Dasein” (Et, 194-195), il modo in cui essa opera, e a questo riguardo pare improbabile che prima dell’avvento del “Dasein” non sia mai stata attiva in maniera feconda per la conoscenza, anche se forse non per la più “originaria”. Una tale struttura circolare infatti non è ricavabile solo da “Dasein”, ma anche dalla vecchia nozione di autocoscienza una volta che se ne sia messo in luce il carattere di apertura e di sospensione rispetto al senso del proprio essere che la contraddistinguono. Lo stesso “circolo ermeneutico” può essere infatti legittimamente attribuito ad ogni soggetto umano in qualità “d’interprete di sé stesso”, non essendo affatto necessaria alla sua introduzione tematica né all’analisi fenomenologica della sua attività la fondazione di un nuovo tipo di sostanza, nemmeno quando questa serva ad identificare “l’ente per cui, in quanto esser-nel-mondo, ne va del suo essere stesso”. E’ anzi chiaro che per ogni essere umano, in quanto inevitabilmente “interprete di sé stesso”, vale ciò che Heidegger sostiene dell’Esserci, e cioè che “ha un rapporto con l’Essere per cui ne va del proprio essere”; ma proprio per il fatto che questa caratteristica essenziale può essere predicata di ciascun essere umano non è necessario costruire una nuova entità idonea a veicolare un tale requisito, né coniare per essa un nuovo termine per il solo motivo che questo sarebbe portatore di quella differenza ontologica di cui recherebbe le tracce gia nella semantica del suo etimo.
ILYA PRIGOGINE
“ Ogni grande era della scienza ha avuto un modello della natura. Per la scienza classica fu l’orologio; per la scienza del XIX secolo…, fu un meccanismo in via di esaurimento. Che simbolo potrebbe andare bene per noi? Forse l’immagine che usava Platone: la natura come un’opera d’arte .”
Ilya Prigogine nasce il 25 gennaio 1917 a Mosca. A causa del cambiamento di regime avvenuto con la Rivoluzione a mano armata attuata dai Bolscevichi, la famiglia lascia la Russia nel 1921 e dopo qualche anno di spostamenti in Europa e un breve soggiorno in Germania, nel 1929 si stabilisce definitivamente in Belgio, a Bruxelles, dove il giovane Prigogine compie i propri studi medi e superiori. Il Belgio diventa da allora la sua patria d’adozione e nel 1949 gli verrà concessa la nazionalità belga. A Bruxelles studia chimica e fisica all’Université Libre, dove nel 1942 si laurea. In questi anni Prigogine subisce la decisiva influenza intellettuale di due suoi professori, Theophile de Donder, dottore in scienze fisiche e titolare di un corso di termodinamica teorica, e Jean Timmermans, sperimentatore interessato alle applicazioni della termodinamica classica alle soluzioni liquide e, più in generale, ai sistemi complessi. I due studiosi orientarono l’interesse del giovane Prigogine verso la termodinamica dei sistemi complessi. Dopo il conseguimento della laurea inizia la sua attività di ricercatore presso l’Université Libre ma è presto costretto a interromperla per la chiusura dell’università in seguito all’occupazione tedesca. Nel frattempo i suoi interessi scientifici si focalizzano sullo studio dei fenomeni irreversibili. E’ in questo periodo che Prigogine comincia a considerare il ruolo essenziale dei fenomeni irreversibili negli esseri viventi. Tali ricerche confluiscono nella sua tesi, presentata nel 1945 all’Université Libre con il titolo di “Etude Thermodynamique des Phenomènes irreversibles”. Con quest’opera si può dire inizi il lungo processo di elaborazione che porterà Prigogine a formulare nel 1967, più di vent’anni dopo, il concetto di “struttura dissipativa”. L’importanza dell’opera di Prigogine viene intanto riconosciuta in una sfera sempre più larga e nel 1959 viene nominato direttore degli Instituts Internationaux de Phisique et de Chimie Solvay. Nel 1967 Prigogine introduce esplicitamente il concetto di struttura dissipativa in una comunicazione intitolata “Structure, Dissipation and Life”. A questo punto si è ormai reso conto che a fianco delle strutture classiche di equilibrio appaiono anche, a sufficiente distanza dall’equilibrio, delle strutture dissipative coerenti . Questo tema viene trattato a fondo in un suo libro scritto da Prigogine nel 1971 insieme a Paul Glansdorff, recante il titolo “Structure, Stabilité et Fluctuations”. La reputazione scientifica di Prigogine sia come teorico sia come sperimentatore si diffonde intanto anche al di fuori dell’Europa . Non giunge perciò inattesa la sua nomina a direttore del Center for Statistical Mechanics and Thermodynamics della University of Texas (Austin). Il riconoscimento più significativo del valore della sua attività nell’ambito dello studio dei processi irreversibili e della termodinamica dei sistemi complessi viene a Prigogine, già vincitore del premio Solvay nel 1965, dall’assegnazione del premio Nobel per la chimica nel 1977. Dello stesso anno è la pubblicazione di un’opera fondamentale per la comprensione del suo pensiero, “Self-Organization in Non-Equilibrium Systems” (“Le Strutture dissipative”), scritta in collaborazione con G. Nicolis. La varietà e la vivacità degli interessi intellettuali di Prigogine sono testimoniate anche dall’audace tentativo di portare le proprie idee, e soprattutto l’intuizione del ruolo fondamentale dell’irreversibilità per i processi di autorganizzazione spontanea, in campi diversi da quello chimico-fisico. Secondo Prigogine in condizioni di lontananza dall’equilibrio la materia è in grado di percepire differenze nel mondo esterno e di reagire con grandi effetti a piccole fluttuazioni. Pur senza portarla sino in fondo, Prigogine suggerisce la possibilità di un’analogia con i sistemi sociali e con la storia. Frutto di queste riflessioni è il libro scritto nel 1979 insieme a Isabelle Stengers, “La Nouvelle Alliance. Métamorphose de la Science” (“La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza”). Questo libro, sicuramente il più noto al pubblico dei non specialisti, mantiene sin dal titolo un ideale legame con un testo che a sua volta aveva suscitato ampio dibattito, “Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea”, scritto nel 1970 da Jacques Monod, biologo molecolare francese, premio Nobel nel 1965. Secondo Monod, l’avvento della scienza moderna ha separato il regno della verità oggettiva da quello dei valori producendo l’angoscia che caratterizza la nostra cultura. L’unica strada che ancora possiamo percorrere è quella dell’accettazione di un’austera “etica della conoscenza”; scrive a tal proposito Monod: “l’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre”. Prigogine, che afferma di essere stato grandemente influenzato dal libro di Monod, nella “Nuova alleanza” ammette che il biochimico francese ha tratto con rigore e coerenza le conseguenze filosofiche della scienza classica, tesa a determinare le leggi universali di una natura vista come un meccanismo semplice e reversibile (il modello meccanicistico del “mondo-orologio”. Tuttavia l’odierna prospettiva scientifica – sostiene Prigogine – ci offre un’immagine molto diversa: i processi irreversibili rimettono in gioco le nozioni di struttura, funzione, storia. In questa nuova prospettiva l’irreversibilità è fonte di ordine e creatrice d’organizzazione. Per questo il mondo dell’uomo non va visto come un’eccezione marginale dell’universo: nel segno del recupero dell’importanza del tempo e dei processi irreversibili si può ricostituire una ” nuova alleanza ” tra uomo e natura. In definitiva se “è morta e sepolta l’antica alleanza, l’alleanza animista…, il mondo finalizzato”, è anche vero per Prigogine che il “nostro mondo non è nemmeno il mondo della ‘moderna alleanza’. Non è il mondo silenzioso e monotono, abbandonato dagli antichi incantesimi, il mondo-orologio sul quale ci è stata assegnata la giurisdizione”. La conclusione di Prigogine è sì un riconoscimento dell’importanza dei problemi sollevati da Monod, ma anche, nel contempo, un invito al superamento della posizione del biologo francese: “Jacques Monod aveva ragione: è ormai tempo che ci assumiamo i rischi dell’avventura umana… E’ ormai tempo per nuove alleanze, alleanze da sempre annodate, per tanto tempo misconosciute, tra la storia degli uomini, della loro società, dei loro saperi e l’avventura esploratrice della natura”. In questa prospettiva di riconciliazione delle due culture, il sapere scientifico diventa “ascolto poetico della natura e contemporaneamente processo naturale nella natura, processo aperto di produzione e d’invenzione, in un mondo aperto, produttivo e inventivo”. “La nuova alleanza” ripercorre le tappe principali di sviluppo della scienza moderna. Secondo Prigogine, benchè al tempo di Newton la scienza operi una separazione tra mondo dell’uomo e natura fisica, condivide con la religione l’interesse a trovare leggi fisiche universali testimonianti la saggezza divina. Quindi la scienza moderna nasce sì dalla rottura dell’antica alleanza animistica con la natura, ma instaura un’altra alleanza con il Dio cristiano, razionale legislatore dell’universo. Ben presto la scienza è tuttavia in grado di fare a meno del soccorso teologico e Prigogine indica nell’immagine del dèmone onnisciente di Laplace il simbolo della nuova scienza: Dio, per usare un’espressione dello stesso Laplace, non è più un’ipotesi necessaria. A parere di Prigogine, anche la revisione critica di Kant è solo un capovolgimento apparente, poichè se è vero che nella filosofia kantiana il soggetto impone la legge alla natura attraverso la scienza, è altresì vero che con Kant viene sancita la distinzione tra scienza e verità e con essa la separazione tra le due culture. La ricostruzione di Prigogine vede l’Ottocento aprirsi con un evento inatteso e decisivo: nel 1811 Jean Joseph Fourier vince il premio dell’Accadémie per la trattazione teorica della propagazione del calore nei solidi. Questo evento può essere considerato l’atto di nascita della termodinamica, scienza matematicamente rigorosa ma decisamente “non classica”, estranea al meccanicismo. A parere di Prigogine, da quel momento in fisica s’instaurano due “universali”: la gravitazione e il calore. L’impatto tecnologico della termodinamica è enorme. Bisogna però attendere fino al 1865 perchè Clausius, col concetto di entropia, ne tragga le conseguenze sul piano cosmologico: gli esiti finali che la nuova scienza del calore fa intravedere sono la dissipazione dell’energia, l’irreversibilità e l’evoluzione verso il disordine. Nel XIX secolo viene però considerato solo lo stadio ultimo dei processi termodinamici. In questa termodinamica “dell’equilibrio” i processi irreversibili vengono accantonati come oggetti non degni di studio. L’ultima parte della “Nuova alleanza” mostra come sia possibile gettare un ponte tra la concezione statica della natura e quella dinamica, tra universo gravitazionale e universo termodinamico. Ciò implica una drastica revisione del concetto di tempo che nella scienza attuale non è più solo un parametro del moto, ma “misura evoluzioni interne a un mondo in non-equilibrio”. Prigogine ci dice che oggi l’universo accessibile alle nostre ricerche è esploso e che il tempo ha assunto una nuova immagine: “ironia della storia: in un certo senso Einstein è diventato, contro la sua volontà, il Darwin della fisica. Darwin ci ha insegnato che l’uomo è immerso nell’evoluzione biologica; Einstein ci ha insegnato che siamo immersi in un universo in evoluzione”. Anche attraverso la rimeditazione delle critiche mosse alla scienza da un pensatore “scomodo” come Bergson viene superata la divisione tra le due culture. In tal modo Prigogine scavalca la pessimistica conclusione di Monod per tratteggiare l’immagine di un universo in cui l’organizzazione degli esseri viventi e la storia dell’uomo non sono più accidenti estranei al divenire cosmico. Suscitata proprio dai più recenti risultati scientifici, la riflessione critica di Prigogine si risolve infine in una nuova immagine della scienza stessa: “ogni grande era della scienza ha avuto un modello della natura. Per la scienza classica fu l’orologio; per la scienza del XIX secolo…, fu un meccanismo in via di esaurimento. Che simbolo potrebbe andare bene per noi? Forse l’immagine che usava Platone: la natura come un’opera d’arte”. Dopo la pubblicazione della “Nuova alleanza” Prigogine non ha cessato di approfondire le tematiche scientifiche imperniate sul concetto di struttura dissipativa. Attualmente questi sono stati ampliati ad altri campi, biologia e meteorologia soprattutto, e vengono condotti da gruppi di ricerca, guidati da Prigogine, sia presso l’Université Libre che presso il Center for Statistical Mechanics and Thermodinamics di Austin. Nel 1978 Prigogine ha pubblicato “From Being to Becoming” (“Dall’essere al divenire”). Nel 1988 “Tra il tempo e l’eternità” con I. Stengers e nel 1989 “La Complessità, Esplorazione nei nuovi campi della scienza” con G. Nicolis.
GALVANO DELLA VOLPE
CENNI BIOGRAFICI E BIBLIOGRAFICI
Galvano Della Volpe nacque a Imola nel 1895, laureatosi a Bologna nel 1920, morì a Roma nel 1968. Allievo di Rodolfo Mondolfo, subisce negli anni venti l’influenza dell’attualismo di Gentile, per approdare al comunismo marxista nel 1944. Vince la cattedra di Storia della Filosofia all’Università di Messina, dove resta tutta la vita, non per propria scelta. La sua influenza pratica sulla politica del Partito comunista è sempre stata scarsa, in contrasto con l’importanza teorica della sua elaborazione filosofica. Ha incarnato nell’ambito della filosofia contemporanea la più coerente espressione del marxismo scientifico e anti-hegeliano. Lucio Colletti, suo allievo, ebbe a dichiarare che la carriera accademica di Della Volpe venne boicottata da Botteghe Oscure. Nessuno lo chiamò mai altrove. Colletti fu testimone delle sue ultime speranze, quando immaginava che Ugo Spirito lo chiamasse a Roma per la cattedra di estetica. Non aveva dalla sua il gruppo di potere del partito comunista. Come non pochi accademici comunisti, aveva coltivato simpatie fasciste. I compagni potevano in particolare rimproverargli un articolo sull’ estetica dei carri armati, sulle pagine di Primato, la rivista di Bottai. Ma la vera colpa, agli occhi della nomenklatura, era l’interpretazione del marxismo in chiave anti-hegeliana e anti-idealista. Per Colletti era un eretico. Era l’assertore d’un Marx critico radicale di Hegel, contro la tradizione italiana della continuità fra Hegel e Marx e, sul piano nazionale, della linea che univa De Sanctis, Labriola, Croce e Gramsci. Eppure Galvano Della Volpe apparve, negli anni Cinquanta, anche un difensore dell’ortodossia togliattiana, sostenitore del primato della politica sulla cultura in una famosa polemica con Norberto Bobbio, propugnatore viceversa dell’intellettuale come suscitatore di dubbi. Per quanto lontano dalla vulgata marxista, e addirittura revisionista rispetto allo stalinismo, tuttavia in due significativi testi di filosofia politica, “Libertà comunista” (1946) e “Rousseau e Marx” (1957), Della Volpe proponeva la liberazione dell’uomo dall’alienazione attraverso la rivoluzione comunista. E’ stato certamente un pensatore difficile da collocare, anzi non collocabile. Della Volpe era conte, uno dei tre “conti rossi” della Romagna. Gli altri due: il faentino Luigi Dal Pane (ma “rosso” solo in gioventù) e maestro di Renato Zangheri, e l’imolese, come Della Volpe, Antonio Graziadei. Pensatore di nobili natali, di ostica scrittura e di pessimo carattere, ebbe fama di seduttore, una testa da filosofo e una vita vissuta un po’ alla periferia di tutto quello che davvero contava sul piano del potere. Galvano Della Volpe è stato il solo teorico del marxismo che ha dato vita a una scuola i cui tratti ancora oggi sono riconoscibili. Esercitò un grande fascino sui giovani con cui ebbe molti rapporti personali. Con lui si formarono, fra gli altri: Nicolao Merker, Mario Rossi, Lucio Colletti che tenevano Kant sugli scudi ed Hegel sotto i piedi. Marx sbrinato dall’idealismo hegeliano acquistò improvvisamente la statura di scienziato sociale. Questo marxista mal visto dal PCI seppe tenere insieme varie attività: l’estetica e la filosofia, la politica, il materialismo, la linguistica e naturalmente le buone letture. Nello scrivere non fu sorretto dalla forza classica, quella per intenderci che ebbe a tratti Lukàcs. Contorta risultò la sua prosa. Ma dopotutto riuscì a imporre uno stile di pensiero che passò non solo nei libri, in particolare nella “Logica come scienza positiva”, ma anche attraverso il magistero svolto nella remota Università di Messina e nelle zone limitrofe del Partito comunista. Chi lo conobbe lo descrive come un uomo dotato di una straordinaria intelligenza e di una qualche aggressività mitigata dall’ironia. Non gli dispiaceva il contatto umano, la passeggiata oziosa, la battuta salace, la sosta al bar. Anzi il bar fu per lui una sorta di seconda casa. Oltre agli studi teorici ispirati al marxismo “La libertà comunista”,1940; “Logica come scienza positiva”, 1950; “Rousseau e Marx”, 1957), Galvano Della Volpe ha scritto importanti opere sulla storia della filosofia: “Le origini e la formazione della dialettica hegeliana”; “Hegel, romantico e mistico” (1793-1800), 1929; “La filosofia dell’esperienza di David Hume” (1933-1939) e sull’estetica (“Il verosimile filmico”, 1954 e “Critica del gusto”, 1966). Un’esauriente introduzione al suo pensiero è il libro di John Frazer, “Il pensiero di Galvano Della Volpe”, 1979.
L’ITINERARIO INTELLETTUALE
Nel 1940 era stato sedotto dai carri armati tedeschi che avevano invaso la Francia e dalla realtà del nuovo ordine nazista ma si era subito ricreduto grazie al comunismo avanzante, avvicinandosi a Marx, da lui e dai suoi discepoli definito in seguito il “Galilei del mondo morale o storico-sociale”. Da fascista era quindi diventato comunista. Galvano Della Volpe ebbe una posizione abbastanza singolare nel panorama marxista del primo dopoguerra. Intransigente nei confronti della precedente cultura filosofica italiana, egli era entrato in contatto con una versione pre-leninista del marxismo all’inizio degli anni Trenta, ma l’aveva rifiutata negli anni di ricerca di nuove vie d’uscita rispetto all’attualismo gentiliano. Questa ricerca puntò sull’accentuazione degli aspetti logico-materialistici della riflessione filosofica, con una critica molto dura di tutte le forme di misticismo, romanticismo, umanitarismo cristiano o laico, e con un riferimento forte ai temi del lavoro, della tecnica, della organizzazione Ebbe buoni rapporti con Rodolfo Mondolfo a Bologna, dove insegnò fino al 1938, quando passò all’Università di Messina. La filosofia marxista di Della Volpe, emarginata negli anni successivi, ricomparirà con forza nel dibattito tra i marxisti italiani tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. L’opera di Della Volpe ci appare complessa e, a volte, contraddittoria, articolata su una pluralità di temi e discipline (dalla storia della filosofia all’estetica, dalla filosofia politica alla morale). Tuttavia il suo pensiero è una continua elaborazione di quattro temi fondamentali: etica, estetica, logica, marxismo. In realtà l’itinerario intellettuale dell’autore de “La libertà comunista” non fu affatto lineare.
ETICA E POLITICA
Negli anni ’50 importante è la riflessione etico-politica: nel saggio del 1957 “Rousseau e Marx” assistiamo ad una diversa valutazione del ruolo della filosofia politica di Rousseau nell’elaborazione di una teoria della democrazia socialista. Della Volpe non fa cadere le precedenti critiche rivolte a Rousseau, per cui il filosofo francese rimane sempre il teorico dell'”amore di sé” e dell’ “uguaglianza solo formale”. Ora ciò che lo studioso marxista pone in primo piano è il tema della libertà egualitaria, che, intesa come diritto di ciascuno al riconoscimento delle proprie capacità, ingloba in sé l’istanza individualistica della libertà civile. Della Volpe mette a confronto le teorie dell’emancipazione umana di Rousseau e di Marx:
quella di Rousseau viene ricondotta alle sue origini platonico-cristiane. Col suo stile tipico, spezzato, contorto e con frequenti sottolineature, Della Volpe mette in luce la contraddizione che emerge in Rousseau tra libertà della persona e uguaglianza sociale, tra istanza individualistica e istanza sociale. Rousseau, rispetto alla tradizione platonico-cristiana e giusnaturalistica, ha il merito, per Della Volpe, di averla laicizzata radicalmente. Il suo limite consiste nel privilegiare la persona, che ha il suo obiettivo in una sorta di narcisismo spirituale o di autocontemplazione interiore.
Questi limiti ideologici che rendono classista e borghese la concezione di Rousseau, vengono superati dalla teoria dell’emancipazione di Marx. Tale teoria viene riscontrata nei testi giovanili di Marx degli anni 1843-47 privilegiando quelli fortemente critici nei confronti di Hegel e ancora molto vicini al “naturalismo” e all’anticristianesimo di Feuerbach, sui quali Della Volpe ritornerà frequentemente negli anni successivi. Sono i testi in cui Marx, sotto l’influenza di Feuerbach, accentua il tema della alienazione umana e quello della soppressione di tale alienazione mediante il comunismo.
Nell’elaborare queste sue tesi, osserva Della Volpe che Hegel concepisce l’uomo come coscienza di sé, autocoscienza. L’uomo diventa “astrazione dell’uomo” mentre Marx cerca “l’uomo reale”, l’uomo che è, anzitutto, natura, ente naturale, obiettivo. Della volpe insiste su queste accentuazioni e rileva che in Marx la soppressione positiva dell’alienazione, mediante il materialismo pratico o comunista, implica conseguentemente l’ateismo ma non un ateismo astratto o dogmatico. E’ da osservare che il frequente riferimento all’ateismo quale carattere essenziale del comunismo materialistico non poteva far piacere a Togliatti, impegnato a presentare invece un comunismo aperto anche a chi crede in Dio. Forse è eccessivo mettere in luce il carattere tendenzialmente gradualista e riformista degli approdi cui giunge la ricerca teorico-politica di Della Volpe, ma non v’è dubbio che il filosofo si è impegnato, su questo terreno, in un costante lavoro di revisione, che nel tempo lo ha portato molto al di là delle posizioni che aveva sostenuto nel libro sulla Libertà comunista degli anni Quaranta. I fili di pensiero che vanno in questa direzione sono molteplici: basti ricordare l’ importanza che Della Volpe accorda al tema bobbiano e liberale dei limiti del potere statale; l’insistenza, per quanto riguarda lo Stato sovietico, sul punto della “legalità socialista”; il recupero non solo di Rousseau, ma anche di Kant, col suo principio che impone di considerare “l’uomo come fine e mai come semplice mezzo”. Ma soprattutto quello che resta, nel Della Volpe politico, il punto teorico di maggiore impegno, la ricerca di una libertà egualitaria che superi, ma conservandole, le “libertà negative” del liberalismo.
L’ESTETICA
Un’altra componente fondamentale del pensiero di Della Volpe è costituita dalla problematica estetica. Dopo la critica dell’estetica romantica ne “Il verosimile filmico ed altri scritti di estetica” (1954), Della Volpe approda a due importanti risultati: la destituzione di legittimità delle gerarchie di valori fra le arti e l’attribuzione del pieno valore conoscitivo alle opere d’arte, distinguibile dal valore conoscitivo della scienza solo tecnicamente. Con la “Critica del gusto” (1960) la nozione dell’arte come conoscenza è alla base di uno dei più significativi e fecondi tentativi di fondare un’estetica materialistico-storica. Rifiutata l’estetica romantica, per Della Volpe non si tratta, tuttavia, di cercare un inesistente rapporto speculare tra arte e storia o società, quanto di cogliere il carattere specifico di tale interdipendenza come pure la specificità per cui “l’opera d’arte può valere come tale anche quando i suoi diretti condizionamenti storici sono scomparsi”. I termini della scienza sono univoci mentre i termini del discorso poetico sono polisensi; fra i due è situata l’equivocità dei termini del linguaggio comune.
LA LOGICA
Nella sua opera maggiore, “Logica come scienza positiva” (1950), Della Volpe si fa sostenitore di un “marxismo galileiano”, in grado di far valere, in rapporto alle scienze storico-sociali, quel nesso critico di ragione ed esperienza teorizzato dalla grande tradizione storica antiplatonica (Aristotele, Galilei, Hume). Basandosi su una lettura originale degli scritti giovanili di Marx, Della Volpe mostra come la rottura del giovane Marx rispetto alla concezione della dialettica teorizzata da Hegel sia ben anteriore al completamento della sua opera scientifica nella maturità. Al centro della riflessione filosofica di Della Volpe sta il concetto di “astrazione determinata”, che consente di isolare, dal continuum delle formazioni storiche empiricamente presenti, certi elementi ideali capaci di svolgere, in relazione con un esperimento sociale determinato, una funzione di critica all’esistente e di anticipazione delle tendenze storiche in corso. L’astrazione determinata nella terminologia di Della Volpe, è l’astrazione scientifica rigorosa, scoperta ed usata da Marx nel campo dell’economia politica e già da lui contrapposta all’astrazione speculativa o generica. Il metodo scientifico corretto si configura come un movimento circolare dal concreto all’astratto e da questo di nuovo al concreto ossia come una continua messa a punto storica delle astrazioni o categorie economiche, il cui ordine logico quasi mai corrisponde a quello cronologico o empirico.
IL MARXISMO
La riflessione speculativa di Galvano della Volpe si fa ancora più precisa nel saggio “La libertà comunista” del 1946, nel quale intende sottolineare e argomentare la radicale diversità tra comunismo e liberalismo, contro le varie tendenze a mescolare liberalismo e socialismo (evidente stoccata a Bobbio, più che a Gobetti). Anche in questo caso, le idee di Della Volpe si scontreranno con la politica togliattiana della comunità tra liberalismo e comunismo e costituiranno il punto di riferimento fondamentale per il dibattito teorico interno al partito comunista tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Oggi Galvano Della Volpe è un filosofo quasi dimenticato, è l’eretico dimenticato. Vivente, fu emarginato. Per Croce fu uno dei soliti fabbricanti di titoli filosofici per concorso. Per i comunisti era un eretico da tenere a distanza. Il suo delitto era stato quello di dissacratore del Diamat, che era la filosofia ortodossa dei sovietici. Sul Diamat i comunisti del suo partito, pur bruciando incensi a Gramsci che in Russia non era ben visto, amavano sorvolare per non incorrere nei fulmini della chiesa madre. Nel 1946 Della Volpe era uscito con “La libertà comunista” che aveva fatto un certo rumore. La prosa di questo saggio è davvero impervia. Lucio Colletti, che fu il miglior discepolo di Della Volpe, dalle cui posizioni successivamente si è molto allontanato e che diede respiro europeo alle sue posizioni, nel 1997 ha dichiarato che “La libertà comunista” come scrittura non era un gran che e che era riuscito ad affrontare quel saggio solo nel 1981 assimilandolo, centellinandolo e postillandolo un poco alla volta. Vi erano alcune pagine, tre in tutto, delle quali non era mai riuscito a venire a capo. Sempre a giudizio di Lucio Colletti “La libertà comunista” è un libro sbagliato. La sua lettura può avere oggi solo un valore informativo o essere osata per citazioni su qualche tesi di laurea. “La Libertà comunista”, che delinea una società così astrattamente armonica, così fatta di vacue profondità, oggi appare come un sughero galleggiante su di un mondo fatto di lacerazioni e contrasti che non avranno mai fine. Il punto di partenza è sempre Rousseau, il cui individualismo fondato sul concetto di persona, lo sappiamo, entra in contraddizione con il concetto di uguaglianza sociale. Tali sono i limiti ideologici di Rousseau. Ma il marxismo costituisce un’alternativa radicale, non una prosecuzione o uno sviluppo, rispetto a quella tradizione. Secondo Della Volpe infatti, contro quella tradizione, e contro Hegel, i presupposti metodologici e le relative premesse critico-polemiche della teoria del comunismo implicano un orientamento generale che è il materialismo pratico o storico o materialismo comunista e un ateismo non astratto. Della Volpe si sofferma quindi sui caratteri attuali della battaglia teorica, con riferimento ai problemi della tecnica e del lavoro. E’ presente un’esaltazione acritica sullo strakhanovismo sovietico, sul carattere virile della libertà comunista, sul rapporto tra americanismo (Dewey) e comunismo. Vengono indicati i limiti metafisici e borghesi del pensiero di Dewey, rispetto al quale quello marxista rivela la sua superiorità. Nella intricata vicenda del marxismo italiano del dopoguerra, che rappresenta ormai dietro le nostre spalle un capitolo storico conchiuso, al quale si dovrà prima o poi dedicare una riflessione adeguata, la figura di Galvano della Volpe occupa indubbiamente una posizione di primo piano. Anche tra coloro che si sono formati alla scuola di Della Volpe, le posizioni sono ormai assolutamente differenziate: mentre Nicolao Merker invita a contestualizzare nel suo tempo il pensiero dell’autore di “Rousseau e Marx”, e ne rivendica, entro quell’orizzonte, tutto il valore, Lucio Colletti non ne disconosce i meriti, ma sottolinea come Della Volpe non abbia spinto fino in fondo quella critica della componente dialettica del marxismo che poi Colletti stesso radicalizzò, in senso anti-marxista, a partire dalla metà degli anni Settanta. In realtà, se si prova a guardare con occhio storico a vicende cronologicamente ancora vicine, ma che sembrano oggi appartenere a un passato remoto, il bilancio che si può trarre è abbastanza chiaro: quello di Della Volpe è stato, nelle sue grandi linee, un tentativo piuttosto audace, ma anche non privo di contraddizioni, di modernizzare ed emendare la tradizione canonica del marxismo, su tutti i terreni più rilevanti del dibattito postbellico, da quello epistemologico, a quello estetico, a quello della teoria politica. Sul piano delle categorie filosofìche portanti, la torsione che Della Volpe impone alla tradizione consolidata del marxismo è effettivamente radicale. Muovendo dall’esigenza di suscitare nei marxisti una maggiore attenzione e apertura verso la scienza moderna, la logica simbolica, lo stesso neopositivismo, Della Volpe propone una sostanziale ricollocazione del pensiero di Marx rispetto alle classiche polarità della tradizione filosofica. Si tratta, in sostanza, di marcare nettamente la frattura rispetto alla tradizione idealistica della dialettica di Platone e di Hegel, e di ridare al marxismo una genealogia concettuale alternativa, centrata sulla positività del molteplice sensibile, e in questo senso materialistica: i punti di riferimento diventano perciò la critica antiplatonica di Aristotele, l’antiscolastica di Galilei, e nella modernità, alcuni aspetti del pensiero di Hume e Kant. La genealogia tradizionale del marxismo ne esce sconvolta, e con ciò viene respinto anche il materialismo dialettico sovietico di ispirazione engelsiana. E’ operazione modernizzatrice, dunque, quella di Della Volpe, ben comprensibile nei suoi fini. Deboli però restano le fondamenta che dovrebbero reggere l’intero edificio, e cioè innanzitutto la critica che Della Volpe rivolge alla dialettica hegeliana. Non meno interessante, e altrettanto problematico, è il tentativo di rinnovamento della tradizione marxista che Della Volpe intraprende sul terreno della teoria poetica. Nei testi che segnano le tappe principali di questo percorso, dalla “Libertà comunista” del 1946 fino alla polemica con Bobbio degli anni Cinquanta, dalle diverse edizioni di “Rousseau e Marx” fino agli ultimi interventi degli anni Sessanta, quello di Della Volpe ci appare come un pensiero in movimento, impegnato a spostare in avanti quelli che erano limiti evidenti della tradizione marxista per quanto riguarda la riflessione sul valore dei diritti e sulle libertà.
ROBERT MERTON
A cura di Giacomantonio Francesco
Meyer Robert Schkonick – questo il vero nome di Robert King Merton – nasce il 5 luglio (ma alcune biografie riportano il 4 luglio) del 1910 a Philadelphia, da una famiglia di immigranti est-europei residenti in uno dei quartieri poveri (i cosiddetti slum) della città. Durante l’adolescenza Merton fa parte di una gang del suo quartiere, ma, incoraggiato dalla madre, inizia a frequentare la biblioteca, il Museo di Philadelphia e l’Accademia della Musica, riuscendo così ad acquisire una notevole preparazione culturale già durante gli anni di scuola. E’ un hobby del giovanissimo Merton quello di cimentarsi come mago: si fa infatti chiamare Robert King Merlin fino al 1924, anno in cui decide di cambiare il suo nome, per l’ultima volta, in Robert King Merton. Merton compie gli studi dapprima alla Temple University – dove si diploma brillantemente nel 1931, mostrando un interesse per la filosofia -, e in seguito presso l’Università di Harvard, dove consegue il dottorato nel 1936, sotto la guida del sociologo funzionalista Talcott Parsons, con una dissertazione sulla scienza e l’economia nell’Inghilterra del XVII secolo. Durante la sua permanenza a Harvard, altre influenze importanti per Merton sono quelle del sociologo Piritim Sorokin, dello storico della scienza George Sarton e, fra gli studiosi europei, Emile Durkheim e Georg Simmel. Tra il 1939 e il 1941 lavora alla Università di Tulane a New Orleans e si sposa con Suzanne Carhart, da cui ha tre figli(uno dei quali, Robert C. Merton, è stato insignito del Nobel per l’economia nel 1997), prima di separarsi da lei nel 1968; nello stesso anno inizia una lunga relazione con la sociologa Harriet Zuckerman, che, tuttavia, sposa solo nel 1993.
Nel 1941 passa alla Columbia University, dove diviene Professore di Sociologia nel 1947. Dal 1942 al 1971 opera al fianco di Paul Felix Lazarsfeld come direttore associato dell’Ufficio per la Ricerca Sociale Applicata della Columbia University. Nel 1963 viene nominato “Giddings Professor”. La sua opera forse più ponderosa è Teoria e struttura sociale, pubblicata per la prima volta nel 1949 e poi ampliata nel 1957 e nel 1968. Altri suoi testi importanti sono stati Libertà e controllo nella società moderna (1955), Ricerca sociologica(1963), Sociologia teoretica (1967), La sociologia della scienza (1973). Ha ricevuto, a partire dal 1956, oltre una trentina di titoli accademici honoris causa e, ormai in avanzata età, è stato presidente onorario del Consiglio scientifico che ha curato per l’Accademia Svizzera dello Sviluppo (SAD) una delle più ampie ricerche sociologiche dell’ultimo decennio: la ricerca internazionale comparata sull’anomia, che ha preso in considerazione numerosi processi di crisi e di trasformazione (come la transizione alla democrazia nei Paesi dell’Est europeo, la modernizzazione della Cina degli anni ’90, la convivenza civile nel Sud Africa del dopo apartheid, le crisi politiche ed economiche dell’Africa occidentale, la situazione dell’Argentina e di altri Paesi dell’America Latina e i processi indotti in Europa occidentale dalla globalizzazione e dell’immigrazione dai Paesi extraeuropei). Nel 1994 è stato insignito dal Presidente degli Stati Uniti d’America con la “Medaglia Nazionale della Scienza”, primo sociologo a ottenere tale riconoscimento. In ambito accademico, a conferma del suo enorme prestigio, era chiamato “Mr. Sociology”. E’ morto a New York il 23 febbraio 2003. Merton è stato uno dei più influenti esponenti della corrente teorica del funzionalismo (le cui origini risalgono al positivismo organicista di Comte e Spencer e a Durkheim, secondo i quali la realtà sociale andava spiegata a partire dalla società stessa anziché dai singoli individui), anche se in modo non eccessivamente dogmatico: il suo approccio alla sociologia viene per questo definito neofunzionalismo. Ha indirizzato l’indagine sociologica verso una direzione maggiormente speculativa (tramite la critica del funzionalismo “puro” di Parsons), verso lo studio della comunicazione di massa (nelle ricerche in collaborazione con Lazarsfeld) e verso la sociologia della conoscenza e della scienza. L’ottica funzionalista di Merton differisce significativamente da quella del suo maestro Parsons: i suoi scritti si possono definire più prudenti e difensivi. Tale prudenza si concreta nella sua predilezione per le cosiddette “teorie a medio raggio” (in evidente contrasto con la “grande teoria” onnicomprensiva cui ambiva Parsons) che non si prefiggono di abbracciare la società nel suo complesso, ma non sono neppure semplici sequenze di ipotesi empiriche scollegate. Nella sua opera egli è spesso teso a cercare di armonizzare l’approccio teorico a quello empirico, l’analisi qualitativa a quella quantitativa. Secondo Merton, un limite grave dei primi funzionalisti consisteva nel fatto che essi tendevano, al di là dei fatti, a leggere troppa razionalità funzionale nelle pratiche sociali. Essi, infatti, aderivano a tre presupposti concettuali non condivisi da Merton:
a)il postulato dell’unità funzionale della società, secondo cui la società è un tutto funzionale e tutte le sue parti sono integrate e ben bilanciate;
b)il postulato del funzionalismo universale, per cui tutte le pratiche culturali e sociali sono funzionali ;
c)il postulato dell’indispensabilità, per cui esistono prerequisiti funzionali universali per ogni società e solo specifici elementi socio-culturali possono soddisfare tali funzioni.
La proposta di Merton per il rilancio del funzionalismo è basata sulla critica dei tre postulati funzionali appena esposti. Innanzitutto, rispetto al punto a), egli abbandona la primitiva visione funzionalista secondo cui noi viviamo nel migliore dei mondi possibili: molte pratiche persistono malgrado non abbiano benefici particolari né per i singoli né per la società. Secondariamente, rispetto al punto b), si nota che i primi funzionalisti tendevano a mettere a fuoco le cosiddette funzioni per la” società”. Ma l’idea di “società” come totalità è, secondo Merton, fuorviante perché lo stesso elemento sociale può essere funzionale per certi individui, gruppi o sistemi ed essere disfunzionale per altri. Infine, rispetto al punto c), va colto che i resoconti funzionalisti mettono insieme stati soggettivi degli individui e conseguenze oggettive: invece la funzione di una pratica è un effetto osservabile e perciò va distinto dalla motivazione che sottende la pratica. Merton pensa che gli uomini non sono sempre coscienti degli scopi che stanno perseguendo e, dunque, delle funzioni che assolvono i loro comportamenti. Di qui la nota distinzione che egli elabora tra funzioni manifeste e funzioni latenti. Le prime sono pratiche intese come tali dagli individui coinvolti. Le seconde, invece, non sono né intese né riconosciute dagli individui coinvolti. Un esempio che permette di chiarire questo passaggio è costituito dalla frequentazione della chiesa da parte dei fedeli. Una delle funzioni manifeste dell’andare in chiesa è essere più prossimi a Dio e commemorarlo, una delle funzioni latenti di questa pratica consiste nel rafforzare l’integrazione sociale. Sullo sfondo di queste impostazioni metodologiche, Merton sviluppa alcuni nuclei concettuali rilevati. Partendo dal concetto di deprivazione soggettiva, già elaborato dalle ricerche di Stouffer, secondo cui il sentimento di essere privati di qualcosa non ha a che fare con la realtà oggettiva ma con le percezioni soggettive (e, quindi, se ci si abitua a coltivare certe aspettative anche una realtà positiva può apparire frustrante), Merton mostra che ogni individuo si rapporta ad almeno due gruppi. Da una parte il gruppo di appartenenza, quello di cui fa parte nella sua vita, e dall’altro il gruppo di riferimento, cui aspira e ai cui valori si riferisce idealmente. L’eventuale scarto che può verificarsi in questo rapporto è assunto come base di molte discrepanze o distorsioni nell’agire sociale contemporaneo. Altri concetti cruciali sono quelli di devianza e anomia. Merton distingue la devianza rispetto agli scopi che ci si prefigge e rispetto ai mezzi che si scelgono per raggiungere gli scopi. Tenendo conto di ciò egli delinea una tipologia di devianti diversi:
- Gli innovatori: coloro che pur conformandosi agli scopi dominanti, sono devianti rispetto ai mezzi che usano per raggiungerli;
- i ritualisti: coloro che rimangono fedeli ai mezzi consueti, pur non condividendo gli scopi cui questi dovrebbero servire;
- i rinunciatari: coloro che rifiutano sia i valori e gli scopi comuni, sia le norme che riguardano i mezzi per raggiungere questi ultimi;
- i ribelli: coloro che mettendo in discussione obiettivi e mezzi comuni, non si ritirano tuttavia dalla scena sociale, ma lottano per affermare obiettivi e mezzi diversi.
Da questa analisi deriva un’interpretazione dell’anomia che assume un riconcettualizzazione diversa rispetto a quella della tradizione sociologica risalente a Durkheim. L’anomia, per Merton, è intesa come una condizione in cui vi è uno scarto tra gli scopi dell’esistenza che la cultura propone e le possibilità di raggiungerli attraverso comportamenti “normali” : ad esempio, dove il successo personale o la ricchezza(come nelle società occidentali avanzate) sono intesi come obiettivi che ciascuno dovrebbe perseguire, ma contemporaneamente la struttura sociale comporta barriere per cui molti non possono raggiungeretali obiettivi con mezzi normali(perché non sempre lavoro, istruzione, ecc., permettono di superare ineguaglianze originate da una struttura di classe che ostacola la mobilità), si affermano comportamenti devianti. Gli studi di Merton, come abbiamo accennato sopra, hanno avuto considerevole risonanza anche in chiave di sociologia della conoscenza. In particolare, egli si è occupato di temi e questioni inerenti la sociologia della scienza, di cui egli può essere, sotto molti aspetti, considerato l’iniziatore. Merton ritiene che l’oggetto della sociologia della scienza sia l’interdipendenza dinamica fra la scienza, intesa come attività sociale in progresso che determina prodotti culturali e civiltà, e la circostante struttura sociale. In genere gli studiosi, ammettendo la relazione tra scienza e società tendono a considerare esclusivamente l’influenza della scienza sui contesti sociali e non l’aspetto di influenza reciproca o addirittura quello dell’influenza della società sulla scienza. In realtà, invece, la scelta dei temi di cui gli scienziati si occupano è definita, in gran parte, dagli interessi del mondo circostante. Merton intuisce dai suoi studi che l’idea, su cui si fonda la scienza, che la verità sia qualcosa di accertabile razionalmente mediante osservazioni e esperimenti, non nasce dalla scienza, bensì all’interno della cultura più vasta in cui la scienza stessa si inserisce. La scienza è, dunque, un’istituzione sociale. Grande attenzione viene, quindi, dedicata alla logica della comunità scientifica e alle tensioni che essa può avere con il resto della società. Nella comunità scientifica Merton individua un ethos specifico che si fonda sul valore chiave attribuito al dubbio sistematico, sul fatto che ogni affermazione sia verificabile intersoggettivamente, sul dialogo aperto tra gli scienziati, sulla disponibilità universale di ogni ricerca, sulla valutazione di uno scienziato in relazione esclusivamente ai meriti del proprio lavoro. Così la scienza è autenticamente tale solo se ha un’organizzazione che consente al dubbio di esprimersi: finchè questo imperativo etico sussiste, essa può svilupparsi.
Nel più generale contesto della sociologia della conoscenza è inoltre celebre la teoria di Merton sulle profezie che si autoadempiono. Riprendendo una idea di un teorema psico-sociale attributo al sociologo William Thomas, egli mostra che se tanti individui prevedono un fatto sociale e si comportano di conseguenza quel fatto si realizza adempiendo alla profezia. Ad esempio, se tanta gente comincia a convincersi che una certa banca è insolvibile quella banca andrà effettivamente in rovina. E, infine, non si può dimenticare il concetto di serendipity. Con tale termine si descriveva un progresso inatteso della conoscenza frutto di sagacia, ma accidentale: quel processo per cui tante volte, nella scienza, mentre si persegue un risultato se ne ricava un altro a sorpresa, differente, magari più importante. Questo concetto è, peraltro, il tema dell’ultimo testo pubblicato da Merton, Viaggi e avventure della Serendipity(2002), frutto di un manoscritto tenuto nel cassetto dal 1958, in cui si manifesta in modo emblematico lo stile di studio e ricerca di questo sociologo che ha saputo combinare l’importanza e il peso delle sue ricerche con un certo divertimento nell’approccio alle idee, alla loro evoluzione e alle immagini che possono fissarle nella mente. L’insieme delle teorie di Merton non è comunque invulnerabile rispetto a possibili critiche. Il suo quadro concettuale è stato accusato di essere spesso meramente descrittivo o euristico: riesce a delineare e categorizzare la vita sociale, ma non sembra riuscire ad andare oltre questo. In realtà indicare gli effetti reali o potenziali di pratiche ricorrenti, come spesso fa Merton, non vuol dire di per sé darne una spiegazione. Inoltre, è stato rilevato come, a volte, egli manchi di precisione analitica: nella definizione di funzioni manifeste e latenti, ad esempio, egli mischia la consapevolezza che qualcosa dovrà accadere con l’intenzione che ciò avvenga. Ancora, dal punto di vista della sociologia della scienza, non si può non notare che egli segua un approccio di fondo piuttosto positivista, che comporta un’idea di cumulabilità dei risultati della ricerca scientifica non necessariamente condivisibile. Merton, infatti, ritiene che la logica dell’osservazione e dell’esperimento possa pur sempre permettere un adeguamento crescente dei modelli alla realtà umana: è un positivismo raffinato, indubbiamente, ma è ancora positivismo. Oggi, la sociologia della scienza contemporanea dopo i contributi di autori quali Kuhn e Foucault, è andata decisamente oltre le prime osservazioni di Merton. Esistono molti modi di intendere, fare, produrre, pensare la sociologia. Il carattere fondamentale di questa disciplina sembra risiedere proprio nel consentire la simultanea presenza di nuclei teorici diversi, nel permettere una sorta di politeismo teoretico. La sociologia di Merton è una sociologia delicata, prudente, disincantata. Una sociologia che si diverte a mostrare la magia bizzarra, che, in fondo, può nascondersi nella realtà sociale e in cui si riflette ancora lo sguardo di quel bambino che giocava a fare il mago con i suoi compagni.
ALBERT EINSTEIN
A cura di Giuseppe Tortora
Nato a Ulma nel 1879 da genitori ebrei, Albert Einstein visse, nella prima giovinezza, a Monaco e a Milano; ammesso poi al politecnico di Zurigo, conseguí, nel 1900, il diploma in matematica e fisica. Collaborò quindi a riviste scientifiche, ma, per esigenze economiche, assunse servizio presso l’ufficio brevetti di Zurigo. Intanto elaborava la sua teoria che ebbe una prima presentazione pubblica nello studio Sulla dinamica dei corpi in moto, in cui Einstein enunciò la teoria della “relatività ristretta”. Divenne professore all’Università di Zurigo nel 1909, ma nel 1912 si trasferí all’Università di Praga; quindi fu nominato, nel 1914, Direttore dell’Istituto fisico di Berlino. Nel frattempo prendeva corpo la generalizzazione della sua teoria, esposta ne I fondamenti della teoria generale della relatività, pubblicata nel 1916.
Contro la violenza, pacifista, quando in Germania cominciò la campagna antisemita lanciata dal nazismo, egli, già Premio Nobel, si trasferí prima a Gerusalemme, dove fu Rettore dell’Università, e poi, nel 1933, negli Stati Uniti, a Princeton, dove continuò il suo insegnamento universitario e dove lo colse la morte nel 1955, a settantasei anni.
Per intendere la teoria della relatività bisogna premettere alcune considerazioni.
Se si dice “una nuvola staziona su Piazza S. Pietro a Roma”, la posizione della nuvola è individuabile numericamente attraverso un sistema di coordinate cartesiane. E se si dice “una nuvola si muove su Piazza S. Pietro”, le posizioni occupate successivamente dalla nuvola sono sempre individuabili con un sistema di coordinate. Naturalmente si dà per inteso che il luogo “Piazza S. Pietro” sia situato su di un corpo di riferimento rigido e immobile, la terra.
Ora, se si dice che un treno viaggia ad 80 km all’ora, le posizioni occupate dal treno in un’ora sono individuabili anch’esse in un sistema di coordinate; 80 km all’ ora, dunque, ma relativamente alla strada ferrata che si dà per immobile, situata su un corpo rigido.
E se si afferma che un passeggero di quel treno si muove in esso a 3 km all’ora, anche le posizioni occupate in successione da tale viaggiatore sono individuabili in un sistema di coordinate; naturalmente però supponendo il treno, corpo di riferimento, come immobile; dunque ogni cosa ed ogni evento sono individuabili, in termini di misura, rispetto a un corpo di riferimento, e in un sistema di coordinate. E tutte le leggi della meccanica classica hanno valore, per un determinato fenomeno, all’interno di un sistema di riferimento, in relazione a un preciso sistema di coordinate.
Ma un fenomeno fisico è lo stesso se considerato dall’interno del sistema di coordinate in cui esso ha luogo, o dall’esterno, cioè da un osservatore che si trovi in un altro sistema di riferimento. Le leggi della meccanica sono valide anche se il fenomeno sia considerato da un osservatore “situato” in un “altro” sistema di riferimento?
Se io dicessi, senza seria riflessione e opportuni chiarimenti, che la meccanica classica ha per scopo di determinare come i corpi mutano col tempo la loro posizione nello spazio, verrei meno, e gravemente, alle leggi della chiarezza. Non è chiaro a questo punto che cosa s’intenda per posizione e spazio. Dal finestrino di un treno che viaggia a velocità uniforme lascio cadere un sasso sull’argine della strada, senza imprimere ad esso alcuna spinta. Prescindendo all’azione della resistenza dell’aria, vedo cadere il sasso secondo una linea retta. Un osservatore, che dalla strada osserva il fatto, vede la pietra cadere a terra con una traiettoria ad arco di parabola
Chiediamoci allora: i luoghi pei quali il sasso passa si trovano effettivamente su una retta o su una parabola? Che significa moto nello spazio? Eliminiamo anzitutto il generico termine “spazio n, col quale non si designa nulla di preciso, e tantomeno un oggetto, e consideriamo invece l’espressione “movimento relativamente ad un corpo di riferimento concretamente rigido”… Sostituiamo a “corpo di riferimento” la nozione di “sistema di coordinate” di cui si vale la matematica; si può affermare che rispetto ad un sistema di coordinate rigidamente connesso alla vettura, il sasso descrive una retta, mentre, rispetto ad un sistema di coordinate rigidamente collegato al suolo stradale, descrive una parabola. È evidente allora che non si può parlare di una traiettoria in senso assoluto, ma di traiettoria rispetto a un determinato corpo di riferimento.
(La teoria generale della Relatività)
Già Galilei, in relazione ai fenomeni meccanici e a sistemi in moto rettilineo uniforme, aveva scoperto il “principio di relatività”: tutti i fenomeni si svolgono allo stesso modo, sia in un sistema in moto rettilineo uniforme, sia in un sistema in quiete; pertanto non è possibile stabilire, tra un sistema in moto e uno in quiete, quale dei due effettivamente si muova; dunque non esiste moto rettilineo uniforme assoluto, ma solo moto relativo.
Ritorniamo all’esempio del treno, che marcia con moto uniforme. Diremo che il suo moto è di traslazione (la vettura cambia di luogo rispetto al suolo stradale – e naturalmente rispetto alle rotaie fisse al suolo – senza subire rotazioni) e uniforme (perché il suo moto è a velocità e direzione costanti).
Supponiamo ora che un uccello voli per l’aria con un moto che, osservato dalla sede stradale, appaia rettilineo ed uniforme. Dal treno in corsa sembrerà che velocità e direzione del moto dell’uccello – moto pur sempre rettilineo ed uniforme – siano diversi. In astratto si può dire che una massa (m) che si muova con moto rettilineo uniforme rispetto ad un sistema di coordinate K, avrà ugualmente moto rettilineo uniforme rispetto ad un sistema di coordinate K’, se questo si muove rispetto a K con moto traslativo uniforme. Ne consegue che: se K è un sistema di coordinate galileiane, sarà anche galileiano ogni altro sistema K’, rispetto al quale K si muova di moto traslativo uniforme. Le leggi delle meccanica galileo-newtoniana hanno validità sia rispetto a K che a K’.
Possiamo ancora ulteriormente procedere verso la generalizzazione formulando la proposizione cosí: se K è un sistema di coordinate che si muove rispetto a K’ con moto uniforme e non rotatorio, i fenomeni naturali si svolgono, rispetto a K’, precisamente con le stesse leggi generali come rispetto a K. In questo consiste il Principio di Relatività (in senso ristretto).
(La teoria generale della Relatività)
Sicché, con la legge di trasformazione di Galilei, posto che, ad esempio, siano note le posizioni e la velocità di un viaggiatore nel sistema di coordinate connesso al pavimento del suo treno, supposto immobile, è sempre possibile individuarle in un altro sistema di riferimento, quale, ad esempio, quello connesso alla strada ferrata su cui si muove il treno. È sempre possibile, in generale, trovare le coordinate di eventi in un sistema, se esse sono note in un altro sistema
E ora ci si soffermi sulla legge meccanica della somma delle velocità. Si supponga che un treno si muova alla velocità di 90 km all’ora; esso percorrerà 1500 metri ogni minuto; un viaggiatore, immobile sul treno, percorrerà cosí 1500 metri di strada ferrata ogni minuto. Si supponga ora che il viaggiatore si muova all’interno del treno nella stessa direzione del moto del treno, percorrendo 80 metri a minuto; quale sarà la sua velocità per un osservatore che si trovi fermo al suolo? 1500 + 80 metri al minuto, naturalmente rispetto alla strada ferrata. È questo, appunto, il teorema della somma delle velocità indicato con la formula W = v + w, dove W rappresenta la velocità del viaggiatore rispetto all’osservatore al suolo, v la velocità del treno e w la velocità del viaggiatore all’interno del treno. E pertanto supponendo che il viaggiatore si muova percorrendo nello stesso tempo gli 80 metri in direzione opposta a quella del movimento del treno, per quel teorema la sua velocità, per un osservatore al suolo, sarà di 1500-80 metri al minuto (W = v – w). Ma è sempre valido tale teorema? Esso è certamente verificato anche nel caso della propagazione delle onde sonore. Ma a ben vedere esso non è valido, apparentemente, in un caso, quello della propagazione della luce.
Naturalmente dobbiamo rapportare il processo di propagazione della luce, come qualsiasi altro movimento, ad un corpo di riferimento rigido sistema di coordinate). Poniamo come tale la sede stradale ferroviaria. Immaginiamo di aver creato attorno a questa un vuoto d’aria. Si lanci un raggio luminoso, lungo la sede stradale, con la velocità c. Immaginiamo che la vettura ferroviaria corra nella stessa direzione del raggio luminoso, ma naturalmente con una velocità v di gran lunga minore. Quale sarà la velocità di propagazione della luce rispetto alla vettura in corsa? Dobbiamo evidentemente applicare la considerazione di cui al precedente paragrafo di modo che il raggio di luce tenga il posto del viaggiatore in movimento rispetto alla vettura. Allora invece della velocità w del viaggiatore rispetto alla sede stradale, avremo la velocità della luce rispetto alla sede stradale sicché sarà w la velocità della luce, e si avrà w = c – v.
La velocità di propagazione della luce rispetto alla vettura risulta pertanto minore di c.
(La teoria generale della Relatività)
Ma, nota Einstein, si sa che la luce si propaga in linea retta ad una velocità c = 300.000 km al secondo; si sa poi, dagli studi dell astronomo olandese De Sitter, che tale velocità non può esser determinata dalla velocità del moto del corpo da cui la luce viene emessa; si sa pure, in base alle sperimentazioni dei due scienziati americani Michelson (1852-1931) e Morley (1839-1932), che, esaminando la velocità della luce in due direzioni diverse, essa rimane comunque identica; e infine si sa, dalle notazioni di Lorentz (1893-1928) e di Fitzgerald (1851-1901) che non esiste velocità superiore a quella della luce, per cui “qualsiasi velocità sommata a quella della luce, dà sempre una velocità uguale a quella della luce”.
Orbene, si rifletta: secondo il galileiano “principio di relatività”, la legge della costanza della velocità di propagazione della luce nel vuoto dovrebbe avere la stessa validità, sia rispetto alla vettura in corsa, sia rispetto alla sede stradale; ma la teoria della somma delle velocità lo esclude, perché nel caso prima indicato la velocità di propagazione rispetto alla sede stradale è diversa da quella rispetto alla vettura in corsa (rispetto alla vettura, essa è minore di c ). Non c’è alternativa: o si nega il principio di relatività (che però è valido per tutte le leggi generali della natura) e si ammette la legge di propagazione della luce nel vuoto, oppure si sconfessa questa legge e si assume vero il principio di relatività.
Ma, si chiede Einstein, davvero non c’è alternativa? Davvero non si può accogliere insieme quel principio e quella legge?
Poiché ogni fenomeno fisico avviene nello spazio e nel tempo, se si ammette che ogni sistema di coordinate ha un “suo” spazio e un “suo” tempo, cioè che spazio e tempo sono relativi al sistema di coordinate, e non assoluti, e se si ammette che in un sistema di coordinate spazio e tempo sono interdipendenti, allora si può mostrare sia la validità del principio galileiano di relatività, sia quella della legge di propagazione della luce. Questo è il nucleo di quella che Einstein stesso ha definito “teoria della relatività speciale, o ristretta”.
Relatività del tempo e dello spazio
Bisogna allora dimostrare la relatività del “tempo”; ciò è possibile dimostrando la relatività della “simultaneità”.
Come concepiamo la simultaneità?
Il binario della linea ferroviaria è stato colpito dalla folgore in due punti A e B, molto distanti l’uno dall’altro. Suppongo che i due colpi siano avvenuti simultaneamente.
Dobbiamo riuscire a determinare la simultaneità in modo da poter stabilire sperimentalmente se i due colpi di fulmine siano stati contemporanei o no.
Il lettore potrà proporre di costatare la simultaneità cosí: si misuri, lungo le rotaie, la distanza tra A e B e nel punto medio M si collochi un osservatore munito di un apparecchio (per esempio, due specchi inclinati a 90deg.) con cui egli possa tener d’occhio contemporaneamente A e B. Se l’osservatore percepirà nello stesso istante i due bagliori della folgore, questi saranno simultanei.
(La teoria generale della Relatività)
Ma, osserva Einstein, l’esperimento sarebbe perfetto se sapessimo già prima che la luce impiega lo stesso tempo nel percorrere BM e AM; cioè che essa percorre AM alla stessa velocità di quella con cui percorre BM; per saperlo dovremmo misurare il tempo delle due percorrenze; ma anche posto tutto ciò si esamini il caso che segue:
Fin qui abbiamo come corpo di riferimento la sede stradale ferroviaria. Supponiamo ora che sul binario marci con velocità costante c un lungo treno nella direzione indicata nella seguente figura:
I viaggiatori si valgono del treno come corpo rigido di riferimento (sistema di coordinate) al quale riferiscono tutti gli avvenimenti. Ogni avvenimento che si verifica lungo il binario, ha luogo anche in un determinato punto del treno. Possiamo applicare la nozione di simultaneità rispetto al treno cosí come l’abbiamo applicata rispetto alla sede stradale ferroviaria.
Sorge allora il quesito: le due scariche di folgore A e B, simultanee rispetto alla strada, sono anche simultanee rispetto al treno in corsa? La risposta è decisamente negativa.
Se diciamo che le scariche di folgore in A e in B sono contemporanee, Ciò significa che i raggi luminosi emananti da A e da B si incontrano nel punto medio M della sede stradale. Ma agli avvenimenti A e B corrispondono anche due punti A e B sul treno. Sia M’ il punto medio del tratto AB sul treno in corsa. Nel momento della scarica, osservata dalla sede stradale, il punto M’ coincide con M, ma esso si sposta verso destra con la velocità (v) del treno. Se l’osservatore situato in M’ sul treno non avesse velocità v, egli permarrebbe sempre in M e i bagliori uscenti da A e da B arriverebbero a lui simultaneamente, cioè coinciderebbero nella sua posizione. Invece in realtà egli si sposta velocemente rispetto alla sede stradale, muovendo incontro al raggio proveniente da B e avanzando rispetto a quello proveniente da A. Egli perciò dovrà vedere prima il raggio proveniente da B e dopo il raggio proveniente da A, e concluderà affermando che la scarica luminosa B è avvenuta prima della scarica luminosa A.
Di qui l’importante illazione: avvenimenti simultanei rispetto alla sede stradale non sono simultanei rispetto al treno, e viceversa; di qui la relatività della simultaneità; ogni sistema di riferimento ha il suo proprio tempo; un dato temporale ha senso solo in quanto si determina il corpo di riferimento al quale esso va riportato.
(La teoria generale della Relatività)
Dunque un dato temporale non è assoluto, indipendente dallo stato di moto del sistema di riferimento. Allora una legge meccanica è relativa ad un sistema di riferimento che abbia il “suo” tempo; ma essa può ritenersi valida anche in un altro sistema di riferimento, a condizione che si tenga conto che anche questo ha il “suo” tempo; pertanto può rimanere in piedi il principio galileiano di relatività, in modo che questo non contraddica alla legge di propagazione della luce e si potrà pertanto dire che detta propagazione avviene sempre a 300.000 km al secondo.
Ma ogni sistema di coordinate non ha solo il suo “tempo”, bensí anche il suo “spazio”. Si deve mostrare quindi anche la relatività dello spazio; o meglio della “distanza spaziale”.
La cosa cambia se la distanza deve essere valutata dalla sede stradale. Indichiamo con A’ e B’ i punti del treno dei quali si cerca la distanza; sappiamo che rispetto alla sede stradale essi si muovono con velocità v. Dovremo individuare i punti A e B della sede stradale che a un determinato tempo t vengono osservati (da terra) in coincidenza con A’ e B’. La distanza tra A e B si misura poi col regolo lungo la sede stradale.
A priori non si può esser certi che questa seconda misura dia lo stesso risultato della prima: misurata dalla sede stradale la lunghezza può essere diversa da quella misurata dal treno.
E infatti: se il viaggiatore nel treno percorre nell’unità di tempo (misurata dal treno) lo spazio w, questo, misurato dalla strada, può non essere uguale a w.
(La teoria generale della Relatività)
Insomma è impossibile separare la distanza spaziale dal tempo; qualunque evento è, insieme, sia spaziale che temporale, indivisibilmente; perciò è un’astrazione determinare la distanza in cui ha luogo l’evento dal tempo in cui esso avviene. Spazio e tempo non devono esser considerati né distinti né separati, ma un tutt’uno. E se lo spazio viene individuato da tre coordinate spaziali x, y, z, e il tempo da t, allora bisogna parlare di un continuo a quattro dimensioni x, y, z, t ; e ogni evento deve esser considerato in queste quattro dimensioni, in queste quattro coordinate variabili relativamente ad ogni sistema di riferimento.
Pertanto, nota Einstein:
La meccanica classica riteneva dunque, ma arbitrariamente, che:
1) la distanza di tempo tra due avvenimenti è indipendente dallo stato di moto del corpo di riferimento;
2) la distanza spaziale fra due punti di un corpo rigido è indipendente dallo stato di moto del corpo di riferimento.
Cadute queste due ipotesi il dilemma (o il Principio di Relatività, o la legge di costanza di propagazione della luce nel vuoto) scompare, e con esso cade l’assunto dell’incompatibilità tra Relatività e legge di propagazione della luce.
(La teoria generale della Relatività)
Naturalmente per far ciò si debbono “correggere” i ragionamenti relativi alla somma delle velocità. Conoscendo tempo e luogo di un evento rispetto alla sede stradale, com’è possibile determinare luogo e tempo dello stesso avvenimento rispetto al treno in corsa, senza che la legge di propagazione della luce contrasti col Principio di relatività? Basta una legge che permetta la trasformazione delle grandezze di spazio e tempo di un fatto quando si passa da un sistema di riferimento all’altro. Essa esiste, ed è la legge di trasformazione di Lorentz. Ogni avvenimento individuato rispetto a K (sistema, ad esempio, relativo alla strada ferrata) con valori x, y, z e t , può essere individuato, grazie ad un sistema di equazioni dette appunto “equazioni di Lorentz”, con valori x’, y’, z’ e t’ rispetto a K’ (sistema relativo al treno), conservando la verità che la propagazione della luce è costante sia rispetto a K che rispetto a K’.
Quali le conseguenze di questa teoria della relatività? Poiché spazio e tempo sono interdipendenti e relativi a uno specifico sistema di coordinate, un regolo ha una “misura” se sta fermo, e un’altra se è in movimento; infatti in moto esso si accorcia; inoltre le lancette di un orologio in quiete hanno una velocità superiore rispetto a quella che esse hanno quando l’orologio è in movimento. Ma la conseguenza importante si ha nella concezione della massa.
La meccanica classica distingue l’energia dalla massa e stabilisce due principi: quello della conservazione dell’energia e quello della conservazione della massa. La relatività invece fonde i due concetti, e insieme i due principi. La massa (quantità di materia) non è piú invariante, ma varia con l’aumento della velocità di un corpo in moto e aumenta proporzionalmente all’energia cinetica del corpo. Pertanto ogni energia ha una massa e ogni massa ha un’energia; sicché, in generale, c’è equivalenza di materia ed energia: in ogni corpo la massa può esser designata col valore della sua energia, e viceversa.
Un corpo in riposo possiede una massa determinata, la cosiddetta massa di riposo. La meccanica insegna che qualsiasi corpo oppone resistenza ad un mutamento del suo moto. Ma la teoria della relatività ci dice qualcosa di piú. La resistenza che i corpi oppongono ad un mutamento è tanto piú forte non soltanto quanto maggiore è la loro massa di riposo, ma altresí quanto maggiore è la loro velocità. Corpi dotati di velocità vicine a quella della luce opporrebbero resistenze enormi alle forze esterne. Secondo la meccanica classica, la resistenza di un dato corpo è invariabile e caratterizzata unicamente dalla sua massa. Nella teoria della relatività la resistenza dipende da ambo i fattori: massa di riposo e velocità del corpo. La resistenza diventa infinitamente grande, allorché la velocità raggiunge quella della luce.
(A. EINSTEIN — L. INFELD, L’evoluzione della Fisica)
Cosa che è rilevabile dall’osservazione degli atomi del radio, ad esempio, o di qualunque materia radioattiva; essi infatti si muovono a velocità enormi; c’è bisogno pertanto di forze molto grandi per “deviare” i loro elettroni dalla loro orbita, in modo che l’atomo si disintegri. Sicché tra due corpi che possiedono la stessa massa di riposo, offre maggiore resistenza quella dotata di energia cinetica maggiore.
Di qui altre conclusioni: poiché ogni energia ha una massa e ogni massa ha un’energia, un pezzo di ferro caldo, che “incorpora” piú energia di uno freddo, pesa piú di quello freddo, e inoltre il sole, emettendo energia coi suoi raggi, con la radiazione perde massa; e ancora, data l’unificazione del principio di conservazione della massa con quello di conservazione dell’energia, è possibile stabilire l’equazione E = mc(2), dove c è, naturalmente, la velocità della luce.
La teoria della relatività generale
Ma Einstein non limitò la sua indagine teorica alla scoperta della relatività del tempo e dello spazio. Egli infatti si pose questo quesito: le leggi naturali possono avere un’identica formulazione e una stessa validità rispetto a qualunque corpo di riferimento mediante la trasformazione di Lorentz, ma solo limitatamente ai sistemi cosiddetti galileiani, il cui moto è rettilineo ed uniforme; ora, è possibile delineare una teoria della relatività che sia valida per tutti i sistemi, anche per quelli che si muovono con moto di diversa natura? Ossia, dato che la teoria della relatività finora delineata è “ristretta” ad un caso particolare di sistemi in movimento, è possibile formulare una teoria “generale”, valida ad esempio anche per i sistemi dotati di moto uniformemente accelerato? La risposta di Einstein fu positiva: “È possibile stabilire che tutti i sistemi di riferimento (K, K’…ecc) sono equivalenti ai fini della descrizione dei fenomeni naturali, qualunque sia la loro condizione di moto”.
Poniamoci sul treno in moto uniforme, sediamoci; seduti, non avvertiremo il moto, anzi potremo credere che la vettura stia ferma e che sia la strada a correre sotto di noi, cosa, questa, conforme al Principio speciale di relatività. Ora, improvvisamente, per una brusca frenata, il moto non è piú uniforme: io che viaggiavo seduto subisco una brusca spinta in avanti.
L’accelerazione – positiva o negativa – della vettura si manifesta nel comportamento del mio corpo rispetto a questa: comportamento del tutto diverso dall’altro precedentemente descritto, per cui sembra doversi escludere che rispetto alla vettura che si muove non uniformemente valgano le stesse leggi meccaniche valide per la vettura in quiete o in moto uniforme.
È chiaro allora che rispetto alla vettura che viaggia con moto non uniforme non vale il principio di Galilei.
(La teoria generale della Relatività)
Per sciogliere questo nodo Einstein invita a considerare un nuovo concetto, cioè quello di “campo”.
Se lasciamo cadere a terra un sasso e ci chiediamo il perché del fenomeno, in genere rispondiamo: perché esso è attratto dalla terra.
La fisica moderna dà una risposta alquanto diversa, giacché lo studio dei fenomeni elettromagnetici ci impone di concludere che in natura in ogni azione a distanza interviene un mezzo intermediario. Per esempio, se una calamita attrae un pezzo di ferro non ci si deve limitare a credere che essa abbia una diretta azione sul ferro attraverso lo spazio vuoto, ma si deve immaginare, con Faraday, che esso suscita nello spazio circostante una certa realtà fisica che si chiama “campo magnetico”.
Ed è questo campo che agisce sul pezzo di ferro, e lo fa muovere verso la calamita.
In modo analogo si concepisce anche la forza di gravitazione. La terra agisce sul sasso indirettamente: essa produce intorno a sé un campo di gravitazione che agisce sul sasso e ne provoca la caduta. Via via che ci si allontana dalla Terra, l’intensità – e l’esperienza lo prova – di azione su un corpo diminuisce secondo una legge ben precisa. Ciò significa per noi che la legge che regola le proprietà spaziali del campo gravitazionale deve essere esattamente determinata in modo da descrivere con precisione la progressiva diminuzione dell’azione gravitazionale via via che aumenta la distanza. Possiamo immaginare il fenomeno cosí: il corpo, per es. la terra, comporta intorno a sé un campo; sarà appunto la legge che regola le proprietà spaziali dei campi di gravitazione a determinare intensità e direzione del campo in zone via via piú lontane dal corpo.
Il campo gravitazionale, a differenza dell’elettrico e del magnetico, presenta una sua caratteristica peculiare assai importante per quanto diciamo appresso. I corpi, che si muovono sotto l’azione esclusiva del campo gravitazionale, acquistano un’accelerazione che non dipende affatto né dalla materia né dallo stato fisico del corpo. Un pezzo di piombo e un pezzo di legno cadono nello stesso identico modo, in uno spazio vuoto d’aria, se partono ambedue dallo stesso stato di quiete o con la stessa velocità iniziale.
Se, come insegna l’esperienza, in un campo gravitazionale l’accelerazione non dipende dalla natura del corpo né dal suo stato fisico, il rapporto tra massa inerziale e massa ponderale deve essere uguale per tutti i corpi... Quindi la massa ponderale (o gravitazionale) di un corpo è uguale alla sua massa inerziale.
La meccanica classica accettò questa legge, ma senza offrirne una interpretazione. Un’interpretazione soddisfacente si può avere solo riconoscendo che una stessa qualità di un corpo si manifesta secondo le circostanze come inerzia o come peso.
(La teoria generale della Relatività)
Sulla base di questo concetto di “campo” si faccia questa ipotesi:
Immaginiamo una vasta zona di spazio vuoto abbastanza lontano dai corpi celesti e da altre masse considerevoli… Sia, per noi, corpo di riferimento un’immaginaria cabina, entro la quale si trovi un osservatore munito di apparecchi. Naturalmente per questo osservatore non c’è gravità: egli deve essere assicurato con corde al pavimento, altrimenti al primo urto con questo volerebbe verso il soffitto della cabina.
Supponiamo che al centro del tetto, all’esterno, sia infisso saldamente un gancio a cui venisse legata una corda; supponiamo ancora che su questa corda agisse un essere – non importa saperne la natura – che con forza costante tiri in su. La cabina, e con essa l’osservatore, comincerà a salire con moto uniformemente accelerato, e se potessimo collocarci in un altro sistema di riferimento non collegato alla cabina, vedremmo che questa – con l’osservatore interno – acquisterebbe una velocità enormemente crescente.
Ma l’osservatore nella cabina come giudicherà il movimento? L’accelerazione della cabina gli viene comunicata dal pavimento mediante una spinta che egli riceve, se è in piedi, attraverso le gambe. Egli starà ritto nella cabina come qualunque uomo nella stanza della sua casa sulla terra. Se lascia andare un oggetto che aveva in mano, questo non subirà piú l’accelerazione impressa dal moto della cabina, ma cadrà sul pavimento con moto relativo accelerato. L’osservatore si convincerà che l’accelerazione verso il pavimento sarà sempre la stessa, qualunque sia il corpo col quale egli fa questo esperimento. Cosí l’uomo in cabina, utilizzando la cognizione che egli ha del campo gravitazionale, trae la conclusione che egli si trova con la cabina in un campo gravitazionale costante nel tempo. Per un momento egli rimarrà meravigliato dal fatto che la cabina non sia attirata in questo campo gravitazionale, ma poi si accorgerà del gancio fissato sul tetto e della fune che vi è legata e ne trarrà la conclusione logica che la cabina è immobile nel campo gravitazionale.
(La teoria generale della Relatività)
Dall’esempio indicato della cabina, dunque, si può ricavare il principio di equivalenza: gli effetti di un campo gravitazionale uniforme, quello della terra, e quelli prodottisi in un sistema uniformemente accelerato, quello della cabina, sono equivalenti; infatti è possibile stabilire che se la cabina subisce un movimento accelerato di m. 9,81 al secondo quadrato, si verificano in essa gli stessi fenomeni che hanno luogo sulla terra. Dunque è possibile indicare, in generale, delle equazioni valide per individuare un fenomeno in qualsiasi sistema di riferimento, qualunque sia il tipo del suo moto Pertanto un qualsivoglia fenomeno che ha luogo in un sistema di coordinate K, attraverso calcoli può esser determinato nei termini in cui esso viene considerato da un osservatore in un sistema K’ che si muova di moto accelerato rispetto a K, supponendo che su K’ agisca un campo gravitazionale che influisca in termini conoscibili sull osservazione del fenomeno stesso.
Non ci addentreremo nell’esame delle conseguenze connesse alla teoria della relatività generale. Ricorderemo solo quelle, indicate pure da Einstein, relative al comportamento di regoli situati su un corpo rotante (dunque non in moto rettilineo) su se stesso. Un regolo posto al bordo del disco, tangenzialmente, considerato da un osservatore fuori del disco e in quiete su un corpo di riferimento non rotante, è piú corto di quello “uguale” che l’osservatore ha in mano; e se un operatore posto sul disco misurasse con quel regolo circonferenza e diametro del disco stesso e ponesse in rapporto i due valori, otterrebbe un numero maggiore di 3,14, che sarebbe quello – costante – che si otterrebbe dal rapporto e con lo stesso regolo si misurasse la circonferenza ed il diametro dello stesso disco in stato di quiete. Ma la cosa piú importante è che su un disco rotante il regolo con cui si effettuano le misurazioni cambierà grandezza a seconda del punto del disco in cui viene usato, e pertanto viene compromesso il rigore della geometria euclidea, in quanto su quel disco è impossibile utilizzare, ad esempio, il concetto euclideo di linea. Tutto ciò comporta che non è possibile definire le coordinate spaziali di un punto qualsiasi rispetto al disco, che si basano appunto sulla geometria euclidea, e che sono valide solo per un sistema riferito a un corpo rigido e immobile o supposto tale. Di qui, afferma Einstein, non bisogna trarre la conclusione che la Relatività generale è contraddittoria con se stessa e con la Relatività ristretta; occorre piuttosto abbandonare le coordinate cartesiane e la concezione euclidea di spazio. Nella sua ricerca egli trova nelle coordinate gaussiane la possibilità di estendere il criterio delle coordinate cartesiane anche a continui non euclidei.
WISDOM
John Terence Dibben Wisdom (1904-1993) fu docente a Cambridge dal 1952 come successore alla cattedra che fu prima di Moore e poi di Wittgenstein. Il suo pensiero può essere ripartito in due fasi: fino alla metà degli anni Trenta, Wisdom dedicò particolare attenzione all’analisi logica di Bertrand Russell e ritenne che ufficio del filosofo fosse operare la riduzione degli oggetti e innanzitutto dei dati d’esperienza a relazioni primarie, evitando in tal maniera di appesantire l’ontologia col richiamo a entità superflue. Fedele dunque al principio del “rasoio” di Ockham, Wisdom concepisce gli oggetti materiali soltanto come costruzioni logiche e ciò gli consente di sottrarsi alla concezione empiristica secondo cui essi sarebbero dei veri e propri dati sensoriali. Questa posizione però non presenta alcun rilievo ontologico, giacché Wisdom non arriva mai ad affermare che tale è la costituzione del reale: egli si limita a sostenere che, nel parlare di oggetti, noi possiamo fare più opportunamente ricorso a un linguaggio che parli di altri elementi più semplici e originari. Ciò è da Wisdom sostenuto in opere come Interpretazione e analisi (1931) e in Costruzioni logiche (una raccolta di saggi apparsi su The Mind fra il 1931 e il 1933). Successivamente, dopo aver accolto una nutrita serie di obiezioni mossegli dall’empirismo logico (indirizzate soprattutto contro l’atomismo russelliano e le posizioni wittgensteiniane del Tractatus logico-philosophicus), Wisdom cambiò rotta e, in opere come Perplessità filosofica (1936) e Metafisica e verificazione (1938), andò sostenendo che il compito della filosofia era identificare le motivazioni che ci inducono a scegliere un determinato insieme di concetti, che segnano cioè la nostra adesione a determinate posizioni speculative. L’inevitabile conseguenza che scaturisce da questi sviluppi è che la filosofia deve esclusivamente chiarificare fatti e comportamenti e non censurarli: il pensiero comune e quello scientifico presentano dei paradossi, causati dalla confusione tra i diversi livelli e usi del linguaggio che andrebbero mantenuti distinti. Il paradosso non è che un’argomentazione tipica della filosofia tradizionale e soprattutto della metafisica che, benché abbia un procedimento deduttivo, non è conclusiva e consente di sostenere si ala tesi sia l’antitesi. Le questioni che presentano questa forma antinomica sono però insensate, ma sono dotate di una loro specifica validità e richiedono un particolare metodo risolutivo, conducendo per tale via a una nuova e più alta comprensione di quel che è già noto. In certi casi (peraltro piuttosto diffusi), proprio tali paradossi hanno dimostrato insospettata fecondità per la crescita della conoscenza e per il raggiungimento di livelli di consapevolezza sempre più alti, come nota Wisdom in Paradosso e scoperta (1965). In questa stessa direzione, egli non intende produrre un rifiuto neppure della metafisica, poiché, benché essa non sia in grado di sollevare la stragrande maggioranza dei problemi che essa stessa solleva e benché rappresenti uno stato patologico del soggetto che la esercita, ciò non di meno essa riesce a fornire stimoli decisivi per la riflessione.
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FRIEDRICH AUGUST VON HAYEK
Friedrich August von Hayek (Vienna 1899 – Friburgo 1992), premio Nobel per l’economia nel 1974, è uno dei più grandi esponenti del neoliberalismo novecentesco e uno dei maggiori critici dell’economia pianificata e centralista. Egli fu per molto tempo docente alla London School of Economics, dove si è distinto per l’amicizia con Karl Popper e per l’opposizione alle tesi favorevoli allo “Stato sociale” del noto economista John Maynard Keynes: è autore di una nutrita serie di scritti che spazia dal campo economico a quello socio/politico e filosofico. Nel 1944, egli pubblica un libro che gli dà una grande notorietà, Verso la schiavitù, dedicato “ai socialisti di tutti i partiti”, in cui, tra le altre cose, accusa il socialismo di avere idee impraticabili e di essere stato la radice del nazismo. Nel 1949 Hayek si trasferisce negli Stati Uniti, dove permane fino al 1962, insegnando presso l’Università di Chicago. Del 1960 è l’opera che può considerarsi un vero e proprio classico del pensiero liberale del Novecento, Constitution of Liberty. Nel 1962 egli torna in Europa per insegnare presso l’Università di Friburgo. Tra il 1973 e il 1979 appare la sua opera più importante, in tre volumi: Law, Legislation and Liberty; in essa, tra l’altro, denuncia la tirannide del moderno parlamentarismo e argomenta sulla pericolosità dell’idea di giustizia sociale per la sopravvivenza della nostra civiltà. La filosofia politica di Hayek è interamente costruita sull’ideale di libertà individuale e sulla stretta connessione – come ha rilevato Norberto Bobbio – tra libertà economica e libertà senza altri aggettivi. La libertà è sempre una condizione che riguarda la persona in quanto individuo, equipaggiato di una sfera privata attorno a sé che gli altri non possono valicare. La libertà è allora essenzialmente assenza di interferenza o di coercizione esterne. Quando l’uomo è costretto a seguire dei fini impostigli dagli altri e non dal proprio libero esercizio intellettuale, ecco che allora si riduce a uno stato di schiavitù. In tale prospettiva, Hayek mette in luce come anche chi vivesse negli agi e nell’opulenza (ad esempio, un cortigiano) o in mezzo a un popolo che partecipa alle scelte del proprio governo (come nei regimi democratici novecenteschi) non per questo deve credersi libero. Da ciò appare comprensibile la concezione “negativa” che Hayek ha della libertà, intesa come assenza di costrizione esterna: in ciò, egli è in perfetta sintonia più con la tradizione liberale inglese del Settecento (in primis con Locke) che con quella continentale europea (Kant innanzitutto). Ciò che più interessa a Hayek è dunque la libertà concepita come protezione mediante la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria (freedom from) e non come rivendicazione del diritto di ognuno di partecipare alla determinazione della forma di governo (freedom to). In tale impostazione, acquista grande rilievo il discorso sullo Stato, che deve avere essenzialmente un ruolo secondario e negativo, deve intervenire il meno possibile nell’ambito di autonomia individuale e deve garantire, grazie a leggi generali, il pieno dispiegarsi delle libertà individuali, assicurando solide barriere a difesa dei “territori” dei singoli individui. La proprietà privata, intesa lockeanamente come diritto alla “vita, alla libertà e ai beni”, è, di conseguenza, il fondamento di ogni civiltà evoluta. A tal proposito, Hayek scrive che essa
“è la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti. Legge, libertà, proprietà sono una trinità inseparabile. Non vi può essere alcuna legge, nel senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d’azione, stabilendo regole che permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire” (Law, Legislation and Liberty).
Come risulta da tali affermazioni, lo Stato dev’essere esso stesso soggetto alla legge, che è l’unica garanzia della libertà individuale. In tema di legge, Hayer distingue innanzitutto la “legge” (avente carattere generale e universale) dalla “legislazione” concreta, riguardante le singole norme o i comandi che perseguono fini specifici e interessi di gruppo. A suo avviso, un esempio di legge generale è il divieto di uccidere un altro individuo, mentre il comando di non uccidere in un ben determinato caso ha a che fare con la legislazione di uno Stato. Altri esempi di leggi astratte e generali sono quelle messe in luce, a suo tempo, da Hume: la stabilità del possesso dei beni, la cessione per comune consenso, il mantener fede alle promesse. Hayek sottolinea come la legge non riguardi casi individuali, mentre la legislazione si componga di provvedimenti amministrativi voluti dalla maggioranza parlamentare per fini particolari o, più spesso ancora (soprattutto nelle democrazie moderne), per fini elettorali. È un gravissimo errore – nota Hayek – identificare la legge con la legislazione, come spesso si fa: infatti, la legislazione dipende dal governo, mentre la legge è da esso svincolata e, anzi, rappresenta la norma che ogni governo deve osservare. Sulle orme di Locke, Hayek nutre la convinzione che, dove finisce la legge, là inizia la tirannide, con l’inevitabile conseguenza che la sfera legislativa dei governi dev’essere limitata dal “governo della legge” (rule of law):
“L’imperio della legge […] comporta dei limiti al campo della legislazione; esso lo restringe a quel tipo di regole generali cui si tributa il nome di leggi formali ed esclude la legislazione che miri direttamente a persone determinate o che metta in grado qualcuno di usare il potere coercitivo dello Stato ai fini di una tale discriminazione. Esso non significa che tutto deve essere regolato dalla legge, ma significa all’opposto che il potere coercitivo dello Stato può essere usato soltanto in casi anticipatamente definiti dalla legge e in maniera tale che si possa prevedere come sarà impiegato” (Verso la schiavitù).
Da ciò risulta che Hayek pensa che un governo possa intervenire legittimamente nella vita dei suoi cittadini soltanto per far rispettare le norme generali, ossia le norme che servono a proteggere “la vita, la libertà, i beni”. Lo Stato diventa coercitivo nella misura in cui interferisce in qualche modo con la libertà degli individui di perseguire i propri scopi e di realizzare i propri personali piani di vita:
“Ciò che distingue radicalmente le condizioni di un paese libero da quelle di un paese sottoposto a un governo arbitrario è il fatto che nel primo si osserva il grande principio denominato l’imperio della legge. Spogliato da ogni tecnicismo, esso significa che il governo, in tutte le sue azioni, è vincolato da regole fisse e annunziate in anticipo, regole che danno la possibilità di prevedere con ragionevole sicurezza in qual modo l’autorità userà i suoi poteri coercitivi in determinate circostanze, e di indirizzare i propri affari individuali sulla base di tale cognizione” (Verso la schiavitù).
Una delle forme più diffuse di interferenza è sicuramente la legislazione in materia di giustizia sociale, la quale tende a modificare la posizione economico/sociale delle persone favorendo (ad esempio attraverso la tassazione) le persone meno agiate. Su questa tematica, la posizione di Hayek è assai drastica: le persone svantaggiate (i poveri, gli ammalati, i portatori di handicap, le vedove, gli orfani, ecc) debbono essere protetti da una “rete” che assicuri loro il minimo necessario alla sopravvivenza, ma ciò deve avvenire al di fuori del libero mercato e non come intervento correttivo del mercato da parte della legislazione. Assicurare un reddito minimo a tutti è, secondo Hayek, un dovere della società libera: ma ciò deve verificarsi tramite l’assistenza e non cambiando in modo artificiale le regole del mercato. Tra i vari compiti dello Stato, spicca quello di costruire strade, fissare indici di misura, di fornire altri tipi di informazioni (attraverso mappe e cartelli stradali, ad esempio) e di controllare il controllo sulla qualità dei beni e dei servizi. Ma riguardo ad altri servizi, come ad esempio quello postale, quello dell’istruzione e delle telecomunicazioni, il monopolio dello Stato è pernicioso al massimo, oltre che inefficiente. Da questa posizione, ben emerge l’immensa fiducia nel libero mercato che, pur non funzionando sempre in modo perfetto, presenta benefici che superano di gran lunga gli svantaggi. Indubbiamente suggestionato dalla “mano invisibile” di cui parlava Adam Smith, Hayek è convinto che il mercato riesca ad armonizzare in maniera spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e coi desideri dei consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando altresì quella che Hayek chiama la “Grande Società”, cioè la moderna società complessa, che sfugge a ogni pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al meccanismo della concorrenza. La politica, concepita come sistema decisionale e governativo, resta allora sempre e comunque un metodo imperfetto rispetto al libero mercato. Queste idee implicano ovviamente una riconsiderazione della democrazia, la quale agli occhi di Hayek dev’essere esplicitamente condannata quando diventa “governo della maggioranza dotato di potere illimitato” (Law, Legislation and Liberty). In una siffatta prospettiva, il filosofo viennese propone di sostituire il termine “democrazia” (che significa “potere del popolo”, dal greco kratoV e dhmoV) con “demarchia”. Infatti, il verbo greco kratein (avere potere, dominare) – nota Hayek – “al contrario del verbo alternativo arcein (usato nei composti quali monarchia, oligarchia, ecc) sembra sottolineare la forza bruta, piuttosto che il governare secondo regole”. L’espressione “democrazia” deve essere allora sostituita da quella “demarchia”:
“Questo sarebbe il nuovo nome di cui ha bisogno, se si vuole preservare l’ideale alla sua radice, in un’epoca in cui, dato il crescente abuso del termine democrazia per designare sistemi che tendono alla creazione di nuovi privilegi attraverso coalizioni o interessi organizzati, un numero sempre crescente di persone si allontana dal sistema prevalente […]. Se tale reazione giustificata contro l’abuso del termine non si vuole che porti a discreditare l’ideale stesso, e a far accettare alla gente disillusa forme di governo molto meno desiderabili, sembra necessario avere un nuovo termine come ‘demarchia’ che descriva l’antico ideale con un nome non macchiato da un lungo abuso” (Law, Legislation and Liberty).
E Hayek si propone anche di indicare gli organi costituzionali che questa demarchia dovrebbe avere:
a) un’Assemblea legislativa, composta da uomini e donne tra i 45 e i 60 anni (ossia dalle persone più esperte) che restino in carica per quindici anni, col compito di assicurare il quadro generale delle libertà individuali, impedendo ogni forma di coercizione arbitraria sulla sfera privata;
b) un’Assemblea governativa, che corrisponda lato sensu ai parlamenti, i cui membri (suddivisi in partiti) siano eletti periodicamente col fine di occuparsi degli interessi particolari.
La fiducia smisurata di Hayek nel libero mercato si coniuga con un’incessante polemica contro l’economia pianificata e dirigista del comunismo e contro l’eccesso di interventismo del Welfare State. Tale polemica si sostanzia non solo di motivazioni di ordine economico o della persuasione dell’inesistenza di una mente collettiva in grado di possedere tutte le conoscenze necessarie per la regolamentazione di una società complessa, ma anche di ragioni etiche, politiche ed esistenziali:
“Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi” (Verso la schiavitù).
Deriva di qui il nesso imprescindibile fra liberalismo politico e liberismo economico: i due liberalismi sono strutturalmente uniti e ogni distinzione fra essi dev’essere – nota Hayek – respinta senza mezzi termini.
DAVID LEWIS
Traduzione di Keroppi dell’articolo apparso su The Guardian, 23 Ottobre 2001
David Lewis (nato il 28 Settembre 1941, morto il 14 Ottobre 14 2001, all’eta’ di 60 anni.) e’ famoso soprattutto per il suo “Realismo Modale”, la teoria secondo cui i mondi possibili non sono soltanto un apparato concettuale per spiegare la possibilita’ e la necessita’, ma sono entita’ concrete e reali come lo e’ il nostro stesso universo. Lewis ha anche avanzato teorie innovative sulle leggi scientifiche, la probabilita’, la causalita’, l’identita’, le teorie funzionali nella mente, la convenzione linguistica e una grande varietà di altri argomenti. Insieme, le sue idee in campi cosi’ disparati formano un grandioso quadro onnicomprensivo , e molti dei suoi ammiratori lo considerano uno dei piu’ grandi metafisici di questi (e forse di tutti) i tempi. Nato a Oberlin, Ohio, Lewis era studente nello Swathmore College,Pennsylvania, inizialmente in chimica. Mentre trascorreva un semestre a Oxford, frequento’ le lezioni di Gilbert Ryle, che aveva messo in discussione l’esistenza della mente in un libro assai controverso, “The concept of Mind”. Lewis ne fu cosi’ entusiasta che decise di cambiare materia e dedicarsi alla filosofia appena tornatato in America. Dopo la laurea nel 1964, comincio’ il dottorato ad Harvard sotto la supervisione del di Willard Orman Quine. Fin da quando era ricercatore, Lewis ebbe un enorme influenza nel mondo filosofico. La teoria allora dibatutta che aveva sostituito il comportamentismo analitico di Ryle sosteneva che gli stati mentali, in ultima analisi, non sono altro che processi fisici nel cervello. J. J. C. Smart, uno degli iniziatori della teoria dell’identita’ degli stati fisici e mentali, visito’ Harvard nela meta’ degli anni 60: “Ho insegnato a David Lewis,” dira’ successivamente, “o meglio, David Lewis ha insegnato a me”. (Da cui l’espressione, divenuta proveribiale, che “Lewis outsmarted Smart”). Nel 1966, un anno prima di ottenere il dottorato, Lewis scrive l’articolo “Un Argomento per la Teoria dell’Identita”, che migliorava considerevolmente la posizione di Smart. Com’e’ tipico di Lewis, non solo ha penetrato il cuore della questione, ma la anche sviluppata in una direzione del tutto nuova e originale. Nel tentativo di respingere l’obiezione del dualismo del senso comune secondo cui “le esperienze sono non-fisiche e fisicamente inefficaci” ha sostenuto che le esperienze dovrebbe essere (e in fatti lo sono implicitamente) definite in termini di quel che fa tipicamente da intermediario tra le cause di certi stimoli e gl i effetti di certi comportamenti. Il dolore, per esempio, e’ “qualsiasi cosa” leghi un certo input sensoriale (un pugno in un occhio, per es.) a un outpout comportamentale (piangere , urlare, ecc.) e ad altri stati mentali (desiderio impellente di sopprimere la causa del dolore). La neuroscienza alla fine mostrera’ che quel “qualsiasi cosa” causale e’ un particolare stato neurochimico del cervello, proprio come (scrive Lewis nell’articolo 1972, “Psychophysical and Theoretical Identifications) un detective che conosce dettagliamente i ruoli–ma non le identita’–dei cospiratori coinvolti in un omicidio alla fine sara’ in grado di stabilire con esattezza l’identita’ dei cospiratori. Allo stesso tempo Lewis stava reimpostando il dibattito in tutte le altre aree della filsosofia analitica. Nel 1966, “Convention, A Philosophical Study” (la sua tesi di dottorato) copre terreno inesplorato nella filosofia del
linguaggio, e resta un lavoro di enorme rilievo. Conseguito il dottorato, diventa assistente nell’Universita’ di California, Los Angeles, professore associato a Princeton nel 1970, e professore tre anni dopo. In “Controfattuali” (1973) e in molti articoli pubblicati prima del libro, ha elaborato la sua controversa teoria del realismo modale, che si esprime con pienezza in “La Pluralita’ dei Mondi” (1986). Da quando Leibniz per primo formulo’ l’idea nel XVII secolo, i filosofi hanno sempre trattato i mondi possibili come una nozione puramente concettuale, utile per spiegare i concetti della possibilita’ e necessita’. Tutto cio’ che possiamo concepire coerentemente puo’ essere considerato un “mondo possibile” (o una parte di un mondo possibile), ma se qualcosa e’ necessariamente vero, allora e’ vero in tutti i mondi possibili. Ma secondo Lewis i mondi possibili non sono puramente concettuali, ma reali–esistono nello stesso modo in cui esiste il nostro universo, e non sono da esso diversi se non nei dettagli di cio’ che vi accade. “Gli abitanti di altri mondi possono veridicamente chiamare il proprio mondo attuale, se per ‘attuale’ intendono cio’ che intendiamo noi”, proprio come “gli abitanti di altri tempi possono chiamare il loro tempo presente, se per ‘presente’ intendono cio’ che intendiamo noi”. Dopo tutto, “il nostro tempo presente e’ soltanto uno tra tanti”. “Attuale” dunque e’ sullo stesso piano di “io”, “qui” e “ora”: cio’ a cui si riferisce dipende da chi lo dice e dal mondo in cui e’ detto. E’ questa la cosiddetta “Teoria Indessicale dell’Attualita'”. Per quanto riguarda i controfattuali–i condizionali ipotetici che vertono su cio’ che avrebbe potuto essere—il controfattuale “Se la guardia non avesse attivato l’allarme, sarebbe stata uccisa”, per esempio, e’ vero se e solo esiste un mondo possibile in cui la guardia non attiva l’allarme ed e’ uccisa, che e’ piu’ simile al nostro mondo di tutti quelli in cui la guardia non attiva l’allarme e non e’ uccisa. Naturalmente, la guardia che viene uccisa in un altro mondo e’ soltanto una controparte del suo equivalente nel mondo attuale, anche se entrambe giocano ruoli simili nei loro rispettivi mondi. (“Logica delle Controparti”). Non c’e’ nessuna connessione spaziale, temporale o causale tra mondi possibili alternativi e il nostro. Postulare la realta’ dei mondi possibili vuol dire proiettare la metafisica al di fuori della logica, e quando Lewis difendeva questa posizione veniva guardato con un “incredulous stare”–uno sguardo incredulo. Questa espressione e’ diventata una specie di proverbiale espressione filosofica, nonche’ il titolo di una sezione della “Pluralita’ dei Mondi”. Eppure, nonostante “lo sguardo incredulo” dei suoi oppositori, il realismo sui mondi possibili, secondo Lewis, e’ l’unico modo effi cace per attribuire un senso e un’interpretazione alla logica modle.
Presto l’incredulita’ diede il via a una caterva di obiezioni e contro-obiezioni, prodotte in quantita’ industriale. Resta il fatto che, qualunque cosa siano davvero i mondi possibili (e praticamente quasi nessuno e’ disposto ad accettarne la realta’ concreta), cio’ non intacca il modo brillante e sofisticato in cui Lewis ha utlizzato la semantica dei mondi possibili per analizzare nozioni problematiche come la causalita’, gli universali, il contenuto del pensiero, le properita’ e le relazioni, la probabilita’, la natura delle proposizioni. Il realismo modale ha mietuto i problemi come una trebbiatrice (per parafarsare un suo ammiratore e collega), non solo in filosofia ma anche in semantica, semiotica, linguistica, teoria dei giochi, ed economia.
Talvolta Lewis parla come se scoprisse le sue teorie tramite un processo eurisitico di tentativi ed errori. Nell’introduzione al secondo volume dei suoi Philosophical Papers (1986) ha scritto che, come ogni altro filosofo analitico, si e’ impegnato ad affrontare i problemi “a pezzi” separati, ma che ha finito quasi inavvertitamente col produrre una tesi coerente e unificata. Questa tesi e’ quella che ha chiamato la Sopravvenienza Humeana, secondo cui il mondo e’ un vasto mosaico di fatti particolari, e ad ogni istante, cio’ che esiste, e tutto cio’ che si puo’ affermare veridicamente su di esso, dipende dalla configurazione che questi fatti esemplificano–proprio come un quadro pointillista in cui il dipinto e’ determinato dalla distribuzione dei pigmenti. Nulla di cio’ che accade in un punto fissa logicamente cio’ che accade in qualsiasi altro punto, ma la totalita’ di cio’ che accade fissa tutto il resto. Ogni teoria di Lewis sembra convergere su questa tesi, ma per sua stessa ammissione c’e’ un baco, un “big bad bug” nel sistema: l’interpretazione della probabilita’ oggettiva, che potrebbe sovvertire l’intera impalcatura. Questo e’ un problema che ha affrontato appassionatamente fino alla fine. Lewis ha espresso le sue idee in un prosa solida, lucida e vivace, sia oralmente che per iscritto, ma curiosamente era incapace di chiacchierare del piu’ e del meno. Timido, pallido, col barbone a due punte, era soprannominato affettuosamente “La Macchina nel Fantasma” (invertendo la nota espressione di Ryle contro il dualismo). Ma poteva essere un uomo divertente e sorprendente, specialmente per iscritto, e i suoi esempi filosofici sono arguti senza essere mai faceti o compiacenti. Un famoso articolo, “Il Dolore del Folle e del Marziano” (“Mad Pain and Martian Pain”) mette a paragone un alieno la cui risposta a uno stimolo doloroso e’ il rigonfiamento di cavita’ idrauliche nei suoi piedi, con un pazzo la cui reazione invece e’ di totale indifferenza. Lewis era incredibilmente modesto per essere uno dei filosofi piu’ influenti della sua generazione: sempre disponibile a rispondere alle critiche e generoso con gli studenti. Forse proprio questo fastidio per la pretenziosita’ e le convezioni accademiche lo portarono ad amare l’Australia. I suoi contatti con i teorici australiani Jack Smart e David Armstrong lo condussero a stabilire una connessione duratura con quel paese, dove e’ diventato una figura filosofica di culto. Quasi ogni anno lui e sua moglie Steffi vi si trattenevano per due o tre mesi, diventando appassionati delle regole del football australiano (Lewis e’ stato sepolto con il biglietto stagionale del club Essendon), delle ballate, degli uccelli e dei treni australiani. Ma le ferrovie inglesi restavano sempre le sue favorite: avrebbe viaggiato su treni inglesi solo per il piacere di farlo. Il pian terreno di casa sua era occupato da una ferrovia in miniatura, con cui pochi altri privilegiati avevano il permesso di giocare, e i muri erano stati abbattuti per farcela entrare. Quando gli chiesero perche’ non aveva una carta di credito, ha risposto: “perche’ non voglio essere in debito.” Lewis ha restituito rispettabilita’ filosofica alla metafisica sistematica. Come Hume, ha cercato di conciliare una concezioe scientifica del mondo con cio’ che effettivamente appare ai nostri sensi. Ha chiamato se’ stesso “un ragazzo di comune buon senso” (eccetto, ovviamente per quel che riguarda la realta’ dei mondi possibili). L’ultimo articolo su cui stava lavorando impiega la semantica dei mondi possibili per collegare l’identita’ personale all’immortalita’. Questo forse potra’ non suonare improntato al “common sense”, ma e’ molto pregnante per le persone che lo amavano come uomo e come filosofo.
CHARLES MORRIS
Sulla scia dell’opera innovatrice della semiotica di Peirce, Charles Morris (1901-1979) è considerato l’inventore della semiologia o semiotica, la disciplina che studia la natura dei segni: studioso di George Herbert Mead presso l’università di Chicago, egli rivestì un ruolo di gran rilievo nel tentativo di creare – negli anni Trenta – una “connessione Viennese” con il pragmatismo americano, nel tentativo di spiegare e render più chiaro quest’ultimo facendo ricorso al “fondazionalismo” promosso da Carnap e dagli altri neo-positivisti. Morris è il filosofo americano che con maggior decisione e creatività si impegna fin dagli anni trenta ad innestare le posizioni neo-positiviste maturate a Vienna – nel famoso “Circolo” – sul tronco del pragmatismo americano. In seguito alle persecuzioni perpetrate da Hitler, i maggiori esponenti del “Circolo di Vienna” avevano trovato riparo negli Stati Uniti, facendo per tal via entrare in dialogo il neo-positivismo con le filosofie americane d’orientamento pragmatista. Nato a Denver – nel Colorado – nel 1901, Morris si forma all’interno della Scuola di Chicago, che vantava tra i propri membri pensatori del calibro di Dewey; nel 1931 Morris inizia ad insegnare a Chicago, ma poi si trasferisce presso l’università di Harvard e del Texas. Il suo grande contatto coi neo-positivisti europei avviene in occasione dei congressi internazionali di filosofia della scienza tenutisi a Praga nel 1934 e a Parigi nel 1935: qui egli collabora alla titanica impresa dell’Enciclopedia della scienza unificata promossa da Neurath e da Carnap, scrivendo nel 1938 un saggio, Lineamenti di una teoria dei segni, che costituisce la prima incisiva formulazione della semiotica della quale Morris avrebbe in seguito offerto una più matura ed efficace sistemazione nell’opera Segni, linguaggio e comportamento del 1946. Già nel 1937, Morris aveva pubblicato una raccolta di saggi, Positivismo logico, pragmatismo ed empirismo scientifico, nella quale aveva prospettato un empirismo scientifico risultante dall’integrazione dell’orientamento logico/formalistico dei neo-positivisti con quello biologico-sociale dei pragmatisti. Morris è convinto – e questa è appunto la convinzione che sta alla base della sua indagine filosofica – che la semiotica occupi un ruolo fondamentale nella scienza dell’uomo, giacchè – come egli asserisce in uno scritto del 1948 (The Open Self):
“L’uomo è l’unico essere che vive nella misura in cui vive in un mondo di segni. Questo è il mare in cui nuota il pesce umano, questo è il suo elemento naturale. Altri animali sono indubbiamente sensibili a certe cose come segni di altre cose, ma ciò che per essi è casuale ed episodico, per l’uomo è essenziale e costante. Mentre altri organismi si muovono a seconda dei segni che il mondo procura, l’essere umano si trasforma e trasforma il mondo per mezzo di segni che egli stesso produce […]. Nella capacità di plasmarsi attraverso i segni che produce, l’uomo è unico. La misura dei suoi segni è la misura della sua libertà”.
Ben si capisce, allora, perché Morris fondi la disciplina semiotica su una premessa biologico-comportamentistica, per la quale le espressioni linguistiche non devono essere considerate per se stesse, bensì ricondotte ai comportamenti umani, valorizzandone così tutta la rilevanza pragmatica, come il neopositivismo europeo non si era preoccupato di fare. In sintonia con questa prospettiva, l’indagine semiotica non deve ridursi – come aveva voluto il neo-positivismo – all’analisi del linguaggio scientifico, ma estendersi a tutti i diversi usi linguistici, al fine di classificare i vari tipi di discorso a cui ricondurre i molteplici aspetti del comportamento umano. Del resto, Morris va sostenendo che per “segno” non si devono intendere solo le parole, ma ogni oggetto o evento che venga impiegato per richiamare un qualsiasi altro oggetto o evento. Muovendo dalla comune constatazione che “un segno si riferisce a qualcosa per qualcuno”, Morris distingue, all’interno della semiosi, quattro componenti: 1) il veicolo segnico (ciò che agisce come segno), 2) il designatum (ciò cui il segno si riferisce) , 3) l’interpretante (l’effetto in forza del quale il segno agisce come segno sull’interprete), 4) l’interprete (la persona per cui il segno ha funzione di segno). Considerando il processo semiotico, Morris rileva che in esso v’è “un qualcosa che si rende conto di un altro qualcosa in modo mediato, ossia per mezzo di un terzo qualcosa. La semiosi, di conseguenza, è un rendersi-conto-mediatamente-di-qualcosa. Mediatore è il veicolo segnico; il rendersi-conto-di è l’interpretante; chi nel processo agisce è l’interprete; ciò di cui ci si rende conto è il designante” (Lineamenti di una teoria dei segni). Da una siffatta analisi, risulta chiaro come il linguaggio (il quale è un particolare tipo di sistema segnico) non possa mai esaurirsi soltanto nella dimensione sintattica della quale aveva detto Carnai, la quale si occupa solamente delle combinazioni dei segni “a prescindere dalle loro specifiche significazioni e delle loro relazioni col comportamento in cui hanno luogo” (Lineamenti di una teoria dei segni). Accanto a questa dimensione e intrecciate con essa, vi sono appunto anche la dimensione semantica (come rapporto del segno al designatum) e la dimensione pragmatica o biologica (come rapporto del segno con gli interpreti, con le loro aspettative e con le loro esigenze). È proprio in riferimento a quest’ultima dimensione che il linguaggio si rivela nella sua concretezza di comportamento vitale consistente nel reagire dell’uomo agli stimoli per mezzo della mediazione di un segno. In linea col behaviorismo (la scuola di psicologia moderna di orientamento antisoggettivistico nata negli USA a partire dal 1913 con Watson -, Morris tiene conto soltanto delle risposte alle provocazioni segniche che risultino identificabili con modificazioni oggettive dell’organismo corporeo, escludendo ogni riferimento a fatti interiori. Ciò gli permette di sposare il progetto fisicalista (prospettato da Neurath e Carnap) di un comune linguaggio scientifico con cui redigere l’enciclopedia del sapere unificato. Se dapprima (ai tempi della pubblicazione dei Lineamenti di una teoria dei segni, 1938) Morris appariva orientato a fare della semiotica un organum della filosofia, con la funzione di analizzare i diversi linguaggi, nel più maturo scritto Segni, linguaggio, comportamento, finisce col prevalere in lui la tendenza antifilosofica a concepire la semiotica come una scienza biologica, del tutto disancorata dalla filosofia (“la semiotica non è una parte della filosofia, ma della scienza, essendo il linguaggio della filosofia soltanto una parte del suo campo d’indagine”). In quanto ricerca meramente scientifica, “la semiotica né si fonda, né implica necessariamente una particolare filosofia”. Del resto, la filosofia stessa “non è limitata alla semiotica, poiché il suo discorso non si limita al discorso scientifico […]. Una filosofia è un’organizzazione sistematica che comprende le credenze fondamentali: credenze sulla natura del mondo e dell’uomo, su ciò che è bene, sui metodi da seguire per raggiungere la conoscenza, sul modo in cui la vita dev’essere vissuta. Il filosofo si trova dinanzi asserzioni di fatto, apprezzamenti di valore, prescrizioni di condotta propri del mondo della sua cultura. E organizza criticamente queste asserzioni, apprezzamenti e prescrizioni entro un ampio sistema di credenze”. Inoltre, Morris attribuisce alla semiotica l’importante funzione di tutela della libertà dell’individuo in una società in cui questi è sempre più condizionato, fino a subire un autentico assedio da parte dei messaggi della pubblicità e della propaganda. Dotare l’individuo della conoscenza della natura, dell’uso e dell’efficacia dei segni, può aiutare ad una giusta protezione della vita individuale e sociale dalla sempre rinnovantesi pressione aggressiva, massificante e mistificante dei linguaggi che la percorrono. Gli altri individui – scrive Morris in Segni, linguaggio, comportamento – della società cercano di raggiungere i loro scopi investendoci con una “continua pressione di segni” volti ad indicarci come agire, a cosa credere, cosa approvare, cosicché ciascuno di noi tende a diventare “un burattino mosso da segni, passivo nei riguardi delle proprie credenze, valutazioni e attività”. In The open self (1948), Morris affronta la possibilità, da parte dell’uomo, di costruire una società in cui ognuno riesca a compiere e vedere in atto ogni sua facoltà. Ogni individuo ha determinate caratteristiche che lo differenziano dal resto dei suoi simili, e per questo necessita di libertà diverse, anche se ciò non vuol dire repressione dell’altro. Morris individua comunque, sulla base dell’antropologia fisica, delle costanti corporee che classificano l’umanità intera in tre gruppi principali: mesomorfi, endomorfi, ectomorfi. Il tipo mesomorfico è caratterizzato da un corpo forte e slanciato, quello endomorfico da un corpo morbido e tendente al pingue, mentre quello ectomorfico dalla gracilità. Tali caratteristiche fisiche per Morris influenzerebbero la sfera psichica. Analizzando un corpo sarebbe possibile conoscere anche l’atteggiamento che un qualcuno ha nei confronti del mondo. Così i mesomorfi sarebbero attirati dal potere, gli endomorfi alla concordia conviviale, gli ectomorfi dall’ascetismo e dalla chiusura. E’ anche vero che i vari tipi si trovano per lo più mescolati nei vari individui e ciò complica le cose.
GIOVANNI REALE
Giovanni Reale è nato a Candia Lomellina (Pavia) il 15 aprile 1931. Ha frequentato il Ginnasio e il Liceo Classico statale a Casale Monferrato (AL). Si è formato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ove si è laureato con Francesco Olgiati. Successivamente si è perfezionato studiando a Marburg an der Lan e a Monaco di Baviera.
Dopo un periodo di insegnamento nei licei, ha vinto una cattedra presso l’Università di Parma, ove ha tenuto i corsi di «Filosofia morale» e di «Storia della Filosofia». Poi è passato all’Università Cattolica di Milano, dove è stato a lungo ordinario di «Storia della Filosofia Antica» e dove ha anche fondato il «Centro di Ricerche di Metafisica», luogo in cui si sono formati la maggior parte dei suoi allievi. Da quest’anno è passato a insegnare alla nuova facoltà di Filosofia del San Raffaele di Milano, ove ha intenzione di fondare un nuovo Centro Internazionale di Ricerche su Platone e sulle radici platoniche del pensiero e della civiltà occidentale.
La sua tesi di fondo è la seguente: la filosofia greca ha creato quelle categorie e quel peculiare modo di pensare che ha consentito la nascita e lo sviluppo della scienza e della tecnica dell’Occidente.
I suoi interessi scientifici spaziano lungo tutto l’arco del pensiero antico pagano e cristiano, e i suoi contributi di maggior rilievo hanno toccato via via Aristotele, Platone, Plotino, Socrate e Agostino. Egli ha studiato ognuno di questi autori andando in un certo senso contro-corrente, ed inaugurandone una lettura nuova.
La rilettura che Reale ha dato di Aristotele ha messo in crisi l’interpretazione ormai consolidata di Werner Jaeger, secondo il quale gli scritti aristotelici seguono positivisticamente un andamento storico-genetico che parte dalla teologia, passa per la metafisica e approda infine alla scienza; Reale ha mostrato invece la fondamentale unità del pensiero metafisico dello Stagirita.
Per quel che riguarda Platone, Reale, importando in Italia gli studi della scuola platonica di Tubinga, ha messo in crisi l’interpretazione romantica di Platone stesso, che risale a Friedrich Schleiermacher, e ha rivalutato il senso e la portata delle cosiddette «dottrine non scritte», vale a dire gli insegnamenti che Platone ha tenuto solo oralmente all’interno dell’Accademia e che conosciamo dalle testimonianze dei discepoli; in questo senso, Platone risulta essere il testimone e l’interprete più geniale di quel peculiare momento della civiltà greca che passava dalla cultura dell’oralità a quella della scrittura.
Per quel che riguarda Plotino, Reale ha demolito la tesi di fondo di Eduard Zeller, che vedeva nel grande neoplatonico il principale teorico del panteismo e dell’immanentismo; al contrario, Reale ha riletto Plotino come il campione della trascendenza metafisica dell’Uno.
L’interpretazione che Reale ha dato di Socrate, analogamente, risolve le aporie della cosiddetta «questione socratica», entrata in un vicolo cieco dopo gli studi di Olof Gigon, secondo cui di Socrate non possiamo sapere nulla con certezza; Reale ha inaugurato un nuovo modo di interpretare Socrate, non solo cercando di risolvere dall’interno le testimonianze contraddittorie degli allievi, ma soprattutto guardando al contesto della filosofia greca prima di Socrate e dopo di Socrate: in questo modo balza agli occhi la scoperta socratica del concetto di «psyche» come essenza e nucleo pensante dell’uomo.
Infine, per quanto riguarda Agostino, gli studi di Reale tendono a ricollocare questo autore nel contesto neoplatonico della tarda antichità e quindi nel momento dell’impatto del Cristianesimo con la filosofia greca, scrostandolo di tutte le interpretazioni successive dell’agostinismo medioevale.
Oltre al campo specifico della filosofia antica e tardo-antica, Reale si è occupato a vario titolo anche della storia della filosofia generale: per esempio, nella stesura del noto manuale per i licei scritto insieme a Dario Antiseri e nella direzione delle collane filosofiche «Classici della Filosofia» e «Testi a fronte» della Bompiani.
Reale ha tradotto in italiano e commentato molte opere di Platone, di Aristotele e di Plotino (la sua nuova edizione delle Enneadi è uscita da poco per la collana “I Meridiani” della Mondadori); oltre a questo, i suoi principali scritti sono i seguenti: Il concetto di filosofia prima e l’unità della Metafisica di Aristotele (1961); Storia della filosofia antica in 5 volumi (1975, più volte riedita); Per una nuova interpretazione di Platone (1991); Saggezza antica (1996); Eros demone mediatore (1997); Platone. Alla ricerca della sapienza segreta (1997); Corpo, anima e salute (1998); Socrate. Alla scoperta della sapienza umana (1999); Il pensiero antico (2001).
Tra le numerose onorificenze ricevute, ricordiamo le lauree honoris causa dell’Accademia Internazionale di Filosofia del Liechtenstein, dell’Università Cattolica di Lublino, dell’Università di Stato di Mosca; il Premio “Roncisvalle” dell’Università di Navarra, la cittadinanza onoraria di Siracusa. Giovanni Reale ritiene che la cifra spirituale che caratterizza il pensiero occidentale sia costituita dalla filosofia creata dai Greci. E’ stato infatti il logos greco a caratterizzare le due componenti essenziali del pensiero occidentale e precisamente a fornire gli strumenti concettuali per elaborare la Rivelazione cristiana e a creare quella peculiare mentalità da cui sono nate la scienza e la tecnica. Ma se la cultura occidentale non si capisce senza la filosofia dei Greci, questa a sua volta non si capisce senza la metafisica come studio dell’intero. Il lavoro che Reale svolge, studiando i grandi pensatori del passato, vuole servire a un confronto con la metafisica antica e moderna.La preferenza che accorda a Platone dipende dal fatto che il filosofo ateniese è, con la “seconda navigazione” di cui parla nel Fedone, il vero creatore di questa problematica. Giovanni Reale, che della filosofia antica è uno dei massimi studiosi a livello mondiale, si fa portavoce di “un meditato ritorno alle radici della nostra cultura” attraverso la riproposta dei classici, in particolare Platone. Di quest’ultimo, Reale – in sintonia con la Scuola di Tubinga – dà un’interpretazione rivoluzionaria, mettendo in luce la primaria importanza delle dottrine non scritte (agrafa dogmata) di cui riferiscono gli allievi di Platone stesso (Aristotele in primis). Nel suo celeberrimo scritto Per una nuova interpretazione di Platone (1997), Reale fa affiorare l’immagine di un Platone diverso, un Platone orale e – in certo senso – dogmatico: del resto, non è forse Platone stesso (ad esempio nella Lettera settima) a garantirci che la sua filosofia dev’essere ricercata altrove rispetto agli scritti? Lo stesso corpus degli scritti platonici, giuntoci nella sua interezza (circostanza unica nella storia del pensiero), non presenta quell’unitarietà sistematica che ci si dovrebbe attendere: il che, ancora una volta, depone a favore della tesi secondo cui il vero Platone andrebbe cercato altrove, e precisamente nelle “dottrine non scritte”. Attentissimo studioso anche della Metafisica di Aristotele, Reale smaschera la tesi fatta valere da Jaeger, secondo cui l’opera non presenterebbe un’unitarietà ma sarebbe piuttosto una sorta di “zibaldone filosofico” (e, in particolare, il libro XII risalirebbe – in forza del suo spiccato interesse teologico – alla giovinezza dello Stagirita): lungi dal risolversi in un coacervo di scritti risalenti a differenti epoche e contesti, la Metafisica di Aristotele – rileva Reale in Il concetto di filosofia prima e l’unità della metafisica di Aristotele (1961) – è un’opera profondamente unitaria, al cui centro v’è la definizione della metafisica – che è a) scienza delle cause e dei princìpi primi, b) scienza dell’essere in quanto tale, c) scienza della sostanza, d) scienza teologica, e) scienza della verità. Nel suo scritto Saggezza antica (1995), Reale va sostenendo che “tutti i mali di cui soffre l’uomo d’oggi hanno proprio nel nichilismo la loro radice” e che, dunque, “un’energica cura di questi mali implicherebbe il loro sradicamento, ossia la vittoria sul nichilismo, mediante il recupero di ideali e valori supremi, e il superamento dell’ateismo”. Ma quello che egli propone “non è affatto un ritorno acritico a certe idee del passato, ma l’assimilazione e la fruizione di alcuni messaggi della saggezza antica, che, se ben recepiti e meditati, possono, se non guarire, almeno lenire i mali dell’uomo d’oggi, corrodendo le radici da cui derivano” (Saggezza antica). In una siffatta prospettiva, può acquistare un valore eminentemente filosofico anche il pensiero di Seneca, ingiustamente trascurato da una lunga tradizione che non gli ha riconosciuto alcuna cittadinanza filosofica: in La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, Reale riprende, ancora una volta, l’idea che la filosofia degli antichi – in questo caso, quella di Seneca – possa costituire un farmaco per l’animo dilaniato dell’uomo moderno. Tra i più brillanti discepoli di Giovanni Reale, vanno sicuramente ricordati Roberto Radice, esperto del pensiero di Filone di Alessandria e dell’età ellenistica (in particolare dello Stoicismo) e Giuseppe Girgenti, massimo conoscitore del pensiero di Porfirio – Il pensiero forte di Porfirio (1995), Introduzione a Porfirio (1997) – e attento studioso del Neoplatonismo, oltre che traduttore di numerose opere porfiriane.
MEAD
A cura di D. Corini, modificato a cura di D. Fusaro
“Non conosco altri modi in cui l’intelligenza o la mente potrebbero sorgere o essere sorte se non attraverso l’interiorizzazione da parte dell’individuo dei processi sociali dell’esperienza e del comportamento” (“Mente, Sé e Società”, Giunti Barbera, Firenze 1972, p.203).
Introduzione
Al cuore della riflessione di Georg Herbert Mead (1863-1931) stanno le nozioni di “mind”, di “self” e di “society”, che possono essere rese in italiano, rispettivamente, con “spirito”, “autocoscienza” e “società”. Queste tre nozioni danno il titolo al celebre scritto di Mead: Mind, Self, and Society. Sensibile all’influenza dei pragmatisti (specie di John Dewey) e del cosiddetto “comportamentalismo”, Mead è convinto che si agisca in base al principio per cui a uno stimolo proveniente dall’ambiente si attua una reazione adeguata: in particolare, nel caso dell’uomo, tra lo stimolo e la reazione si colloca il simbolo, coordinandosi col quale si orienta il proprio agire. Il “self” e il “mind”, lungi dall’essere innati, vengono sviluppati nel tentativo di adattarsi all’ambiente che ci sta intorno. In particolare, la società è resa possibile da tale sviluppo. Il “mind”, spiega Mead, presenta tre caratteristiche fondamentali: a) usa simboli per caratterizzare gli oggetti del mondo; b) sceglie tra possibilità di azione alternative; c) è capace di rimuovere le situazioni inadeguate e di seguire quelle adeguate. L’esistenza della società dipende esattamente dalla capacità di vagliare alternative e selezionare azioni che rendano possibile, anziché frenarla, la cooperazione tra gli uomini. Mead sofferma la sua attenzione su come il “mind” si sviluppi a partire dalla nostra infanzia: da un’ampia gamma di gesti possibili, il neonato seleziona quelli che gli assicurano la sopravvivenza. Si tratta, in particolare, di quei gesti che il mondo circostante, ossia la famiglia, può comprendere . La selezione dei gesti da parte del neonato può avvenire o per un processo di “trial and error” (prova e riprova) oppure per un “training” diretto dai genitori stessi. È in questa maniera che i gesti acquistano un significato comune per il bambino e per la sua famiglia, assumendo la forma di “gesti convenzionali” (“conventional gestures”). Tali gesti condivisi permettono al bambino di comunicare con precisione i desideri e i bisogni, garantendogli la sopravvivenza. Ciò segna un grande passo avanti nello sviluppo del “self” e del “mind”: infatti, la capacità di interpretare gesti è la capacità “di assumere la prospettiva dell’altro” (“to take the role of the other”). Senza tale capacità, sarebbe impossibile la cooperazione che caratterizza ogni società. Tra l’altro, tale capacità implica che l’individui consideri anche se stesso dal punto di vista dell’altro: in questo modo, l’Io può meglio valutare le conseguenze del suo agire nei confronti dell’Altro. Mead è convinto che, tra le peculiarità della specie umana, vi sia quella di fare di se stessa un oggetto di rappresentazione, oggettivandosi. L’interpretazione di gesti è la condizione non solo dell’umana cooperazione, ma anche dell’autoriflessione e dell’autovalutazione. Le differenti impressioni che ci formiamo nelle diverse situazioni nelle quali interagiamo con gli altri si condensano in un quadro più o meno stabile del nostro “self”: così, per fare un esempio banale ma chiarificante, se a un bambino si dice che è una nullità, egli crescerà senz’altro con un “self” insicuro. Secondo Mead, i livelli di sviluppo del “self” sono tre: a) il “gioco” (“play”), tramite il quale il bimbo apprende ad assumere la prospettiva di suoi compagni di gioco (i genitori); b) il “gioco” (“game”), nel quale si acquistano più immagini diverse del proprio “self” (all’asilo, a scuola, coi compagni, ecc); c) l’“altro generalizzato” (“generalised other”). In questo modo, gli individui acquistano la prospettiva di una “comunità di attitudini” (“community of attitudes”), grazie alla quale cooperano con gente diversa immedesimandosi in essa. La società non è se non l’interazione organizzata dei singoli individui: essa, lungi dall’essere frutto del caso, è coordinata e necessita del “mind”, giacché non si potrebbe agire coordinatamente senza assumere ruoli e possibilità d’azione. Ma, oltre che di autocoscienza (“mind”), la società, per poter sussistere, ha bisogno anche di individui che sappiano assumere il punto di vista altrui, ossia ha bisogno di individui che abbiano sviluppato il “self”. Per render conto dell’incessante mutamento che coinvolge la società, Mead impiega le categorie del “Me” e dell’“I”. Il soggetto non è soltanto una mera autocoscienza impenetrabile agli influssi esterni: accanto alla dimensione coscienziale dell’“I”, c’è il “Me”, vale a dire la concezione che gli altri hanno di me e, pertanto, è l’interiorizzazione delle aspettative che gli altri hanno nei miei confronti. L’idea di Mead è, a questo proposito, che siamo ciò che gli altri vogliono che siamo: detto altrimenti, introiettiamo le aspettative degli altri e su di esse modelliamo la nostra identità, anticipando costantemente, in tal modo, le aspettative altrui. Di fronte a più persone, il soggetto svilupperà un ampio corredo di “Me” diversi che debbono venir sintetizzati in un quadro coerente. Solo quando tale sintesi avviene con successo, può formarsi il “self”, l’identità personale in quanto unità strutturale orientata alla cooperazione. Così inteso, il “self” è la sintesi, armonicamente equilibrata, dei diversi “Me”.
Vita
George Herbert Mead nacque a South Hadley (Massachussets) nel febbraio del 1863 e morì a Chigago nell’Aprile del 1931. Figlio di Hiram Mead, ministro e pastore della Chiesa congregazionale del suo paese, ed Elisabeth Storrs Billings. Nel 1980 divenne professore di omelitica al seminario Teologico di Oberlin nell’Ohio. Dal 1980 al 1900 ricoprì la carica di rettore del Mount Holyoke College di South Hadley. Mead entrò nel College di Oberlin nel 1879 e si laureò nel 1883, qui divenne un entusiasta studente di letteratura ,(si interessò a Wordsworth, Carlyle, Shakespeare, Keats) poesia e storia ( concentrandosi sugli scritti di Macauley, Buckle ) e pubblicò un articolo su Charles Lamb nel 1882.
Mead trascorse il resto della sua vita a Chicago , fu assistente di un professore di filosofia dal 1894 al 1902 e professore associato dal 1902 al 1907, professore ordinario dal 1907 fino alla suo morte. In questi anni diede notevoli contributi sia alla psicologia sociale che alla filosofia, ma il maggior contributo Mead lo diede nel campo della psicologia sociale con il suo tentativo di mostrare come l’IO umano si presenta nel processo di interazione sociale in particola modo nel campo della comunicazione linguistica. (interazione simbolica). Nel campo della filosofia Mead fu uno del maggiori Pragmatisti americani.
Teorie Sociali
Mente e Comunicazione
In Mind, Self and Society, Mead descrive come la mente di ogni individuo e l’Io si presentano fuori dal processo sociale, analizzando l’esperienza dal punto di vista della comunicazione come necessaria all’ordine sociale. La psicologia individuale per Mead è intelligibile solo nei termini dei processi sociali, lo sviluppo dell’Io individuale e la sua stessa coscienza è preminentemente sociale; infatti, la mente si innalza nel processo sociale della comunicazione e non può essere compresa fuori da quel processo. Il processo di comunicazione implica due fasi:
1) la comunicazione fatta di gesti,
2) il linguaggio,
entrambi presuppongono un contesto sociale entro il quale due o più individui interagiscono tra loro.
Mead introduce l’idea della comunicazione fatta di gesti con il suo famoso esempio della lotta tra cani (i cani si avvicinano in un atteggiamento ostile portando avanti un linguaggio fatto di gesti, si girano intorno, ringhiano e scattano in avanti e aspettano il giusto momento per attaccare; il comportamento di ogni cane fa da stimolo all’altro cane a reagire, si stabilisce quindi una relazione tra i due; il fatto stesso che un cane sia pronto ad attaccare l’altro stimola l’altro cane a cambiare la sua propria posizione e il suo atteggiamento). L’ individuo è inconsapevole delle reazioni degli altri ai suoi gesti ed è incapace di rispondere ai suoi stessi gesti dal punto di vista degli altri. L’individuo che partecipa alla conversazione dei gesti sta comunicando ma non sa che lo sta facendo perché la conversazione dei gesti è una comunicazione inconscia.
Il linguaggio è comunicazione attraverso simboli significativi: per esempio un simbolo significativo può essere un gesto (generalmente un gesto vocale).
Mead descrive il processo comunicativo come un atto sociale poiché esso richiede necessariamente almeno due individui che interagiscono tra di loro.
L’atto della comunicazione ha una struttura triadica :
1) il gesto iniziale da parte di un individuo;
2) la risposta a quel gesto da un secondo individuo;
3) il risultato dell’ azione iniziata con il primo gesto. Non c’è nessun significato indipendente della partecipazione interattiva di due o più individui.
Naturalmente l’individuo può anticipare le risposte degli altri e può perciò consciamente ed intenzionalmente fare dei gesti che faranno uscir fuori le risposte appropriate, quelle che si desiderano negli altri. Questa forma di comunicazione è abbastanza differente da quella che si verifica nella conversazione dei gesti.
La coscienza del significato è che questo permette all’individuo di rispondere ai suoi stessi gesti come fossero le risposte degli altri: un gesto è un’azione che implica una reazione e la reazione è il significato di un gesto. I gesti diventano simboli importanti quando implicitamente stimolano un individuo a dargli le stesse risposte che loro esplicitamente suppongono. C’è una certa ambiguità nell’uso che Mead fa dei termini meaning (significato) e significance (importanza) la questione è: può un gesto essere significativo senza essere importante (eloquente, rilevante)? Ma se il significato di un gesto è la risposta a quel gesto allora c’è senso nella conversazione dei gesti. Mead parla anche della natura del “comportamento sociale” (social behaviorism), dove la mente è un emergente che va oltre l’interazione degli individui naturali inseriti in una matrice sociale. La mente non è una sostanza separata dal corpo, dice Mead, ed è d’accordo con i behaviouristi i quali sostengono che noi possiamo spiegare la mente in base a come ci comportiamo. La mente si manifesta quando c’è un’interazione tra l’organismo umano e il suo ambiente sociale (tra l’uomo e l’ambiente). Non c’è mente e neppure pensiero senza il linguaggio. Ci sono due modelli di atto nella filosofia generale di Mead :
1 l’atto come tale
2 l’atto sociale;
Atto come tale
Nell’atto come tale, Mead parla di atto come determinante nella relazione tra l’individuo e il suo ambiente, (la realtà diventa un campo di situazioni).
L’atto si sviluppa in quattro stadi :
1) impulso;
2) percezione;
3) manipolazione
4) realizzazione
Quello che interessa in questa descrizione è che l’individuo non è solo destinatario passivo di influenze ambientali ma è capace di agire in relazione a queste influenze, egli ricostruisce le sue relazioni con l’ambiente attraverso la percezione che non è altro che la relazione tra l’organismo e il suo ambiente. La percezione si presenta quando un individuo cerca di risolvere dei problemi che sono emersi nella sua esperienza: si tratta di problemi che vengono determinati dallo stesso individuo.
L’Atto Sociale
L’Organismo sociale non è un individuo organico ma un gruppo di organismi individuali: l’individuo umano è un membro di un organismo sociale e le sue azioni devono essere osservate in un contesto di azioni sociali che coinvolgono altri individui. Nella psicologia sociale la società viene prima dell’individuo, e non il contrario, (la parte viene spiegata nei termini dell’intero). Quindi l’atto sociale è un complesso dinamico, un processo organico dentro il quale l’individuo è collocato. Mead definisce l’atto sociale in relazione all’oggetto sociale. L’atto sociale è un atto collettivo che implica la partecipazione di due o più individui e l’oggetto sociale è un oggetto collettivo che ha un significato comune per ogni partecipante nell’azione. Ci sono diverse specie di azioni sociali alcuni sono semplici altri complessi dipende dall’interazione di due o più individui.
L’Io e l’Altro
L’Io è un emergente sociale, questa concezione sociale comporta che gli individui stessi siano i prodotti dell’interazione sociale: l’Io è qualcosa che ha uno sviluppo, non si trova lì dalla nascita ma si innalza nel processo delle esperienze sociali, si sviluppa con il risultato delle relazioni a quel processo. L’Io è un processo riflessivo, la riflessività è importante perché fa distinguere l’Io dagli altri oggetti e dal corpo, (il corpo e gli altri oggetti non sono oggetti in sé, mentre l’Io lo è).
La riflessività dell’Io distingue la coscienza umana da quella animale. A tal proposito, Mead fa notare due usi del termine “coscienza”: 1) può indicare una certa coscienza di sentimento (che è il risultato della sensibilità di un organismo al suo ambiente; 2) “coscienza” come consapevolezza.
L’autocoscienza è il risultato di un processo nel quale l’individuo take gli atteggiamenti degli altri verso se stesso e tenta di vedere se stesso dal punto di vista degli altri.
L’interazione simbolica e la comparsa dell’Io
La comparsa sociale dell’Io viene sviluppata attraverso tre forme di attività intersoggettive:
language, non è solo un meccanismo necessario della mente ma anche la prima fondazione sociale dell’Io.
Play dove un bambino svolge il ruolo di un altro e agisce come se egli stesso fosse l’altro (fingere di fare il dottore, l’infermiera, l’indiano ecc).
Game riguarda una forma un po’ più complessa del ruolo del giocatore che deve interiorizzare i ruoli di tutti gli altri che sono implicati con lui nel gioco. Il gioco è teatro del processo sociale ed anche strumento di controllo sociale. Ciò che accade nel gioco accade anche nella vita del bambino: egli assumerà gli atteggiamenti di quelli che stanno intorno a lui, e inoltre assumerà i ruoli di quelli che in un certo senso lo controllano e dal quale egli dipende. Il bambino diventa parte del gioco e il gioco rappresenta una situazione sociale nella quale lui può completamente entrare.
Il Me e l’Io
Partendo dai presupposti dell’evoluzionismo darwiniano che aveva informato anche Dewey, Mead formula una teoria dell’emergenza del Sé, cioè della coscienza, dal rapporto dalle interazioni sociali. Queste interazioni che hanno sempre funzione comunicativa, sono dapprima puramente gestuali (come negli animali e negli uomini primitivi), poi linguistiche. Il linguaggio è espresso dall’uso di “simboli significativi” cioè tali da avere lo stesso significato sia per chi li usa sia per il loro destinatario, consentendo l’immedesimazione del primo nel secondo e viceversa. Proprio l’abitudine a compiere questa identificazione ha causato il sorgere del Sé che non è quindi né una sostanza metafisica, né una funzione individuale, ma un portato comportamentale dell’intercomunicazione linguistica. All’interno del Sé, Mead distingue poi tra il Me, che esprime i comportamenti del gruppo sociale interiorizzati dall’individuo e aventi su di lui la funzione di controllo sociale (lo “spirito” di Dewey), e l’Io, che rappresenta la componente di spontaneità e di originalità insita nella risposta dell’individuo all’ambiente e costituisce quindi, la condizione per la modificazione dei rapporti sociali. Sebbene l’Io sia un prodotto dell’interazione socio-simbolica, esso non è semplicemente un riflesso passivo dell’altro generalizzato: la risposta dell’individuo al mondo sociale è attiva. Lui decide quello che farà alla luce degli atteggiamenti degli altri.
Ci sono due momenti nell’Io:
1) la fase che riflette l’atteggiamento dell’altro generalizzato,
2) la fase che risponde all’atteggiamento dell’altro generalizzato.
Qui Mead distingue tra il Me è l’Io sociale: l’Io è una risposta al Me. L’ Io è la risposta dell’organismo agli atteggiamenti degli altri. Il Me è l’insieme degli atteggiamenti degli altri che uno stesso assume. Mead definisce il Me come un individuale abituale e l’Io come la nuova risposta dell’individuale all’altro generalizzato.
Il Me è l’interiorizzazione dei ruoli che derivano sia dai processi simbolici sia dall’interazione tra il linguaggio, la scena e il gioco. Sebbene l’Io non sia oggetto di esperienza immediata è in un certo senso conoscibile. L’Io viene colto nella memoria, esso è il soggetto che diventa ora un oggetto di osservazione . Noi possiamo comprendere il significato strutturale e funzionale dell’Io ma non possiamo osservarlo direttamente perché esso appare solo ex posto facto. L’Io appare come un oggetto simboleggiato nella nostra coscienza delle nostre azioni passate: ma allora l’Io è diventato parte del Me, quindi il Me è in un certo senso quella fase del Sé che rappresenta il passato. L’Io, che è una risposta al Me, rappresenta l’azione nel presente ed implica la ristrutturazione del Me nel futuro. L’ Io è determinabile solo dopo che è accaduto. L’ Io e il Me esistono in una relazione dinamica l’uno con l’altro. Per Mead sia L’ Io che il Me sono aspetti essenziali al Sé nella sua piena espressione.
La Dialettica del Sé e dell’Altro
Il Sè è di grande importanza nella società organizzata, mentre l’Altro generalizzato è il maggiore strumento di controllo sociale, è il meccanismo attraverso il quale la comunità ottiene il controllo sulla condotta dei membri individuali. Il controllo sociale è l’espressione del Me contro l’espressione dell’Io. La genesi del Sè nel processo sociale è una condizione di controllo sociale, il Sé è un emergente che mantiene la coesione del gruppo, la volontà individuale viene armonizzata attraverso i mezzi di una realtà ben definita. Ci sono due dimensioni nella teoria sociale di Mead: l’interiorizzazione degli atteggiamenti degli altri verso se stesso e verso gli altri e l’interiorizzazione degli atteggiamenti degli altri verso gli aspetti dell’attività sociale comune. Il sé fa riferimento ai progetti sociali e ai traguardi. E’ con i mezzi del processo di socializzazione che l’individuo è portato ad assumere gli atteggiamenti degli altri nel gruppo: e gli altri sono coinvolti con lui nelle sue attività sociali. Il sé è perciò uno dei più sottili ed efficaci strumenti di controllo sociale. Però questo controllo sociale ha dei limiti, uno di questi limiti è il fenomeno dell’Io. Il sé emerge nelle relazioni sociali con gli altri individui coinvolti in un dato posto di progetti sociali. Mead delinea due tipi di gruppi sociali nelle comunità: ci sono le classi sociali concrete o sottogruppi nelle quali i membri individuali sono direttamente collegati l’uno con l’altro; e poi ci sono le classi sociali astratte o sottogruppi dove i membri individuali sono collegati l’uno con l’altro più o meno indirettamente. Le descrizioni che Mead fa delle relazioni sociali riguardano anche le relazioni tra i consensi e i conflitti nella società. Ci sono due modelli di conflitto-consenso nelle analisi che Mead fa delle relazioni sociali e sono: 1) Intra group consensus; 2) Extra group Conflict. Nel primo modello i membri di un dato gruppo sono uniti in opposizione ad un altro gruppo che è caratterizzato come un nemico comune di tutti i membri del primo gruppo; il nemico comune è centrale ed è il maggior punto di riferimento dell’intra group consensus. Il secondo modello si occupa della descrizione del processo nel quale l’individuo reagisce contro il suo stesso gruppo. L’individuo si oppone al suo gruppo appellandosi ad una comunità superiore. L’intra group conflitto continua con l’extra group consensus. Mead parla poi dell’interazione temporale tra il consenso e il conflitto. I conflitti umani spesso portano a soluzioni che creano nuove forme di consenso. Allora quando capitano tali conflitti, questi possono determinare intere ricostruzioni di situazioni sociali particolari.
La ricostruzione della società comporterà la ricostruzione del sé.
La percezione e la riflessione: la teoria di Mead della prospettive
Una prospettiva è il mondo nelle sue relazioni con l’individuo e l’individuo nelle sue relazioni con il mondo, una prospettiva quindi è una situazione dove un evento percettivo esiste in relazione ad un ambiente favorevole.
L’esperienza di distanza
Gli oggetti percettibili sono significativi nella realizzazione dell’atto, questi oggetti sono distanti dall’individuo percepibile, loro sono altrove, non qui, non ora, la distanza è spaziale e temporale. Mead parla di oggetti percettibili come di piani di azione che controllano l’azione dell’individuo. La prontezza dell’individuo di mettersi in contatto con gli oggetti distanti è ciò che Mead chiama atteggiamento terminale che non è altro che un’implicita manipolazione di un oggetto distante. Nell’immediata esperienza percettibile, l’oggetto distante è collocato nel futuro, il contatto con l’oggetto distante è implicito. L’atto di percezione comporta atteggiamenti terminali, la promessa di un oggetto distante crolla in un ipotetico ora dove l’individuo che percepisce e l’oggetto di percezione esistono simultaneamente. La distanza temporale tra l’individuo e l’oggetto è sospesa e la sospensione del tempo permette reazioni alternative all’oggetto che viene esaminato nell’immaginazione. L’individuo che percepisce prevede una varietà di modi nel quale un dato oggetto potrebbe essere manipolato. I fondamenti di percezione sono distanze di oggetti spazio temporali che giacciono fuori dell’area di manipolazione.
Le Prospettive
Mead parla di qualità primarie di un oggetto che sono quelle soggette a precisi calcoli matematici; mentre le qualità secondarie di un oggetto sono quelle radicate nella sensibilità di un organismo percettibile e non sono oggettivamente quantificabili. Le qualità primarie (numeri, posizioni) sono lì nell’oggetto, ma le qualità secondarie sono reazioni soggettive all’oggetto. Il crollo della teoria sulle qualità è portato avanti da George Berkeley, il quale dice che qualsiasi cosa noi conosciamo degli oggetti la sappiamo sulle basi della percezione, le qualità primarie e secondarie sono comprese nella sensazione, e le qualità primarie non sono percepite se non insieme alle qualità secondarie. Quindi entrambe queste qualità sono derivano dalla percezione e sono idee nella mente. Quando noi conosciamo le qualità primarie di un oggetto ciò che noi sappiamo sono le nostre proprie idee e sensazioni. Mead ci offre una descrizione sulla separazione delle qualità primarie e secondarie, c’è una propensione da parte dell’individuo che agisce a ridurre gli oggetti che sono distanti nell’aria di contatto. La teoria delle prospettive in effetti è un tentativo di rendere chiari gli obbiettivi dell’esperienza percettiva. Nella concezione relazionale di Mead dell’esistenza biologica c’è una determinazione comune tra l’organismo e l’ambiente. Mead fa notare che la sensibilità, la selettività, e le capacità organizzative degli organismi sono fonti di controllo dell’ambiente. A livello umano, per esempio, noi troviamo il fenomeno dell’attenzione, gli esseri umani selezionano i loro stimoli e perciò programmano il campo dentro il quale loro agiscono.
La relazione tra l’organismo e l’ambiente è interattivo, l’oggetto percepibile si innalza in questa matrice interattiva, l’individuo non può essere spiegato in termini del mondo esterno. Mead nega l’esistenza della psiche indipendente .
L’Oggetto scientifico
Mead distingue tue tipi di prospettive: 1) la prospettiva percettiva e 2) la prospettiva riflessiva. La prima è radicata nel mondo spazio-temporale dove l’azione non è riflessiva, mentre la prospettiva riflessiva è la risposta al mondo delle prospettive percettive. Il mondo della prospettiva riflessiva è il mondo del pensiero riflessivo, dell’azione, dell’esperienza di distanza, e della ricerca scientifica. A questi due tipi di prospettiva corrispondono due atteggiamenti verso gli oggetti percettivi che si innalzano nell’esperienza e sono 1) l’atteggiamento di una esperienza immediata (che corrisponde alla prospettiva percettiva) è cominciato nel “world that is there”( una frase che Mead usa spessissimo) e incluse le nostre azioni, i nostri corpi, le risposte psicologiche .
2) L’atteggiamento delle analisi riflessive (che corrisponde alla prospettiva riflessiva) ed è proprio qui che gli oggetti scientifici vengono costruiti. Un esempio di oggetti scientifici sono le nozioni di Newton sullo spazio e sul tempo incondizionato o la nozione degli elementi fondamentali quali gli atomi, gli elettroni ecc. Tali oggetti per Mead sono astrazioni ipotetiche che escono fuori nel tentativo scientifico di spiegare il mondo dell’esperienza immediata.
La relazione tra gli oggetti scientifici e quelli percettivi è acritica, la presunta separazione di tale relazione porta ad una natura biforcata dove l’esperienza è isolata dalla realtà attraverso il dualismo delle qualità primarie e secondarie. Mead dice poi che l’organismo è parte del mondo fisico e che l’oggetto percettivo è proprio nella relazione tra l’organismo e il mondo. L’analisi che Mead fa sull’oggetto scientifico è un tentativo di stabilire l’attuale relazione tra l’analisi riflessiva e l’esperienza percettiva. Lui mira a dimostrare la realtà oggettiva del mondo percettivo.
KARL RAHNER
A cura di M. Lucini
Karl Rahner nasce a Friburgo nel 1904. Segue la sua vocazione ed è ordinato sacerdote della compagnia di Gesù nel 1932. Si specializza in filosofia con Heidegger e nel 1936 si laurea in teologia. Inizia la sua carriera accademica nella facoltà teologica di Innsbruck, nel 1937. Interdetto dal regime nazista, si dedica ad attività pastorali fino al 1948 in Baviera. Nel 1948 torna all’Università di Innsbruck come ordinario di teologia dogmatica. Dal 1939 al 1984 pubblica una serie di opere, raccolte negli Schriften zur Theologie – “Scritti teologici”, in 16 volumi, che sono una vera e propria miniera per lo studioso di teologia. Il suo esordio come docente lo vede dunque nella facoltà di Innsbruck, dove era in elaborazione un “programma di teologia della predicazione” o “teologia kerygmatica” (Verkündigugstheologie o kerygmatische Theologie),che aveva l’obiettivo di sollevare il cristianesimo dall'”arido abitudinario” in cui era caduto, recuperando il carattere salvifico della verità della fede, il kérygma appunto, la lieta notizia del cristianesimo primitivo.
Il giovane teologo assume questa impostazione, ma solo inserendola in un più vasto progetto della teologia cattolica, basato sulla ricerca razionale. Nel suo scritto del 1941, Uditori della parola, Rahner svolge le linee di una filosofia della religione in prospettiva teologica, come “antropologia teologica fondamentale”, differente dalla teologia scientifica, che prendeva le sue mosse dalla considerazione logico sistematica di Dio, considerato come esse subsistens in tribus personis. L’uomo, come spirito nel mondo, è l’uditore di una possibile rivelazione storica di Dio. L’uomo viene qui percepito come l’ente che si realizza solo nella storia, mentre questa a sua volta attua la sua presenza solo attraverso l’uomo. La storia è quindi la sola occasione per l’uomo di incontrare quella “parola” che illumina e fonda l’esistenza e verso la quale è protratta la ragione umana. Nel 1964 Rahner è chiamato alla facoltà d Teologia a Monaco, per insegnarvi filosofia della religione e Weltanschauung – “visione del mondo” – cattolica. Ma Rahner rimaneva sempre un teologo e dopo soli tre anni dunque ritorna alla teologia dogmatica, presso la facoltà di Münster, dove conclude la sua carriera di docente nel 1971. Fu uno dei periti del Concilio Vaticano II. Dal 1972 divenne membro della Commissione Teologica internazionale. Studiò e scrisse fino alla morte, avvenuta nel 1984. Il lavoro di Rahner, è importante soprattutto per il metodo antropologico-trascendentale che egli usa per la ricerca teologica. Partendo dall’analisi della società degli anni ’50, Rahner evidenzia alcuni aspetti:
1 La società è fortemente secolarizzata e pluralista. Gli enunciati di fede non sono più ovvii. Nel pluralismo delle idee, la validità degli enunciati teologici è sullo stesso piano di qualsiasi altro.
2 Connessa a questa frammentazione sta la complessità derivante da un ampliamento delle conoscenze in ogni campo del sapere, che rende difficile ogni sintesi.
3 A ciò si aggiunga una rigidità (Fixierung) e incrostazione (Verkrustung) dei concetti teologici, che non corrispondono più alla mutata condizione antropologica e culturale dell’uomo moderno.
Nasce quindi, dall’incrocio di questi problemi, la crisi di fede. Per fronteggiare questa crisi la Teologia deve dotarsi di un nuovo metodo, in grado di trasmettere i contenuti di fede non soltanto come enunciati puri e semplici, ma anche in connessione con l’esperienza che l’uomo ha di sé. Dal metodo scolastico, che procede dall’alto con una sorta di indottrinamento, bisogna passare a un metodo che parte dall’esperienza dell’uomo e si interroghi come la verità cristiana possa corrisponderle, e non viceversa. L’originalità di Rahner è quindi quella di aver introdotto un metodo che possa accostare le tematiche della fede anche nella condizione di complessità e frammentazione tipica dell’uomo del ventesimo secolo. L’approccio antropologico di Rahner è però caratterizzato da un aggettivo: trascendentale. Vediamo che cosa significhi. Questo passaggio dell’impianto filosofico della teologia di Rahner, rimanda direttamente a Kant e al razionalismo, da cui Rahner prende le mosse. Nell’esperienza dell’uomo bisogna distinguere un apriori e un aposteriori. Il contenuto dell’esperienza è l’aposteriori, il dato acquisito che è anche categoriale, riflesso, tematizzabile e tematizzato. Il dato aposteriori però risulta sotteso da un apriori, non acquisito ma dato con l’esistenza, e trascendentale, cioè dato in modo irriflesso e a-tematico, ma che solo rende possibile la realtà categoriale, e cioé la conoscenza, l’azione, l’esperienza in genere. Il trascendentale riguarda appunto la condizione della possibilità dell’esperienza categoriale: senza l’apriorità e la trascendenza, non è possibile dunque categorizzare le esperienze. La condizione aprioristica e trascendente dunque è costituita dalla struttura dello spirito finito nel mondo (Geist im Welt). L’esperienza umana è appunto esperienza della finitezza che rimanda per antinomia a un orizzonte infinito. Esperienza della assolutezza della verità e della responsabilità che rimanda all’assoluto, esperienza della radicalità dell’amore e della fedeltà che rimanda all’incondizionato. E’ dunque apertura dello spirito finito all’infinito. Rahner quindi, prendendo le mosse dal razionalismo kantiano, e in una moderna impostazione della gnoseologia, recupera la via metafisica della filosofia classica di S.Agostino. Non è dunque l’originalità di Rahner, tanto quella di aver elaborato la filosofia trascendentale, quanto quella di aver introdotto un metodo che possa accostare le tematiche della fede anche nella condizione di complessità e frammentazione tipica dell’uomo moderno, con debita attenzione ai problemi della fede, ma anche alla soggettività dell’uditore ed ai suoi problemi esistenziali. Ne consegue che le prove dell’esistenza di Dio non possono essere cercate all’esterno, negli enunciati teologici, ma all’interno di ognuno, e non secondo un metodo che parta dal presupposto che Dio sia ignoto all’uomo, ma partendo dal presupposto che all’uomo l’esistenza di Dio è nota, seppur in maniera trascendentale, implicita e atematica. Il metodo antropologico trascendentale, trova il suo complemento nella dottrina rahneriana dell'”esistenziale soprannaturale”. Esistenziale, dall’“existential” di Heidegger, è la determinazione dell’esserci dell’essere, a differenza delle cose. Rahner lo assume solo per l’uomo (Seinsbestimmung des Menschen) e parla della grazia come di “esistenziale soprannaturale”. La grazia viene da Dio in un rapporto dialogico e libero ed è quindi indebita e soprannaturale. Una realtà data da sempre, e può essere accettata o rifiutata. L’uomo non può mai uscire da questa caratteristica. Da qui il suo “cristianesimo anonimo” e la convinzione che in ogni religione sia presente la grazia e quindi la chiamata di Dio. Da qui deriva quello che Rahner chiama “il momento trascendentale” della rivelazione storica. De facto dunque, la grazia rimane una permanente determinazione dell’essere dell’uomo, che comunica con Dio e che può rifiutare di comunicare (una scelta, dunque). Perciò l'”uomo naturale” non esiste. L’uomo ha una vocazione soprannaturale, al di là del fatto che sia cristiano o no. La grazia è quindi soprannaturale ed è con l’uomo da sempre, è trascendentale, e accompagna il divenire a posteriori della vita di ognuno, segnandolo in profondità nelle decisioni. Il metodo antropologico trascendentale si presta, per queste caratteristiche, ad una analisi del rapporto fra la storia del mondo, la storia profana, e la salvezza che Dio concede all’uomo, con l’obiettivo di chiarirne implicazioni e distinzioni, agire di Dio e agire dell’uomo, ruolo della salvezza e della grazia e ruolo della libera volontà dell’uomo. Tema che Rahner affronta nel suo saggio Weltgeschichte und Heilsgeschichte – “Storia del mondo e storia della salvezza”, del 1962. Nella storia non è dato trovare la salvezza. La salvezza è trascendente, proviene direttamente da Dio, è un obiettivo della fede, della speranza e della preghiera. Sono erronee le dottrine intramondane sulla salvezza. Eppure, la dottrina cristiano-cattolica della storia, non può fare a meno di affermare che la storia della salvezza si realizza nella storia del mondo. Per il cristiano la salvezza non è in un futuro, ma si realizza nell’hic et nunc, perché la grazia di Dio viene accordata ora, come autocomunicazione di Dio all’uomo. L’autentica libertà spirituale in questo mondo di Dio, della grazia e di Cristo è sempre libertà di scelta di fronte a salvezza o perdizione: in altro modo non potrebbe essere libertà. La realizzazione di questa dimensione di libera scelta, può realizzarsi solo nell’incontro col mondo, nella relazione con altre persone umane: non solo nella dimensione privata del rapporto uomo-Dio (pietà, preghiera), ma anche nella partecipazione alle vicende storiche e sociali. C’è un altro aspetto da tener presente: la storia della salvezza non è sempre chiaramente percepibile nelle pieghe ambigue della storia del mondo. Si fa fatica a capire il senso di certi avvenimenti della storia mondana in relazione all’atto salvifico di Dio. In realtà non deve questa essere una preoccupazione del credente, perché l’uomo, in qualunque momento della sua vicenda storica, può incontrare sempre la profferta di salvezza. La trasparenza della storia della salvezza nelle maglie della storia mondana può essere captata con gli occhi della fede. In realtà la storia profana abbonda di segni, di accenni che indicano questa salvezza come già attuata: la storia salvifica si realizza quindi proprio nella storia profana. Ciò non vuol dire che le due realtà storiche coincidano, anzi, sono ben distinte, anche se parallele. Innanzitutto la storia profana non permette alcuna interpretazione circa la salvezza. Vi sono solo uomini che scelgono di accettarla o rifiutarla, ma il carattere di questa accettazione o rifiuto è un fattore di libertà personale. Un atto libero non è passibile di riflessione morale o giudizio intellettuale, perché il contenuto della coscienza è molto più profondo di quanto non siano le nozioni conosciute. Ogni riflessione sulla libertà è solo un resoconto incapace di esprimerne l’essenza. La salvezza inoltre non rappresenta affatto il risultato di una libera decisione dell’uomo, ma il risultato della profferta gratuita di Dio che viene accolta con libertà. L’azione, parte da Dio. Ma Dio che si comunica può essere conosciuto solo alla fine della storia dell’uomo: la salvezza quindi è un frutto che matura nel corso della storia e giunge a maturazione alla fine della storia dell’uomo. E’ quindi nella storia, ma solo come affermazione creduta e sperata, non come realizzazione salvifica tout court. Ma anche a questo punto, storia della salvezza e storia profana differirebbero solamente per il grado di giudicabilità di quella profana e l’ingiudicabilità di quella della salvezza. Occorre pertanto fra le due esaminare le differenze e le identità. La volontà salvifica di Dio, dicevamo, si estende a tutti gli uomini. A tutti viene esibita la grazia. L’offerta di salvezza è quindi estesa quanto è estesa la storia. La grazia va intesa come cambiamento della struttura cosciente dell’uomo. L’elevazione soprannaturale dell’uomo, prodotta e concessa da Dio, attua di per se stessa già il concetto di una rivelazione, nel senso di un cambiamento della coscienza (non di conoscenza). Basta che l’uomo accetti questa trascendenza, per mezzo della fede. Da questo fatto si deduce che esiste una storia della salvezza. E non è una storia che fluttui in una regione metempirica che non abbia nulla a che vedere con la storia, perché influenza le concezioni della Religione, dell’autocomprensione dell’uomo, della filosofia, dell’etica, anche se tale orizzonte non si tramuta in certezza. Data la struttura unitaria dell’esistenza, la vocazione dell’intero uomo alla salvezza, l’intima dinamica della grazia capace di agire in modo salvifico, è da pensare che tutto ciò tenda a tematizzarsi. La storia della salvezza e la storia profana infine sono diverse, perché Dio attraverso la sua parola, che è elemento costitutivo di questa salvezza, ha spiegato un brano di questa storia, che altrimenti sarebbe stata ambigua, per farne una vera e propria storia della salvezza, con la parola di Cristo. Cristo, il lògos incarnato, non si manifesta coi miracoli, non solo, ma soprattutto con la parola. Senza parola i miracoli non avrebbero senso, perché non spiegano nulla, sono, empiricamente, e basta. Secondo Rahner la storia della salvezza costituisce la chiave di spiegazione della storia profana, perché essa rappresenta la sua profonda essenza e substrato basilare, offrendo un’interpretazione della storia profana. Toglie da sé ogni carattere mitologico e quindi distingue da sé la storia profana. La creazione e la storia non rappresentano la salvezza che invece si identificano con Dio e la sua grazia. La storia non è quindi una teogonia, ma una creatura di Dio. Per il Cristiano la storia del mondo va interpretata in modo cristocentrico. Dio si è espresso col suo logos e ha creato il mondo, questo logos esiste differenziato in natura e grazia, storia della salvezza e storia profana. Cristo riassume e congloba tutto questo. Dio non ha fatto la storia perché ne aveva bisogno, ma per amore sempre in atto di donarsi. La storia per antonomasia quindi abbraccia le due storie, del mondo e della salvezza, e Cristo è colui che in questo atto sta al centro incarnandolo. Ma allora, se Dio manifesta la sua profferta di salvezza nella storia, questa profferta è sempre stata esibita all’uomo o solo all’uomo cristiano? Esiste possibilità di salvezza fuori dal cristianesimo? Il pensiero di Rahner, fondato sulla trascendentalità, giunge conseguentemente a riconoscere valore salvifico anche alle altre religioni. E’ il tema che Rahner affronta nel suo saggio Über die Heilsbedeutung der nichtchristlischen Religionen – “Sul significato salvifico delle religioni non cristiane”, del 1975. Per estrapolare i principi in base ai quali Rahner riconosce valore salvifico alle religioni mondane occorre partire da alcuni presupposti. Rahner prende spunto dai documenti del Concilio Vaticano II, i quali riconoscono nelle varie religioni esiste qualcosa di “vero” e qualcosa di “santo” (concetto che già Nikolaus Krebs, il Card. Cusano, implicitamente riconosceva nella sua opera “Esame critico del Corano”), e che quindi anche queste dottrine devono essere considerate con sincero rispetto. Anche i non-cristiani hanno possibilità di salvezza in quanto anche in essi vi è la ricerca di una risposta agli enigmi dell’esistenza umana. Nel Concilio viene però lasciato insoluto il problema decisivo: la qualità propriamente teologica delle religioni non cristiane. “L’ottimismo salvifico del concilio promette la salvezza soprannaturale nel possesso diretto di Dio a tutti coloro che non si chiudono liberamente con una colpa personale nei suoi confronti“. Da questa dottrina della volontà salvifica universale si Dio, segue una concezione del rapporto tra grazia da un lato e uomo, umanità e storia dall’altro. La grazia viene spesso intesa come “abituale” e “attuale”: abituale in quanto data antecedentemente (si pensi al bambino battezzato) e non accolta dal libero consenso dell’uomo; attuale, perché pensata come un evento cronologicamente puntiforme, dato qui e là in determinate situazioni. Al contrario, essa dovrebbe essere pensata come un'”esistenza permanente” dell’uomo, dell’umanità e della storia, dato sempre e dappertutto, come una possibilità sempre attiva di un rapporto salvifico della libertà verso Dio. La grazia è l’essenza della rivelazione e la storia della rivelazione non è immune dalla possibilità, non solo di venir soggettivata in modo incompleto nei concetti e nelle azioni, ma anche di risultare depravata contro la sua natura più intima. La tesi dell’imperfezione e del fallimento di una storia della rivelazione è confermata dal fallimento dell’antica alleanza del popolo di Israele che si definisce come “religione istituzionalizzata quale oggettivazione della rivelazione del divino nel sociale”. Questa situazione vale anche per tutte le altre religioni, che non vanno pensate soltanto come:
– o completamente oggettivazione della rivelazione e della grazia divina
– o un’invenzione umana “dal basso”
– o una deformazione perversa della rivelazione divina.
Nell’uomo il rapporto trascendentale verso Dio è sempre mediato da realtà categoriali della sua vita che non sono tematicamente religiose. Una simile mediazione può eventualmente verificarsi, ad esempio, nella fedeltà alla propria coscienza da parte dell’ateo. Non è da escludere però la realtà religiosa verbalizzata e istituzionalizzata che se profferta all’uomo, qualunque essa sia, questi ne usufruirà come mediazione per il suo rapporto con Dio, a meno che essa non contraddica tale rapporto. Secondo la teologia morale cattolica, anche oggetti di per se contrari alla volontà di Dio possono, tuttavia, fungere da mediatore per un atto morale e religioso positivo. Secondo Rahner dunque le religioni non cristiane, nelle loro istituzioni e oggettivazioni teoretiche, possono essere delle mediazioni categoriali di genuini atti salvifici, sia perché contengono sempre qualcosa di vero (anche soltanto la trascendenza dell’uomo), sia perché, anche se oggettivamente errate e deformate, possono ancora essere una mediazione della trascendentalità soprannaturale genuina dell’uomo. Rimane però ovvio che supereranno la loro ambivalenza solo a partire da Cristo quale parola escatologica di Dio. Ma se la salvezza è in tutte le religioni, come possiamo noi dire che la religione cristiana sia quella che “più vera”, la migliore? Che differenza esiste fra cristianesimo e le altre religioni? Nel saggio Cristianesimo e religioni non cristiane, Karl Rahner affronta il problema. Un tempo la religione era riferita alle abitudini e tradizioni di una popolazione ristretta, e quindi le “altre religioni” erano considerate straniere. Oggi, la maggior comunicazione e l’interscambio culturale, mettono in discussione la pretesa di assolutezza avanzata dal cristianesimo (neppure l’Islam si pone come religione assoluta). Secondo l’autore, una religione per definirsi istituzionalizzata deve essere una religione sociale, cioè integrata nella struttura sociale della popolazione. Esiste poi un’unica storia del mondo, comune ai cristiani e ai non cristiani. Da queste premesse parte l’autore, e suddivide la sua analisi in quattro tesi, nelle quali approfondisce separatamente il corpus del cristianesimo, messo poi a confronto con le religioni pre-cristiane (culti mitici antichi), l’ebraismo e l’islamismo.
Tesi 1 : IL CRISTIANESIMO RELIGIONE ASSOLUTA. Questa dichiarazione si esplica nel Nuovo Testamento ed è assunta a concezione basilare che non necessita di dimostrazione e spiegazione. Dio infatti opera a favore dell’uomo, si rivela con l’incarnazione, la morte e la resurrezione dell'”unico Verbo di Dio fatto carne”. Cristo si pone pertanto come il mediatore che ha attuato realmente, e non solo teoricamente, la riconciliazione del mondo con Dio. La presenza storica di Dio si manifesta dunque nella realtà attraverso la Chiesa, vista come la religione per antonomasia, che vincola l’uomo a Dio.
E’ possibile identificare con Gesù la risposta all’istanza di assolutezza della religione? Secondo Rahner il momento del riconoscimento non può essere previsto, ma sicuramente il cristianesimo è la religione assoluta, che deve essere colta non solo come precetto, ma come mezzo necessario per arrivare a Dio.
Tesi 2 : OGNI RELIGIONE CONTIENE TRACCE D GRAZIA E DI ELEMENTI NUOVI. Soprattutto in questa seconda tesi Rahner approfondisce il confronto fra il cristianesimo e le altre religioni. Divide la tesi in due parti, nelle quali afferma che anche nelle religioni non cristiane si possono riscontrare le tracce soprannaturali della Grazia di Dio, e non solo, ma anche un modo naturale di credere in Lui.
Le religioni pre-cristiane sono permeate di elementi falsi, erronei, “malformati e dovuti alla depravazione umana, che vengono poi accettati dall’Islam”. Il nucleo centrale della religione islamica è costituito dal fatto che, non essendoci nessuna istanza istituzionale infallibile, per distinguere le profezie vere da quelle false i fedeli devono farlo attraverso la loro coscienza individuale nell’hic et nunc, col rischio di essere affascinati dai falsi profeti.
L’affermazione che ogni religione contiene una traccia di grazia, è sostenuta dal ritenere che essa sia dono di Dio per tutti gli uomini, un dono che però viene individualizzato. L’uomo, per salvarsi, deve allora divenire “homo religiosus”, deve rifarsi alla religione imperante e legittima della sua cultura e professata dalla gente del suo tempo. Al contrario, l’uomo non cristiano professa una religione interiore ed instaura un rapporto con Dio al di fuori della religione offertagli dall’ambiente sociale in cui vive.
Tesi 3 : OGNI UOMO E’ UN CRISTIANO ANONIMO, OBBLIGATO PERO’ A DIVENIRE CRISTIANO EFFETTIVO.
In questa tesi Rahner espone la sua concezione del credente, che anche se non cristiano, è ugualmente un cristiano anonimo, in quanto ha ricevuto la Grazia e la salvezza di Dio attraverso il Cristo. Egli è in parte consapevole della sua situazione, non è in fondo un “teista” ma è necessario che riceva il sacramento del battesimo e della penitenza perché possa diventare cristiano effettivo: non sono sufficienti gli atti di fede e di pentimento. Il cristianesimo diventa quindi un’esigenza, poiché insieme alla Grazia tende ad incarnarsi ed a socializzarsi ed inoltre afferma prospettive di salvezza migliori di quelle che l’uomo avrebbe restando cristiano anonimo.
Tesi 4 : LA CHIESA E’ L’AVANGUARDIA DELL’ESERCITO DI DIO. Rahner afferma che il cristiano deve rapportarsi agli altri sempre in veste di missionario- La Chiesa non è considerata unità esclusiva dei candidati alla salvezza, ma è vista come un esercito in marcia. L’autore è convinto che il pluralismo religioso non sparirà entro breve tempo, anche perché è scritto nel Vangelo che l’opposizione a Cristo e alla Chiesa non cesserà mai fino alla fine dei tempi.
Siccome la Chiesa non si limita a vivere in un campo privato e ristretto ma si diffonde in tutto il mondo, tale opposizione è destinata a serpeggiare ovunque. La Chiesa può fronteggiarla tramite la fede, la speranza, la carità. Essa non si oppone ai cristiani anonimi ma anzi, attende che essi si riconoscano nella sua istituzione. I cristiani anonimi, dal canto loro, possono criticare la comunità solo superficialmente, perché non sono ancora giunti a sentirsi parte integrante di essa.
Taluni potrebbero accusare il cristiano di presunzione. Questa è una critica infondata, secondo Rahner, perché il Cristiano riconosce Dio come infinitamente più grande dell’uomo e della Chiesa. Per Rahner i cristiani anonimi hanno già in loro tracce di elementi cristiani. La sua ipotesi è confermata da quanto afferma S. Paolo negli Atti degli Apostoli (17,23): “quello che voi non conoscete, eppure già venerate (eppure già venerate!), io lo annunzio a voi!”.
Concludendo, ci sembra di poter affermare che siano soprattutto queste ultime 4 tesi (e forse più per il loro linguaggio e per le metafore che esse evocano, vagamente imperialiste), quelle più contestate di tutto l’impianto teologico di Rahner che, nella loro sostanza, sono assunte dal Concilio Vaticano II e, quindi, possono essere identificate come pensiero teologico “ufficiale”, per così dire, della Chiesa Cattolica. Sono tesi che in effetti sollevano parecchie perplessità e sembrano, dopo le affermazioni importanti e il riconoscimento del valore salvifico in tutte le religioni, un muro ancor più difficile da superare, proprio perché filosoficamente più agguerrito, rispetto alla “vecchia” concezione di salvezza, riconosciuta solo alla Chiesa Cattolica..
METZ
A cura di P. Renner
Johann Baptist Metz nasce il 28 luglio 1928 a Velluck, nella Baviera settentrionale. Assolve studi di filosofia e teologia dapprima a Innsbruck e poi a Monaco di Baviera. Si laurea in filosofia su Heidegger e poi in teologia, sotto la guida di Karl Rahner, su S. Tommaso d’Aquino. La maggior parte della sua carriera universitaria lo vede docente di teologia fondamentale a Münster, carica che ha lasciato negli ultimi mesi, per assumere la cattedra di Christliche Weltanschauung all’università di Vienna. Numerose le sue pubblicazioni, tra cui ricordo vari articoli nel Lexicon für Theologie und Kirche, nell’Handbuch Theologischer Grundbegriffe, in Sacramentum Mundi e in Mysterium Salutis, nonché libri quali Sulla teologia del mondo (1968; Brescia 1969), Antropocentrismo cristiano (Torino 1969), con J. Moltmann-W. Ölmüller, Una nuova teologia politica (Assisi 1971), Tempo di religiosi? Mistica e politica della sequela (1977; Brescia 1978), La fede nella storia e nella società (1977; Brescia 1978), Jenseits bürgerlicher Religion (München/Mainz 1980), Unterwegs zu einer nachidealistischen Theologie, in J.B. Bauer (Hrsg.), Entwürfe der Theologie (Graz-Wien-Köln 1985, 209-233). La sua maturazione teologica conosce varie tappe, segnate dalle tre grandi “crisi” del nostro secolo con cui egli si sente confrontato: la sfida marxista alla teologia, Auschwitz e la negatività della storia, la provocazione del Terzo Mondo. Egli stesso descrive i punti salienti del suo percorso intellettuale:
L’esperienza di queste crisi mi ha fatto cogliere un … mutamento dello sfondo filosofico-teologico: mi sono rivolto dal Kant trascendentale e da Heidegger al Kant del primato della ragione pratica (ritornando così ad un tema dell’Illuminismo, in quanto avevo il sospetto che le filosofie tedesche cui si riferiva il paradigma trascendentale (idealismo ed esistenzialismo) avessero solo ricoperto in maniera speculativa l’Illuminismo, senza averlo riflettuto fino in fondo. La mia attenzione critica si rivolse dall’idealismo alla critica della religione postidealista, come pure al tentativo di Karl Marx di comprendere il mondo come un progetto storico; si rivolse a Bloch e Benjamin ed a questioni della scuola di Francoforte. […] Infine cercai un primo approccio al pensiero ebraico ed alla saggezza religiosa del giudaismo, così a lungo preclusa. L’accentuazione della tradizione ebraica entro il cristianesimo, a differenza delle tradizioni greco-ellenistiche (con la loro tendenza pre-storica al dualismo) è stata una mia preoccupazione primaria. Con altri cultori della nuova teologia politica, ho avuto modo di apprezzare pensatori teologici quali Kierkegaard e Bonhoeffer, senza volermi allontanare dallo spirito e dall’ispirazione del mio maestro. E ancora una volta: forse proprio il progetto della teologia della liberazione esprime in pienezza ciò che con questo paradigma si intende, specie nell’ambito della vita ecclesiale.
Si legge in questo excursus autobiografico come Metz sia andato gradualmente distanziandosi da un’impostazione teologica legata a categorie metafisiche ed essenzialiste, come pure dal personalismo che a suo parere “non sembra voler considerare la complessità dei processi di socializzazione e di istituzionalizzazione che ha investito ogni relazione tra gli uomini”. Il limite della teologia moderna consiste nel non aver saputo fronteggiare la secolarizzazione, causando una “strana e pericolosa schizofrenia tra teoria teologica e prassi religiosa”, come conseguenza della mancata valutazione del contesto storico-politico, scadendo così in un privatismo teologico, che prescinde dal carattere sociale della rivelazione e della salvezza e vita ecclesiale. La teologia oggi “dovrebbe passare da una generica accettazione degli impulsi moderni e da una posizione di secolarizzazione astratta, a una ‘teologia politica’, come ermeneutica della tradizione di fede, orientata all’azione nei confronti della storia moderna della libertà”. Il suo contributo Metz lo situa dunque nell’ambito di un’impostazione postidealista, che succede sia al paradigma neoscolastico della teologia, che a quello trascendental-idealistico (in cui rientra pure Rahner, che pure Metz continua ad annoverare tra i maestri e classici della teologia), paradigmi ritenuti inadatti per affrontare le tre grandi crisi cui sopra si accennava. La teologia politica che Metz elabora richiede necessariamente l’attributo di “nuova”; in quanto intende distanziarsi nettamente da quella “civilis theologia” o “theologia politica” intesa ai tempi di Roma o ancora nelle teorie di uno Schmitt in senso reazionario e legittimista, ovvero come giustificazione diretta o indiretta del potere civile tramite quello religioso. Rimando per questo aspetto ad altre fonti. La nuova teologia politica intende riproporre la pregnanza escatologica del messaggio cristiano, per divenire figura di quella ragione critico-pratica che l’Illuminismo aveva auspicato ma non posto in essere. La fede viene descritta come “una prassi della storia e della società, una prassi che intenda se stessa come speranza solidaristica nel Dio come Dio dei vivi e dei morti, che tutti chiama ad essere soggetti al suo cospetto”. Ne scaturisce l’esigenza di un’universale solidarietà che supera la logica dello scambio, smascherata come forma di reciproco egoismo. Il comando dell’amore cristiano postula invece una solidarietà generosa, che si prende cura degli oppressi e non tollera che l’individuo venga sacrificato al progresso. La storia di cui tale fede parla è allora una storia di libertà ma anche una memoria di passione. Proprio all’interno della comunità cristiana l’autorità è allora chiamata ad essere espressione della libertà portata dalla morte e resurrezione del Cristo. La Chiesa, anzi, si istituzionalizza quale araldo della libertà, in quanto annuncia la propria provvisorietà in riferimento all’eschaton della parusia. La prassi della fede infatti si compie in una sequela mistico-politica, irriducibile sia alla pura interiorità, sia ad una concezione esclusivamente umanistico-politica. Questo perché “le promesse escatologiche della tradizione biblica – libertà, pace, giustizia, riconciliazione – non possono essere privatizzate. Esse spingono sempre più alla responsabilità sociale … Questa riserva escatologica ci porta non già ad un rapporto negatore, bensì ad un rapporto critico e dialettico nei confronti del presente storico”. In un’ulteriore riflessione, Metz precisa che proprio in quanto teologia escatologica la teologia politica “può raggiungere e determinare il suo orientamento all’azione solo in maniera mediata, per la strada di un’etica politica”. E quest’etica politica sarà necessariamente un’etica del mutamento, che proietterà la Chiesa dalla parte dei movimenti di riforma piuttosto che di quanti vogliono mantenere lo status quo. Riguardo alla forma di tale teologia politica, Metz specifica che essa non sarà argomentativa ma piuttosto narrativa, tendente a scatenare effetti sovversivi ed innovativi. Partendo da tali presupposti, “la prassi cristiana non appare più solo come ambito di applicazione di verità già chiare in anticipo, bensì… anche come istanza della loro verificazione e luogo della loro concreta attuale determinazione… la prassi viene a sua volta ad assumere il valore di un principio euristico”. Questa circolarità tra teoria e prassi si innerva per Metz soprattutto intorno a quei tre grandi fenomeni o “crisi” del nostro secolo che già nominavo.
1. La sfida marxista alla teologia: grazie al marxismo la teologia ha perso la sua innocenza cognitiva, in quanto risalta che ogni sapere (e dunque ogni “verità”) è condizionato da un interesse. La verità che la teologia cerca, per essere “vera”, dev’essere universalizzabile, in riferimento alla “fame e sete di giustizia” che tutti hanno, dato che verum et bonum convertuntur! L’altra grande scoperta del marxismo è quella del mondo come storia e progetto (visione tipica giudeo-cristiana a fronte delle altre religioni). La teologia ha allora una funzione critica della e nella storia, costruendovi un regno di solidarietà e giustizia universali.
2. Auschwitz, ovvero la teologia di fronte alla fine di tutti i sistemi idealistici che negano il soggetto. “Nella misura – scrive Metz – in cui la teologia assumeva o non assumeva la tragedia di Auschwitz, mi si chiariva il suo grado di apatia e di impermeabilità alle esperienze storiche. La storia è immanente al logos e così anche Auschwitz che racchiude tutte le storie di sofferenza dell’umanità”. La teologia, che conosce un senso eterno per la storia, osa guardare in fondo all’abisso di Auschwitz: non solo, dunque, alle cose riuscite ma anche a quelle fallite, per tener viva questa scandalosa memoria. “La memoria passionis, categoria quantomai biblica, diviene categoria universale, categoria di salvezza”. La teologia non può tanto risolvere questo dramma, quanto ricordare la questione e annunciare che esiste un dramma inspiegabile, di cui Dio dovrà dare conto.
3. La sfida del Terzo Mondo, ovvero di una teologia che non può più essere eurocentrica. In cammino verso una Chiesa culturalmente policentrica, che non più “ha” una componente terzomondiale ma sempre più “é” chiesa terzomondiale “che ben conosce il patire” e che fa l’esperienza della pericolosità del Cristo e della sua memoria sovversiva. La teologia europea deve con onestà sviluppare una propria “storia di colpevolezza” e permettere una fioritura di queste nuove Chiese povere, che meglio sanno proporre una radicale sequela di Cristo povero ed oppresso. In questa linea sono da apprezzare le comunità di base, che in comunione con i loro vescovi già hanno scritto un lungo martirologio di fedeltà e coerenza. “Il tempo che abbiamo di fronte non sarà il tempo dei grandi leaders carismatici, dei grandi teologi o dei grandi profeti. Sarà piuttosto l’epoca del divenir soggetto di molti piccoli, un’epoca dei piccoli profeti, ovvero della ‘base’”.
Solo aiutando le Chiese e i popoli dei Paesi sottosviluppati a divenire soggetti della propria storia, e di una storia planetaria sempre più segnata dalla legge dell’interdipendenza, l’Europa ritroverà quell’identità e quel senso che pare spesso aver smarrito.
ALEXIUS VON MEINONG
Alexius von Meinong (pseudonimo di Alexius von Handschuchsheim) nasce a Lemberg, in Austria, il 17 Luglio 1853. Studia filologia tedesca e storia presso l’università di Vienna, ove si laurea nel 1874 con una dissertazione su Arnaldo da Brescia. Nell’intento di approfondire le proprie conoscenze storiche, Meinong si iscrive come uditore ordinario alla facoltà di diritto; segue le lezioni di Economia politica di Carl Menger ed entra in contatto con Franz Brentano, che molto influiràsulla sua formazione. Nel 1875, matura la decisione di volgersi definitivamente alla filosofia. Presenta nel 1878 come tesi di abilitazione per la libera docenza due studi su Hume (Hume-Studien I e II). Nel 1882 ottiene la nomina a docente straordinario di filosofia presso l’università di Graz, ove fonderà nel 1894 il primo laboratorio di psicologia sperimentale. Morirà a Graz il 27 Novembre 1920. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: le Ricerche sulla teoria degli oggetti e sulla psicologia (1904), Il posto della teoria degli oggetti nel sistema delle scienze (1907), Über Annahmen (1910), Über Möglichkeit und Wahrscheinlichkeit (1915), Über emotionale Präsentation (1917). Rispetto a Franz Brentano (che aveva distinto tra rappresentazione, giudizio e sentimento), Meinong opera un’ulteriore distinzione tra contenuto e oggetto di un atto o fenomeno psichico. Non si può asserire che ciò che sta dinanzi alla mente, cioè l’oggetto, sia in qualche modo parte, cioè contenuto, dell’apprensione di esso: l’oggetto è infatti un’entità fisica, estesa e solida; e in quanto tale non può in alcun caso entrare a far parte di un atto mentale. Inoltre non necessariamente l’oggetto di un atto psichico deve essere una cosa esistente: possono infatti essere oggetto di un atto psichico anche i quadrati rotondi o i draghi, che nella realtà non esistono. Però, anche quando pensiamo un oggetto inesistente, esiste l’atto con cui lo pensiamo: ma tale oggetto non esistente, proprio perché non esiste, non può essere un contenuto, ossia una parte di tale atto. Ne segue allora che il contenuto va definito non già come una cosa, bensì come una qualità di un atto mentale, che lo rende in grado di dirigersi verso un ben preciso oggetto anziché verso un altro. Sulla base di queste riflessioni, Meinong va elaborando una nuova disciplina filosofica, che egli battezza “teoria degli oggetti”. Secondo Meinong, gli oggetti esistenti sono soltanto una minima parte degli oggetti possibili: l’ipotesi di assegnare alla metafisica il compito di indagare l’oggetto come tale è immediatamente da scartare poiché, sebbene la metafisica indaghi tutto ciò che esiste, ciò non di meno il dominio di ciò che esiste è infinitamente più ristretto rispetto al dominio di ciò che è oggetto. Infatti, di molti oggetti si può a rigor di logica affermare non che esistano, ma soltanto che sussistano: di questo tipo è, ad esempio, la differenza che intercorre tra verde e giallo, la quale tuttavia non è una parte della realtà come lo sono una mela gialla o una foglia verde. In questa prospettiva, è possibile sostenere che gli universali sono sussistenti, mentre l’esistente è una prerogativa di entità individuali, oggetto della rappresentazione. Per distinguerli dagli universali, Meinong definisce “obiettivi” gli oggetti del giudizio, i quali non sono necessariamente esistenti, come ad esempio nel caso degli antipodi o della montagna d’oro. Su questi presupposti, Meinong architetta una teoria del significato: per significato di una proposizione, egli intende ciò su cui essa verte. Se infatti ci si domanda su che cosa verta la proposizione “non esiste una montagna d’oro”, la risposta ha un ben preciso significato: essa verte su una montagna d’oro. Ne segue che i nostri giudizi si riferiscono non già ad oggetti, bensì ad obiettivi, i quali hanno la proprietà di essere veri o falsi, necessari o possibili. Dunque, verità e falsità non sono proprietà dell’atto mentale diretto verso l’obiettivo. In tal maniera, Meinong garantisce l’oggettività della conoscenza, ma è costretto, per far ciò, a sovrappopolare l’universo non soltanto di realtà esistenti, ma anche di oggetti semplicemente sussistenti e di obiettivi non esistenti, i quali possono aver la funzione di oggetti di giudizio. Per questo motivo, Meinong può apparire un “implacabile agrimensore dell’inesistente” (Giorgio Agamben).
LEO STRAUSS
A cura di Alessandro Sangalli
” Non possiamo ragionevolmente aspettarci che la semplice comprensione della filosofia politica classica ci fornisca le ricette per uso odierno. […] Solo vivendo nel nostro tempo possiamo risolvere i problemi del nostro tempo. Tuttavia, un’adeguata comprensione di quei principi elaborati dai pensatori classici può costituire un indispensabile punto di partenza per un’analisi del mondo di oggi o per una corretta applicazione di quei principi ai nostri scopi pratici. “
VITA E OPERE
Leo Strauss nacque il 20 settembre 1899 a Kirchhain in Germania. I suoi genitori erano Hugo, commerciante nel ramo agrario, e Jennie David; aveva anche una sorella minore, Bettina. Egli crebbe in una famiglia ebrea ortodossa, nella quale riti e leggi cerimoniali erano severamente osservati, ma dove era scarsa la conoscenza effettiva dell’ebraismo. Un’ulteriore presa di coscienza del proprio ebraismo si verificò per il giovane Strauss allorché i rifugiati dai pogrom russi passarono attraverso il suo villaggio. Iniziò a frequentare le scuole elementari di Kirchhain nella Pasqua del 1905, e, dopo l’educazione preparatoria al People’s and Chancellorship School dal 1908, Strauss entrò al Gymnasium Philippinum di Marburgo nella Pasqua del 1912. Al gymnasium entrò in contatto col messaggio dell’umanesimo tedesco e di nascosto lesse Schopenhauer e Nietzsche. Senza esserne pienamente consapevole, Strauss si allontanò pian piano dalle sue radici ebraiche, senza, tuttavia, una vera e propria ribellione: diciassettenne, si convertì al sionismo. Si diplomò al gymnasium nella Pasqua del 1917. Iniziò i suoi studi universitari nel semestre estivo dello stesso anno: in quello stesso periodo venne chiamato dall’esercito tedesco per ricoprire la funzione di interprete durante le operazioni di occupazione del Belgio. Il suo servizio militare durò dal 5 luglio 1917 fino al dicembre dell’anno successivo. Prima di conseguire il proprio Dottorato in Filosofia, Strauss studiò soprattutto filosofia, matematica e scienze naturali nelle università di Marburgo, Francoforte sul Meno e Berlino. Dal 1919, per ragioni di prossimità, iniziò a frequentare l’Università di Marburgo, centro della scuola neokantiana fondata da Hermann Cohen, massimo rappresentante ed esponente dell’Ebraismo tedesco, figura che superò in ardore e carisma tutti i professori di filosofia tedeschi nel periodo dal 1871 al 1925 (anno della nomina a professore di Martin Heidegger). Cohen affascinò Strauss perché era un filosofo appassionato ed un ebreo devoto, una sorta di centro di attrazione per ogni ebreo di interessi filosofici. A dire il vero, Strauss potrebbe anche non aver mai incontrato di persona Cohen, essendo egli morto nel 1918 a Berlino. La Scuola Neokantiana era già in fase di disgregazione all’arrivo di Strauss a Marburgo: questa disgregazione era principalmente dovuta al crescere del potere e dell’influenza della fenomenologia, corrente fondata da Edmund Husserl. Un paio d’anni più tardi Husserl spiegò il suo lavoro a Strauss, che a quel tempo era un neokantiano incerto e dubbioso, con queste parole: “la Scuola di Marburgo inizia a spiegare le cose dal tetto, mentre io inizio dalle fondamenta”. Cohen apparteneva per intero al mondo precedente la Grande Guerra, e ciò valeva anche per Husserl. La caratteristica più importante del pensiero postbellico fu la resurrezione della teologia: la teologia ebraica fu riportata alla luce da Franz Rosenzweig, una personalità molto ammirata e stimata da Strauss.Nel 1920 Strauss all’università incontrò Jacob Klein (1899-1978), un ebreo nato a Libau, in Russia. A suo giudizio, “Jacob si distingueva dai tanti altri studenti di filosofia non solo per l’intelligenza, ma per il suo aspetto complessivo: era una figura non-provinciale in un ambiente in cui, per contro, si respirava un’aria pesantemente provinciale. Ero positivamente impressionato e molto attratto da lui. Iniziai a frequentarlo per convertirlo al sionismo: a dire il vero non so se allora agii spinto dal dovere o se questo fu solamente un pretesto. In ogni caso, fallii completamente. Ciononostante, da quel momento rimanemmo sempre in contatto”. Anche Hans-Georg Gadamer aveva un’opinione simile di Klein. Sembra che Gadamer abbia conosciuto Strauss durante il periodo in cui questi prestava servizio nella biblioteca di Marburgo.Nel 1921 Strauss si trasferì all’Università di Amburgo, dove conseguì il suo Dottorato sotto la guida di Ernst Cassirer con una tesi intitolata “Epistemologia e dottrina filosofica in F.H. Jacobi”. L’esame orale si svolse il 17 dicembre del ’21. Degli anni che seguirono Strauss disse più tardi: “posso solo dire che fino a trent’anni fui così completamente dominato, quasi stregato, da Nietzsche, al punto che letteralmente credevo a ogni cosa che apprendevo da lui”. L’anno successivo andò a Friburgo per un anno di post-dottorato e per poter ascoltare Husserl: presto, però, capì che non avrebbe ricavato grandi benefici dalle sue lezioni. Il maggiore interesse di Strauss era, infatti, la teologia. Seguì regolarmente il corso di “Dottrine sociali della Riforma e dell’Illuminismo” tenuto da Julius Ebbinghaus: in questa occasione fece la conoscenza di un “nuovo” Hobbes: nell’esposizione di Ebbinghaus l’insegnamento di Hobbes diveniva finalmente vivo e vitale. Tra i giovani collaboratori di Husserl, c’era un ancora sconosciuto Martin Heidegger: Strauss seguì il suo corso saltuariamente. Non capiva una parola, ma sentiva che egli stava trattando di qualcosa di importanza primaria per l’essere umano. Strauss fu molto colpito dalla completezza e dalla profondità con le quali Heidegger era solito interpretare i testi filosofici, in particolare, in una delle occasioni in cui veramente capì cosa Heidegger volesse dire, lo colpì l’interpretazione dell’incipit della Metafisica di Aristotele. A seguire i corsi heideggeriani c’erano anche Hannah Arendt, Gadamer, Karl Löwith. Fino a quel tempo Strauss era stato particolarmente impressionato, come molti suoi contemporanei, da Max Weber: dalla sua intransigente devozione all’onestà intellettuale, dalla sua appassionata idea della scienza e del suo significato, dal suo disincanto. Più avanti, quando incontrò Franz Rosenzweig a Francoforte, disse che, paragonato ad Heidegger, Weber sembrava “un orfano” per quanto riguarda precisione, competenza e spirito indagatore. Successivamente, quando a Berlino ascoltò Werner Jaeger interpretare lo stesso passo aristotelico, sostenne che non c’era nemmeno paragone: Heidegger era infinitamente meglio. Strauss trascorse gli anni dopo il suo dottorato principalmente a Marburgo, Friburgo e Berlino, occupandosi di studi storici. Dal ‘22 al ’24 Strauss partecipò al Rosenzweig’s Lehrhaus a Francoforte sul Meno (il Freies Jüdisches Lehrhaus). In questo contesto portò a termine una lettura analitica della Religione della ragione di Cohen e, insieme all’amica Nehama Liebowitz, frequentò un seminario tenuto da Julius Guttmann sulla Guida dei perplessi di Mosè Maimonide. In cambio dell’aiuto ottenuto nella lettura del testo ebraico de Il libro delle credenze e delle opinioni di Saadya Gaon, Strauss aiutò a sua volta Liebowitz a leggere il testo greco del Gorgia platonico. Nel ‘24-‘25 analizzò il Trattato teologico-politico di Spinoza ed espose le sue considerazioni su “La teoria del Sionismo politico”. Pubblicò, inoltre, alcuni articoli su Der Jude e su Jüdische Rundschau: un suo articolo del ‘24, “Cohens Analyse der Bibelwissenschaft Spinozas”, lo portò all’attenzione di Julius Guttmann e gli assicurò un posto da ricercatore di filosofia ebraica all’istituto berlinese Akademie für Wissenschaft des Judentums. Qui, tra il ‘25 e il ’28, scrisse il suo primo libro: La critica spinoziana della religione come fondamento della sua Scienza della Bibbia, Ricerche sul Trattato teologico-politico di Spinoza (pubblicato dalla casa editrice dell’Accademia nel ’30 e dedicato alla memoria di Rosenzweig, morto l’anno precedente). In italiano, l’opera è nota col titolo di La critica della religione in Spinoza. Si occupò inoltre dell’edizione accademica delle opere di Moses Mendelssohn, traducendo alcuni testi dall’originale ebraico. Successivamente gli fu assegnato l’incarico di analizzare il testo Le guerre del Signore di Gersonides (Levi ben Gershon), incarico che Strauss accettò non senza prima aver studiato il libro Teoria della profezia scritto dallo stesso autore. Nel 1927 conobbe Gershon Scholem, del quale divenne col tempo intimo amico: la lettera di Scholem su Oskar Goldberg fu diffusa a Berlino proprio da Leo Strauss e da Walter Benjamin. Nel 1931 l’Accademia iniziò ad avere problemi finanziari, così Strauss si adoperò per ottenere una borsa di studio come collaboratore della Fondazione Rockefeller per le Scienze Sociali, attiva in Germania. I suoi studi sulla critica biblica spinoziana lo portarono a svolgere una duplice ricerca: per un verso incentrata su Thomas Hobbes e per un altro sugli scritti di Maimonide. Il lavoro su Hobbes lo fece entrare in contatto con Carl Schmitt, al quale Strauss mostrò la prima parte del suo libro sul filosofo inglese. L’amicizia con Schmitt durò per tutta la vita, tanto che una delle ultime pubblicazioni di Strauss fu proprio una recensione su un libro dell’amico, Il concetto della politica. Schmitt fornì quindi a Strauss una raccomandazione per la borsa di studio alla Fondazione Rockefeller, raccomandazione alla quale si unirono anche Ernst Cassirer e Julius Guttmann. Strauss, tuttavia, attribuì sempre la responsabilità principale del conseguimento del posto di collaboratore a Schmitt. Verso la fine del 1932 Strauss si trasferì a Parigi, come collaboratore della Fondazione Rockefeller, per svolgere attività di studio sulla filosofia ebraica e islamica del medioevo. Qui egli sposò una donna ebrea, da poco vedova, di nome Marie (Mirjam) Bernsohn (nata nel 1900 a Erfurt, Turingia). Strauss e Marie si erano conosciuti a Berlino tre anni prima del loro matrimonio, avvenuto il 20 giugno del ’33. Marie aveva avuto un figlio nel primo matrimonio, Thomas, che Strauss prese con sé. A Parigi si vedeva spesso anche con Alexandre Kojève, che aveva conosciuto a Berlino nei tardi anni ’20: Strauss presentò Kojève a Gadamer in occasione della viaggio di quest’ultimo in Francia nella Pasqua del ’33. Strauss, in quel periodo, entrò in rapporto anche con Louis Massignon e André Siegfried, due studiosi di filosofia araba. In data 10 giugno 1933 Strauss scrisse una lettera a Schmitt per informare l’amico che la Fondazione Rockefeller gli aveva rinnovato la borsa di studio per un altro anno, e che era quindi sua intenzione studiare per un altro semestre a Parigi e poi trasferirsi in Inghilterra nell’anno successivo per dedicarsi a Hobbes. Infatti, all’inizio del 1934, Strauss e famiglia si trasferirono a Londra: da una cartolina che scrisse a Kojève (in inglese) sappiamo che l’Inghilterra e i suoi abitanti gli andavano molto più a genio della Francia e i francesi. Sappiamo inoltre che sperava di ottenere subito il permesso di consultare la Biblioteca del British Museum per le sue ricerche e che stava prendendo lezioni di inglese: da quando, il 16 gennaio, ricevette la sua tessera personale, fu solito recarsi ogni giorno nella biblioteca del museo (distante una mezz’oretta a piedi da casa) per visionare e studiare le opere di Hobbes in lingua originale. Strauss si recò anche a visitare alcuni luoghi famosi: “sono stato a Downing Street, la sede del più grande potere del mondo: è molto, molto più piccola della Wilhelmstrasse. Sono rimasto molto impressionato.” Nel 1935 a Londra, per la casa editrice Schocken, Strauss pubblicò il suo secondo libro, Filosofia e Legge: contributi per la comprensione di Maimonide e dei suo predecessori, scritto in Germania tra il ’28 e il ’32. Dovette aspettare tre anni perché in patria la dittatura nazista aveva revocato alla casa editrice dell’Akademie il permesso di pubblicare. In questo periodo Strauss conobbe Ernest Barker, dell’Università di Oxford, che gli diede grande assistenza e supporto. In data 9 aprile, Strauss scrisse a Kojève: “mi piace questo Paese, riguardo al quale si potrebbe dire ciò che Diderot disse di Hobbes: è asciutto (i pub chiudono alle dieci in punto e le consumazioni sono costose!), austero ed energico. E poi, paragonato alla Bibliothèque Nationale, il British Museum è un luogo dove ci si reca più volentieri”. Durante quello stesso anno Strauss si trasferì a Cambridge (Perne Road, 38), divenne collaboratore del Sidney Sussex College e dell’Università di Cambridge, conobbe R.H. Tawney (tramite una lettera di presentazione di Henri Sée) e portò a termine il suo libro su Hobbes. Comunicò la cosa per lettera, come era solito fare, a Kojève, scrivendogli che il libro costituiva “il primo vero tentativo di una liberazione radicale dal pregiudizio moderno”. In questa lettera comunicava all’amico anche i suoi problemi economici e la sua incertezza circa la riconferma della borsa di studio anche per l’anno successivo. La filosofia politica di Thomas Hobbes fu pubblicato a Oxford nel 1936 dalla casa editrice Clarendon Press: Michael Oakeshott scrisse una recensione piuttosto prolissa su di esso. Sebbene il consiglio di facoltà dell’Università di Cambridge avesse confermato la borsa di studio a Strauss anche per l’anno accademico 1936/37, le difficoltà economiche, l’avanzare della minaccia nazista e l’improbabile prospettiva di un posto fisso in futuro, costrinsero Strauss a cercare altre soluzioni. Così, tra il ’36 e il ’37, compì vari viaggi negli Stati Uniti, allo scopo di cercare una posizione più sicura. Nell’autunno del ’37, nominato ricercatore presso il Dipartimento di Storia della Columbia University a New York, partì per gli States lasciando in Inghilterra la moglie e il figliastro. La famiglia si ricostituì comunque in breve tempo: nel 1939, infatti, Marie raggiunse il marito in America, portando con sé il figlio. Nel settembre dello stesso anno sarebbe scoppiata la Seconda Guerra mondiale. Per dieci anni, fino al 1948, Strauss fu membro della facoltà universitaria newyorkese New School for Social Research, dove aveva una cattedra di Scienze Politiche. Tra il ‘39 e il ’40 tenne una serie di conferenze e lezioni nei seguenti istituti: Hamilton College, Clinton, NY; Union College, Schenectady, NY; Middlebury College e Amherst College, Massachusetts; Wesleyan University, Middletown, Connecticut. Tra il ’41 e il ’48 scrisse la maggior parte del libro Scrittura e persecuzione, pubblicato nel 1952. Nel 1942 Strauss perse il padre, morto per un attacco cardiaco a Kirchhain, in Germania: la notizia gli giunse però solo al termine della guerra, tre anni più tardi. In quel periodo perse anche tutti i suoi parenti che ancora vivevano in Germania. Essi furono infatti deportati in un campo di concentramento nazista e lì morirono insieme ad altri milioni di ebrei. Nello stesso anno Bettina, la sorella di Strauss, morì al Cairo. Era sposata con Paul Kraus, che morì due anni dopo, forse suicida, forse assassinato. La loro figlia, Jenny Ann Kraus, fu in seguito adottata dallo zio Strauss, quando questi, nel ’44, divenne cittadino statunitense. Nel 1948 portò a termine e diede alle stampe il libro La tirannide. Nello stesso anno, grazie alla notorietà acquisita col suo lavoro alla New School e grazie alle raccomandazioni di Michael Oakeshott, Ernest Barker, Edward Shils e R.H. Tawney, Strauss fu nominato membro del Dipartimento di Scienze Politiche all’Università di Chicago, dove sostituiva Charles Merriam, ritiratosi alcuni anni prima. Occupò la cattedra di Filosofia Politica fino al 1968, e rimase membro della Facoltà di Chicago fino al ’73, anno della sua morte. L’anno seguente rifiutò l’offerta di un posto all’Università di Gerusalemme fattagli da Martin Buber che, in vista del pensionamento, aveva pensato a Strauss come l’uomo più adatto a sostituirlo. Nell’ottobre del ’49 tenne una serie di sei pubbliche conferenze sull’argomento “Diritto naturale e storia”. Pubblicò questi pensieri in un libro omonimo del 1953. Nel 1953, mentre si trovava in qualità visiting professor all’Università di Berkeley, CA, gli fu offerto un posto fisso in quella sede, ma egli declinò l’offerta. Strauss accettò invece la posizione di visiting professor di Filosofia e Scienze Politiche (dalla fine del ’54 fino alla metà dell’anno successivo) all’Università di Gerusalemme, in Israele. Nel 1956 Strauss patì un leggero attacco di cuore. A partire dal 1957 i corsi, i seminari e le lezioni di Strauss cominciarono ad essere registrati e trascritti su iniziativa dei suoi studenti. Nel 1958 pubblicò Pensieri su Machiavelli, scritto tra il ’53 e il ’57, e l’anno seguente diede alle stampe Cos’è la filosofia politica?, libro che raccoglieva saggi composti tra il ’44 e il ’57. Cinque anni più tardi uscì La città e l’uomo, scritto tra il ’62 e il ’64. Nel 1966, infine, fu pubblicato Socrate e Aristofane, libro al quale Strauss lavorò tra il ’64 e il ’65. Nel 1965 l’Università di Amburgo conferì a Strauss un Dottorato in Filosofia Politica honoris causa: egli avrebbe voluto recarsi di persona in Germania, ma per motivi di precaria salute dovette rinunciare. L’anno successivo, per iniziativa del Hebrew Union College di Cincinnati, gli fu conferito un altro Dottorato per i suoi contributi al pensiero ebraico. Il 3 giugno del 1967 l’amico Kojève morì di infarto e alla fine dello stesso anno Strauss si ritirò dall’incarico di professore. La sua ultima apparizione pubblica come membro dell’Università di Chicago fu una conferenza che tenne al Downtown Centre dell’università il 1° dicembre del ’67. Pochi giorni più tardi Strauss partì per il Claremont Men’s College, in California, dove fu per due anni professore di Scienze Politiche. Nel 1968 pubblicò Liberalismo antico e moderno, libro che consisteva perlopiù in una raccolta di saggi ed articoli già precedentemente pubblicati. Tra il ’70 e il ’72 portò a termine un lavoro su alcuni dialoghi platonici, in particolare sulle Leggi. Raccolse questi scritti, insieme ad altri articoli e saggi già editi, in Studi sulla filosofia politica di Platone, opera uscita postuma, nel 1983. Strauss morì il 18 ottobre del 1973, all’età di 74 anni, per le complicazioni di una polmonite. Fu sepolto nel campo santo della sinagoga di Knesseth, presso Annapolis. Strauss perseguiva un fine notevole ed ambizioso: la rinascita della letteratura filosofica occidentale. Affermava di aver riscoperto “un’arte dello scrivere ormai dimenticata” e la violenza con la quale questa sua scoperta venne respinta e quasi ridicolizzata dalla cultura dominate ci dimostra come quest’arte fosse, effettivamente, caduta nell’oblio. Tra gli scritti di Strauss, il passo che mostra più chiaramente cosa comportasse ed implicasse questa riscoperta è quello in cui tratta dello stile di Machiavelli:
“Siamo spesso disorientati dal fatto di attenderci che l’uomo che più di ogni altro è responsabile della cesura con la tradizione debba risultare, per l’atto stesso della cesura che ha compiuto, l’erede – e per nessuna ragione indegno – del supremo stile dello scrivere che la tradizione stessa mostrava come suo picco. L’arte più alta ha le sue radici, come egli stesso ben sapeva, nella necessità più alta. Il libro perfetto o il discorso migliore devono obbedire solamente alla pure e semplici leggi di quella che si chiama necessità logografica. Il discorso perfetto non deve lasciar trasparire segni di trascuratezza, non deve contenere fili logici sciolti né parole scelte a caso, non deve essere rovinato da errori dovuti ad una cattiva memoria o a qualsiasi altro segno di scarsa attenzione. Non è permesso l’uso di nessun orpello o abbellimento che non sia necessariamente richiesto dall’importanza della materia trattata: il perfetto scrittore rifiuta con sdegno la volgare norma retorica secondo la quale le espressioni vadano spesso variate poiché questa variatio rende più piacevole la lettura.”
Strauss invitava “ad un ascolto delle conversazioni tra i più grandi filosofi, o più in generale tra le più grandi menti del passato, e quindi ad uno studio dei loro scritti”. Egli divenne completamente conscio del suo atteggiamento letterario innovativo soprattutto studiando un autore: Mosè Maimonide. Verso la fine della sua vita, egli individuò nella fine degli anni ’30 il periodo in cui riscoprì e riafferrò la perduta arte dello scrivere, insieme a tutto ciò che essa implicava. Nonostante l’importanza e la grandezza della sua scoperta, o forse proprio a causa di ciò, Strauss aspettò un decennio prima di pubblicare un nuovo libro. Quel libro era La tirannide (1948), al quale seguirono a breve distanza La scrittura e la persecuzione (1952) e Diritto naturale e storia (1953). Fu principalmente per mezzo di queste opere che Strauss si impose all’attenzione della cultura contemporanea.
PRESENTAZIONE DEL PENSIERO
L’emigrazione degli intellettuali, durante il regime nazista, fu un fenomeno assai diffuso, che non coinvolse soltanto i pensatori legati alla tradizione liberale e democratica o a quella marxista, ma anche avversari di tali tradizioni e della Modernità tout court. Per questi pensatori, si trattava piuttosto di guardare indietro nel tempo, per cercare nel pensiero e nell’esperienza politica degli Antichi gli strumenti coi quali affrontare i dilemmi del presente, ripararne le storture e indirizzare la storia verso una direzione più umana di quella intrapresa dalla Modernità. Insieme a Erich Voegelin, il più insigne esponente di questa corrente di pensiero, che scorge negli Antichi il rimedio dei mali presenti, è sicuramente Leo Strauss (Kirchhain 20/9/1899 – 1973). Di origini ebree, allievo di Heidegger e professore presso l’Università di Chicago, Strauss prende le mosse dalla convinzione che il pensiero politico moderno, da Hobbes in avanti, tendendo a modellarsi sul paradigma della scienze naturali, abbia avuto come suoi inevitabili esiti il liberalismo (Locke) e la democrazia (Rousseau), e infine il nazismo (Hitler) e il comunismo (Stalin). Le cause di queste tragiche regressioni della modernità sono scorte da Strauss nel fatale abbandono della teoria classica del diritto naturale, formulata chiaramente per la prima volta nella Politica di Aristotele. Strauss concorda col positivismo giuridico di Hans Kelsen nel riconoscere a fondamento della democrazia una concezione storicistica e relativistica della verità e dei valori. Ma la conseguenza inevitabile di ciò, lungi dall’essere positiva (quale era in Kelsen), è per Strauss il nichilismo distruttivo delle tirannidi del XX secolo. Proprio sul concetto di tirannide, il filosofo ebreo compie diversi studi volti a coglierne la genesi storica, a partire dai Greci stessi. In una siffatta prospettiva, il compito di una filosofia politica autentica risiede allora, secondo Strauss, nell’indivisuare quale sia l’ordine politico giusto, in grado di coniugare sapientemente una libertà che non si capovolga in arbitrio con un ordine che non si rovesci in oppressione. Ma non si tratta di un compito facile: esso richiede infatti il possesso di una forma di sapere pratico, quale era quello tematizzato da Platone e soprattutto da Aristotele. Un tale sapere – che Aristotele aveva significativamente chiamato phrònesis – deve, da un lato, discernere il bene dal male, riconoscendo l’esistenza oggettiva di fini buoni perché inscritti nella natura e di un bene comune della società; e, dall’altro lato, deve assolvere una funzione di persuasione e di guida degli individui nella loro personale condotta politica ed etica. Questo ritorno ai Greci e al sapere pratico si incastona perfettamente in quella cornice di “riabilitazione della filosofia pratica” di cui erano in quegli anni sostenitori, tra gli altri, anche Hans-Georg Gadamer e Hannah Arendt.
STORICISMO E RELATIVISMO
Diritto naturale e storia si apre con una solenne invocazione all’asserzione della Dichiarazione di Indipendenza circa le verità auto-evidenti e i diritti inalienabili: Strauss ricorda ai suoi lettori l’importante ruolo giocato dal diritto naturale nella nascita degli Stati Uniti, “la più potente e prosperosa tra le nazioni della Terra”. Fatto ciò, Strauss prosegue disegnando un’inquietante prospettiva: sostiene infatti che la scienza sociale americana sia pervasa dallo stesso spirito che caratterizzava il pensiero tedesco pre-bellico e pre-nazista. Abbandonato il diritto naturale, ci si tuffava nello storicismo e nel relativismo, teorie per le quali ogni pensiero dell’uomo non è nient’altro che un accidentale e fortuito prodotto del proprio tempo. In questo scenario, non esiste in natura nulla in base al quale si possa ragionevolmente optare per la libera democrazia piuttosto che per la tirannide. Quindi, mentre la scienza sociale pretende di mostrarci in che modo possiamo raggiungere i fini ai quali tendiamo, allo stesso tempo ci dimostra come ogni fine sia, in se stesso, privo di senso e fondamento.
Strauss non rigetta direttamente gli insegnamenti del relativismo e dello storicismo. Detto altrimenti, egli non respinge la relativistica e storicistica negazione del diritto naturale tentando direttamente di dimostrare l’esistenza in natura di principi giuridici universali ed immutabili percepibili dalla ragione umana. Piuttosto, cerca di mettere in crisi le due teorie portando alla luce le assunzioni dogmatiche che ne stanno alla base: il suo è un procedimento negativo. La sua intenzione è quella di indurci a riflettere sulle opinioni che assumiamo per certe, per aprire la nostra mente alla possibilità dell’esistenza di una vera e propria morale filosofica, o diritto naturale.
Strauss usa gli argomenti propri dello storicismo per distruggerlo dall’interno. Lo storicismo sostiene che ogni teoria transistorica – investita cioè di una validità universale – è, per ciò stesso, errata. Il pensiero umano nel suo complesso, infatti, è stato e sarà sempre storico, “in situazione”, soggetto a limitazioni caratteristiche del proprio tempo, delle quali esso è, però, necessitatamente inconsapevole. Tuttavia, nota Strauss, quest’assunzione è essa stessa transistorica, valida universalmente in ogni tempo e luogo. Ciò rende la tesi dello storicismo autocontraddittoria e assurda.
Strauss utilizza contro le pretese dello storicismo anche il richiamo all’esperienza tipico di questa dottrina. Secondo lo storicismo, “l’esperienza storica” mostra come tutte le teorie del passato riposassero su basi dogmatiche, su principi presi per validi ma non dimostrati. Lo storicismo sostiene che i pensatori del passato erano necessariamente posti sotto l’influenza della loro situazione storica: Platone non poteva vedere oltre l’orizzonte della polis, Hobbes non poteva guardare oltre quello della guerra civile inglese. Strauss osserva però che nemmeno la più sofisticata forma dello storicismo – lo “storicismo radicale” – mette mai in discussione l’esperienza storica: questa vaga e indistinta esperienza è assunta come principio valido e garantito. Strauss inizia qui a preparare il campo alla possibile esistenza di un diritto naturale tramite il richiamo all’esperienza personale di ogni suo lettore: “l’evidenza di quelle semplici esperienze circa il giusto e l’ingiusto è la base della convinzione filosofica dell’esistenza di un diritto naturale”.
Riguardo al positivismo, Strauss torna in qualche modo alla tesi di Max Weber secondo cui la ricerca scientifica può esprimersi solo su questioni “di fatto”, mentre deve tralasciare quelle “di valore”. Così facendo, Strauss sposta il baricentro della sua discussione dalla possibilità di un diritto naturale a quella di una scienza sociale che contenga valutazioni normative, per arrivare infine alla questione della vita filosofica. Nel definire la posizione di Weber “nobile nichilismo”, Strauss ci vuole mostrare come il nichilismo weberiano non derivi da una semplice indifferenza di valori, ma da un’appassionata -seppur sterile – ricerca di solide basi per nobili e più alti valori.
NATURA E DIRITTO NATURALE
Nel suo tentativo di ripristinare la possibilità del diritto naturale, Strauss cerca di delineare attraverso la politica l’origine dell’idea di natura e di trovare in questa idea un fondamento per la giustizia.
Il diritto naturale è la maniera in cui la natura si esplica nella politica: ma che cos’è questa natura? In Diritto naturale e storia, Strauss non ne dà una singola definizione, ma procede dialetticamente a mostrare come, attraverso la vita politica prefilosofica, il concetto di natura sia per la prima volta venuto allo scoperto. Strauss attribuisce alla parola almeno due significati: natura intesa come caratteristica essenziale di una cosa o di un gruppo di cose e natura come insieme delle “realtà originarie”. La vita prefilosofica risponde alle nostre domande riguardo le realtà originarie tramite il potere dell’autorità, ma l’esperienza di questa vita può anche portare una persona a dubitare di ciò che gli viene rivelato. Gli uomini, da sempre, accordano più fiducia a ciò che vedono coi propri occhi rispetto a ciò che viene semplicemente riferito loro da altri. Se e quando gli uomini applicheranno questa loro preferenza per ciò che è visto rispetto a ciò che è sentito alle rivelazioni che hanno avuto, essi diventeranno coscienti “della possibilità che le realtà originarie abbiano originato tutte le altre in una maniera fondamentalmente diversa dalla creazione volontaria”.
Stilando un resoconto circa il modo in cui per la prima volta questi dubbi fioriscono nella vita prefilosofica, Strauss analizza dialetticamente la scoperta della natura intesa come fondamento necessario e permanente per ogni possibile mutamento.
Che ne è del diritto e della giustizia? L’idea di giusto è solitamente assimilata a quella di legale, conforme alla legge, ma in realtà la legge è il risultato di convenzioni ed accordi umani. Ciò che è naturale, inteso come necessario e permanente, va distinto da ciò che è semplicemente convenzionale: che i cani abbaino e scodinzolino è un fatto naturale, mentre che gli ebrei non mangino carne di maiale è convenzionale. La distinzione fondamentale tra i due concetti sembra consistere nel dubbio circa l’esistenza di un diritto naturale prima che esso sia effettivamente scoperto ed applicato. Come è possibile scoprire uno standard di valutazione universale del giusto, se il giusto è un concetto sempre mutevole e cangiante?
Secondo Strauss, l’idea di un diritto naturale emerge quando si considerano le differenti opinioni circa ciò che è ritenuto giusto come un’occasione per scoprire cosa, in verità, possa essere detto giusto:
“Mentre le differenti opinioni riguardo a ciò che è indubbiamente convenzionale non danno luogo a nessuna seria perplessità, le differenze riguardo ai princìpi del giusto e dell’ingiusto necessariamente hanno questo effetto. Il disaccordo circa i princìpi della giustizia sembra rivelare una perplessità originaria dovuta ad un’insufficiente comprensione del diritto naturale, una perplessità causata da un che di autosussistente e naturale che impedisce l’umana comprensione.”
La teoria classica del diritto naturale nasce in risposta a questa perplessità, in particolare in risposta alla convinzione che il diritto e la giustizia siano tout court meramente convenzionali: Strauss chiama questo pensiero “convenzionalismo”. Nel concetto convenzionalista della giustizia, al posto di ciò che è giusto per natura abbiamo ciò che è utile per natura, in quanto mentre per natura ognuno cerca il proprio utile e nient’altro che il proprio utile, la giustizia ci dice di cercare il bene e l’utile degli altri uomini. Il convenzionalismo, più specificatamente, identifica l’utile con il piacevole, affermando la preferenza umana per il piacere rispetto al dolore: il piacere è indubbiamente un bene. Il diritto naturale classico – teorizzato soprattutto da Socrate, Platone ed Aristotele – sostiene, al contrario, l’essenziale differenza tra il bene e il piacere. Il bene è un concetto primo e più fondamentale rispetto al piacere, in quanto i piaceri esistono in grande varietà e corrispondono a desideri che hanno una naturale gerarchia. Come sottolinea Strauss:
“Differenti tipi di esseri ricercano differenti tipi di piaceri: i piaceri di un asino differiscono dai piaceri di un essere umano. L’ordine dei desideri dipende dalla costituzione naturale, dall’essenza stessa dell’essere considerato: è questa costituzione che determina l’ordine e la gerarchia dei differenti voleri ed inclinazioni dell’essere.”
Tutti riconoscono che gli esseri umani stanno al di sopra degli animali in virtù del possesso del linguaggio, della ragione e dell’intelletto. L’uomo può perfezionarsi proprio tramite lo sviluppo di queste qualità che lo distinguono e lo elevano al di sopra degli altri esseri. “La vita buona è il perfezionamento della natura umana. È il vivere secondo natura”. La teoria classica del diritto naturale culmina allo stesso modo in una difesa del valore della vita filosofica vista come la vita migliore e l’unica veramente giusta.
Questa conclusione implica che l’unica virtù valida per il comando sia la saggezza e che il governo migliore sia quello in cui il saggio ha il potere assoluto. Ciò risulta, tuttavia, impraticabile, in quanto, per natura, il saggio non desidera comandare e né lo stolto essere comandato. Da questo segue che “il problema politico consiste nel conciliare la ricerca di saggezza con la ricerca di consenso”. La maniera migliore per sciogliere questo nodo è una sola: consentire ad un saggio legislatore di redigere un codice di norme o una costituzione tale che i cittadini possano adottarla spontaneamente, senza esservi costretti. I filosofi classici, in questo modo, investono di nobiltà e di dignità la vita e la professione politica. Anche Strauss riconosce questa dignità al pensiero politico-filosofico: il filosofo politico riesce infatti a considerare responsabilmente il collegamento che esiste tra il bene comune e la totalità naturale che egli aspira a conoscere; inoltre, il filosofo può, meglio di chiunque altro, moderare i pericolosi impulsi che assalgono coloro i quali cercano la fonte della leadership politica in qualcosa che sta al di sopra della ragione e della natura. Nell’età di Hitler e del nazismo, questo richiamo alla responsabilità e alla moderazione non può che risultare lodevole.
ANTICHI E MODERNI
Ciò che colpì maggiormente i contemporanei di Strauss nella lettura di Diritto naturale e storia fu l’evidente preferenza dell’autore per la filosofia politica classica e la sua convinzione della superiorità del pensiero antico rispetto a quello moderno. Per coloro i quali erano fermamente convinti del maggior valore del pensiero moderno, Diritto naturale e storia rappresentò, a seconda dei casi, un motivo di indignazione o un nuovo ed illuminante punto di vista.
Dopo aver presentato la dottrina classica del diritto naturale, Strauss passa a considerare quella moderna: nella sua riflessione sono portate alla luce alcune importanti differenze tra le due teorie. In primo luogo, mentre nella visione classica le riflessioni morali e politiche sono svolte alla luce del perfezionamento dell’uomo e dei suoi fini, in quella moderna traggono spunto dall’origine dell’uomo, dallo stato di natura. In secondo luogo, dove per i classici l’uomo è un essere per natura socievole, un “animale politico”, per i moderni l’individuo viene prima della società. Il terzo punto riguarda il fine della vita politica: mentre per gli antichi l’attività politica è principalmente finalizzata a realizzare la virtù umana, per i moderni il suo scopo è quello di far uscire l’uomo dalla condizione di massima insicurezza dello stato di natura (bellum omnium contra omnes).
Una quarta differenza riguarda l’essenza stessa del fenomeno politico-sociale: secondo i classici, la sua essenza è il governo, inteso in senso lato come il modo di vivere di una società, incarnato in ciò a cui essa maggiormente tende e aspira o ciò da cui essa trae origine e fondamento. Per esempio, la democrazia ha il suo fondamento nell’uguaglianza e nella parità di diritti dei cittadini. I moderni, al contrario, minimizzano l’importanza del concetto di governo in favore di ciò che essi considerano l’istanza politico-morale per eccellenza: il diritto all’autoconservazione.
Altri due punti di disaccordo tra le due teorie hanno a che fare con la considerazione della responsabilità umana e con la valutazione della vita filosofica: per quanto riguarda la prima questione, i classici sostengono che la teoria politica ha l’intrinseca necessità di essere affiancata e guidata dalla saggezza pratica e dalla prudenza dell’uomo, mentre i moderni tendono a ridurre l’importanza della responsabilità umana in politica e ad enfatizzare quella delle istituzioni (in accordo col pensiero illuminista); riflettendo sul secondo concetto, Strauss nota come i classici esaltino e considerino per natura migliore la vita filosofica, laddove i moderni, avendo ormai abbandonato l’idea di “perfezione naturale”, non possono che pensare altrimenti.
Se si considerano anche brevemente questi contrasti, si capisce perché Strauss, in altro luogo, abbia definito gli scrittori classici come coloro i quali, per le loro proposte pratiche, verrebbero oggi chiamati conservatori. E se si considera la sua apparente preferenza per questi classici, si può comprendere perché una volta l’insegnamento di Strauss fu tacciato di conservatorismo. In realtà, leggendo Diritto naturale e storia, si è colpiti dall’insistenza dell’autore sul carattere essenzialmente moderato del pensiero politico classico: Strauss vede questa caratteristica nella “saggia flessibilità” del pensiero antico, nell’ammissione di necessarie imperfezioni della vita politica, nella visione della giustizia sociale, assimilabile, secondo Strauss, a ciò che noi oggi chiamiamo “diritto alle pari opportunità”. Strauss non nega, da un lato, l’importanza che nel pensiero classico riveste il concetto di virtù o di valore, ma, dall’altro, ci tiene a chiarire quanto lontano sia questo pensiero dal moralismo dogmatico o dal conservatorismo ideologico.
In Diritto naturale e storia, Strauss limita la sua riflessione sul moderno diritto naturale alla trattazione di Hobbes e Locke, aggiungendo qualche considerazione sulla “crisi” di questa teoria occupandosi di Rousseau e di Burke. Nel raccontarci di questi pensatori moderni, Strauss cerca sia di spiegare il più fedelmente possibile il loro insegnamento sia di portare alla luce la loro influenza culturale e storica. Secondo l’autore di Diritto naturale e storia, ognuno di questi filosofi radicalizza, più o meno consapevolmente, le riflessioni e le conclusioni dei propri predecessori.
Strauss elabora un’analisi della modernità secondo la quale Hobbes fu il primo pensatore che cercò di costruire un ordine politico tale che, in accordo con la più potente passione dell’uomo (la paura di una morte violenta), potesse essere considerato universalmente valido. Più avanti Locke, “sulla base della visione hobbesiana della legge naturale”, si oppose all’assolutismo di Hobbes, ma non alla sua teoria del diritto naturale. Per Strauss la “crisi del moderno diritto naturale” nacque proprio dalla reazione alle teorie Hobbes e Locke: Rousseau fu colui che iniziò questo processo di crisi. Per il filosofo francese, Hobbes avrebbe giustamente individuato le radici della giustizia nella naturale condizione presociale dell’uomo, ma non si sarebbe spinto abbastanza a fondo nella sua analisi. Nella visione di Rousseau, la condizione naturale dell’uomo non è solo presociale, ma anche prerazionale, pre-umana: Rousseau deve così elaborare un resoconto dell’evoluzione storica dell’umanità. Arriva così a dare un importante impulso alla nascita e allo sviluppo dello storicismo, uno sviluppo corroborato in seguito dagli elementi del pensiero di Burke.
Un secolo e mezzo più tardi, ricco dell’esperienza sia pratica che teorica dello storicismo, Diritto naturale e storia propone ai suoi lettori la seria necessità di un recupero del diritto naturale, pur senza mai minimizzare o negare la problematicità di una simile operazione.
L’ARTE DELLO SCRIVERE
Sebbene La scrittura e la persecuzione e Diritto naturale e storia furono pubblicati ad un anno di distanza l’uno dall’altro, queste due opere sembrano avere ben poco in comune tra loro. In Diritto naturale e storia, infatti, non troviamo nessuna particolareggiata discussione sulla scrittura filosofica né riflessioni sui pensatori medievali islamici ed ebraici trattati ampliamente in La scrittura e la persecuzione. Inoltre, mentre Diritto naturale e storia sottolinea i contrasti e le differenze tra classici e moderni, La scrittura e la persecuzione tenta di mettere in risalto l’essenziale continuità della tradizione filosofica.
La scrittura e la persecuzione è l’unico libro di Strauss che sia esplicitamente dedicato alla sua riscoperta di “un’arte dello scrivere ormai dimenticata”, una scrittura “tra le righe”, più precisamente, esoterica. Secondo Strauss la consapevolezza dell’esoterismo venne meno con l’emergere dello storicismo verso la fine del XVIII secolo. In Pensieri su Machiavelli, indica nel Goethe del dopo-Werther l’ultimo grande autore che riscoprì o ricordò il nesso tra la scrittura e la persecuzione. Questa intuizione, però, morì con Goethe, e con essa vennero distrutte “le ultime vestigia dell’originario significato della filosofia”.
Nei primi due capitoli di La scrittura e la persecuzione, Strauss presenta un resoconto generale delle caratteristiche della pratica di scrittura esoterica: un’opera esoterica contiene una dottrina popolare e costruttiva che è accessibile a tutti e una dottrina segreta (o esoterica) che si rivela solo dopo uno studio attento e profondo, uno studio che tenga conto tanto di problemi filosofici quanto di questioni letterarie. Un testo esoterico deve essere scritto con un’estrema precisione e attenzione, e può presentarsi in varie forme e tipologie (dialogo, commento, trattato, ecc). Il suo autore utilizza innumerevoli stratagemmi e trucchi letterari, in modo da celare e – allo stesso – tempo rivelare la sua vera dottrina. Queste caratteristiche enigmatiche, continua Strauss, includono “l’oscurità del progetto, l’uso di contraddizioni, pseudonimi, ripetizioni, espressioni inusuali, ecc.”. Per capire in modo completo ed adeguato un testo esoterico, bisogna riuscire a collegare ogni minimo dettaglio letterario all’argomento generale nella sua interezza: un processo che, ovviamente, risulta non sempre facilmente attuabile.
La ragione principale dell’accostamento tra scrittura e persecuzione, coppia di termini che troviamo già nel titolo, può essere così riassunta: la maggior parte delle società del passato (e molte società contemporanee) erano sottomesse a regimi non-liberali, che praticavano largamente la censura e la persecuzione al fine di mantenere stabile il potere politico e quello religioso; allorché lo scopo di un filosofo era quello di migliorare la condizione umana, rivelando e diffondendo la conoscenza vera, egli si trovava necessariamente in contrasto con le opinioni dominanti del suo tempo. Perciò, se desiderava comunicare i suoi pensieri attraverso la scrittura, doveva anche trovare il modo di evitare l’ira e la condanna delle autorità. Da qui la necessità della scrittura esoterica.
LA TIRANNIDE
Nel primo libro di quella trilogia che stiamo analizzando, La tirannide: un’interpretazione del Gerone di Senofonte, Strauss cerca di far rivivere il pensiero politico-filosofico classico attraverso un attento studio della scrittura di Senofonte. Vuole dimostrare quanto possa risultare utile e proficua la lettura di un testo antico pur ritenuto inaffidabile e di poco conto come il Gerone: in quegli anni, infatti, era ampliamente accettato che Senofonte fosse stato, a voler essere indulgenti, niente più che un nobiluomo, ma alla peggio poteva anche essere definito un sempliciotto: cosa del resto provata, se vogliamo, dal fatto che con lui Socrate si guardasse bene dal parlare di cose alte e metafisiche, ma restasse sempre coi piedi per terra, discorrendo di quella guerra e di quell’arte militare di cui Senofonte era un vero e proprio maestro. Strauss intende ribaltare questa visione comune, carica di pregiudizi.
Già dalle prime pagine di La tirannide, capiamo chi sono i destinatari del discorso e delle critiche dell’autore: egli dichiara di voler sottomettere la sua “dettagliata analisi di questo dimenticato dialogo sulla tirannide alla considerazione di tutti gli esperti della scienza politica”. Strauss considera la scienza politica dei suoi tempi un completo e totale fallimento intellettuale: prova di ciò era stata la sua incapacità di riconoscere per quelle che veramente erano le dittature di Stalin e Hitler.
Il discorso di La tirannide è tutto focalizzato sul problema della libertà di pensiero, e cerca di dimostrare come lo studio del Gerone possa essere un indispensabile sussidio per comprendere appieno questo problema. Il Gerone è il prodotto della retorica socratica: “ogni società cerca di controllare il pensiero – scrive Strauss – e la retorica di Socrate è un modo per frustrare questo tentativo”. La retorica socratica è, infatti, una forma di insegnamento esoterico, perfezionato nella tipologia del dialogo: esponendo il pensiero dell’autore “in una forma obliqua ed indiretta”, riesce a fornire molti indizi di interpretazione al lettore che desidera conoscerlo.
Strauss rimarrà legato per tutta la vita alle riflessioni tratte dallo studio della scrittura e dei testi di Senofonte. Nel suo lavoro Il discorso socratico di Senofonte (1970) scrive infatti: “la nostra epoca si vanta di essere più aperta ed illuminata rispetto alle epoche passate, ma è sicuramente cieca di fronte alla grandezza di Senofonte. Si potrebbero fare numerose riflessioni sul nostro tempo leggendo e rileggendo le sue opere”.
SOCRATE E MACHIAVELLI
Il Gerone sembra non essere altro che un noioso dialogo tra un tiranno senza cuore, Gerone, e un poeta, Simonide. Il poeta cerca di convincere il tiranno a governare secondo giustizia: un discorso edificante, ma semplice e fiacco. Per comprendere l’interpretazione di Strauss e scoprire invece come quest’opera sia un sottile dramma psicologico tra un tiranno diffidente e un saggio insegnante dell’arte politica, bisogna sopportare una sobria lezione di umiltà.
Strauss evidenzia dettagliatamente molti trucchi letterari che dimostrano la maestria retorica di Senofonte: diversi e significativi silenzi, ambiguità intenzionali, ironia, inesatte ripetizioni di frasi già dette in precedenza, uso alterno della prima persona singolare e plurale e tanti altri. La tirannide insegna così al lettore come studiare un testo classico, mostrandogli contemporaneamente la necessità di un tale esercizio.
Il tiranno Gerone diffida del poeta Simonide: in generale tutti i tiranni temono gli uomini colti e saggi. Così, quando il poeta gli chiede quanto sia effettivamente desiderabile la vita del tiranno, egli coglie l’occasione di mettere in luce tutti gli svantaggi e gli inconvenienti della sua vita: la sua intenzione è soffocare sul nascere ogni ipotetica tentazione tirannica di Simonide, ma il poeta non si fa impressionare. Di fronte all’indifferenza di Simonide, Gerone è sempre più preoccupato e inasprisce sempre più le difficoltà e i disagi della vita tirannica. Gerone arriva a dipingere così negativamente la sua vita infelice, che finisce col dire che “un tiranno può difficilmente evitare di impiccarsi per disperazione”. A questo punto, Simonide prende il controllo della conversazione e inizia ad insegnare a Gerone l’arte del buon governo tirannico: Strauss sottolinea come, a portare a questo punto Gerone, non sia stato qualcosa che Simonide abbia detto, ma il fatto che egli abbia evitato di dire qualcosa. Il poeta procede quindi col dimostrare che la vita tirannica secondo giustizia e lealtà è una vita realmente desiderabile, in quanto comporta gli onori più alti.
Da questa breve presentazione dell’azione dialogica, si può agevolmente capire perché Strauss affermi che il Gerone costituisca una tra “le più profonde radici del pensiero politico moderno”. Il personaggi di Simonide sembra essere infatti molto machiavelliano: il Gerone rappresenta il punto di contatto più evidente tra la scienza politica premoderna di Socrate e quella moderna di Machiavelli. Strauss si spinge a dire che, ad una più attenta lettura del Principe, molte tra le più scioccanti e crude considerazioni del suo autore possono essere considerate il prodotto di “una perfetta comprensione della lezione pedagogica di Senofonte da parte di Machiavelli”.
Naturalmente, continua Strauss, “confrontando la dottrina del ‘Principe’ con quella trasmessa dal ‘Gerone’, si afferra chiaramente la sostanziale differenza tra il pensiero politico socratico e quello machiavelliano”. Senofonte, o meglio Simonide, “è più ‘politico’ di Machiavelli; egli, infatti, rifiuta di separare la ‘moderazione’ (prudenza) dalla ‘saggezza’ (comprensione)”.
Strauss, in La tirannide, non va oltre queste considerazioni sul tema del contrasto tra il Senofonte socratico e la modernità di Machiavelli: per una trattazione completa di questo problema bisogna consultare i lavori della vecchiaia.
IL SIGNIFICATO DELLA SUA OPERA
Strauss non scrisse i suoi libri perché le idee in essi contenuti rappresentassero la soluzione per le dispute politiche contemporanee, anzi, fece esattamente l’opposto. Nell’introduzione a Pensieri su Machiavelli leggiamo infatti: “il nostro studio critico sul pensiero di Machiavelli non ha altro scopo che quello di porre problemi permanenti”.
Piuttosto che nell’offrire soluzioni pronte all’uso o un programma da mettere in pratica, l’influenza di Strauss si fece sentire modificando la capacità di concepire i problemi politici e le questioni di pubblico interesse, sollevando sempre nuovi dubbi. Come scrisse egli stesso stesso:
“Non possiamo ragionevolmente aspettarci che la semplice comprensione della filosofia politica classica ci fornisca le ricette per uso odierno… Solo vivendo nel nostro tempo possiamo risolvere i problemi del nostro tempo. Tuttavia, un’adeguata comprensione di quei principi elaborati dai pensatori classici può costituire un indispensabile punto di partenza per un’analisi del mondo di oggi o per una corretta applicazione di quei principi ai nostri scopi pratici.”
Ad esempio, Strauss era perfettamente consapevole che il linguaggio con il quale vengono discussi certi problemi stabilisce il modo in cui essi vengono compresi: egli, perciò, cercò sempre di assicurarsi che i propri lettori possedessero strumenti lessicali adeguati alla vita politica. Come abbiamo già notato, Strauss ha reintrodotto il concetto di tirannide nella scienza sociale e nella politica. Per quale motivo? Proprio perché “una scienza sociale che non può parlare della tirannide con la stessa dimestichezza con la quale la medicina parla, ad esempio, del cancro, non può comprendere i fenomeni sociali per ciò che essi veramente sono”.
Un esempio particolarmente opportuno è la riabilitazione e il recupero del concetto classico di “regime”: comprendere la vita politica in termini di regimi significa riconoscere come la politica abbia a che fare sia con l’universale (principi di giustizia o di governo) sia con il particolare (il “nostro” territorio, il linguaggio, le tradizioni). Il concetto di regime, propriamente inteso, aiuta ad evitare gli estremi politici dell’universalismo utopico e del nazionalismo isolazionista.
Strauss fu sempre molto grato alla sua nazione adottiva, gli Stati Uniti, per il modo in cui riuscirono a distinguersi tra la barbarie del XX secolo: furono il terreno ideale e adatto per la riforma della scienza politica che egli aveva in mente.
SAMUEL ALEXANDER
A cura di Erica Onnis
VITA E OPERE
Samuel Alexander nacque a Sydney, in Australia il 6 gennaio 1859. Suo padre era morto prima della sua nascita e così, assieme ai suoi due fratelli e alla sorella, Samuel fu allevato dalla madre grazie anche all’aiuto della famiglia di lei. Nonostante non provenisse da una famiglia ricca, sua madre dispose di sufficiente denaro per assumere una domestica e alcuni tutori che si occupassero dell’educazione dei suoi figli. Quando uno dei tutori decise di fondare una scuola per ragazzi, Samuel vi fu mandato, ma l’uomo si dimostrò “un po’ pazzo” (citò infatti Samuel in un cartellone pubblicitario della sua scuola, descrivendolo come un ragazzo “capace di scrivere come le Muse e di fare cose straordinarie”) tanto che la madre di Samuel fu costretta a farlo ritirare dalla scuola. Nel 1871 entrò nel Wesley College, decisione che si dimostrò immediatamente eccellente viste le sue potenzialità. Il preside della sua scuola, M. H. Irving, era stato studente al Balliol College, dove aveva avuto come tutore Benjamin Jowett; egli era emigrato in Australia per assumere il posto di professore di Comparazione Classica e Logica Filosofica all’università di Melbourne, una cattedra a cui rinunciò pochi anni dopo per accettare un posto al Wesley College.
“Il Wesley College” scrisse Alexander più tardi “era davvero un gran bell’istituto, che fu in grado di darci una preparazione completa sia nella materie classiche, sia in quelle matematiche, sia nelle varie lingue straniere come Inglese o Francese e anche nelle Scienze.” Irving, che era “piuttosto severo, ma anche piuttosto cordiale”, la definì come “efficiente e a tutto tondo”.
Dal Wesley college Alexander passò all’università di Melbourne, dove le sue prestazioni furono eccezionali, ma dopo soli due anni e senza diploma, sua madre si convinse a mandarlo in Inghilterra, dove sperava che avrebbe vinto una borsa di studio per Oxford oppure per Cambridge.
Alexander concorse per la borsa di studio del Balliol, Oxford, ed infatti la vinse, superando persino Gorge Curzon (che più tardi sarebbe diventato governatore e ministro degli esteri in India). Benjamin Jowett, il preside del Balliol e professore di Greco Classico, fu tra i suoi conoscenti e Alexander ricevette molti consigli da lui. Alexander ricorderà anni dopo che Jowett trovava il suo stile “troppo floreale. I cinesi amano questo tipo di stile, noi no.” Studiò con A.C. Bradley, fratello di F. H. Bradley, specializzato in letteratura inglese. Sia T.H. Green, sia R.L. Nettleship erano insegnanti privati in filosofia al Balliol durante gli anni in cui Alexander era un allievo. Alexander tentò la docenza ad Oxford e, per ragioni sconosciute, scelse per il suo tentativo il Lincoln College, piuttosto che il Balliol. Nel 1882 ottenne una docenza, posizione che avrebbe conservato per gli undici anni successivi. La sua elezione fece storia, perchè fu il primo ebreo ad ottenere una cattedra in tutta la storia del Balliol.
L’anno che segue la sua elezione, Alexander lo spese in Germania, dove assistì alle lezioni ed alle conferenze dell’università, ma non lavorò col fine di un’ulteriore laurea. Dopo il suo ritorno s’impegnò come insegnante di Filosofia nelle università di Oriel e di Lincoln, dove insegnò fino al 1888. Durante questi anni s’interessò a problemi di filosofia morale, scrivendo una dissertazione che ricevette il Premio Green in Filosofia Morale nel 1887. Durante gli anni seguenti, Alexander trasformò la sua dissertazione in un libro, Ordine morale e progresso: analisi delle concezioni etiche (1889), che venne giudicato con molto favore dalla critica e ristampato due volte negli gli anni successivi.
Quando, data la continua richiesta del libro, l’editore propose una quarta edizione, nel 1912, Alexander bocciò la proposta, spiegando che con il passare degli anni lo sviluppo della teoria etica aveva reso superata la discussione contenuta nell’opera. Come suggerisce il titolo, Alexander sviluppò una teoria etica basata saldamente sulla teoria dello sviluppo, e in particolare sulla dottrina darwiniana della selezione naturale. La teoria etica di T.H. Green, resa dapprima pubblica con le sue conferenze ed in seguito con il suo libro, Prolegomeni all’etica (1883), pubblicato da A.C. Bradley l’anno dopo la morte dell’autore, servì ad Alexander come trampolino di lancio. Egli però non fu un fedele seguace di Green, anzi criticava i suoi punti di vista, rifiutando quelli che trovava troppo “costruiti”. Mentre lavorava su Green, Alexander era preoccupato che il suo dissenso dal filosofo, la cui memoria era ancora vivissima, avrebbe condotto il suo eventuale pubblico a respingere il suo libro e proprio per questo fu un sollievo quando F.H. Bradley, che studiò le sue teorie, non espresse alcuna obiezione al suo trattamento delle dottrine di Green.
Alexander era partito da Green nella sua applicazione dell’idea della selezione naturale alla sfera della condotta umana. Sia Herbert Spencer che Leslie Stephen avevano tentato un’operazione simile, ma Alexander, che potè lavorare anche sui loro impianti filosofici, produsse un sistema più profondamente sviluppato dei suoi predecessori. La sua teoria etica era decisamente in sintonia con lo spirito dei tempi, e conseguentemente ebbe un largo successo. Prima che il suo libro uscisse, Alexander aveva preso un permesso da Oxford per vivere a Londra. La maggior parte del tempo là trascorso fu dedicato allo studio, ma Alexander tenne anche un corso in psicologia elementare a Toynbee Hall, e presiedette la relativa società filosofica.
Uno degli obiettivi principali di Toynbee Hall, la succursale delle università fondata nella parte orientale di Londra nel 1884, era quello di offrire un’opportunità di istruzione alla classe povera di Londra. Durante i primi anni, molti neo-laureati di Cambridge e di Oxford cominciarono a insegnare per qualche tempo sotto gli auspici di Toynbee Hall, prima di ottenere un posto in modo permanente. A quel tempo era considerato alla moda insegnare là. Non sorprendentemente, Alexander trovò i suoi allievi troppo poco preparati per i suoi insegnamenti e infatti fu necessario un lungo lavoro prima che i suoi nuovi studenti raggiungessero il livello dei suoi studenti non laureati dell’Oxford.
Il suo lavoro sulla teoria etica lo aveva portato a studiare sia la biologia sia la psicologia, ed egli continuò a interessarsi di queste materie anche a Londra. C. Lloyd Morgan (1852-1936), che stava giusto allora preparandosi ad approfondire la sua teoria di sviluppo emergente, espose del libro di Alexander una critica molto favorevole che fece nascere nei due uomini una profonda amicizia destinata a durare per tutta la vita. La dottrina dell’emersione svolge un ruolo centrale nel lavoro metafisico successivo di Alexander. Egli fu, inoltre, affascinato dai recenti sviluppi nel campo della psicologia sperimentale, a quel tempo non insegnata in Inghilterra, che lo portarono negli anni 1890-91 a recarsi in Germania per lavorare nel laboratorio di psicologia di Hugo Münsterberg, a Friburgo. Quando ritornò ad Oxford, nel 1891, tenne un ciclo di conferenze in psicologia nei due anni successivi, e mentre era professore a Manchester, reclutò T.H. Pera (1886-1972) per inaugurare un corso in psicologia sperimentale.
In seguito al suo ritorno, Alexander continuò a sentirsi insoddisfatto del suo posto ad Oxford, così decise di fare domanda per la libera docenza. Malgrado le numerose e influenti lettere di stima di molte importanti figure intellettuali (compresi Bernard Bosanquet, A.C. Bradley, F.H. Bradley, Benjamin Jowett, Gilbert Murray, Leslie Stephen e J. Cook Wilson) le sue prime tre richieste non furono accontentate. Dati i tempi, il pregiudizio religioso poteva essere una causa, ma non ci è dato sapere se effettivamente lo sia stato. Al suo quarto tentativo, nel 1893, fu finalmente nominato professore di filosofia all’università di Owens, che successivamente sarebbe stata trasformata nell’università di Manchester, e vi insegnò fino al suo ritiro, nel 1924. Il compenso, a Manchester, gli permise di avere sempre un assistente e, nel corso degli anni, diede agli uomini che avevano lavorato con lui la possibilità di continuare la loro carriera, fino ad ottenere l’insegnamento. Durante la sua carriera, Alexander continuò comunque a prepararsi alla stesura di quella che sarebbe poi divenuta il suo magnum opus, e cioè Spazio, Tempo e Deità, che non fu però pubblicato fino al 1920.
Spazio, Tempo e Deità è uno straordinario lavoro di sintesi. Esso include elementi neohegeliani, del nuovo realismo, Bergsoniani, Kantiani, ed anche elementi che richiamano la teoria della relatività, lo sviluppo emergente e la psicologia sperimentale. Non c’è, infatti, molto da stupirsi che la gestazione di quest’opera abbia richiesto così tanti anni. Potenzialmente, il libro non sarebbe mai stato scritto se l’università di Glasgow non avesse invitato Alexander a unificare due gruppi delle conferenze di Gifford mentre la prima guerra mondiale infuriava. Una volta che si fu impegnato, la necessità di unire questi due gruppi lo spinse a formulare delle teorie in base alla lettura condotta sui testi di Gifford che pose in un unico sistema.
Nel corso degli anni, aveva pubblicato un certo numero di articoli che diedero ai suoi lettori alcuni suggerimenti per comprendere il senso del suo pensare, ma erano soltanto suggerimenti e la portata completa del suo sistema non fu compresa dal grande pubblico fino a quando non si decise ad unificare tutte le sue varie conferenze ed i suoi articoli. Il libro di Alexander fu uno degli ultimi tentativi di un filosofo inglese di avanzare una visione del mondo speculativa, ben sviluppata e onnicomprensiva. Soltanto due dei suoi contemporanei, John McTaggart Ellis McTaggart (1866-1925) ed Alfred North Whitehead (1861-1947), furono successivamente in grado di pubblicare dei sistemi competenti: il primo con lo scritto La Natura dell’Esistenza (1921); il secondo con Processo e realtà: un saggio di Cosmologia (1929). Alexander, a sentire Dorothy Emmet, “pensò che il suo lavoro sarebbe stato declassato da quello di Whitehead e sottolineò che avrebbe potuto dire, come Dott. Johnson disse di sè riguardo a Burke, che per lui ormai non era più tempo.” Quando però Alexander lesse il lavoro di Whitehead, si rese conto che si erano rapportati alla metafisica in modi molto diversi. Whitehead aveva intrapreso un percorso leibniziano, seguendo anche le orme di Spinoza. Questi loro due approcci diversi, per non parlare dei confusi neologismi e degli usi insoliti di termini comuni di Whitehead, rendono il confronto dei due sistemi quasi impossibile. Per questo motivo, l’opera di Alexander si staglia in modo piuttosto originale nel paesaggio della storia della filosofia del XX secolo. Alexander non era un filosofo che cercasse seguaci, né sarebbe stato felice se fossero venuti dei “fedeli” a gettarsi ai suoi piedi. In una lettera a Susan Stebbing, nel 1930, Alexander pose la questione in questi termini:
“Io credo che la mia maggiore particolarità sia di essere provocatorio; ed ho organizzato il mio modo di pensare e le miei azioni con lo scopo di indurre a pensare la gente, anche se le loro riflessioni mi potrebbero condannare. Sono molto carente di solidità e di sicurezza. E conoscete ciò che disse W. James:, e cioè che qualsiasi sciocco può essere originale.”
Lo stile provocatorio di Alexander non era però mai volgare o incivile, e pochissimi si sono mai sentiti offesi da qualche cosa che egli disse. In un celebre discorso, egli tentò anche di spiegare il motivo del grande affetto nato per lui nel corso della suo vita:
“Non so dire come io abbia ottenuto questo affetto; a meno che non sia io stesso a possedere questo affetto, che si estende a tutti i bambini e perfino ai cani, ai gatti ed a tutti gli altri animali. Oltre a questo, in seguito alla profonda autoanalisi che ho condotto, posso concludere soltanto che ci deve essere qualcosa in me che nel diciottesimo secolo sarebbe stata definita come ‘je ne sais quoi’”.
Alexander si spense nel 1938, all’età di 79 anni.
IL PENSIERO
Anche Alexander, come Alfred North Whitehead, è portavoce della corrente realista: e ciò appare evidente soprattutto nel suo capolavoro, i due volumi di Spazio, tempo e deità (1920). Come per Whitehead, anche per Alexander la realtà si contraddistingue per il suo dinamismo intrinseco: e ciò perché essa è rappresentata dall’evoluzione emergente di una sostanza universale composta dall’indisgiungibile connubio di spazio e tempo. Da tale sostanza universale emergono senza sosta sempre nuovi e più alti livelli di realtà: dalle semplici configurazioni dello spazio materiale alle più sublimi realizzazioni dello spirito. Da questa inseparabile unione di spazio e tempo, in forza della quale lo spazio è il volto materiale (il corpo) del tempo e, viceversa, il tempo è il volto formale (lo spirito) dello spazio, deriva anche la stretta unità, all’interno del processo evolutivo, tra il corpo e lo spirito. Benché lo spirito rappresenti la più alta realizzazione evolutiva che noi conosciamo, non è l’ultima: infatti l’evoluzione procede ininterrottamente e in maniera indefinita il proprio cammino. Sicché, al di là dello spirito, in futuro dovrà emergere un livello superiore di realtà: ma noi non possiamo ancora concepire l’essenza di questa realtà futura. A tale realtà futura Alexander dà il nome di deità: essa non è che l’oscuro e indefinito oggetto di venerazione di tutte le rappresentazioni storiche di Dio. In Spazio, tempo e deità, Alexander si muove con maggiore autonomia rispetto alla tradizione filosofica e con maggiore attenzione ai risultati delle ricerche scientifiche: egli sostiene che le idee non sono intermediarie tra lo spirito umano e la realtà empirica. Esse sono le cose; laddove però s’intenda che le cose non si esauriscono nella loro materialità; infatti la materia ha solo dimensione spaziale, mentre le cose sono delle determinazioni particolari di una realtà unitaria e originaria che è lo “spazio-tempo” di cui parla la fisica di Einstein. Tuttavia dell’unità “spazio-tempo” Alexander dà un’interpretazione decisamente metafisica, sostenendo – come abbiamo visto – che il tempo sta allo spazio come lo spirito sta al corpo dell’uomo. Poiché spazio e tempo sono un’unità, cosí anche l’uomo è unità di spirito e di corpo. Il che implica non solo che, in generale, non c’è separazione tra spirito e corpo nell’uomo, ma anche che non c’è mondo spirituale da una parte e mondo materiale dell’altra, e non c’è un mondo di essenze separato dal mondo delle esistenze. Per cui le connessioni percepite mentalmente tra le cose non sono soggettive, ma oggettive: sono connessioni ideali intrinseche alla realtà e proprie di essa. Come si spiega la relazione indicata? Con la teoria dell’evoluzione, dice Alexander. La materia, noi diciamo, si è evoluta nel tempo; in realtà ciò significa che il tempo è il principio e la condizione dell’evoluzione della materia; principio interno, non esterno. In virtú di questa evoluzione, la materia ha raggiunto un assetto organico, da cui è emerso l’uomo. Ciò significa anzitutto che l’unità spirito-corpo dell’uomo ha la sua radice in quella spazio-temporale della realtà cosmica. E poi che lo spirito è certo qualcosa di specifico rispetto alla materia del corpo, non riducibile ad essa, ma non sussiste fuori della materia; esso ne è, sul piano evolutivo, il prolungamento. Significa anche che nell’individuo lo spinto è l’energia interiore del corpo, è una determinazione specifica, spaziale, del tempo, anzi è la forma piú alta del tempo. E infine significa che lo spirito è il fondamento comune di tutti gli individui umani, ma anche di tutte le realtà naturali e sensibili.
VON BALTHASAR
“Chi è il cristiano? Uno che impegna la propria vita per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita al Crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fratelli? Non soltanto cose visibili: il suo dono – ciò che è stato dato a lui stesso – affonda nelle cose invisibili di Dio” (Cordula, ovverosia il caso serio).
Hans Urs von Balthasar nasce a Lucerna nel 1905: dapprima egli si dedica alla filosofia, conseguendo la laurea a Vienna con una tesi sull’influsso dell’escatologia nella letteratura tedesca moderna. Dopo essere divenuto gesuita, lavora con Erich Przywara e, in seguito, conosce a Lione una sfilza di personaggi che incideranno molto sulla sua formazione: Paul Claudel, Albert Béguin, Henri De Lubac. Quest’ultimo induce von Balthasar a studiare a fondo la patristica. Ne nascono approfonditi studi su Agostino, Origene, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore, oltre a numerose traduzioni in tedesco di scritti di Claudel, Péguy, Bernanos. Tra il 1938 e il 1939, von Balthasar risiede a Monaco e collabora con Hugo Rahner (studioso della patristica) e con Karl Rahner. Trasferitosi a Basilea nel 1940, compie una vera e propria svolta di pensiero: infatti dà vita ad una comunità di formazione per studenti e fonda parecchi gruppi rivolti ad anziani e disseminati per la Svizzera. Nel 1947, von Balthasar fonda a Einsiedeln una propria casa editrice, mentre l’anno seguente si stacca dalla Compagnia di Gesù alla ricerca di nuovi tipi di presenza nel quotidiano. Fonda pertanto un istituto secolare in cui vive interiormente gli ideali della dedizione a Dio, integrandosi pienamente con la realtà mondana. Muore nel 1986. Alla prima fase del suo pensiero risale l’importantissimo scritto del 1952 intitolato Abbattere i bastioni, con cui afferma la necessità che la Chiesa abbandoni il suo arroccamento e distrugga le mura difensive che la tengono separata dal mondo moderno e dalla sua cultura. In forza di questo scritto così rivoluzionario, von Balthasar non fu invitato a partecipare ai lavori del Concilio, anche se di fatto la sua influenza teorica fu assai rilevante. Dopo il Concilio, caratterizzato da grandi tentativi e da notevoli slanci di ottimismo, von Balthasar sente il pericolo che si perdano elementi essenziali dell’identità cristiana: per questo motivo, pubblica diversi scritti con cui attacca duramente i punti cardinali della svolta conciliare (ad esempio il rinnovamento della liturgia, le aperture ecumeniche, la rinnovata centralità della Bibbia). È questa la seconda fase del pensiero di von Balthasar. Nel mirino della sua polemica finiscono anche le posizioni antropocentriche fatte valere da Karl Rahner. In Solo l’amore è credibile, del 1963, von Balthasar nega significato e validità alle forme di religiosità cosmologiche, sostenendo che l’unica via percorribile verso Dio è quella che parte da Lui gratuitamente e trova luoghi rivelativi nella Chiesa, in Maria e nella Scrittura. Ma il luogo rivelativi per eccellenza è e resta il Crocifisso, il segno drammatico cui corrisponde la possibilità di martirio anche per il credente, che può essere chiamato a pagare con la vita la propria testimonianza di fede. In uno scritto del 1966, intitolato Cordula, ovverosia il caso serio, von Balthasar sottolinea, in forma radicale e al tempo stesso provocatoria, l’identità cristiana nella sua irriducibile alterità rispetto al mondo. Il segno più lampante di tale identità è scorto ancora una volta nel martirio. Questo insistente richiamo all’alterità dell’identità rispetto al mondo trova la sua più autentica espressione nella capacità di giocare la propria vita, optando per una fede per la quale la sofferenza e la notte sono vinte e oltrepassate dalla speranza e dalla gioia. Nel suo capolavoro, Gloria (1961-1969), von Balthasar guarda alla Rivelazione alla luce del principio ermeneutico della bellezza; nel primo volume, Visione della forma, egli espone le categorie della sua nuova sintesi teologica. La Rivelazione divina, sostiene von Balthasar, avviene innanzitutto nella bellezza, nella grandiosità che attira e accende la fede. Il comun denominatore della bellezza e dell’amore è la gratuità, la quale è anche il segno caratteristico dell’agire di Dio nei confronti dell’uomo. Il filosofo Tommaso aveva sostenuto che la peculiarità della bellezza è il suo splendore: in sintonia col filosofo medievale, von Balthasar sostiene che anche la comprensione della verità e del bene non è possibile senza la conoscenza della bellezza. Infatti, solo quest’ultima consente di oltrepassare gli approcci formalistici e pragmatici alla verità, senza scivolare in atteggiamenti utilitaristici verso il bene. La bellezza può riguardare sia cose, sia esseri, sia opere d’arte, e si presenta sempre come luce emergente da una profondità misteriosamente insondabile. L’elemento visibile occulta e, al tempo stesso, rivela questa dimensione interiore della bellezza. Il lògos che appare anche nelle cose si rivela come amore e, per ciò stesso, come gloria e splendore che genera adorazione e tiene viva l’alterità nella relazione che si viene ad instaurare tra Dio e l’uomo. Il secondo volume di Gloria, intitolato Varietà di stili, è una carrellata storica dei diversi stili delle arti figurative e dei molteplici modelli teologici: in essi, come negli elementi di bellezza presenti, Dio ha fatto risplendere la sua gloria. In particolare, von Balthasar esamina le sintesi elaborate da dodici personaggi illustri della letteratura e della spiritualità (Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Dante, Pascal, Giovanni della Croce, Hamann, Solov’ëv, Hopkins, Péguy). Col terzo volume, che si intitola Nell’ambito della metafisica, von Balthasar compie una ricognizione storica delle posizioni di autori etichettati come “metafisici” lato sensu, poiché capaci di conferire alta espressione allo spirito umano. Essi sono Omero, Platone, Virgilio, Plotino, Cusano, Dostoevskij, Goethe, Heidegger. Questi “metafisici” vengono da von Balthasar letti come segni dello splendore divino. Sono invece letti come negazione della gloria divina tutti quegli autori che, a partire dal nominalismo medievale, arrivano fino a Cartesio e a Marx. E von Balthasar rilegge l’intera Sacra Scrittura alla ricerca dei passi in cui più si manifesta lo splendore di Dio, dando particolare importanza alla figura cristica e all’evento della croce. La Resurrezione, che distrugge ogni negatività (compresa quella della morte), rivela la luce della gloria che si manifesta come illimitato amore salvifico. Nei cinque tomi della Teodrammatica (1973-1983), von Balthasar mette in luce la drammaticità affiorante dalla rivelazione dell’impegno di Dio per il mondo e approfondisce il rapporto tra la libertà divina (infinita) e quella umana (limitata, ma reale ed efficace). Conducendo una riflessione teologica a partire dal tema trinitario, von Balthasar evidenzia come la vicenda storica sia segnata dal conflitto, dal male, dalla morte: in tale vicenda storica l’avvento di Cristo costituisce lo spartiacque decisivo, poiché, dalla sua kénosis (letteralmente “svuotamento”, e dunque abbandono della forma divina per assumere quella umana), emerge la speranza che tutto il male, che è e resta finito, trovi un superamento definitivo in questo infinito amore che lo assume.
SIMONE DE BEAUVOIR
A cura di Ernesto Riva
Simone de Beauvoir nasce a Parigi nel 1908 da una giovane e agiata coppia borghese, vive una fanciullezza serena. Si iscrive alla Sorbona per studiare filosofia e qui, nel 1929, conosce Jean-Paul Sartre, con cui condividerà tutto il resto della vita: il loro fu un rapporto “aperto”, mai formalizzato col matrimonio, ma molto duraturo e fecondo di amicizia ed affetto. Dopo l’università, Simone insegna fino al 1943, quando decide di dedicarsi interamente all’attività letteraria. Muore nel 1986, sei anni dopo la scomparsa di Sartre. Dal punto di vista filosofico, le sue opere più importanti furono Pirro e Cinea (1944), Per una morale dell’ambiguità (1947) e anche Il secondo sesso (1949), il suo scritto forse più famoso, opera composita tra saggio e trattato. Scrisse anche molte opere di narrativa, tra cui ricordiamo: Memorie di una ragazza per bene, I Mandarini, Una morte dolcissima, La terza età (che è un acuto saggio sulla vecchiaia) ecc.
Per la pensatrice francese, teoresi e racconto non possono e non devono essere divisi. A spingere la de Beauvoir verso il suo peculiare stile di pensiero fu, da una parte, l’influsso dell’esistenzialismo, dall’altra la sua condizione di donna le suggeriva questa come la via più giusta per inserirsi nella cittadella dei filosofi senza smarrire la propria identità di donna e di persona. La sua prima importante opera filosofica fu Per una morale della ambiguità ,in cui dava la sua versione dell’esistenzialismo. Per lei l’esistenzialismo è una filosofia della libertà, come il portatore di una nuova etica tanto nella sfera pubblica che in quella individuale. E’ una filosofia dell’impegno, che vede uniti mondo e individuo e che postula che la liberazione dell’uomo non può essere trovata nel solipsismo o nell’egoismo, per non essere illusoria, ma solo affrontando e sciogliendo il nodo del rapporto Io-mondo, Io-altri. Oggi noi “siamo liberi e oggi dobbiamo salvare la nostra esistenza…non rinviare la soluzione dei problemi e dei conflitti dell’umanità a un Paradiso di là da venire… in cui tutti sarebbero riconciliati nella morte”. L’esistenza è ambigua non assurda , come sosteneva Albert Camus. Il senso non manca, il senso va continuamente riconquistato. L’uomo muove da una situazione di “insicurezza ontologica” che lo pone in una relazione strutturale ma ambigua col mondo e con gli altri. “Per conseguire la verità del suo essere, l’uomo non deve tentare di dissipare l’ambiguità del suo essere, ma viceversa accettare di realizzarla: egli si congiunge a se stesso solo nella misura in cui acconsente a rimanere a distanza da se stesso”. Se un uomo vive, al di là di ciò che afferma, vuol dire che c’è qualcosa che lo tiene legato all’esistenza : ebbene, questo qualcosa gli impone di giustificare autenticamente sé e il mondo. Problema etico e problema politico sono due facce della stessa medaglia. La morale non fornisce ricette, può proporre soltanto dei metodi . Il Bene non è qualcosa che possa essere deciso a priori. L’esistenza concreta sfugge alla categorizzazione. Per l’ambiguità ontologica, il rapporto fra contenuto e senso di una azione va verificato caso per caso: la situazione decide la sorte di ogni valore. La verità, il benessere sono relativi alle situazioni, non può darsi una morale astratta come quella degli Stoici. Ciò non significa affatto che “poiché Dio è morto tutto è lecito”. Anzi è vero il contrario : nulla è lecito se non è giustificato. Bisogna che ogni singolarità non contraddica l’universalità, che ogni impresa sia aperta alla totalità degli uomini.
Il secondo sesso è diviso in quattro parti : nella prima si analizza l’essere-donna dal punto di vista naturalistico, delle scienze. La scienza ci può rivelare la realtà materiale della donna ma non ci dice cosa deve essere una donna né che cosa può essere una donna. La verità esistenziale della donna non può venire dedotta dalle scienze, pena il riduzionismo o il biologismo. La seconda sezione affronta l’essere donna dal punto di vista della storia : su base storica, la donna è stata una “presenza-assenza”, una presenza reale assente alla storia che è storia scritta e fatta dagli uomini, dal sesso maschile. Tranne alcune importanti eccezioni, la donna è stata ciò che l’uomo ha voluto che fosse. La terza parte è dedicata allo studio della immagine della donna proposta dai miti più antichi fino all’immagine femminile creata dalla letteratura. La quarta parte, infine, è una analisi del “vissuto” femminile, descritto in forma evolutiva attraverso le varie età della vita, dall’infanzia alla vecchiaia. La condizione femminile del presente è, per la de Beauvoir, quella di una astratta eguaglianza contrapposta ad una concreta ineguaglianza . Le donne hanno di fatto raggiunto il pieno inserimento nella società : non è quindi più il momento delle rivendicazioni generali o delle battaglie di principio, ma bisogna che la donna scenda nell’individuale e approfondisca la conoscenza di se stessa. Conoscere se stessa è per una donna una prassi difficile. Tutte le identità che le vengono proposte dalla cultura ufficiale sono identità alienanti, che la mortificano, che registrano il suo stato di assenza culturale, di minorità sociale. La donna deve rifiutare di essere l’Altro dell’identità maschile e pagare il prezzo che questa scelta comporta. Nella storia della specie umana, la preminenza è stata accordata non al sesso che genera ma al sesso che uccide. L’uomo ha il “coraggio” di uccidere e di farsi uccidere, ha la spinta ad utilizzare attrezzi e a lavorare, a trascendere se stesso e la natura, e fonda così il complesso dei valori della civiltà. Di fronte ad essi la donna non ha mai opposto dei “valori femminili”. Si è limitata a modificare la propria posizione in seno alla coppia e alla famiglia. Ma la donna oggi può provare a cercare la strada per la sua libertà. Una libertà che la pone in questione come individualità ,come questa donna qui, come “Io donna”. E’ una libertà difficile. Il binomio lavoro + diritto di voto non è la formula per la libertà. Solo infatti per un ristretto numero di privilegiate l’attività lavorativa porta con sé l’autonomia economica e sociale. La sintesi fra femminilità e libertà, fra femminilità e soggettività è ancora un problema aperto. In conclusione, la verità della donna non si può ancora fissare in un concetto o cogliere in forma definitiva ma solo “raccontare”. Alla donna tocca decidere che cos’è la donna. La donna, dopo aver svelato la realtà della propria condizione, deve adesso viverla, ridefinirla. Un momento importante in questa ricerca di identità sarà costituito dai rapporti con l’altro sesso. Ma sul futuro dell’identità femminile e sul rapporto fra i sessi la de Beauvoir non intende azzardare pronostici.
Nel 1970, S. de Beauvoir si è posta il problema di sondare filosoficamente il mondo della vecchiaia (cfr. La terza età ). Certo è che la vecchiaia diventa problema solo in una società che ha mitizzato la giovinezza: è dal dopoguerra che qualcosa di simile è accaduto. In primo luogo, la vecchiaia non è un elemento necessario della vita, nel senso che si può morire prima come si può essere uomini appieno senza aver fatto esperienza della senilità. Ciò che è rilevante è che, attraverso una analisi della vecchiaia, è possibile cogliere quelli che sono i nodi non risolti della vita sociale ed i veri e propri mali di un sistema culturale : un sistema che svuota la vita stessa di valore e di significato e che quindi attua una “scandalosa politica della vecchiaia” fin dai primi anni . una civiltà che si interessa dei giovani come dei vecchi solo per i suoi fini, che tiene la gran massa dei vecchi sul limite dell’indigenza, come la massa dei giovani su quello della disoccupazione, è un fallimento. E tutti i sistemi sociali contemporanei hanno fallito su questo piano, creando nei vecchi una nuova categoria di emarginati, accanto ai poveri, agli immigrati da altri continenti, ai malati di mente.
ERIC VOEGELIN
A cura di Alessandro Sangalli
Vita e opere
Eric Voegelin nacque a Colonia, in Germania, nel 1901. Compì gli studi universitari alla Facoltà di Legge di Vienna, conseguendo un dottorato in Scienze Politiche nel 1922. Relatori della sua dissertazione dottorale furono il filosofo e giurista Hans Kelsen e l’economista Othmar Spann. Tra il ’24 e il ’27, Voegelin proseguì i suoi studi post-dottorato alla Columbia University, ad Harvard, alla Wisconsin University e a Parigi, alla Sorbona. Questi viaggi-studio, in particolare quelli negli Stati Uniti, si rivelarono decisivi per lo sviluppo del suo pensiero: non a caso, il suo primo libro si intitola On the Form of the American Mind (1928).
Nel 1929, Voegelin divenne professore di scienze politiche e sociologia all’Università di Vienna, dove scrisse le sue prime opere: Razza e Stato (1933), L’idea di “razza” nella storia del pensiero (1933), Lo stato autoritario (1936) e Religioni politiche (1938) furono quelle più esplicitamente dedicate all’esposizione della crescente minaccia del nazionalsocialismo tedesco.
Nello scenario di quegli anni, un pensatore indipendente che criticava l’ideologia del regime in modo così manifesto doveva far fronte a conseguenze pericolose. Nel 1938, quando Voegelin capì che, se fosse rimasto in Europa, avrebbe avuto vita difficile, emigrò con sua moglie negli Stati Uniti, sfuggendo appena in tempo alla cattura della Gestapo. Se fosse stato catturato e condannato, i nazisti avrebbero posto fine alla vita di uno dei più importanti intellettuali del XX secolo.
Negli anni successivi, Voegelin insegnò alla Louisiana State University (1942-1958), all’Università di Monaco (1958-1969) e alla Stanford University (1969-1985).
Morì il 19 gennaio del 1985.
Durante tutta la sua vita si dimostrò uno scrittore molto prolifico: l’edizione inglese delle sue opere complete comprende ben 34 volumi, un’edizione che oltre a contenere una raccolta di saggi e tutti i lavori più rappresentativi, come La nuova scienza della politica (1952), Ordine e storia (5 voll. 1956-1987) e Anamnesis (1966), offre anche la sua opera maggiore, Storia del pensiero politico (8 voll.; scritta nei primi anni 40, edita postuma).
Caratteristiche principali del suo pensiero
Varie etichette possono essere applicate a Voegelin: filosofo politico, storico, mistico, filosofo della religione, filosofo della coscienza. L’abbondanza di queste definizioni dà un’idea dell’ampiezza e della profondità del suo pensiero.
Fu tra gli intellettuali più eruditi del suo tempo e coltivò interesse non solo per la civiltà occidentale e mediterranea, ma anche per le culture orientali, come quella cinese e indiana. La sua conoscenza delle lingue superava quella di parecchi filologi. Sapeva fondere e far convivere senza difficoltà, nel suo pensiero, elementi filosofici, teologici, politici e letterari.
Alcuni pensatori sono soliti cominciare la loro riflessione partendo da problemi e da nodi concettuali elaborati da altri autori. Voegelin imbocca una strada opposta e forgia il suo pensiero senza preoccuparsi di rimanere entro limiti posti da scuole e correnti filosofico-letterarie. Tuttavia, egli preferisce definirsi un autore profondamente non-originale. Considera infatti l’originalità come segno di trascuratezza e superficialità riflessiva:
“La verifica della verità e la sua evidenza stanno nella mancanza di originalità delle proprie frasi”.
Il dovere della filosofia è, a suo parere, quello di studiare la saggezza pervenutaci dal passato (da fonti come la Bibbia, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso e così via), per poter così essere condotti ad una più profonda conoscenza e comprensione della realtà. Attraverso lo studio dei filosofi più significativi, ma anche dei testi canonici religiosi, si eleva il proprio intelletto e si arricchisce il proprio spirito, emancipandosi dall’immaturità culturale. L’idea che la verità sia frutto di un processo di continua accumulazione forma il cuore del metodo filosofico di Voegelin.
I suoi scritti non sono facili da leggere. Ciò che rende ardua la comprensione del suo dettato è l’uso (e talvolta l’invenzione) di vocaboli molto particolari, spesso desunti dal mondo dei Greci: non raramente utilizza termini come apeiron, egofania, storiomachia, ipostatizzazione, metaxy, spoudaios. Tutti questi concetti giocano ruoli importanti nella trasmissione del suo messaggio, quindi il lettore deve al più presto afferrarne il significato se non vuole perdersi in un fitto ginepraio linguistico. Il Nostro era fermamente convinto della necessità di usare termini simili, non perchè mirasse ad essere compreso solo dagli esperti o dagli addetti ai lavori, ma perché considerava il vocabolario ereditato dalla tradizione filosofica in molti casi inadeguato alla descrizione della realtà. L’esistenza umana, allo stesso tempo nella storia e a metà strada tra il divino e il materiale, costituisce un fenomeno molto complesso, che Voegelin cerca di interpretare nel modo più profondo possibile, a volte recuperando alcuni concetti-chiave della filosofia greca ormai caduti nell’oblio, altre volte coniando nuovi termini per descrivere fenomeni più recenti.
Molti autori, una volta trovato quello che considerano il modo migliore per esprimere le proprie idee, mantengono sostanzialmente inalterato quello stile per il resto della loro vita. Si pensi, ad esempio, a Calvino, i cui Principi della religione cristiana furono editi a più riprese nel corso della sua vita subendo pochissimi cambiamenti rispetto al testo originale. Per quanto riguarda questo aspetto, Voegelin è paragonabile a Karl Barth: fu sempre aperto al cambiamento e allo sviluppo della forma del suo pensiero, anche a costo di abbandonare progetti e convinzioni sostenute per anni. È l’esempio perfetto del filosofo in perenne evoluzione e crescita intellettuale, il cui pensiero è un work in progress senza sosta, in netto contrasto con la chiusura mentale del dogmatico, che ha ben chiaro ciò che crede e non vuole prestare ascolto a nessun’altra voce.
Tematiche centrali
Senza dubbio, il tema dominante degli scritti di Voegelin è l’ordine e il disordine, nella società come nell’animo umano. Le forme di disordine sono naturalmente molteplici: oppressione, violenza, criminalità, squilibrio mentale e tutte le altre sottili specie di alienazione che possono affliggere gli esseri umani. La tradizione religiosa comprende questo disordine nelle conseguenze della caduta e del peccato originale, ma Voegelin è intenzionato ad intraprendere una ricerca più attenta, sia per trovarne la fonte sia per analizzare la nostra incapacità di uscire da questo stato.
Una possibile risposta a questa domanda è rappresentata dallo gnosticismo. Questa antica corrente di pensiero (sviluppatasi nei secoli II e III nell’ambito del cristianesimo, influenzata da tendenze religiose orientali e da elementi filosofici ellenistici) riaffiorò a più riprese e in varie forme nel corso della storia: lo gnosticismo sostiene che il mondo materiale è intrinsecamente pervertito e corrotto, e che non può essere purificato o redento, in quanto esso non proviene da una causa buona e positiva. In altre parole, il mondo è creato da Satana, e se qualcuno vuole avvicinarsi a Dio deve trovare il modo di fuggire e di allontanarsi dal mondo materiale. Il nostro utilizza “gnosticismo” come termine generale per indicare tutte quelle vie che gli uomini hanno sperimentato nella loro ricerca di un mondo più alto, più spirituale, più vero.
Nell’ottica di Voegelin, lo gnosticismo non riveste semplicemente un interesse storico o erudito. Al contrario, questo quadro concettuale costituisce il cuore del mondo moderno, soprattutto sotto l’aspetto politico-sociale. Egli inizia così una severa critica della modernità: per “modernità” intende l’insieme di tutte quelle ideologie politiche che nei secoli recenti hanno iniziato ad allontanarsi dai dogmi della tradizione giudaico-cristiana e dalle posizioni filosofiche di Platone ed Aristotele. Lo gnosticismo, insieme con la modernità, è un rifiuto della realtà, sia della realtà del mondo materiale sia di quella della saggezza ereditata dalle generazioni passate. Dal momento che gli gnostici sono in perenne rivolta contro la realtà, essi devono crearsi un secondo mondo dove poter vivere: detto altrimenti, essi inventano una dimensione fantastica dove poter risistemare e riaccomodare gli elementi della realtà.
Per Voegelin, il marxismo e il nazismo sono forme di gnosticismo che hanno proprio questi precisi obiettivi: l’idea di una fuga fuori-dal-mondo è stata trasformata in una fuga all’interno del mondo stesso, ma in una nuova forma d’essere. In entrambi questi movimenti politici, un’élite spirituale stabilisce il bene e il male in termini rigidamente dualistici e considera come proprio compito l’estirpazione del male dal mondo per fondare un nuovo ordine sociale. La dimensione storica dell’esistenza umana, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, è respinta, in favore di una visione apocalittica di purificazione della società attraverso un’orgiastica celebrazione della violenza: le moderne forme di gnosticismo si esplicano in quelle che Voegelin chiama le ideologie dell’uccidere. A suo parere, la base concettuale che ha permesso lo sviluppo di queste ideologie è stata elaborata nell’Ottocento da Hegel, Marx e Nietzsche, pensatori “spiritualmente malati” che il nostro sottopone ad una critica fulminante.
Tuttavia, questa “discesa negli inferi”, come la chiama Voegelin, non si sarebbe potuta verificare se altri pensatori non avessero permesso a questi giganti del pensiero di appoggiarsi e trovar sostegno nelle tradizioni religiose, filosofiche e morali dell’Occidente. Egli afferma che gli esseri umani, in ogni epoca, possono aprirsi alla realtà, oppure chiudersi ad essa ed inventare una seconda realtà gnostica: è veramente un uomo solo colui che impara dalla saggezza del passato, colui che interagisce in modo etico e costruttivo con gli altri uomini suoi pari, colui che risponde all’influenza del divino. Secondo Voegelin, l’essere umano vive “nel mezzo”: la coscienza umana si trova così ad affacciarsi da un lato sulla natura e sul mondo materiale, dall’altro su Dio, sul Creatore; l’uomo è allora in perenne bilico; ed essere veramente aperti al mondo e alla realtà in cui ci troviamo porta con sé la capacità di trovare la strada che porta all’ordine, sia nella società che nell’animo umano.
Voegelin considera la filosofia e la rivelazione come le due principali fonti di intuizione dell’ordine: per filosofia intende primariamente Platone ed Aristotele, e poi tutti quei pensatori successivi che hanno costruito sopra di essi; per rivelazione intende le scritture giudaico-cristiane e le tradizioni teologiche che sono sorte a partire da esse. Il Nostro vede qui due differenti forme di teofania, ovvero dei mezzi tramite i quali l’uomo può divenire cosciente dell’influenza del divino come la vera fonte di ordine nell’anima e nella società.
In definitiva, si può considerare Voegelin come un filosofo neo-ortodosso, per il suo atteggiamento allo stesso tempo rispettoso e critico nei confronti del passato.
ANSCOMBE
A cura di Diego Fusaro
Gertrud Elisabeth Anscombe (1919-2001), allieva di Wittgenstein e professoressa a Cambridge, è autrice dell’importante scritto Intenzione (1957), nel quale va sostenendo che il comportamento è intenzionale soltanto in relazione ad una certa sua descrizione (aspetto volontario), ed è in intenzionale in relazione ad altre sue descrizioni (aspetto neurofisiologico): ella sostiene inoltre che nel comportamento non c’è alcuna razionalità, finché esso non sia compreso come razionale. Detto altrimenti, secondo la Anscombe, il comportamento riceve il suo carattere intenzionale dal fatto di essere posto in un contesto di traguardi e di cognizioni. Delle diverse descrizioni che si possono fornire di un evento, solo una rientra nell’intenzionalità, ossia nell’autodeterminazione consapevole del soggetto che agisce. Qualora le descrizioni siano più d’una, si ha allora una “catena teleologica”, come nel caso in cui si muova il braccio per pompare acqua allo scopo di riempire un recipiente per permettere agli abitanti di una casa di bere. Se l’acqua fosse avvelenata ma io fossi allo scuro di questo particolare, allora non si potrebbe affermare che ho pompato l’acqua per avvelenare gli abitanti della casa: infatti, in questo caso, al mio agire manca l’autodeterminazione consapevole. Nella prospettiva fatta valere dalla Anscombe, l’azione viene spiegata in base a ciò a cui essa tende anziché in base a ciò da cui essa deriva. Ad avviso della Anscombe, la struttura delle volizioni è eccellentemente rappresentata dal sillogismo di Aristotele, che non riesce a render conto in maniera corretta dei processi inferenziali: infatti, il “sillogismo pratico” dà una plausibile correlazione tra le intenzioni del soggetto agente e la conoscenza dei mezzi adatti, giacché l’agire umano presenta sempre aspetti irriducibili alla mera successione di accadimenti fisici. Il “sillogismo pratico” è una struttura deduttiva che indica il processo che porta l’agente all’azione: il suo primo momento (ossia la prima premessa, che è singolare e contingente) esprime la volizione del soggetto agente; il secondo momento (ossia la seconda premessa, che è anch’essa contingente e soggettiva) esprime la conoscenza delle condizioni finalizzate al raggiungimento di quanto voluto; il terzo momento (cioè la conclusione) esprime infine la disposizione del soggetto agente a realizzare le condizioni stesse. In questo “sillogismo pratico” è assente una necessità di tipo causale, poiché manca una connessione nominale tra intenzione e comportamento. Ricorriamo ad un esempio pratico: se desidero liberarmi di una zanzara che mi tormenta e se credo che l’unico modo per farlo consista nello spalancare la finestra, ciò non dimostra che spalancare la finestra sia per davvero il solo modo per liberarmi della zanzara. Questo indirizzo di pensiero, che potremmo chiamare “antiriduzionistico”, ritorna anche in autori come Dray, Hampshire, Kenny, Melden e Peters, per i quali (che hanno come punto di partenza le posizioni del “secondo” Wittgenstein) il nesso tra intenzione e azione non è causale, giacché volizioni, credenze e motivazioni non possono essere concepite come cause dell’azione se manca l’inaggirabile contributo dell’intenzione; e l’azione secondo intenzione è diversa dal puro movimento corporeo proprio perché è concepita fin da principio in relazione ad uno scopo da ottenere. La conseguenza è che l’azione secondo intenzione è sostanzialmente sociale, giacché presuppone una comunità di istituzioni, di abitudini, di tecnologie, ed è gravida di un significato il cui riconoscimento rientra negli scopi del soggetto agente.
AUGUSTO DEL NOCE
A cura di Maurizio Schoepflin
“Per sè il termine tradizione può sembrare abbastanza ambiguo. Secondo l’etimo, infatti, che cosa significa? Ciò che si trasmette, ciò che si consegna. L’ambiguità, però, è più apparente che reale. E’ chiaro, infatti, che non possiamo far dipendere il valore dalla tradizione; è chiaro che non ha valore soltanto ciò che è trasmesso, perchè si trasmettono anche, le pratiche delle messe nere, o le arti più infami. E’, dunque, di tutta evidenza che è il valore a fondare la tradizione e non l’inverso. Il significato dell’endiade << valore tradizionale>> è perciò questo: esistono valori assoluti e soprastorici, che perciò possono e debbono venir consegnati; esiste un ordine che è immutabile anche per Dio stesso.“.
Nato a Pistoia nel 1910 e scomparso a Roma nel 1989, Augusto Del Noce si formò nell’ambiente culturale torinese, laureandosi nel 1932 con una tesi su Malebranche e aderendo all’antifascismo insieme ad altri esponenti della sinistra cristiana, come Felice Balbo, dalle posizioni del quale poi si distinse nettamente, soprattutto sulla base della convinzione dell’inconciliabilità tra cristianesimo e marxismo, motivo che diventerà dominante nel pensiero delnociano. Considerando la filosofia di Cartesio come il momento iniziale della modernità, Del Noce ritiene che da essa si sia originato un filone speculativo che giunge sino a Hegel, a Marx e a Nietzsche, ovvero all’esito ateo e nichilista che caratterizza molta parte della cultura contemporanea: il razionalismo, nato con Cartesio, ignora i limiti della ragione stessa, si autofonda e finisce con il negare la Trascendenza. L’ateismo — scrive a questo proposito Del Noce — “è il termine conclusivo a cui deve necessariamente pervenire il razionalismo al punto estremo della sua coerenza”; si tratta di un ateismo che, a differenza di quello ottocentesco, rende impossibile la fondazione di qualsiasi morale; in ultima analisi, siamo di fronte a una filosofia che si autodistrugge e che distrugge le basi stesse della vita umana. Del Noce dedicò le sue energie migliori a dimostrare che il percorso che aveva condotto la filosofia da Cartesio a Marx si dimostrava fallimentare e drammaticamente pericoloso, e che pertanto si rendeva necessaria una rifondazione del pensiero in senso teologico e, dunque, cristiano. Il marxismo — sostiene Del Noce — rappresenta bene l’approdo ateo del pensiero moderno e contemporaneo: infatti, esso pretende di negare non soltanto l’esistenza di Dio, ma anche il desiderio di Trascendenza che abita nel cuore dell’uomo, e pretende altresì di sostituirsi alla religione promettendo di realizzare la felicità su questa terra mediante un radicale cambiamento della società. A partire da queste analisi, Del Noce considerò assolutamente impossibile l’incontro tra marxismo e cristianesimo, e negli anni in cui, al contrario, molti auspicavano questo incontro, ciò gli costò una netta emarginazione da parte degli intellettuali cosiddetti progressisti e gli conferì, quando non pochi scommettevano sul “cattocomunismo”, le caratteristiche del profeta inascoltato. Tuttavia, secondo Del Noce, esiste un altro volto della filosofia moderna e un altro percorso seguito dal pensiero postcartesiano: è la linea che, detto in estrema sintesi, conduce a Rosmini e Gioberti, passando attraverso Malebranche e Vico; una linea che permette di recuperare positivamente il pensiero cattolico italiano dell’Ottocento, ingiustamente trascurato nella foga di cercare di realizzare un impossibile dialogo con le filosofie atee e materialiste, tra le quali, come si è visto, spicca il marxismo. Soltanto la ripresa di una genuino pensiero di ispirazione cattolica potrà fungere da antidoto contro la secolarizzazione che contraddistingue la società contemporanea e che, a giudizio di Del Noce, è figlia dell’innaturale connubio tra ateismo comunista e ideologia borghese, uniti nel combattere la verità della religione cristiana e votati a condurre l’umanità verso il baratro del nichilismo. Le seguenti considerazioni, scritte da Del Noce nel settembre del 1975 sul quotidiano della Democrazia Cristiana, “Il Popolo”, sintetizzano bene alcuni tratti del suo pensiero e, rivelandosi davvero profetiche, mantengono pure un’indiscutibile attualità: “Nell’ultimo quarto di secolo si è svolto quel Kulturkampf, cioè quella lotta della cultura contro il pensiero cattolico che Gramsci auspicava… È stata la lotta maggiore che l’Italia abbia conosciuto. È riuscita? Parzialmente, certo: il cangiamento delle valutazioni morali nel costume, ecc. che si è avuto in questi venticinque anni, è eccezionale. Non dirò che sia stato sempre negativo e che certe incrostazioni non meritassero di cadere: tuttavia, bisogna pur riconoscere che non si è trattato di una purificazione dei pensiero e della morale cattolici, ma di una loro eversione. Pensare a un «aggiornamento» come a un’adeguazione al «nuovo» sarebbe una di quelle tante sciocchezze senza pari che conoscono oggi un’incontrollata circolazione. Il successo però è stato soltanto parziale. Non si è formata una nuova coscienza marxista o illuminista o che altro dir si voglia, ma si è determinato soltanto un vuoto degli ideali. Se nella parte cattolica la confusione è oggi eccezionale, non si può però dire che le tendenze neomodernistiche, progressistiche, ecc., abbiano trionfato: si ha l’impressione, anzi, che stia cominciando il declino della loro fortuna. Ritorno ai principi: questa è la formula di ogni rinascita religiosa. Per un partito che, per aconfessionale che sia, è tuttavia composto per la massima parte da cattolici, non si può pensare a un risveglio politico che sia separabile da un risveglio religioso… Bisogna tuttavia ammettere che l’intensità dell’attacco ha fatto sì che questi principi si sono, nella coscienza comune, oscurati; abbiano, anzi, subito un oscuramento quale mai antecedentemente si era avuto. Penso che possano essere ritrovati solo per via negativa; solo attraverso una critica rigorosamente razionale, dall’interno, delle posizioni avverse; una crltica, si intende, che riconosca la loro serietà. In primo luogo, per la sua impostazione, della cultura gramsciana”.
HANS VAIHINGER
A cura di Alessandro Sangalli
Hans Vaihinger nacque nel 1852 in Germania, nei pressi di Tubinga, e crebbe in un’atmosfera profondamente religiosa. Il suo spirito religioso cominciò però a mutare quando, al Gymnasium di Stoccarda, entrò in contatto col panteismo e con l’evoluzionismo darwiniano. Nel 1879 iniziò a frequentare lo Stift di Tubinga, dove fu molto influenzato da Christoph Sigwart e più tardi da Otto Liebmann: iniziò qui a leggere Kant, rimanendo particolarmente colpito dalla sua dottrina trascendentale dello spazio e del tempo. Vaihinger si interessò anche a Schopenhauer e ad Eduard von Hartmann, due autori a partire dai quali formulò una filosofia di stampo pessimistico. Si laureò con una tesi dal titolo Le moderne teorie della coscienza.
Una volta completati gli studi, Vaihinger iniziò il servizio militare e si trasferì a Lipsia: scelse questa città in quanto sede di un’importante università. Qui risentì molto dell’influenza di F.A. Lange e della sua Storia del materialismo. Successivamente, si trasferì a Berlino per studiare sotto la guida di Schwabian Eduard Zeller. Mentre si trovava a Berlino, pubblicò il suo primo lavoro, Hartmann, During e Lange, scritto nel 1876. Motivi familiari lo costrinsero però a tornare nel Sud della Germania, a Strasburgo, dove sostenne gli esami di abilitazione all’insegnamento accademico sotto Ernst Laas. La sua dissertazione dottorale, dal titolo Ricerche Logiche. Parte Prima: Die Lehre von der wissenschaftlichen Fiktion, andò a costituire in seguito la base teorica della sua opera più importante: La filosofia del come se (1911).
Il nostro aveva in programma di scrivere una storia della filosofia inglese, ma un editore di Stoccarda, che probabilmente conosceva il lavoro di Vaihinger dal titolo Eine Blattversetzung in Kants Prolegomena del 1879, lo convinse a dedicarsi ad un’opera di commento della Critica della Ragion Pura kantiana, in occasione del centenario della pubblicazione di quest’opera. Nel 1881 fu così pubblicato il primo volume di un grande Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft. Vaihinger contava di terminare a breve anche il secondo volume, ma il lavoro di preparazione richiese molto più tempo di quanto egli avesse inizialmente stimato. Per questo motivo, oltre al problema di una salute sempre precaria, la pubblicazione del secondo volume continuò ad essere differita. Il lavoro fu finalmente concluso nel 1892.
Il commentario di Vaihinger fu il primo grande contributo al movimento del “ritorno a Kant”: a partire dal 1895 questa corrente intellettuale compì grandi passi avanti. Si assume tradizionalmente come data d’inizio di questo “Rückkehr zu Kant” il 1860, anno in cui Kuno Fischer pubblicò Vita e fondamenti del pensiero di Kant e i due volumi dedicati al filosofo di Königsberg nella sua Storia della filosofia moderna. Cinque anni più tardi, Otto Liebmann diede al movimento la sua “parola d’ordine”, concludendo ogni capitolo del suo Kant e gli epigoni con le parole “bisogna quindi ritornare a Kant”.
La parola “movimento” (Bewegung) può forse dare l’impressione che esistesse una scuola di pensiero i cui membri condividevano le stesse opinioni circa il contributo di Kant alla filosofia, ma in realtà questa sarebbe un’impressione fuorviante e totalmente errata. Esisteva, al contrario, una mezza dozzina di scuole in contrasto le une con le altre: si pensi alla rivalità tra la Scuola di Marburgo, fondata da Hermann Cohen, e quella del Sud-Ovest, o di Heidelberg, fondata da Kuno Fischer. Persino all’interno delle singole scuole convivevano letture ed interpretazioni notevolmente contrastanti.
Nell’introduzione generale al suo Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, Vaihinger si lamenta del fatto che ricerche e studi su Kant siano portati avanti in quello stato di “guerra di tutti contro tutti” diagnosticato da Hobbes nello stato di natura. Questa denuncia del 1881 continuò ad essere valida per lungo tempo: le ultime due decadi del XIX secolo videro le principali scuole neokantiane in continua lotta tra loro; ognuna sosteneva le proprie linee interpretative a scapito delle altre. Lo stesso nostro autore non fu risparmiato da critiche e polemiche di vario genere.
Sembra che tra il 1892 e il 1895 il nostro abbia iniziato a non tollerare più un approccio “schierato” alla ricerca kantiana, e fu proprio in quegli anni che elaborò il progetto di fondare una rivista che evitasse questo inconveniente.
Il primo numero della rivista Kant-Studien uscì nel 1896 e Vaihinger, in qualità di editore, dichiarò prontamente la linea che intendeva seguire. Sostenne che era arrivato il momento di offrire una rivista che avesse obiettivi ben definiti, il primo dei quali era senz’altro quello di mettere a fuoco gli aspetti storici del pensiero kantiano. Egli notava come fossero numerose le questioni che meritavano attenzione: tra queste c’erano la differenza tra giudizi analitici e giudizi sintetici, la deduzione della tavola delle categorie e la genesi delle analogie dell’esperienza. Ciononostante, l’attenzione della rivista non si sarebbe limitata soltanto ai problemi metafisico-epistemologici dei testi di Kant, anzi, si aveva in programma di dedicare molto spazio anche agli scritti di argomento etico, estetico e religioso. Inoltre, la rivista incoraggiava gli intellettuali e gli studiosi a dedicarsi attentamente ai rapporti tra Kant e i suoi predecessori, non soffermandosi solo su Leibniz e Newton, ma occupandosi anche di Malebranche e Swedenborg.
Un secondo importante obiettivo della rivista era quello di non tralasciare le questioni “sistematiche” riguardo gli scritti di Kant, in primo luogo l’analisi del nodo problematico che sta alla base della filosofia kantiana: si tratta di una filosofia essenzialmente scettico-negativa o, al contrario, prevalgono gli elementi positivi e costruttivi? Vaihinger insiste sul fatto che tutto il pensiero moderno abbia avuto origine (in accordo o in opposizione) dalla filosofia kantiana: proprio per questo motivo, abbiamo la necessità di rendere più chiaro l’insegnamento di Kant prima di poter comprendere appieno la filosofia moderna.
Vaihinger aprì la sua rivista ad una grande varietà di discipline: trovarono spazio discussioni di teologia, diritto, scienze naturali. Inoltre, il nostro teneva costantemente informati i suo lettori dei progressi dell’Edizione Generale degli scritti di Kant che Wilhelm Dilthey stava curando (il primo volume di quest’opera apparve nel 1910). Con Vaihinger collaborarono i più noti intellettuali dell’epoca, come Adickes, Karl Vorländer e Georg Simmel.
La ricorrenza del centenario della morte di Kant spinse Vaihinger a fondare una società, il cui compito sarebbe stato quello di contribuire agli studi kantiani e di sostenere la rivista. La Kant-Gesellschaft, fondata nel 1904, annoverava tra i suoi membri pensatori come Dilthey, Liebmann, Riehl, Simmel e Alfred Weber, fratello di Max Weber.
A partire dal 1900 la salute di Vaihinger ebbe un ulteriore peggioramento ed egli capì di aver bisogno di aiuto nella direzione della sua rivista. Nel 1903 venne affiancato da Max Scheler, e l’anno successivo da Bruno Bauch. Sempre a causa delle sue condizioni fisiche precarie, in particolare a causa del costante calo delle sue facoltà visive, fu costretto ad abbandonare l’insegnamento e fu spinto a rivedere con urgenza il manoscritto della sua opera più nota, La filosofia del come se: muovendo dall’affermazione kantiana secondo cui le idee della ragione (esposte da Kant nella Dialettica trascendentale) possono avere soltanto un uso regolativo (e mai costitutivo) pur non creando conoscenze teoricamente valide, il nostro autore sostiene che tutti i concetti scientifici sono finzioni che valgono “come se” fossero legittime, soltanto per la loro funzione pratica ed euristica. Questo è, in nuce, il contenuto de La filosofia del come se. Infine, nel 1926 abbandonò la Kant-Gesellschaft per la completa cecità a cui l’età avanzata l’aveva portato: Vaihinger era stato a capo della società da lui fondata per ben 21 anni. Il 10 giugno dell’anno successivo gli fu conferito il titolo di Presidente Onorario, espressione della profonda stima che i membri della Società avevano per il pluriennale impegno del nostro pensatore.
Nel 1932, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Vaihinger, professori e studiosi di tutta Europa curarono una raccolta di scritti a lui dedicata, dimostrando la grande reputazione internazionale di cui godeva e l’ampio raggio dei suoi interessi: la raccolta conteneva infatti saggi riguardanti la filosofia politica, l’economia, la scienza, la religione e la storia della filosofia.
Vaihinger morì il 18 dicembre 1933. La sua formazione culturale e i suoi interessi furono molto ampi: studiò il sanscrito e il greco, si occupò di archeologia, si interessò a Darwin, Newton, Mill, Schopenhauer, Nietzsche e a molti altri autori; ma ovviamente il suo principale interesse fu il pensiero kantiano. Nessuno che sia realmente interessato a Kant può permettersi ignorare i contributi di Vaihinger agli studi kantiani: i suoi libri, i suoi articoli, la sua rivista. Ancora oggi la rivista Kant-Studien continua a rispettare quelle linee guida che Hans Vaihinger tracciò così attentamente più di un secolo fa.
ALEXANDRE KOJÈVE
A cura di Wikipedia
Alexandre Kojève, in russo Aleksandr Kožévnikov (Mosca, 28 aprile 1902 – Bruxelles, 4 giugno 1968), è stato un filosofo francese di origini russe, considerato uno dei maggiori interpreti della lezione hegeliana. Nato da una famiglia di commercianti, nipote del pittore Vasilij Kandinskij, Kojève dimostra sin da piccolo una precoce vivacità intellettuale. Il padre morì sul fronte durante il conflitto russo-nipponico, e poco dopo la madre sposò un commilitone del marito di nome Lekmul, il quale garantì a Alexandre un’adolescenza agiata e ricca di stimoli culturali. Dal 1916 comincia a redigere il Diario, in cui annota non solo le proprie vicende biografiche, ma anche le prime riflessioni filosofiche. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dopo un breve periodo trascorso in prigione per aver preso parte al mercato nero, è costretto ad abbandonare la Russia nel 1920, per potere continuare gli studi universitari che a Mosca gli venivano negati. Decide così di partire con l’amico Georg Witt: dopo un lungo e avventuroso viaggio (in Polonia finisce in carcere con l’accusa di essere una spia bolscevica), giunge in Germania. Studia a Berlino e a Heidelberg, laurendosi con Karl Jaspers con una tesi su Solov’ëv. Dopo gli studi universitari decide di trasferirsi a Parigi, nel 1926. Qui frequenta l’amico Alexandre Koyré, il quale nel 1933 lascia la cattedra presso l’École Pratique des Hautes Études per un incarico al Cairo, chiedendo a Kojève di sostituirlo. Prende così vita il leggendario seminario kojèviano sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Le lezioni si protrarranno fino al 1939, diventando un punto di riferimento della filosofia francese (ma non solo) del Novecento. Subito dopo la guerra Kojève entra a far parte dell’Amministrazione francese, ricoprendo il ruolo di alto funzionario dello stato. Morirà a Bruxelles nel 1968. Introduzione alla lettura di Hegel. Il corso che Kojève tenne sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel ebbe un enorme successo: numerosi gli intellettuali francesi che presero parte alle lezioni. Kojève enfatizzò volutamente alcuni contenuti della PhG a scapito di altri: la dialettica servo/padrone divenne così il cardine della lettura kojèviana della Fenomenologia.
MAO TSE-TUNG
“Il mondo è vostro quanto nostro, ma, in fin dei conti, è a voi che appartiene. Voi giovani siete dinamici, in piena espansione, come il sole alle otto o alle nove del mattino. In voi risiede la speranza. Il mondo appartiene a voi. A voi appartiene l’avvenire.” (Conversazione con alcuni giovani, 17.11.1957).
LA VITA
Rivoluzionario, pensatore e uomo politico cinese, Mao Tse_Tung (o Mao Ze-Dong) nacque a Shaoshan, Hunan, nel 1893, figlio di contadini relativamente benestanti; fu allevato secondo i metodi tradizionali della piccola borghesia rurale cinese, alternando lo studio al lavoro della terra del padre e sposandosi non ancora adolescente.
Per sfuggire all’opprimente ambiente familiare, poco più che quattordicenne si arruolò volontario nell’esercito repubblicano di Sun Yat-sen, che lasciò dopo un anno per dedicarsi agli studi di istitutore.
Dopo essersi diplomato alla scuola normale di Changsha (Hunan) [1918], trascorse un breve soggiorno a Pechino per seguire alcuni corsi universitari e qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista cinese e in particolare con l’economista Li Ta-chao e il futuro segretario del partito comunista Ch’en Tu-hsiu.
Ritornato nel 1919 a Changsha partecipò attivamente all’organizzazione del movimento rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese (conferenza di Sciangai, 1921).
Dopo le repressioni anticomuniste condotte da Chiang Kai-shek (1927), che eliminò numerosi quadri del partito comunista imputato di eccessi contro i civili nelle città che venivano occupate dall’esercito nazionalista, Mao intraprese l’organizzazione della lotta partigiana nella zona montagnosa di Ching-kang shan, al confine tra lo Hunan e il Jianxi. Qui, dopo aver gettato le basi dell’esercito rosso e aver introdotto misure di riforma agraria, fondò una Repubblica sovietica di cui divenne presidente (1931), sottraendosi al controllo del comitato del PCC e del Comintern.
Nel biennio 1934-1935 comandò la ‘lunga marcia’ durante la quale riuscì a imporre la propria linea di condotta al partito, che lo elesse presidente dell’ufficio politico (gennaio 1935). Alla vigilia dell’aggressione giapponese, in seguito a un incontro con Chiang Kai-shek, che era prigioniero a Xi’an, Mao riuscì a indurre il capo effettivo del Kuo-min tang a una tregua, come prezzo della sua liberazione, per opporre un fronte comune contro i Giapponesi.
Falliti i tentativi di mediazione, la guerra civile riprese con violenza (1946), e mentre Chiang Kai-shek, con i resti del suo esercito, si ritirava a Formosa (Taiwan), Mao proclamò il 1º ottobre 1949 a Pechino la Repubblica Popolare Cinese della quale venne eletto primo presidente.
Da quel momento Mao, riservatasi la presidenza del partito, promosse una campagna di denuncia dei gruppi di ‘opportunisti di destra’ dentro e fuori del partito che ‘sabotavano’ la costruzione del socialismo in Cina. Avvenuta la rottura con Mosca che ritirò gli esperti sovietici dalla Cina (luglio 1960), Mao, (settembre 1962), propose di intensificare la lotta contro il revisionismo di Krusciov a livello mondiale e la lotta contro ‘i dirigenti degenerati’ in Cina attraverso un ‘movimento d’educazione socialista’, che durò sino al 1966.
Nel corso di quell’anno, Mao approvò la pubblicazione del primo giornale murale (dazibao), redatto all’università, che attaccava violentemente il sindaco di Pechino Peng Cheng e, indirettamente, lo stesso presidente della repubblica Liu Shao-chi.
Gli eventi successivi, come la misteriosa scomparsa di Lin Piao, in seguito accusato di tradimento, e il nuovo indirizzo della politica estera cinese, ridimensionarono il successo di Mao, che cedette sempre più la direzione politica del paese al ‘numero due’, il primo ministro Chou En lai, leader dei moderati. Il culto della sua personalità proseguì anche dopo la sua morte e venne inizialmente sostenuto dal nuovo gruppo dirigente, proprio contro i veri continuatori della politica del presidente, i radicali che furono successivamente arrestati e bollati come gruppo antimaoista, dopo essere stati definiti la “banda dei quattro”.
Nel 1977 venne costruito al centro della piazza Tien an’ men, a Pechino, un grande mausoleo per la sua salma imbalsamata.
IL PENSIERO
Con la figura di Mao Tse-Tung ci troviamo di fronte, non meno che con Lenin, ad una concretizzazione (molti preferiscono parlare di “trasfigurazione”) della prassi rivoluzionaria teorizzata da Marx e da Engels, ai quali Mao direttamente si richiama. L’esperienza del comunismo cinese ha avuto un ruolo decisivo anche in forza dell’influenza esercitata sull’Occidente, nella misura in cui (soprattutto nel periodo di rottura tra URSS e Cina, nel 1959-61) molte frange studentesche e molti dissidenti dei partiti comunisti hanno assunto il maoismo come modello. Mao partecipa attivamente alla fondazione del Partito Comunista Cinese (1921), e per qualche anno, attenendosi rigorosamente alla precettistica marxiana, è convinto che il protagonista della rivoluzione debba essere il proletariato urbano. Ma se Marx, soprattutto nel Capitale, puntava sulla classe operaia urbana, è perché si riferiva ad una realtà avanzata quale quella inglese: ora, nella Cina in cui Mao si trova a operare, non meno che nella Russia in cui operava Lenin, il proletariato urbano è una realtà pressoché inesistente, data l’arretratezza del Paese (in Cina il settore trainante era, com’è noto, quello agricolo). Si tratta cioè di trapiantare Marx in un mondo di contadini. Sicché, soprattutto dopo la dissoluzione del Partito (1927) e la sanguinaria repressione organizzata da Chiang Kai-Shek (leader del Kuomintang, ossia del Partito nazionalista cinese con cui, fino ad allora, i comunisti erano stati alleati), Mao matura la convinzione che in Cina la Rivoluzione debba caratterizzarsi essenzialmente come “rivoluzione contadina” ed essere condotta per “accerchiamento” delle città da parte delle campagne; queste ultime devono essere trasformate in veri e propri epicentri della prassi rivoluzionaria. Seguendo questa sua innovativa lettura del marxismo, Mao, a partire dal 1929, promuove la creazione in campagna di “basi rosse”, dotate di proprie milizie, di vere e proprie cellule di uno Stato comunista in statu nascendi dal basso. Spetterà alla “lunga marcia” del 1934 a fare di Mao il leader indiscusso del Partito comunista cinese: con tale marcia, com’è noto, Mao condusse l’esercito rosso dalla Cina centrale alle regioni nord-occidentali del continente, in maniera da sfuggire alle truppe di Chiang. Quando il Giappone aggredirà la Cina (1937), le “due Cine” – quella di Chiang e quella di Mao – stringeranno un’alleanza (la versione cinese della politica dei “fronti popolari”) contro l’invasore, alleanza che si conserverà per l’intero periodo della guerra mondiale. Quando terminerà il conflitto bellico, riprenderà, con toni inaspriti, la guerra civile in Cina, che si concluderà soltanto nel 1949 col trionfo di Mao e con l’unificazione dell’intera Cina sotto il regime comunista. A seguito del consolidamento del potere, Mao avviò una fase di collettivizzazione rapida e forzata, che durò all’incirca fino al 1958. Il PCC introdusse un controllo dei prezzi che riuscì con ampio successo a spezzare la spirale inflattiva della precedente Repubblica di Cina, ed una semplificazione della scrittura cinese che mirava ad aumentare l’alfabetizzazione. La terra venne ridistribuite dai proprietari terrieri ai contandini poveri e vennero intrapresi progetti di industrializzazione su larga scala, che contribuirono alla costruzione di una moderna infrastruttura nazionale. Durante questo periodo la Cina sostenne incrementi annui del PIL del 4-9%, oltra a un drastico miglioramento degli indicatori della qualità della vita, quali aspettativa di vita e alfabetizzazione. Il PCC adottò inoltre delle politiche intese a promuovere la scienza, i diritti delle donne e delle minoranze, combattendo al tempo stesso l’uso di droghe e la prostituzione. Il pensiero marxista di Mao trova espressione soprattutto in tre scritti: Sulla pratica, Sulla contraddizione (1937) e Sulle contraddizioni in seno al popolo (1957). Senza apportare grandi novità al “materialismo dialettico” di Marx, Engels e Lenin, questi scritti risultano curiosamente innervati dello spiritualismo confuciano della tradizione cinese e rappresentano una riflessione autonoma rispetto a quella staliniana. Contrario a ogni irrigidimento dogmatico, Mao si richiama senza sosta agli insegnamenti della praxis e sostiene esplicitamente che, per qualsiasi problema (perfino quelli teorici), è necessario assumere la prassi come punto di partenza: ciò in base all’assunto (formulato in Sulla pratica) secondo cui “la conoscenza comincia con la pratica, raggiunge attraverso la pratica il piano teorico e deve poi ritornare alla pratica”. Il ritorno alla pratica è finalizzato a rinvenire in essa le conferme della teoria, ma anche e soprattutto, in un’ottica schiettamente marxiana, a dar vita ad un’azione trasformatrice della realtà esistente. Come aveva insegnato Hegel ancor prima di Marx, la realtà è intessuta di contraddizioni: ma essa non deve assolutamente essere imprigionata in schemi astratti e meramente concettuali; si tratta piuttosto di restare ancorati alla realtà, sottolineandone la determinatezza e l’incessante diversità che la caratterizza lungo il volgere dell’esperienza. Mao fa notare come, non appena la contraddizione presente sia stata risolta con la soppressione di uno dei due opposti, essa risorga e si ripresenti nella nuova situazione raggiunta: in ciò dev’essere individuata l’eredità taoista del divenire universale, oltre che l’idea di Trockij secondo cui la rivoluzione, per potersi affermare, deve assumere la forma di una “rivoluzione permanente”. Soprattutto con il saggio del ’57, Sulle contraddizioni in seno al popolo, Mao matura quest’idea della contraddizione, spingendola in direzione antistaliniana (siamo negli anni del XX Congresso del PCUS), ancorché egli non attacchi mai esplicitamente Stalin né aderisca al processo di destalinizzazione avviato in quegli anni nei Paesi dell’Est. Mao distingue attentamente tra “contraddizioni principali e antagonistiche” (quelle dello scontro di classe) e “contraddizioni secondarie e non antagonistiche” (quelle che nascono in seno ad uno stesso partito, tra le diverse linee emergenti): nel caso in cui le “contraddizioni secondarie e non antagonistiche” si cristallizzino e si radicalizzino, esse diventano a loro volta contraddizioni antagonistiche; ma il partito rivoluzionario, secondo Mao, non deve in alcun caso soffocare gli antagonismi, pena il ricadere in un organismo burocratico e autoritario. Il partito deve anzi favorire le contraddizioni a sé interne: ed è sulla scia di questa convinzione che Mao, nel 1956, lancia la cosiddetta “politica dei cento fiori”, che però già nel 1957 assume una piega decisamente meno liberale. La politica dei cento fiori consiste nell’incoraggiamento della fioritura di libere discussioni nell’ambito dell’arte e della scienza. Ancor più che dai suoi scritti, le novità che Mao apporta al marxismo affiorano dalla sua prassi: in particolare, nell’opera che svolse nei decenni postrivoluzionari, allorché sorse il problema di costruire il socialismo in quello Stato arretrato e agricolo che era la Cina (ipotesi notoriamente non previste da Marx). Soprattutto avviando la cosiddetta “rivoluzione culturale”, nel 1965, destinata a durare per un quinquennio, Mao elaborò quella ricca serie di accorgimenti, di strategie e di precetti che vanno sotto il nome di “maoismo”: l’obiettivo era anche quello di contrapporsi all’URSS, con la quale la Cina aveva ormai rotto (soprattutto con la scelta delle “comuni agricole” e del cosiddetto “balzo in avanti” del 1958). Mao si propose anche di dare una soluzione all’annoso problema del rapporto tra struttura e sovrastruttura, lasciato in eredità da Marx stesso. Rigettando l’idea che socialismo equivalga tout court a negazione della proprietà privata e dei mezzi di produzione, Mao resta fedele a Marx e sostiene che la struttura coincide con l’insieme dei rapporti sociali di produzione; la conseguenza è che la struttura non include esclusivamente la forma giuridica della proprietà, ma anche lo sviluppo delle forze produttive, la divisione del lavoro, il rapporto tra uomo e natura, tra uomo e macchina, tra uomo e uomo. Ne segue allora che il rapporto tra struttura e sovrastruttura non è il rapporto tra due componenti separate e autonome, ma piuttosto un rapporto in cui la sovrastruttura è intrinseca alla struttura materiale della società, ed è dunque inseparabile da essa. Da ciò scaturisce una concezione del processo rivoluzionario alternativa a quella sovietica: la rivoluzione è una trasformazione radicale e indivisibile, nel rapporto di produzione, dei rapporti sociali nella loro intera complessità. In forza di questa prospettiva, Mao rigetta il modello sovietico di accumulazione e sviluppo economico, incentrato sull’idea che un processo di rapida industrializzazione porterebbe automaticamente a una società socialista, secondo il motto di Lenin: “elettrificazione + soviet = socialismo”. Questo schema sovietico si rivela agli occhi di Mao catastrofico sotto due diversi aspetti: da un lato, crea una voragine tra industria e agricoltura, tra città e campagna, generando nuove disuguaglianze sociali ed economiche, dando vita ad un gruppo elitario di tecnici e scienziati, riproponendo, in forma enfatizzata, la dicotomia tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Dall’altro lato, il modello sovietico genera una classe di burocrati separati dal popolo e privilegiati, e commette l’errore di assumere la scienza e la tecnica come paradigmi del tutto neutri e socialmente validi. Riducendo il concetto all’estremo, il modello sovietico ripropone in tutto e per tutto lo stesso modello capitalistico in forma ancora più perversa. Mao è profondamente convinto che la costruzione del socialismo da una parte implichi “balzi” qualitativi, radicali rotture col passato, una rivoluzione senza soluzione di continuità; e dall’altra, l’affermazione antieconomicistica dell’egemonia della politica anche nella trasformazione del dato strutturale. La trasformazione socialista della sovrastruttura non è l’inaggirabile portato dello sviluppo economico, ma anzi è il presupposto di esso. Da tutto ciò segue un diverso modo d’intendere il rapporto tra partito e masse contadine e operaie rispetto alla prospettiva leniniana: il partito è sì la guida a cui devono sottostare le masse, ma non è un qualcosa di esterno ad esse; esso esiste soltanto in funzione di tali masse, a cui Mao riconsegna dunque – antistalinianamente – il ruolo di protagoniste della propria emancipazione. Il partito deve essere al servizio delle masse, e i membri del partito, diceva Mao, quando parlano in pubblico, devono impiegare il modello delle “otto gambe del tavolo”: devono cioè esporre in otto maniere diverse lo stesso discorso, in modo da spiegarsi tanto ai contadini analfabeti quanto ai dottissimi mandarini. Nel caso in cui il partito tendesse a separarsi dalle masse e a comandarle contro la loro volontà, queste devono ribellarsi e far proprio il motto: “bombardare il quartier generale”. Nel 1964, uscì il Libretto rosso, una raccolta di pensieri di Mao. “Un sole rosso al centro dei nostri cuori”, urleranno nelle piazze i manifestanti comunisti riferendosi a Mao.
PAUL GRICE
Al cuore della riflessione di Paul Grice (1913-1988), docente dapprima a Oxford e successivamente a Berkeley, stanno due grandi temi: a) il concetto di significato; b) la logica della conversazione. I filosofi, nota Grice, sono propensi a concepire il significato in termini causali: essi credono cioè che l’obiettivo di un enunciato sia quello di produrre un qualche atto cognitivo o di altra natura in chi ascolta l’enunciato. Ma questa “concezione causale del significato” è per Grice valida soltanto se riferita al significato standard: se riferita al significato specifico che gli enunciati assumono in date occasioni. In forza di questo presupposto, per Grice il significato non consiste principalmente nel trasferimento di contenuto informativo (contenuto che può essere cognitivo, ma non solo): né consiste nel mero riferimento a qualcosa. Al contrario, il significato può essenzialmente ridursi alle intenzioni del soggetto parlante e al loro riconoscimento da parte di chi ascolta. Il parlante cerca di produrre un certo effetto sull’ascoltatore tramite il riconoscimento da parte di quest’ultimo della sua intenzione. Per questa via, il linguaggio è inteso come conversazione. Capovolgendo con ciò il tradizionale atteggiamento che metteva in relazione significato e parole o frasi, Grice si propone di costruire una semantica incardinata sul punto di vista del soggetto parlante. Accade molto spesso, infatti, che quel che io voglio comunicare con le mie parole non sia il loro significato letterale, ma qualcosa di diverso, che nasce dall’interazione delle parole con altre e differenti componenti. Prendiamo il caso che io, a proposito di un noto vigliacco, dica: “che coraggioso!”. Il mio tono ironico o, banalmente, l’identificazione che i miei ascoltatori fanno del soggetto di cui parlo, farebbero immediatamente capire che voglio dire l’esatto opposto di quel che alla lettera vogliono dire le parole che ho impiegato. Detto altrimenti, per Grice l’elemento fondamentale è l’intenzione sottesa all’atto comunicativo. Soprattutto con Logica e conversazione, del 1975, Grice vuole mettere in chiaro tutte le componenti che usualmente sfuggono a un’analisi semantica del linguaggio effettuata nei soli termini di valore di verità degli enunciati: e ciò è possibile qualora si mettano in relazione il significato convenzionale dell’espressione linguistica e il contesto conversazionale in cui esso affiora. La conversazione è per Grice un’attività linguistica razionale e cooperativa, governata dal “principio di cooperazione”: in base a questa regola tacita, i partecipanti si sentono, per così dire, obbligati a dare un loro contributo affinché la conversazione in cui sono immersi funzioni bene. Il “principio di cooperazione” è così formulato da Grice in Logica e conversazione:
“Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato”.
Ben si capisce, da tale formulazione, come quella di Grice sia una concezione eminentemente pragmatica del linguaggio, inteso come una forma di azione. Il principio di cooperazione si declina in quattro gruppi di massime, che si richiamano direttamente alle categorie kantiane: a) della quantità; b) della qualità; c) della relazione; d) della modalità. Secondo la massima della quantità, occorre dare un contributo conversazionale in modo opportuno, ossia né maggiore né minore di quanto richiesto: l’evasività e la laconicità fanno smarrire l’obiettivo della conversazione, e la ridondanza è fonte di confusioni e talvolta può indurre a pensare che l’intento della comunicazione sia un altro rispetto a quello esplicito. Secondo la massima della qualità, occorre fornire un contributo appropriato, ossia quello che ci si crede essere in diritto e in dovere di fornire. In altri termini, il soggetto parlante è tenuto a dire la verità e ad effettuare affermazioni della cui fondatezza è certo. Secondo la massima della relazione, occorre essere pertinenti, senza uscire fuori tema: nel caso in cui si vada fuori tema, si vanifica il raggiungimento della comunicazione o si dà di nuovo l’impressione di voler comunicare qualcosa di diverso da quel che esplicitamente si è espresso. Infine, secondo la massima della modalità, occorre essere perspicui, ossia occorre evitare ambiguità di ogni sorta, oscurità, prolissità e caos nel modo in cui si articola il proprio discorso. La trasgressione di queste quattro massime può far uscire l’interlocutore dalla strada della comunicazione: ma esse possono naturalmente anche essere trasgredite spontaneamente, caso in cui il soggetto parlante tenterà di riportare tale trasgressione all’interno del “principio di cooperazione” e la concepirà come il tentativo di suggerire qualcosa che va al di là del significato esplicito delle parole impiegate. Questa parte implicita della comunicazione viene da Grice definita come “implicatura conversazionale”, ed è dotata di tre caratteristiche ben definite: 1) la sostituibilità (anche se usualmente la si coglie intuitivamente, può comunque essere sostituita da un ragionamento); 2) la cancellabilità (può essere negata senza che con ciò si modifichino i comportamenti e gli esiti delle azioni che si sono intraprese); 3) la inseparabilità (non può venir formulata se non come è effettivamente formulata, pena il violare la massima della modalità). Appare evidente come questo modello di semantica, che tanto Grice quanto J. L. Austin incentrano sul concetto di intenzione, riduca tendenzialmente la semantica alla psicologia e si contrapponga alla concezione oggettivistica del senso fatta valere da Frege e da molti altri pensatori.
ADRIANO BAUSOLA
Adriano Bausola nasce a Ovada, in provincia di Alessandria, il 22 dicembre 1930: si laurea in Filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove successivamente ottiene la cattedra d Storia della filosofia nel 1970. Di questo stesso ateneo, dopo essere stato preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1974 al 1983, divenne rettore, con l’approvazione di Giovanni Paolo II, fino a 1998. Era succeduto a Giuseppe Lazzati, che nell’Università Cattolica aveva introdotto gli orientamenti nuovi del Concilio Vaticano (1962-1965) e le istanze di un tumultuoso cambiamento culturale e religioso sotto il pontificato di Paolo VI, nel clima di ricerca degli anni settanta anche per superare lo scontro tra i due mondi contrapposti, poi scomparsi nel 1989.
Bausola fu scelto perché era un moderato illuminato e dal tratto signorile, con il compito di raffreddare quei fermenti rivoluzionati che, dopo il Sessantotto, avevano fatto ingresso anche nell’Università Cattolica creando non pochi problemi. Si temeva quella “rivoluzione studentesca” che se, da una parte, era ispirata da orientamenti marxisti e leninisti attraverso l’utopismo estetico di Herbert Marcuse, dall’altra, in quanto si facevano parte attiva molti cattolici di sinistra, richiamava l’attenzione di Augusto Del Noce, come del cardinale-teologo Jean Daniélou, che vedeva nella contestazione giovanile, sotto la spinta riformatrice del Concilio, la rivolta contro le cause di un malessere diffuso, a cominciare dagli atenei, di servitù sociali inaccettabili e, sopratutto, di conflitti assurdi e del pericolo di guerre nucleari. Fu in quegli anni che si tenne il Convegno ecclesiale su “Evangelizzazione e promozione umana”, con l’intento di liberare l’associazionismo cattolico dal collateralismo a sostegno della Democrazia Cristiana. E, tra i relatori, figurò anche Adriano Bausola, che assunse una posizione mediana tra il vescovo-teologo Franceschi e padre Bartolomeo Sorge, i quali, per dare una spallata all’intreccio tra Chiesa e politica a guida DC, definirono l’integralismo cattolico “tarlo del Vaticano”, sostenuti in quella linea riformatrice e dirompente da molti intellettuali fra cui Pietro Scoppola e Luciano Pazzaglia.
Per la stessa ragione, Bausola fu chiamato a svolgere una funzione di moderatore di uno dei cinque ambiti del successivo Convegno ecclesiale, tenutosi a Loreto nel 1985, su “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”, che rappresentò un passo indietro, rispetto al precedente, quando fu emarginata la linea Martini-Ballestrero e quest’ultimo sarà, poi, sostituito alla presidenza della Cei con il card. Camillo Ruini. Infatti, la svolta si è avuta solo con il Convegno di Palermo del novembre 1995 quando Papa Woityla affermò che la Chiesa “non intende più far parte di “chieramenti politici o di partito”, segnando la fine dell’unità dei cattolici.
La ricerca di Bausola, nel campo della fi1osofia morale e dell’etica politica, si sviluppa in sintonia con la dottrina sociale della Chiesa che ha inteso servire, prima di tutto, come intellettuale partecipando alle Settimane Sociali e come rettore dell’Università cattolica nella quale ha introdotto un nuovo statuto, in sostituzione di quello del fondatore padre Gemelli, potenziandone la struttura con tre nuove Facoltà ed è sotto il suo rettorato che gli studenti da 21.300 sono passati ad oltre 40.000. Il suo orizzonte culturale rimane legato al XX secolo pur avvertendo la complessa problematicità del XXI. Tra le opere principali di Bausola, meritano di essere ricordate Libertà e responsabilità (1980) e Natura e progetto dell’uomo (1995). In esse, con particolare sensibilità per i temi dell’etica e del problema della libertà, il filosofo piemontese riflette sulla struttura ontologica del comportamento umano. In tale riflessione, egli si pone sulle orme dell’antico Aristotele e rivendica una giustificazione razionale dei valori, dedotta dal teorema di Dio creatore e finalizzatore: una siffatta giustificazione è anche motivata dalla volontà di contrapporsi allo storicismo in tutte le sue declinazioni (marxiste quanto idealiste). Sulla base della fondazione metafisica dei valori, vengono individuate un’etica e un’antropologia, a livello sia individuale sia sociale. A questo progetto, Bausola lavora soprattutto in Tra etica e politica (1998) e Le ragioni della libertà. Le ragioni della solidarietà (1998).
MICHELE FEDERICO SCIACCA
A cura di F. Gualco e D. Fusaro
Michele Federico Sciacca nasce a Giarre, in provincia di Catania, il 12 luglio 1908. Fra il 1918 e il 1926 nasce la sua vocazione alla ricerca di una verità capace di dar senso alla vita. Studente liceale, Sciacca si scopre vorace lettore: in questo periodo fra i suoi autori preferiti primeggiano i nomi di Leopardi, dei pensatori greci Democrito e Epicuro, dei filosofi tedeschi Kant e Fichte i quali, pur lasciandogli quesiti irrisolti sul piano morale, lo orientano temporaneamente verso l’idealismo trascendentale. Gli anni che vanno dal 1926 al 1930 coincidono con la sua formazione universitaria. Nel 1926 entra come studente di filosofia nel Sicolorum Gymnasium di Catania, ma come lui stesso racconta nelle pagine de La clessidra (L’Epos, Palermo 1993), il desiderio di cambiare aria è fortissimo: «l’insofferenza dell’ambiente di provincia e della vita familiare; il dèmone dell’insoddisfazione di tutto (…) la sete dell’avventura che mi ha spinto alle più svariate esperienze letterarie, filosofiche e anche di vita, come il conflitto di due tendenze, allo studio in meditazione solitaria e alla mondanità, aspirazioni imprecise e sogni di tutto mi spinsero a lasciare Catania e la Sicilia». In questo stesso anno, indeciso a stabilirsi a Napoli oppure a Roma (dove insegnava Giovanni Gentile), alla fine sceglie il capoluogo campano. Qui segue le lezioni di Antonio Aliotta e Adolfo Omodeo. Ed è con Aliotta che, nel 1930, consegue la Laurea in Filosofia con la tesi «La filosofia di Tommaso Reid», pensatore appartenente alla cosiddetta Scuola Scozzese. (Cfr. La filosofia di Tommaso Reid, Marzorati, Milano 1963) I suoi primi contatti intellettuali con le opere di Croce, che quell’epoca spartiva con Gentile grande parte del dibattito filosofico italiano, non furono certo un successo. Le dottrine crociane, a differenza di quelle di Gentile, hanno su Sciacca un’incidenza pressoché nulla. L’incontro con Gentile, invece, rappresenta per il giovane un incontro decisivo sotto vari aspetti. La stima di Sciacca nei confronti di Gentile viene espressa eloquente: «suoi scritti teoretici, negli anni giovanili, furono non solo la mia assidua e meditata lettura, ma la mia filosofia (…) alcune indimenticabili lezioni ascoltate a Roma, prima e dopo la laurea, mi diedero la misura della sua capacità formativa e dell’autenticità dell’uomo e del filosofo, mi affezionarono a lui per sempre». Anche se, al di là della stima e dell’affetto sinceri, sul piano intellettuale Sciacca ben presto si accorge delle aporie del pensiero gentiliano: il punto di partenza di Gentile è che nulla è al di fuori del pensiero e ciò per Sciacca rappresenta una assolutizzazione del pensiero stesso, che consente processi logici ma non può contemplare principi fondanti. Sempre nel 1930, pochi mesi dopo il conseguimento della laurea, comincia la sua carriera di insegnante: supplente di storia e filosofia nei licei di Tolmino, Pisino e L’Aquila; professore di ruolo all’Istituto Magistrale di Lagonegro al Liceo Classico di Aquila, al Liceo Scientifico “V. Cuoco” di Napoli. Il periodo 1931-1936 è tempo di incertezza teoriche, di inquietudini intellettuali: attualista sulla scia degli insegnamenti gentiliani, la sua voglia di trascendenza, anche se sul momento confusa, lo porta a sondare ampiamente campi non solo strettamente filosofici, ma anche letterari. Non a caso in Sciacca le capacità argomentative del filosofo più rigoroso convivono in modo quasi costante con la verve creativa dello scrittore: caratteristica propria di chi esprime lo stesso contenuto sia tramite concetti che attraverso immagini. In questa prospettiva, all’interno delle sua vasta produzione intellettuale, non mancano esempi eminenti: testi dall’intonazione “mistica” come Così mi parlano le cose mute (Milano, Marzorati) e soprattutto lo splendido Come si vince a Waterloo (Milano, Marzorati 1963) il cui tema portante è il rapporto fra il silenzio e la parola quali elementi essenziali ed indivisibili del linguaggio, sia umano che divino.Dal 1938 è professore ordinario di Storia della Filosofia a Pavia. Nel 1946 fonda la rivista internazione “Il Giornale di Metafisica” che dirige fino alla sua morte. Nel 1947 accetta la cattedra di Filosofia Teoretica ala Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, in cui prima di passare alla cattedra di Filosofia della Facoltà di Magistero, dirige per anni l’Istituto di Filosofia. Nel 1947 accetta la docenza di Filosofia Teoretica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, prima di passare alla cattedra di Filosofia della Facoltà di Magistero, sempre a Genova, suo ultimo approdo accademico. A Genova, infatti, muore il 24 febbraio 1975. Su sua espressa richiesta, il suo corpo viene sepolto sul monte Calvario di Domodossola, nella tomba dei Padri Rosminiani.Gli anni 1937 -1938 coincidono con una svolta filosofica che passa attraverso l’approfondimento di due pensatori che si riveleranno fondamentali alla sua ricerca: Platone e Rosmini. Meditando sulla concezione greca dell’esistenza Sciaccia ne scorge pregi ma soprattutto limiti, tant’è vero che la meditazione del paganesimo, come lui stesso afferma, lo spinge in maniera forte e decisa al cristianesimo. La ricerca di una risposta adeguata ai problemi della persona, della libertà, del male e della sofferenza spingono l’intelligenza di Sciacca verso orizzonti più ampi, ossia quelli forniti dalla metafisica cristiana. Similmente ad Hannah Arendt, oppure a Ortega y Gasset, Michele Federico Sciacca è un filosofo non catalogabile, difficilmente inseribile in qualche corrente di pensiero ben definita: non a caso, come egli stesso afferma, «vi sono pensatori che vivono di rendita o si ripetono, altri che crescono su se stessi; per comprenderli è necessario conoscerli in tutto il loro itinerario critico di approfondimento. Probabilmente io appartengo a questi ultimi» (Ontologia triadica e trinitaria, L’Epos, Palermo 1990) Sciacca è un filosofo felicemente “originale”, direbbe Pareyson, perché costantemente in dialogo con l’Origine. Seppur stimato e seguito da molti giovani, egli amava definirsi non un maestro, ma un discepolo iscritto alla scuola della verità, considerata come l’unica scuola da cui nessuno, almeno in partenza, può essere escluso. Filosofo cattolico, sostenitore del primato della persona e refrattario ad ogni forma di riduzione spirituale, morale, antropologica ed esistenziale della persona stessa, Sciacca difende il primato della metafisica sulla gnoseologia: ossia il primato di un sapere sovrarazionale che fonda e sostanzia il conoscere razionale, che la svolta di Cartesio, che segna l’inizio filosofico dell’epoca moderna, ha contribuito ad intaccare. Nonostante l’insaziabile curiositas intellettuale, Sciacca predilige i filosofi cosiddetti “classici”; i soli, egli sostiene, capaci di essere perennemente contemporanei. Filosoficamente egli si situa principalmente sulla linea teoretica formata da Platone – Agostino – Tommaso – Rosmini. Platone, attraverso le teorie dell’Eros, del Logos e dell’Anamnesis gli insegna che la filosofia non è ricerca fine a se stessa, ma percorso sapienziale finalizzato a svelare del senso della vita che non si riduce a “questa” vita. (cfr. Platone, Milano, Marzorati 1967)Da Agostino di Ippona, primo vero pensatore autenticamente occidentale, Sciacca apprende che l’amore umano si perfeziona attraverso le conquiste e gli errori della sua storia personale: un cammino che si compie, escatologicamente, nell’Amore divino che, pur lasciando la creatura libera di collaborare o meno al progetto storico di salvezza del Creatore, costantemente bussa alla porte della mente e del cuore ed esorta ad una risposta costruttiva, sviluppa in armonia fra fede e ragione, mistero ed evidenza: «recuperare Agostino significa riconquistare (…) la nostra vera realtà umana, la nostra integrale natura (…) E mai come oggi vi è stato tanto bisogno di riconquistare lo spirito inteso come sintesi reale di tutta l’umana attività in tutta la sua forza normale». (cfr. Agostino, L’Epos, Palermo 1991). Tommaso d’Aquino, per Sciacca, rappresenta il teorico più profondo ed equilibrato della cosiddetta coscienza laica: è dire laicità significa anche esprimere consapevolezza di un ordine di verità naturali con le quali la persona coglie nella sua stessa natura quanto occorre alla sua autonomia di creatura (cfr. Prospettiva sulla metafisica di San Tommaso, L’Epos, Palermo 1991). L’interpretazione sciacchiana di Tommaso va contro coloro che, sedicenti tomisti e ferventi “neoscolastici”, si limitano a citare L’Aquinate “per autorità”, contribuendo a relegare una delle più grandi menti che la cultura cattolica abbia mai espresso a reliquia del passato ed evitando così di porre in luce la sua genialità, non solo teologica ma anche mistica, valida anche per l’oggi.Rosmini è il pensatore “intero”, un potente fermento speculativo sia in senso filosofico che teologico: colui che, come scrive A. M. Tripodi, sa frequentare proficuamente i numerosi campi dello scibile umano radicandosi perennemente nella verità, luce per la ragione; e nella rivelazione, luce della fede. (cfr. A. M. Tripodi, Il rosminianesimo di Sciacca, in Aa Vv, La presenza dei classici nel pensiero di Sciacca, Olschki, Firenze1995). Uomo di scuola con una spiccata vocazione all’insegnamento e al dialogo, scrittore incredibilmente prolifico (l’elenco delle sue pubblicazioni è consultabile grazie alla bibliografia curata da Pier Paolo Ottonello: cfr. Bibliografia degli scritti di e su Michele Federico Sciacca dal 1931 al 1995, Olschki Editore, Firenze 1996), apprezzato conferenziere in Italia e all’estero (soprattutto in Spagna e nei paesi latinoamericani), Sciacca è anche instancabile promotore culturale: ne sono esempi il Centro di studi rosminiani di Stresa, la Cattedra “Rosmini”, l’Istituto internazionale di studi europei “A. Rosmini” di Bolzano.Persona dotata di intelligenza viva e vivace, di profonda sensibilità, di una preparazione culturale straordinariamente vasta, Sciacca ha modo di attingere molto da molti pensatori. Ma di essi non si limita ad essere il ripetitore: al commento preferisce il rischio dell’interpretazione; alla ripetizione predilige il ri-pensamento – anche correndo il rischio del fraintendimento. Una delle caratteristiche principali del suo modo di pensare è sintetizzabile nella convinzione secondo cui ogni teoria, per quanto errata nella sua totalità, può sempre contenere una parzialità di verità di cui doveroso tenere conto al fine di un sua corretto reinserimento in quell’organismo del sapere che, con Rosmini, chiama il sistema della verità. Per Sciacca essere filosofi non coincide con l’essere professori di Filosofia, benché niente vieti ai professori di Filosofia di essere filosofi. Come già accennato nelle pagine dedicate ad Hannah Arendt, l’uomo che formula domande e tenta delle risposte è già filosofo, che ne sia conscio o meno. La filosofia, in Sciacca, si traduce in filosofare: e filosofare significa inserirsi in un percorso di ricerca della verità. Significa porsi domande sul senso della vita, assumere i problemi che contemplano l’unità dei momenti che la compongono nella responsabilità personale di rispettare distinzioni e autonomie. Quel che ci asciuga le lacrime o ci fa sorridere può essere tutto tranne che filosofia: perché, come si può leggere nelle pagine di Atto ed Essere (L’Epos, Palermo 1991) il suo compito primario è e resta quello «di chiarire me a me stesso nel mistero dell’Essere, in cui è la chiave dell’enigma del mio essere». Sciacca, che è stato uno dei massimi esponenti del cosiddetto «spiritualismo agostiniano» (declinato secondo modelli rosminiani e tomistici), pone al cuore della propria riflessione la nozione di «interiorità oggettiva», specialmente in «Interiorità oggettiva» (1951), «Atto e essere» (1956) e «L’uomo questo squilibrato» (1956). Quella che il filosofo siciliano è andato elaborando è una sorta di «metafisica integrale» in forza della quale si tenta di «risolvere in sé le due opposte metafisiche dell’essere e del pensiero, conservando al pensiero e all’essere tutta la loro validità e positività antimmanentistica e antistoricistica: aperta alla trascendenza e valorizzatrice della persona» («Filosofia e metafisica», Morcelliana, Brescia 1950, pp. 10-11).
GIUSEPPE CAPOGRASSI
“Il mondo chiama spesso uomo fortunato colui che ha molte fortune. Come sempre il mondo è in errore. Fortunato è colui che riesce a trovare rispecchiato il proprio essere nell’essere di un altro spirito” (“Pensieri a Giulia”)
Giuseppe Capograssi nacque a Sulmona, in provincia di L’Aquila, il 15 marzo 1889 da antiche famiglie di nobili origini. I Capograssi infatti si trasferirono a Sulmona nel 1319 al seguito del vescovo Andrea, da un comune della provincia di Salerno. La casa in cui nacque era appartenuta ai Meliorati, famiglia dalla quale nacque il futuro papa Innocenzo VII. La sua importanza è data dal fatto di aver compiuto studi di filosofia del diritto e dall’aver insegnato a Macerata, dove venne nominato rettore, a Padova e infine a Roma. Venne poco prima della sua morte, datata 23 aprile 1956, eletto come membro della Corte Costituzionale. La sua filosofia è chiamata “dottrina dell’esperienza giuridica” e afferma la centralità dell’azione della volontà dell’agente, che è il vero oggetto di interesse. Capograssi fu un insigne studioso che non amava la mondanità ma di cui ci sono rimaste delle testimonianze, scritte da lui stesso, quasi involontariamente, con le quali è possibile conoscere a fondo la sua personalità. Si tratta di circa duemila foglietti, piegati in quattro, scritti ogni giorno alla sua fidanzata Giulia Ravaglia, dal dicembre del 1918 al 18 febbraio 1924, data del loro matrimonio. Si tratta di un unicum tra le corrispondenze d’amore che è stato divulgato dalla vedova dopo molte esitazioni. I foglietti non hanno “a capo” ed erano scritti di getto, come ci riferisce lui stesso, per annullare le distanze e mantenere un contatto più profondo di quello della parola. Tra le opere principali di Capograssi meritano di essere segnalate le seguenti: Saggio sullo Stato (1918), Riflessioni sull’autorità e la sua crisi (1921), Analisi dell’esperienza comune (1930), Studi sull’esperienza giuridica (1932), Il problema della scienza del diritto (1937), Introduzione alla vita etica (1935). Abbiamo già detto che il suo pensiero fu definito “dottrina dell’esperienza giuridica”, in virtù del fatto che, per Capograssi, il principio dell’agire umano risiede nella volontà del soggetto agente, nella sua azione: e nella sua azione si esprime la sua vita. In base a questo presupposto, per Capograssi la filosofia deve occuparsi della vita e dell’azione: così intesa, la filosofia diventa un incessante sforzo di realizzazione e di autenticazione dell’individuo concepito come persona. La concezione che Capograssi fa valere della filosofia viene dunque a incastonarsi nella cornice di quel “personalismo cristiano” che tanta fortuna incontrò nel Novecento: il filosofo abruzzese si pone direttamente sulle orme di Agostino, di Pascal, di Vico, di Rosmini e di Blondel. Ad avviso di Capograssi, filosofo in senso autentico è soltanto chi ha il solitario compito di raccogliere le lezioni segrete della vita e di esprimerle. La fantasia del filosofo non deve servire che a spiegare la vita, ma non un’assoluta (o astratta) vita dello Spirito, bensì la quotidiana vita dei singoli uomini su questa terra.
SERGIO QUINZIO
A cura di Andrea Pesce
“La storia di Dio è, fin dalla prima pagina della Bibbia, una storia di sconfitte“.
VITA E OPERE
Sergio Quinzio nasce ad Alassio, in provincia di Savona, il 5 maggio 1927: ha prestato servizio per diciassette anni nella Guardia di finanza, da cui si è congedato con il titolo di capitano. Ha poi vissuto in isolamento per quattordici anni in un piccolo paese delle Marche (Isola del Piano), dove ha intrapreso quello studio approfondito della Bibbia che è stato l’impegno costante della sua vita. Saggista, commentatore di temi religiosi, teologo, negli ultimi anni si è trasferito a Roma. Ha collaborato con La Stampa, il Corriere della sera, l’ Espresso, unendo le sue doti di fine biblista e di efficace divulgatore culturale. È morto a Roma il 22 marzo 1996. Tra le sue opere, ricordiamo: Diario profetico, Guanda, Milano, 1958; Religione e futuro, Realtà nuova, Firenze, 1962; Giudizio sulla storia, Silva, Milano, 1964; Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi, Milano, 1967; Laicità e verità filosofica. La religione nella scuola, Armando, Roma, 1970; Le dimensioni del nostro tempo, Rebellato, Cittadella, 1970; I potenti della letteratura, Rusconi, Milano, 1970; Un Commento alla Bibbia, Adelphi, Milano, 1972 (II. ed. 1995); Monoteismo ed ebraismo, Armando, Roma, 1975; L’impossibile morte dell’intellettuale, Armando, Roma, 1977; La fede sepolta, Adelphi, Milano, 1978; Dalla gola del leone, 1980; L’incoronazione, Armando, Roma, 1981; Silenzio di Dio, Mondadori, Milano, 1982; La croce e il nulla, Adelphi, Milano, 1984; La speranza nell’apocalissi, Ed. Paoline, Milano, 1984; Domande sulla santità, Ed. Gruppo Abele, Torino 1986; Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano, 1991; La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1993; Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995.
PENSIERO
Sergio Quinzio ha dedicato la sua intera esistenza ad una approfondita esegesi della Sacra Scrittura, nella quale gli strumenti della filologia sono messi al servizio di una visione sinottica della civiltà ebraico-cristiana. Una radicale meditazione teologica sulla fede cristiana, soprattutto in relazione alla modernità intesa come secolarizzazione dell’escatologia biblica, ha condotto Quinzio a ravvisare nei principali tratti del mondo moderno, apparentemente ateo e scristianizzato, la trascrizione (da intendere come parodia e contraffazione o come demitizzazione) della speranza giudaica. La concezione biblica del mondo come radicale contingenza e storicità, in tal senso, è opposta da Quinzio alla concezione pagana del mondo come natura eternamente regolata da un logos. Questa dicotomia tra mondo greco (in cui il tempo è ciclicamente inteso) e mondo cristiano (in cui il tempo è inteso come una linea retta che procede senza sosta verso il futuro) presenta molti tratti in comune con quella di Karl Löwith. Quinzio è approdato, negli ultimi anni, ad un cristianesimo tragico incentrato sulla “sconfitta di Dio“, sulla constatazione disperata che la promessa messianica è stata elusa e delusa e che la stessa esistenza della divinità è minacciata dall’impotenza e dal rischio. All’interno di questo orizzonte di pensiero che pone in relazione nichilismo e cristianesimo, ontologia del declino e “Dio debole”, si spiega il sodalizio intellettuale con Gianni Vattimo – il padre del “pensiero debole” – e con altri filosofi e pensatori contemporanei. Sergio Quinzio è uno dei più grandi esegeti italiani dei testi biblici e dei Vangeli, un pensatore scomodo per la chiesa cattolica come scomodi sono tutti quei credenti erosi dal dubbio della fede. Qiunzio era un credente “critico”, un uomo che durante la sua vita, purtroppo terminata nel 1996, si è posto tormentose e inquietanti domande sul rapporto tra l’uomo e il Dio della tradizione ebraico-cristiana.
Uno dei punti centrali della riflessione di Quinzio è il ribadire con forza che il concetto di “immortalità dell’anima” non è di matrice cristiana ma greca (platonica precisamente); conclusione alla quale peraltro era già pervenuto Nietzsche affermando che il cristianesimo non era altro che un “platonismo volgarizzato”. La Chiesa cattolica apostolico-romana offre ai suoi fedeli la “resurrezione della carne” alla fine dei tempi. Proprio in questa visione escatologica (dal greco éschata “cose ultime”) risiede la grande differenza tra mito e religione, due concezioni che non vanno assolutamente confuse. Ecco il giudizio di Quinzio: “Si sente comunemente parlare di “mito biblico”, e persino di “mito cristico”; ma questo significa non percepire la lontananza e la drammatica opposizione fra il mito che è protologico, e la fede, che è invece escatologica, e quindi rivolta al futuro e non al passato”[1]. Il mito non consiste in una progressione lineare della storia ma in una ciclicità degli eventi nell’eterno ritorno dell’uguale. Il telos, il senso della storia si dà, in ambito religioso, con la fine dei tempi e il Giudizio Universale per opera di Dio, che riporterà sulla terra la giustizia e la verità.
Lo scenario prospettato alla fine della storia è davvero apocalittico (dal greco apo-kalypto “togliere il velo”): i morti risusciteranno dalle tombe e, con la minoranza dei vivi[2], si sottoporanno al severo giudizio divino. Su questo aspetto Quinzio non manca di precisare che: “Il giorno del Signore, grande e terribile, che già i profeti avevano insistentemente annunciato, e ossessivamente descritto con estrema violenza, come farà l’Apocalisse a sigillo delle Scritture, è “giorno di furore, giorno di tribolazione e d’angoscia, giorno di devastazione e di desolazione, giorno di tenebre e di oscurità, giorno di nembi e di nuvole, giorno di tromba e di gridi di guerra” (Sof 1, 15-16). […] Questo è il giorno che gli uomini e Dio, dovrebbero desiderare e invocare. L’orrore come estrema, unica possibilità di salvezza. Un’invocazione necessaria e impossibile insieme”[3].
Frasi, queste, da sottoporre ad una interpretazione di tipo allegorico o metaforico? Quinzio non è di questo parere: “La resurrezione dei morti è quanto di più difforme si possa immaginare dall’esperienza comune e dalle ragionevoli aspettative umane. Eppure il Simbolo degli Apostoli afferma la “resurrezione della carne” per “la vita eterna”, e il Credo di Nicea-Costantinopoli afferma la “resurrezione dei morti” per “la vita del mondo che verrà”. Se ci si limitasse a parlare di resurrezione dei morti per la vita eterna, forse sarebbe ancora possibile dare un’interpretazione metaforica di questa verità. Ma dalle formule usate nei due venerandi testi della Chiesa antica risalta l’affermazione che sarà la carne a risuscitare per vivere nel mondo che verrà. E su questo non sono ammesse interpretazioni metaforiche: questa è la promessa di Cristo, il cuore di quell’annuncio cristiano che noi troppo spesso tendiamo a dimenticare, fingendo di non vedere ciò che la Scritture stesse dicono chiaramente”[4].
Sono trascorsi più di duemila anni da quando il sepolcro di Cristo è stato trovato vuoto e, malgrado i continui annunci dell’incombente fine del mondo nel Giudizio di Dio, nessuno ha ancora visto gli angeli discendere dal cielo e i morti risorgere dalle tombe. Tutto ciò ha ormai assunto la forma di una sconfitta di Dio in un inarrestabile indebolimento della fede.
Altro snodo cruciale è quello della incontestabile presenza (per non dire dominio) del male nel mondo. Su questo punto Quinzio è molto semplice e diretto. Partendo dalla constatazione di vivere in un universo in cui gli orrori fanno parte della quotidianità (dal bambino morto cadendo in un pozzo artesiano, alle continue devastazioni causate dalle guerre), egli si domanda come possa esistere il male se il Dio della Creazione si è rivelato come Dio di infinito bene, di misericordia e perdono. Eppure fin dalle prime pagine della Bibbia entra in scena la morte, dopo la ribellione di Adamo e Eva, con l’assassinio di Abele compiuto dal fratello Caino. Un Dio onnipotente che non aveva creato la morte deve subirla, come più tardi, di fronte ai costruttori della torre di Babele, proverà un sentimento di paura (Gn 11, 6) verso la creatura da lui stesso creata?
Kenosys è la parola greca che significa caduta, abbassamento, declino. Nella creazione del mondo molti teologi hanno visto una perdita di potenza da parte di Dio, così come l’aspetto kenotico è fortemente presente nell’Incarnazione in Cristo. Viene il sospetto, a questo punto, che Dio non sia completamente onnipotente e non possa impedire al male di propagarsi all’interno del creato. In effetti se Dio vuole il male allora è in contraddizione con la sua parola rivelata, parola di amore, pace e fratellanza; in alternativa potremmo affermare che Egli non vuole il male ma è costretto a subirlo a causa della perdita di controllo sul mondo derivante dalla creazione. Dubbio lacerante già esposto dal filosofo Hans Jonas nella sua memorabile riflessione Il concetto di Dio dopo Auschwitz, riassunto nella frase “Quale Dio ha permesso che ciò accadesse?”. L’esperienza di Auschwitz non può essere compresa con le categorie teologiche tradizionali, ma produce una rottura tra il modo di intendere Dio dell’Antico Testamento (interventista e presente) e quello col quale noi oggi dobbiamo convivere: un Dio silente, lontano, incomprensibile. Riportare nel creato la giustizia, la misericordia, valori portanti del mistero dell’Incarnazione, fa chiaramente intendere che il mondo è imperfetto e bisognoso di continui aggiustamenti. L’aver dato vita all’uomo come creatura libera, ha inevitabilmente fatto cortocircuitare l’intera costruzione divina nell’esposizione al peccato. Non è possibile concludere questo ragionamento senza dedurre che per evitare il peccato, all’uomo non dovrebbe essere lasciata la libertà di scelta, ma subire l’eterodirezione della volontà di Dio. In questo caso sarebbe allora lo stesso Dio a doversi autopunire per le colpe da egli stesso commesse.
A ben rifletterci il culmine dell’auto-punizione di Dio potrebbe coincidere con la Passione di suo figlio Gesù Cristo sulla croce. Tuttavia, sfruttando l’intensità e il rigore delle riflessioni in ambito religioso contenute nei film di Ingmar Bergman, possiamo citare il dialogo tra il pastore Ericsson e il suo sacrestano nel film “Luci d’inverno” del 1962. Dopo aver premesso che la lettura dei Vangeli gli serviva come cura per i dolori corporali che l’affliggevano alla sera prima del sonno, il sacrestano afferma che non è bene soffermarsi troppo sulla sofferenza fisica di Gesù durante la Passione. L’uomo dichiara che, nel suo piccolo, ha sofferto quanto Gesù Cristo e, malgrado l’agonia del Messia sia stata abbastanza lunga (circa quattro ore), ben più terribile deve essere stato l’abbandono subito prima ad opera degli apostoli (colpevoli di non avere compreso il messaggio cristico) e poi del Padre, invocato con voce altissima sulla croce, in una simbolica e quanto mai evidente umana e straziante dubbiosità nei confronti del Divino. “Non sarà stato quello il momento in cui Egli soffrì di più? Per il Silenzio di Dio?”, conclude il sacrestano.
Ora, già il fatto di soffrire una morte temporale per liberare gli uomini da una morte eterna[5], può suscitare qualche dubbio logico. Emanuele Severino lo sottolinea nel suo libro Pensieri sul cristianesimo quando afferma: “Cristo ha sofferto una morte temporale che non meritava – cioè la morte del corpo, seguita dalla resurrezione -, per liberare gli uomini da una morte eterna, cioè dalla dannazione che essi meritavano. In questo modo, Cristo muore troppo poco: muore una morte temporale per riscattare una pena e una morte eterna”[6]. Cristo, dunque, affinchè il debito sia pagato nei confronti di Dio, dovrebbe patire la pena eterna e non una inferiore (quella corporea, per intenderci). In tal modo vi sarebbe la perpetuazione della rapina e infrazione della norma Divina, che esige il pagamento per intero del dovuto.
Nella preghiera più importante per il cristiano, che è il Padre Nostro, è presente una frase a dir poco enigmatica: “Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male”. Perché mai Dio dovrebbe tentarci? La parola tentazione si è soliti associarla al maligno per eccellenza: il Diavolo. Dia-bolos deriva da gettare (ballein) e attraverso (diá), ovvero allontanare, separare; così come oppostamente il termine simbolo era syn-ballein, tenere insieme. Questa separazione da parte di Dio dal maligno, da sempre perentoriamente rimossa dalla cultura cristiana come realtà assolutamente non appartenente al dogma divino, è evidente anche nel segno della croce che tutti i credenti effettuano come testimonianza della loro fede. Il demoniaco, parte dell’arcaica simbiosi tra le due opposizioni originarie, è estromesso dal movimento della mano destra: nel momento in cui dovrebbe coincidere col nominare Satana, avviene l’omissione attraverso il prolungamento della dizione dello Spirito Santo anche sulla spalla sinistra. Di questo se ne era già accorto Jung quando nel saggio L’interpretazione psicologica del dogma della Trinità scriveva: “Il diavolo non ha un giusto posto nel cosmo trinitario. […] Come avversario di Cristo dovrebbe assumere una posizione antitetica equivalente, ed essere parimenti un figlio di Dio. Ciò potrebbe condurre direttamente a certe vedute gnostiche, secondo le quali il diavolo come Satana era il primo figlio di Dio, Cristo il secondo. Un’altra conseguenza logica sarebbe l’abolizione della formula trinitaria e la sua sostituzione con una quaternità. […] Certo allora non è più dubbio che di vita comune non respirano solo il Padre e il Figlio luminoso, ma anche il Padre e la creatura tenebrosa”[7].
Dopo questa rapida esposizione di alcuni temi trattati da Sergio Quinzio e altri pensatori sul rapporto tra l’uomo e la Rivelazione di Dio attraverso le scritture, non è facile credere senza percepire l’instabilità delle fondamenta su cui poggia la fede. Quasi al termine del suo saggio La sconfitta di Dio, Quinzio ammonisce i suoi lettori con un passo che ha il sapore dell’amara constatazione che le cose potrebbero restare in un inalterabile status quo, senza più l’ausilio della religione e il suo ruolo di contenimento del Sacro[8]: “La fede guarda da una fine che potrebbe non venire. Tutto potrebbe continuare indifferentemente e indefinitamente così come lo conosciamo, e procedere nell’oblio di Dio, nell’allontanamento da colui che ha creato e sostiene tutte le cose, verso la consumazione di ogni aspettativa e di ogni prospettiva, avanzando in uno spazio dove il permanere degli oggetti e la loro dissoluzione, l’atto di torturare un bambino e quello di accudirlo amorevolmente, diventano sempre più equivalenti e indistinguibili. Questo è l’orizzonte che si profila, dal momento che il nostro orizzonte è quello che ci appare dal punto di vista della storia che abbiamo vissuto e in cui siamo collocati, dal momento insomma che non possiamo appellarci a nessuna presunta oggettività di cui sapremmo qualcosa al di là di ciò che sperimentiamo guardando le cose, appunto, dal nostro punto di vista”[9].
[1] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995, p. 101.
[2] E’ davvero sconcertante e assolutamente non augurabile l’essere presenti al Giudizio Universale. Gli sciagurati “ultimi uomini” che avranno questa possibilità, non possono certo essere considerati degli eletti bensì creature alle quali è negato addirittura il diritto di morire naturalmente… il tutto in nome di un presenzialismo che ha il sapore di una “coercizione metafisica”.
[3] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992, p. 73, 74.
[4] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995, p. 15.
[5] Frase contenuta nel De Trinitate di S. Agostino (XIII, 16, 21)
[6] E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano, 1995, p. 238.
[7] C.G. Jung, Saggio d’interpretazione del dogma della trinità, Opere, Boringhieri, Torino, 1988, p. 170, 171.
[8] Questo tema è molto ben trattato da Umberto Galimberti nella raccolta di saggi Orme del sacro, edito da Feltrinelli. Il filosofo nell’introduzione dichiara esplicitamente che al regno del sacro non appartengono solo le creature soprannaturali, i mostri o i Santi, ma anche gli istinti, le pulsioni, le malattie, insomma tutto ciò che Freud descrisse e relegò tra gli oscuri meandri dell’inconscio.
[9] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992, p. 98, 99.
ROLAND BARTHES
A cura di Mai Saroh Tassinari
“Nell’attuale periodo storico, qualsiasi scritto politico non può far altro che confermare un universo poliziesco, e così qualsiasi scritto intellettuale non può far altro che costituire una paraletteratura che non osa più dire il proprio nome“.
VITA E OPERE
Roland Barthes nacque a Cherbough, in Normandia. Dopo la morte del padre in una battaglia navale nel 1916, la madre, Henriette Binger Barthes, si trasferì a Bayonne, dove Roland trascorse la sua infanzia. Nel 1924 si trasferirono a Parigi, dove egli frequentò prima il liceo Montaigne (1924-30) e poi il Louis-le-Grand (1930-34). Nel 1927, Henriette diede alla luce un figlio illegittimo, Michel Salzado. Quando i nonni di Roland si rifiutarono di aiutare sua madre dal punto di vista economico, questa mantenne la sua famiglia lavorando come rilegatrice di libri. Alla Sorbona, Roland studiò la letteratura classica, le tragedie greche, la grammatica e la filologia, laureandosi in letteratura classica (1939) e grammatica e filologia (1943). Nel 1934 contrasse la tubercolosi e trascorse gli anni dal 1934 al 1935 e dal 1942 al 1946 in dei sanatori. Durante l’Occupazione, si trovava in un sanatorio a Isère. Numerose ricadute gli impedirono di terminare la sua tesi di dottorato, ma egli continuò a leggere avidamente, fondò una compagnia teatrale e incominciò a scrivere. Fu insegnante in dei licei di Biarritz (1939), Bayonne (1939-40), Parigi (1942-46), all’Istituto Francese di Bucarest (1948-49), all’Università di Alessandria d’Egitto (1949-50) e alla Direzione Generale degli Affari Culturali (1950-52). Dal 1952 al 1959 lavorò come ricercatore al Centro Nazionale della Ricerca Scientifica, dal 1960 al 1976 fu direttore degli studi presso l’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Negli anni 1967-68 insegnò alla John Hopkins a Baltimore, e dal 1976 al 1980 ebbe la cattedra di semiologia al Collège de France. Nel 1953 pubblicò Il grado zero della scrittura: il libro fu dapprima pubblicato sotto forma di articoli nella rivista di Albert Camus, “Combat”. Quest’opera confermò Barthes come uno dei critici di maggior rilievo della letteratura modernista in Francia e introdusse il concetto di écriture in quanto distinto dallo stile, dal linguaggio e dalla scrittura. Quest’opera aveva molte affinità con quelle degli scrittori del nouveau roman. Egli fu il primo critico a definire gli obiettivi degli scritti di Alain Robbe-Grillet e Michel Butor. Inoltre, considerò le condizioni storiche del linguaggio letterario e ribadì la difficoltà di una pratica moderna di scrittura: dedito al linguaggio, lo scrittore è immediatamente assorbito in ordini discorsivi particolari.
In Michelet par lui-même (1954), una biografia di Jules Michelet, storico del XIX secolo, Barthes si concentrò sulle ossessioni personali di Michelet e ritenne che esse fossero parte del suo modo di scrivere e che dessero una realtà esistenziale ai momenti storici collegati alla scrittura dello storico. In Mitologie (1957), impiegò dei concetti semiologici nell’analisi dei miti e dei segni nella cultura contemporanea. I suoi materiali di studio erano costituiti da quotidiani, film, spettacoli, mostre, a causa della loro relazione con l’abuso ideologico. Il suo punto di partenza non risiedeva nei giudizi tradizionali e nello studio delle intenzioni dell’autore, ma nel testo stesso in quanto sistema di segni, la cui struttura soggiacente forma il significato dell’intera opera. Un’agenzia di pubblicità trovò i suoi lavori talmente interessanti che lo persuase a lavorare per un breve periodo come consulente per la Renault.
Lo studio Su Racine (1963) originò qualche controversia a causa del giudizio non ortodosso di Barthes nei riguardi di Racine. Raymond Picard, professore della Sorbona e studioso di Racine, criticò nella sua Nuova critica o nuova impostura? (1965) la natura soggettiva dei saggi di Barthes. Per tutta risposta, in Critica e verità (1966), Barthes auspicava che una “scienza della critica” potesse sostituire la “critica universitaria” perpetuata da Picard e dai suoi colleghi. Barthes raccomandava inoltre che il criticismo diventasse una scienza e mostrasse che i termini e gli approcci critici sono connessi all’ideologia della classe dominante. I valori di chiarezza, nobiltà e umanità, considerati come base ovvia per ogni tipo di ricerca, secondo lui costituivano in realtà una censura nei confronti di altri tipi di approcci.
Durante la sua carriera, pubblicò saggi più che studi veri e propri, presentando le sue opinioni sotto forma di aforismi soggettivi e non di ipotesi teoriche. Ne Il piacere del testo (1973), egli sviluppò ulteriormente le sue idee sulle dimensioni personali in relazione al testo. Analizzò anche il suo desiderio di leggere secondo le sue preferenze, le sue avversioni e le sue motivazioni associate a tale attività. L’impero dei segni (1970) fu scritto dopo che egli visitò il Giappone e tratta dei miti di quel paese.
In Elementi di semiologia (1964), organizzò le sue opinioni a proposito della scienza dei segni, basandosi sul concetto di linguaggio e sull’analisi del mito e del rituale di Ferdinand de Saussure. Barthes fornì poi la sua applicazione più approfondita della linguistica strutturale in S/Z (1970). Analizzando punto per punto una novella di Balzac, Sarrasine, considerò l’esperienza della lettura e le relazioni del lettore in quanto soggetto nei confronti del movimento linguistico all’interno dei testi. Secondo lui, la critica classica non aveva mai considerato debitamente il lettore. Ma il lettore è lo spazio dove tutti i molteplici aspetti del testo si incontrano. Infatti, l’unità di un testo non risiede nella sua origine, ma nella sua destinazione. Lo studio diventa il punto focale e il modello per una critica letteraria a più livelli, grazie alla sua concentrazione analitica sugli elementi strutturali che costituiscono l’insieme letterario.
L’ultimo libro di Barthes fu La camera chiara (1980), in cui la fotografia viene considerata in quanto mezzo di comunicazione. Fu scritto nel corto lasso di tempo tra la morte della madre e la propria. La fotografia, e soprattutto i ritratti, erano per lui “una magia, non un’arte”. Durante la sua vita, egli visse sempre con o vicino a sua madre, la quale morì nel 1977, mentre Barthes morì più tardi a Parigi, in seguito a un incidente stradale avvenuto il 23 marzo del 1980. Pubblicato postumo, il libro Incidenti (1987) rivelò l’omosessualità dell’autore e le sue passioni segrete.
IL PENSIERO
Tra gli anni 40 e la fine degli anni 50, Barthes insegnò per brevi periodi a Bucarest, in Egitto e a Parigi. In quell’epoca, pubblicò importanti opere critiche, quali Il grado zero della scrittura, Michelet par lui-même, Mitologie e una moltitudine di saggi autorevoli sul teatro, il nouveau roman e altri temi. Nel 1960, ottenne un posto più stabile all’Ecole Pratique des Hautes Etudes (EPHE) a Parigi, dove, nel 1962, divenne Direttore degli Studi in “Sociologia dei segni, dei simboli e delle rappresentazioni”. Il suo incarico all’EPHE corrispose a una seconda fase nella sua carriera. Già critico e intellettuale insigne, incominciò da allora a pubblicare lavori di rilievo nell’ambito dello strutturalismo e della semiologia. Gli ultimi saggi nei suoi Essais critiques trattano soprattutto dei cambiamenti che questi movimenti stavano apportando alle nozioni accademiche e intellettuali della critica, della letteratura e dell’interpretazione. Durante gli anni 60, egli pubblicò anche importanti opere semiologiche che prendevano spunto dallo strutturalismo, come gli Elementi di semiologia, il suo rilevante saggio del 1966 sull’analisi strutturale delle narrative letterarie e infine Il sistema della moda. Gli anni successivi all’EPHE furono caratterizzati da una serie di brillanti articoli e libri che lo videro andare oltre un approccio strettamente semiologico e strutturalista, verso una posizione che divenne conosciuta come post-strutturalista. L’impero dei segni, S/Z, Sade, Fourier, Loyola, Il piacere del testo e Roland Barthes, assieme ad alcuni saggi che ancora oggi sono molto influenti, quali La morte dell’autore, pubblicato per la prima volta nel 1968, confermarono Barthes come forse lo scrittore più importante di un periodo che molti considererebbero il culmine della teoria e della critica letteraria, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. Negli ultimi lavori di questa insigne lista di libri, egli sviluppò una nuova teoria erotica e fortemente personale di lettura e di scrittura. L’ultima sua opera, infatti, è segnata dall’interesse per l’effetto fisico della letteratura e di altre forme d’arte, per i piaceri edonistici offerti al lettore dai testi letterari, dalla musica e dalla fotografia, e infine per la violenza (la repressione di tali piaceri e reazioni fisiche) insita nel linguaggio stesso. Gli fu assegnata una cattedra di semiologia letteraria al Collège de France nel 1976. Nel suo famoso discorso inaugurale dichiarò che “il linguaggio – la realizzazione concreta di un sistema linguistico – non è né reazionario né progressista; è piuttosto semplicemente fascista”. Le sue ultime opere, in modo particolare il suo libro sul discorso dell’innamorato, Frammenti di un discorso d’amore, e la sua analisi della fotografia nel contesto della morte di sua madre, La camera chiara: nota sulla fotografia, incominciarono a condurre tale visione del linguaggio, e quindi anche della scrittura, in un ambito in cui il lavoro teorico veniva sostituito da un genere di discorso che egli denominò “romanzesco”.
Se alla fine Barthes avrebbe tentato di scrivere un romanzo, o se i suoi ultimi lavori costituiscono già un tipo di scrittura romanzesca, è ancora un punto che viene discusso dagli studiosi, dai teorici e dai critici della sua opera. Forse la domanda resterà senza una risposta, siccome egli non visse tanto a lungo da terminare i progetti che aveva in animo alla fine degli anni 70. Dopo essere stato a pranzo dal futuro Presidente della Repubblica, François Mitterand, venne investito mentre stava attraversano la rue des Ecoles, il 25 febbraio 1980. Morì all’incirca un mese dopo. Varie sue opere sono state pubblicate postume, in particolare diversi brevi diari tenuti dal 1969 al 1979. La pubblicazione di questi testi è particolarmente notevole per la descrizione esplicita dell’omosessualità dell’autore. L’importanza di Barthes nell’ambito della storia culturale e intellettuale francese è stata anche onorata dalla pubblicazione di tutte le sue opere in Oeuvres complètes (3 voll. Ed. Eric Marty, Paris: Le Seuil, 1993-5). Barthes ha sempre avuto e continua ad avere un’immensa influenza su varie discipline all’interno delle istituzioni accademiche, come le discipline umanistiche. La sua opera sugli studi culturali, esemplificata da Mitologie e Il sistema della moda, ha contribuito a porre le basi per un modo particolare stimolante di studio e di analisi. Concetti quali la testualità e l’intertestualità, la morte dell’autore, il testo di scrittura e il testo di lettura e così via svolgono ancora un ruolo cruciale nella maniera in cui gli studenti e gli studiosi di oggi si accostano ai testi letterari. Le sue meditazioni provocative sulla musica, sul cinema e soprattutto sulla fotografia continano a fornire un fondamento per una grande quantità di opere teoriche contemporanee in queste aree. Recenti innovazioni nella teoria, in modo particolare quelle riguardanti le nuove tecnologie informatiche, continuano a trovare una molteplicità di domande, e a volte anche di risposte, nell’opera di Barthes. Tuttavia, bisogna ammettere che non c’è mai stata e probabilmente mai ci sarà una scuola di critica o di teoria barthiana; infatti, nessuno si fa chiamare critico o teorico barthiano. Come spiega Tzvetan Todorov, nel suo saggio critico sul pensatore francese, Barthes “ha creato un ruolo per se stesso che consisteva nel rovesciare la padronanza inerente al discorso e nell’assumere quel ruolo che […] egli stesso ha reso insostituibile”. Barthes era un teorico e uno scrittore allo stesso tempo insostituibile e irripetibile. Uno scrittore che non può essere considerato a parte, poiché adottò durante tutta la sua carriera innumerevoli stili e approcci teorici contrastanti e la sua scrittura, dall’inizio alla fine, si confronta con il problema di base dell’avanguardia moderna e del pensiero intellettuale: come produrre una forma di scrittura o di discorso che può resistere all’assorbimento attuato dalla cultura dominante e quindi da ciò che, nelle sue ultime opere, egli chiamò semplicemente “potere”. Di rado era ottimista riguardo le probabilità di creare un modo simile di scrittura e di discorso. In tutti i suoi lavori, dal primo libro all’ultimo, è testimone degli irresistibili poteri di assimilazione posseduti dalla cultura dominante e istituzionalizzata. Eppure l’intera sua opera oggi risalta di fronte ai nostri occhi quale testamento di una vita vissuta nella resistenza contro tali poteri. Non esiste una scuola di critica o di teoria barthiana, eppure Roland Barthes resta un modello fondamentale per tutti coloro che oggi vorrebbero impegnarsi nel campo teorico e intellettuale.
FELIX GUATTARI
A cura di Mai Saroh Tassinari
“Abbiamo scritto L’Antiedipo in due. Siccome ognuno di noi era parecchi, faceva già molta gente“.
Nato a Villeneuve-les-Sablons a pochi chilometri da Parigi e formatosi nella capitale, Félix Guattari lavorò per circa quaran-tanni nella clinica psichiatrica d’avanguardia di La Borde da lui stesso fondata. La sua opera più esplosiva e significativa è sicuramente L’antiedipo, scritta a quattro mani con Gilles Deleuze. “Gauchiste” dell’estrema sinistra, sposò nel suo pensiero critico psicoanalisi e marxismo. Guattari, eterno ribelle, rimase imbrigliato anche in vicende politiche italiane riguardanti l’ Autonomia degli anni ’80 a causa della sua amicizia con Toni Negri, spesso era ospitato nelle assemblee del movimento italiano e fu molto attivo nel denunciare l’avanzata della “restaurazione” in Italia. Nel nome di Félix Guattari (1930-1992) si coniugano il militante politico, lo scrittore e lo psicanalista. Muore in Francia, a 62 anni, la notte del 29 agosto 1992. La sua formazione è inclassificabile: dopo tre anni interrompe gli studi di farmacia e si iscrive alla facoltà di filosofia della Sorbona, che abbandona poco tempo dopo. Frequenta i corsi di Merleau-Ponty e di Bachelard. Come molti giovani del suo tempo, ammira profondamente Sartre. Si avvicina all’opera freudiana tramite il pensiero di Jacques Lacan. Incomincia la sua psicanalisi proprio con Lacan ed è uno dei primi a non essere un medico che partecipa al suo Seminario. Tra le altre cose, questa esperienza si rivela decisiva per la sua formazione come psicanalista. Anni dopo si unisce alla Scuola Freudiana di Parigi fondata da Lacan, presso la quale ottiene il titolo di Analista Membro della Scuola. Partecipa al gruppo fino al suo scioglimento, dichiarato dal suo fondatore il 5 gennaio 1980. La produzione intellettuale di Félix Guattari è strettamente collegata alla sua militanza politica: marxista dissidente, concepisce il pensiero come un mezzo di lotta sociale. Milita nella Voie Communiste e in diversi gruppi di sinistra. In tutta la sua produzione si respira l’atmosfera del maggio del ‘68; per Guattari, questo movimento (che definisce per primo come una “rivoluzione molecolare”) annuncia la possibilità di altri modi di soggettivazione politica e di lotta microsociale. In questo contesto, trattare la psicosi è una delle caratteristiche fondamentali del suo pensiero. Egli lavora per uarqant’anni, dalla sua fondazione nel 1953, alla Clinica La Borde con Jean Oury. A partire dalla sua ammissione come membro della squadra animatrice, svolge una serie di pratiche e di teorizzazioni che costituiscono l’inizio di quella che è correntemente chiamata analisi istituzionale. Appartengono a Guattari le nozioni di trasversalità, analizzatore, transfert istituzionale; idee adottate in seguito da istituzionalisti come Lapassade, Lourau, Lobrot, anche se Guattari rimprovera loro di averle distorte nell’introdurle nell’ambito universitario o nel classificarle nel campo della psico-sociologia. Nella prospettiva di Guattari, l’analisi istituzionale non è relazionata né alla dinamica di gruppo (Lewin), né allo psicodramma (Moreno); non è un annesso marxista alla psicanalisi, né si tratta della terapia di un gruppo di individui, o dell’analisi di una istituzione; non si riduce neppure agli impulsi trasformatori di François Toquelles (uno psichiatra catalano rifugiato in Francia in seguito alla guerra civile spagnola) e non bisogna confonderla nemmeno con le correnti progressiste francesi che enfatizzano il ruolo politico del settore. L’analisi istituzionale è per Guattari una implicazione in un processo molecolare, un intervento politico che, attraverso un dispositivo analitico di enunciazione, rivela le punte di una costellazione sociale. Nel 1964, alcuni anni prima di incominciare il suo lavoro con Gilles Deleuze, Guattari presenta una relazione che intitola La trasversalità. In essa afferma che in ogni esistenza si coniugano dimensioni di desiderio, politiche, economiche, sociali e storiche, critica la riduzione di questa molteplicità e mette in guardia contro la psicologizzazione dei problemi sociali. È consapevole del fatto che le sofferenze psicopatologiche (o i malesseri individuali, o le fratture familiari) non si possono considerare al di fuori dell’universo sociale. Suggerisce, ad esempio, che il fantasma della castrazione è un modo di regolarizzazione capitalista, un desiderio di addentare il frutto proibito e un’interiorizzazione della repressione borghese. Propone l’idea del coefficiente di trasversalità per illustrare la situazione di cecità istituzionale e descrive come le condizioni sociali intervengano nella produzione del malessere. Ad ogni modo, il pensiero di Guattari non si propone (come è stato detto) di introdurre la politica nella psicanalisi, ma di rivelare che la politica è una condizione di produzione dell’inconscio stesso. Egli ritiene che l’inconscio non sia soltanto collegato alle coordinate mitiche e familiari invocate tradizionalmente da certi psicanalisti, ma anche che si formi tra gli strati sociali, economici e politici ed è convinto che i contenuti sociopolitici dell’inconscio intervengano nella determinazione degli oggetti del desiderio. O, in altre parole, non concepisce le relazioni sociali come un di più, o un di meno, o un dopo le questioni sociali, familiari o istituzionali, ma come dei flussi meccanici con i quali l’inconscio svolge la sua funzione. In Guattari la questione della psicosi conduce al problema dell’inconscio, che a sua volta porta al problema politico. Nella serie psicosi-inconscio-politica si delineano le problematiche che creano la condizione di desiderio della soggettività; è questo (più delle volontà e dei consensi) ciò che trova un appiglio in ognuno di noi e al quale abbocchiamo come pesci all’amo. Esso è il desiderio, fame di soggettività, sete di una esistenza che non viene soddisfatta, potenza che assapora gli strani oggetti che vengono offerti nel mercato capitalista. A questo proposito, scrive (con Gilles Deleuze, nel 1972) che il problema fondamentale della filosofia politica continua a essere quello che Spinoza seppe esporre (e che Wilhelm Reich riscopre):
“Perché uomini e donne combattono per la loro schiavitù come se lottassero per la loro salvezza? Com’è possibile che si arrivi a gridare: vogliamo più tasse! Meno pane!? Ciò che sorprende non è che la gente rubi, o che faccia scioperi; ciò che sorprende è che coloro che soffrono la fame non rubino sempre e che coloro che vengono sfruttati non siano sempre in sciopero. Perché sopportiamo da secoli lo sfruttamento, l’umiliazione, la schiavitù, fino al punto di volerli non solo per gli altri, ma anche per noi stessi?”.
Guattari si rifiuta di supporre una ignoranza o una illusione delle masse per spiegare questo mistero e ricerca una spiegazione a partire dal desiderio:
“No, le masse non sono state ingannate, esse hanno desiderato il fascismo in un determinato momento, in determinate circostanze, e questo è ciò che precisa la spiegazione, questa perversione del desiderio collettivo.”
La militanza politica e il contatto quotidiano con la psicosi modellano queste teorizzazioni. Così come ausculta il polso politico negli stati psicotici, egli avverte anche i limiti esplicativi della psicanalisi di fronte a queste costellazioni esistenziali, prive di strutture nevrotiche:
“Oltre l’io, il soggetto esplode in tutto l’universo storico, il delirante incomincia a parlare lingue straniere, soffre di allucinazioni che modificano la storia; i conflitti di classe o le guerre diventano gli strumenti dell’espressione di sé”.
La parola sgangherata dei pazzi non esprime solo la sofferenza per un disordine psichico individuale, in ognuna di queste voci solitarie geme anche il mondo sociale. Senza dubbio, questa presa di posizione nei confronti delle psicosi non deve essere confusa con i postulati dell’antipsichiatria inglese (Cooper e Laing). In Guattari riaffiora sempre la distinzione tra alienazione mentale e alienazione sociale. Il suo interesse per la pazzia non è un elogio dell’infermità mentale; al contrario, il suo pensiero si basa sulla domanda: “come liberare la pazzia dall’infermità mentale?” O, detto con parole sue, “come restituire la potenza del senza-senso in difesa del dolore?”. Egli si rende conto che gli stati psicotici sono rivelatori del fatto che nella soggettività echeggia un mormorio di molteplicità storiche, un mormorio che a volte viene fatto tacere dai legami nevrotici e dalle convenzioni sociali. Le psicosi ci mostrano questa pazzia di flussi e di simultaneità, certo, ma il paradosso è che gli psicotici vivono in uno stato di alienazione all’interno di questo messaggio del quale sono portatori; per questa capacità di pazzia pagano il prezzo atroce dell’infermità mentale. Per Guattari scrivere è lottare, resistire, tracciare delle mappe. Ma come si possono tracciare delle mappe della soggettività? Come si possono definire delle forze che non persistono? Dei territori che mutano? Dei segni irrepetibili? Egli si chiede se le migliori mappe della soggettività o, se si preferisce, le migliori psicanalisi, non siano state fatte da Goethe, Kafka, Proust, Joyce, Artaud e Beckett, piuttosto che da Freud, Jung e Lacan. Scrive a tal proposito:
“Dopo tutto, la parte letteraria nell’opera di questi ultimi costituisce ciò che di migliore rimane di essi (ad esempio, L’interpretazione dei sogni di Freud può essere considerata come uno straordinario romanzo moderno)”.
Guattari non si interessa all’analisi in quanto materia trattata da degli specialisti, una professione che viene esercitata da uno psicanalista e che controlla un gruppo o una scuola analitica. Si interessa a un’altra cosa: la produzione di quelli che chiama “dispositivi di enunciazione analitici”. In questo senso considera, ad esempio, Samuel Beckett uno dei più grandi analisti di tutti i tempi e spiega che, anche se a prima vista non sembra coinvolto nelle lotte sociali e politiche o preoccupato per i problemi dell’inconscio, le sue esplorazioni hanno l’effetto di un intervento analitico, perché rivelano le mutazioni micropolitiche dei nostri stati di soggettività e, nello stesso tempo, mettono in crisi i modi collettivi di semiotizzazione. Forse la schizoanalisi (altre volte denominata analisi molecolare, o approccio ecosofico) è uno dei nomi del progetto guattariano di porre la pratica psicanalitica accanto ai problemi sollevati dalle psicosi, una conseguenza tanto della perseveranza di Guattari in quanto psicanalista dissidente critico della teoria freudiana, quanto della sua posizione eterodossa riguardo il discorso lacaniano. Scrive Guattari:
“Con l’invenzione del dispositivo analitico, la modellatura freudiana apportò un arricchimento indubbio nella produzione della soggettività, un ampliamento delle sue costellazioni referenziali, una nuova apertura pragmatica. Ma si scontrò subito con suoi limiti nelle sue concezioni familiariste e universalizzanti, nella sua pratica stereotipata dell’interpretazione, ma soprattutto nella sua difficoltà a prendere una posizione che andasse oltre la semiologia linguistica. Mentre la psicanalisi concettualizza la psicosi attraverso la sua visione della nevrosi, la schizoanalisi approccia tutte le modalità di soggettivizzazione illuminate dall’espressione dell’essere nel mondo della psicosi”.
Tuttavia, la schizoanalisi non è una psicanalisi psicotica. Per Guattari la frattura è la via principale per intravedere l’emergere della fratturazione dell’inconscio. Nella sua prospettiva, il lapsus, ad esempio, non è solo l’espressione conflittuale di un contenuto represso, ma anche una manifestazione positiva di un universo che bussa alla nostra finestra “come un uccello magico”. Guattari non concepisce l’inconscio come una struttura, né come un’essenza fissa, né come un’entità chiusa in se stessa, né tanto meno come un cimitero vivente di ciò che è stato espulso dalla coscienza. Lo intende come una macchinazione che incomincia di nuovo ogni volta che si produce un nuovo incontro, un’incarnazione di entità distinte che si fondono le une nelle altre. Macchina di molteplicità, polifonia e eterogeneità che non si possono ridurre solamente a un fatto abituale o sporadico familiare, né a delle catene significanti o ontologie topologiche; anche se si può essere liberi di pensare (in parte) sotto l’influenza di questi schemi. Secondo l’opinione di Guattari, si tratta di scegliere tra “concezioni meccaniche” e “concezioni macchinali” di apertura processuale. Secondo lui, il problema centrale della schizoanalisi non è l’interpretazione, ma l’intervento. Dichiara che, nei limiti, ogni interpretazione “è tutto ciò che esprime e, nello stesso tempo, molto di più”. Forse si può intravedere nei suoi testi (Le tre ecologie, 1989 e Caosmosi, 1992) la postulazione di un programma totalizzante. Da un lato, nel riferimento a un pensiero che consideri allo stesso tempo (in un blocco inseparabile) l’ecologia medioambientale, l’ecologia sociale e l’ecologia mentale; e, dall’altro, rispetto alla proposta di un nuovo paradigma etico-estetico che favorisca nuovi modi di semiotizzazione. È certo che se Guattari afferma (su un fondo di incertezza) che non gli piace che le cose siano come sono, sarebbe un errore nascondere questa ignoranza radicale con la formula (o la soluzione) di uno schema super-ecologico o extra-paradigmatico. Egli offre una testimonianza straziante: reti di parentela alle quali si sciolgono i fili, consumi mass-mediatici che infettano la nostra quotidianità, comportamenti standardizzati nella vita amorosa e familiare, relazioni di vicinanza soggette alla paura e al rifiuto dell’altro, la desertificazione sociale che avanza ogni giorno un po’ di più. Riprende, ad ogni modo, le idee di serialità (Sartre) o di unidimensionalità (Herbert Marcuse), propone forme alternative alla produzione di soggettività uniformizzante ed esorta a immaginare e a inventare spazi di comunicazione collettiva di processi di singolarizzazione. Riferendosi a questo programma esistenziale, Guattari intende l’esperienza della soggettività come l’esitenza di un “estraneo in noi” che, senza dubbio, si materializza come pericolo di disintegrazione, o come terrore dell’altro, o minaccia di ciò che ci è alieno, un dolore per ciò che è estraneo in noi stessi. Per questo, Guattari si chiede in che modo un dispositivo analitico può essere “creazione, supporto e riparo dell’estraneo in noi”, ricezione ospitale dell’altro, rifugio di potenze che vibrano nell’alienazione. O, in altre parole, in che modo un dispositivo di enunciazione analitico può far spazio a vagabondaggi esistenziali espulsi dai territori restrittivi dell’io, o dalle culture di gruppo, o dal deserto mass-mediatico. Se nell’illusione di completezza si rappresenta l’essere altro come carenza, Guattari propone, in cambio, di pensarlo come progetto, come possibilità di un processo di eterogenesi nella soggettività. Una volta egli ha dichiarato:
“Sono uno di coloro che hanno vissuto gli anni Sessanta come una primavera che prometteva di essere interminabile. Per questo, mi risulta difficile dovermi abituare a questo lungo inverno”.
RICHARD MONTAGUE
A cura di Matteo Casu
Il filosofo e logico americano Richard Montague (1930 – 1971), anche se non un linguista di professione, esercitò una grande influenza in semantica negli anni 70 e 80, soprattutto grazie ai suoi contributi allo sviluppo della semantica delle lingue naturali. Parlare una lingua, secondo Montagne, vuol dire esercitare una competenza che si estrinseca non soltanto nel riconoscere o nel produrre espressioni grammaticalmente corrette, ma anche nel valutare se tra due espressioni sussista una relazione di implicazione e quale sia la relazione tra le espressioni linguistiche e gli stati di cose. È esattamente in questo che consiste la “competenza semantica”: alla luce del fatto che spetta alla logica (che è una branca della matematica) studiare le relazioni di implicazione tra le proposizioni, ad essa spetterà anche studiare in termini meramente formali (sulle orme di Carnap) la competenza semantica, proprio come la sintassi generativa di Chomski studia la competenza sintattica. Montague fu uno dei primi a esplorare sistematicamente le possibilità di un’analisi formale completamente rigorosa sia della sintassi che della semantica dei linguaggi naturali sulla linea della logica. Il modello da lui creato, a cui ci si riferisce comunemente come grammatica di Montague, ha stabilito uno standard sia per copertura empirica sia per livello di formalizzazione, rispetto al quale analisi e strutture alternative si giudicano. Il termine grammatica di Montague è usato comunemente per riferirsi specificamente alla proposta che Montague diede nel suo articolo seminariale The Proper Treatment of Quantification in Ordinary English (1970, pubblicato nel 1973). Stricto sensu, questo è fuorviante, dato che Montague scrisse un’intera serie di articoli sull’applicazione della logica nell’analisi dei linguaggi naturali, che si differenziano per impostazione e per dettagli. Comunque, il nocciolo comune delle analisi proposte nei vari articoli è sufficiente a giustificare il termine Grammatica di Montague tout-court.
Il lavoro di Montague costituisce una rottura decisiva dalla visione tradizionale secondo cui i linguaggi naturali sono troppo vaghi e asistematici per essere trattati formalmente, nello stesso modo in cui sono trattati i linguaggi formali della logica e della matematica. Questa posizione, che nella storia della filosofia contemporanea risale almeno a Russell, Frege e Tarski, fu predominante nella filosofia della logica fino agli anni 70, anche se ci furono notabili eccezioni. Una di queste fu Hans Reichenbach che nel 1947 aveva già dedicato una buona parte del suo Elementi di logica simbolica all’analisi logica delle costruzioni del linguaggio naturale. Una teoria rigorosamente formale della sintassi di un linguaggio è un prerequisito per una qualunque sua semantica formale, e l’apparente impossibilità di una teoria della sintassi del genere per i linguaggi naturali fu una delle ragioni per cui Tarski, padre fondatore della semantica modellistica in logica, pensava che i suoi metodi semantici non potessero mai applicarsi a tali linguaggi. Dal rapido svilupparsi della linguistica generativa negli anni 60 e nei primi 70, uomini come Montague, Donald Davidson, David Lewis e altri acquisirono fiducia nel fatto che una teoria formale della sintassi del linguaggio naturale non era solo un’utopia, e che, pertanto, una semantica formale poteva essere possibile. Sebbene il lavoro nella linguistica generativa costituisse un importante input per lo sviluppo di una semantica modellistica per i linguaggi naturali, questo non significa che questa impresa fosse accolta con entusiasmo nei circoli della linguistica generativa. Al contrario, mentre persone come Montague e Davidson erano dell’opinione che non solo la sintassi, ma anche la semantica dei linguaggi naturali potesse essere studiata in modo preciso e formale, quest’idea rimase lontana dal comune tra i linguisti generativi. Lo stesso lavoro di Montague fa parte dello sviluppo che include il lavoro di Davidson, Lewis, Cresswell e molti altri. Le sue caratteristiche, che lo distinguono dai lavori di altri, sono, prima di tutto, la generalità e il rigore con i quali Montague conduce le sue analisi; secondo, l’ampio uso di qualunque artificio logico ritenga necessario; e terzo, il modo in cui ha combinato sintassi e semantica.
Partendo dalla prima caratteristica, nel suo articolo Universal Grammar (1969, pubblicato nel 1970), Montague sviluppa una teoria generale di sintassi, semantica e pragmatica sia per i linguaggi formali che per i linguaggi naturali, nella quale la grande generalità è complementare all’apparato formale usato per le specifiche analisi. Sebbene la pragmatica nel senso di Montague sia un’area ristretta, che coincide grosso modo con la semantica degli indessicali e delle espressioni dipendenti dal contesto, come i pronomi, questa teoria generale potrebbe essere chiamata a ragione una semiotica logica. Tra i suoi esempi, vi sono vari modelli concreti che Montague trasse in articoli diversi. La generalità e il rigore del modello della Grammatica Universale rendono la visione di Montague su sintassi, semantica, pragmatica e loro relazioni, esplicita e perspicua, ancora difficile da superare.
La seconda caratteristica del lavoro di Montague è che nel descrivere il comportamento semantico delle espressioni e delle costruzioni dei linguaggi naturali, Montague non è preoccupato da nessuna restrizione a priori sul tipo di attrezzo logico da usare. Così fa ampio uso della logica intensionale e della Teoria dei Tipi senza essere preoccupato dai problemi filosofici e metodologici che secondo alcuni circondano l’uso di questi attrezzi. Questo aspetto distingue Montague per esempio dal suo contemporaneo Davidson, per il quale l’uso della logica intensionale costituisce una stravaganza che deve essere rifiutata sul piano filosofico. Sottoscrivendo gli scrupoli di Quine sulle entità intensionali, Davidson pensa che le semantiche del linguaggio naturale dovrebbero essere descritte in termini di logica estensionale del primo ordine, ed egli scarta così gli altri tentativi: “C’è perfino pericolo che gli ignoranti e gli esperti uniscano le forze; i primi, sentendo farfugliamenti di parole possibili, mondi possibili, ecc.,”. Nonostante molti semanticisti abbiano seguito Montague nell’avvalersi di qualunque strumento abbiano bisogno, questo uso libero di strumenti potenti divenne equilibrato durante gli anni 80 grazie all’interesse nel potere espressivo semantico del linguaggio naturale, per esempio, nella ricerca sulla questione di quale parte dell’apparato logico che le persone usano sia in realtà necessario nella descrizione del linguaggio naturale. In particolare, nel contesto di una teoria generale dei quantificatori, della quale l’analisi di Montague delle espressioni quantificate The Proper Treatment of Quantification in Ordinary English forma uno dei punti di partenza, ha portato a interessanti intuizioni sulle differenze tra linguaggi naturali e formali.
La terza caratteristica del lavoro di Montague, e della tradizione che l’ha seguito, è il modo in cui sintassi e semantica sono combinate insieme. Il nocciolo della visione di Montague su questa questione sta nel principio di composizionalità del significato. Questo principio può essere parafrasato più o meno così: il significato di un enunciato dipende dai significati delle sue parti. È chiamato anche principio di Frege, in virtù della sua somiglianza con il principio di composizionalità delle estensioni che sta alla base della soluzione di Frege al problema dei giudizi multi-quantificati, ma se questa attribuzione sia storicamente corretta è materia di dibattito. L’interpretazione corrente dello status del principio di composizionalità è quella di un principio metodologico, più che di un’ipotesi empirica. Un resoconto composizionale di un certo tipo di espressione riguarda un’analisi sintattica e semantica: egli prima determina cosa conta, come parti dell’espressione, poi stabilisce quali sono i significati corrispondenti.
Il linguaggio naturale è solo uno degli argomenti a cui Montague ha lavorato. La parte principale del suo lavoro è in teoria dei modelli e logica. Ha scritto anche articoli sull’analisi filosofica, che assieme ai suoi articoli sul linguaggio naturale e sulla logica modale costituiscono la sua opera.
FERNANDO SAVATER
A cura di Marco Minniti
Fernando Savater è nato in Spagna, a San Sebastiàn, nel 1947; è professore di Etica all’Università dei Paesi Baschi. Oltre a Etica per un figlio, forse la sua opera maggiore che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo, è autore de Il giardino dei dubbi (1994), Cattivi e maledetti (1996), Etica come amor proprio (1998), Brevissime teorie (2000), Dizionario filosofico (2000), L’infanzia recuperata (2000), Le domande della vita (2001), Politica per un figlio (2001), A mia madre, mia prima maestra (2001), A cavallo tra due millenni (2001).
Carlo Sini, teoretico presso l’Università degli studi di Milano dice: “il lavoro del filosofo è quello di citare le citazioni”; questa è la maniera migliore per parlare di uno come Savater, il quale, sui testi di filosofia, non sta accanto ai massimi autori, ma certamente dovrebbe essere letto per capire, come dice in Le domande della vita, che “la filosofia non è sapere come se la cavava Socrate, nell’Atene di venticinque secoli fa, per vivere meglio, ma di come noi, possiamo comprendere e utilizzare meglio la nostra esistenza”.
Il meglio di Savater sta nella sua semplicità; la semplicità di raccontare le emozioni, le sensazioni, di raccontare la morte, per quel che si può, la vita e l’attualità di un mondo che perde sempre più la sua identità. Si tenga ben presente che egli è un “etico”, non un metafisico, non un empirista, non un razionalista, né un criticista, né un idealista; le sue opere però trattano svariati argomenti, i quali racchiudono una brillante “filosofia della vita” che va dai semplici ma fondamentali dialoghi con un figlio, a un’infanzia recuperata, a una serie di domande cosiddètte della vita e anche a una politica per un figlio. Tutto ciò, fa di Savater un grande filosofo, un contemporaneo di cui sicuramente si può apprezzare l’onestà intellettuale.
In Etica per un figlio, un grande filosofo parla, a suo figlio, del bene e del male, con passione e insieme humor. Ecco un commento di Gianni Vattimo in merito:
“non è vero che un’etica laica, senza assoluti e senza miti, non può fornire modelli educativi efficaci. Savater lo dimostra persuasivamente: la moralità risulta soprattutto caratterizzata come autonomia, capacità di non sottomettersi, amor di sé nel senso migliore del termine. Un libro intenso ma anche amichevole, che genitori e maestri dovrebbero leggere e commentare insieme ai loro figli, discepoli, amici adolescenti”.
Ma vediamo di capire cosa dice Savater relativamente ad alcune tematiche che vengono definite, per la maggior parte delle volte, filosofiche; per esempio, che la riflessione morale non può ridursi a un argomento specialistico per chi intende iscriversi all’università: l’etica è parte essenziale di ogni educazione veramente degna di questo nome. L’obiettivo di uno come Savater non è dunque, fabbricare cittadini benpensanti (e tantomeno malpensanti), ma quello di stimolare la formazione di “liberi pensatori”. Tra tutte le scienze ne esiste almeno una di cui non si può fare a meno: sapere che certe cose ci convengono e altre no. Certi alimenti non fanno bene, certi comportamenti o atteggiamenti non sono convenienti. Certe cose ci risultano utili e le chiamiamo “buone” perché ci fanno bene; altre invece ci fanno molto male e queste le chiamiamo “cattive”. Sapere che cosa ci è utile, ossia distinguere tra il bene e il male, è una conoscenza che tutti cerchiamo di acquisire – tutti nessuno escluso – perché è vantaggiosa. Per esempio, è indispensabile sapere quali cibi mangiare; che il fuoco a volte riscalda, altre volte ustiona; e che l’acqua può dissetare ma anche affogare. Eppure le cose non sono così semplici: certe droghe, ad esempio, aumentano il nostro coraggio e danno sensazioni piacevoli, ma il loro abuso continuato nel tempo può essere dannoso. Per certi versi fanno bene, per altri fanno male: sono utili e dannose nello stesso tempo.
Nel campo delle relazioni umane queste ambiguità sono anche più frequenti. In generale, la bugia è una cosa negativa, perché distrugge la fiducia nella parola data – e tutti abbiamo bisogno di comunicare per vivere in una società – e rende le persone nemiche; a volte però sembra che sia utile o produttivo mentire per ottenere qualche piccolo vantaggio, e Platone stesso aveva parlato nella Repubblica di “nobili menzogne”. Per esempio: a chi è affetto da un cancro incurabile è meglio dire la verità sul suo stato o è preferibile ingannarlo per lasciargli vivere serenamente le sue ultime ore? La bugia non è utile, è una brutta cosa, ma a volte sembra dare risultati positivi. Si è detto che non conviene cercare la rissa, ma allora dobbiamo permettere che una ragazza sia violentata davanti a noi senza intervenire per evitare problemi? D’altra parte quelli che dicono sempre la verità sono antipatici a tutti – ma proprio a tutti – e chi interviene come Indiana Jones per salvare la ragazza aggredita è più probabile che si trovi con la testa rotta di chi se ne torna a casa fischiettando. Le cosa sbagliate a volte risultano più o meno positive e le cose giuste a volte sono all’apparenza del tutto negative.
Che confusione! Saper vivere non è così facile perché esistono criteri diametralmente opposti riguardo a quello che bisogna fare. In matematica o in geografia ci sono gli esperti e gli ignoranti, e in genere gli esperti si trovano quasi sempre d’accordo sui princìpi fondamentali. Quanto al saper vivere, invece, non c’è affatto unanimità. Se uno vuole una vita emozionante può dedicarsi alla Formula Uno o all’alpinismo; se preferisce una vita tranquilla e senza rischi farà meglio a cercarsi le avventure nel videoclub all’angolo. Alcuni giurano che la cosa più nobile è vivere per gli altri, altri dicono che conviene convincere gli altri a vivere per noi. Secondo certa gente, la cosa più importante è guadagnare; altri sostengono che i soldi senza salute, tempo libero, affetti sinceri serenità d’animo non valgono nulla. A prima vista, l’unica cosa sulla quale siamo tutti d’accordo è che non siamo tutti d’accordo; però queste opinioni diverse coincidono anche in un altro punto: quello che sarà la nostra vita, almeno in parte, è il risultato di ciò che ognuno di noi vuole. Se la vita fosse qualcosa di completamente determinato, un destino immodificabile, tutte queste discussioni non avrebbero alcun senso. Nessuno sta a discutere se le pietre debbano cadere verso il basso o verso l’alto: si sa che cadono dall’alto in basso, e basta. Certamente Savater non parla di etica in senso aristotelico, né in senso abelardiano, decisamente poco metafisico, semplice e alla portata di tutti… di coloro che vogliono naturalmente. Vediamo cosa dice relativamente al concetto di “libertà”, che in Savater fa tutt’uno con l’etica, temi connessi tra loro e strettamente riflessi gli uni negli altri.
Libertà: è quello che ci distingue dalle termiti e dalle maree, da tutto ciò che si muove in modo necessario e immodificabile. Egli non dice che possiamo fare tutto quello che vogliamo, ma neppure siamo obbligati a fare una cosa sola; non siamo liberi di decidere quello che ci succede, ma siamo liberi di rispondere a quello che ci succede in un modo o nell’altro. Essere liberi di tentare di fare qualcosa, non ha niente a che vedere col riuscirci necessariamente; la Libertà non s’identifica con l’onnipotenza; quanto più abbiamo capacità di agire, migliori saranno i risultati che potremo ottenere dalla nostra libertà.. Sono libero di voler salire sull’Everest, ma con la mia salute precaria e la mia totale impreparazione è praticamente impossibile che possa raggiungere l’obiettivo; invece sono libero di leggere o non leggere perché l’ho imparato da bambino e la cosa non mi risulta troppo difficile. Ci sono cose che dipendono dalla mia volontà, ma non tutto (altrimenti sarei onnipotente), perché nel mondo ci sono molte altre volontà e molte altre necessità che non controllo a mio piacere. Se non conosco né me stesso né il mondo in cui vivo, la mia libertà si scontrerà prima o poi contro la necessità; ma – cosa importante – “non per questo smetterò di essere libero… anche se mi scoccia”. In realtà, ci sono molte cose che limitano la nostra libertà: terremoti, malattie, tiranni; ma anche la nostra libertà è una forza nel mondo, la nostra forza. Se parli con la gente, ti renderai conto che la maggior parte ha più coscienza di quello che ne limita la libertà che della libertà stessa. Diranno: “libertà? Ma di che libertà parli? Come si fa ad essere libere se ti mangiano il cervello con la tv, se i politici ci ingannano e ci manipolano, se i terroristi ci minacciano, se le droghe ci rendono schiavi, e se non ho neanche i soldi per comprare la moto che vorrei?”. Se si riflette un momento, ci si rende conto che quelli che parlano così sembra che si lamentino, ma in realtà sono ben contenti di sapere che non sono liberi. In fondo pensano: “Uh! Bel peso che cui siamo tolti di dosso! Dato che non siamo liberi non abbiamo colpa di quello che ci succede…”.
Ma si è sicuri che nessuno crede davvero di non essere libero, nessuno accetta di funzionare come il cieco meccanismo di un orologio o come una termite. Siccome optare liberamente per certe cose in certe circostanze è molto difficile, allora è meglio dire che non c’è libertà per non dover riconoscere che si preferisce fare quello che è più facile: aspettare i pompieri o leccare le scarpe a chi ci schiavizza . Però nel fondo di noi qualcosa non smette di dirci: “se tu avessi voluto…”.
Dunque, noi uomini possiamo trovare soluzioni nuove e scegliere almeno parzialmente la nostra forma di vita. Possiamo optare per quello che ci sembra essere giusto, e cioè conveniente per noi, ed evitare quello che sembra farci del male o non convincerci. Ma siccome possiamo scegliere, possiamo sbagliarci, cosa che non succede ai castori, alle api e alla termiti. Perciò sembra meglio riflettere bene su quello che facciamo e cercare di acquisire un certo saper vivere che ci permetta di scegliere bene. Questo saper vivere, o arte di vivere se preferiamo, è ciò che chiamiamo etica.
Ne L’infanzia recuperata, per esempio, la maggior parte dei capitoli sono consacrati alla nostalgia verso autori amati allora e forse un po’ meno oggi, benché la vitalità di molti di loro – Stevenson, Verne, Conan Doyle, ecc – sembri essere ancora intatta. In un paio di occasioni Savater è stato, casualmente, profetico; la prima quando ha parlato di Tolkien, che poco dopo divenne una passione incontenibile in Spagna e nel resto d’Europa; egli dice: “mi emozionò vedere mio figlio, a cui dedicai questo libro quando era quasi un neonato, leggere, quindici anni dopo e con raro entusiasmo, Il signore degli anelli”. La seconda, quando in un capitolo, La terra dei draghi, lamenta quanto poco sia stato scritto sull’immensa importanza dei dinosauri. Non si dimentichi che Savater non è solo un filosofo o un poeta, ma è anche uno scrittore; infatti, egli ha sempre in mente un piano per almeno due libri che gli piacerebbe scrivere su temi diversi e per i quali accumula interiormente del materiale, poi, quando ritiene che siano maturi e passa alla loro stesura, scrive in modo continuato e veloce. La sua scrittura è intensa, ma meno noiosa di quella di altri, e deve scrivere di getto o rinunciare; ma nei testi è tutto fuorché un improvvisatore, mentre a voce lo è quasi sempre. Un libro come appunto L’infanzia recuperata fu oggetto di malintesi, ai quali forse deve parte del suo successo se è vero, come dice Cioran, che il successo non è altro che un malinteso. In primo luogo, forse a causa del titolo, si credette che fosse un libro di racconti per bambini: recuperare l’infanzia consisterebbe nella rilettura dei testi che da bambini ci fecero luccicare gli occhi. Ma non si tratta affatto di questo o, almeno, non è questo il tratto fondamentale del libro. Racconti propriamente infantili non ce ne sono nel libro, e non ovviamente, perché non siano degni di essere menzionati. Savter racconta, in profondità, quello che tutti dovrebbero leggere, a qualsiasi età; rammentiamo un verso di Nietzsche: “laggiù voglio andare/ e confido per l’avvenire in me e nella mia mano serrata. / aperto è il mare, verso l’azzurro/ si muove la mia nave genovese”. Quando Bataille parlò di letteratura come dell’infanzia infine recuperata, certamente non si riferiva a storielle dolcemente infantili, ma all’opera di fiction come esperimento nel quale corriamo un rischio strutturale.
Un altro malinteso di cui fu oggetto il libro fu causato dal fatto che venne scambiato per un manifesto contro il romanzo psicologico e sperimentale e per una sorta di rivendicazione esclusiva della letteratura “in cui accadono le cose”. Il libro dunque, si può dire, mira proprio a sottolineare che la fiction narrativa ha funzioni diverse dall’instancabile approfondimento dell’introspezione o dell’elaborazione di forme espressive, ma in nessun modo ha la ridicola pretesa di proscrivere i legittimi piaceri che derivano dalla medesima ricerca. “È delizioso spiegare i propri gusti, ma è odioso trasformarli in dogmi arroganti”.
Savater dice che L’infanzia recuperata è un libro che parla di libri: un libro sull’amore per i libri e sulla forza concentrata della lettura; e ancora Savater affronta il tema della felicità, sulla quale si fonda, a suo avviso, “l’autentico desiderio dell’uomo”, e sa che la sua felicità è nell’infanzia recuperata.
In Politica per un figlio, Savater offre forse il meglio di sé, e dice, tanto per rammentare:
“Caro figlio, […] anche in questo libro prenderò posizione con franchezza per le cose in cui credo ma eviterò di farti un sermoncino sui “buoni” e sui “cattivi”, e tantomeno ti suggerirò per chi votare. Parleremo delle questioni di fondo che sono in gioco nella politica (e non delle questioni con cui giocano oggi i politici…). Dopo di che, sarai tu ad avere l’ultima parola, e vedi bene che nessuno te la tolga o dica al posto tuo”.
Decisamente, la politica, qui, è tema principale e Savater, ne parla citando Aristotele e altri grandi pensatori; gli antichi greci definivano chi non si occupava di politica con il nome di idiòtes, “cittadino privato”; questa parola significava persona isolata, che non ha nulla da offrire agli altri, ossessionata dai piccoli problemi di casa sua e in fin dei conti alla mercé di tutta la comunità.
Ecco le più significative citazioni di cui Savater si serve per chiarire la complessità del concetto di “politica”: venire al mondo significa venire al nostro mondo, al mondo degli umani. Stare al mondo significa stare fra gli umani, vivere, nel bene e nel male, in società; la società è una rete di legami più sottili, più spirituali: è composta dal linguaggio, l’elemento umanizzante per eccellenza, da una memoria collettiva, dalle tradizioni, dalle leggi; non si discute sul fatto che l’ambiente più naturale per vivere da uomini sia la società umana. Non si tratta di scegliere fra natura e società, ma di riconoscere che la nostra natura è la società; le leggi e le imposizioni della società non sono niente di più (ma neppure niente di meno) di convenzioni; la ragione è la capacità di stabilire convenzioni, cioè leggi che non ci siano imposte dalla biologia ma che siamo noi ad accettare volontariamente; come si fa a decidere ciò di cui dobbiamo accontentarci, se quello che caratterizza noi umani è l’inquietudine? Il gruppo sociale si presenta come il nucleo che non può morire , a differenza degli individui, e le sue intenzioni servono ad arginare ciò che ognuno di noi teme del destino mortale: se la morte è la solitudine definitiva, la società ci offre una compagnia permanente, se la morte è debolezza e inazione, la società si propone come il luogo della forza collettiva e l’origine di innumerevoli cose da fare e di gesta gloriose; se la morte cancella ogni differenza fra gli individui e livella tutto, la società offre le sue gerarchie, la possibilità di distinguersi e di essere riconosciuti e ammirati dagli altri; se la morte è oblio, la società alimenta tutto ciò che è memoria, leggenda, monumento, celebrazione della gloria passata; se la morte è insensibilità e monotonia, la società potenzia i nostri sensi, con le sue arti raffina il nostro palato, il nostro udito e la nostra vista, ci prepara diversivi impegnativi ed emozionanti con cui rompere l’avvilente routine; la morte è naturale, e per questo la società umana è, in un certo modo, “sovrannaturale”, artificiale, è la grande opera d’arte che noi uomini conveniamo gli uni con gli altri, il luogo vero e proprio dove trascorrere questa miscela di mito e biologia, metafora e istinto, simbolo e chimica che è l’esistenza umana;
Aristotele scrive che “la politica è l’arte di vivre bene assieme”, ma quest’arte purtroppo è anche un’utopia, nessuno ci pensa, e chi lo fa, è solo un sognatore.
Ma citiamo dei passi rispettivamente di Aristotele, Arendt, Cassirer, Tocqueville.
Aristotele, nella Politica, scrive:
“è evidente che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole… Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo, solo l’uomo, fra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato”.
Harendt, in Vita activa, scrive sulla condizione umana:
“La lingua dei romani, forse il popolo più politico che abbiamo conosciuto, usava le espressioni “vivere” e “essere fra gli uomini”, e “morire” e “cessare di essere fra gli uomini” come sinonimi”.
Cassirer, nel suo Saggio sull’uomo, scrive:
“Ma la vita politica non è la sola forma di esistenza umana comunitaria. Nella storia dell’umanità lo Stato inteso nella sua forma attuale figura come prodotto relativamente tardo nel processo civilizzatorio. Assai prima che fosse stata creata questa forma di organizzazione sociale l’uomo aveva fatto altri tentativi per ordinare le sue attività, i suoi sentimenti, i suoi desideri e i suoi pensieri. Simili sistematizzazioni sono il linguaggio, il mito, la religione e l’arte”.
Tocqueville, ne La democrazia in America, scrive:
“Tutti i secoli hanno forse somigliato al nostro? E l’uomo si è sempre trovato in un mondo in cui la virtù è senza genio e il genio senza onore? Dove l’amore per l’ordine si confonde con la tirannide e il culto della libertà col disprezzo delle leggi? Dove niente più è vietato, né permesso, né onesto, né vergognoso, né vero, né falso?”.
La politica non è altro che l’insieme delle ragioni per obbedire e di ribellarsi; l’ideale anarchico prevede che ognuno agisca secondo la propria coscienza, senza riconoscere alcun tipo d’autorità; l’anarchia postula una società libera dall’obbedienza a qualcuno, e dunque libera anche dalla necessità della ribellione. In una parola: la fine della politica, il suo pensionamento; i capi sostengono che ci comandano per il nostro bene; gli anarchici rispondono che il nostro vero bene sarebbe non esser comandati da nessuno, perché in quel caso ciascuno obbedirebbe…non a un individuo fallace e capriccioso, ma alla bontà della natura umana; una società senza politica sarebbe una società senza conflitti; ciò che ci rende nemici è ciò che ci accomuna: l’interesse (etimologicamente) è quanto sta fra due o più persone, vale a dire ciò che le unisce, ma anche ciò che le separa. Sentiremo dire che la colpa dei mali sociali ce l’hanno gli asociali, gli individualisti, ma non è cosi; i nemici più pericolosi del sociale sono quelli che si credono il sociale più di ogni altro, quelli che trasformano le preoccupazioni sociali (denaro, per dirne una) in passioni travolgenti, quelli che vogliono collettivizzare tutto o che si impegnano affinché tutti formiamo un’unità indivisibile; la gente più socievole è quella che accetta il compromesso con gli altri ragionevolmente, vale a dire senza esagerazioni.
Una società senza conflitti non sarebbe una società umana, ma un cimitero o un museo delle cere.
Si potrebbe aggiungere che in politica non c’e’ oggettività, e che l’unica cosa che non tradisce è il Partito… perché i compagni, o partono o si vendono!
Cambiamo invece discorso; Il perché della filosofia è l’inizio del celebre libro di Savater intitolato Le domande della vita; un inizio dunque, ma anche una fine.
Ecco una delle preferite citazioni di Savater, tratta da Octavio Paz:
“albero di sangue, l’uomo sente, pensa, fiorisce e dà insoliti frutti: parole. S’intrecciano sensi e pensiero, tocchiamo le idee: sono corpi e sono numeri”.
Rammentiamo dunque, queste favolose pagine de Il perché della filosofia: a cavallo fra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, ha ancora senso continuare a far studiare filosofia al liceo? Non sarà una questione di pura sopravvivenza del passato, che i conservatori esaltano in virtù del suo tradizionale prestigio, ma cui i progressisti e le persone pratiche debbano guardare con giustificato fastidio? Possono i giovani, o meglio gli adolescenti e i bambini, capire qualcosa di ciò che alla loro età deve sembrare un rompicapo? Non è più facile che, nel migliore dei casi, si limitino a memorizzare un certi numero di formule noiose che poi ripeteranno come dei pappagalli? Forse la filosofia interessa soltanto poche persone, quelle che hanno già una vocazione filosofica, se esiste qualcosa del genere, ma questo genere di individui avrà la possibilità di scoprirla comunque in futuro. Allora, perché imporla a tutti alle scuole superiori? Non è una perdita di tempo, bizzarra e reazionaria, visto il sovraccarico degli attuali programmi di liceo? È curioso che i primi avversari della filosofia le rimproverassero proprio di essere “una cosa da bambini”, adatta a mo’ di passatempo formativo nei primi anni di studio, ma assolutamente inadeguata per gli adulti. Un esempio è Callicle, che pretende di ribattere all’opinione di Socrate secondo la quale “è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che causarla”. Secondo lui, ciò che veramente è giusto, al di là di ciò che dicono le leggi, è che i forti si impongano sui deboli, coloro che valgono di più su quelli che valgono di meno e i capaci sugli incapaci. La legge potrà anche dire che commettere un’ingiustizia sia peggio che subirla, ma è naturale pensare che sia peggio patirla che infliggerla. Tutto il resto sono sottigliezze filosofiche, per cui l’ormai caduto Callicle nutre il massimo disprezzo: “la filosofia è, senza dubbio, piena di grazia, purchè venga studiata con misura; in età giovanile, ma se con essa ci s’intrattiene oltre il dovuto limite, è la rovina degli uomini”. Apparentemente, Callicle non trova niente di male nell’insegnare ai giovani la filosofia, anche se considera il vizio di filosofare un peccato rovinoso quando si sia diventati adulti. Apparentemente perché non possiamo dimenticare che Socrate fu condannato a bere la cicuta in base all’accusa di corrompere i giovani seducendoli con il suo pensiero e le sue parole. In fin dei conti, se la filosofia sparisse del tutto, per grandi e piccini, l’energico Callicle, sostenitore della ragione del più forte, non se l’avrebbe tanto a male…
Se si vogliono riassumere i rimproveri mossi alla filosofia in quattro parole, bastano queste: non serve a niente. Più di chiunque altro, i filosofi vogliono conoscere tutto lo scibile umano, ma in realtà non sono altro che ciarlatani, amanti della vacua verbosità. E allora, chi sa veramente quel che c’è da sapere sul mondo e la società? Bhe, gli scienziati e i tecnici, gli specialisti, quelli che sono in grado di dare informazioni valide sulla realtà. In fondo i filosofi si ostinano a parlare di ciò che non sanno: lo ammise anche Socrate, quando disse “so soltanto di non sapere nulla”. Ma se non sa niente, perché, giovani e meno giovani, lo ascoltiamo? Quello che dobbiamo fare è apprendere da coloro che sanno, non da quelli che non sanno. Soprattutto oggi, visti gli enormi progressi della scienza che ci hanno permesso di sapere come funziona la maggior parte delle cose, nonché di farne funzionare altre, inventate dalla scienza applicata. Dunque, nell’epoca attuale, quella delle grandi scoperte tecnologiche, nel mondo dei microchip e degli acceleratori di particelle, nel regno di Internet e della televisione digitale…quali sono le informazioni che può fornirci la filosofia? L’unica risposta che ci rassegneremo a dare è quella che probabilmente avrebbe dato anche Socrate: nessuna. Ci informano le scienze naturali, i giornali, alcuni programmi televisivi…ma non esiste l’informazione “filosofica”. Come disse Ortega, citato nell’Avvertenza, la filosofia è incompatibile con le notizie e l’informazione è fatta di notizie. Benissimo, ma è solo di informazioni che abbiamo bisogno per comprendere meglio noi stessi e quel che ci circonda? Immaginiamo di ricevere una notizia qualsiasi, per esempio questa: un numero x di persone muore tutti i giorni di fame in tutto il mondo. E noi, una volta ricevuta questa informazione, domandiamo o ci domandiamo, che cosa dobbiamo pensare di un fatto simile. Raccoglieremo varie opinioni, alcune delle quali ci diranno che tali morti sono dovute a squilibri del ciclo macroeconomico globale, altre ci parleranno del problema della sovrappopolazione del pianeta, alcuni si scaglieranno contro l’ingiusta suddivisione dei beni fra ricchi e poveri, o invocheranno la volontà di Dio o la fatalità del destino…E certamente ci sarà anche qualche persona semplice e candida, il nostro portiere o l’edicolante che ci vende i giornali, che commenterà: “in che razza di mondo viviamo!”. E noi allora, come un’eco, ma cambiando la frase da esclamativa a interrogativa, ci domanderemo: “ecco, in che mondo viviamo?”. Non c’è una risposta scientifica a quest’ultima domanda, perché ovviamente non ci accontenteremo di risposte del tipo “viviamo sul pianeta terra”, “viviamo proprio in un mondo dove x persone muoiono di fame tutti i giorni” e nemmeno che si dica che “viviamo in un mondo molto ingiusto” o in “un mondo maledetto da Dio a causa dei peccati degli uomini” ( perché è ingiusto quel che succede? In che cosa consiste la maledizione divina e chi ne afferma l’esistenza?). In una parola, non vogliamo ulteriori informazioni su quanto accade intorno a noi, bensì vogliamo sapere che cosa significa l’informazione che abbiamo ricevuto, come interpretarla e metterla in relazione con altre informazioni precedenti o contemporanee, che cosa implica tutto ciò alla luce delle considerazioni generali sulla realtà in cui viviamo, come possiamo o dobbiamo comportarci in una situazione così definita. Sono proprio queste le domande cui attiene ciò che chiameremo filosofia. Diciamo che ci sono tre differenti livelli di comprensione:
a) l’informazione, che ci presenta i fatti e i meccanismi primari di quanto succede;
b) la conoscenza, che riflette sull’informazione ricevuta, crea una gerarchia fra i significati e cerca principi generali in base ai quali ordinarla;
c) la saggezza, che vincola la conoscenza alle scelte di vita o ai valori assunti come propri, nel tentativo di stabilire come vivere meglio in base a ciò che sappiamo.
La scienza tende a muoversi fra i livelli a) e b) della conoscenza, mentre la filosofia opera fra i livelli b) e c). Dunque non si dà un’informazione propriamente filosofica, mentre al contrario esiste la conoscenza filosofica: a noi piacerebbe che esistesse anche la saggezza filosofica. È possibile ottenere una cosa simile? E soprattutto: una cosa del genere può essere insegnata?
Cerchiamo un’altra prospettiva partendo da un altro esempio o, per maggiore esattezza, utilizzando una metafora. Immaginiamo di trovarci nel museo del Prado, davanti a uno dei quadri più famosi tra quelli che vengono ospitati, Il giardino delle delizie, di Hieronymus Bosch. Quale forma di comprensione possiamo avere di questo capolavoro? Dovremo innanzi tutto effettuare un’analisi fisico-chimica della tessitura della tela, della composizione dei vari pigmenti che compongono i colori e persino utilizzare i “raggi x” per individuare le tracce di altre immagini o di abbozzi di figure nascosti sotto la pittura. In fin dei conti, il quadro è un oggetto materiale, una cosa fra le cose che, come tale, può essere pensata, misurata, analizzata, sminuzzata, e via dicendo. Tuttavia, è anche indubbiamente una superficie sulla quale, grazie ai colori e alle forme, è rappresentato un certo numero di figure. Dunque, per comprendere interamente il dipinto occorre anche realizzare l’inventario completo di tutti i personaggi e di tutte le scene che in esso compaiono, che si tratti di persone, di animali, di mostri demoniaci, di vegetali o di cose, nonché rilevare la distribuzione di ognuno nelle tre parti del trittico. Tuttavia, tante figure e tante meraviglie non sono gratuite né comparvero da sole, un bel giorno, sulla superficie della tela. Un altro modo di intendere l’opera sarà prendere atto del fatto che il suo autore (al quale i contemporanei si riferivano anche con il nome di Jeroen Van Aeken) nacque nel 1450 e morì nel 1516. Fu un illustre pittore della scuola fiamminga, il cui stile diretto, rapido e dai toni delicati segna la fine della pittura medievale. I temi che raffigura, tuttavia, appartengono al mondo religioso e simbolico del Medioevo, anche se reinterpretato con grande libertà soggettiva. Un lavoro paziente può sviscerare, o almeno cercare di sviscerare, il contenuto allegorico di molte delle sue immagini secondo l’iconografia dell’epoca; il resto potrebbe ben essere spiegato alla luce dell’ermeneutica onirica della psicoanalisi freudiana. D’altra parte, Il giardino delle delizie è un’opera che appartiene al periodo centrale dell’attività dell’artista, come Le tentazioni di sant’Antonio conservate nel Museo di arte antica di Lisbona, realizzate cioè prima che l’autore cambiasse genere rappresentativo e disposizione delle figure, come si può vedere nei quadri successivi, ecc. Potremmo immaginare anche un altro modo di comprendere il quadro, una prospettiva che ignori né scarti nessuna delle precedenti, ma che voglia comprenderle tutte nei limiti del possibile, aspirando a capire l’opera nella sua totalità. Da questo punto di vista certamente più ambizioso, Il giardino delle delizie è sì un oggetto materiale, ma anche una testimonianza storica, una lezione mitologica, una satira delle ambizioni umane e un’espressione plastica della personalità più recondita dell’autore. Soprattutto, è qualcosa di profondamente significativo che interpella personalmente coloro che lo guardano a distanza di tanti secoli dalla sua realizzazione, che si riferisce a ciò che sappiamo, fantastichiamo e desideriamo della realtà e che ci rimanda ad altri modi simbolici e artistici di vivere nel mondo, a ciò che ci fa pensare, ridere e cantare, alla condizione esistenziale che condividiamo con tutti gli esseri umani, vivi, morti o non ancora nati. Quest’ultima prospettiva, che dal quadro ci porta direttamente a ciò che siamo e, dunque, a ciò che è la realtà nel suo complesso per poi tornare ancora nel quadro, sarà il punto di vista che possiamo definire filosofico. E, ovviamente, esiste una prospettiva di comprensione filosofica per ogni cosa, non solo per i capolavori della pittura. Riproviamo ancora una volta a definire la differenza essenziale fra scienza e filosofia. La prima cosa che salta agli occhi non è ciò che le distingue, bensì quel che le avvicina: sia la scienza sia la filosofia cercano di rispondere alle domande che la realtà solleva. Infatti, in origine la scienza e la filosofia erano unite e solo nel corso dei secoli la fisica, la chimica, l’astronomia e la psicologia incominciarono a rendersi autonome rispetto alla matrice filosofica comune. Oggi, le scienze intendono spiegare come sono fatte le cose e come funzionano, mentre la filosofia s’incentra piuttosto su quel che le cose significano per noi; la scienza deve adottare il punto di vista impersonale per poter parlare di tutto (perfino quando studia proprio le persone!), mentre la filosofia rimane sempre consapevole del fatto che la conoscenza possiede necessariamente un soggetto, un protagonista umano. La scienza aspira a conoscere ciò che esiste e accade; la filosofia si dedica a riflettere sull’importanza che ha per noi ciò che sappiamo esistere e accadere. La scienza moltiplica le prospettive e i campi della conoscenza, vale a dire frammenta e specifica il sapere; la filosofia s’impegna a mettere tutto in relazione con tutto, nel tentativo di contestualizzare i saperi in un panorama teorico che sorvoli la diversità dal punto di vista di questa avventura unitaria che è il pensare, ossia l’essere umani. La scienza smonta le apparenze del reale in elementi teorici invisibili, ondulatori o corpuscolari, suscettibili di forme matematiche, in elementi astratti intangibili; senza ignorare né disprezzare questa analisi, la filosofia riscatta la realtà umanamente vitale di ciò che è apparente, in cui trascorrere la peripezia della nostra esistenza concreta (per esempio la scienza ci rivela che gli alberi e i tavoli sono composti di elettroni, neutroni e via dicendo, mentre la filosofia, senza minimizzare tale rivelazione, ci restituisce a una realtà umana situata fra alberi e tavoli). La scienza è alla ricerca di saperi e non di semplici supposizioni; la filosofia vuole sapere ciò che implica per noi l’insieme dei nostri saperi, e perfino se si tratti di saperi autentici o di ignoranza mascherata. Perché la filosofia è solita interrogarsi principalmente sulle questioni che gli scienziati (e naturalmente le persone normali) danno per scontate ed evidenti. Bene lo enuclea Thomas Negel:
“il principale interesse della filosofia è mettere in questione e comprendere idee assolutamente comuni che tutti noi impieghiamo ogni giorno senza pensarci sopra. Uno storico può chiedere che cosa è accaduto in un certo tempo del passato, ma un filosofo chiederà ‘Che cos’è il tempo?’ Un matematico può studiare le relazioni tra i numeri, ma un filosofo chiederà ‘Che cos’è un numero?’. Un fisico chiederà di che cosa sono fatti gli atomi o cosa spiega la gravità, ma un filosofo chiederà come possiamo sapere che vi è qualcosa al di fuori delle nostre menti. Uno psicologo può studiare come i bambini imparino il linguaggio, ma un filosofo chiederà ‘Cosa fa in modo che una parola significhi qualcosa?’. Chiunque può chiedersi se è sbagliato entrare in un cinema senza pagare , ma un filosofo chiederà ‘Che cosa rende un’azione giusta o sbagliata?’”.
In ogni caso, sia le scienze sia la filosofia rispondono alle domande che ci pone la realtà. Tuttavia, a tali domande le scienze offrono delle soluzioni, vale a dire, risposte che soddisfino in questo modo la questione, annullandola e dissolvendola. Quando una risposta scientifica funziona in quanto tale, non ha più senso insistervi, poiché la domanda cessa di essere interessante; invece, la filosofia non offre soluzioni, ma risposte, le quali, pur non annullando le domande, ci permettono di convivere razionalmente con esse, anche se continueremo a porcele più volte: per quante risposte filosofiche possiamo trovare alla domanda su che cosa sia la giustizia o su che cosa sia il tempo, non smetteremo mai di interrogarci sulla giustizia e sul tempo, né scarteremo come oziose o superate le risposte date a tali domande dai filosofi precedenti. Le risposte filosofiche non risolvono i quesiti della realtà, piuttosto coltivano la domanda, mettono in risalto l’essenza di questo domandare e ci aiutano a non smettere di farlo, a domandare sempre meglio, a umanizzarci nella convivenza perpetua con il quesito. Del resto, che cos’è l’uomo se non l’animale che fa domande e che continuerà a farle al di là di qualsiasi immaginabile risposta?
Ci sono domande che ammettono una soluzione soddisfacente e sono quelle che si pone la scienza; poi ce ne sono altre cui riteniamo impossibile riuscire a dare una risposta del tutto esauriente: rispondere a queste domande, sebbene sempre in modo incompleto, è precisamente l’impegno della filosofia. Nella storia, è accaduto che alcuni quesiti che inizialmente erano competenza della filosofia, come la natura e il movimento degli astri, per esempio, siano stati successivamente risolti dalla scienza. In altri casi, questioni cui apparentemente aveva risolto la scienza passarono a essere affrontate da nuovi punti di vista scientifici grazie allo stimolo rappresentato dai dubbi di natura filosofica (il passaggio dalla geometria euclidea alle geometrie non euclidee costituisce in questo senso un esempio). Chiarire quali domande paiano oggi appartenere al primo gruppo e quali al secondo è una delle funzioni critiche più importanti dei filosofi e degli scienziati. È probabile che certi aspetti delle domande di cui si occupa oggi la filosofia ricevano domani una soluzione scientifica, e senza dubbio le future soluzioni scientifiche forniranno un aiuto decisivo nella riformulazione delle risposte filosofiche a venire; d’altra parte, non sarebbe la prima volta che la funzione dei filosofi orienta o ispira alcuni scienziati. Non c’è ragione che giustifichi una opposizione irriducibile, né tanto meno un vicendevole disprezzo tra scienza e filosofia, come credono gli scienziati e i filosofi di basso profilo. L’unica cosa di cui possiamo essere sicuri è che la scienza e la filosofia non saranno mai a corto di domande cui cercare una risposta.
Tuttavia, c’è un’altra differenza importante fra scienza e filosofia che non riguarda i risultati che esse hanno raggiunto, bensì il modo in cui sono arrivate a dei risultati. Uno scienziato può utilizzare le soluzioni trovate dai suoi predecessori senza bisogno di ripercorrere da solo tutti i ragionamenti, i calcoli e gli esperimenti che hanno portato alla loro scoperta; ma quando qualcuno ha intenzione di filosofare, non può accontentarsi di accettare le risposte di altri filosofi o di citare la loro autorità come argomento incontrovertibile: nessuna risposta filosofica sarà valida se l’individuo non ripercorre da solo il cammino tracciato dai suoi predecessori o se non ne tenta uno nuovo basandosi su punti di vista altrui che avrà, però, meditato in modo assolutamente personale. In una parola, l’itinerario filosofico deve essere pensato individualmente da ciascuno, anche se parte da una tradizione intellettuale assai ricca. I risultati ottenuti dalla scienza sono a disposizione di chiunque voglia consultarli, mentre quelli della filosofia servono unicamente a coloro che decidano di riflettervi per conto loro. Per dirla in modo radicale: i progressi scientifici hanno come obiettivo quello di migliorare la nostra conoscenza collettiva della realtà, mentre filosofare significa aiutare a trasformare e ad ampliare la visione personale del mondo di chi si dedica a questo compito. Si può svolgere una ricerca scientifica al posto di un altro, ma non si può pensare filosoficamente al posto di un altro, per quanto i grandi filosofi ci abbiano aiutato a pensare. Forse potremmo aggiungere che le scoperte della scienza rendono più facile il compito degli scienziati che vengono dopo, mentre i contributi della filosofia rendono sempre più complesso l’impegno di coloro che si mettono a pensare dopo di loro. Deve essere questo il motivo per cui Kant disse che ciò che si può insegnare non è la filosofia, ma “l’attitudine a filosofare”: perché non si tratta di trasmettere un sapere già concluso da altri che chiunque può imparare come s’imparano a memoria la capitali d’Europa, ma di un metodo, vale a dire un percorso del pensiero, un modo di porsi dinanzi alle cose e di argomentare.
“So soltanto di non sapere nulla”, dice Socrate, e si tratta di un’affermazione che bisogna prendere – a partire da ciò che dissero Platone e Senofonte su colui che la proferì – in maniera ironica. “So soltanto di non sapere nulla” va allora inteso così: “non mi soddisfa nessuno dei saperi di cui voi siete tanto contenti. Se sapere consiste in questo, io non devo sapere nulla perché vedo obiezioni e mancanza di fondamento nelle vostre certezze. Ma almeno so di non sapere nulla, vale a dire ho degli argomenti per non fidarmi di ciò che viene comunemente detto sapere. Forse voi sapete tante cose come sembra e, se è cosi, dovreste essere capaci di rispondere alle mie domande e di dissipare i miei dubbi. Esaminiamo insieme ciò che vuole essere definito sapere e smontiamo quanto i cosiddetti esperti non possono mettere al riparo dalla tempesta delle mie domande. Limitarsi a ripetere ciò che comunemente si pensa di sapere non significa sapere veramente. Sapere di non sapere è preferibile a credere di sapere qualcosa su cui non abbiamo riflettuto a fondo personalmente. Una vita di riflessione, vale a dire la vita di chi non pondera le risposte che vengono date alle domande fondamentali, né tenta di rispondervi da solo, non vale la pena di essere vissuta”. Ovvero, la filosofia, prima di proporre teorie che risolvano le nostre perplessità, deve essere essa stessa perplessa. Prima di dare le risposte autentiche, deve mettere in chiaro i motivi per cui non la convincono le risposte false. Una cosa è sapere dopo aver pensato e discusso, e un’altra, radicalmente diversa, è adottare le conoscenze che nessuno mette in discussione per non vedersi costretto a pensare. Prima di giungere a sapere, filosofare significa difendersi da coloro che credono di sapere mentre non fanno altro che ripetere gli errori altrui. Ben più importante di fondare delle conoscenze è l’esser capaci di criticare ciò che non si conosce a fondo o che non si conosce affatto, malgrado si creda il contrario: prima di sapere perché afferma ciò che afferma, il filosofo deve sapere almeno perché dubita di quanto affermano gli altri e perché non si decide ad affermarlo a sua volta. E questa funzione negativa, difensiva, critica, ha già un valore in se stessa, anche se non possiamo andare più in là e anche se, nel mondo di coloro che credono di sapere, il filosofo è forse l’unico che accetta di non sapere, ma almeno è consapevole della propria ignoranza. Ma si può insegnare ancora a filosofare nel terzo millennio, quando tutti sembrano non desiderare altro che soluzioni immediate e prefabbricate alle domande così scomode che si stagliano sull’abisso dell’inconoscibile?
Poniamo la questione in un altro modo: non significa rendere pienamente umana la principale funzione dell’educazione? C’è un’altra dimensione tipicamente umana, più necessariamente umana, dell’inquietudine che da secoli ci spinge a filosofare? Può l’educazione prescindere da essa e continuare a svolgere la sua funzione umanizzante nel senso libero e antidogmatico di cui ha bisogno la società democratica in cui vogliamo vivere? D’accordo, accettiamo il fatto che sia necessario tentare di insegnare ai giovani la filosofia, o meglio a filosofare. Tuttavia, come portare a termine tale insegnamento, che non può essere altro che un invito affinché ognuno impari a filosofare da solo?
MORITZ GEIGER
A cura di Andrea Ardiri
Moritz Geiger (1880 – 1937), allievo di Theodor Lipps e di Wilhelm Wundt, divenne, dopo l’incontro con Husserl, uno dei principali animatori del Circolo fenomenologico di Monaco e Göttingen. Fu coeditore dello Jahrbuch für phänomenologische Forschung ed insegnò a Göttingen fino al 1933, anno in cui fu costretto a fuggire negli Stati uniti a causa delle persecuzioni naziste. Si dedicò per lo più all’incremento dell’estetica fenomenologia, il cui maggiore esponente è sicuramente Roman Ingarden. La parola d’ordine della filosofia di Geiger è la Wendung zum Objekt (il volgersi all’oggetto), che caratterizza il metodo fenomenologico in senso “realistico”. In Italia, Gabriele Scaramazza ha dedicato numerose pubblicazioni all’estetica monacense, ed in particolare all’estetica di Geiger. Il testo che segue è tratto da un saggio di commento al Frammento sul concetto di inconscio e sulla realtà psichica. Un contributo alla fondazione del realismo psichico immanente in cui Geiger contesta la svolta scientista della psicologia dei suoi tempi, richiamandosi alla tradizione psicologica di quello che chiama “realismo immanente”, che fa risalire a Locke. “Immanente” è qui inteso come trascendente rispetto ai vissuti (erlebenstranszendent), cercando di delineare i movimenti della “vita psichica reale”, come egli stesso la definisce.
L’obiettivo principale di Geiger, riguardo alla definizione dei rapporti tra la volontà e l’inconscio, è quello di formulare una fondazione coerente del realismo immanente, in contrapposizione ai metodi della psicologia scientifica, la quale, accanendosi sull’analisi dell’esperienza dei vissuti tralascia o nega in maniera sistematica qualunque altra forma di determinazione tipica della realtà degli atti psichici. A suo avviso il principale problema di questo tipo di approccio alla vita psichica sta proprio nel voler equiparare la psicologia alle scienze naturali, trattando i vissuti come fossero dati fisici o chimici che seguono la logica della causalità. La psicologia dei vissuti ha invece smarrito un atteggiamento più equilibrato e meno dogmatico nei confronti della realtà della mente, quale poteva essere prima del suo avvento quello degli scrittori, degli storici o dei mistici: gli affetti e le volizioni riletti sotto una simile lente riescono molto meglio a cogliere la complessità dei fenomeni psichici, che di gran lunga trascende il semplice e blando nesso causale. Ciò cui si può auspicare circa l’evoluzione di questa ricerca è l’affermazione di un principio di fiducia nelle regole della coscienza interna, che possa, da una parte, essere equiparato al principio di fiducia nella percezione delle scienze naturali e, dall’altra, rendere conto della complessità dei fenomeni psichici e dei suoi rapporti con la realtà esterna. In prima istanza sarà di primaria importanza delimitare all’interno della totalità della vita psichica il concetto di coscienza, al fine di poter così delimitare i contorni dell’inconscio ed i suoi eventuali rapporti con la volontà.
Analisi della “vita psichica reale”
Secondo Geiger la psicologia scientifica risulterebbe fuorviante in quanto, da una parte, la sua metodologia è eccessivamente soggettiva (la vita psichica, analizzata soltanto all’interno della categoria dei vissuti, individualizza e radicalizza le espressioni della vita psichica senza coglierne la ricorsività) e, dall’altra parte, la sua aspirazione all’oggettività dei contenuti finisce per divenire incompatibile con la vita psichica reale individuale (lo studio dei vissuti come effetto non è in grado di spiegare la complessità del vissuto psichico che, spesso, vive indipendentemente dalla prassi e, quindi, possiede uno sviluppo assolutamente autonomo in cui non è riscontrabile un criterio di verifica valido nell’intersoggettività, ma soltanto un criterio puramente soggettivo).
Per comprendere meglio la causa di questo tipo di fraintendimento deve aver luogo innanzi tutto un’analisi delle definizioni implicite al concetto di coscienza nel suo utilizzo linguistico. All’interno delle espressioni linguistiche distinguiamo quattro differenti tipi di impiego del concetto di coscienza:
1. Attiva (Bewusst-sein);
2. Passiva (oggetto verso cui è polarizzato l’atto psichico);
3. Aggettivale (proprietà costitutiva dell’oggetto presente alla coscienza);
4. Spaziale-sostanziale (“luogo” reale della coscienza).
1. Il concetto di coscienza attiva riguarda propriamente l’“esser cosciente di”, che può essere considerato una forma del conoscere in quanto “collegamento con l’oggetto”, come modo del prender conoscenza del reale (in tal senso la percezione e la rappresentazione intellettiva non possono che essere considerate tali).
2. Il concetto di coscienza passiva rappresenta l’oggettualità verso cui la coscienza tende, quindi si potrebbe affermare che non fa propriamente parte dell’azione della coscienza, sebbene ne sia il contenuto, in quanto realmente esterna alla coscienza (gli oggetti sono semplicemente “toccati dall’atto di coscienza[1]”).
3. Il concetto di coscienza aggettivale è una proprietà, un momento strutturale dell’oggetto di cui è predicato. Questa concezione della coscienza è tipica del “flusso di coscienza” e tende alla totale equiparazione degli atti di coscienza agli oggetti di coscienza in quanto contenuti indistinti di un flusso continuo e per lo più indistinto di nessi causali – casuali.
4. Il concetto sostanziale o spaziale di coscienza riguarda una vera e propria collocazione dei fenomeni percettivi e rappresentativi: la coscienza è quindi un contenitore “in cui questi contenuti vengono a trovarsi[2]”.
I primi due sono concetti complementari che costituiscono la coscienza verbale, rappresentando la classica dicotomia soggetto-oggetto: il concetto attivo è il soggetto che coglie la realtà del concetto passivo che, però, pur essendo contenuto dell’atto psichico, non né è propriamente parte. Il terzo modifica radicalmente la percezione della sostanzialità della coscienza, identificandola con una sorta di “materia” dell’oggetto, inerente quindi più che ad un soggetto dell’atto psichico ad una proprietà intrinseca dell’atto stesso. L’ultima accezione del concetto di coscienza è invece in parte assimilabile alle altre tre poiché, riferendo semplicemente alla coscienza un’identificazione spaziale degli atti psichici che però non ne indichi alcuna altra proprietà, risulta compatibile ad esse senza per questo perdere la propria proprietà costitutiva. Bisogna però precisare che il concetto spaziale, se concomitante al concetto di coscienza verbale, ne altera in certa misura la natura, rendendolo da concetto puramente fenomenologico, quale esso è (in quanto non si occupa in alcuna maniera dell’esistenza reale dei contenuti della coscienza all’esterno di essa), in concetto metafisico (giacché il quasi-luogo della coscienza sostanzializza i contenuti coscienti al di là della loro effettiva realtà fenomenica). Il concetto aggettivale di coscienza invece, mettendo sullo stesso piano gli atti di coscienza ed i contenuti di coscienza, non riesce a comprendere la complessità del rapporto Io-mondo, ossia la relazione che intercorre tra la coscienza e ciò è invece esterno ad essa (sebbene possa fungere da propulsore della sua azione), e quindi ricade nell’assurdo concettuale che il soggetto cosciente ed il contenuto della coscienza ricadano allo stesso modo all’interno del flusso di coscienza senza essere in esso pienamente discernibili l’uno dagli altri. Dati questi presupposti se ne desume che l’unico concetto di coscienza che possa mostrare la natura della reale vita psichica del soggetto cosciente relato al mondo è il concetto verbale di coscienza.
Definita la dinamica della coscienza nel rapporto Io-mondo, inglobata nel concetto verbale di coscienza, possiamo analizzare anche, e contrario, il concetto negativo di coscienza correlato, ossia l’inconscio. Come abbiamo già accennato, il concetto verbale di coscienza è articolato in due accezioni distinte (attivo e passivo); bisognerà dunque verificare, attraverso tale concetto, l’effettiva ammissibilità dell’esistenza di atti psichici inconsci e, dopo averne accertato le relazioni con la coscienza, definire a quale delle due accezioni del concetto verbale il concetto di inconscio rimandi.
Partendo dalla definizione del concetto attivo di coscienza è facilmente scartabile l’ipotesi di rimando ad esso, poiché, definito l’inconscio in contrapposizione rispetto alla coscienza intesa in tal senso, un atto psichico dovrebbe poter essere non-conscio rispetto allo stesso “esser cosciente di”, ossia dovrebbe essere non un atto di coscienza, ma un non– atto di coscienza. In altri termini, affermando che un atto psichico possa essere inconscio rispetto alla coscienza in senso attivo dovremmo ipotizzare una negazione della “coscienza di”, quindi non- coscienza di, non- rappresentazione, non- presenza: assenza. Invece la coscienza in senso passivo, sebbene a prima vista sembri meglio adattarsi alla definizione dell’inconscio psichico, tuttavia pone un’altra questione: un oggetto, sebbene posto al di fuori della coscienza, può mantenere la propria esistenza, ma questa esistenza è comunque esterna all’universo psichico e, quindi, è inconscio nella stessa misura in cui lo è un oggetto che non vediamo perchè abbiamo gli occhi chiusi rispetto alla nostra vista. Sinora però abbiamo preso in esame soltanto oggetti che conservano un’esistenza propria anche all’esterno della coscienza: come si pone la questione di fronte ad oggetti che posseggono una loro esistenza reale soltanto all’interno della coscienza? Le volizioni, i desideri, le pulsioni, le passioni, gli affetti in generale rientrano pienamente in quest’ultima categoria di oggetti, i quali posseggono una loro esistenza reale soltanto in quanto eventi psichici, in quanto “vissuti di coscienza[3]“. Gli eventi psichici come il volere sono difficilmente comprensibili all’interno sia dei modi del cogliere che di quelli dell’esser colto, di conseguenza la concezione dominante (quella della psicologia scientifica) li cataloga come vissuti di coscienza; resta però da stabilire cosa si intenda esattamente per vissuto di coscienza. Il concetto di vissuto, di per sé, descrive una qualità dell’evento psichico, ossia il fatto che l’io prende conoscenza di tale evento; tuttavia nell’utilizzo linguistico tale concetto tende ad assumere non un connotato di accidentalità, bensì di sostanzialità. Se, per esempio, A vuole B e C non vuole che A ottenga B si può forse dire che A ha un vissuto di volontà e C un vissuto di non volontà? Naturalmente è corretto dire che A vive il volere B, ma tale vissuto, ad un’analisi più attenta, in realtà non dice nulla del volere A, se non il fatto che questo volere è un qualcosa che A sperimenta; in tal senso il volere di A non è diverso dal non volere di C o da qualunque altro vissuto e, di conseguenza, sebbene il concetto di vissuto tenda ad inglobare nella sua espressione l’essenza degli eventi psichici, il concetto di vissuto non è in grado di dirci alcunché del volere. Dunque, sebbene l’interpretazione della psicologia scientifica del concetto di vissuto sottenda un’accezione aggettivale di esso, risulta evidente che si debba supporre una dicotomia del concetto (analoga a quella del concetto di coscienza, ossia quella di un concetto verbale) in senso attivo e senso passivo. Il volere è interpretabile come vissuto soltanto nel senso passivo del concetto; tuttavia, diversamente da quanto accade nella percezione dei contenuti esterni della vita psichica, il vissuto di un evento psichico reale e autonomo dalla percezione, come sostenuto in precedenza, è difficilmente diversificabile in un “accorgersi di[4]” [Gewahrwerden] e un contenuto di coscienza. Il vissuto è soltanto una griglia che descrive il darsi all’Io della datità, ma il volere di uno scopo o la gioia non si riducono al loro esser vissuto, che è il prender conoscenza, ma sono anche una presa di posizione di un Io, un fatto d’esistenza; relare questi due aspetti in rapporto rispettivamente di sostanzialità e qualità risulta talmente riduttivo da essere falso e fuorviante. Quindi, nonostante le analogie tra l’orizzonte della percezione, in cui il cogliere e l’esser colto sono nettamente distinti, e gli eventi psichici non riescono a spiegare la realtà di quell’intimo appercepire [Inenwerden] che risulta essere la vera relazione tra il vivere il volere ed il volere stesso, in cui l’evento psichico non è semplicemente “colpito da un raggio della coscienza”, ma come illuminato dalla coscienza, la quale però non è nettamente distinta da esso proprio in base a questo fortissimo legame puntuale ma, allo stesso tempo, lato sensu, riflessivo.
A questo punto, fatto salvo quanto detto in precedenza sui rapporti tra la volontà ed il concetto di vissuto, resta da chiarire se è coerente l’ipotesi di un “volere non vissuto”. Intuitivamente appare contraddittorio il concetto di un volere non vissuto: infatti sembrerebbe insito nella stessa essenza del volere il determinarsi al compimento di un proprio scopo conscio e, quindi, in quanto attività dell’Io, vissuto. Tuttavia si potrebbe ammettere l’esistenza di un volere “inosservato”, vale a dire di un volere che, sebbene si già auto-affermato, venga interrotto e poi ripreso nei percorsi della vita psichica (altrimenti bisognerebbe supporre che il volere, lo stesso contenuto di volontà, si ponga in maniera puntuale ogniqualvolta si venga a sovrapporre ad altri atti di coscienza). E’ ragionevole pensare che il volere in alcune circostanze possa essere semplicemente “messo da parte” (ad esempio, se volessi scrivere un libro, l’attuarsi di questo volere non implicherebbe che ogni sera prima di andare a dormire io cessi di volere ed il giorno dopo io mi determini nuovamente a cominciare a scrivere) senza per questo cessare di esistere e, in tal senso, non sarebbe propriamente vissuto. Per riuscire però ad analizzare compiutamente il volere non vissuto sarà bene precisare in quali momenti si strutturi la volontà, cosicché risulti più chiaro se un volere “momentaneamente” non presente possa o non possa essere considerato “vissuto”. All’interno della volontà occorre separare due livelli distinti; la posizione di volontà ed il comportamento volontario.
1. La posizione di volontà [Wollensetzung] è il livello in cui il volere assume il proprio contenuto e si divide a sua volta in due momenti; il momento della posizione di scopo, in cui determino cosa voglio (l’oggetto del volere), e quello dell’autodeterminazione, in cui mi risolvo [ich entschliesse mich] nello scegliere di volere proprio quella cosa e non altro. La posizione di volontà costituisce dunque il primo stadio della struttura del volere, quello del “far volere se stessi”, in cui il volere si pone nella sua oggettualità.
2. Il comportamento volontario [das wollende Verhalten] è il livello della determinazione al volere che si traduce nell’esplicazione di questo volere, come momento della vera “prassi” del volere e, soprattutto, come stadio del suo perdurare in essa.
In realtà possiamo considerare propriamente come atto di volontà soltanto il primo, in quanto il secondo risulta essere semplicemente il propulsore del vissuto, ciò che muta il contesto riversandolo all’esterno della coscienza. La vera contrapposizione all’interno della definizione dell’atto del volere è quella che intercorre solo all’interno della riflessività, che è l’orizzonte psichico reale assolutamente distinto dal vissuto in quanto prassi esterna alla coscienza, tra il vissuto, che è un rendersi conto che relaziona Erlebnis (vissuto già determinato) e Sein (essere), e la posizione di volontà, che rappresenta l’effettiva autodeterminazione del volere nella realtà della sfera del reale. L’Io causa (che pone il volere) non coincide dunque con l’Io volente, ma se ne discosta nella misura in cui possiamo discernere tra posizione di volontà e comportamento volontario. Data questa distinzione all’interno della struttura della volontà siamo in grado di determinare se e quali momenti della volontà possono trovarsi nella condizione del non vissuto.
● Nella posizione di volontà riscontriamo l’effettività del porsi del volere nella sua dimensione autentica e, in quanto tale, nel pieno orizzonte della coscienza; date tali premesse non si può ipotizzare che in essa il volere possa non essere vissuto. Nel caso in cui all’interno della coscienza vi siano condizioni di conflitto tra i vari atti è possibile che ciò impedisca momentaneamente l’insorgenza del volere alla luce della coscienza e, di conseguenza, sebbene esso sia vissuto, a causa di questa mancanza di accordo interiore [Einverständnis] che lascia che un altro atto di coscienza occupi il posto di quel volere.
● Nel comportamento volontario è possibile il sorgere un comportamento finalizzato non vissuto, sebbene ad un’analisi più accurata si palesi che tale comportamento non si sviluppa a partire da un vero e proprio atto di volontà in quanto non supera lo stadio del desiderio (che, in quanto determinato genericamente, non si concretizza in un volere).
Tra l’impulso derivato dalla posizione di volontà e la conversione in comportamento volontario può tuttavia esistere un momento di stallo: infatti tra l’imposizione di un volere ed il suo tradursi in voler fare possono intercorrere (il che non è assolutamente un fenomeno raro, ma, anzi, tipico di ogni volere che ha per oggetto un’azione che non sia a breve termine) degli “intervalli” temporali [Zwischenzeiten] in cui il volere, pur essendo stato posto e, quindi vissuto, non è attivo. Possiamo perciò distinguere un volere attivo da uno inattivo (il che non presuppone affatto una corrispondenza tout court tra volere attivato e volere vissuto); così si può venire a costituire un volere attivo che sia allo stesso tempo non vissuto e, viceversa, un volere inattivo che sia vissuto. Dunque, ad esempio nei comportamenti di riflesso condizionato, la condizione del volere vissuto è sovrapponibile alla puntuale inattività di tale volere (in tal caso si può parlare anche di volere decaduto[5]) e, quindi, sebbene come volere generale-generico, inconscio.
[1] M. Geiger, “Frammento sul concetto di inconscio e sulla realtà psichica. Un contributo alla fondazione del realismo psichico immanente”, in R. De Monticelli (a cura di) La persona: apparenza e realtà. Testi fenomenologici 1911-1933, Cortina, Milano 2000, p. 112.
[2] Ivi, p.114.
[3] Ivi, p.118.
[4] Ivi, p.124.
[5] Ivi, pp.152-153.
ERVING GOFFMAN
A cura di Diego Fusaro e Chiara Mangiarini
VITA E OPERE
Nato a Manville, in Canada, l’11 giugno 1922, Erving Goffman conseguì la laurea di primo livello nel 1945 presso l’università di Toronto. La laurea specialistica e il dottorato gli furono rilasciati rispettivamente nel 1949 e nel 1953 dall’università di Chicago, dove studiò Sociologia e Antropologia sociale. Mentre lavorava al suo dottorato, trascorse un anno in una fra le più piccole isole di Shetland, raccogliendo materiale per la sua dissertazione e per il suo libro La vita quotidiana come rappresentazione, 1959, disponibile in almeno dieci differenti traduzioni e pressoché in continua ristampa. Nel 1958, Goffman divenne membro della facoltà di studi dell’università californiana di Berkeley e fu promosso a professore ordinario nel 1962. Nel 1968 entrò a far parte della facoltà di studi dell’università Benjamin Franklin della Pennsylvania, dove divenne professore di Antropologia e Sociologia. Nel 1977 gli fu assegnata la borsa di studio post-universitaria della Guggenheim. Poco prima della sua morte (sopraggiunta a Philadelphia, nel 1982), negli anni 1981-1982, fu presidente della American Sociological Associacion. Negli anni ’70, dopo aver assunto il ruolo di osservatore scientifico all’istituto nazionale di salute mentale a Bethesda MD, ed aver preso parte ad un Comitato per lo studio sulla detenzione, avviò le ricerche che lo portarono alla stesura della sua opera Asylum: saggi sulla condizione sociale dei malati di mente e altri pazienti (1961). Si tratta di un’acuta analisi sull’importanza della struttura sociale nel produrre comportamenti conformati, specialmente all’interno di ambienti che Goffman etichettò come “total institutions” (istituzioni totali), quali gli asili di igiene mentale, le prigioni e i consorzi militari. La precipua metodologia di analisi di Goffman, piuttosto che la raccolta statistica di dati, era lo studio etnografico, l’osservazione e la partecipazione; inoltre, le sue teorie fornivano una panoramica ironica della routine dei comportamenti sociali. La vita quotidiana come rappresentazione, ad esempio, utilizza il teatro come metafora per illustrare come noi mettiamo in scena immagini (di noi stessi) che cerchiamo di offrire alle persone attorno a noi, atteggiamenti per indicare i quali ,Goffman, utilizzò il termine “drammaturgia”. Relazioni in pubblico (1963) è la prosecuzione delle ricerche presentati nei suoi tre libri precedenti, Incontri, Comportamento in pubblico e Il rituale dell’interazione (1967). Quest’ultimo scritto, in particolare, è un attento resoconto delle interazioni sociali giornaliere, osservate da una nuova prospettiva, che giustifica la logica dei nostri comportamenti in circostanze ordinarie, come l’entrare in un ascensore o in un autobus affollati. Il suo ultimo libro, Forme del parlare, fu nominato per il premio del National Book Critics Circe e fu recensito sia dalla rassegna di libri di New York, che da quella di Londra. Nell’opera, prosegue la sua originale metafora del teatro analizzando i rituali e le convenzioni sociali individuate negli argomenti di conversazione alla luce dei risultati (fino ad allora conseguiti).
PENSIERO
Goffman si è impegnato ad elaborare una “sociologia della vita quotidiana”, dell’interazione diretta faccia a faccia, del comune comportamento e delle sue regole. Si tratta di quel tipo di interazione che
“comporta un breve periodo di tempo, una limitata estensione di spazio e abbraccia quegli venti che, una volta iniziati, debbono arrivare a conclusione […] L’argomento […] è costituito da quella classe di eventi che si verificano durante una compresenza e per virtù di una compresenza” (Il rituale dell’interazione)
In particolare, questa sociologia della vita quotidiana si domanda come si comportino due persone quando si incontrano, indipendentemente da chi siano o dal motivo per il quale si incontrano. Il presupposto che la sorregge è che continuamente comunichiamo con gli altri non solo a parole o a gesti, ma anche col modo in cui ci vestiamo o con gli oggetti che utilizziamo. Gli altri hanno bisogno di informazioni su di noi e noi trasmettiamo immagini di noi stessi, ricevendone altre in cambio. Fedele alle teorie dell’interazione, Goffman è tuttavia convinto che essa avvenga non a caso ma sempre secondo regole precise. Per spiegare la propria concezione interattiva, Goffman fa ricorso a una metafora assai efficace, la “metafora drammaturgica”: nella vita sociale, che come abbiamo detto è incentrata sull’interazione, l’attore è sempre intento a porre se stesso in scena sul palco della società. E così nell’impianto teorico di Goffman veniamo a trovare attori, palcoscenici, pubblico: quel che manca è, a ben vedere, un copione fisso. L’idea di Goffman (frutto sia di una ricerca empirica sia di una speculazione teorica) è che i gruppi sociali si dividano in due categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”.
La vita sociale è, appunto, una rappresentazione che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi. Goffman cita l’esempio dei camerieri in un hotel delle isole Shetland (dove aveva svolto la sua ricerca): verificando che il gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico (ovvero i clienti del ristorante), inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di palcoscenico (cioè dove il pubblico è presente): mentre nello spazio di retroscena, nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso. La vita sociale, quindi, si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione. Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico: una persona insicura, ad esempio, può assumere in pubblico un atteggiamento spavaldo, e mostrarsi invece vulnerabile soltanto nel suo retroscena (ad esempio in famiglia). Secondo Goffman, quindi, la vita sociale si fonda sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena: infatti il gruppo di audience non deve accedere alle situazioni di retroscena che contraddicono il comportamento pubblico. L’interazione sociale, così intesa, è un dramma che si svolge su una scena, dove gli attori (la compagnia) cercano di controllare le idee che gli altri (il pubblico) si fanno di loro, per presentarsi nella miglior luce possibile e in un modo che sia credibile. Per Goffman, come affiora dalla vicenda dei camerieri dell’hotel, esistono luoghi di ribalta, nei quali ci si deve vestire e comportare con certe formalità, e luoghi di retroscena, dove ci si può rilassare. Scambiare gli uni per gli altri può avere conseguenze nefaste per una relazione sociale. L’interazione sociale può avvenire tra persone che si conoscono o tra estranei che si trovano casualmente insieme in un luogo pubblico. Nei due casi, i modi di comportarsi sono differenti: ma in tutti e due i casi si ha un’interazione. Pensiamo a due persone che si trovino casualmente nello stesso scompartimento del treno senza conoscersi: a tutta prima, pare che si ignorino, ma in realtà essi si scambiano senza sosta messaggi e orientano reciprocamente il loro agire (cercano di non disturbare, di non essere invadenti, non allarmare gli altri con gesti strambi, ecc). Ma nella rappresentazione i rapporti fra attori e pubblico possono anche essere diversi da quelli che paiono: si hanno in questo caso i “ruoli incongruenti”. Così, il “delatore” è chi finge presso gli attori di essere un membro del gruppo, avendo così accesso al retroscena e riportando al pubblico informazioni riservate. Il “compare” è chi si accorda segretamente con gli attori e si mescola tra il pubblico per orientarlo. Lo “spettatore puro” è un professionista riconosciuto come spettatore qualificato (ad esempio, un critico teatrale). L’“intermediario” appartiene a due compagnie che sono l’una il pubblico dell’altra e può mettere in atto giochi di triade. La “non persona” è chi, benché presente, non fa parte della rappresentazione e viene ignorata (ad esempio, il conducente del taxi). Come dicevamo, per Goffman nulla è abbandonato al caso: esistono regole di etichetta e rituali coi quali si sperimenta l’accesso agli altri e si misurano le possibilità e i limiti di un reciproco coinvolgimento. Anche la più anonima e fugace delle relazioni, un incontro in strada con un estraneo, è già un’interazione assai complessa, densa di messaggi; è un tipo di rituale che Goffman chiama “disattenzione civile”. Le due persone si avvicinano, si guardano, stabiliscono a cenni che lato della strada ciascuno dei due seguirà e, quando si incontrano, abbassano lo sguardo – “una specie di abbassamento delle luci” –, col che affermano implicitamente di non aver nulla da temere dall’altro. In Goffman il “self” (cioè l’Io, l’autocoscienza) è concepito come un elemento contingente, tutt’altro che stabile: esso è stabilito dalla situazione, dal palcoscenico su cui si recita, dagli spettatori che assistono allo spettacolo. Come abbiamo avuto già modo di accennare, per Goffman gli individui, più o meno consapevolmente, inviano senza sosta segnali (il modo di vestire, di parlare, di gesticolare, ecc) che vengono recepiti da altri come informazioni utili per coordinare il proprio agire. Sulla base di questi segnali, gli individui sviluppano una “definizione della situazione” che consente loro di orientare il loro agire. In particolare, la presentazione del “self” segue una specifica dinamica, scandita nei seguenti punti: in primo luogo, c’è quello che Goffman chiama “front” e che noi possiamo tradurre con “facciata”. Nel “front” rientrano tutte quelle cose (vestiti, mobili, ecc) che contribuiscono a creare la nostra “facciata”, ovvero la nostra superficie dinanzi agli altri: in definitiva, il “front” è l’immagine superficiale di noi che trasmettiamo agli altri. Nel “front” rientra pure l’equipaggiamento espressivo (i sentimenti), il quale sottolinea la nostra posizione sociale e il nostro modo di atteggiarsi concreto. Come regola generale, vale che gli individui si attendono da noi un “front” coerente: Goffman è convinto che esista un numero limitato di possibili “fronts” e che, in genere, gli individui li conoscano tutti; per di più, essi sono istituzionalizzati e compaiono nella forma di stereotipi, sicché individui aventi ruoli specifici possono far ricorso a un ben preciso repertorio di “fronts”. Il secondo aspetto della presentazione del “self” è quella che Goffman definisce come “dramatic realisation”: si tratta dell’impiego di espedienti drammaturgici, impiego che è tanto maggiore quanto più è difficoltosa la costruzione di un determinato “front”. V’è poi la “idealisation”, che è lo sforzo per presentarsi come qualcuno che abbia interiorizzato certi valori riconosciuti dalla comunità. Troviamo poi quello che Goffman chiama “mantenimento del controllo espressivo”: alla bse v’è l’idea che alla definizione della situazione contribuiscano in maniera decisiva anche piccoli segni, con la conseguenza che l’attore sociale deve controllare e coordinare il proprio comportamento (tipo esempio è il “self control”). Successivamente troviamo la “mistification”, la mistificazione: specie le persone di alto rango, cercano di mantenere le distanze dagli altri e di tenere in piedi una certa definizione della situazione. C’è poi la “autenticità”: ad avviso di Goffman, le persone cercano di apparire autentiche, senza far sorgere l’impressione che il loro comportamento sia frutto di artificiosità. È, in sostanza, il concetto di “sprezzatura” (l’arte di nascondere l’arte) quale era stato elaborato da Baldesar Castiglione. Troviamo poi il “frame”: l’idea è che gli individui impieghino schemi interpretativi al fine di inquadrare ciò che avviene intorno a loro. Tutte le forme d’interazione fanno ricorso al “framing”. Infine, il concetto di “primary framework” all’interno di un gruppo sociale designa un elemento centrale della cultura di questo gruppo: l’idea di Goffman è che ogni gruppo abbia un suo codice specifico che lo caratterizza e lo distingue dagli altri (ad esempio, nel gruppo dei barboni è il rifiuto sistematico del lavoro). I “frames”, nota Goffman, possono venir trasformati attraverso il “keying”, quel procedimento in virtù del quale certe attività possono venir definite in modi diversi (ad esempio una situazione che può essere definita sia come sport sia come lavoro); si tratta di situazioni che mutano al mutar della prospettiva assunta.
PIERRE BOURDIEU
A cura di Diego Fusaro e Chiara Mangiarini
“Di tutte le divisioni che dividono artificialmente la scienza sociale, la più rilevate, e la più rovinosa, è quella posta tra soggettivismo ed oggettivismo”.
VITA E OPERE
Pierre Bourdieu fu sociologo, ma anche antropologo, filosofo e sostenitore del movimento anti-globalizzazione, il cui lavoro investì un’ampia gamma di argomenti, quali l’etnografia, l’arte, la letteratura, la pedagogia, il linguaggio, il costume e la televisone.
Il testo più importante di Bourdieu è Differenza: una critica sociale al giudizio di gusto (1984), nominato dall’Associazione Internazionale di Studi Sociologici come uno dei dieci lavori di sociologia più importanti del XX secolo.
“Il gusto classifica, e classifica ciò che classifica. Le discipline sociali, divise dalle loro classificazioni, si distinguono fra loro per la distinzione che loro stesse fanno di bello e brutto, elegante e volgare, nella quale la loro posizione riguardo le classificazioni oggettive è espressa o tradita”.
Pierre Boudieu nacque il primo agosto 1930 nel villaggio di Denguin, in una regione dei Pirenei a sud-ovest della Francia. Suo padre era il direttore dell’ufficio postale del paese. A scuola si dimostrò uno studente brillante, ma si guadagnò una certa fama anche come giocatore di rugby. Si trasferì a Parigi, dove studiò alla Scuola Normale Superiore; suo insegnante era il filosofo Jacques Derrida. Boudieu s’interessò di Merleau-Ponty, di Husserl e Heidegger, e anche degli scritti accademici del giovane Marx. La sua tesi, sostenuta nel 1953, consisteva nella traduzione e nel commento dell’Animadversione di Leibniz. Dopo aver ottenuto la laurea in filosofia, Bourdieu insegnò per un anno, a seguito del quale fu chiamato alle armi. Prestò servizio per due anni in Algeria, dove le truppe francesi cercavano di sedare i ribelli algerini. Nel 1959-60 tenne un corso presso l’università di Algeri; nel frattempo, studiò le tecniche di agricoltura tradizionali e la cultura etnica dei Berberi. Disse una volta:
“Pensavo di essere un filosofo, e ci volle molto tempo prima di ammettere a me stesso che ero divenuto un etnologo”.
Nel 1960 tornò dunque in Francia nella vesti di un antropologo autodidatta.
Nel 1962 sposò Marie-Claire Brisard. Studiò antropologia e sociologia, insegnando a Parigi dal 1960 al 1962 e a Lille dal 1962 al 1964, anno in cui entrò a far parte della facoltà dell’Ecole Praticque des Hautes Etudes. Nel 1968, divenne direttore del Centro Europeo di Studi Sociologici, dove, con un gruppo di colleghi, diede il via a un’ampia e collettiva ricerca sperimentale sui problemi relativi al mantenimento del sistema di potere attraverso la trasmissione della cultura dominante. Uno degli argomenti fondanti i suoi lavori, era quello secondo il quale cultura ed educazione sono fondamentali nell’affermazione delle differenze sociali e nella riproduzione di quelle stesse differenze. Ne La Riproduction (1970), Bourdieu argomentò che il sistema di educazione francese riproduce le divisioni culturali della società. Egli sottintendeva anche una corrispondenza tra la “violenza simbolica” degli interventi pedagogici e il monopolio dello Stato nell’uso legittimo della violenza fisica.
Nel 1975 Bourdieu lanciò il giornale Actes de la Recherche en Sciences Sociales. Nel 1981 gli fu assegnata la prestigiosa cattedra di sociologia del Collège de France. A partire dagli anni ’80, Bourdieu divenne uno dei sociologi francesi più frequentemente citati negli Stati Uniti. Per i suoi studenti divenne un guru, Bour-dieu (dio), o un terribile esempio di terrorista sotto le mentite spoglie del sociologo. Negli anni ’80 prese anche parte a diverse attività al di fuori dei circoli accademici: supportò lo sciopero dei ferrovieri, si fece portavoce dei senzatetto, fu ospite di programmi televisivi e nel 1996 fondò la casa editrice Liber/Raison d’Agir. Nel 1998 pubblicò un articolo sul quotidiano “Le Monde”, nel quale paragonò il “forte discorso” del neoliberalismo con la posizione del discorso psichiatrico in un asilo di igiene mentale. Le ultime pubblicazioni di Bourdieu riguardano argomenti quali il maschilismo, le nuove correnti neoliberali, l’arte di E. Manet e Beethoven. Bourdieu morì di cancro a Parigi il 24 gennaio del 2002. Tra i suoi scritti più importanti, ricordiamo Sociologie de l’Algerie (1958), Per una teoria della pratica, Il senso pratico (1980), Meditazioni pascaliane, Il dominio maschile (1998), La distinzione (1979), Questioni di sociologia (1980), Le strutture sociali dell’economia, I Delfini, La riproduzione (1970), Homo academicus (1984), La noblesse d’état, Le regole dell’arte (1992), La fotografia, L’amore dell’arte, Il mestiere di scienziato, L’ontologia politica di Martin Heidegger (1988), La miseria del mondo (1993), Ragioni pratiche. Sulla teoria dell’azione (1994).
IL PENSIERO
Bourdieu è uno strutturalista critico. Infatti, egli aderisce, in certa misura, alle tesi dello strutturalismo, secondo cui nel mondo sociale vi sono strutture indipendenti dalla coscienza dell’individuo e dal suo volere le quali delimitano in modo specifico il comportamento dell’attore sociale. Bourdieu ama definire la propria posizione teorica come “costruttivista strutturalista”: a suo avviso, gli individui possono costruire fenomeni sociali tramite il loro pensare e il loro agire, ma tale costruzione avviene sempre all’interno di un’ineludibile struttura che mai può essere rimossa. A questo proposito, per spiegare il rapporto che vincola l’individuo alla struttura, Bourdieu utilizza un’immagine piuttosto efficace: come la grammatica condiziona ma non determina il nostro linguaggio, così la struttura condiziona ma non determina il nostro agire. In forza di questa concezione della struttura, il filosofo francese può sottoporre a critica lo strutturalismo classico, che assume la struttura come autonoma e determinante. In particolare, Bourdieu attacca Talcott Parsons e il suo “strutturalismo funzionalistico”, accusandolo di non riconoscere quella contingenza che sfugge alla struttura e che caratterizza il nostro agire. In particolare, secondo il nostro autore, gli attori sociali non sono automi che si conformano ai ruoli che la società impone. Al contrario, essi godono di una certa libertà nell’agire, sono creativi e imprevedibili, e fanno uso di quel “senso pratico” grazie al quale possono adeguarsi alle situazioni più disparate. Grazie al senso pratico, nota Bourdieu, possiamo aggiustare di volta in volta il nostro ruolo in funzione delle concrete situazioni che ci si presentano, adattandoci a esse. Oltre alla posizione strutturalista classica (Parsons, Levy-Strauss), che trascura indebitamente la creatività e la capacità di adattamento dell’attore sociale, Bourdieu attacca anche la pretesa oggettività dello scienziato: al centro dello scritto Homo academicus sta appunto l’uomo accademico che riduce la vita sociale a concetti oggettivi, impoverendola incredibilmente e illudendosi di far valere un atteggiamento neutro e distaccato dalla realtà descritta. Per l’uomo accademico, che coincide con lo scienziato, il mondo è un insieme non di attività pratiche, bensì di prestazioni cognitive. La critica allo strutturalismo, tuttavia, non conduce Bourdieu sull’opposta sponda del volontarismo: egli riconosce la forza condizionante (anche se non determinante) dei fatti sociali, e proprio in forza di tale riconoscimento sottopone a critica il creativismo assoluto e l’interazionismo. La cultura infatti non può essere ridotta a mondo di simboli dei quali gli individui dispongono con libertà assoluta. La posizione di Bourdieu sembra dunque collocarsi a metà strada tra il determinismo degli strutturalisti e il “volontarismo” degli interazionisti. In particolare, gli interazionisti (ad esempio Erving Goffman) esagerano la capacità degli individui di negoziare l’identità e di definire la situazione. Criticando l’interazionismo, Bourdieu scopre il materialismo nella sua accezione marxiana: l’interpretazione dei simboli e la definizione di situazioni sono sempre inaggirabilmente legati a strutture che sfuggono, almeno in parte, al controllo dell’individuo. Pur avvicinandosi al marxismo, il pensatore francese evita le secche sia dell’oggettivismo senza soggetto (Levy-Strauss), sia dell’idealismo ermeneutico. Egli attacca pure l’utilitarismo, rinfacciandogli di non essere in grado di capire che non solo l’agire economico, ma pure quello simbolico è un agire razionale. Alla base di tale critica, sta la convinzione che la razionalità non sia riducibile a vantaggi immediati: tutte le pratiche umane sono rivolte a interessi (perfino la solidarietà), che però non sono quelli immediati a cui pensava l’utilitarismo. Sicché, anche quando stiamo rifiutando l’interesse immediato, in realtà stiamo perseguendo interessi mediati. Bourdieu si concentra sui “principi generativi” coi quali gli individui costruiscono fenomeni sociali e culturali. Egli è convinto, sulla scia di Karl Marx, che ciascuno di noi si muova all’interno di una certa ideologia a seconda della classe di appartenenza. Bourdieu, andando oltre Marx, distingue tra quattro diversi tipi di capitale:
a) Capitale economico (denaro, mezzi di produzione)
b) Capitale sociale (reti sociali)
c) Capitale culturale (lingue, gusto, way of life, ecc)
d) Capitale simbolico (simboli di legittimazione).
Questi quattro tipi di capitale sono convertibili l’uno nell’altro, nel senso che chi ha la cultura (capitale culturale) può tradurla in denaro (capitale economico), e così via. Sulla base di questa distinzione del capitale, Bourdieu può distinguere diverse classi sociali: anche in ciò, egli rimane fedele a Marx e, a un tempo, si spinge oltre. Infatti, la distinzione marxiana tra borghesi (dominatori) e proletari (dominati), che nel tempo in cui fu pensata era sicuramente valida, oggi è del tutto inadeguata per comprendere una situazione sociale che si è fatta più complessa e intricata. Si tratta dunque di portare il marxismo “all’altezza dei tempi”; come avrebbe detto Antonio Gramsci. La classe che sta più in alto, dice Bourdieu, è quella che ha tutti e quattro i tipi di capitale in misura maggiore: ma ciò non vuol dire che le classi siano gerarchiche e fisse come in Marx. Le tre classi principali (classe alta, classe media, classe bassa) si dividono a loro volta in tre livelli interni: così, all’interno della classe alta, vi sarà un “gruppo” (milieu) alto, uno medio e uno basso; e così nelle altre due classi (la media e la bassa). In particolare, per quel che riguarda la classe sociale alta, il gruppo alto è quello della borghesia con grande capitale economico; quello medio è quello dei professionisti; e quello basso è quello degli intellettuali e degli artisti. Alla luce di questa suddivisione, le classi tendono a sfumare le une nelle altre e a perdere quella rigidità con cui si configuravano nel marxismo tradizionale: così, il gruppo alto della classe alta può trovarsi a condividere interessi del gruppo alto della classe media. Detto altrimenti, ci si trova in una situazione in cui si hanno comunità di interessi che prescindono dalle diversità di classe: di conseguenza, la stessa “lotta di classe”, che agli occhi di Marx si configurava come semplice scontro tra dominati e dominanti, diventa più complessa e meno definita nei suoi contorni. Bourdieu insistre molto sul momento culturale: chi fa parte di una classe ha una certa visione del mondo, certi costumi. È ciò che il nostro pensatore chiama habitus, categoria nella quale rientrano, in definitiva, tutte le cose condivise in una certa classe (comportamenti, gusti, idee, giudizi). L’habitus “non è un destino”, è piuttosto l’“inconscio collettivo” di una classe sociale, la quale non sa di avere quell’habitus. Rispetto a Marx, la vera novità risiede nel fatto che la classe sociale non dipende soltanto dall’economia, ma anche dalla cultura, dall’estetica e dalla morale: a tal punto che gli stessi conflitti di gusto sono conflitti di classe. In particolare, ad avviso di Bourdieu, ci sono due diversi gusti: il “lusso” e la “estetica popolare”. Il primo appartiene alla classe superiore e astrae dal momento economico; il secondo appartiene alla classe inferiore e ha a che fare con necessità materiali.
MARSHALL MCLUHAN
“Il medium è il messaggio“.
Vita e opere
Nato nel 1911 ad Edmonton, in Canada, Marshall McLuhan studiò lingua e letteratura inglese nell’università di Manitoba e poi in Inghilterra, nell’Università di Cambridge.
A Cambridge, McLuhan studiò sotto la guida di I.A. Richards e di F.R. Leavis e fu influenzato dalla corrente letteraria del “Nuovo Criticismo”.
Nell’anno accademico 1936-37, insegnò all’Università del Wisconsin. Il 30 marzo 1937, McLuhan completò quella che era stata una conversione lenta ma totale, quando fu formalmente accolto nella Chiesa cattolica Romana. In seguito, egli insegnò nelle istituzioni di educazione superiore della Chiesa cattolica. Dal 1937 al 1944, egli insegnò inglese nell’Università di Saint Louis.
Qui ebbe tra gli studenti un giovane gesuita di nome Walter J. Ong, che avrebbe poi preparato e discusso una tesi di laurea su un argomento proposto da McLuhan e che sarebbe diventato in seguito, in modo analogo al suo amico e maestro McLuhan, un’autorità nel campo dei mezzi di comunicazione e delle relative tecnologie.
Il 4 agosto 1939, McLuhan sposò Corinne Lewis, di Fort Worth (Texas), e insieme passarono il 1939-40 nell’Università di Cambridge, dove egli continuò a lavorare alla sua tesi di dottorato su Thomas Nashe e le arti verbali.
Dal 1944 al 1946, McLuhan insegnò presso l’Assumption College a Windsor, nel Canada. Dal 1946 al 1979 egli insegnò al St. Michael’s College, University of Toronto, dove Hugh Kenner fu uno dei suoi studenti. McLuhan insegnò anche per un anno alla Fordham University, quando avvenne il famoso esperimento di Fordham sugli effetti della televisione. Si spense a Toronto nel 1980.
Pensiero
Durante gli anni trascorsi all’Università di Saint Louis (1937-1944), McLuhan lavorò in contemporanea a due progetti ambiziosi: la sua tesi di dottorato e il manoscritto che fu poi pubblicato in libro nel 1951 col titolo La sposa meccanica (The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man). Tale libro includeva solo una selezione del materiale che McLuhan aveva preparato. La tesi di dottorato a Cambridge di MCLuhan del 1943 è un saggio di formidabile erudizione, che studia la storia delle arti verbali (grammatica, logica e dialettica, retorica: cioè il trivium) dall’epoca di Cicerone fino al tempo di Thomas Nashe. Nelle sue pubblicazioni successive, McLuhan usa a volte il concetto latino di trivio per indicare una rappresentazione ordinata e sistematica di alcuni periodi della storia della cultura occidentale. Per esempio, egli suggerisce che il Medioevo fu un’epoca caratterizzata da una forte enfasi sullo studio della logica formale. La svolta chiave che portò al Rinascimento non fu la riscoperta di testi antichi, ma una nuova enfasi data allo studio della retorica e del linguaggio invece che allo studio formale della logica.
Nel successivo La galassia Gutenberg, del 1976 (The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man), McLuhan sottolinea per la prima volta l’importanza dei media nella storia umana; in particolare egli discute dell’influenza della stampa a caratteri mobili sulla storia della cultura occidentale.
Nel libro, McLuhan illustra come con l’avvento della stampa a caratteri mobili si compia definitivamente il passaggio dalla cultura orale alla cultura alfabetica. Se nella cultura orale la parola è una forza viva, risonante, attiva e naturale, nella cultura alfabetica la parola diventa un significato mentale, legato al passato. Con l’invenzione di Gutenberg, queste caratteristiche della cultura alfabetica si accentuano e si amplificano: tutta l’esperienza si riduce ad un solo senso, cioè la vista. La stampa è la tecnologia dell’individualismo, del nazionalismo, della quantificazione, della meccanizzazione, dell’omogeneizzazione: insomma, è la tecnologia che ha reso possibile l’era moderna.
Alla base del pensiero di McLuhan (e della cosiddetta “Scuola di Toronto”, di cui egli, insieme a W. J. Ong, è il maggiore rappresentante) troviamo un accentuato determinismo tecnologico, cioè l’idea che in una società la struttura mentale delle persone e la cultura siano influenzate dal tipo di tecnologia di cui tale società dispone.
Nel suo scritto più famoso, Gli strumenti del Comunicare, del 1964 (Understanding Media: The Extensions of Man), McLuhan inaugura uno studio pionieristico nel campo della “ecologia dei media”. È qui che McLuhan afferma che è importante studiare i media non tanto in base ai contenuti che essi veicolano, ma in base ai criteri strutturali con cui organizzano la comunicazione. Questo pensiero è notoriamente sintetizzato con la frase “il medium è il messaggio”.
McLuhan afferma che il contenuto della trasmissione ha in realtà un effetto minimo sulla società, e che quindi se, ad esempio, la televisione trasmettesse programmi per bambini o spettacoli violenti, l’influenza di questo medium sarebbe la stessa. McLuhan osserva che ogni medium ha caratteristiche che coinvolgono gli spettatori in modi diversi; ad esempio, un passo di un libro può essere riletto a piacimento, mentre (prima dell’avvento delle videocassette o dei DVD) un film deve essere ritrasmesso interamente per poterne studiare una parte. È in questo testo che McLuhan introduce la classificazione dei media in caldi e freddi, classificazione alla quale è legata la sua fama mondiale. McLuhan è noto al grande pubblico per la classificazione dei media in “caldi” e “freddi” e per le espressioni “villaggio globale” e “il medium è il messaggio”.
L’espressione “il mezzo è il messaggio”, considerata la riflessione più importante di McLuhan, sta ad indicare che il vero messaggio che ogni medium trasmette è costituito dalla natura del medium stesso. Ogni medium va quindi studiato in base ai “criteri strutturali” in base ai quali organizza la comunicazione; è proprio la particolare struttura comunicativa di ogni medium che lo rende non neutrale, perchè essa suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti e modi di pensare e porta alla formazione di una certa forma mentis. Ad esempio, il primo medium analizzato da McLuhan è stato il medium tipografico. McLuhan osserva infatti che la stampa ha avuto un grande impatto nella storia occidentale, veicolando la Riforma protestante, il razionalismo e l’illuminismo. Con l’espressione “il medium è il massaggio”, il nostro autore intende sottolineare che ogni medium condiziona i propri utenti e contribuisce a plasmarne la mente: li “massaggia”. Questo va inteso anche nel senso che li rassicura. Ci sono alcuni medium che, secondo McLuhan, assolvono soprattutto alla funzione di rassicurare e uno di questi medium è la televisione, che per lui era un mezzo di conferma: non era un medium che desse luogo a novità nell’ambito sociale o nell’ambito dei comportamenti personali. La televisione non crea delle novità, non suscita delle novità, è quindi un mezzo che massaggia, conforta, consola, e conferma. Scrive McLuhan ne La sposa meccanica:”la moderna Cappuccetto Rosso, allevata a suon di pubblicità, non ha nulla in contrario a lasciarsi mangiare dal lupo”.
Ad avviso di McLuhan, esistono media caldi e media freddi: questa classificazione ha dato luogo a equivoci e a discussioni, dovute al fatto che gli aggettivi “caldo” e “freddo” sono stati adoperati in senso antifrastico, cioè in senso opposto rispetto loro reale significato. McLuhan classifica come “freddi” i medium che hanno una “bassa definizione” e che quindi richiedono una “alta partecipazione” dell’utente, in modo che egli possa “riempire” e “completare” le informazioni non trasmesse; i media “caldi” sono invece quelli caratterizzati da un’alta definizione e da una scarsa partecipazione. A ogni modo, lo stesso McLuhan, nei suoi scritti, cade non poche volte in contraddizione nel definire “caldo” o “freddo” un particolare medium: nel caso della scrittura, per esempio, questa viene dapprima definita fredda poi “calda ed esplosiva”.
McLuhan definisce medium freddi (cioè a bassa definizione) la TV, il telefono, i film, i cartoni animati, la conversazione; viceversa definisce come caldi medium come la radio e la fotografia. Quella del “villaggio globale” è una metafora adottata da McLuhan per indicare come, con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione, tramite l’avvento del satellite che ha permesso comunicazioni in tempo reale a grande distanza, il mondo sia diventato “piccolo” e abbia assunto di conseguenza i comportamenti tipici di un villaggio. Le distanze siderali che in passato separavano le varie parti del mondo si sono ridotte e il mondo stesso ha smarrito il suo carattere di infinuta grandezza per assumere quello di un villaggio. A questo tema sono dedicati scritti come Guerra e pace nel Villaggio Globale, del 1968 (War and Peace in the Global Village) e Il Villaggio Globale (The Global Village).
Come curiosità (ma èuna curiosità istruttiva), si può ricordare che McLuhan ha fatto da comparsa in una scena del film Annie Hall di Woody Allen. Quest’ultimo ha evidenziato un aspetto importante della personalità di McLuhan, facendogli recitare la frase “lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro”. McLuhan era solito dire ai suoi studenti ed alle altre persone in genere che semplicemente non lo capivano, a prescindere da quanto lo avessero studiato.
In Gli strumenti del comunicare, McLuhan afferma che “nel regime della tecnologia elettrica il compito dell’uomo diventa quello di imparare e di sapere; tutte le forme di ricchezza derivano dallo spostamento d’informazione”.
Secondo il mito greco dell’alfabeto, prima dell’arrivo del re Cadmo (che introdusse in Grecia le lettere fonetiche), la conoscenza e il potere erano monopolio sacerdotale, in quanto la scrittura prealfabetica, con i suoi innumerevoli segni, era difficile da apprendere.
Ripercorrendo a grandi tappe le più importanti innovazioni che si sono avute per la diffusione del sapere, quali l’alfabeto (IX secolo a.C.), la stampa (XV secolo d.C.) e internet (XX secolo), che però McLuhan non aveva previsto, possiamo dire che oggi la conoscenza è patrimonio di tutti e si costruisce con la collaborazione di ogni membro della società. A questo scopo, da qualche anno a questa parte, sono sorte delle “comunità di pratica e di apprendimento” che hanno come obiettivo finale il generare conoscenza creata, organizzata e di qualità cui ogni individuo può avere libero accesso. In queste comunità c’è un apprendimento continuo, c’è consapevolezza delle proprie conoscenze, tutti hanno un proprio ruolo, ma le varie posizioni non sono di tipo gerarchico (in quanto la gerarchia impedisce i rapporti tra le persone) ma tutti hanno uguale importanza, perché il lavoro di ciascuno sarà un beneficio per l’intera comunità.
La finalità è il miglioramento collettivo. Chi entra in questo tipo di organizzazione ha in mente un “modello di condivisione”; non esistono spazi privati o individuali, in quanto tutti condividono tutto, perché chi ha conoscenza e la tiene per sé è come se non l’avesse. Le comunità di pratica tendono all’eccellenza, a prendere ciò che di meglio produce ognuno dei loro collaboratori. Ma questo “metodo costruttivista”, che punta ad una conoscenza che si costruisce insieme, rappresenta un modo di vivere, lavorare e studiare che ci è ancora poco familiare. Siamo infatti ancora legati ad una società di tipo individualistico; tra gli uomini c’è competizione e manca quella collaborazione che funge da motore pulsante nelle “comunità di pratica e di apprendimento”.
Ma non c’è da meravigliarsi; come spiega McLuhan, già le lettere fonetiche ed i numeri furono mezzi sufficienti per la frammentazione e la de-tribalizzazione dell’uomo. Con l’avvento della stampa, poi, si ebbe un processo di separazione (o esplosione) delle funzioni mai avutosi in precedenza che si sviluppò rapidamente a tutti i livelli e in tutti i settori; l’essenza formale della pressa tipografica, infatti, consiste “nella capacità di trasferire la conoscenza nella produzione meccanica con la frantumazione di qualsiasi processo in aspetti frammentari da calcolare in una sequenza lineare di parti mobili”. Nella società occidentale allora sorsero il nazionalismo, l’industrialismo, la produzione di massa, l’alfabetismo e l’istruzione universale e lo spirito individualistico. Conseguenze naturali del processo di separazione delle funzioni furono, inoltre, la separazione del pensiero dall’emozione e l’agire senza reagire.
Ma se la stampa nel XV sec. sfidò gli schemi collettivi dell’organizzazione medievale, oggi c’è una nuova sfida in atto: quella tra l’era elettrica e il nostro individualismo frammentato. Ed è proprio in questa era elettrica che trovano la loro giusta ed ovvia collocazione le “comunità di pratica e di apprendimento”. Nell’epoca odierna, infatti, tutti sono sempre e reciprocamente coinvolti e i doni che ci sono stati dati dalla stampa, ovvero il distacco e il non coinvolgimento, ormai sono diventati degli ostacoli da superare.
Stiamo vivendo in una società che barcolla tra l’individualismo e la divisione dei ruoli dell’epoca appena passata e la collaborazione e il villaggio globale tipici dell’era elettrica che sta pian piano affermandosi. Quelli che una volta erano fattori di velocità (la specializzazione, la divisione, la catena di montaggio) oggi sono stati messi in secondo piano dalla tecnologia elettrica; l’informazione si sposta alla velocità dei segnali del nostro sistema nervoso. Con i jets e l’elettricità ci è possibile toccare in poche ore ogni parte del globo (è facile, ad esempio, mangiare a New York, prendere un aereo e digerire a Parigi ); si sta creando una sorta di villaggio globale e, non a caso, oggi si sente parlare così tanto di globalizzazione.
JOSEPH SCHUMPETER
“La maggior parte delle creazioni dell’intelletto o della fantasia scompaiono per sempre dopo un tempo che varia da un’ora a una generazione; per altre invece non accade così. Esse soffrono eclissi, ma poi tornano, e tornano non come elementi irriconoscibili di una eredità culturale, ma nel loro abito individuale e con le loro cicatrici personali che la gente può vedere e toccare. Queste sono le creazioni che possiamo dire grandi, e non è uno svantaggio che questa definizione unisca insieme la grandezza con la vitalità“.
BIOGRAFIA
Joseph Alois Schumpeter nacque nel 1883 a Triesch, in Moravia (Repubblica Ceca), allora parte dell’Impero Austro Ungarico, da una famiglia appartenente all’etnia tedesca dei Sudati: con essa si spostò a Graz dopo la morte del padre e, in seguito, a Vienna, dove la madre si era stabilita con il nuovo marito. Nella capitale dell’Impero, Schumpeter studiò presso la facoltà di Diritto, dove si specializzò in economia sotto la guida di Friedrich von Wieser ed Eugen von Böhm-Bawerk. Dopo la laurea ed una breve esperienza professionale come avvocato al Cairo, Schumpeter fece ritorno in patria, ottenendo l’incarico di professore d’economia all’Università di Czernowitz, città che attualmente si trova in Ucraina. Insegnò poi a Graz (1911 – 1918). Dopo la “grande guerra”, fece parte di una commissione per lo studio delle socializzazioni istituita dalla repubblica di Weimar. Nel 1919, Schumpeter rivestì, seppur per pochi mesi, la carica di ministro delle finanze nel governo della giovane repubblica austriaca. In seguito, tenne la presidenza della banca Biederman, fino al 1924, anno in cui riprese la docenza universitaria, questa volta a Bonn. Nel 1932 si trasferì negli Stati Uniti, dove insegnò ad Harvard fino a che la morte lo colse nel sonno, l’8 gennaio 1950.
Negli Stati Uniti fu presidente della Società Econometrica e dell’American Economic Association. Le sue lezioni universitarie vennero considerate troppo difficili per la media degli universitari, troppo dense di dati e nozioni e, quindi, secondo i critici, non fu un buon docente per la maggioranza dei suoi studenti. Alcuni allievi, al contrario, costruirono con lui un rapporto saldissimo e lo considerarono sempre un punto di riferimento. Tra questi ultimi, Paul Samuelson e l’italiano Paolo Sylos Labini.
IL PENSIERO
Equilibrio e sviluppo.
L’apporto più originale e caratterizzante dato da Schumpeter alla teoria economica è, probabilmente, costituito dalla sua concezione dello sviluppo.
Nella sua opera prima, L’essenza e i contenuti fondamentali dell’economia teorica (1908), egli aveva sostenuto l’affinità dell’economia alle scienze naturali, sostenendo che lo studio economico dovesse essere tenuto ben separato da quello delle scienze sociali. Seguiva così le concezioni di Leon Walras, l’economista da lui più stimato, padre della prima formulazione completa della teoria di equilibrio economico generale, secondo cui il sistema economico si adattava ai fattori esogeni (istituzioni, evoluzioni politiche, eventi storici, ecc.) ed endogeni (preferenze dei consumatori, sviluppo tecnico, ecc.), tendendo all’equilibrio. Ma Schumpeter si spinse oltre.
Con il basilare Teoria dello sviluppo economico (1911), l’economista austriaco aggiunse a questo approccio “statico”, un approccio “dinamico”, adatto a spiegare la realtà dello sviluppo. In un’ipotetica economia basata sul modello statico, i beni vengono prodotti e venduti secondo la mutevole domanda dei consumatori ed il ciclo economico assorbe le influenze della storia, ma i prodotti scambiati rimangono sempre gli stessi, le strutture economiche non mutano, e così via. Schumpeter fa notare che questo modello di economia non corrisponde alla realtà ed egli lo supera con il già menzionato approccio “dinamico”, in cui un nuovo soggetto, l’imprenditore, introduce nuovi prodotti, sfrutta le innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le modalità organizzative della produzione. L’imprenditore può fare questo in quanto dispone dei capitali messigli a disposizione dalle banche, che remunera con l’interesse, ossia una parte del profitto aggiuntivo realizzato grazie all’innovazione.
La teoria delle innovazioni consente a Schumpeter di spiegare l’alternarsi, nel ciclo economico, di fasi espansive e recessive. Le innovazioni, infatti, non vengono introdotte in misura costante, ma si concentrano in alcuni periodi di tempo – che, per questo, sono caratterizzati da una forte espansione – a cui seguono le recessioni, in cui l’economia rientra nell’equilibrio di flusso circolare. Un equilibrio però, non uguale a quello precedente, ma mutato dall’innovazione.
Le opere del periodo americano
Abbandonata nel 1932, anche se non per motivi eminentemente politici, una Germania che stava per precipitare nella barbarie nazista (il 30 gennaio 1933 Hitler diverrà cancelliere) a favore degli Stati Uniti e dell’Università di Harvard, Schumpeter continuò ad affinare le sue teorie anche nella nuova sede americana.
Del 1939 è l’ uscita di Cicli Economici, in cui il nostro autore rielabora e perfeziona i concetti già espressi nella Teoria dello sviluppo economico. Il ciclo economico si scompone così in diversi momenti (espansione, recessione, depressione, ripresa), che operano su diverse scale temporali, le cosiddette “onde“, a seconda dell’importanza delle innovazioni introdotte. Così le innovazioni davvero epocali (macchina a vapore, petrolio…) si susseguono a cicli particolarmente lunghi, intorno ai cinquanta anni (cicli Kondratieff), quelle di valore intermedio esauriscono il ciclo in tempi minori (cicli Juglar) e così a discendere, fino a quelle di valore minimo (cicli Kitchin).
Il 1942 è l’anno di Capitalismo, socialismo, democrazia. Si tratta di un’opera in cui convivono diversi ambiti: quello economico, quello politico e sociologico. Schumpeter esordisce ponendo i confini tra la sua teoria e quella marxiana. Per Karl Marx, come per l’economista austriaco, il capitalismo si sviluppa in fasi cicliche per fattori interni (peraltro, diversi: il plusvalore per Marx, l’innovazione per Schumpeter) e, per entrambi, è destinato ad essere sostituito dal socialismo. Schumpeter rifiuta però la concezione di Marx delle istituzioni sociali come mere sovrastrutture dei rapporti di produzione e, soprattutto, non concorda con il filosofo di Treviri circa le cause per cui il capitalismo entrerà in crisi irreversibile. Per Schumpeter sarà, infatti, proprio il successo del capitalismo a renderne inevitabile il declino. Con il processo di distruzione creatrice che la caratterizza, l’economia borghese sostituisce i vecchi modi di produrre e pensare, promovendo lo sviluppo, ma distrugge anche i valori tipici dell’ancien regime, importante supporto alla stabilità. Soprattutto – e qui si giunge alla geniale intuizione di Schumpeter – mentre nella grande impresa capitalistica il ruolo dell’imprenditore, creativo e diretto all’innovazione, verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all’immobilismo dei managers, nella società si affermeranno, ad opera degli intellettuali, valori contrari allo sviluppo capitalistico, facendo sì che i capitalisti stessi prima si vergognino del proprio ruolo ed, infine, rinuncino ad esso. A quel punto, una qualsiasi forma di socialismo sarà inevitabile sbocco al capitalismo monopolistico ed alla sua eutanasia. Il passaggio al socialismo non avverrà, infatti, a mezzo di una rivoluzione violenta, come profetizzato dai marxisti e realizzato dai bolscevichi, ma con un processo graduale, per vie parlamentari – ogni accelerazione rivoluzionaria, come quella sovietica, avrebbe unicamente causato innumerevoli lutti – e darà vita ad un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo Stato. A proposito di quest’opera, Schumpeter dichiarò non aver inteso scrivere un manifesto politico (era, del resto, un conservatore e non nutriva alcuna simpatia per il socialismo), ma semplicemente un’analisi sociale. In sintonia con Marx su molti punti, Schumpeter sottolinea l’importanza dello spirito innovativo in campo economico, che è in grado di offrire benessere e ottenere il profitto come corrispettivo. L’economia si svolge per fasi: a quella prospera segue la fase di flessione e quindi quella di ripresa. Per Schumpeter il capitalismo, dopo aver distrutto tutte le altre formae mentis, alla fine distruggerà anche se stesso.
Il nostro autore afferma che il processo capitalistico tende alla eliminazione delle piccole e medie aziende, in un processo che lo porterà a negare se stesso:
“Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il concetto di proprietà, ne indebolisce la presa un tempo cosí forte – la presa nel senso del diritto legale e della capacità reale di trasformare ciò che si ha in ciò che si vuole, sia nel senso che il possessore del titolo è deciso a combattere, economicamente, fisicamente e politicamente per la “propria” azienda e per il suo controllo e a morire, se necessario, sui suoi gradini. L’evaporazione di quella che possiamo chiamare la sostanza materiale della proprietà – e la sua realtà visibile e tangibile – incide non solo sull’atteggiamento degli azionisti, ma anche su quello degli operai e del pubblico in genere. La proprietà smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista non esercita piú il fascino tipico della forma ancora vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà piú nessuno al quale veramente prema di difenderla – nessuno all’interno, e nessuno all’esterno dei confini dell’azienda-gigante” (Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Libri, Milano 1977, pp. 136-137).
L’ultima opera importante, Storia dell’analisi economica, uscì postuma, nel 1954, curata dalla vedova Elizabeth Buzzy e dagli allievi William Godwin e Paul Sweezy.
PIER PAOLO PASOLINI
“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti“.
VITA E OPERE
A cura di Biografieonline.it
Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo del 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. Il padre, di vecchia famiglia ravennate, di cui ha dissipato il patrimonio sposa Susanna nel dicembre del 1921 a Casarsa. Dopodiche’ gli sposi si trasferiscono a Bologna.
Lo stesso Pasolini dirà di se stesso: “Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della societa’ italiana: un vero prodotto dell’incrocio… Un prodotto dell’unita’ d’Italia. Mio padre discendeva da un’antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, cio’ non le impedi’ affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma” .
Nel 1925, a Belluno, nasce il secondogenito, Guido. Visti i numerosi spostamenti, l’unico punto di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. Pier Paolo vive con la madre un rapporto di simbiosi, mentre si accentuano i contrasti col padre. Guido invece vive in una sorta di venerazione per lui, ammirazione che lo accompagnerà fino al giorno della sua morte.
Nel 1928 è l’esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà perduto nel periodo bellico.
Ottiene il passaggio dalle elementari al ginnasio che frequenta a Conegliano. Negli anni del liceo dà vita, insieme a Luciano Serra, Franco Farolfi, Ermes Parini e Fabio Mauri, ad un gruppo letterario per la discussione di poesie.
Conclude gli studi liceali e, a soli 17 anni si iscrive all’Università di Bologna, facoltà di lettere. Collabora a “Il Setaccio”, il periodico del GIL bolognese e in questo periodo scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, “Poesie a Casarsa”.
Partecipa inoltre alla realizzazione di un’altra rivista, “Stroligut”, con altri amici letterati friulani, con i quali crea l’ “Academiuta di lenga frulana”.
L’uso del dialetto rappresenta in qualche modo un tentativo di privare la Chiesa dell’egemonia culturale sulle masse. Pasolini tenta appunto di portare anche a sinistra un approfondimento, in senso dialettale, della cultura.
Scoppia la seconda guerra mondiale, periodo estremamente difficile per lui, come si intuisce dalle sue lettere. Viene arruolato sotto le armi a Livorno, nel 1943 ma, all’indomani dell’8 settembre disobbedisce all’ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari spostamenti in Italia torna a Casarsa. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versuta, al di là del Tagliamento, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio. Ma l’avvenimento che segnerà quegli anni e’ la morte del fratello Guido, aggregatosi alla divisione partigiana “Osoppo”.
Nel febbraio del 1945 Guido venne massacrato, insieme al comando della divisione osavana presso le malghe di Porzus: un centinaio di garibaldini si era avvicinata fingendosi degli sbandati, catturando in seguito quelli della Osoppo e passandoli per le armi. Guido, seppure ferito, riesce a fuggire e viene ospitato da una contadina. Viene trovato dai garibaldini, trascinato fuori e massacrato. La famiglia Pasolini saprà della morte e delle circostanze solo a conflitto terminato. La morte di Guido avrà effetti devastanti per la famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e la madre diviene così ancora più stretto, anche a causa del ritorno del padre dalla prigionia in Kenia.
Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo una tesi intitolata “Antologia della lirica pascoliniana” e si stabilisce definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvassone, in provincia di Udine.
In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 si avvicina al PCI, cominciando la collaborazione al settimanale del partito “Lotta e lavoro”. Diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio nel partito e, soprattutto, dagli intellettuali comunisti friulani. Le ragioni del contrasto sono innanzitutto linguistiche. Gli intellettuali “organici” scrivono servendosi della lingua del novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua del popolo senza fra l’altro cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò risulta inammisibile: molti comunisti vedono in lui un sospetto disinteresse per il realismo socialista, un certo cosmopolitismo, e un’eccessiva attenzione per la cultura borghese. Anche la sua omosessualità è mal vista, a tal punto che Pasolini è espulso dal partito.
Questo, di fatto, è l’unico periodo in cui Pasolini si sia impegnato attivamente nella lotta politica, anni in cui scriveva e disegnava manifesti di denuncia contro il costituito potere democristiano.
Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne avvenuta, secondo l’accusa nella frazione di Ramuscello: è l’inizio di una delicata ed umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Dopo questo processo molti altri ne seguirono, ma è lecito pensare che se non vi fosse stato questo primo procedimento gli altri non sarebbero seguiti.
E’ un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la DC, e Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale rappresenta un bersaglio ideale. La denuncia per i fatti di Ramuscello viene ripresa sia dalla destra che dalla sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949.
Pasolini si trova proiettato nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. La risonanza a Casarsa dei fatti di Ramuscello avrà una vasta eco. Davanti ai carabinieri cerca di giustificare quei fatti, intrinsecamente confermando le accuse, come un’esperienza eccezionale, una sorta di sbandamento intellettuale: ciò non fa che peggiorare la sua posizione: espulso dal PCI, perde il posto di insegnante, e si incrina momentaneamente il rapporto con la madre. Decide allora di fuggire da Casarsa, dal suo Friuli spesso mitizzato e insieme alla madre si trasferisce a Roma.
I primi anni romani sono difficilissimi, proiettato in una realtà del tutto nuova e inedita quale quella delle borgate romane. Sono tempi d’insicurezza, di povertà, di solitudine.
Pasolini, piuttosto che chiedere aiuto ai letterati che conosce, cerca di trovarsi un lavoro da solo. Tenta la strada del cinema, ottenendo la parte di generico a Cinecittà, fa il correttore di bozze e vende i suoi libri nelle bancarelle rionali.
Finalmente, grazie al poeta il lingua abruzzese Vittori Clemente trova lavoro come insegnante in una scuola di Ciampino.
Sono gli anni in cui, nelle sue opere letterarie, trasferisce la mitizzazione delle campagne friulane nella cornice disordinata della borgate romane, viste come centro della storia, da cui prende spunto un doloroso processo di crescita. Nasce insomma il mito del sottoproletariato romano.
Prepara le antologie sulla poesia dialettale; collabora a “Paragone”, una rivista di Anna Banti e Roberto Longhi. Proprio su “Paragone”, pubblica la prima versione del primo capitolo di “Ragazzi di vita”.
Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria del giornale radio, accanto a Carlo Emilio Gadda, Leone Piccioni e Giulio Cartaneo. Sono definitivamente alle spalle i difficili primi anni romani. Nel 1954 abbandona l’insegnamento e si stabilisce a Monteverde Vecchio. Pubblica il suo primo importante volume di poesie dialettali: “La meglio gioventù”.
Nel 1955 viene pubblicato da Garzanti il romanzo “Ragazzi di vita”, che ottiene un vasto successo, sia di critica che di lettori. Il giudizio della cultura ufficiale della sinistra, e in particolare del PCI, è però in gran parte negativo. Il libro viene definito intriso di “gusto morboso, dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto, del torbido..”
La Presidenza del Consiglio (nella persona dell’allora ministro degli interni, Tambroni) promuove un’azione giudiziaria contro Pasolini e Livio Garzanti. Il processo dà luogo all’assoluzione “perche’ il fatto non costituisce reato”. Il libro, per un anno tolto alle librerie, viene dissequestrato. Pasolini diventa però uno dei bersagli preferiti dai giornali di cronaca nera; viene accusato di reati al limite del grottesco: favoreggiamento per rissa e furto; rapina a mano armata ai danni di un bar limitrofo a un distributore di benzina a S. Felice Circeo.
La passione per il cinema lo tiene comunque molto impegnato. Nel 1957, insieme a Sergio Citti, collabora al film di Fellini, “Le notti di Cabiria”, stendendone i dialoghi nella parlata romana, poi firme sceneggiature insieme a Bolognini, Rosi, Vancini e Lizzani, col quale esordisce come attore nel film “Il gobbo” del 1960.
In quegli anni collabora anche alla rivista “Officina” accanto a Leonetti, Roversi, Fortini, Romano’, Scalia. Nel 1957 pubblica i poemetti “Le ceneri di Gramsci” per Garzanti e, l’anno successivo, per Longanesi, “L’usignolo della Chiesa cattolica”. Nel 1960 Garzanti pubblica i saggi “Passione e ideologia”, e nel 1961 un altro volume in versi “La religione del mio tempo”.
Nel 1961 realizza il suo primo film da regista e soggettista, “Accattone”. Il film viene vietato ai minori di anni diciotto e suscita non poche polemiche alla XXII mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige “Mamma Roma”. Nel 1963 l’episodio “La ricotta” (inserito nel film a più mani “RoGoPaG”), viene sequestrato e Pasolini e’ imputato per reato di vilipendio alla religione dello Stato. Nel ’64 dirige “Il vangelo secondo Matteo”; nel ’65 “Uccellacci e Uccellini”; nel ’67 “Edipo re”; nel ’68 “Teorema”; nel ’69 “Porcile”; nel ’70 “Medea”; tra il ’70 e il ’74 la triologia della vita, o del sesso, ovvero “Il Decameron”, “I racconti di Canterbury” e “Il fiore delle mille e una notte”; per concludere col suo ultimo “Salo’ o le 120 giornate di Sodoma” nel 1975.
Il cinema lo porta a intraprendere numerosi viaggi all’estero: nel 1961 e’, con Elsa Morante e Moravia, in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania (da cui trarrà un documentario dal titolo “Sopralluoghi in Palestina”). Nel 1966, in occasione della presentazione di “Accattone” e “Mamma Roma” al festival di New York, compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti; rimane molto colpito, soprattutto da New York. Nel 1968 e’ di nuovo in India per girare un documentario. Nel 1970 torna in Africa: in Uganda e Tanzania, da cui trarrà il documentario “Appunti per un’Orestiade africana”.
Nel 1972, presso Garzanti, pubblica i suoi interventi critici, soprattutto di critica cinematografica, nel volume “Empirismo eretico”.
Essendo ormai i pieni anni settanta, non bisogna dimenticare il clima che si respirava in quegli anni, ossia quello della contestazione studentesca. Pasolini assume anche in questo caso una posizione originale rispetto al resto della cultura di sinistra. Pur accettando e appoggiando le motivazioni ideologiche degli studenti, ritiene in fondo che questi siano antropologicamente dei borghesi destinati, in quanto tali, a fallire nelle loro aspirazioni rivoluzionarie.
Tornando ai fatti riguardanti la produzione artistica, nel 1968 ritira dalla competizione del Premio Strega il suo romanzo “Teorema” e accetta di partecipare alla XXIX mostra del cinema di Venezia solo dopo che, come gli viene garantito, non ci saranno votazioni e premiazioni. Pasolini è tra i maggiori sostenitori dell’Associazione Autori Cinematografici che si batte per ottenere l’autogestione della mostra. Il 4 settembre il film “Teorema” viene proiettato per la critica in un clima arroventato. L’autore interviene alla proiezione del film per ribadire che il film è presente alla Mostra solo per volontà del produttore ma, in quanto autore, prega i critici di abbandonare la sala, richiesta che non viene minimamente rispettata. La conseguenza è che Pasolini si rifiuta di partecipare alla tradizionale conferenza stampa, invitando i giornalisti nel giardino di un albergo per parlare non del film, ma della situazione della Biennale.
Nel 1972 decide di collaborare con i giovani di Lotta Continua, ed insieme ad alcuni di loro, tra cui Bonfanti e Fofi, firma il documentario 12 dicembre. Nel 1973 comincia la sua collaborazione al “Corriere della sera”, con interventi critici sui problemi del paese. Presso Garzanti, pubblica la raccolta di interventi critici “Scritti corsari”, e ripropone le poesia friulana in una forma del tutto peculiare sotto il titolo di “La nuova gioventù”.
La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romane ad Ostia, in un campo incolto in via dell’idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. Sarà Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini. Nella notte i carabinieri fermano un giovane, Giuseppe Pelosi, detto “Pino la rana” alla guida di una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà proprio di Pasolini. Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, e di fronte all’evidenza dei fatti, confessa l’omicidio. Racconta di aver incontrato lo scrittore presso la Stazione Termini, e dopo una cena in un ristorante, di aver raggiunto il luogo del ritrovamento del cadavere; lì, secondo la versione di Pelosi, il poeta avrebbe tentato un approccio sessuale, e vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente: da qui, la reazione del ragazzo.
Il processo che ne segue porta alla luce retroscena inquietanti. Si paventa da diverse parti il concorso di altri nell’omicidio ma purtroppo non vi sarà arriverà mai ad accertare con chiarezza la dinamica dell’omicidio. Piero Pelosi viene condannato, unico colpevole, per la morte di Pasolini. Non è difficile capire come l’assassinio pasoliano fu un assassinio politico, perpetrato ai danni di un critico scomodo (un “parresiasta”, per dirla con Foucault) per chi stava al potere.
Il corpo di Pasolini è sepolto a Casarsa.
IL PENSIERO
A cura di Andrea Pesce
Pier Paolo Pasolini ha lasciato alla società civile e, in particolare, a quella italiana, un debito che difficilmente verrà saldato. Colpevolizzato e tradito durante la sua esistenza, emarginato e condannato dalla persecuzione piccolo-borghese (attraverso “armi” come polizia e magistratura collezionò un numero impressionante di condanne penali per presunte offese alla religione di Stato e al comune senso del pudore, oltraggi che, secondo i suoi persecutori, erano contenuti nelle sue opere a carattere letterario e nei suoi film), a trent’anni di distanza dalla sua morte il nostro Paese, che dovrebbe ricordarlo come una delle sue più grandi espressioni culturali di tutti i tempi, grazie alla stupidità e al clownesco delirio della classe politica attualmente al potere, riesce a trovare il modo di obliare cotanta grandezza tramite le vicissitudini di casa Carrisi e i penosi litigi tra vip nella sempre più immensa discarica televisiva. Un solo dato a titolo di esempio: il film-testamento del poeta “Salò o le 120 giornate di Sodoma” non è mai stato trasmesso da una Tv nazionale e, probabilmente, non sarà data la possibilità di vederlo ancora per un numero imprecisato di anni. “Critica” è il miglior modo per etichettare il pensiero pasoliniano: “critica” è una parola che deriva dal greco krìno, col significato originario di “giudicare”; in seguito, con Immanuel Kant, la “critica” diventa strumento con cui la ragione prende coscienza dei propri limiti e possibilità, limitando la conoscenza al dato fenomenico e non alla “cosa in sé”, confine oltre il quale la ragione non può inoltrarsi. Questa tesi sarà duramente attaccata da Hegel e il suo “idealismo”. Ma la parola “critica” può anche essere letta in un altro modo: come un invito per il filosofo al rischio, alla messa in discussione di certezze acquisite, al non farsi intimidire dal potere e, in ultima analisi, all’esporsi personalmente senza mediazioni nella ricerca della verità: in quest’accezione, erano stati critici Socrate e Diogene il cinico. In questo senso Pasolini può essere considerato un “sincretista”, un “filosofo” che, utilizzando gli strumenti a lui concessi dalla cultura del suo tempo, e attingendo al patrimonio millenario delle culture precedenti (soprattutto dai miti greci), ha saputo comprendere e trasmettere ai suoi contemporanei il molteplice e complesso svilupparsi delle dinamiche sociali, politiche ed economiche. Abbiamo utilizzato la parola “sincretismo” per l’approccio critico pasoliniano, che non va confuso con un disorganico miscuglio di discipline dalle quali attingere all’occorrenza. Pasolini conosceva bene il potenziale delle scienze umane per la comprensione della realtà. Grande conoscitore del pensiero di Karl Marx (del quale eredita soprattutto l’attenzione per le classi subalterne e la critica programmatica di ogni ideologia e di ogni falsa coscienza), di Antonio Gramsci (al quale dedica la famosa raccolta di poesie “Le ceneri di Gramsci”) egli sente fortemente l’esigenza di rinnovare e completare il marxismo con tematiche psicoanalitiche, con argomenti sociologici, antropologici e, non da ultimi, linguistici e semiologici. Il tema non è nuovo. Questa metodologia era già stata applicata per lo studio della società tardo-moderna e capitalistica dai teorici della Scuola di Francoforte, istituto fondato nel 1924 e inizialmente diretto da Karl Grünberg. Nel 1930 esso passerà sotto la direzione di Max Horkheimer e nel 1932 uscirà la rivista dell’Istituto per la Ricerca sociale in cui vi sono contributi di Grossman, Pollock, Löwenthal, Adorno, Fromm. In questa scuola confluiranno i pensieri di molte tra le più acute e lungimiranti menti della filosofia contemporanea: oltre ai filosofi succitati ricordiamo: Herbert Marcuse, Mandelbaum, Neumann, Kircheimer, Bettelheim, Benjamin, Aron, Bowra, Fenichel, Groethuysen, Mead e molti altri. La “teoria critica” è costituita da un particolare intreccio di idealismo e di materialismo. Partendo dall’identità tra reale e razionale fatta valere da Hegel – “ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale” – Marcuse sostiene che quanto vi è di irrazionale nella realtà non può resistere alla forza critica e dissolvitrice della ragione, portando la realtà a divenire razionale. Dall’idealismo la teoria critica ricava l’istanza della ragione, ossia che questa deve tradursi nella realtà, mentre dal materialismo, ricava l’idea che la realtà da trasformare razionalmente è il complesso dei rapporti economico-sociali tesi a “creare un’organizzazione sociale in cui gli individui regolino in comune la propria vita secondo i loro bisogni”[1]. In sostanza, da una parte essa non accetta i dati di fatto esposti dalle teorie scientifiche, ponendosi in una sfera sicuramente antipositivistica con atteggiamenti anche utopistici, dall’altra è realistica nella sua tendenza a ricercare, all’interno della sfera sociale, quelle tendenze che possano realizzare la ragione. Gli studiosi francofortesi si erano posti il problema di come descrivere la sconfitta del movimento operaio tedesco (aspetto che aveva smentito le previsioni di Marx) e l’avvento del totalitarismo in Germania, fenomeno che trovò il consenso in una grandissima parte della classe operaia. Il meccanismo psicologico che determina l’assoggettamento dei più deboli nei confronti dell’autoritarismo nei regimi totalitari, sarà un tema a cui Pasolini dedicherà molte pagine, senz’altro con l’ausilio degli studi dei teorici francofortesi. Inoltre Pasolini deve probabilmente aver letto la ricerca condotta dallo psicanalista austriaco Wilhem Reich “Psicologia di massa del fascismo” del 1933, testo in cui vengono minuziosamente analizzate le dinamiche socio-psicologiche nelle masse, determinanti l’ascesa del fascismo in Europa. Reich, dissidente con S. Ferenczi e O. Rank dalla scuola di Sigmund Freud (vengono definiti psicoanalisti della “seconda generazione”), fu inizialmente sostenitore dell’azione combinata tra marxismo e psicanalisi per la comprensione delle dinamiche sociali. Coniando il termine di “sessuo-economia”, egli introdusse in ambito sociologico il concetto secondo il quale le energie libidiche dell’individuo vengono influenzate (ingorgate o scaricate orgiasticamente) da fattori psicologici, biologici ed economici; successivamente si allontanò da tale concezione rifiutando ogni ipotesi di indagine combinata, lasciando l’aspetto psicologico individuale alla psicanalisi e l’aspetto sociale alla descrizione marxista. Quello che preme sottolineare nel saggio di Reich è l’impostazione data alla sua indagine. La responsabilità dell’ascesa delle dittature fasciste è in larga misura da attribuire al ceto medio, alla borghesia (classe che, secondo Marx, cerca di conquistarsi, di annettersi tutte le altre espressioni sociali, soggiogandole col suo modello di esistenza) e alla sua disposizione psicologica ad essere autoritariamente gestita. Riportiamo alcune frasi estrapolate dal libro di Reich particolarmente significative in questo contesto che ci permetteranno di addentrarci nel pensiero di Pasolini: “Le mie esperienze mediche fatte con molte persone appartenenti ai più disparati strati sociali […] mi avevano insegnato che il fascismo non è altro che l’espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media […] Il fascismo, nella sua forma più pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano medio. […] La mentalità fascista è la mentalità dell’ “uomo della strada” mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi ad un’autorità e allo stesso tempo ribelle. Non è casuale che tutti i dittatori fascisti escano dalla sfera sociale del piccolo uomo della strada reazionario. […] Oggi è chiaro a chiunque che il “fascismo” non è l’opera di un Hitler o di un Mussolini, ma che è l’espressione della struttura irrazionale dell’uomo di massa”[2]. Se ne erano già accorti anche i gerarchi nazisti. Goebbels scriveva nei suoi diari che le masse sono molto più primitive di quanto possiamo immaginare: la propaganda dev’essere essenzialmente semplice e basata sul meccanismo della “ripetizione”, insistente e banale per far sì che i concetti (soprattutto i più idioti) si cristallizzino nella mente delle persone; questa tecnica è oggi abusata dalle grandi industrie della pubblicità e dai partiti politici che dispongono direttamente di grandi canali di comunicazione come televisioni e giornali. È inoltre degno di nota che nel film a episodi di autori vari “RoGoPaG” (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti) del 1963, nel mediometraggio diretto da Pasolini dal titolo “La ricotta”, il regista marxista interpretato da Orson Welles, incalzato dalle domande di un noioso giornalista durante la scena della crocifissione di Stracci, affermi: “ Ma lei non sa cosa è un uomo medio? È un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista!”. Queste affermazioni, formulate dall’alter ego di Pasolini in questa finzione filmica, potremmo considerarle una sintesi esasperata del pensiero reichiano. A conferma di questa ipotesi, va ricordato che le reazioni nei confronti della pellicola da parte dei benpensanti borghesi furono violente. Il ceto medio si sentì ancora una volta offeso e fece intervenire i suoi strumenti di repressione: il 1º marzo 1963 il film venne sequestrato per “vilipendio alla religione di Stato” e solo il 6 maggio 1964 la Corte d’appello di Roma assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”. Un’altra analogia storica che può avvicinare il pensiero di Pasolini (oltre al suo odio nei confronti della mediocrità e del conformismo) alla Scuola di Francoforte, è sicuramente data dalla sanguinosa dittatura di Mussolini che sconvolse l’Italia nel ventennio fascista e, parallelamente, l’altrettanto barbarica e feroce oppressione nazista in Germania. Adorno, Horkheimer, Marcuse ed altri esponenti di spicco del pensiero critico furono costretti dai terribili eventi a fuggire negli Stati Uniti, dove accentuarono ulteriormente il loro pessimismo, sentimento condensato in opere memorabili come “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno, pubblicato per la prima volta ad Amsterdam nel 1947, o “Eros e civiltà” di Marcuse, del 1955. Nella celebre opera di Horkheimer e Adorno, il tema centrale è “l’autodistruzione dell’illuminismo” che rappresenterebbe il declino dell’uomo e non il suo accrescimento nei confronti della natura, in una continua degradazione e asservimento alla “ragione strumentale” che ottunde le capacità critiche dell’essere umano, ridotto a semplice strumento dell’economia capitalistica. Scrivono i due autori: “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura. […] Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli”[3]. Nato per liberare l’uomo, l’illuminismo si è perversamente capovolto (e in ciò sta la sua dialettica) in ciò contro cui combatteva: l’irrazionalità, la violenza, la barbarie. Pasolini fa un salto in avanti chiedendosi se sia possibile conciliare le offerte sempre più superflue dateci dalla tecnologia (intesa anche come applicazione scientifica) e le esigenze degli strati sociali più deboli e, per questo motivo, maggiormente a rischio di sottomissione. La questione è posta in un breve saggio dal titolo “Sviluppo e progresso” del 1973, nel quale vengono esaminate le due parole sul piano socio-linguistico:
“Vediamo: la parola ‘sviluppo’ ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. […] Chi vuole infatti lo ‘sviluppo’? […] è evidente: a volere lo ‘sviluppo’ in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. […] gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo ‘sviluppo’ (questo ‘sviluppo’). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di ‘poveri’, di ‘lavoratori’, di ‘risparmiatori’, di ‘soldati’, di ‘credenti’. La ‘massa’ è dunque per lo ‘sviluppo’: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. […] Chi vuole, invece, il ‘progresso’? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto, attraverso il ‘progresso’: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato”.
Sono temi ancora attualissimi se si considera il fatto che esiste una grandissima parte di umanità costretta alla fame a causa dell’egoistico e irrazionale “sviluppo” col quale dobbiamo convivere. Pasolini vide il “terzo mondo” non a migliaia di chilometri di distanza, ma lo trovò, si può dire, sotto casa, nel sottoproletariato urbano delle borgate romane e tra i braccianti del meridione italiano. In queste realtà, la sensibilità del poeta, abbinata alla sua grande preparazione intellettuale, potè esprimersi in profonde analisi sociali e antropologioche, mettendo in luce aspetti che erano sfuggiti ai sociologi di professione. In queste descrizioni, Pasolini sembra avvicinarsi alle tesi di Marcuse, soprattutto de “L’uomo a una dimensione” e “L’ideologia della società industriale avanzata” (1964), opere in cui il filosofo tedesco affidava la speranza di una liberazione dell’uomo dalla repressione e strumentalizzazione delle tecnocrazie agli emarginati, ai reietti e ai poveri del terzo mondo, e non a un proletariato che ormai era al servizio della classe dominante e incapace di fare la rivoluzione. Così si esprimeva Marcuse:
“Tuttavia, al di sotto della base conservatrice, vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico. […] la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato. Quando si riuniscono e scendono nelle strade, senza armi, senza protezione, per chiedere i più elementari diritti civili, essi sanno di affrontare cani, pietre e bombe, galera, campi di concentramento, persino la morte”[4].
Le parole finali di questo pezzo di Marcuse sono potentissime. Anche Pasolini, non meno di Marcuse, non nutre grandi speranze nel proletariato, che ormai s’è a tal punto abituato ai meccanismi della società del consumo (la cui “bontà” gli viene inculcata dai mass media) da non saper più opporre ad essa alcuna resistenza. È piuttosto ai gruppi sottoproletari, senza speranza e senza cultura, che bisogna volgere lo sguardo: è in quest’ottica che si spiega perché il nostro autore, all’indomani degli scontri del Sessantotto, si sia schierato al fianco dei poliziotti e contro i “figli di papà” che protestavano:
“Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. […]
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici” (“Il PCI ai giovani!”).
Pasolini era un fervido sostenitore dei valori nati nel nostro paese dalla guerra di Liberazione dai nazi-fascisti, conquista che fu determinante per lo sviluppo democratico dell’Italia attraverso la nascita della Costituzione e dei diritti che questa carta tutela. Il poeta di Casarsa, che aveva conosciuto direttamente i protagonisti di questa straordinaria pagina della storia italiana (contadini, operai, donne, giovani appartenenti agli strati più poveri del paese), vide compiersi sotto i suoi occhi quello che egli definì “il genocidio”, ossia l’annientamento di larghe zone della società, a causa della forma di neo-capitalismo detta “consumismo”, momento che culminò in Italia nei primi anni ’60 col cosiddetto “boom economico”. In un intervento alla Festa dell’Unità di Milano del 1974, egli parlò di vera e propria “estinzione culturale”, per via dell’acculturazione operata dalla borghesia e il propagarsi dei suoi modelli di edonismo e di consumo. Anche a livello linguistico Pasolini argomenta che l’operazione svolta dalla televisione, intesa come strumento di diffusione degli ideali borghesi, ha ucciso la vitalità linguistica dialettale (ne abbiamo un esempio col romanesco contenuto nel suo film del 1960 “Accattone”), trasformando i giovani in vittime di una specie di “nevrosi afasica” costituita da mugolii, spintoni, sghignazzi o da altre forme primitive e rozze di comunicazione. In questo senso, Pasolini può dire che la “civiltà dei consumi” è riuscita a portare a compimento la tragica impresa intrapresa ma non portata a termine dal fascismo:
“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”.
Ora, tutti questi sforzi, sia dei teorici francofortesi e sia dello stesso Pasolini, hanno messo in luce i meccanismi che si innescano a livello di psicologia di massa, e che risultano essere determinanti per l’ascesa di vecchi e nuovi regimi totalitari. Ma, nello specifico di una realtà nazionale, è possibile individuare nettamente le responsabilità dirette in queste derive politico-sociali? La risposta è sì. Pasolini fu forse il primo, in questo paese, ad accusare un’intera classe dirigente di essere la causa primaria del genocidio culturale del quale abbiamo trattato, anche a prezzo di terribili spargimenti di sangue (fu anche il primo ad accusare la Democrazia Cristiana di essere la diretta prosecuzione del regime fascista in Italia). Il pezzo di Pasolini apparso il 14 novembre 1974 sul Corriere della sera inizia in questo modo: “IO SO. […] Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Proprio in quanto intellettuale, Pasolini diceva di sapere tutto ciò e aggiungeva: “il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.”. Il 28 agosto 1975 (due mesi prima della morte) viene pubblicato su “Il mondo” l’articolo dal titolo “Bisognerebbe processare i gerarchi Dc”, in cui il nostro autore fa nomi e cognomi dei “fascisti” della Democrazia Cristiana:
“Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso per correttezza qualche presidente della Repubblica) dovrebbero essere, come Nixon, trascinati sul banco degli imputati. […] E quivi accusati di una quantità sterminata di reati […]: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punire gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne, responsabilità dell’esplosione ‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.
Questa acutissima radiografia dell’Italia che, dopo circa vent’anni conoscerà tangentopoli e il marciume dei partiti che a lungo furono protagonisti della scena politica (in primis, Democrazia Cristiana e Socialisti di Bettino Craxi), è, secondo alcune interpretazioni della sua tragica morte, costata molto cara al regista. Anche noi non abbiamo le prove, almeno per ora. Resta indubbio che le posizioni pasoliniane furono causa di pesanti minacce nei confronti dello scrittore da frange di estrema destra o da chi lo considerava un povero depravato omosessuale. Pasolini, anche senza minacce dirette alla sua persona, era sufficientemente intelligente e sensibile per avvertirlo. Il suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, è un ennesimo atto d’accusa alla violenza della società capitalistica e alla falsa morale borghese che, senza pietà, impone il suo essere nella negazione dei diritti elementari della vita. Agli sciagurati “ospiti” della villa di Salò, vittime delle nefandezze di quattro “Signori” (simbolica rappresentazione dei quattro Poteri: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario ed economico, autorità verso le quali l’umanità vive da sempre in uno stato di soggezione) viene imposto di nutrirsi dei propri ed altrui escrementi. Questa orripilante costrizione è però offerta su vassoi luccicanti e cucchiai d’argento, atroci specchi della società dei consumi.
NOTE
[1] H. Marcuse, Cultura e società, Torino, 1969, p. 94.
[2] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Milano, Mondadori, 1974, p. 11, 12,17.
[3] M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1967, p. 11, 17, 21.
[4] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1991, p. 265.
ERNESTO DE MARTINO
“Potrà essere lecito sbagliare nel giudizio: non giudicare non è lecito. Potrà esser lecito agir male: non operare non è lecito” (Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, Bari 1941, p. 13).
Ernesto De martino nacque a Napoli il 1 dicembre 1908 da Ernesto, ingegnere delle Ferrovie dello Stato, e da Gina Jaquinangelo.
All’università di Napoli segui la scuola di Adolfo Omodeo, con cui si laureò nel 1932 con una tesi in storia delle religioni e che lo introdusse nella cerchia di Benedetto Croce. Della filosofia crociana, anche attraverso l’insegnamento dell’Omodeo, De Martino assorbì l’indirizzo storicista che difenderà fino all’ultimo con tenacia, pur sviluppandolo e integrandolo con apporti speculativi eterogenei, e ampliandone l’applicazione a settori praticamente esclusi dal Croce, come la storia delle religioni e l’etnologia. Lì De Martino allargò la prospettiva della speculazione crociana fin dal suo primo libro, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (Bari 1941), che segnò l’inizio di una laboriosa e metodica riflessione critica nel campo delle teorie etnologiche dominanti in ambito internazionale. Le varie correnti di pensiero, dal prelogismo di L. Lèvy-Bruhl, al sociologismo di Durkheim, alla scuola di Vienna di Wilhelm Schmidt con la sua teoria storico-culturale o diffusionista, al funzionalismo di Malinowski in Gran Bretagna, fino all’appendice dell’antropologia applicata statunitense, venivano passate al vaglio di un pensiero critico che intendeva dimostrarne un comune presupposto antistoricista – per il de Martino “naturalistico” – dichiarato o implicito.
Scrive de Martino:
“La ricerca etnologica è condotta, di solito, naturalisticamente. […] La presente raccolta di saggi intende rivendicare il carattere storico dell’etnologia, e limitare il procedimento naturalistico all’eurisi filologica, o al pratico ordinamento dei fatti in attesa di una storiografia che sarà”[1].
Lo storicismo crociano è dunque assunto come bussola con la quale orientare la ricerca entologica.
Il contatto con Raffaele Pettazzoni, che a cominciare dal 1934 ne pubblicava vari contributi nella rivista da lui fondata e diretta, “Studi e Materiali di Storia delle religioni”, maturò e orientò sempre più gli interessi del de Martino verso l’etnologia religiosa e la storia delle religioni (in cui conseguirà la libera docenza rispettivamente nel 1952 e nel 1956). Particolare impegno egli pose fin dalla prima fase della sua attività di studioso nell’affrontare i problemi interpretativi – connessi con i fenomeni di magia, a ciò spinto anche da un suo preliminare interesse psicologico.
A questa prima fase di ricerche appartengono infatti vari contributi che rivelano precisi interessi per la metapsichica, il magismo e i fenomeni sciamanici (Percezione extra sensoriale e magismo etnologico, ibid., XVIII [1942], pp. 1-19, e XIX-XX [1943-1946], pp. 31-84; Lineamenti di etnometa psichica, ibid., XVIII [1942]. pp. 113-139; Di alcune condizioni delle sedute metapsichiche alla luce del magismo sciamanistico, in Rivista di antropologia, XXXIV [1942-1943], pp. 479-490).
In questo senso il de Martino si dimostrava pionieristicamente avviato ad affrontare temi che avrebbero, ma solo più tardi in Italia, sollecitato, entro gli ambienti psichiatrici, crescenti contatti e rapporti con l’etnologia, così da sviluppare una nuova branca autonoma, nell’ambito delle discipline psichiatriche, che avrebbe preso corpo nella psichiatria transculturale o etnopsichiatria.
Ne Il mondo magico (Torino 1948) – primo volume della collana di studi religiosi, etnologici e psicologici diretta da C. Pavese e poi dallo stesso de Martino – egli legava vistosamente i problemi d’interpretazione dei mondi culturali “primitivi” di livello etnologico, con i problemi d’interpretazione riguardanti la realtà dei poteri magici in generale. Qui per la prima volta il de Martino prendeva le distanze dal crocianesimo ortodosso sostenendo la tesi della storicizzabilità delle categorie crociane.
Contro la filosofia implicitamente etnocentrica del Croce, che ignorava o poneva in parentesi i mondi culturali delle società “primitive” extra occidentali, egli rivalutava il mondo culturale di magismo delle società tradizionali, che faceva oggetto di una autonoma problematica storiografica.
Lo “storicismo pigro”[2] e “sermoneggiante”[3] dei “Crociani”, dogmatico e intento a tramutare ogni verità in verità spirituale e statica, è assolutamente incapace di guardare al di là della civiltà occidentale, nei cui confini resta imprigionato.
Il mondo della magia, di cui le società “primitive” offrono imponenti manifestazioni ch’egli assume a documento, ha per lui una sua realtà precategoriale ed è visto come una primordiale rappresentazione del mondo, funzionale al bisogno – per usare i termini da lui adottati – di “garantire la presenza”. Sensibile fin da quest’opera è l’influenza dell’esistenzialismo di Martin Heidegger, da cui egli mutua alcuni concetti-base e in parte il linguaggio (è heideggeriana la nozione di “esserci”), introducendo nel campo dell’antropologia religiosa nozioni quali quella di “crisi della presenza” e quella di “riscatto dalla crisi”: un riscatto attuato, secondo il de Martino, per il tramite del rituale magico religioso, inteso come tecnica. di superamento della crisi e della “angoscia della storia”. In quell’epoca dai contorni ben definiti che è il “mondo magico”, l’esserci nel mondo non è certo né garantito, ma è piuttosto “una realtà condenda”[4], sempre esposta al rischio della labilità e dell’annullamento, a cimenti tremendi che “possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’”[5], al pericolo di perdere l’anima e di non esserci più. Esattamente in questo risiede il “dramma storico” che caratterizza il mondo magico. E la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci è l’angoscia che accompagna sempre e di nuovo l’uomo di quel mondo. A questa prospettiva erano approdati anche i cosiddetti “irrazionalisti” (Lévy-Bruhl, Klages, Dacqué), che però ad essa si erano arrestati, senza accorgersi che il mondo magico è anche percorso dallo sforzo di sottrarsi al rischio di non esserci. In vista di ciò, è la magia a elaborare sempre nuove strategie (guarentigie, compromessi, compensi) per garantire la presenza umana nel mondo, per agire in esso anziché essere agiti da esso. In particolare, sventare il rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che De Martino chiama “l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone”, il quale vive la dissoluzione e il riscatto della sua presenza anche per gli altri. Questa concezione della presenza è antitetica rispetto a quella della cultura occidentale, per la quale l’“io” è un dato che cade al di là di ogni possibile dubbio: dai Greci in poi, passando per il Cristianesimo, siamo abituati a considerare la presenza come l’esserci elementare, fondato e condizionato dal principio – tematizzato da Immanuel Kant – dell’atto della funzione sintetica trascendentale: così intesa, la presenza si mantiene in quanto capace di trascendere, attraverso l’atto, qualsiasi contenuto esistenziale, qualsiasi accadimento emozionale della vita individuale o collettiva. A differenza di noi, che riportiamo immediatamente tutte le nostre percezioni a un “io” trascendentale e stabile, gli uomini del mondo magico non operano tale sintesi e per loro, in forza di questo mancato riferimento a un’unità, i contenuti esperienziali diventano pericolosi per la presenza, in quanto caotici e disordinati, e devono dunque essere disciplinati attraverso la magia. In particolare, la crisi è plasmata e controllata attraverso la ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono il patrimonio collettivo e storico del “così si fa”.
Scrive de Martino:
“L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza”[6].
Benedetto Croce sottopose a una critica impietosa l’opera di de Martino, attaccando soprattutto quell’ammissione demartiniana della storicità delle categorie che, di fatto, segnava il punto di maggior rottura con l’ortodosso storicismo crociano[7]. L’errore imperdonabile commesso da de Martino è da Croce ravvisato in un indebito capovolgimento della prospettiva del “vero” storicismo: dimenticandosi che è lo spirito a creare la storia, de Martino ha ammesso l’esatto contrario, facendo dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante avanzare. L’aspetto forse più interessante di questa querelle è che Croce, nel formulare la sua condanna del metodo demartiniano, lo accosta alla “prequarantottesca spiritosa invenzione”[8] del marxismo, che, interessato a trasformare il mondo anziché a conoscerlo, ha storicizzato le categorie interpretative.
Sviluppando la sua speculazione etnologico-religiosa, il de Martino si avvale sempre più della psicologia e dell’ausilio offerto dalla sua conoscenza delle scienze psichiatriche, secondo un criterio che sarà da lui stesso più tardi ripreso con il massimo impegno, nell’ultimo periodo della sua attività di studioso, cioè nell’opera cui attendeva prima della prematura morte e che sarebbe stata pubblicata postuma, La fine del mondo. In ciò si rivela una continuità di pensiero e di interessi che procede dai primissimi contributi fino agli ultimi e più impegnativi, attraverso una fase intercalare, pur essa di fondamentale importanza, ma relativamente autonoma e che abbraccia il periodo delle opere “meridionalistiche. Una svolta decisiva nell’esistenza e nell’attività del de Martino fu determinata dalla sua esperienza di militante nei partiti della Sinistra e dal proprio impegno ideologico-sociale.
Dal 1945 egli si trovò ad agire, come segretario di federazione del Partito socialista (PSIUP poi PSI), nell’Italia meridionale: a Bari, Molfetta, poi Lecce (qui in veste di commissario).
Dal 1950 egli aderiva al Partito comunista italiano. Il contatto diretto con i contadini del Sud, e con i problemi del Meridione, impresse un marchio originale sulla personalità dello studioso, che in quell’esperienza ricevette lo stimolo a muoversi verso un’etnologia o antropologia fatta di ricerche sul terreno. Da allora fu spinto ad assumere come problema centrale della propria ricerca l’analisi del folklore religioso nella cultura contadina del Sud.
Se il Meridione d’Italia costituiva da tempo un problema nella coscienza di storici, economisti, sociologi, nessuno aveva fin allora affrontato nella sua autonomia il problema della “cultura” contadina del Sud, vista come complessa e specifica concezione del mondo e collocata sul fondo di una società storicamente determinata. lì de Martino sentì l’urgenza di colmare questo vuoto.
Oltre che dall’esperienza della militanza politica, egli fu indotto a questa scelta anche dalla convergenza di alcuni altri fattori o eventi: in particolare l’uscita del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi nel 1945 e il conseguente incontro con Levi; l’incontro con Rocco Scotellaro, poeta-contadino lucano, e infine l’uscita dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci nel 1948.
Scoperta – anche attraverso Levi e Scotellaro – la drammatica umanità di quel mondo subalterno, il de Martino si avviò al suo compito di analisi e interpretazione, valendosi degli strumenti offertigli dalla sua consapevolezza di storico, dalle tecniche della ricerca etnologica e dalla chiave interpretativa – marxista e classista – che Gramsci gli offriva relativamente alle forme di quel folklore meridionale che Gramsci stesso raccoglieva nella categoria del “cattolicesimo popolare”. Le origini, il significato, il persistere di credenze e pratiche magico-religiose arcaiche tra i ceti rurali del Sud sono infatti studiati dal de Martino nel contesto di una storia sociale che ne costituisce la base determinante. Cosi, con una serie di missioni etnografiche dai primi anni ’50, egli raccolse una quantità di documenti relativi a manifestazioni magico-religiose e ne studiò le origini storiche, i rapporti con le condizioni storiche e sociali attraverso i secoli, i motivi impliciti che ne giustificavano il persistere. Tutti i fenomeni posti al centro della sua indagine avevano in effetti origini arcaiche, precristiane, da un antico fondo di civiltà agrarie, ed erano stati a lungo oggetto di polemiche, di repressioni, di interventi adattivi da parte della Chiesa ufficiale. Oggetto della sua investigazione particolarmente furono: il complesso mitico-rituale della fascinazione in Lucania (Sud e magia, Milano 1959); le persistenze del pianto funebre in Lucania (Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1958); il tarantismo del Salento (La terra del rimorso, Milano 1961).
Il perdurare di tali rituali e di tali credenze, con le varie manifestazioni connesse di sincretismo pagano-cristiano, è interpretato come espressione di una resistenza implicita, inconsapevole e disorganica alla cultura ufficiale cristiana, rappresentata dalla Chiesa.
La storia delle varie polemiche del clero e dei sinodi ecclesiastici contro tali manifestazioni è dallo studioso ripercorsa a prova della sua interpretazione, che spiega anche gli adattamenti della politica culturale ecclesiastica nell’assorbire e riplasmare culti e credenze d’origine arcaica.
D’altra parte il de Martino spiega il perdurare ditali arcaismi secondo ragione storica, come espressione di una concezione del mondo propria di una società rimasta per secoli nell’isolamento da parte dei poteri centrali e delle istituzioni ufficiali che l’emarginarono e la sfruttarono. La “miseria culturale”, – egli afferma – è lo specchio di una miseria psicologica determinata a sua volta da condizioni storico-sociali imposte all’intero Mezzogiorno da un regime di subalternità plurisecolare e che pure in epoca contemporanea in certa misura persiste o fa pesare le sue conseguenze a lungo termine, il folklore religioso appare dunque come il riflesso della “non storia” del Sud, e cioè della continua repressione subita.
Nel loro insieme le tre opere meridionalistiche costituiscono un nucleo paradigmatico di studi di storia sociale, religiosa e culturale, condotti sulla base di inchieste dirette e reiterate, operate da lui sul posto mediante interviste, osservazione partecipante e con l’ausilio dei mezzi d’inchiesta allora aggiornati, quali registratore, macchine da ripresa, ricostruzione di momenti e sequenze di vita locale. Con queste opere s’inaugurò in Italia un importante filone di ricerche di antropologia culturale, o etnologia della società meridionale metropolitana, destinato ad avere sviluppi crescenti, dopo la morte del de Martino, da parte di antropologi di più giovane generazione, che in queste opere hanno trovato una fonte di stimoli e di sollecitazioni.
Infatti, anche se negli ultimi anni le tecniche e le metodologie della ricerca antropologica dispongono di un apparato empirico più sofisticato e hanno sviluppato problematiche via via più penetranti, gli studi pionieristici del de Martino costituiscono un inevitabile punto di riferimento.
Particolare importanza come tecnica innovativa da lui inaugurata è quella dell’indagine interdisciplinare, che egli adottò soprattutto nello studio del tarantismo pugliese, con l’unione in un’unica èquipe di uno psichiatra, di una psicologa, oltre allo storico delle religioni, a un’antropologa culturale, all’etnomusicologo e al documentarista cinematografico. il criterio della interdisciplinarietà sarebbe poi rimasto come un’acquisizione ed un’esigenza definitiva negli studi etno-antropologici.
Divenuto professore di ruolo di storia delle religioni nella facoltà di lettere dell’università di Cagliari dal dicembre 1959, al periodo meridionalista successe un periodo di approfondimenti e sviluppi problematici.
Lì de Martino da un lato scoprì e pose in questione una serie di manifestazioni religiose o parareligiose di tipo extraufficiale nel cuore della società borghese occidentale: rigurgiti di magismo in Germania, feste carnevalesche a carattere orgiastico-contestativo nella Svezia di fine anni ’50 (il capodanno di Stoccolma), insieme con altre manifestazioni rituali d’ambito ufficiale nella società socialista dell’URSS, come il simbolismo cerimoniale sovietico (Furore, simbolo, valore, Milano 1962).
D’altronde egli dette avvio ad una ricerca interdisciplinare intorno ad una tematica nuova, quella dell’apocalisse e dei miti escatologici.
Per l’analisi di questo tema raccolse materiale non solo dal campo della storia religiosa in un’accezione ampia che include accanto al giudeo-cristianesimo anche le religioni “primitive”, ma anche dalla letteratura moderna della crisi – Sartre, Moravia, Camus, dalla filosofia e dai teorici del marxismo classico, dalla psichiatria.
Alle prese con tale complessa tematica, la sua personalità poliedrica si dispiegò interamente avvalendosi dell’apporto delle diverse discipline suindicate, dimostrando la natura multiforme dei suoi interessi culturali, che travalicavano le partizioni accademiche e le etichettature formali. Del resto la poliedricità delle sue aperture speculative inducevano in lui una particolare ambivalenza sul piano dell’impostazione epistemologica.
Infatti egli tendeva a unificare prospettive di per sé eterogenee come quella storicista di derivazione crociana, ma riveduta in chiave marxista, con quella fenomenologico-ontologica, volta tipicamente alla identificazione di “universali” e di strutture invarianti d’ordine psicologico. Il saggio Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche (in Nuovi Argomenti, LXIX-LXXI [1964], pp. 105-141), introduceva la tematica a cui egli lavorava dai primi anni ’60 e che, interrotta dalla morte, doveva trovare una elaborazione, sebbene incompiuta e frammentaria, nel libro postumo La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (Torino 1977).
Pur nella incompiutezza che la caratterizza e che ne fa, salvo per la parte psichiatrica, piuttosto una silloge di appunti e di trascrizioni da testi e da autori vari con note e riflessioni personali, quest’opera documenta la somma degli interessi speculativi e culturali dell’ultimo de Martino.
Vi ritorna il tema della crisi e sua reintegrazione religiosa, visto però in una sua autonomia ontologica e non più nel preciso rapporto di condizionamento storico-sociale entro cui era collocato e interpretato nelle precedenti opere meridionalistiche. Un riaccostamento all’ impostazione fenomenologica prevalsa ne lì mondo magico distacca quest’ultima fase della riflessione demartiniana da quella più legata allo storicismo gramsciano che domina nei tre libri dedicati al folklore del Sud: e ciò si dica anche se già nella seconda edizione de Il mondo magico (1958) l’autore aveva ritrattato la precedente sua tesi che poneva la magia in una fase precategoriale dello sviluppo del pensiero umano, per riaderire ai fondamenti delle critiche mossegli dal Croce.
Ne La fine del mondo lo storicismo assoluto del primo de Martino – secondo il quale il senso e le forme delle civiltà umane e delle religioni si risolvono per intero e senza residui nella loro storia – sfuma, lasciando notevole spazio ad una prospettiva fenomenologico-psicologistica. Nel contempo è vigorosamente riaffermata la funzione liberante della visione del mondo laica marxista. Pertanto l’apocalittica marxiana è contrapposta a quella alienante delle religioni, mentre per la prima volta il de Martino prende atto del valore innovativo e creativo che studi recenti hanno riconosciuto nei movimenti profetici, millenaristi e apocalittici di liberazione delle popolazioni ex coloniali del Terzo Mondo.
Anche nell’ultimo e incompiuto lavoro si rivelavano, da squarci di apertura geniale, la ricchezza e la densità di riflessione tipiche del de Martino. In questo lavoro, come nei precedenti, egli parte da esperienze dell’oggi e del qui, da problemi, situazioni, crisi incombenti nella nostra civiltà contemporanea, per risalire da qui – in uno sforzo di comprensione storica universale – all’ osservazione e all’analisi di mondi “altri” in senso psicologico (il mondo della psicopatologia), ovvero in senso storico cronologico (il mondo del cristianesimo primitivo), ed in senso storico-culturale (il mondo delle culture extraoccidentali oggetti di studio dell’etnologia). Precisamente di fronte all’arduo compito assuntosi di una comprensione storica universale, il de Martino si pone metodicamente il problema della giusta prospettiva spettante allo scienziato che guarda all'”alieno” e alle culture “altre”.
Di qui si sviluppa la sua riflessione intorno al tema degli etnocentrismi: una riflessione che aveva impegnato l’autore, ma su un piano pratico-operativo diretto, fin dall’epoca delle sue ricerche nel Mezzogiorno, nel sistematico incontro-scontro con i portatori di modelli culturali fondamentalmente “alieni” per uno scienziato cresciuto e formatosi nel seno della società borghese ufficiale e colta.
Infatti già allora il de Martino non aveva perduto occasione per esprimere un proprio “senso di colpa” di fronte alla miseria culturale e psicologica delle plebi meridionali: un senso di colpa che intorno a quella stessa epoca ispirava pagine e riflessioni di un altro illustre esponente del pensiero antropologico in Europa, Claude Lèvi-Strauss.
Nello sviluppare in forma riflessa e metodica la sua tesi sull’etnocentrismo, il de Martino rifiutava come decisamente superata ogni forma di etnocentrismo dogmatico, con i suoi condannevoli corollari del razzismo e del pregiudizio sociale. Tuttavia egli respingeva altrettanto decisamente la prospettiva del relativismo culturale d’origine americana, per il quale ciascuna “cultura” vale per sé stessa né deve essere valutata dall’esterno se non in riferimento ai parametri validi per i suoi diretti esponenti. Egli infatti ravvisava la doppiezza e la contraddittorietà di questa posizione teorica e speculativa, la quale, sotto la specie di un liberalismo teorico, nascondeva ogni riserva di intervento pratico-politico sui portatori delle culture aliene.
Il de Martino affermava e proponeva la validità di una posizione che egli stesso aveva assunto nel confronto della cultura contadina meridionale nel corso delle sue precedenti indagini: posizione definita da lui “etnocentrismo critico”. Questo è da intendersi come sforzo supremo di allargamento della propria coscienza culturale di fronte ad ogni cultura “altra”, e come sofferto processo di presa di coscienza critica dei limiti della propria storia culturale, sociale, politica. L’etnocentrismo critico pone in questione “le stesse categorie di osservazione di cui lo studioso dispone all’inizio della ricerca”. … Con questa tensione etico-speculativa si può realizzare, secondo il de Martino, quell'”umanesimo etnografico” che implica un’opera di storicizzazione di sè e della propria cultura, e di autocritica in base al confronto storico-culturale, ma senza rinunziare – com’egli ribadisce – alla idea del primato della civiltà occidentale. lì modello della civiltà europea più avanzata sul piano del sapere scientifico, della tecnologia, dello sviluppo culturale, non può cedere, per il de Martino, ai modelli di culture altre per le quali, pur nell’indispensabile sforzo di conoscerle, capirle e giustificarle sul piano storico, logico e psicosociale, la prospettiva di sviluppo proposta è pur quella di adeguarsi al modello occidentale nelle sue espressioni socialmente più avanzate.
Questa visione eurocentrica, per quanto critica ed autocritica, avrebbe dato avvio poi a discussioni e interventi variamente orientati, negli sviluppi postdemartiniani del pensiero antropologico in Italia.
Per la complessità poliedrica dell’approccio del de Martino allo studio dell’uomo, per la forte tensione etico-sociale-ideologica che permea i suoi scritti, per l’efficacia scandagliatrice delle sue analisi, per la soggettività fascinosa del suo linguaggio – per cui la sua opera si impone anche per il suo valore letterario – la sua produzione si pone al di sopra delle specializzazioni accademiche più o meno settoriali, e pare destinata a riscuotere risonanze durevoli nell’ambito di molteplici discipline, dei più vari orientamenti di studio che hanno a che fare con il problema dell’uomo e di tutti coloro che a tale problema rivolgono un personale e sensibile interesse.
De Martino morì a Roma il 9 maggio 1965. Nel 1977 comparirà l’edizione postuma de La fine del mondo, grazie ad Angelo Brelich e ad altri amici ed allievi di de Martino: l’opera contiene brevi testi e frammenti provenienti da cartelle di appunti. Il tema delle apocalissi culturali è senz’altro dominante, ma porta con sé la tematizzazione di moltissimi altri concetti e la riflessione critica su storici e filosofi a cui l’autore faceva riferimento. Il procedimento seguito dal nostro autore nella ricerca storiografica è quello comparativo, inteso nel senso peculiare del comparativismo differenziale di Raffaele Pettazzoni. Necessaria alla vita non è soltanto la datità del mondo e la sua ovvietà, ma la dialettica che si deve instaurare tra datità e ripresa, tra fedeltà al passato e libera iniziativa personale, insomma tra l’ordine della vita e del mondo dati, e l’ethos del trascendimento della vita nell’azione che conferisce valore. Tale ethos non va frainteso con una fuga dal mondo e dalla situazione in un campo di valori idealmente eterni e sovrastorici, ma come trascendimento nel mondo, in cui qualsiasi opera dell’uomo si inserisce testimoniando con la propria presenza l’avvenuta valorizzazione: in questo senso si può dire che le azioni e le opere compiute acquisiscano permanenza e autonomia, in quanto iscrizione nel mondo di un’intenzione valorizzatrice, concrezione insieme di slancio e condizioni ambientali. Il trascendimento della datità non si attua, come è chiaro, in un’unica direzione, ma in molteplici e sempre diverse, per cui nessuna può assolutizzarsi a danno delle altre. Obiettivo della vita culturale e della società è quello di essere un “esorcismo solenne”, di scongiurare la “nuda crisi” senza recupero attuando misure di controllo e prevenzione, di integrazione dei momenti critici dell’esistenza, in cui più forte è il pericolo di smarrimento, in un ordine stabilito e rassicurante: in altre parole, la fine del mondo come rischio radicale del nulla della presenza viene trasformata nella fine di un mondo, passando dal crollo esistenziale ad apocalissi con escaton o palingenesi, o comunque a passaggi al nuovo. In particolare, l’autore si sofferma sull’analisi della concezione apocalittica cristiana, come si è sviluppata dall’originaria predicazione di Gesù fino a Giovanni in un vero dramma storico di fondazione. Nel complesso, essa ha apportato due fondamentali modifiche alla concezione della storia: in primo luogo, il progressivo differimento della fine dall’imminenza alla indeterminazione e repentinità per cui soltanto Dio decide il momento, allarga indefinitamente il tempo dedicato all’operabilità umana, senza chiuderla in una passiva attesa ma anzi incentivandola, con la descrizione del momento finale come tribunale delle azioni compiute. in secondo luogo, la svolta principale del cristianesimo è stata quella di spostare il punto decisivo della storia dalle origini al suo centro, con l’inserimento della cristologia. L’interrogativo che De Martino si pone rispetto alla modernità è se la religione cristiana, che ha svolto un ruolo di primaria importanza in altre epoche storiche, sia ancora una necessità: l’alternativa su cui riflettere è se l’angosciosità della vita possa essere affrontata soltanto entro un piano di salvezza escatologica o se invece non possa essere affrontata con valori e mezzi storici, e con la piena consapevolezza dell’integrale umanità della storia. La soluzione si trova nella costruzione di un umanesimo moderno che riconosca come punto di partenza, e non di arrivo, la dispersione delle culture e degli etne, e attraverso il confronto etnografico si ponga l’obiettivo dell’unificazione culturale dell’umanità. Nell’ambito di tale compito, l’uomo moderno deve essere capace di incontrare e raggiungere l’altro anche senza l’aiuto di Cristo come mediatore, senza doverlo fare in nome di Dio o di qualsiasi suo surrogato, percorrendo una via più breve e appellandosi alle immagini concrete dei volti umani, e provando per essi un doveroso senso di responsabilità.
NOTE
[1] E. de Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Argo, 1997, p. 53.
[2] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 4.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 97.
[5] Ivi, p. 105.
[6] Ivi, p. 82.
[7] B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948, n. 10, pp. 79 e ss; anche presente in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., p. 241.
[8] Ivi, p. 243.
HANS BLUMENBERG
A cura di Roberta Musolesi
Nato a Lubecca nel 1920, Hans Blumenberg ha insegnato filosofia in diverse università, tra cui dal 1970 al 1985 in quella di Münster.
Lo scopo che si propone Blumenberg con la sua ricerca è quello di investigare e porre ordine nell’intricato mondo dei miti, delle metafore e dei luoghi comuni; nei suoi numerosi saggi in cui ha raccolto i risultati delle sue ricerche, ha contribuito alla delineazione dello statuto della metaforologia.
Il presupposto di partenza dell’indagine di Blumenberg consiste nel ritenere le metafore e i miti non «strutture pre-logiche provvisorie, che sarebbero poi sostituite da idee chiare e distinte», ma strutture che sono espressione dello stesso logos, del quale costituiscono, secondo l’opinione di Remo Bodei, un quadro di riferimento. Numerose sue opere sono comparse anche in edizione italiana e fra queste è possibile menzionare Paradigmi per una metaforologia (Il Mulino, Bologna 1991) ed Elaborazione del mito, (Il Mulino, Bologna 1991), che con La leggibilità del mondo vanno a costituire la «trilogia» in cui Blumenberg le radici filosofiche del mondo moderno e le modalità di trasmissione degli apparati mitologici.
1. La metaforologia
Al centro del pensiero di Hans Blumenberg vi sono le metaforiche che nei secoli hanno contraddistinto la lingua filosofica occidentale, in particolare i presupposti che hanno potuto legittimare l’uso di alcune metafore di cui la filosofia stessa si è servita e attraverso cui è avanzata la riflessione filosofica. La metaforologia non rappresenta tuttavia un metodo e una guida all’uso delle metafore, tale da conferirci cioè la padronanza nelle questioni che nelle metafore stesse trovano espressione, ma appare piuttosto una ricerca di ordine storico, che ha appunto come tema la metafora stessa. Al filosofo tedesco non interessa dunque il meccanismo mediante il quale agiscono le singole espressioni metaforiche, interessa invece cosa queste raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Blumenberg la metafora è dunque sicuramente un fenomeno cognitivo, o meglio una strategia mediante la quale il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente essenziale dei processi di strutturazione ed interpretazione del mondo da parte delle culture. E’ necessario pertanto, secondo Blumenberg, indagare la metafora da un punto di vista antropologico-filosofico, per descrivere e ripercorrere una modalità di accesso al “senso” per mezzo di essa e l’origine della mancanza o della perdita di questo ‘senso’.
2. Le “metaforiche” della verità e del mondo: Paradigmi per una metaforologia
Che cosa è dunque la metaforologia? Con questo termine si intende innanzitutto un sistema coerente ed esaustivo di classificazione delle metafore, a cui dovrebbe accompagnarsi una teoria in grado di spiegare il meccanismo della semantica metaforica. Tra i molti tentativi di elaborare una metaforologia, spesso falliti perché o troppo circoscritti, dunque eccessivamente sistematici, o, al contrario, per nulla sistematici, quindi riducibili a puri e semplici repertori di figure, quello di Blumenberg si distingue per il criterio di classificazione adottato, che è tematico e investe l’intera storia del pensiero e delle sue figure. Un esempio è la metaforica della potenza e della forza della verità, la vis veritatis di cui, per esempio, parla Lattanzio, oppure quella della verità nuda, o ancora quelle che descrivono il mondo come kosmos, come teatro, come orologio, come organo, come tribunale, come libro da decifrare, come terra incognita. Con Blumenberg siamo di fronte ad un uso e ad un senso trascendentale di metafora che dovrebbe includere e riassumere tutti i luoghi metaforici; per questo motivo è forse più corretto sostenere che Blumenberg si occupa di metaforiche, vale a dire di configurazioni discorsive in cui confluiscono le diverse espressioni metaforiche (a volte anche in forma di similitudini) che vengono individuate nei testi di autori che appartengono non solo alla storia della filosofia, bensì all’intera storia delle idee del mondo occidentale. Proprio per come viene impostata la ricerca, l’indagine di Blumenberg non può che risultare aperta e virtualmente illimitata, come egli stesso indica nel titolo dell’opera in cui egli delinea il suo progetto, “ per una – possibile e futura – metaforologia”. Blumenberg sostiene esplicitamente di voler tracciare delle “linee storiche”, o, meglio, di voler fissare dei punti attraverso cui sarà possibile delineare la linea di possibile sviluppo storico di una metaforica. Ma prima ancora di voler fissare dei punti ed individuare le coordinate di una singola configurazione metaforica, è necessario interpretare il contesto di pensiero nel quale essa si colloca ed agisce, nel senso che occorre operare quelli che Blumenberg definisce “spaccati trasversali” per rendere comprensibile ciò che di volta in volta significano le metafore adottate. Ciò che Blumenberg enuclea partendo dalle immagini del pensiero caratteristiche di un’epoca, non è l’usuale contrapposizione fra senso traslato e senso letterale di un’espressione metaforica, bensì l’intero fenomeno semantico ad essa sotteso. L’opposizione significativa, per l’autore, si pone infatti non fra significato letterale e significato traslato, bensì fra pensieri chiari e distinti, cioè fra termini logici, e pensieri che per esprimersi hanno bisogno della metafora, in quanto il loro “referente” è assente e in quanto per la domanda a cui cercano di dar risposta non c’è soluzione. Con Paradigmi per una metaforologia Blumenberg avvia così un tipo riflessione filosofica che innanzitutto cerca superare il tradizionale modo di considerare le metafore come una specie di “anticamera” al pensiero concettuale, e tenta invece di avvicinarsi ad esse considerandole come qualcosa di autonomo. Paradigmi esordisce con la denuncia della “fallacia cartesiana”, e cioè dell’errore insito nella convinzione di potere smantellare ogni nozione ricevuta attraverso l’operazione del dubbio metodico e in virtù della mediazione divina e di poter pervenire in tal modo ad una evidenza primaria da cui ripartire e su cui fondare le nostre certezze. Se fosse stato possibile attuare il programma di Cartesio, la lingua filosofica sarebbe, secondo Blumenberg, una lingua di ‘concepibilità’ pura, in cui tutto può essere definito e, conseguentemente, tutto deve essere definito e in cui tutte le forme e gli elementi di locuzioni traslate risulterebbero assolutamente provvisori e perfettamente sostituibili in termini logici; dato questo presupposto, non è un caso quindi che la prima metaforica di cui si occupa Blumenberg sia proprio quella della verità. Le metafore che compaiono nella lingua filosofica e la sostengono sono inoltre, secondo l’autore, per la maggior parte assolute, tali cioè da presentarsi come irriducibili di fronte alle proprietà della terminologia logica. I concetti puri, differentemente dalle metafore, sono estremamente precisi, ma questa loro particolarità li conduce tuttavia a una perdita di polisemia, alla cristallizzazione del loro significato in un unico percorso interpretativo. La metafora al contrario è invece imprecisa, e questo è anche la ragione per cui è sempre stata espunta dalla filosofia, per essere relegata alla retorica o alla poetica. In realtà, come commenta Remo Bodei, anche il pensiero più puro, più raffinato, più tecnicizzato non può fare a meno di essere “curvato da sistemi di metafore”. Secondo Blumenberg, ognuno di noi è in parte determinato dall’apparato delle immagini e dalla loro selezione, condizionato da ciò che in generale ci si può mostrare e che noi possiamo tradurre in esperienza e qui starebbe l’origine della metaforologia. Una metafora assoluta inoltre, in quanto esprime una concezione originale del mondo, non è derivabile per trasposizione di modi letterali di dire o di altre metafore già in uso: le metafore assolute sono infatti strumenti ermeneutici, nel senso che costituiscono codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. Non è un caso allora che, cercando di chiarire la natura delle metafore, Blumenberg si affidi a Kant che nella Critica del giudizio, trattando del procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il simbolo in maniera del tutto simile alla metafora di Blumenberg. Per Kant la realtà dei concetti può essere individuata solo per intuizione e, in particolare, la realtà dei concetti di ragione, le idee, può prendere forma solo attraverso una rappresentazione, che ha in comune con l’“intenzionato” solamente la forma della riflessione e non i suoi contenuti. Tale è il procedimento che sta all’origine del simbolo e che per Blumenberg corrisponde quasi esattamente all’accezione di metafora da lui stesso impiegata. In questa accezione, il simbolo/metafora diviene un modello di tipo pragmatico, da cui scaturisce una regola della riflessione, dalla connotazione pratica, e non un principio della determinazione teoretica dell’oggetto come cosa in sé. La rilevanza delle metafore assolute e la loro verità storica sono perciò di ordine pragmatico e ciò significa che il loro contenuto determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo, che dalla metafora si trova a esser strutturato. Attraverso la metafora un’epoca esprime pertanto le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le azioni, gli interessi e dalle metafore si inducono stili di condotta nel mondo. Le metafore assolute, precisa ancora Blumenberg, forniscono inoltre una rappresentazione del “tutto” della realtà, che, come tale, non è mai completamente esprimibile o dominabile, e rendono rappresentabile il “tutto” del mondo, che non può mai essere colto come oggettività, ma che può invece essere colto grazie ad immagini. Cosa sia effettivamente il mondo appare una questione che meno di ogni altra può essere risolta, ma che tuttavia non può essere lasciata irrisolta: il mondo come kosmos fu una delle risoluzioni costitutive della nostra storia spirituale, una metafora cioè il cui senso originario non perde di risonanza, malgrado il processo di progressiva concettualizzazione, e che è stata sempre ripresa in altre immagini, come quella del mondo come “grande vivente” , del mondo come “teatro” o come “meccanismo di orologio”. Se dopo la riflessione di Kant e l’elaborazione delle sue antinomie è diventato inutile ed improduttivo proporre enunciazioni teoretiche sul “tutto del mondo”, lo stesso non si può dire per le ‘immagini’” che comunque lo rendono rappresentabile. Per la metaforologia, anche per quella che Blumenberg svilupperà successivamente ai Paradigmi, volendo affermare qualcosa di sensato sul mondo, l’unica strada è dunque quella di scegliere uno schema conduttore che guidi la nostra riflessione senza preoccuparsi di dire la verità: le metafore, infatti, nulla ci dicono a proposito della verità, ma “stanno in corrispondenza” con quegli interrogativi considerati ingenui, cui per principio non si dà risposta, e la cui rilevanza consiste semplicemente nel fatto che essi non sono eliminabili, perché non siamo noi singoli individui a porli, ma li troviamo già posti nella costituzione stessa dell’esistenza.
3. La legittimità della modernità
Blumenberg rivendica ad ogni epoca storica legittimità ed autenticità di contenuti di pensiero e nega perciò la possibilità di derivazione degli stessi da epoche precedenti. Tale modo di vedere, che, a suo avviso, nasconderebbe una visione sostanzialistica della storia, impedirebbe di cogliere i fenomeni storici nella loro diversità ed originalità e per il loro essere in antitesi con le epoche precedenti. La continuità del processo storico, per Blumenberg, non è data dalla sopravvivenza di contenuti ideali da un’epoca a quelle successive, bensì dall’ipoteca di problemi che un’epoca in tramonto impone all’altra. L’età moderna, ad esempio, si è generata, secondo l’autore, assumendo come compito la soluzione di problemi che nel mondo medioevale erano colti in modo pressante come bisogni ed aspettative nei confronti del senso del mondo; queste aspettative, sotto forma di domande irrisolte, sono le fondamentali questioni cui l’epoca moderna ha saputo rispondere e in questo modo generarsi. Tale processo risponde ad una logica che, secondo Blumenberg, guida e caratterizza non solo il passaggio alla modernità, ma è insita in ogni transito epocale dal vecchio al nuovo; lo stesso Cristianesimo, infatti, ai suoi inizi, si trovò soggetto ad una pressione problematica di questioni che gli erano genuinamente estranee, basti pensare, ad esempio, alle difficoltà degli autori patristici nell’opporre alle grandi speculazioni cosmologiche dell’Antichità greca qualcosa di paragonabile sulla base della storia biblica della creazione. Ogni epoca che si presenta come nuova deve pertanto necessariamente occupare il ruolo che fino ad allora aveva assunto l’epoca precedente e deve proporre risposte proprie nei confronti dell’estraneità del mondo. L’elemento comune che caratterizza la crisi di senso di un’epoca è, secondo Blumenberg, la perdita di ordine. Considerando, ad esempio, l’antichità e soprattutto il Medioevo, tale perdita di ordine si è caratterizzata come messa in discussione della struttura della realtà, vista fino a quel momento dominata da un’impronta di razionalità. Nella struttura del senso che si era affermata infatti durante il corso del Medioevo, l’intelletto divino era pensato sulla forma delle idee platoniche e le cose del mondo da lui create portavano in se stesse le idee, elemento questo che ne garantiva la conoscibilità poiché le cose stesse, essendo nella loro essenza razionali ed intelligibili, risultavano, per un essere razionale quale è l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, perfettamente penetrabili e comprensibili. L’intelletto umano si conformava così alla forma essenziale delle cose. Con il nominalismo tardo medioevale si afferma invece una concezione di Dio legata più alla potenza della volontà che alla razionalità. Il Dio dei nominalisti non è più il demiurgo platonico, ma è un Dio creatore e la sua potentia absoluta, che i nominalisti pensano in difesa del dogma dell’onnipotenza, implica l’infinità del possibile; ciò significa che ogni essere, si tratti di persone o cose, sorge dal nulla, senza esistere preliminarmente in nessun esemplare, modello o idea (platonicamente intesa), neanche nella sua determinatezza concettuale. La Creazione si fonda su un atto continuo e gratuito di Dio, sostenuto dalla propria assoluta libertà, e quest’ultima fa in modo che sia impossibile individuare o cogliere una conformità del principio divino con le necessità conoscitive della ragione, poiché l’ordine del mondo è continuamente revocabile dalla volontà libera di Dio. Le riflessioni di Blumenberg sulla continuità del processo storico si ricollegano direttamente alla critica avanzata nei confronti della categoria di löwithiana di secolarizzazione. Secondo Löwith, la secolarizzazione è un evento all’interno del processo storico, da porre in relazione con la comparsa delle moderne filosofie della storia e coincidente con l’inizio del processo storico dell’età moderna; esso si caratterizza come desiderio rivoluzionario di realizzare concretamente sulla terra il regno di Dio. La critica al teorema della secolarizzazione costituisce il leit motif che attraversa l’intero lavoro di Blumenberg e che trova la sua motivazione profonda nell’avversione e nella diffidenza nei confronti di ogni tentativo intellettuale che osi pretendere di mettere in discussione il diritto della razionalità moderna a rivendicare l’indipendenza e l’originalità dei suoi assiomi teorici. La secolarizzazione si configura, secondo la prospettiva di Blumenberg, come un modello ermeneutico di interpretazione dei processi storici che cerca di dare un senso e un ordine possibile al processo dinamico della storia, spiegando e comprendendo gli eventi in quanto fondati su quelli che li precedono: la concezione del movimento temporale del processo storico sottesa, secondo Blumenberg, al teorema della secolarizzazione è uno sviluppo che procede dal passato verso il presente, in modo tale che ciò che viene dopo non è altro che ciò che viene prima secolarizzato (B è A secolarizzato). Blumenberg oppone a tale modello un movimento della storia che va dal presente verso il passato: questo movimento coincide con la dinamica delle rioccupazioni del senso della storia ad opera delle risposte del presente. Ciò che Blumenberg propone in luogo della secolarizzazione è pertanto il concetto di nuova occupazione: la nuova occupazione o “rioccupazione” di frammenti di senso della storia ad opera di elementi della modernità mostra come, in effetti, nuovi valori si insedino al posto degli antichi, anch’essi un tempo autentici, ma ormai vuoti ed esausti. Per Blumenberg tale processo è irreversibile e definisce un chiave interpretativa alla quale lo storico non può rinunciare. La difesa che il filosofo opera nei confronti della modernità passa perciò attraverso la rivendicazione di legittimità dell’atteggiamento moderno: laddove la prospettiva secolarizzante deforma l’autenticità dell’età moderna facendone un semplice residuo del passato, l’affermazione della legittimità dell’età moderna consente invece di dichiarare assenti o inconsistenti tutti i condizionamenti storici che possono in qualche modo ipotecare la libera creatività delle pratiche e delle teorie sviluppate dalla modernità. Blumenberg, respingendo l’attacco delegittimante mosso dalla tesi della secolarizzazione, assume pertanto il compito di difensore della modernità stessa e mostra l’autenticità dei presupposti su cui si è edificata tutta l’epoca moderna, che, come tutti i processi di legittimità politici e storici, sorge anch’essa per discontinuità. L’asse del discorso si sposta quindi, sulla questione problematica della continuità nella storia. Sganciato da pesanti eredità esteriori e protetto da ogni condizionamento, il mondo reale degli uomini di una data epoca, così come lo pensa Blumenberg, costituisce una totalità finalmente liberata dal bisogno di ricercare i suoi punti di riferimento fuori di sé. Ogni verità è quindi completamente ed esclusivamente figlia del suo tempo e ciò che è sbagliato, agli occhi di Blumenberg, è la tendenza diffusa a voler ricercare, per ogni evento storico, il presupposto di un “inizio”, immanentemente privo di premesse. Secondo Blumenberg, l’inizio assoluto che si vuole porre ad inaugurare la storia vieta a se stesso di avere una storia. Alla luce di ciò, all’origine e alla base di ogni evoluzione storica occorre pertanto supporre un più solido fondamento, che dovrà potrà essere ricercato, secondo Blumenberg, solo e necessariamente in un aggancio teorico, di natura squisitamente razionale, rappresentato, a suo avviso, dalla forza di autoaffermazione legittimante della ragione. Nel concetto di autoaffermazione si condensano dunque tutte le considerazioni che Blumenberg è venuto sviluppando ed è qui che conducono i temi della nuova occupazione, della discontinuità, della legittimità, che Blumenberg sapientemente ha intrecciato, in un intreccio che deve porsi come piena giustificazione della razionalità della ragione. Autoaffermazione significa in effetti autonomia dell’agire razionale, spontaneità della libertà dell’uomo, in cui si rispecchia il proprio illimitato potere sul mondo. L’autoaffermazione non va tuttavia minimamente confusa con la conservazione in vita dell’essere naturale, con la pura e semplice sopravvivenza biologica o economica, ma viene invece a coincidere con un progetto d’esistenza che consente all’uomo di determinare la modalità del suo rapportarsi alla realtà circostante, realizzando le proprie aspirazioni con l’aiuto dell’enorme potenziale tecnico reso disponibile dalla scienza moderna.
Appare chiaro quindi che l’autoaffermazione, vera chiave di volta della costruzione teoretica blumenberghiana, legittima la razionalità dell’epoca moderna. Ma che cosa è che legittima, a sua volta, l’autoaffermazione stessa? La risposta a questo interrogativo va ricercata solo nei fatti. La prova provata, infatti, della validità del principio di autoaffermazione della ragione sta nel fatto, storicamente indiscutibile, che la razionalità moderna ha avuto buon successo nel sostituire la fede religiosa medievale come guida dell’agire teoretico e pratico umano. Questa argomentazione non rimane però senza effetti, in quanto produce una sorta di sbilanciamento dell’impianto complessivo del pensiero, visto che la legittimità dell’età moderna viene riferita ad un fatto storico, al fatto cioè che l’età moderna ha saputo scalzare quella medievale.
4. La modernità come definitivo superamento dello gnosticismo.
A questo punto si inserisce la questione della gnosticismo e del suo superamento, che riesce in maniera definitiva e completa solo alla ragione moderna e nel quale superamento Blumenberg vede una delle conferme maggiormente significative della sua tesi interpretativa. Fu nella battaglia contro la gnosi che il pensiero medievale fu portato ad innescare il circuito del rinnovato interessamento mondano, affermatosi nel Rinascimento prima e nell’Età moderna poi. L’evoluzione storica dell’epoca medievale può essere compresa allora, secondo Blumenberg, come tentativo di liberarsi definitivamente dalla gnosi, secondo un processo dialettico dalle vaghe risonanze idealistiche, che, muovendo dall’ ingenua visione del cosmo propria dell’antichità e dell’epoca medievale, giunge ad un’idea di mondo pensato come luogo dell’esercizio della finalità teorico-pratica dell’uomo. Il superamento dello gnosticismo e il conseguente successo della ragione moderna rassicurano così la ragione stessa circa la legittimità delle proprie rivendicazioni, che godono da quel momento in poi di una credibilità assoluta. È stato lo gnosticismo quindi ad aver aperto la strada all’autoaffermazione della ragione, una ragione poi completamente risolta nel pensiero tecnico-calcolante. Ma, volendo esprimere un commento alla dottrina blumenberghiana, contrariamente a quanto affermato dallo stesso Blumenberg che riteneva il pensiero della trascendenza niente più che ingenua e mortificante tranquillizzazione, l’assolutizzazione della tecnica ha finito per essere un altro tranquillizzante, che ha indotto una anestetizzazione delle coscienze ancora più potente. Per Blumenberg la tecnica non produce, perché non lo conosce, il male; peccato però che sia stato proprio questo l’aspetto che è improvvisamente balzato in faccia all’umanità post-moderna.
ODO MARQUARD
A cura di Roberta Musolesi
“I filosofi hanno certamente cambiato il mondo in modi differenti, ma si tratta di risparmiarlo“.
Odo Marquard, filosofo tedesco, ha studiato, fra il 1947 e il 1954, filosofia, germanistica, teologia evangelica e cattolica ed ha affrontato approfonditi studi storici. Nato nel 1928, professore emerito all Justus Liebig Universität di Giessen, Marquard è stato anche presidente della società tedesca di filosofia. Esperto di antropologia, estetica, religione, attribuisce alle scienze umane un ruolo di resistenza e apertura positiva rispetto alla deriva nichilistica cui è esposto il nostro mondo scientifico e tecnico; rilancia inoltre il ruolo del mito inteso non come qualcosa di vincolante, ma piuttosto come una polifonia di voci diverse e contrastanti. Forse, però, l’elemento più originale della sua opera sta nel taglio ironico e disincantato con cui presenta tutte le grandi questioni legate all’origine e al destino dell’uomo. Ha ricevuto il premio “Sigmun Freud” per la prosa scientifica, il premio “Ervin Stone” nel 1992 e nel 1996 e nel 1984 ha ottenuto il premio “Robert Curtis” per la saggistica.
Principali opere tradotte in italiano:
Apologia del caso, il Mulino, 1991
Estetica e anestetica. Il Mulino, 1994
La tribunalizzazione della storia e il problema del male.
Odo Marquard è lo studioso del Novecento che per primo ha riflettuto sulla tribunalizzazione della storia, svelandone i meccanismi. Con tale tale espressione il filosofo intende la trasformazione del sapere storiografico in una sorta di tribunale davanti al quale compare l’uomo al puro scopo di assolvere se stesso nel passato e nel presente. Lo spunto per affrontare ed approfondire tale questione è stato fornito a Marquard da un saggio del 1974 dell’allora professor Joseph Ratzinger a proposito della “liquidazione del diavolo”. In risposta agli studiosi del Nuovo Testamento che ritengono che l’espressione “diavolo” non fosse altro che un modo mediante il quale la cultura dell’epoca di Gesù indicava ciò che per noi sono il peccato e il male, Ratzinger, pur non volendo mortificare la modernità a favore della fede, riteneva comunque indispensabile affermare la visione biblica del male come “non-persona”. La tentata liquidazione del diavolo da parte degli studiosi del Nuovo Testamento rifletteva questioni che toccavano punti nodali riguardanti non solo lo spazio della teologia, ma che interessavano e riguardavano anche e soprattutto il contenuto e la funzione della storia, della memoria, della giustizia. L’introduzione del diavolo aveva permesso di rispondere ad un pressante interrogativo, che da Agostino e Boezio attraversa la teologia fino a Leibniz: Si Deus, unde malum? Secondo Marquard, tuttavia, già nella seconda metà del Settecento la filosofia scettica aveva accantonato la teodicea e i credenti rinunciavano a interrogarsi sul male in termini di ineluttabilità, per confinarsi negli spazi della morale. C’è stata, come sottolinea Marquard, una trasformazione della storia e dalla filosofia della storia che, senza più seccare tanto Dio, ha dovuto misurarsi con un fatto nuovo: l’uomo contemporaneo è il solo responsabile davanti a un male di cui sa di essere diventato il solo autore e di cui deve chiedere giustizia solo a se stesso. L’uomo viene in tal modo investito di un peso enorme, cui egli cerca di resistere con stratagemmi che “compensino” ciò che il passato, lontano o vicino che sia, rivela sul suo stesso agire. Il concetto di compensazione è un concetto chiave dell’antropologia filosofica moderna e corrisponde alla visione dell’uomo come essere carente. In epoca premoderna prevaleva un’idea della compensazione come castigo divino, cioè come conseguenza della peccaminosità dell’uomo, nella modernità si afferma invece, almeno in parte, l’idea di un male subito o almeno non intenzionale, rispetto al quale il rimedio migliore è proprio la compensazione, intesa come lenimento e come risarcimento, ma mai come ritorsione o punizione. Marquard parla quindi dell’uomo attale in termini di homo compensator, che oppone cioè al peso del male le attenuanti generiche, come l’impossibilità di giudicare e comprendere i grandi soggetti collettivi che agiscono nella storia, l’incognita che è rappresentata dall’individuo come tale, l’ingiudicabilità dei “gusti” che ognuno accetta di avere, la rappresentazione di sé come soggetto limitato che poco può. L’uomo quindi, unico soggetto assolutamente responsabile dei mali del mondo, davanti a un tribunale permanente nel quale egli stesso è contemporaneamente accusatore e giudice, cade vittima di una propensione all’autogiustificazione. Tale giustificazione è fornita proprio dalla tribunalizzazione della storia: mentre essa certifica l’immensità del male, afferma nel contempo che nessuno dei suoi protagonisti può averne compiuto una quantità abbastanza grande da diventare responsabile del tutto. E viceversa, nel comparare le minuscole capacità degli individui con la totalità dei fatti, nel confrontare i piccoli segmenti del tempo umano con i processi di lungo periodo della storia profonda, assolve da tutto ciò che un attimo prima aveva la forma del capo d’imputazione.
La tribunalizzazione della storia assolve in definitiva stabilmente tutta l’umanità, che dei traumi e degli abusi che costellano la storia è discendente per generazione o per volontaria appartenenza.
Il rapporto con la modernità.
In relazione e come conseguenza dei suoi interessi storici, Marquard si è occupato dell’analisi di un fenomeno nel apparentemente paradossale, quello cioè del sentimento di diffidenza ed ostilità nei confronti dei risultati della ricerca scientifica e tecnologica, sentimento che appare sempre più evidente in una società profondamente permeata dai risultati della scienza e della tecnologia, che sono riuscite peraltro a migliorare la qualità della vita di almeno una parte fortunata dell’umanità. Secondo Marquard, i vantaggi e gli “esoneri” da sofferenze e fatiche che la scienza e la tecnologia concedono all’uomo sono stati in un primo momento accolti con entusiasmo dall’umanità in generale, poi con indifferenza ed infine con diffidenza ed ostilità; quest’ultima fase di rifiuto, che appare come inevitabile, porterebbe l’uomo a provare una sorta di nostalgia per le originarie condizioni di difficoltà da cui l’evoluzione tecnologica ha liberato l’umanità nel suo complesso. Così come emerge dalla lettura di Apologia del caso, a giudizio di Marquard, spetterebbe alle scienze umane e all’arte il compito di compensare il vuoto di valori e di senso generato dall’età della tecnologia, lasciando nel contempo ampio spazio a ironia e atteggiamento scettico e trasformando la società della tecnica in società del caso. A suo avviso, a partire dall’Illuminismo e contro il predominio della ragione, l’arte e l’estetica avrebbero assunto il compito di compensare il disincanto del mondo indotto dall’incalzante progredire della scienza e della tecnica, andando a svolgere una funzione di risarcimento e salvataggio dei diritti della sensibilità e della bellezza. Queste ultime avrebbero trovato così rifugio e compensazione nella creazione artistica, allontanandosi dalla realtà e dal quotidiano. L’arte contemporanea, al contrario, nel tentativo di ricucire questo strappo, ha trasformato la centralità del momento estetico in un’eccessiva estetizzazione della realtà che ha finito per essere paradossalmente un potente anestetico che porta il reale verso l’ebbrezza di un sogno artistico illusorio e degrada la tensione artistica verso il basso. Rispetto all’opposizione nei confronti della modernità, secondo Marquard, il quale esclude in ogni caso la possibilità di una sua soppressione, esistono tre tipi di antimodernismo, quello coniugato al passato, quello coniugato al futuro ed infine quello che si coniuga con il presente e che si esprime nel rapporto fra gli intellettuali e il loro tempo. L’unico atteggiamento positivo, a suo avviso, è l’affermazione del presente a spese del passato, che è l’atteggiamento dell’illuminismo classico da Voltaire a Hegel. Questo assenso nei confronti del presente che stava all’origine del moderno, è stato tuttavia ripetutamente abbandonato tramite la negazione del presente in nome del passato o del futuro. Anche il programma della postmodernità si traduce in effetti in un rifiuto del modernismo: nel postmoderno non è tanto la modernità a scomparire, ma viene piuttosto a mancare il ruolo del futuro come elemento di progresso e di evoluzione; il massimo successo si raggiunge così lasciando semplicemente dietro di sè la modernità. Si può affermare, in conclusione, che secondo Marquard il programma del postmoderno altro non è che la fase implosiva dell’antimodernismo coniugato al futuro.
ISAIAH BERLIN
“Esiste un grande divario tra coloro, da una parte, che riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono –, e coloro, dall’altra parte, che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori. ” (Il riccio e la volpe, Adeplhi, Milano 1998, pp. 71-72).
Isaiah Berlin, russo inglese ebreo, come amava definirsi, era nato a Riga nel 1909. Da bambino si era trasferito con la famiglia a San Pietroburgo, dove era stato testimone della Rivoluzione bolscevica. Nel 1921 l’intera famiglia era emigrata in Inghilterra, dove Berlin ha potuto compiere i suoi studi. È stato professore di Teoria sociale e politica a Oxford e presidente della British Academy. È morto a Oxford nel 1997. Attento studioso del pensiero di Machiavelli, dell’Età illuministica e del Romanticismo, tra le sue opere più famose ricordiamo: Karl Marx: vita e ambiente (1939), Due concetti di libertà (1958; poi pubblicato in Quattro saggi sulla libertà, 1969), Vico e Herder (1976), Il riccio e la volpe (1986; originale Russian Thinkers, 1978), Il fine della filosofia (2002), Controcorrente (1979), Impressioni personali (1980), Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee (1990), Il mago del Nord: J.G. Hamann e le origini dell’irrazionalismo moderno (1993), Il senso della realtà (1996), Le radici del romanticismo (1999).
L’aspetto più interessante della filosofia di Berlin è la riflessione sul concetto di libertà in ambito politico, tema presente nella lezione inaugurale del 1958 avente per tema i Due concetti di libertà. Sulle orme di Kant, egli distingue tra una libertà positiva (che è la libertà di: libertà di fare o di essere qualcosa) e una libertà negativa (che è libertà da: libertà dalle intrusioni altrui nel mio agire). La libertà positiva non è mera capacità di fare qualcosa: è, piuttosto, una forma di autodeterminazione, di agire in maniera non eterodiretta. La libertà positiva deriva dal desiderio dell’individuo di essere padrone di se stesso. A tutta prima, la libertà positiva e quella negativa possono sembrare alquanto vicine tra loro, nella misura in cui la prima si identifica con l’essere padroni di sé e la seconda si risolve nel non trovare ostacoli nelle proprie scelte: se però volgiamo lo sguardo alla storia, ci accorgiamo che queste due forme di libertà hanno avuto sviluppi ben diversi e, a ben vedere, conflittuali. Infatti, la libertà negativa è stata propugnata dai politici liberali, quella negativa dai socialisti. Si tratta però, rileva Berlin, di tentare di coniugare queste due forme di libertà, storicamente confliggenti. Oltre che strenuo difensore della libertà, Berlin è anche difensore del pluralismo: saldamente convinto dell’impossibilità di determinare univocamente che cosa si debba fare o evitare, il nostro autore è contrario a ogni forma di autoritarismo e a ogni tipo di uniformità imposta dall’alto (dalla Chiesa, dallo Stato, dal Partito, ecc.). Forte di questa convinzione, egli si propone di difendere – in sintonia coi liberali – il diritto degli individui ad autogestirsi. Per questo motivo, egli è alfiere di una visione pluralistica del mondo, fondata sul concetto di molteplicità irriducibile di modi di vivere e di pensare. Berlin ama ricordare un verso dell’antico poeta Archiloco: “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Gli studiosi hanno sempre letto questo verso in maniera banale: la volpe, pur essendo infinitamente più astuta, viene sconfitta dall’unica difesa di cui il riccio dispone. In opposizione a questa lettura scontata, Berlin ne propone un’altra, più profonda: l’immagine del riccio e della volpe può essere assunta come metafora delle più profonde differenze che distinguono gli individui; di questi, infatti, alcuni (i “ricci”) riferiscono ogni cosa a una visione centrale, a un sistema coerente e articolato, dotato di regole ben precise; altri (le “volpi”), invece, perseguono molti fini, non di rado disgiunti e contraddittori, mancanti di un principio morale o estetico. Questa seconda tipologia di individui – dice Berlin – compie azioni “centrifughe”, non “centripete”, poiché il loro pensiero di muove su parecchi piani e coglie una varietà di esperienze e di temi senza riportarli a una visione immutabile. Grandi artisti che hanno agito da “ricci” sono – così dice Berlin in Il riccio e la volpe – Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen, Proust; simili alle volpi, invece, sono stati Shakespeare, Erodoto, Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce, Montaigne. I ricci sono monisti, le volpi sono pluraliste. Berlin ha indagato in sede sia storico-politica sia teorico-psicologica l’atteggiamento della volpe e del riccio, mettendo in luce come la tentazione monistica (del riccio) è vecchia quanto l’uomo e poggia sull’esigenza di superare la scissione – che l’uomo avverte sempre di nuovo in sé – attraverso la ricomposizione di una totalità pacificata. La concezione del riccio si sostanzia di due grandi convinzioni: a) che il reale sia unitario e che, in ultima analisi, i fenomeni siano riconducibili a tale unitarietà (con la scienza, la metafisica, la religione, ecc); b) che esista una “situazione finale” in grado di appianare tutti i problemi e di conferire un’unità decisiva a tutti i valori. Più in generale, il monismo del riccio (identificabile ora con la teologia, ora col socialismo, ora col platonismo, ora con certo illuminismo) poggia sul presupposto che le vere domande abbiano una risposta soltanto, che la strada per giungere alla verità sia una e che tutte le verità parziali siano compatibili fra loro e vadano a formare un’unica, grande verità. Al contrario, il pluralismo della volpe ha come suoi tratti distintivi: a) la convinzione che non l’unità, bensì la pluralità rappresenti l’essenza del mondo; b) il rifiuto di ogni situazione finale capace di garantire la soluzione armonica di tutti i problemi e di tutti i conflitti valoriali. In quanto legato a esigenze archetipiche, il monismo è assai più diffuso del pluralismo e mira alla ricerche di certezze unitarie, in grado di conferire un fondamentale senso di sicurezza. Alla luce di questi presupposti, Berlin instaura un parallelismo tra monismo e agorafobia, ovvero tra la ricerca filosofica dell’unità e la ricerca nevrotica di un luogo chiuso e rassicurante. Al contrario, il pluralismo è non di rado il frutto di una claustrofobia storica, vale a dire di una condizione di conformismo e di ristagno intellettuale che genera richieste di maggiore luce e si traduce in una rottura con le vecchie fedi e con le vecchie istituzioni. Scrutando le vicende dei ricci monisti e delle volpi pluraliste, Berlin non esita ad addossare al monismo la responsabilità per le feroci dittature che hanno caratterizzato il XX secolo: in particolare, l’assunto da cui esse sono scaturite – e che è tipico del monismo – è quello secondo cui, da qualche parte e in qualche momento, possa esserci una soluzione finale in grado di risolvere tutti i problemi. In forza di questa considerazione, Berlin è convinto che il nostro tempo abbia bisogno non già di fedi o di certezze scientifiche, bensì di un minor grado di formalismo monastico e di zelo messianico: in altri termini, ciò di cui abbiamo bisogno oggi è lo scetticismo, sapientemente unito a una buona dose di tolleranza. A tal proposito, l’adagio del perfido Talleyrand – “sourtout pas trop de zèle” – suona assai più auspicabile e più umano rispetto alla pericolosissima pretesa di uniformità del virtuoso Robespierre, specialmente in un’epoca di avanzato sviluppo tecnologico capace di produrre strumenti di distruzione.
FREDRIC JAMESON
Nato il 14 aprile 1934 a Cleveland, Fredric Jameson ha studiato in Europa (Francia e Germania), per poi formarsi in America sotto la guida di Erich Auerbach. è considerato il primo e il più rappresentativo critico letterario marxista americano. Egli ha pubblicato numerosi saggi che, analizzando testi letterari e filosofici, sviluppano una personale prospettiva teorica neo-marxista (ricordiamo Sartre: le origini di uno stile del 1961, Marxismo e forma del 1975, L’inconscio politico del 1981, La prigione del linguaggio del 1982, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo del 1989, Tardo marxismo: Adorno, il postmoderno e la dialettica del 1994, Una modernità singolare del 2003). Un dato curioso: nel 2005, Jameson ha pubblicato un suo articolo sulla rivista “Play Boy”: il titolo, non a caso, era Lolita after Fifty Years.
Le posizioni di Jameson nei confronti dell’istituzione letteraria sono divenute punti di riferimento in molti dibattiti contemporanei. Il saggio Brecht e il metodo occupa un posto privilegiato tra le opere di Jameson: è un’articolazione del “metodo (letterario)” attraverso un inventario sistematico della storia delle opere critiche e letterarie di Brecht. In opposizione alla tradizione che da Galileo a Gadamer sostiene il “metodo (scientifico)” come strumento neutro, e quindi affidabile per ottenere dei risultati di verità imparziale e obiettiva, Jameson, insieme a Brecht, propone “il metodo” come un modello autocritico, pronto a mettere in discussione i propri presupposti e a diffidare dei risultati ottenuti. Solo successivamente il nostro autore si sarebbe spinto a prendere in esame il marxismo, anche in virtù del suo avvicinamento alla politica della “New Left” e dei movimenti pacifisti. Poco attento al cosiddetto “marxismo orientale”, a cui rimprovera di aver fatto valere una visione decisamente ristretta e riduttiva del materialismo storico, Jameson si concentra soprattutto sui contributi del “marxismo occidentale”.
La stella polare della ricerca di Jameson è il tentativo di coniugare il marxismo e il decostruzionismo, senza però smarrire la continuità con la Scuola di Francoforte (della quale intende aggiornare e portare all’altezza dei tempi soprattutto la nozione di “industria culturale”). Autore eclettico, Jameson si misura con le più disparate posizioni filosofiche contemporanee, nel tentativo di sussumerle tutte nella teoria marxista: con quest’ultima egli non si confronta ancora nella sua dissertazione di dottorato (Sartre: the Origins of a Style), nella quale, esaminando lo stile di Sartre, sembra fatalmente trascurare l’influenza che il marxismo esercitò sulla formazione del pensatore francese.
Sicuramente una delle idee più originali di Jameson è quella di inconscio politico: richiamandosi a Freud, il nostro autore sostiene che non esistono fenomeni immediati e che ogni fenomeno va ricondotto alla rete relazionale di cui fa parte. Così facendo, si scopre l’esistenza di un “inconscio sociale” – già esplorato da Althusser e da Lacan – che si identifica con la storia; quest’ultima sfugge alla presa della ragione e, soprattutto, della coscienza, con la conseguenza che per noi è possibile indagare soltanto sulle tracce che la storia lascia nel suo procedere incessante. In questo senso, il marxismo non dev’essere letto come risposta a tutte le domande della storia (come credeva Popper, che s’era schierato assai duramente contro Marx), ma piuttosto come problematizzazione del presente. Come già aveva avuto modo di rilevare Althusser, lo scrivere e il narrare del testo letterario sono un “atto simbolico”. Soffermandosi,a tal proposito, sul concetto di ermeneutica, il nostro autore ne individua due distinti momenti: a) la critica delle ideologie; b) il ritrovamento – sulla scia di Ernst Bloch – nei testi stessi di un’inconscia tensione utopica. Tale vocazione utopica può essere spiegata tanto tramite lo strumentario concettuale di Bloch, quanto tramite quello di Adorno o di Benjamin. Ben si capisce allora perché Jameson legga i testi letterari armato della filosofia della storia marxiana, presa a servizio dall’ermeneutica: se infatti non si presupponesse una filosofia della storia unitaria (quale è quella marxiana), allora i testi del passato resterebbero muti per noi. I due grandi “nuclei dogmatici” del marxismo sono da Jameson ravvisati nella dialettica tra apparenza e realtà e in una filosofia della storia unitaria (“l’avventura umana è una”, ripete quasi ossessivamente il pensatore americano). L’idea generale a cui egli fa riferimento – in sintonia con Bloch e Benjamin – è che soltanto il marxismo sia in grado di rendere conto del passato. Contro Bloch, tuttavia, Jameson sostiene che il marxismo non ha due correnti (una “fredda” e una “calda”), ma che piuttosto è una sola corrente comprendente il momento scientifico e quello utopico, nella misura in cui smaschera scientificamente le ideologia e precorre utopicamente l’avvenire. Il nostro autore insiste molto su come, così intesa, l’ermeneutica trapassi in politica. Sono state soprattutto due tesi di Jameson a destare scandalo: 1) tutte le ideologie (anche quelle delle classi dominanti) hanno carattere utopico, proiettando nel futuro le loro speranze; 2) perfino quella che Adorno chiamava “industria culturale” racchiude in sé elementi utopici (tema sul quale già Bloch aveva insistito parlando dei “paradisi a prezzo scontato”). Per quel che riguarda la teoria jamesoniana del postmoderno, il nostro autore resta fedele al motto di Lukàcs: “bisogna lacerare i veli del feticismo”, ossia ricondurre i fenomeni (postmoderni) alla realtà sociale di quello che il nostro autore chiama il “tardo capitalismo”. Nello stadio attuale, il (tardo) capitalismo trova nelle posizioni postmoderne le sue più forti alleate: ciò che più caratterizza questa fase del capitalismo è il fatto – colto benissimo dai Francofortesi – che la merce ha invaso anche la coscienza e la sfera inconscia dell’esistenza umana. Quali principali opere di quest’epoca tardo-capitalistica, Jameson ama citare le realizzazioni artistiche di Andy Warhol, che riproduce le stars di Hollywood. Addirittura, il nostro autore si spinge a sostenere che le teorie di Marx sono più veritiere oggi, nel mondo postmoderno, che non nell’Ottocento. Se ai tempi in cui scrivevano Adorno e Horkheimer il soggetto era “alienato”, oggi – dice Jameson – esso è “frammentato”, esattamente come la realtà in cui vive: in tale realtà, viene meno l’unità del “soggetto trascendentale”. Le principali categorie estetiche dell’età postmoderna sono, secondo Jameson, le seguenti:
a) scomparsa della profondità: se le scarpe del contadino raffigurate da Van Gogh richiedevano un atto interpretativo (come ben sapeva Martin Heidegger), le scarpe da ballerina di Warhol – assunte come simbolo dell’arte postmoderna – restano superficiali e misteriose, “non ci parlano affatto” e si configurano come “oggetti morti” e feticisti.
b) Scomparsa della storicità;
c) Scomparsa dello stile individuale.
Jameson si oppone fermamente alla tesi (difesa ad esempio da Karl Löwith in Meaning in History) secondo cui il marxismo altro non sarebbe se non una forma di religione: questa tesi è “uno dei principali strumenti dell’arsenale anticomunista” (Marxismo e forma, p. 134). Tra i critici più severi del pensiero di Jameson deve senz’altro essere ricordato Terry Eagleton: questi mette in luce come, se per Lukàcs il disvelamento dell’alienazione si dà nella concreta lotta di classe, per Jameson esso è enigmaticamente assunto come un presupposto teorico inspiegato; a Jameson, inoltre, può essere imputato – prosegue Eagleton – l’aver eccessivamente insistito sulla mercificazione, annientando il problema politico e la prassi.
GIOVANNI PAPINI
A cura di Andrea Edoardo Paron
Vita e opere
Giovanni Papini nasce a Firenze nel 1881, da Luigi Papini, commerciante di mobili, e Erminia Cardini. Già a quindici anni, a scuola, pubblica un giornalino scritto a mano intitolato «L’Amico dello scolaro», dove pubblica il suo primo racconto Il leone e il bimbo: «finalmente un sabato sera, aprendo per la strada, al lume rosso del gas, il giornale, vidi la figura d’un cipiglioso leone in mezzo a ciuffi d’erbe a punta e, in fondo a una colonna, il mio nome e cognome. […] Mi ricordo ancora il caldo che mi salì al viso e l’ondata, mista di pudore e di trionfo, che mi riempì il quindicenne cuore». Nel 1899 ottiene il diploma di maestro presso la Scuola Normale e inizia a insegnare lingua italiana all’istituto inglese di Firenze. Nel 1900 nascono le prime e importantissime amicizie, tra cui quella fondamentale con Giuseppe Prezzolini, con il quale passa lunghe serate sui lungarni in impegnatissime conversazioni, dove già emerge la predilezione per la filosofia e l’esercizio del pensiero. Dalle memorie di quegli anni affiora un importante predilezione per Max Stirner, che lo affascina a tal punto da dichiararsi politicamente anarchico e filosoficamente «solipsista morale». Nel 1902 viene nominato bibliotecario del Museo di Antropologia di Firenze, dove ottiene il primo compenso fisso mensile e la possibilità di leggere senza limitazioni ciò che gli interessa.
Il 1903 è l’anno di svolta. Dopo mesi di gestazione e preparazione, Papini riesce a pubblicare il «Leonardo», la rivista che sognava da anni e che poteva dare spazio alle sue ambizioni e alle sue acerbe teorie: «sentivo il bisogno apostolico di liberare gli altri come avevo, mi pareva, liberato me stesso colla nuda e coraggiosa teoria. In che modo? Fondando un giornale». La rivista appare, sin da subito, come uno sfogo a tutto campo, senza obiettivi precisi, confusa in una miscela esplosiva di arte, filosofia, letteratura e politica. Il giornale suscita pareri discordanti e non si diffonde come nelle intenzioni dei collaboratori. Iniziano i dissapori e già all’inizio dell’estate Papini, trovatosi solo con Prezzolini, si convince a dare una svolta e un taglio più omogeneo alla conduzione del giornale: «l’arte fu messa un po’ in disparte; la letteratura e la politica furono cacciate via e la filosofia diventò finalmente padrona, signora, dominatrice». L’iniziativa sembra funzionare: iniziano le recensioni della rivista in Italia e all’estero; la vendita delle copie aumenta in modo considerevole; giovani intellettuali chiedono insistentemente di poter collaborare; importanti personalità italiane e straniere inviano i loro articoli; si ospitano le prime traduzioni di Schiller, Kierkegaard, Bergson e James; il nome di Papini diventa noto e cominciano ad arrivare i primi inviti a conferenze e congressi.
La mera polemica, il gusto dell’attacco e della distruzione della filosofia diventano insufficienti. Papini sente l’esigenza di inquadrarle in un progetto più ampio, che, partendo dalla critica, dia luogo a una visione dell’uomo in grado di conciliare sentimento e volontà, libertà e azione, spirito e materia. Il pragmatismo di William James, secondo l’interpretazione di Papini, offre questa possibilità. Già nel dicembre del 1903, sul «Leonardo», poteva parlare di Morte e resurrezione della filosofia, dove la filosofia moriva come sistema e tornava a nascere come progetto, preludendo a una sincera, quanto personalissima, adesione al pragmatismo jamesiano. Papini aveva letto James anni prima, attraverso le recensioni di Vailati e le prime traduzioni di Calderoni e Ferrari, senza però rimanerne folgorato. Ora invece si prepara a diventarne il principale divulgatore in Italia e non solo. Già nel 1904, a soli ventitre anni, partecipa a Ginevra al II congresso internazionale di filosofia, in qualità di rappresentante italiano del pragmatismo, e interviene con una memoria sugli Extrèmes de l’Activité théorique. Sempre nel ’04 è invitato al congresso internazionale di psicologia a Roma, dove incontra James e tiene una conferenza sull’«Influenza della volontà sulla conoscenza», dove le teorie del filosofo americano sono accolte in pieno. L’incontro stesso con James è descritto in termini euforici, e rimarrà uno dei ricordi più piacevoli dell’intero periodo. Per tutto il 1905 Papini pubblica articoli sul pragmatismo, non solo su «Leonardo», organizza incontri e conferenze, fonda addirittura a Firenze un Pragmatist Club.
Nel 1906 escono i primi libri di una certa importanza: Il crepuscolo dei filosofi, sagace rassegna a metà tra l’insulto e l’analisi seriosa di Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer, Nietzsche e la raccolta di racconti fantastici Il tragico quotidiano. Il Crepuscolo è un progetto che Papini covava già da anni e che così descriveva: «e intanto, non potendo far nulla, scontento ed eccitato, avido e schivo, scaricavo il mio sdegno in aforismi corrosivi, in sfoghi lirici e mordaci a somiglianza di quelli di Nietzsche; e meditavo, in odio alla filosofia e a Kant suo degno ruffiano, una “Critica di ogni Ragione” – e un “Crepuscolo dei filosofi”». I filosofi al crepuscolo ci vengono presentati come se stessero salendo sul patibolo, con Papini che legge loro le accuse e i motivi della condanna a morte. Non c’è via di scampo ed essi passano in rassegna senza diritto di replica. Lo definisce un macello, un mattatoio, un delirio di onnipotenza, la rivolta di una generazione che si libera dalle catene dei padri. Il primo della lista è Kant, poi arriva Hegel e dietro di lui, a sorpresa, Schopenhauer, che tanto aveva appassionato il giovane Papini; il positivismo è il principale indiziato, non può mancare, e giù contro Comte e Spencer, prima di arrivare a un finale inaspettato: Nietzsche. Proprio il filosofo dello spirito dionisiaco, della volontà di potenza, della morte di Dio e dell’aurora che si annuncia, in altre parole il filosofo che sembrava l’ispiratore recondito dell’avventura leonardiana, veniva affossato senza pietà. Papini lo fa con dolore, ma lo fa perché è costretto, salvarne uno significherebbe salvare l’intero sistema. La lezione kantiana e tutto l’ottocento sono spazzati via d’un colpo solo.
Nello stesso anno intraprende un viaggio a Parigi presso l’amico Ardengo Soffici, dove incontra vari filosofi tra cui Boutroux e Bergson, che gli chiede un’opera in francese sul pragmatismo. Tra i leonardiani nel frattempo nascono forti contrasti, ma la rivista continua le sue pubblicazioni fino a quando, rendendosi i conflitti insanabili, Papini stesso ne decreta la chiusura nell’estate del 1907. Nonostante ciò il programma del pragmatismo procede con nuovo vigore e nuova forza. Papini inaugura una collana di pubblicazioni, dove trovano spazio tutti gli esponenti del pragmatismo americano ed europeo. L’attività di divulgazione continua, ma, accanto a essa, Papini matura la convinzione di superare la lezione del James, e fare del pragmatismo una filosofia dell’azione intrisa di forti motivi religiosi: «bisognava tirarla fuori da quel piede di casa anglosassone, da quel pietismo missionario in borghese, trascinarla per i cieli dell’assurdo». Il progetto non sembra poi così complesso: occorre agganciare il will to believe di James a Novalis, alla mistica romantica e a quella cristiana. Il risultato deve essere una filosofia o, se si vuole, un pragmatismo, in cui «lo spirito potesse far tutto da sé, col solo suo comando, senza niente framezzo».
Si tratta in realtà di una prospettiva che Papini aveva già accarezzato due anni prima, quando con Prezzolini progettava una fantomatica Divine School, una scuola religiosa di ispirazione pragmatista da diffondere prima in America e poi in Europa, per offrire a tutti un nuovo credo in cui i maggiori desideri dell’uomo trovassero accoglimento. Il progetto ovviamente doveva tramontare, nonostante i puntigliosi preparativi; ma l’idea di una filosofia che contemplasse il desiderio di onnipotenza dell’uomo non poteva sparire e sia Prezzolini che Papini avrebbero continuato a perseguire tale obiettivo seppure per strade diverse: il primo passando attraverso Novalis e approdando all’idealismo crociano, il secondo, come abbiamo visto, operando degli sviluppi al pragmatismo di James.
A partire dal 1907 Papini si dedica anche ad un’intensa vita familiare. Nel ’07 si sposa con Giacinta Giovagnoli, nonostante anni prima avesse solennemente giurato insieme a Prezzolini e altri che non si sarebbe mai sposato (l’avrebbero fatto poi tutti), e nascono poi le due figlie Viola e Gioconda, nel 1908 e nel 1910.
Nel 1912, a soli trentuno anni, pubblica la sua autobiografia Un uomo finito, cioè la storia del rapporto tra Papini e Dio, attraverso la mediazione del will to believe, che emerge insistentemente in ogni capitolo; un rapporto che vive momenti di pathos e di riflessioni razionali, senza però risolversi mai in nulla, gettandolo spesso nello sconforto e nella necessità di mutare indirizzo di pensiero verso l’arte e la letteratura. Nel rivolgersi ai giovani, sul finire del libro, esortandoli a adempiere il loro compito di smantellamento, Papini sembra già sentirsi sulla strada del crepuscolo e accetta senza rancore che qualcun altro si faccia avanti. La giovinezza era finita, anche lui diventava storia, padre, una catena di cui liberarsi.
Il distacco dalla giovinezza prepara in qualche modo il definitivo distacco anche dal pragmatismo che, come avrebbe poi detto Prezzolini, non era stato che una cometa, cui dedica ancora un’opera nel 1913, Sul pragmatismo. Proprio nel corso di quest’anno Papini intraprende una nuova via intellettuale, fondando un giornale, più di arte e letteratura che di filosofia, «Lacerba», diretta insieme a Ardengo Soffici, la quale per un breve periodo intrattiene stretti legami con Filippo Tommaso Martinetti e aderisce al futurismo.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Papini si schiera dalla parte degli interventisti e tenta in tutti i modi di arruolarsi, senza riuscirci a causa della forte miopia. Così infatti scrive a Soffici pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto: «molti amici nostri sono partiti o stan per partire. Io sto facendo i documenti per entrare sottotenente. Non si riesce a star qui a non far nulla». Dopo la fine del conflitto si trasferisce a Roma dove scrive per «Il Tempo».
Il 1919 è un nuovo anno di svolta. Papini, dopo un’improvvisa illuminazione,comincia a scrivere La storia di Cristo, che viene pubblicato due anni dopo e ottiene subito un successo mondiale. Negli anni seguenti si susseguono molte pubblicazioni a sfondo letterario o religioso, come Sant’Agostino, Pane e vino, Gog, Eresie letterarie, Dante vivo (che ottiene il premio Firenze). A partire dagli anni ’30, Papini, ormai intellettuale riconosciuto, ottiene numerose attestazioni, come la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Bologna, che già era stata di Carducci e di Pascoli; la nomina ad accademico, che gli consente di lavorare alacremente come organizzatore culturale e redattore di importanti riviste italiane.
Il periodo bellico è trascorso presso il convento della Verna, dove diventa terziario francescano con il nome di fra’ Bonaventura e si intrattiene con i giovani studenti di filosofia e teologia in argomenti filosofici e spirituali. Sul finire del ’44 riesce a tornare a Firenze, dove è protagonista di un episodio singolare: «mentre andavo verso la biblioteca della Fraternità dei laici per cercare una storia della filosofia vedo una macchina americana fermarsi dinanzi a me. Un giovane ufficiale scende e mi chiede se sono io Giovanni Papini. Si comincia a parlare e si viene a sapere che si tratta di due ammiratori miei che erano andati a cercarmi a Firenze. Sorpresa e felicità». Papini oramai è conosciuto a livello mondiale.
Dopo la guerra Papini continua le sue pubblicazioni come Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo, Passato remoto e Il diavolo. A partire dal 1952 iniziano a manifestarsi i sintomi della malattia che lo condurrà alla morte, ma continua a lavorare dettando faticosamente alla nipote Anna. In particolare è da segnalare la rubrica Schegge che tiene sul «Corriere della sera» e che avrà un successo incredibile.
Nel 1956 detta la sua ultima Scheggia: Le felicità dell’infelice: «Una felice agonia cominciava di fatto con la mirabile Scheggia dove l’infelice, più provato e più forte di Giobbe, numerava le felicità sue». Muore a Firenze, nella sua Firenze, che tanto peso ha avuto nella sua formazione culturale di intellettuale brillante e coraggioso.
Il pragmatismo
L’adesione di Papini al pragmatismo risponde a una duplice esigenza: da un lato trovare una soluzione organica ai vari intendimenti filosofici; dall’altro possedere una filosofia in grado di sostenere le proprie scelte esistenziali. In altri termini, a una vita intesa come missione doveva corrispondere una filosofia del fare. Il pragmatismo, in senso etimologico, veniva incontro a tali necessità: il πρὰγμα risultava l’ingrediente indispensabile per una filosofia nuova e una vita all’attacco.
Sotto il profilo filosofico il concetto di azione non è che l’inizio e la fine dell’indagine sul pragmatismo: l’esigenza di una filosofia dell’azione, o pragmatista in senso stretto appunto, porta all’analisi della volontà come funzione determinante non solo dell’azione, ma anche della credenza, a sua volta fondamento di conoscenza e verità, per tornare infine a una nuova definizione dell’azione in chiave volontaristica, idealistica e spiritualistica o, secondo la definizione di Papini, dai tratti magici.
1. Azione
Nell’articolo «Il pragmatismo messo in ordine» Papini sintetizza in sei punti quali siano le origini filosofiche del pragmatismo, inserendovi due riferimenti assai eloquenti: l’utilitarismo in quanto «ha diretto l’attività intellettuale verso i problemi pratici, quelli, cioè, la cui soluzione è suscettibile di fare cambiare alcune delle nostre azioni» e il kantismo, «col suo primato della ragion pratica». Secondo Papini il pragmatismo, proprio per la varietà di aspetti cui si ispira, può essere suddiviso al suo interno in tre regioni: la prima inerisce ai rapporti tra generale e particolare; la seconda alla scelta delle convenzioni rappresentative e ai modi di espressione; la terza alla cultura della credenza. Se le prime due analizzano i modi con cui la filosofia si deve rapportare con la realtà e con se stessa in termini di linguaggio e concetti, la terza regione ci porta al nucleo fondamentale del pragmatismo, «perché insegna il modo di procurarsi delle convinzioni e il modo di trasformare per tale mezzo la realtà», cioè i metodi con cui perveniamo al vero πρὰγμα. Non si tratta, dunque, di determinare le condizioni che generano un’azione qualsiasi o definire le leggi che regolano la nostra condotta, ma di ricercare il motivo profondo e determinante che genera l’Azione originaria, quella in grado di «aumentare il nostro potere di modificare le cose».
La terza regione del pragmatismo riguarda infatti da un lato le cause del credere, cioè l’agire come se si credesse, dall’altro gli effetti del credere sulla verità e sull’azione. In sostanza, il vero πρὰγμα, cioè il potere di modificare la realtà, ha luogo soltanto se noi possediamo una conoscenza certa della realtà, che non può derivare dall’esperienza diretta del mondo, perché parziale e incompleta, ma è fornita da una credenza, che, essendo basata su un atto di fede, ci permette di pervenire a una comprensione assoluta della totalità delle cose. Soltanto con il will to believe possiamo raggiungere il Wille zur Macht, inteso non in senso nietzscheano, ma come «aspirazione a poter agire».
Secondo Papini, per poter agire nella realtà e modificare le cose, occorre fare riferimento a un atto originario che scateni un desiderio di potenza infinita. Un potere siffatto, però, non può essere atemporale e astorico, perché si tratta pur sempre di un potere di cambiare il mondo in cui viviamo e che perciò deve essere conosciuto. L’atto originario è pertanto preceduto da un atto di fede, un will to believe appunto, che ci garantisce la materia su cui possiamo azionare il nostro potere.
Una volta definiti i caratteri del concetto di azione, cioè del πρὰγμα originario alla base di tutti gli altri, è possibile procedere all’analisi delle azioni così come si presentano in concreto nella vita quotidiana. Papini dedica a tale argomento un intero saggio, intitolato Agire senza sentire e sentire senza agire, in cui dimostra come le nostre azioni non dipendano quasi mai da un calcolo razionale, ma siano per lo più riferite ai nostri sentimenti. Già James, in Will to believe, aveva posto l’accento sulla necessità di considerare il comportamento dell’uomo come determinato non solo dagli scopi che la ragione suggerisce, ma soprattutto dalle esigenze dei propri sentimenti.
Secondo Papini, sono quattro i casi in cui si riscontra la reciproca influenza tra azione e sentimento: 1) agire senza sentire per giungere a sentire; 2) agire senza sentire per giungere ad altri scopi; 3) sentire senza agire per non sentire; 4) sentire senza agire per altri scopi. In altri termini, ci troviamo di fronte, nel primo caso, a colui che fa certe cose per interiorizzare un sentimento, nel secondo all’ipocrita, nel terzo allo stoico e nell’ultimo al dissimulatore. Per ogni situazione vengono forniti innumerevoli esempi e riferimenti filosofici e letterari, tanto che il saggio, per come si presenta e per come Papini stesso afferma, è principalmente materia dello psicologo e dell’educatore. In realtà, l’ultimo paragrafo dell’articolo porta a una inaspettata conclusione: «queste soluzioni fra l’agire e il sentire potrebbero essere le prime basi per la creazione definitiva di un’arte di dominare e modificare lo spirito a nostra volontà». L’analisi in concreto delle azioni dell’uomo, come dettate dai sentimenti, rivela una nuova dimensione del πρὰγμα originario. Papini si rende conto che non solo lo spirito agisce sulle cose, ma anche su se stesso, e che una condotta coerente non può prescindere da un’arte di dominare lo spirito, cioè da una prassi e quindi da un’azione che stabilisca da principio in che modo il soggetto debba porsi dinnanzi al mondo e alla sua varietà.
Per modificare il mondo è dunque necessario: conoscere il mondo nella sua interezza attraverso un atto di fede, cioè attraverso una credenza; dare luogo a un’azione originaria, cioè accrescere la nostra potenza nei confronti delle cose; adottare un’arte in grado di dominare il nostro spirito, cioè agire su noi stessi per essere coerenti nel rapportarci alla realtà. Queste strutture si presentano ovviamente in astratto, ma nel concreto non avviene nient’altro che la temporalizzazione di questi momenti: «la fede dunque non agisce direttamente; essa non fa altro che provocare l’azione ed è veramente l’azione che modifica la realtà, cioè il rapporto che noi avevamo stabilito tra fede e realtà non è che in fin dei conti se non un caso speciale dell’influenza della fede sulla realtà».
La particolare accezione del concetto di azione è la chiave di lettura di tutto il pragmatismo papiniano e si configura certamente come una novità rispetto a James, in cui l’azione è spesso semplicemente l’intermediaria tra una credenza e la sua verificazione. In Papini invece rappresenta l’incipit di un nuovo discorso filosofico.
2. Volontà
Il concetto di azione si lega inevitabilmente a quello di ‘volontà’, che ne fa da funzione determinante. La concezione papiniana della volontà riprende senza distinzioni la definizione che James ne aveva dato in Will to believe, in cui per natura volitiva si intendono «tutti i fattori della fede come la paura e la speranza, il pregiudizio e la passione», una volontà non fondata sulla pura ragione ma influenzata dai sentimenti. Papini però non si ferma soltanto a James, ma ricerca in altri autori le stesse considerazioni. Sempre nell’articolo Il pragmatismo messo in ordine, infatti, laddove sono elencati i riferimenti filosofici cui il pragmatismo si ispira, vi è il riferimento al «volontarismo schopenhaueriano il quale ha insistito sull’influenza che la volontà (intendendovi anche i sentimenti) esercita sull’intelligenza».
Papini, in sostanza, è alla ricerca di una volontà che abbia in se stessa i desideri e le aspirazioni dell’uomo. L’agire per modificare la realtà non è solo il fine della volontà, ma ne è anche il motivo determinante, nel senso che la volontà deve inglobare in sé stessa l’esigenza sentimentale e passionale di cambiare le cose che ci circondano. In altri termini il πρὰγμα originario, sotto questa prospettiva, non si configura come un’azione diretta sullo spirito e sulle cose, ma piuttosto come l’insieme dei desideri, dei sentimenti e delle aspirazioni dell’uomo, diventando così il motivo determinante della volontà. Volontà che a sua volta non dà luogo semplicemente alle singole azioni tese a modificare la realtà, ma determina una credenza sul mondo, una volontà di credere appunto, che influisce inevitabilmente sul nostro modo di conoscere e determinare il criterio di verità.
Non si tratta però di una volontà che, in maniera differente, determina di volta in volta un’azione o una credenza o una conoscenza, ma le determina tutte quante insieme. Papini definisce infatti un’azione volontaria come «quel cambiamento di cose fra le cui cause si trovano anche delle nostre credenze». La volontà, dunque, nell’innescare un’azione, allo stesso tempo dà luogo a una conoscenza, facendo sì che l’azione possa concentrarsi su qualcosa che si conosce e che perciò può essere modificato. A tale soluzione Papini era già pervenuto in Morte e resurrezione della filosofia, dove la nascita di una nuova filosofia non sta solo nel conoscere e nell’accettare il mondo, ma nel «salvarlo, trasformarlo ed accrescerlo» e in questo contesto «ci dobbiamo proporre di rendere concreta la volontà, cioè di rendere esternamente i nostri desideri».
Se James aveva introdotto il will to believe nel campo etico e religioso, per far sì che i loro assunti indimostrabili fossero ugualmente accettati come veri, Papini applica la volontà di credere a ogni aspetto della vita dell’uomo, da quello filosofico a quello scientifico. Infatti, anche nei confronti di una teoria scientifica dobbiamo avere volontà di credere, affinché si possa agire su di essa, così come per qualsiasi problema si ponga dinanzi a noi. Soltanto attraverso tale volontà l’azione sulle cose risulta efficace e ci permette di discernere le situazioni utili da quelle non utili, le possibilità di azione da quelle di impotenza.
Da una concezione della volontà relegata a mero strumento attuativo dei nostri desideri, Papini passa a una definizione di essa centrale in tutto il pragmatismo, dove emerge come l’ingrediente indispensabile per determinare, senza mediazioni, una credenza sul mondo che è insieme una teoria della conoscenza e della verità e una teoria della prassi.
3. Credenza
Il concetto di ‘credenza’ era stato introdotto da Peirce come regola d’azione quando ci si trova nelle situazioni di dubbio, ponendo nel risultato dell’azione la sua verificazione. James, a sua volta, lo aveva ripreso nel will to believe affermando che nei casi di morale e religione la credenza produce da sé la sua verificazione. Tale problema è affrontato da Papini nel saggio La volontà di credere, dove, accanto a una interpretazione della fortunata formula jamesiana, apporta nuovi ed importanti contributi.
Secondo Papini la teoria di James può configurarsi come un «elogio del rischio», in quanto anche se ci troviamo dinanzi a situazioni incomprensibili razionalmente, se ci crediamo, non solo possiamo risolverle, ma la fede stessa può renderle vere. Tale assunto è riducibile a due affermazioni fondamentali: 1) è preferibile il rischio di una scelta attiva a una scelta passiva; 2) in certi casi la fede è la sola che possa rendere vero il risultato o, in altri termini, il pensiero diventa padrone del fatto. La credenza, in sostanza, ci permette di agire anche quando razionalmente saremmo portati all’inerzia.
Se è vero che da una credenza scaturisce un’azione sulla realtà, non è altrettanto sicuro che, come afferma James, una credenza abbia un effetto immediato sulla realtà: «la fede cioè non può modificare senza l’intermediario di azioni muscolari e strumenti la realtà, ma può modificare soltanto il nostro spirito». Anche lo spirito però non può essere modificato dalla fede in modo diretto, perché «la fede sola, non accompagnata da fatti, da azioni corrispondenti, non riesce a nulla», così come un’azione indiscriminata, ovvero non accompagnata da una credenza, non porta a nulla: «bisogna cioè che alla fede tengano dietro degli atti». La volontà infatti non genera solo una credenza, ma nello stesso tempo anche un’azione corrispondente: azione e credenza sono due atti volitivi contemporanei e necessariamente collegati.
In altre parole, in seguito a una credenza si compiono degli atti corrispondenti, la cui ripetizione e la sicurezza che ne deriva, contribuiscono a rendere vera la credenza di partenza. Secondo Papini è vero che la credenza crea la sua stessa verificazione, ma lo fa non per se stessa, ma per mezzo di azioni che le sono corrispondenti. La modificazione della realtà dunque avviene per mezzo di azioni esterne, mentre la modificazione dello spirito avviene per mezzo delle abitudini, nel senso peirciano di habitus, che le azioni ripetute contribuiscono a formare. Nel caso delle modificazioni dello spirito torna quindi la definizione di credenza del Peirce, per cui le credenze sono regole per l’azione, cioè abitudini, vere perché utili nell’esperienza concreta. Papini, in sostanza, utilizza due pesi e due misure: nei confronti della realtà è lecita la credenza auto-verificantesi; nei confronti dello spirito la credenza è verificata dai risultati delle azioni, che, se positivi, forniscono delle regole sotto forma di abitudini.
4. Conoscenza e Verità
Il concetto di credenza implica necessariamente l’analisi dei criteri di verità e di conoscenza. Non si tratta per Papini di fondare una gnoseologia o una teoria della verità in chiave pragmatistica, ma mostrare come le nostre credenze influiscono, oltre che sulle nostre azioni, sul modo in cui concepiamo talune realtà, in modo particolare quelle di cui non possiamo avere esperienza diretta. Appartengono a questa sfera non solo gli aspetti religiosi e morali, sulla scorta di James, ma anche e soprattutto le teorie scientifiche, i nostri modi di prevedere le cose e le nostre regole d’azione in un determinato campo. Tutto ciò che trascende la mera particolarità delle cose, dai concetti ai sistemi, è credenza o, più precisamente, ‘previsione’.
All’interno del saggio Introduzione al pragmatismo, Papini precisa più volte il proprio pensiero su questo punto: «una delle massime più care ai pragmatisti è questa: che il senso delle cose consiste unicamente nelle conseguenze che ne aspettano quelli che le ritengono vere»; concetto che ribadisce alcune righe più avanti, dove afferma che «il pragmatismo non considera la previsione come possibilità di applicazioni pratiche o come aiuto per la verifica delle teorie, ma anche come mezzo di definizione e interpretazione delle teorie medesime». In altri termini, per conoscere ciò che accadrà o ciò che accade ma che risulta incomprensibile, si formula una teoria, cioè una credenza, la quale ci rassicura momentaneamente su come si svolgono o si svolgeranno le cose. La credenza implica delle azioni corrispondenti, che permettono di verificare o falsificare la credenza di partenza. Poiché la credenza fa sempre riferimento alla natura volitiva e, quindi, anche ai sentimenti e alle passioni, il criterio di verità e falsità non varrà per se stesso, ma dipenderà dall’utilità o meno che i risultati delle azioni avranno per le nostre aspirazioni. La volontà, dunque, determina una credenza e un’azione corrispondente, le quali risponderanno al criterio di utilità, risultando, in virtù di questo, vere oppure false.
Papini, contrariamente alla lezione di James, cui dice di riferirsi, non si sofferma in modo approfondito sul binomio verità-utilità, preferendo concentrarsi sull’intreccio tra volontà, azione, credenza e conoscenza. Il saggio Volontà e conoscenza, infatti, analizza «l’influenza che certi cambiamenti prodotti da credenze hanno su altre nostre credenze», che si manifesta in modo visibile proprio «nell’influenza di ciò che si fa su ciò che si sa». Di tale influenza si possono riconoscere quattro casi fondamentali: i primi due riguardano l’influenza di ciò che si fa delle cose sulla conoscenza delle cose e di noi stessi; gli altri due sull’influenza di ciò che si fa di noi sulla conoscenza di noi stessi e delle cose. Il primo caso inerisce agli esperimenti che noi operiamo al fine di accrescere le nostre conoscenze; il secondo riguarda l’aumento della nostra capacità di prevedere ciò che saremo in grado di fare in futuro di fronte a alcune situazioni; il terzo si riferisce agli «esperimenti personali», che ci informano sulle nostre potenzialità di azione; il quarto fa riferimento alla possibilità di cambiare le nostre abitudini mentali, affinché si possa influire direttamente sulla conoscenza delle cose. In altri termini, «non soltanto, dunque, quel che si fa dipende da quel che si sa, ma anche quel che si sa dipende da ciò che si fa».
La sfera della conoscenza in Papini non è autonoma rispetto alla pratica, ma anzi si nutre di essa per accrescere i propri confini. Attraverso le azioni, possiamo non solo verificare o falsificare le teorie, ma anche cambiare le nostre abitudini mentali, cioè le nostre credenze, in modo da renderle duttili di fronte ai nuovi scenari che la scienza può porci davanti. Papini sintetizza più volte questo argomento giocando sul noto detto baconiano “il sapere dà il potere”, trasformandolo in “il potere dà il sapere”, intendendo con ciò che il potere di agire sulla realtà e su noi stessi amplifica la nostra conoscenza delle cose.
5. Pragmatismo magico
5.1 Dal Pragmatismo al concetto di «Uomo-Dio»
Il saggio di apertura di Sul pragmatismo, che è anche cronologicamente il primo della produzione filosofica di Papini, appare come un discorso programmatico per una nuova filosofia, cui i saggi successivi, anche quelli che guardano più da vicino le teorie jamesiane, tengono fede in modo coerente. Papini, infatti, dopo aver dimostrato l’inutilità della filosofia, così come si era configurata storicamente, per le esigenze della nuova generazione, ne annuncia la resurrezione con un nuovo obiettivo: «una sola ambizione conserveremo: il possesso intero della realtà». E’ questo, in fondo, il nocciolo del pragmatismo papiniano, su cui ruotano quei concetti che gli studi di James gli avevano suggerito. Il pragmatismo americano forniva a Papini semplicemente un panorama concettuale su cui si adattava benissimo il nuovo progetto filosofico. La famosa teoria del pragmatismo come «corridoio di un grande albergo» rende perfettamente l’idea di come Papini stesso sia consapevole di muoversi verso orizzonti diversi da quelli che James aveva indicato.
Anche nell’autobiografia torna su questo punto, dedicandovi un passo che merita di essere riportato integralmente, perché fornisce la prospettiva in cui leggere il suo pragmatismo:
Il famoso pragmatismo non m’importava già in quanto regola di ricerca, cautela di procedimenti e riforma di metodi. Io guardavo più in là. In me sorgeva il sogno taumaturgico: il bisogno, il desiderio di purificare e rafforzare lo spirito per farlo capace d’agir sulle cose, senza strumenti e intermediari, e giunger così al miracolo e all’onnipotenza. Attraverso la «volontà di credere», tendevo alla «volontà di fare» – alla possibilità di fare. Se la volontà potesse estendere il suo cerchio di comando dal corpo proprio alle cose che lo circondano – e far sì che tutto l’universo fosse il suo corpo, obbediente in ogni parte a un ordine suo, come ora son obbedienti questi pochi fasci di muscoli! Fingevo di partire da un precetto di logica (pragmatismo) ma l’anima più segreta mia era assetata e invidiosa della divinità.
Il sogno della divinità e della magia, l’ambizione di possedere la realtà e di trasformarla, sono il filtro per comprendere per quale motivo i concetti che il pragmatismo pone sul tappeto siano così cari al programma papiniano: l’azione modifica le cose, la credenza le giustifica, la volontà genera l’azione, la conoscenza possiede la realtà.
E’ dalla combinazione di questi elementi che il pragmatismo diventa magico, perché con la pratica (accezione etimologica di pragmatismo assunta da Papini) «noi sfuggiamo a tutti gli inganni e a tutti i tradimenti del razionalismo e dell’espressione» e «creiamo collo spirito (nuovi mondi) e coll’azione che vivifica, per mezzo dello spirito, le cose, tendiamo a una più intensa psichizzazione del mondo». Si tratta di entrare nella realtà per cambiarla dal suo interno, sradicando il rapporto soggetto-oggetto che tutta la filosofia aveva insegnato, per fare sì che senza strumenti, ma con il solo miracolo si possa modificare il mondo. Soltanto l’«Uomo-Dio» può incarnare una potenza siffatta.
Papini dedica a tale figura un intero saggio, intitolato Dall’Uomo a Dio, dove ne analizza i caratteri, gli scopi, le creazioni. «Uomo-Dio» ha tre significati: cristiano, mistico, magico. Il significato cristiano implica il concetto di incarnazione, quello mistico la fusione dell’anima personale con l’essere universale, quello magico conduce all’idea di imitazione, ovvero «l’anima cerca di acquistare i poteri attribuiti a Dio, diventa divina in quanto le cose sono parti obbedienti di essa». Papini sceglie l’accezione magica, perché essa inverte il tradizionale rapporto tra uomo e divinità che la tradizione filosofica e teologica aveva imposto: «non è più Dio che s’incarna, ma è l’uomo che s’india».
Secondo Papini, l’esigenza della divinità è innata nell’uomo, perché l’insoddisfazione del presente ci porta a desiderare e a possedere sempre più. Si tratta di un tormento dal quale l’uomo può uscire attraverso due vie: la rinuncia o il possesso. Il metodo della rinuncia è storicamente fallito, nonostante la predicazione del cristianesimo e del buddhismo, e il desiderio di onnipotenza può aprire nuove prospettive. Ottenuta l’onnipotenza, l’«Uomo-Dio» non avrà più desideri e, quindi, sofferenze, ma inizierà a disprezzare le cose per la loro abbondanza e per la loro facilità a ottenerle. Se muore il desiderio, muore anche l’azione e senza azione cesseranno i cambiamenti: «il mondo diventerà, attraverso l’Uomo-Dio, una sola cosa, immobile, omogenea. […] La grande opera, il resultato ultimo dell’Uomo-Dio sarà la fine del mondo per mezzo della sua perfezione».
La strada per raggiungere l’«Uomo-Dio» è lunga e faticosa, occorre agire e imparare ad agire in modo diverso da come si fa quotidianamente. Non si tratta di un desiderio poetico o di un sogno delirante, ma di un problema strettamente pratico, ovvero la ricerca di una definitiva e sicura «arte del miracolo». Papini rintraccia le basi per un insieme di norme e regole in grado di aiutarci su questa via nei santi, nei mistici, nei profeti, nei fakiri, negli yoghi, in tutto un mondo di scuole spirituali scomparso o nascosto, la cui matrice di fondo è l’idea di un panteismo dove l’uomo può fare da spirito vivificatore della realtà.
L’obiettivo dell’«Uomo-Dio» è la pace definitiva, o nirvana, o quietude, che si raggiunge attraverso il cambiamento radicale del mondo secondo i propri modelli e i propri ideali. Tali modelli sono forniti dall’arte, dalla religione, dalla metafisica, «ch’esprimono i desideri di certi uomini singolari intorno alla costituzione dell’universo». Ma questi da soli non bastano, occorre un ulteriore contenitore di modelli, che contempli anche ciò che non esiste e ciò che non esisterà: queste sono le «scienze immaginarie», scienze cioè «di quello che accadrebbe se certe condizioni, certi fatti, certe parti della realtà cambiassero». L’«Uomo-Dio», in sostanza, distrugge i tormenti dell’uomo attraverso l’onnipotenza, che lo rende padrone di un’arte in grado di dominare e cambiare le cose, secondo tutti i modelli possibili immaginabili.
E’ il pragmatismo magico la risoluzione di questo problema pratico, di questa prassi dell’onnipotenza, di questa arte del miracolo. E’ un pragmatismo perché è una filosofia dell’azione, è magico perché permette all’uomo di diventare Dio, cioè di giungere all’onnipotenza. Il πρὰγμα è, in definitiva, l’azione che porta alla metamorfosi in una divinità.
5.2 Riferimenti filosofici
Secondo Papini, il pragmatismo magico doveva nascere dalle ceneri della filosofia, ma è proprio dagli autori del «Crepuscolo dei filosofi» che trae gli spunti migliori. Vi sono infatti, seppur interpretati in modo originale, il Kant della Ragion Pratica, l’Hegel dello Spirito Assoluto, lo Schopenhauer del Nirvana, il Nietzsche del Super-Uomo, il positivismo del primato della scienza. Papini comunque non si ferma soltanto a questi autori: certamente si possono rintracciare altri riferimenti importanti come la concezione della magia del ‘400-‘500, secondo cui l’anima dell’individuo, essendo parte della natura, poteva modificare la realtà dal suo interno, o il misticismo medievale, attraverso la figura di Eckhart e il suo processo di deificatio, che presuppone il distacco alle cose terrene e finite.
Tuttavia è da Novalis che Papini ottiene i suggerimenti più importanti per la definizione del pragmatismo magico. Innanzi tutto, la concezione di Novalis della poesia in senso etimologico (da ποιει̃ν, fare), come creazione, ben si adatta al significato che Papini dà al suo pragmatismo, e la stessa riduzione della filosofia a poesia coincide perfettamente con l’esigenza di passare dalla metafisica alla pratica. Il pragmatismo magico è, in sostanza, l’«idealismo magico» di Novalis e non è un caso che alcune formule del filosofo romantico siano riprese di peso dallo stesso Papini. Ad esempio, riguardo alla necessità di modificare il mondo secondo le proprie aspirazioni, Novalis afferma: «il mondo dev’essere com’io voglio. Il mondo è originariamente com’io voglio – se non lo trovo così, allora devo cercare l’errore di questo prodotto in entrambi i fattori – o in uno solo»; oppure, «io potrò ordinare il mondo per me – tramite le sue leggi – fermi restando il mondo e le sue leggi». Anche sulla figura dell’«Uomo-Dio» è possibile rintracciare dei riferimenti in Novalis: «ogni uomo che adesso vive di Dio e mediante Dio, deve egli stesso divenire Dio»; «come il corpo sta in connessione con il mondo, così l’anima con lo spirito. Entrambe le strade partono dall’uomo e terminano in Dio». In altri termini, le coincidenze tra Papini e Novalis si possono sintetizzare in questi aspetti: l’«Uomo-Dio» onnipotente come il soggetto individuale; il possesso della realtà come l’unità tra individuo e natura; l’«indiarsi» dell’uomo come l’unità tra uomo e Dio. Papini non fa altro che leggere Novalis attraverso i concetti del pragmatismo americano, che ne escono rimodellati e adattati all’esigenza di definire con ulteriori spunti il pragmatismo magico.
Il romanticismo entra pienamente nell’opera di Papini, non solo con la figura del Novalis, ma come spirito che pervade tratti della storia della filosofia. Il tema è affrontato in Unico e diverso, dove il romantico è messo a confronto e in contrasto con lo spirito classico. Il romanticismo è attività, libertà, mobilità, sentimento, volontà, passione, pessimismo, idealismo, misticismo, genio, rivoluzione. A questi si contrappongono i caratteri del classico come passività, determinismo, fissità, ragione, conoscenza, dovere, ottimismo, positivismo, teologia, normalità, tradizione. Una contrapposizione che ricorda vagamente quella tra spirito dionisiaco e spirito apollineo di Nietzsche. Il romanticismo «rappresenta la liberazione dell’uomo, dell’individuo particolare e passionale, fantastico e mobile, contro l’armatura di tradizioni, di regole, di norme, di leggi, di uniformità che fasciavano e asfissiavano la libera vita». La soppressione dello spirito classico permette il ritorno delle aspirazioni dell’uomo, il suo desiderio di onnipotenza. Muore la filosofia dei sistemi, delle dimostrazioni, della logica e nasce o, meglio si impone, la filosofia della volontà, dell’azione, della potenza.
In tale contesto James sembra sparire. Invece è proprio dal filosofo americano che Papini intraprende la via per il nuovo modello filosofico: «presi dunque la parte che suggeriva di più – quella che insegnava come rendere vere per mezzo della fede, le credenze non rispondenti alla realtà». Gli studi di James forniscono l’incipit e un supporto filosofico fondamentale: «come la conoscenza scientifica creava, in certo modo, i fatti, così la volontà di credere creava la verità, così lo spirito doveva agire sul tutto».
Il pragmatismo magico è la sintesi di una lettura personale e fortemente arbitraria di quegli autori che meglio si adattano all’esigenza esistenziale di uscire dal pessimismo conoscitivo, in cui Papini era caduto in gioventù. Il pragmatismo magico non nasce dall’analisi puntuale del pragmatismo americano, ma si serve di esso per interpretare altri autori e inserire in una nuova filosofia elementi talvolta lontani e contraddittori ma con il minimo comune denominatore del primato dell’azione, della volontà e dell’onnipotenza, del soggetto nei confronti della realtà.
ROMAN JACOBSON
A cura di Riflessioni.it
Roman Jakobson, filologo, linguista e critico russo (Mosca 1896 – Boston 1982), fu uno dei principali esponenti del cosiddetto “Circolo linguistico di Praga”, (fondato nel 1926), che enunciò il suo programma nelle Tesi pubblicate nel 1929. L’assunto cardinale su cui poggia questa nuova scuola è che non si può capire alcun fatto linguistico se non si tiene conto del sistema a cui appartiene.
Jakobson iniziò gli studi di linguistica comparata e di filologia slava a Mosca, assecondando al contempo la sua passione per la poesia e frequentando così i migliori poeti dell’avanguardia russa, come Majakovskij ed Elsa Triolet, ai quali si legò con profonda amicizia. Fu animatore e fondatore, a soli 19 anni, del “Circolo linguistico di Mosca”, che aveva come scopo lo studio della linguistica, della poesia, della metrica e del folclore, e all’interno del quale si svilupparono le tesi del formalismo russo. Nel 1920, Jakobson si trasferì a Praga, città in cui iniziò a insegnare e a lavorare agli abbozzi della sua fonologia con l’amico Nikolai Troubetzkoy, intrattenendo rapporti anche con Carnap. Nel 1926, partecipò alla fondazione del Circolo linguistico di Praga, contribuendo alacremente alla redazione delle tesi del Circolo concernenti la fonologia e le funzioni del linguaggio. Nel 1933, durante il periodo di insegnamento a Brno (Cecoslovacchia), accolse definitivamente i princìpi della linguistica strutturale. L’esplosione del secondo conflitto mondiale e la barbarie nazifascista costrinsero Jakobson a rifugiarsi prima in Scandinavia e poi a lasciare definitivamente l’Europa alla volta degli Stati Uniti d’America. Nel 1941, insegnò all’Università francese di New York, dove incontrò Claude Levy-Strauss, e poi alla Columbia University. Dal 1949 al 1957 fu a Harvard; nel 1957 ottenne una cattedra al Massachusetts Institute of Technology, dove, fra gli altri, sarebbe stato suo allievo Noam Chomsky. In questi anni, si occupò di semantica, della tradizione epica russa, di mitologia comparata indoeuropea; allo stesso tempo, Jakobson approfondiva i suoi nuovi interessi in direzione della cibernetica, della psicologia, della neurologia, della biologia, della psicanalisi e delle arti visive. Secondo Jakobson, fattori come la sonorità, la gravità, la tensione, sarebbero universali fonologici, differendo nelle diverse lingue soltanto a causa della loro diversa combinazione. Per quanto concerne l’apprendimento linguistico, è Jakobson a notare che l’apparizione progressiva dei fonemi nell’infante avviene secondo un ordine preciso: per primi i fonemi in cui compaiono la vocale “a” e le consonanti labiali “m”, “p” e, solo più tardi, i fonemi comprendenti “i/e” e “k/g”; questi fonemi e questa precisa successione si riscontrerebbero, secondo Jakobson, in tutte le lingue secondo leggi fonologicamente universali. Jakobson precisò inoltre i concetti linguistici di metafora (selezione di unità simili) e metonimia (selezione di unità vicine). In tutte le sue opere, l’accento è costantemente posto sulla comunicazione e sulle funzioni del linguaggio: esso può essere referenziale (messaggio come contenuto); emotivo; fatico, per mantenere il contatto tra i due interlocutori; poetico; metalinguistico, per l’esplicitazione o spiegazione del codice linguistico stesso. In particolare, Jakobson insiste molto sulla molteplicità delle funzioni che il linguaggio è in grado di assolvere e sulle connessioni tra “sincronia” e “diacronia”, per cui anche i cambiamenti presentano caratteri strutturali, mentre anche i sistemi hanno carattere dinamico. Fra le sue opere più importanti si ricordano: Remarques sur l’évolution phonologique du russe (1929), Kindersprache, Aphasie und allgemeine Hautgesetze (1941; Lingua infantile, afasia e leggi fonetiche generali), La geste du prince Igor (1948), Essais de linguistique générale (1963; Saggi di linguistica generale), Studies on Child Language and Aphasia (1971; Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Linguaggio infantile ed afasia), Questions de poétique (1973), Six leçons sur les sons et le sens (1976).
JEAN-MARC FERRY
Jean-Marc Ferry, filosofo del diritto e docente in Canada, ha svolto importanti riflessioni sui temi dell’etica pubblica e del diritto, ponendosi in continuità con la riflessione della Scuola di Francoforte; tra i suoi scritti più importanti ricordiamo L’etica ricostruttiva (1996), Les Puissances de l’expérience (1991), Philosophie de la communication (1994), L’Allocation universelle (1995, 1996), La Question de l’Etat européen (2000), De la Civilisation (2001), Valeurs et normes. La question de l’éthique (2002), L’Europe, l’Amérique et le monde (2004), Les Grammaires de l’intelligence (2004), Europe, la voie kantienne (2005). Filosofo del diritto con uno spiccato interesse per l’ambito normativo, Ferry pone al cuore della sua riflessione la fondazione dell’etica pubblica, nell’ambizioso tentativo di giustificare norme sociali che possano valere in un contesto socialmente atomizzato e multiculturale quale è quello delle società contemporanee. Grande influenza ha esercitato su Ferry la “teoria critica” della Scuola di Francoforte, della cui cosiddetta “terza generazione” egli stesso ha fatto parte: in particolare, il nostro autore risulta influenzato dall’“etica del discorso” di Jürgen Habermas. Con quest’ultimo pensatore, egli condivide l’esigenza di superare il “formalismo astratto del diritto” e di rivolgersi a quel “mondo della vita” (Lebenswelt) che tende sempre più ad essere soffocato dalle spire del “sistema”. Ferry declina il tema dell’etica pubblica nei termini di un’etica ricostruttiva della comunicazione, ossia di un’etica che ponga al centro non tanto la validità degli argomenti o l’espressività delle esperienze raccontate, bensì l’attenzione e il riconoscimento della vulnerabilità delle persone implicate nella discussione. In particolare, è l’assoluta centralità della persona a implicare una ricostruzione dei presupposti che rendono possibile il rispetto e il riconoscimento reciproco attraverso l’assunzione di ogni forma di violenza passata e presente. La violenza, infatti, ha una portata devastante, tale da non poter mai essere eliminata dal diritto, con la conseguenza fondamentale che, per poter fronteggiare la violenza, occorre spingersi più in là del diritto; in particolare, quest’ultimo non è in grado di considerare adeguatamente la vulnerabilità delle persone, giacché si arresta sempre al mero formalismo. Rispetto a Habermas, Ferry intende la comunicazione in senso etico e relazionale più che come prestazione noetica. E il nostro autore cerca di andare al di là delle posizioni dei “contestualisti” e dei “proceduralisti”, entrambe unilaterali e incapaci di risolvere i problemi: i primi (“contestualisti”) credono in un bene comune, a cui fare riferimento per fondare le norme; i secondi (“proceduralisti”), invece, sono convinti che le norme debbano essere fondate sul giusto, che è ben altra cosa rispetto al bene. La dicotomia tra contestualisti e proceduralisti, nota Ferry, trova la sua massima espressione nella polarità narrazione-argomentazione: la prima è tipica dei contestualisti, la seconda dei proceduralisti. Ferry non fa certo mistero di provare una forte simpatia per il proceduralismo, riconoscendo che il formalismo affonda le sue radici nelle “guerre di religione” con le quali si apre la modernità, esattamente nel tentativo hobbesiano di separare lo Stato dalla Chiesa. Tuttavia – nota Ferry – il grande limite del proceduralismo sta nel non saper rendere conto di certi fenomeni di richiesta normativa, come ad esempio i problemi di bioetica: di qui l’esigenza di andare oltre il proceduralismo. Infatti, alla luce di questa insufficienza congenita al formalismo, il nostro autore va sostenendo l’esigenza di un costante riferimento alla sfera valoriale e al “mondo della vita”. Sull’altro versante, i contestualisti fanno ricorso alla forma della narrazione, che è una forma primitiva di esprimere la memoria: primitiva perché incapace di distinguere tra finzione e realtà, tra interpretazioni e fatti; al contrario, l’argomentazione – che è lo strumento dei proceduralisti – ha per obiettivo la validità degli argomenti squadernati, ma ha il suo maggiore limite nel mancato riferimento al mondo dei valori. È proprio alla luce di questa insufficienza sia del proceduralismo sia del contestualismo che Ferry sostiene la necessità della ricostruzione, di un’etica ricostruttiva, che si ponga appunto al di là del contestualismo e del proceduralismo, pur accogliendo alcune istanze di essi: la ricostruzione non narra né universalizza argomentativamente, piuttosto ripercorre a ritroso i sentieri che hanno portato alla violenza, al fine di cercare di porre un qualche riparo. Sicché la ricostruzione ha a che fare col passato (con la violenza accaduta), nella misura in cui cerca di comprendere che cosa ha portato una persona ad agire in un dato modo: in particolare, essa si configura come un tentativo di porre in relazione gli interlocutori e di permettere all’altro di dire ciò che ha da dire, a prescindere dalla validità o dalla verità del suo discorso. La ricostruzione presenta dunque una grande capacità di riconoscimento della vulnerabilità delle persone e una forte responsabilità nei confronti del passato. Quando parla di “ricostruzione”, Ferry si richiama espressamente a Hobbes (ad avviso del quale il riconoscimento avviene sempre a partire dallo scontro violento delle identità), a Fichte (per il quale il riconoscimento scaturisce dall’esigenza del soggetto di relazionarsi all’altro) e a Hegel, che dei due autori precedenti è, per così dire, il momento di sintesi: Hegel, infatti, intende il riconoscimento come lotta contro l’altro e, al tempo stesso, come desiderio di relazionarsi ad esso. Quando l’altro mi riconosce – nota Ferry – riconosce la mia vulnerabilità, il mio essere esposto alla violenza. Sulle orme delle Tesi sulla filosofia della storia di Walter Benjamin, Ferry ritiene che sia necessario non soltanto un riconoscimento delle persone del presente, ma anche di quelle del passato, le quali non vivono più se non nel nostro ricordo: ne nasce un’utopia invertita, ossia giocata non sull’anticipazione, bensì sulla restaurazione e sulla riparazione. Si tratta cioè – seguendo l’insegnamento di Benjamin – redimere il presente attraverso una incursione del passato che non ha avuto luogo, che è passato sotto silenzio e che è stato mistificato dal racconto dei vincitori (che sono poi coloro che scrivono la storia).
GREGORY BATESON
A cura di Fabrizio Cerroni
«Desidero esprimere la mia convinzione che certi fatti come la simmetria bilaterale di un animale, la disposizione strutturata delle foglie in una pianta. l’amplificazione progressiva della corsa agli armamenti, le pratiche del corteggiamento, la natura del gioco, la grammatica di una frase, il mistero dell’evoluzione biologica, e la crisi in cui oggi si trovano i rapporti tra l’uomo e l’ambiente, possano essere compresi solo in termini di un’ecologia delle idee così come io la propongo» (Verso un’ecologia della Mente).
VITA E OPERE
Gregory Bateson nasce il 9 Maggio 1904 in Inghilterra. Suo padre era il famoso biologo William Bateson, padre della genetica.
Dal 1922 Bateson studia storia naturale al St. John’s College di Cambridge, ma ben presto abbandona la storia naturale per dedicarsi all’antropologia. Fu allievo di Malinowski, con il quale fu in disaccordo, e di Radcliffe-Brown, di cui rimane favorevolmente impressionato, tanto da aderire totalmente alla sua teoria struttural-funzionalista.
Le sue prime ricerche sul campo furono in Nuova Guinea, dove studiò la tribù degli Iatmul, ed in Indonesia, in particolare a Bali. Quanto ai primi, si concentrò su un rito degli stessi: il Naven. Ben presto si accorse come l’approccio struttural-funzionalista sia del tutto insufficiente per comprendere questo rito, soprattutto nei suoi aspetti emotivi. Ne segue una situazione di stallo, che superò grazie all’arrivo sull’isola dell’antropologa Margaret Mead, i fondamentali discorsi con la quale lo aiuteranno nell’analisi del rito. Frutto di questa collaborazione è il primo saggio di Bateson: Naven (1936). Nello stesso anno Bateson e Margaret Mead si sposarono (divorzieranno nel 1951). Dal matrimonio nacque Mary Catherine che sarà antropologa anch’essa, ed aiuterà il padre nelle sue ultime opere. Quanto ai balinesi, ai risultati della sua analisi relativa ad essi Bateson dedicò il saggio: Il Carattere Balinese (1942), scritto in collaborazione con Margaret Mead. Entrambi i lavoro si caratterizzano per essere tra i primi studi antropologi ad utilizzare strumenti fotografici e cinematografici per documentare le interazioni fra indigeni.
Oltre a questi saggi, nello stesso periodo scrisse importanti articoli, tra cui: Social Structure of the Iatmul People of the Sepik River (1932-1935); Music in New Guinea (1935); e Culture Contact and Schismogenesis (1935, incluso nella raccolta Verso un’Ecologia della Mente); Age Conflicts and Radical Youth (1941); The Frustration-aggression Hypothesis and Culture (1941).
Nel 1939 si trasferì negli Stati Uniti a causa della guerra, durante la quale lavorò in Estremo Oriente all’Ufficio Studi Strategici come consulente antropologico per la propaganda. Negli stessi anni, ad opera di ricercatori come Norbert Wiener, Ross Ashby, John Von Neumann, Warren McCulloch, Arturo Rosenblueth sta nascendo negli Stati Uniti una nuova disciplina: la cibernetica. Bateson contribuì sin dalle origini allo sviluppo di questa scienza che lo influenzò profondamente.
In seguito, dopo essere stato visiting professor a Harvard, ricercatore associato al Lanley Porter Neuropsichiatric Institute di San Francisco, si trasferì a Palo Alto dove fu docente all’università di Stanford e consulente etnologico del Veterans Administration Hospital. Si occupa qui di psichiatria operando con un gruppo di collaboratori: John H.Weakland, ingegnere chimico, Jay Hayley, psicologo sociale, e dal 1956 Don Jackson, psichiatra. In particolare, Bateson si concentrò sui problemi della psicosi, elaborando la teoria del double bind (doppio vincolo o doppio legame), ipotesi esplicativa della schizofrenia, che viene collegata ai patterns comunicativi della famiglia e della società, ripresa dalla scuola psichiatrica di Palo Alto, da P. Watzlawick e per determinati aspetti da R. Laing.
Nell’ambito psicoterapeutico Bateson introdusse un metodo terapeutico basato sull’analisi non del singolo malato, ma della sua intera famiglia. Tale metodo, denominato terapia famigliare ad orientamento sistemico, è oggi ampiamente utilizzato. Sullo stesso argomento scrisse, nel 1951, con J. Ruesch il volume La Matrice Sociale della Psichiatria. Bateson dedicherà alla psicologia altre opere come: l’Umorismo nella Comunicazione Umana (1953); Perceval un Paziente Narra la Propria Psicosi, 1830-1832(1961); nonché numerosi articoli e conferenze.
Successivamente Bateson si occupò di biologia svolgendo ricerche sulla comunicazione degli animali, in particolare dei delfini, all’Istituto Oceanografico delle Hawaii.
Dal 1972 fu professore al Kresge College, un’università della California. Il suo corso s’intitolava Ecologia della Mente.
Tale titolo fu ripreso per l’opera che lo rese famoso: Verso un’Ecologia della Mente (1972), la quale testimonia la varietà degli interessi di Bateson, trattando di antropologia, psichiatria, cibernetica, evoluzione biologica, genetica, ecologia, e manifestando il carattere unitario ed olistico del suo approccio. Altre raccolte sono Mente e Natura (1979), nella quale è esposta nel modo più compiuto la sua teoria; e Una Sacra Unità. Altri Passi Verso un’Ecologia della Mente (1997), pubblicato postumo
Deluso dall’ambiente scientifico, nel quale il suo libro passa inosservato, si ritira presso l’Esalen Institute. Inizia a scrivere Dove gli Angeli Esitano. Vero un’Epistemologia del Sacro, pubblicato postumo da Mary Cathrine Bateson nel 1987. Gravemente malato di polmonite, dopo essere stato malato di cancro, la sua diffidenza dalla scienza lo porta a non farsi ricoverare in ospedale. Muore il 4 Luglio 1980.
IL PENSIERO: L’ECOLOGIA DELLE IDEE
Bateson non si è occupato di filosofia in senso stretto, ma piuttosto dell’«area d’incontro tra il pensiero filosofico molto astratto e formale da una parte e la storia naturale dell’uomo e delle altre creature dall’altra» (Verso un’Ecologia della Mente).
Il metodo di Bateson è fortemente olistico, volto ad individuare le connessioni esistenti tra fenomeni come la struttura delle foglie, la grammatica di una frase, la simmetria bilaterale di un animale, la corsa agli armamenti, ecc. Questa epistemologia basata sulla cibernetica è definita da Bateson ecologia delle idee.
L’ecologia delle idee è orientata allo studio dei sistemi evolutivi. Occupandosi dell’evoluzione, questo modello considera anche l’apprendimento che appartiene alla stessa classe di fenomeni. L’evoluzione è considerata come un processo conservativo volto ad assicurare la sopravvivenza del sistema. Di questi sistemi Bateson ne considera tre, in ordine crescente: l’individuo, la società in cui l’individuo vive e l’ecosistema.
Questi sistemi sono reti cibernetiche complesse, anelli collegati da una catena di processi causali. Essi sono formati al loro interno da sottosistemi, ad esempio l’uomo e gli altri animali sono sottosistemi dell’ecosistema, le cellule sono sottosistemi degli individui. Ognuno di questi sottosistemi possiede processi potenzialmente rigenerativi che se lasciati a se stessi crescono in maniera esponenziale. Un esempio di questi processi è dato dalla schismogenesi, l’interazione cumulativa tra le componenti del sistema che può portare al crollo di quest’ultimo; un tipico processo schismogenetico è la corsa agli armamenti. Per questa ragione il sistema deve contenere meccanismi di regolazione volti a garantire l’equilibrio, riportando il sistema allo stato stazionario. La presenza di questi meccanismi fa sì che il sistema sia autocorrettivo. Essi consistono in uno scambio di informazioni attraverso un processo comunicativo; pertanto la comunicazione è un mezzo omeostatico volto a mantenere la stabilità del sistema. In altri termini, la comunicazione è lo strumento attraverso cui si realizzano le connessioni nel sistema. Per questa ragione Bateson afferma che la biologia e la grammatica rispondono alle stesse leggi formali. Entrambe si occupano di relazioni; l’analisi logica che afferma ciò che una cosa è illusoria, statica. Al contrario, ciò che conta è la dinamica del pattern relazionale che si svolge tra soggetto e predicato. Nei mammiferi preverbali la comunicazione ha carattere iconico ed analogico, e verte principalmente sulla struttura delle relazioni, e solo indirettamente sulle cose. Con il linguaggio accade l’opposto: la comunicazione umana riguarda le cose, ma indirettamente rimane sempre discussione sulle relazioni. Nell’uomo c’è anche una sopravvivenza del codice proprio degli altri mammiferi, nel cosiddetto linguaggio del corpo, o nell’intonazione della voce. Tale codice, inoltre, è anche più sviluppato nell’uomo che negli altri animali, giacché dà vita a fenomeni quali la danza, la musica, la poesia. È proprio attraverso questo codice cinetico che avviene prevalentemente il discorso sulle relazioni. La permanenza di questo canale di comunicazione analogico è dovuta, secondo Bateson, al fatto che con il linguaggio verbale è possibile mentire sulle relazioni, esso può essere falsificato; il linguaggio cinetico serve quindi a mantenere una certa onestà in questo campo. Il linguaggio cinetico si serve di una sineddoche per esprimere il tutto attraverso la parte, ed è volto a creare ridondanza, ossia la possibilità per il ricevente di risalire agli elementi mancanti nel messaggio con probabilità maggiore di quella che si avrebbe se provasse a caso. Nell’uomo è inoltre presente una via di mezzo tra questi due codici: il processo primario, il quale è privo di tempo e negazione, e si serve metafore non ancorate, ossia isolate dal proprio contesto, che modificano i termini, ma lasciano intatta la relazione, proprio come avviene nella comunicazione animale. La grande differenza tra questi due codici è che il linguaggio verbale si serve di cornici metacomunicative che identificano il genere del messaggio, stabilendo, ad esempio, se va inteso in senso letterale o metaforico, seriamente, o come un gioco, ecc.
Ogni sistema cibernetico è considerato da Bateson come una mente. La mente è «il sistema totale che elabora l’informazione e che completa il procedimento per tentativi ed errori» (Verso un’Ecologia della Mente). Una mente opera sulla base di differenze. La differenza non è nelle cose, ma piuttosto nel loro rapporto, essa non è presente né nel tempo né nello spazio. Per definire la differenza, Bateson ricorre alla dicotomia di Korzybski tra mappa e territorio. In questo caso la mente è la mappa, mentre la realtà è il territorio; la differenza è dunque ciò che viene trasferito dal territorio alla mappa. Tra il numero elevatissimo di differenze esistenti nella realtà, la mente ne considera una piccola parte, che essa codifica, facendola divenire così informazione. La differenza che viaggia nei circuiti mentali come informazione è un’idea. Utilizzando due termini gnostici, ripresi da C.G. Jung, Bateson distingue tra il mondo fisico del pleroma che funziona secondo forze ed urti, ed il mondo mentale della creatura che funziona secondo differenza, cosicché in esso anche il nulla, in quanto diverso da qualcosa, può essere fonte di energia. Comunque questi mondi sono solo astrattamente separabili; la mente è sempre immanente al sistema.
In Mente e Natura Bateson individua i sei criteri che un sistema deve avere per essere qualificato come mente. Innanzi tutto, il sistema agisce su differenze. In secondo luogo è formato da parti collegate da canali attraverso i quali vengono trasmesse le differenze. In terzo luogo, il sistema dispone di un’energia collaterale. Il quarto criterio è che il processo mentale «dipende da catene di determinazione circolari e più complesse» (Mente e Natura). Queste catene fanno sì che il sistema sia auotocorrettivo nella direzione dell’equilibrio o dell’instabilità. Il quinto criterio è che gli effetti della differenza devono essere considerate come trasformate (versioni codificate) della differenza che li ha preceduti. Questa è una conseguenza del fatto che la mappa non è il territorio, pertanto nella mente non si avrà mai il territorio, la cosa in sé, ma solo mappe di mappe. Infine, il sesto criterio è che la descrizione e la classificazione di questi processi di trasformazione rivelano una gerarchia di tipi logici immanenti ai fenomeni. Bateson si basa qui sulla teoria di A.N. Whitehead e B. Russell esposta nei Principia Matematica. La mente deve operare sulla base di livelli diversi, quando la discriminazione tra i livelli di comunicazione è distorta o confusa ne derivano patologie, tra le quali la più importante è il doppio vincolo (double bind).
Nella concezione di Bateson, dunque, la mente non si limita agli individui, ma anche la società e, soprattutto l’ecosistema è una mente. Di più, l’ecosistema è la “vasta Mente” il sistema più grande ed importante che esista, di cui l’individuo è solo un sottosistema. È questo l’aspetto olistico dell’ecologia delle idee, la mente individuale è solo un sottosistema del sistema biologico che connette tutti gli esseri viventi, e che possiede le caratteristiche di un sistema cibernetico. I confini della mente individuale non sono fissi ma vanno tracciati in relazione alla ricerca, considerando tutti i canali di cui l’individuo si serve. Ad esempio nella marcia di un cieco, la mente è costituita dall’uomo, più il bastone, più la strada, e così via.
Questa concezione ha immediate ripercussioni etiche che Bateson considera molto attentamente, e che lo portano a criticare la cultura occidentale. L’errore di questa consiste nel suo carattere dicotomico che separa la ragione dalle emozioni, l’individuo dalla società e l’umanità dalla natura. Ciò è il risultato della sopravvalutazione della coscienza. Questa considera solo una piccola parte delle informazioni della mente, e questa selezione è fatta secondo una finalità. In questo modo la coscienza, che è solo una parte del più vasto sistema individuo-società-ecosistema, ignora tale connessione, e rivendica esclusivamente per sé il carattere di mente. La finalità cosciente è semplificante, non mira alla saggezza, ma all’individuazione del cammino più breve per raggiungere il proprio fine. La coscienza è stolta perché ignora la natura sistemica del mondo, credendo di avere il controllo di un sistema di cui è solo una parte. Se quest’epistemologia errata è presente da secoli, nell’epoca moderna diventa pericolosa poiché si serve di una tecnologia molto potente che le consente di arrecare gravi danni all’ambiente circostante. Ogni volta che il sistema viene ignorato a favore della finalità si generano danni. La finalità cosciente ha fatto sì che da Darwin in poi l’unità di sopravvivenza nel contesto della selezione naturale sia considerato il singolo individuo, o la famiglia, o la singola specie; in antitesi alle altre società, razze o specie. Ciò porta a considerare l’uomo signore e padrone di una natura da sfruttare e manipolare secondo le finalità coscienti. «Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno» (Verso un’Ecologia della Mente). L’uomo distrugge il proprio ambiente e non si accorge di distruggere anche se stesso.
Qualcosa di analogo accade al livello della mente individuale. L’io cosciente si separa del mondo inconscio delle emozioni presunte irrazionali. Ma in realtà le premesse epistemologiche sulla cui base opera la coscienza sono inconsce, e le emozioni non sono irrazionali, al contrario operano secondo propri algoritmi, e quindi hanno una propria logica, anche se tale logica è diversa da quella del linguaggio, e quindi della coscienza. Ma la pura razionalità finalizzata, senza l’aiuto dell’inconscio, nelle sue diverse funzioni, è stolta e distruttrice di vita. «La coscienza priva di aiuto deve sempre tendere all’odio: non solo perché‚ sterminare il prossimo è norma di buon senso, ma per la ragione più profonda che, vedendo solo archi di circuito, l’individuo è continuamente sorpreso e necessariamente irritato quando le sue cocciute tattiche si rivoltano a mordere l’inventore» (Verso un’Ecologia della Mente).
Collegato all’occultamento delle connessioni della coscienza con la mente esterna, la dissimulazione di quelle con la mente interna produce gli stessi risultati catastrofici. «È il tentativo di separare l’intelletto dall’emozione che è mostruoso, e secondo me è altrettanto mostruoso (e pericoloso) tentare di separare la mente esterna da quella interna, o la mente dal corpo» (Verso un’Ecologia della Mente).
A questa tradizione Bateson contrappone l’ecologia delle idee ossia la riflessione sulle relazioni tra l’uomo e il sistema in cui vive. Essa mira ad ottenere la saggezza, ossia la conoscenza del sistema cibernetico. Per raggiungere questo stato è necessario ricongiungere la coscienza con l’inconscio, e la mente individuale con la più vasta mente dell’ecosistema; evitando di cadere nell’errore opposto, ossia nell’abbandono della ragione. I mezzi per ottenere questa connessione sono numerosi, e riguardano le attività in cui si utilizzano tutti i livelli della mente. Esempi di queste attività sono dati dall’arte in tutte le sue varie forme, dalla religione, dalla musica, dal contatto con la natura, e dall’amore. In questa concezione l’unità di sopravvivenza è l’individuo e l’ambiente. È in questa ricerca della saggezza e della grazia che si esplica il carattere etico dell’ecologia di Bateson.
ANTROPOLOGIA: ETHOS E SCHISMOGENESI
Originariamente Bateson condivideva l’approccio struttural-funzionalista all’antropologia proposto da Radcliff-Brown, il quale era stato suo professore. Sarà la sua prima ricerca empirica presso la tribù degli Iatmul in Indonesia a mostrargli i limiti di questa prospettiva.
La pratica che mise in evidenza tali limiti fu il Naven, rito che coinvolge il clan ogni volta che un giovane compie per la prima volta un atto da adulto, rilevante per la società. In particolare quell’approccio gli sembrò deficitario nella comprensione dell’aspetto emotivo, centrale nella cerimonia. Fu, dunque, dalla considerazione di tale aspetto che partì la riflessione di Bateson.
«Il retroterra emotivo è una causa attiva della cultura» (Naven). Si tratta di ciò che, in uno scritto successivo, Bateson definirà l’aspetto emotivo dell’unità, punto di vista fondamentale per la comprensione della cultura. «Quando studiamo la cultura da questo punto di vista, c’interessa mostrare in tutti i particolari del comportamento la base emotiva. Vedremo tutto il complesso del comportamento come un meccanismo accordato e orientato verso la soddisfazione e l’insoddisfazione emotiva degli individui» (Verso un’Ecologia della Mente).
Ogni cultura standardizza un proprio pattern, il quale stabilisce gli stili di comportamento che gli individui devono adottare, producendo «una uniformazione degli aspetti affettivi della personalità degli individui, i quali vengono modificati dalla loro cultura in modo tale che il comportamento dei singoli ne risulti compatibile dal punto di vista emotivo» (ibid.). La funzione emotiva del rito consiste nello stabilire le relazioni tra gli individui, stabilendo il contesto che fornisce il senso di ciascun atto. È in forza di tale processo che la «logica inerente a una cultura differisce profondamente da quella di altre culture» (ibid.).
Ogni cultura realizza un carattere comune tra i suoi membri, attraverso un «processo di differenziazione nelle norme del comportamento individuale risultante da interazioni cumulative tra individui» (Naven). Il carattere comune è pertanto il risultato delle «relazioni tra gruppi e individui all’interno della comunità» (Verso un’Ecologia della Mente). In questo modo il carattere individuale è il risultato dell’interazione tra strutture correlate, che, per la natura dicotomica del pensiero in occidente, possiedono in esso carattere bipolare. Esempi possono essere: autorità-sottomissione, ammirazione-esibizionismo, assistenza-dipedenza. Questa correlazione fa sì che se l’individuo manifesta uno dei due termini della struttura, in esso è presente anche l’altro. «Ora, tutto ciò che sappiamo sul meccanismo della formazione del carattere – specialmente i processi di proiezione, formazione delle reazioni, compensazione e simili – ci porta a ritenere che queste strutture bipolari siano unitarie all’interno dell’individuo. Se sappiamo che un individuo è abituato a esprimere palesemente metà di una di queste strutture, per esempio un comportamento autoritario, possiamo arguire con sicurezza (anche se non in termini precisi) che nella sua personalità sono allo stesso tempo contenuti i germi dell’altra metà, cioè della sottomissione» (ibid.). Questa teoria è definita da Bateson degli estremi legati (endlinkage), essi riguardano la struttura qualitativa dei contesti. Il fenomeno degli estremi legati mostra che il contesto può essere esso stesso messaggio.
Il carattere individuale è, dunque, il risultato di un processo sociale. Grazie a tale processo le emozioni individuali possono esprimersi solo nell’ambito di un pattern sociale, che Bateson chiama Ethos, definito come «un sistema culturalmente uniformato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui» (Naven).
L’aspetto quantitativo, relativo all’intensità del processo di interazione, porta ad una differenziazione, la quale può avere come effetto ciò che Bateson definisce schismogenesi. Questa è il risultato possibile del contatto non solo tra culture, ma anche tra gruppi all’interno della stessa cultura.
Bateson distingue due casi di differenziazione: «a) casi in cui la relazione è eminentemente simmetrica, per esempio nella differenziazione di fazioni, clan, villaggi, delle nazioni europee; e b) casi in cui la relazione è complementare, per esempio nella differenziazione di strati sociali, classi, caste, categorie di anzianità e, in certi casi, la differenziazione culturale tra i sessi» (Verso un’Ecologia della Mente).
La differenziazione simmetrica comprende tutte quelle situazioni in cui «gli individui di due gruppi, A e B, hanno le stesse aspirazioni e le stesse strutture di comportamento, ma sono differenziati quanto all’orientazione di queste strutture. Così i membri del gruppo A manifestano le strutture di comportamento A, B, C nei loro rapporti interni, mentre adottano le strutture X, Y, Z nei rapporti con elementi del gruppo B. Analogamente il gruppo B adotta le configurazioni A, B, C nei rapporti interni e manifesta X, Y, Z nei rapporti col gruppo A» (ibid.). Ciò comporta una sequenza nella quale si determinano ed aggravano fratture e divisioni, giacché «in questo modo si crea una situazione in cui il comportamento X, Y, Z è la risposta consueta ad X, Y, Z. Questa situazione contiene elementi che possono condurre a una differenziazione progressiva o schismogenesi lungo le stesse linee. Qualora ad esempio tra le strutture X, Y, Z ci sia la vanteria, se alle vanterie si replica con vanterie, è verosimile che ciascuno dei due gruppi induca l’altro a una dilatazione eccessiva della struttura, processo che, se non viene frenato, può solo condurre a una rivalità sempre più spinta e infine all’ostilità e al collasso dell’intero sistema» (ibid.). Questo è il caso della schismogenesi simmetrica.
La differenziazione complementare comprende, invece, «tutti quei casi in cui il comportamento e le aspirazioni dei membri dei due gruppi sono fondamentalmente diversi. Così i membri del gruppo A trattano fra loro con le strutture L, M, N, e manifestano le strutture O, P, Q nei rapporti col gruppo B. In risposta ad O, P, Q i membri del gruppo B manifestano le strutture U, V, W, ma tra loro adottano le strutture R, S, T. Ne segue dunque che O, P, Q è la risposta ad U, V, W, e viceversa» (ibid.). Anche in questo caso la differenziazione può diventare progressiva producendo fratture insanabili. «Se, per esempio, la serie O, P, Q include strutture che da un punto di vista culturale sono considerate assertive, mentre U, V, W includono la soggezione culturale, è possibile che la soggezione induca ulteriore assertività, che a sua volta indurrà ulteriore soggezione. Tale schismogenesi, se non viene frenata, conduce a una progressiva distorsione unilaterale della personalità dei membri dei due gruppi, che sfocia in una reciproca ostilità» (ibid.). È questa la schismogenesi complementare, la quale comporta gli stessi effetti di quella simmetrica, in quanto «inevitabilmente conduce al collasso finale del sistema» (ibid.).
Le sequenze schismogenetiche sono, quindi, di due tipi: «a) schismogenesi simmetrica, ove le azioni reciprocamente stimolanti di A e di B [sono] sostanzialmente simili, ad esempio in casi di competizione, rivalità e simili; e b) schismogenesi complementare, ove le azioni reciprocamente stimolanti [sono] sostanzialmente dissimili, ma reciprocamente appropriate, ad esempio in casi di autorità-sottomissione, assistenza-dipendenza, esibizionismo-ammirazione e simili» (ibid.).
La schismogenesi è dunque una sequenza di interazioni cumulative che porta ad una frattura e differenziazione insanabile tra i gruppi nei rapporti tra i quali si verificano. Tale frattura renderà impossibile la convivenza ed inevitabile il conflitto.
La “tensione schismogenetica”, ossia la tendenza ad impegnarsi in sequenze d’interazione cumulativa, è considerata da Bateson come caratteristica degli esseri umani. Essa è collegata al fatto che mentre tutti mammiferi hanno un sistema di valori multidimensionale, tra i quali cercano un equilibrio, negli uomini a quest’impostazione primaria si sovrappongono contesti nell’ambito dei quali essi cercano di massimizzare alcune variabili determinate. È questa ricerca della massimizzazione che provoca la tensione. Contesti in grado di raggiungere tale risultato sono quelli competitivi. «I contesti competitivi – purché gli individui possano essere posti in condizione di riconoscerli come tali – riducono inevitabilmente la complessa gamma dei valori a termini semplicissimi e addirittura lineari e monotòni. Considerazioni di questo tipo, più le descrizioni delle regolarità nel processo di formazione del carattere, sono probabilmente sufficienti a descrivere come scale di valori semplici vengano imposte ai singoli mammiferi in società competitive, come quella Iatmul o quella dell’America del Novecento» (ibid.).
La tensione, quindi, non va concepita come una curva infinitamente crescente, ma tale curva è limitata dal fatto che il raggiungimento di un certo grado di intensità è seguito da un rilassamento dalla tensione schismogenetica. È la ricerca di un simile stato di liberazione, in tutto e per tutto simile all’orgasmo che, secondo Bateson, spinge gli uomini ad azioni contrarie al “buon senso” (come la guerra), collegando così la morte e l’amore.
L’ethos delle società schismogenetiche deve necessariamente comprendere dei fattori frenanti, al fine di evitare che l’interazione cumulativa porti alla distruzione del sistema. Bateson considera cinque di tali fattori:
a) La convivenza e contrapposizione tra sequenze simmetriche e complementari: «è possibile che una piccolissima dose di comportamento complementare in una relazione simmetrica, o una piccolissima dose di comportamento simmetrico in una relazione complementare contribuisca in modo cospicuo alla stabilizzazione della situazione. Esempi di questo tipo di stabilizzazione sono forse comuni: il signorotto è in una relazione essenzialmente complementare, e non sempre comoda, con gli abitanti del villaggio; ma se gioca a cricket con loro (rivalità simmetrica) anche solo una volta all’anno, ciò può avere, su quella relazione, un effetto stranamente sproporzionato» (ibid.).
b) La reciproca dipendenza alla quale possono portare le sequenze complementari.
c) L’esistenza di elementi di reciprocità, i quali sono, però, spesso deboli.
d) La lealtà o l’avversione per un elemento esterno
e) Lo sviamento dell’attenzione verso circostanze esterne.
Non necessariamente una società è schismogenetica. Le relazioni tra i gruppi possono anche basarsi sulla reciprocità. «In questo caso i membri di ciascun gruppo nei loro rapporti con l’altro gruppo adottano le strutture di comportamento X e Y, ma invece della configurazione simmetrica, in cui X è risposta a X, e Y a Y, si osserva che X è risposta ad Y» (ibid.). È questo ciò che avviene nella società di Bali che cerca di mantenere lo stato stazionario.
Bateson distingue, pertanto, due tipi di sistemi sociali. In primo luogo i sistemi schismogenetici, come le società moderne, i quali comprendono numerosi “circoli viziosi” costituiti da due o più individui che partecipano ad un’interazione potenzialmente cumulativa. «Ne segue dunque che in un tale sistema schismogenico – se non viene regolato – può intervenire una crescita eccessiva di quegli atti che sono caratteristici della schismogenesi» (ibid.). In secondo luogo, gli stati stazionari, come la società balinese, nei quali le sequenze schismogenetiche non si verificano. Una cultura può dunque creare contesti nei quali alla naturale tendenza umana all’interazione cumulativa venga impedito di manifestarsi, attraverso un ethos, interiorizzato dagli individui sin dall’infanzia, che ricerchi il mantenimento dello stato stazionario. Quindi le tendenze schismogenetiche «operano nella dinamica della società solo se l’educazione ricevuta nell’infanzia non è tale da impedirne l’espressione nella vita adulta» (ibid.).
PSICHIATRIA: IL DOUBLE BIND
Nel campo psichiatrico e psicoterapeutico il nome di Bateson è legato ad una teoria relativa all’eziologia della schizofrenia. Questa teoria individua nella comunicazione la matrice sociale che genera questa forma di psicosi, ed ha dato vita alla scuola sistemica.
La comunicazione è studiata da Bateson attraverso la teoria dei Tipi Logici di Russell e Whitehead. Come è noto, tale teoria afferma, tra l’altro, che vi è una discontinuità tra una classe ed i suoi elementi. Una classe non può essere elemento di se stessa, ne uno degli elementi può essere la classe, giacché la classe è di un tipo logico diverso rispetto ai propri elementi
Tale gerarchia di livelli diversi si ritrova anche nella comunicazione. «La comunicazione verbale umana può operare, e in effetti opera sempre, a molti livelli di astrazione tra loro contrastanti» (Verso un’Ecologia della Mente). Tale diversificazione si verifica poiché ogni enunciato è autoriflessivo. «Una data espressione è contemporaneamente un’affermazione su se stessa» (La matrice Sociale della Psichiatria). Questo messaggio, astratto e quasi sempre implicito, che comunica sulla comunicazione è definito metacomunicativo. A questi livelli più astratti l’oggetto del discorso è la relazione tra gli interlocutori. Il livello metacomunicativo fornisce l’inquadramento, il contesto nell’ambito del quale interpretare il messaggio.
L’altro livello astratto in cui si sviluppa il linguaggio è quello metalinguistico, relativo alle relazioni tra le parole e ciò che esse denotano, relazione paragonabile a quella tra mappa e territorio.
L’inquadramento psicologico diventa una necessità per l’individuo, poiché la comunicazione si serve di segnali che possono essere utilizzati per simulare, negare, amplificare, ingannare, ecc. In altri termini, i messaggi non sono solo descrittivi, ma possono essere relativi a metafore, miti, scherzi, fantasie, menzogne.
L’inquadramento psicologico serve, dunque, a delimitare una classe di messaggi, fornendo le premesse necessarie per interpretarli. Esso ha funzione inclusiva per certi messaggi ed esclusiva per altri. La funzione della mente è la codificazione, ossia la traduzione delle informazioni provenienti dall’esterno. «È chiaro che la mente non contiene né oggetti né eventi – né maiali, né palme, né madri – ma contiene soltanto trasformate, percezioni, immagini, eccetera, insieme con certe regole per generare queste trasformate, percezioni, eccetera» (Verso un’Ecologia della Mente). Tali regole sono in larga misura inconsce, quindi obbediscono al processo primario. Per poter operare, la mente necessita di un inquadramento, di una cornice, che la informi su come devono essere intesi i messaggi, ad esempio se in senso letterale o metaforico, reale o fantastico, veritiero o simulato, ecc. Questo inquadramento è fornito dai messaggi metacomunicativi.
Tale funzione è resa ancora più importante e necessaria dal fatto che la comunicazione si caratterizza per provocare necessariamente dei paradossi, i quali fanno venire meno la discontinuità tra classe ed elementi. Essa non rientra negli angusti limiti della teoria dei Tipi logici. Si consideri, come esempi, un messaggio aggressivo qualificato da movimenti, posture, toni di voce, comunicanti che esso è solo un gioco; oppure delle parole arrabbiate dette ridendo. Nel linguaggio umano la possibilità di paradossi aumenta, poiché in esso vengono utilizzati due canali: digitale (verbale) per lo scambio delle informazioni; analogico (gesti, tono di voce, ecc.), per lo scambio dei messaggi metacomunicativi. Tali paradossi sono alla base dello sviluppo della lingua. «L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla Teoria dei Tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla Teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo» (Verso un’Ecologia della Mente). Il paradosso comporta un’evoluzione del linguaggio poiché rende sempre più evidente la differenziazione tra mappa e territorio, ossia tra la parola e l’oggetto che essa dovrebbe denotare.
Gli inquadramenti che comportano tali paradossi sono definiti da Bateson transcontestuali. Innanzi tutto, tra gli inquadramenti appartenenti a questa categoria Bateson considera il gioco. Esso comporta un paradosso per la teoria di Russell, poiché serve a distinguere messaggi di tipo logico diverso, ossia quelli che Bateson chiama segni d’umore, e quelli che simulano i segni d’umore (rendendo evidente la distinzione tra mappa e territorio). Infatti, il messaggio: “questo è un gioco” implica che si compiono azioni che ne denotano altre, ma non si denota ciò che queste ultime tipicamente denotano. «Il mordicchiare giocoso denota il morso, ma non denota ciò che sarebbe denotato dal morso» (Verso un’Ecologia della Mente). Secondo la teoria dei Tipi logici questo è un paradosso, poiché il termine “denota” è utilizzato a livelli di astrazioni diversi, e questi sono considerati sinonimi. Il carattere paradossale del messaggio: “questo è un gioco” deriva, quindi, da due caratteristiche, che sono proprie di ogni inquadramento transcontestuale. «a) che i messaggi o segnali scambiati nel gioco sono in un certo senso non veri o non sono quelli che si hanno in mente; e b) che ciò che viene denotato da questi segnali è inesistente» (Verso un’Ecologia della Mente).
Gli altri inquadramenti paradossali considerati da Bateson sono: la minaccia, l’inganno, l’istrionismo, l’umorismo, la comicità, il rituale, la fantasia, la metafora, la poesia, l’arte, e l’apprendimento.
La caratteristica centrale della schizofrenia consiste appunto nell’incapacità di interpretare i messaggi dello stesso tipo logico di “questo è un gioco”, ossia i segnali che indicano di che genere è il messaggio. «Difficoltà di fronte a segnali di questo tipo sembrano costituire il nucleo di una sindrome che è caratteristica di un certo gruppo di schizofrenici, ed è quindi ragionevole cercare un’eziologia a partire da questa sintomatologia, quando essa sia formalmente definita» (Verso un’Ecologia della Mente). Lo schizofrenico si caratterizza per l’incapacità di comprendere il genere dei messaggi altrui, nonché quello dei propri messaggi, e delle proprie percezioni e sensazioni. Giacché la capacità inconscia di comprendere i segnali metacomunicativi è acquisita con l’apprendimento, bisogna individuare le cause che ne hanno inibito lo sviluppo nel bambino. È da queste premesse che si sviluppa la teoria del doppio vincolo.
Secondo tale teoria la schizofrenia è il risultato del modello comunicativo esistente nella famiglia, che impone una sequenza di strutture comunicative aventi carattere traumatico. Tale struttura ha alcuni elementi formali peculiari. Innanzi tutto essa si verifica nel rapporto madre-figlio, anche se è possibile la partecipazione degli altri membri della famiglia. In secondo luogo l’esistenza di due imposizioni, afferenti diversi livelli comunicativi, tra loro contraddittorie. Entrambe sono collegate ad una punizione (come ad esempio la perdita dell’affetto), e la seconda è, di solito, comunicata con mezzi non verbali che negano la prima. Un altro elemento è l’impossibilità di qualsiasi discriminazione tra le alternative o commento sul vincolo; o fuga dallo stesso. Infine, deve trattarsi di un’esperienza ripetuta nel tempo.
L’individuo si trova prigioniero di due ordini dei quali l’uno nega l’altro, situazione che provoca un profondo senso di angoscia, frustrazione e depersonalizzazione, nonché il venir meno della sua capacità di comprendere e formulare messaggi metacomunicativi. «Noi avanziamo l’ipotesi che, ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio vincolo, la sua capacità di discriminazione fra tipi logici subisca un collasso» (Verso un’Ecologia della Mente).
Questa situazione è tipica del rapporto tra il futuro schizofrenico e la madre, ma può presentarsi anche nei rapporti normali, generando reazioni difensive, simili a quelle dello schizofrenico. Questo comportamento difensivo è esteso dallo schizofrenico a tutte le sue relazioni, anche a quelle in cui non sarebbe necessario; oltre a ciò, egli è del tutto inconsapevole di starsi difendendo.
Inoltre, il doppio vincolo fa sì che la capacità di distinguere i tipi logici venga meno nello schizofrenico anche per i propri messaggi, cosicché essi assumeranno un carattere sempre più metaforico ed impersonale, apparentemente assurdo, ma in sé del tutto logico. «Se un individuo ha trascorso la vita in un rapporto di doppio vincolo del tipo qui descritto, i suoi rapporti con gli altri dopo una crisi psicotica dovrebbero possedere una struttura sistematica. In primo luogo costui non userebbe quei segnali che, presso gli individui normali, accompagnano i messaggi per indicare cosa si intende dire; cioè il suo sistema metacomunicativo (le comunicazioni sulla comunicazione) si sarebbe guastato, ed egli non saprebbe specificare il genere dei messaggi» (Verso un’Ecologia della Mente).
A questo punto lo schizofrenico ha di fronte a sé tre alternative: potrebbe ritenere che ogni messaggio contenga un significato nascosto, pericoloso per il proprio benessere, può quindi diventare paranoico. Oppure potrebbe scegliere l’alternativa opposta e prendere alla lettera tutti i messaggi che gli vengono rivolti, diverrebbe, in questo caso, ebefrenico. Infine potrebbe scegliere di ignorare i messaggi dell’ambiente, e fare il possibile per evitare una risposta da parte dello stesso, divenendo chiuso e silenzioso, assumerebbe così un atteggiamento catatonico.
La schizofrenia, nelle diverse forme che assume, può, dunque, essere considerata una risposta “normale” ad una situazione familiare patogena; essa non è un problema individuale ma di gruppo. Nella famiglia la comunicazione svolge una funzione omeostatica volta al mantenimento della stabilità delle relazioni esistenti, necessaria per la sua sopravvivenza. Nel caso in cui tale equilibrio sia schizofrenico, la stabilità è mantenuta attraverso il “sacrificio” del componente più debole che assume su di sé tutta la follia. «Il paziente identificato si sacrifica per mantenere la sacra illusione che quanto dice il genitore ha senso» (Verso un’Ecologia della Mente). Attraverso la schizofrenia manifesta del figlio, i genitori riescono a mantenere un’apparenza di normalità che copre la loro schizofrenia celata, occultando i loro disturbi. Sono tre le caratteristiche formali di questo genere di famiglia: una madre che ha reazioni di ansia e di ostilità ogni volta ci sia la possibilità di un rapporto intimo ed affettuoso con il figlio; l’inaccettabilità per la madre di tali sentimenti di odio, che la porterà a negarli simulando affettuosità; l’assenza di una terza persona in grado di intervenire nei rapporti madre-figlio a favore di quest’ultimo.
Questa situazione fa sì che la madre emetta due messaggi, di ordine diverso (essendo il secondo un commento al primo), tra loro contraddittori: ostilità o ripiegamento quando il bambino si avvicina, affetto simulato quando il bambino reagisce al comportamento ostile della madre. «Il problema della madre è quello di regolare la sua ansietà regolando la vicinanza e la distanza che la separano dal bambino. In altre parole, se la madre comincia a sentirsi affezionata e vicina al figlio, comincia anche a sentirsi in pericolo, e deve ritrarsi da lui; ma ella non può accettare questo atto di ostilità e, per negarlo, deve simulare affetto e propensione per il bambino» (Verso un’Ecologia della Mente).
Se il bambino vuole evitare una punizione della madre, deve prendere per vera la simulazione di affetto di quest’ultima, deve, quindi, distorcere le proprie percezioni per non discriminare i diversi ordini di messaggi. Il doppio vincolo consiste nell’essere punito per aver indovinato l’interpretazione. Ma l’errore non risolve il problema, poiché se credesse alla simulazione, il bambino si avvicinerebbe alla madre, provocando la sua reazione ostile, che lo spingerebbe a ritirarsi. «Ma se allora il bambino a sua volta si ritraesse, la madre prenderebbe questo allontanarsi come un’affermazione che lei non è una madre amorevole, e quindi o punirebbe il figlio per essersi allontanato o gli si accosterebbe per farlo tornare a sé; ma se a questo punto egli le si avvicinasse, ella reagirebbe respingendolo di nuovo. Il bambino dunque è punito se discrimina correttamente i messaggi della madre, ed è punito se li discrimina erroneamente: è preso in un doppio vincolo» (Verso un’Ecologia della Mente).
Le famiglie schizofreniche sono, dunque, caratterizzate dal fatto che la madre non voglia essere compresa, perché non può accettare né il proprio figlio, né tale rifiuto. Il doppio vincolo descrive la sua ricerca mascherata di relazioni distanti, travestita da concomitanti dimostrazioni di comportamento amorevole. Un bambino che cerca una relazione è respinto, ma i suoi sforzi di ritirarsi sono puniti anch’essi. Gli sforzi di distinguere i diversi livelli, e di chiedere il significato della relazione sono anch’essi puniti, cosicché viene inibita la sua capacità di formarsi un’impressione della realtà e di crederle.
Benché il doppio vincolo si riferisca a sequenze di interazioni, è possibile rendere molti dei suoi caratteri con un singolo esempio. Una giovane donna ricoverata in una clinica per schizofrenia migliorò abbastanza da ottenere un permesso di uscita, e di scegliersi i vestiti per l’occasione. Quando i suoi genitori vennero a trovarla, sua madre mostrò immediatamente il proprio disappunto per i vestiti della figlia, affermando che essi manifestavano “un gusto eccessivamente giovanile”. La figlia fu costretta a cambiarsi d’abito, indossando vestiti scelti dalla madre. “Ecco adesso sembri più grande!”, fu il commento di quest’ultima. La situazione della giovane donna peggiorò, ed essa scivolò presto in una condizione psicotica.
La reazione enfatica della madre all’indipendenza della figlia fu coperta dal messaggio verbale per il quale questa doveva sembrare più grande. La figlia deve essere adulta ed indipendente, ma allo stesso tempo bambina e quindi dipendente. Incoraggiata ad essere donna e bambina, indipendente e dipendente, vicina e lontana, la paziente rispose con un comportamento psicotico. Una donna trasformata in bambina dalla malattia fu incapace di indipendenza, ma troppo disturbata per essere a casa: non era né troppo lontana, né troppo vicina. La sua relazione con la madre era preservata.
In conclusione, per Bateson la schizofrenia è un problema di adattamento al modello di comunicazione patologico presente nel gruppo, quest’ultimo inteso come una relazione tra un insieme di persone condividenti certe premesse sul significato dei messaggi. Benché non neghi l’esistenza di un fattore genetico, Bateson individua nell’apprendimento la causa principale della psicosi. Anche l’apprendimento comporta una gerarchia di tipi. Al livello più basso c’è il proto-apprendimento che è il tipo più semplice di apprendimento. Al livello superiore c’è il deutero-apprendimento con il quale l’individuo apprende ad apprendere. Il deutero-apprandimento forma l’abitudine che consiste in una particolare segmentazione del flusso degli eventi. Attraverso il deutero-apprendimento, quindi, si forma il carattere o epistemologia, ed è attraverso questo processo che si forma la schizofrenia. Pertanto la terapia deve mirare ad un cambiamento dell’epistemologia, del modo di concepire la personalità-nel-mondo.
La sopravvivenza del sistema ha sempre una priorità su quella dei suoi componenti. In questo ambito gioca un ruolo fondamentale la comunicazione, che in tutti i mammiferi è comunicazione sulle relazioni, e solo negli umani può riguardare anche altro, senza però mai perdere il proprio carattere originario; pertanto anche negli umani ogni messaggio verte anche sulla relazione esistente tra gli interlocutori, e comunicherà su di esse in modo non-verbale, cinetico. Questo aspetto Bateson lo definisce funzione μ del linguaggio. La sopravvivenza del sistema, dunque, è mantenuta attraverso cambiamenti adattivi dei membri, e proprio qui sta la possibilità delle patologie, se il sistema è patogeno tale adattamento porterà necessariamente ad una schizofrenia.
Il doppio vincolo si verifica ogni volta che un individuo riceve due imposizioni contraddittorie, se non esistono vie di fuga, l’individuo è portato ad un comportamento schizofrenico. La schizofrenia comporta una forma paradossale di comunicazione che è la stessa dalla quale emergono la poesia, il comico, l’umorismo, l’arte, il sogno, ecc. Essa possiede una propria logica, la logica metaforica, la quale sembra assurda poiché volutamente elimina i riferimenti al un contesto, per non essere compresa. Più che alla terapia, Bateson è interessato a quello che la schizofrenia trasmette intorno alla comunicazione. Il double bind può indurre nell’individuo una forte sofferenza, ma se si è in grado di resistere al loro portato patologico «l’esperienza complessiva può favorire la creatività» (Verso un’Ecologia della Mente).
PETER SINGER
A cura di Enrica Tullio
“Se un essere soffre non esiste alcuna giustificazione morale per rifiutare di prendere in considerazione tale sofferenza”
Vita e Opere
Peter Singer è uno dei pensatori contemporanei più importanti nel campo dell’etica, definito “ il più influente filosofo vivente” con le sue tesi, sempre polemiche e al centro di dibattiti, ha incrinato le certezze morali dell’uomo occidentale e messo pericolosamente in crisi la “ vecchia etica”.
Personaggio scomodo ma altrettanto affascinante e carismatico, conosciuto al pubblico soprattutto come il “ profeta della liberazione animale” nonostante le sue riflessioni non si fermino ai diritti degli animali ma abbraccino ampie problematiche nel campo dell’etica e in particolare dell’etica applicata, che vanno dal rispetto per l’ambiente, all’aborto, dall’eutanasia, all’etica politica, dalla cattiva distribuzione della ricchezza, alla responsabilità dei paesi ricchi verso il Terzo Mondo…. un articolato sistema di pensiero sicuramente tra i più innovativi e coraggiosi del nostro tempo.
Peter Singer nacque a Melbourne nel 1946, insegnò alle Università di Oxford, New York, Colorado ( Boulder ), California ( Irvine ) e alla Trobe University.
Nel 1999 viene nominato docente di filosofia morale all’Università di Princeton, nomina che sollevò un accanito dibattito. Fu il fondatore dell’ International Association of Bioethics, attualmente dirige il Centre of Human Bioethics presso la Monash University di Melbourne
Tra le sue opere più importanti: In difesa degli animali ( 1987) con Tom Regan, Diritti animali, obblighi umani ( 1987), Etica pratica ( 1989), Liberazione animale( 1991) che diverrà il testo di riferimento del movimento animalista internazionale, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più ( 1996), Una sinistra darwiniana, Politica, evoluzione e cooperazione ( 2000), La vita come si dovrebbe ( 2001) scritto in cui Singer seleziona e raccoglie i suoi saggi ed articoli più importanti, One world. L’etica della globalizzazione( 2003), Scritti su una vita etica. Le idee che hanno messo in discussione la nostra morale ( 2004).
Pensiero
Tutte le tesi esposte da Singer nei suoi testi e in vari articoli, dall’etica delle relazioni uomo- animale, all’obbligo dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri, dalle riflessioni sull’eutanasia alla critica all’etica della sacralità della vita, possono essere ricondotte a quattro semplici assiomi, loro punto di partenza e nocciolo comune :
Il dolore è negativo, dove per dolore si intende qualsiasi genere di sofferenza sia fisica che psicologica, a prescindere da chi lo provi;
Gli esseri umani non sono gli unici capaci di provare sofferenza o dolore, queste condizioni appartengono anche alla maggior parte degli animali non umani, molti dei quali sono in grado di provare anche forme di sofferenza che vanno al di là di quella fisica ( l’angoscia di una mamma separata dai suoi piccoli , la noia dell’esser chiusi in una stretta gabbia senza far nulla);
Nel soppesare la gravità dell’atto di togliere una vita, bisogna prescindere da: razza, sesso, specie, ma analizzare altre caratteristiche dell’essere che verrebbe ucciso: suo desiderio di continuare o meno a vivere, qualità della vita che sarebbe in grado di condurre;
Tutti noi non siamo responsabili solo di quello che facciamo, ma anche di quello che avremo potuto impedire o che abbiamo deciso di non fare.
Per alcune persone queste tesi, ad una prima lettura e prese in sé , non hanno nulla di sconvolgente, anzi sembrano quasi scontate, dettate dal senso comune, ma se si prendessero attentamente in considerazione le conclusioni a cui potrebbero portarci, troverebbe espressione la loro potenzialità rivoluzionaria, e a quel punto “ la vecchia etica”, la tradizionale morale ebraico-cristiana, potrebbe iniziare a vacillare.
Animal Liberation
“ L’esclusione degli animali dalla sfera morale non è giustificabile razionalmente, è frutto di puro e semplice pregiudizio specista”
Pochissimi filosofi viventi hanno visto le loro idee avere importanti ricadute pratiche, Peter Singer è uno di questi, il suo Animal liberation ha svolto un ruolo fondamentale nel dare inizio ed alimentare il contemporaneo movimento per i diritti degli animali.
Animal liberation esce nel 1975, è la prima opera dove si dà un corpo organico ed una veste filosofica alla critica sull’attuale sfruttamento degli animali da parte degli esseri umani, in particolare analizzando i temi degli allevamenti intensivi e della vivisezione.
La teoria filosofica di riferimento di Singer è l’utilitarismo della preferenza, secondo il quale la valutazione sulla liceità etica di un’azione deve tener conto delle conseguenze che questa provoca sull’intero sistema coinvolto, non sommando le singole conseguenze, ma valutando le preferenze di tutti gli individui coinvolti.
A questo punto possiamo chiederci: per un utilitarista le preferenze degli animali sono da tenere in considerazione o meno rispetto a quelle degli esseri umani? La risposta di Singer, come quella del fondatore dell’utilitarismo classico Bentham, è affermativa, la valutazione sulla liceità etica delle azioni umane nei confronti degli animali si elabora non confrontando le loro intelligenze ma le loro capacità di soffrire.
E’ proprio la capacità di soffrire che fa nascere in Singer la convinzione che ogni essere senziente, umano e non, abbia diritto ad un’equa considerazione morale, il non riconoscere ciò viene condannato come una forma di razzismo che il nostro filosofo definisce “specismo”.
Lo specismo, che viene posto da Singer sullo stesso piano del razzismo e del sessismo, è “ un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie”.
Il nostro interesse, la nostra preoccupazione per gli altri, deve prescindere dalle loro specifiche capacità, ma, in base al principio di uguaglianza, che un utilitarista come Henry Sidgwick espresse in questi termini: ”il bene di ciascun individuo non è di maggiore importanza, da un punto di vista dell’universo, del bene di ogni altro individuo”, tutti gli esseri, maschi o femmine, bianchi o neri, umani o non umani, hanno il diritto di essere trattati nel rispetto dei loro interessi.
“ Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia”, e quando questo giorno, profeticamente annunciato da Singer, arriverà, le attuali generazioni inorridiranno dinanzi allo specismo e lo condanneranno come noi oggi facciamo con le discriminazioni razziali e sessuali.
Tante sono le conseguenze a cui le riflessioni di Singer conducono: condanna della vivisezione, dello sfruttamento intensivo degli animali negli allevamenti, accuratamente documentato con realistica crudezza nelle pagine di Animal Liberation, possibili cambiamenti nei menù sulle nostre tavole, le parole di Singer hanno convertito migliaia di persone al vegetarianesimo, una scelta alimentare che vuole essere una denuncia della ingiusta inosservanza dei diritti e degli interessi degli animali non umani solo perché “ ci piace il gusto delle loro carni”.
Noi siamo abituati a pensare che uccidere un uomo, cioè un essere della nostra stessa specie sia più grave che uccidere un essere appartenente ad una specie diversa dalla nostra, ma Singer ci porta a riflettere su questa consideraazione che ci sembra così scontata, chiedendosi: perché deve essere così? La mera differenza specifica non basta a giustificare questa discriminazione! potremmo sostenere che è più grave uccidere un uomo perché ha una caratteristica che tutti gli altri esseri non possiedono, ovvero un’ anima senziente, ma Singer afferma di non avere nessuna prova scientifica dell’esistenza di quest’anima e forse solo quando gli scienziati gliela forniranno sarà disposto a rivedere la sua posizione a proposito. Sono questi i motivi per cui Singer mette esplicitamente sotto accusa la tradizione occidentale, questa è responsabile di aver posto gli uomini su di un piedistallo, solo gli uomini sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio e solo questi hanno un’anima. Per millenni questa visione antropocentrica tipica dell’Occidente, completamente assente in altre tradizioni, il Buddhismo ne è un esempio, ha legittimato lo sfruttamento degli esseri non umani da parte dell’ uomo, ma nel 1871 Charles Darwin pubblica l’Origine della specie, è un duro colpo per il ruolo che secondo la nostra tradizione occidentale rivestiva l’uomo nell’universo, se a ciò si aggiunge la nascita del movimento animalista negli anni ’70 e le nuove conoscenze genetiche che portano a ripensare la classificazione degli uomini e dei nostri antecedenti più prossimi, allora ben presto la tradizionale distinzione tra uomo e animali non umani potrebbe veramente vedere la fine, e allora la liberazione animale potrebbe diventare anche “ liberazione umana ” .
L’etica della sacralità della vita una “malata terminale”
Le idee di Singer sull’eutanasia e sull’aborto hanno infiammato i dibattiti bioetici, tante le accuse, le proteste, fino alle manifestazioni di chi non voleva il filosofo animalista che legittimava l’infanticidio come docente di filosofia morale a Princeton. Singer affronta questi temi così delicati con quella chiarezza espositiva che appartiene al suo stile, ma con gli stessi accenti polemici e provocatori che rendono pungente la sua semplice scrittura, e le soluzioni che Singer prospetta per problemi quali l’aborto, l’eutanasia, non ottengono forti rifiuti solo tra i sostenitori di posizioni conservatrici, ma sono difficilmente digeribili anche da chi proviene da ambienti più liberali, perché vanno a scardinare completamente le fondamenta stesse delle nostre convinzioni morali.
Le tesi “ scandalo” di Singer sostengono che uccidere non è sempre sbagliato e che non tutte le vite hanno lo stesso valore, questo perchè egli rifiuta di attibuire un valore assoluto alla vita, il che non significa che la vita non abbia un valore elevato o che non sia grave uccidere, ma significa che nel caso fossimo costretti ad uccidere qualcuno non dovremmo guardare alla razza, al sesso o alla specie ma solo alla volontà e al desiderio o meno di continuare a vivere del soggetto in questione e della qualità della vita che questi condurrebbe.
Su queste basi Singer sostiene l’eutanasia: sostituendo all’etica della “ sacralità della vita” un’etica della “ qualità della vita” secondo la quale non è la vita in sé ad essere sacra, ma è il mio progetto di vita ad essere assolutamente intoccabile, le mie scelte come essere senziente, autocosciente e capace di pianificare il proprio futuro, e tra queste scelte potrebbe esserci quella di non continuare a vivere in condizioni di particolare sofferenza che non rispecchiano il modo in cui avevo scelto di condurrre la mia vita. Si schiera poi a favore dell’aborto, come mezzo per evitare la sofferenza inutile, quando si può evitare, proprio all’inizio, al momento della nascita del bambino, quando questi non è un essere senziente, non ha autocoscienza, né desiderio di continuare a vivere quindi la sua vita non ha più valore di quella di un qualsiasi essere non umano senziente ed autocosciente, “ provocare la morte di un bambino disabile non equivale moralmente a provocare la morte di una persona. A volte non è per niente sbagliato.” questo è un passo che viene citato spesso per mettere sotto accusa Singer, ma spesso le sue idee sono state travisate o mal comprese, quando Singer parla di “persona” si riferisce ad “ un essere capace di pensare il futuro, di avere bisogni e desideri ” i bambini appena nati non hanno niente di tutto ciò, di conseguenza uccidere un bambino, malato o meno, è meno grave che uccidere un essere con il senso del tempo e dell’esistenza, cioè un essere che vuole continuare a vivere, naturalmente Singer non ha mai negato il fatto che rimanga una cosa terribile da fare, ma in alcuni casi l’aborto, soprattutto se si tratta di bambini disabili, permetterebbe la nascita di bambini con una maggiore opportunità di felicità.
Carità e dovere morale:
Secondo Singer siamo tutti responabili non solo di quello che facciamo, ma anche di ciò che abbiamo deciso di non fare, questo è il punto di partenza per ripensare la tradizionale demarcazione tra carità e dovere morale. Se esistono persone che vivono in condizioni tali da non poter soddisfare i propri bisogni primari,da rischiare la propria sopravvivenza, noi abitanti dei paesi ricchi siamo direttamente responsabili di questa situazione.
La tesi di partenza di Singer è la seguente” soffrire e morire di fame, freddo e malattia è un male” di conseguenza “ se è in nostro potere impedire un male, senza con ciò sacrificare nulla che abbia un’analoga importanza morale, siamo difronte all’obbligo morale di agire”, quindi la tradizionale linea di demarcazione tra carità e dovere viene meno. Se io decidessi di inviare del denaro ad una associazione umanitaria questo dalla nostra società verrebbe definito un atto caritatevole ed io una persona particolarmente generosa, ma è proprio questa idea che dobbiamo abbandonare secondo Singer, in realtà abbiamo l’obbligo di donare quel denaro ed è un male non farlo. Tanti sono gli interrogativi che questa posizione espressa da Singer può sollevare, ma uno dei più urgenti è sicuramente il seguente: Qual è il limite del nostro doveroso impegno nei confronti dei paesi poveri? Cioè a quanto ammonta il nostro obbligo morale di offrire aiuto? Singer scrive “ dovremmo donare tanto da far si che la società dei consumi, dipendente com’è dal fatto che le persone spendono soldi in banalità invece che ad aiutare le vittime delle carestie, si indebolisca e forse perisca del tutto”. Forse ciò potrebbe apparire una rinuncia troppo difficile, ammette Singer, forse la sua potrebbe sembrare “un’etica per santi”, ma “è giusto” scrive “ la prossima volta che ceneremo fuori, sapere di poter fare qualcosa di meglio con i nostri soldi” “ conoscere la strada è il primo passo per avviarsi verso la direzione giusta.”
Una nuova morale:
La vecchia morale quindi è da buttar via, va ripensata, va riscritta e Singer lo ha fatto ha “ rimpiazzato la vecchia etica” con cinque nuovi comandamenti:
Primo comandamento vecchio:
”tratta tutte le vite umane come dotate di egual valore”
Primo comandamento nuovo:
“riconosci che il valore della vita umana varia”
con questo comandamento Singer sostiene che una vita priva di coscienza, senza interazioni sociali, mentali, fisiche con altri esseri, non ha alcun valore.
Secondo comandamento vecchio:
“non sopprimere mai intenzionalmente una vita umana innocente”
Secondo comandamento nuovo:
”assumiti la responsabilità delle conseguenze delle tue decisioni”
con ciò Singer vuole dire che non siamo responsabili solo di quello che facciamo, ma anche delle nostre omissioni. Siamo responsabili della situazione dei paesi poveri e proprio per questo siamo chiamati ad impegnarci perché queste popolazioni raggiungano almeno il soddisfacimento dei beni fondamentali. Quando compriamo abiti alla moda, ceniamo in costosi ristoranti, stiamo decidendo di non destinare quei soldi al miglioramento delle condizioni di vita di miliardi di persone, quando non finanziamo le varie organizzazioni di soccorso “ siamo tutti colpevoli di omicidio”.
Terzo comandamento vecchio:
“ non toglierti mai la vita e cerca sempre di evitare che lo facciano altri”
Terzo comandamento nuovo:
“ Rispetta il desiderio delle persone di vivere e di morire”
Quarto comandamento vecchio
“ crescete e moltiplicatevi”
Quarto comandamento nuovo
“ metti al mondo bambini solo se sono desiderati” . Così Singer ammette l’aborto sostenendo che il feto non ha razionalità, autocoscienza, desiderio di vivere, né è in grado di provar sofferenza.
quinto comandamento vecchio
“tratta ogni vita umana come più preziosa di ogni vita non umana”
Quinto comandamento nuovo
“non operare discriminazioni sulla base della specie”
ALAIN DE BENOIST
A cura di Tommaso Visone
“Non limitiamici a dire che tutto ciò che è nostro ha un valore; diciamo piuttosto, con forza e convinzione, che tutto ciò che ha valore è anche nostro”[1].
Pochi autori nella seconda metà del XX secolo sono stati così discussi, odiati, incompresi, apprezzati, fraintesi dai propri critici come Alain De Benoist, intellettuale “atipico”[2] e politicamente scorretto, scrittore poliedrico e saggista instancabile.
La Vita
Nato l’11 dicembre 1943 a Saint-Symphorien (Idre-et-Loire) in un contesto familiare che, come precisa lui stesso, era connotato da una, allora comune, impronta culturale cattolico-borghese, si trasferì all’età di sei anni a Parigi. La sua prima formazione ideologico-politica avvenne sui libri di Henry Conston ( conosciuto da De Benoist a quattordici anni, in vacanza) il quale sin dagli anni venti, spendeva il proprio tempo argomentando contro i complotti del potere giudaico-massonico. Il suo primo incontro con la filosofia avvenne al liceo (istituti Montaigne e Luis-le-Grand) dove si imbatte nel pensiero di Nietzsche, il quale, per dirla con Vico, è uno degli “auttori”[3] del pensatore francese. Sempre durante il liceo, iniziò una stretta collaborazione con il mensile “Lectures françaises”, diretto da Henry Coston, grazie al quale, nel 1963, pubblicò, sotto lo pseudonimo di Fabrice la Roche, il suo primo saggio: Salant deviant l’opinion. Quasi parallelamente, dal 1961, iniziò una doppia sessione di studi universitari (studi di lettere e diritto) presso l’università La Sorbona. In quegli anni (primi anni sessanta) si dedicò alla lettura di Maurras e Barres ed entrò nella redadazione del mensile “Cahiers universitaries”, del quale sarà segretario dal 1962 al 1967. Nel 1963 conosce Dominique Venner (militante nazionalista-europeista) e frequenta l’ambiente della rivista “Europe-Action”, la quale si contraddistingueva per un “nazionalismo europeo” dai tratti anticomunisti e xenofobi. Contemporaneamente si impegnò a diffondere negli ambienti della destra francese le idee di Louis Rougier, epistemologo francese che riuniva nel suo pensiero la critica della metafisica alla critica del cristianesimo, conosciuto da De Benoist nel 1965. Questo dava al giovane intellettuale la possibilità di realizzare la prima sintesi alternativa tra nietzsche e l’epistemologia neo-positivista all’interno dell’ambiente della destra francese. A partire dal 1969, dopo altre numerose collaborazioni[4], prese parte ai lavori e alla fondazione dell’associazione G.R.E.C.E. (Groupe de recherches et d’etudes sur la Civilisation Européenne), la quale si caratterizzerà per gli studi sulla dimensione metapolitica e culturale di ogni politica. Precedentemente, nel 1968, aveva fondato la rivista “Nouvelle école” la quale riuniva i delusi del nazionalismo e della politica aculturale della destra francese. Nel giro di un anno conobbe e convinse a partecipare alla rivista Giorgio Locchi, corrispondente a Parigi del “Tempo”, il quale, da valido germanista, gli fece scoprire gli scrittori della “rivoluzione conservatrice” tedesca, aprendo “nuove piste”[5] al pensiero di De Benoist. La posizione crescente assunta dalla riflessione metapolitica in De Benoist lo portò ad allontanarsi sempre più dai discorsi phamphlettistici dell’estrema destra per assumere, nei suoi interventi e nei suoi scritti un tono universitario ed un intento enciclopedico, allora, e tutt’oggi, totalmente estraneo alla destra francese. A partire dagli anni settanta, conseguentemente al suo interesse per la metapolitica e per le ricerche erudite, iniziò una intensa attività di saggista e polemista che lo portò alla pubblicazione di una serie di scritti destinati a segnare il panorama culturale francese ed europeo. Tra questi si possono ricordare: Nietzsche:Morale e grande politica (1973),Visto da destra (1977), Il Male Americano (1978) . Nel 1978 per Visto da destra ottenne il Grand prix de l’essai de l’Academie Française. Sempre negli anni settanta partecipò alla fondazione di “Eléments”, collaborò con le riviste “Figaro-Magazine”, “Valeurs Actuelles”, “Le Spectacle du monde”, “Item” e “Question de”, prendendo parte a dibattiti nazionali ed europei sul pensiero di Nietzche[6] , sul razzismo[7] e sull’egualitarismo[8]. Alla fine degli anni settanta il pensiero di De Benoist fu oggetto di una forte critica da parte della stampa francese di sinistra che lo accusava di neofascismo e di razzismo dalla quale si difese con una serie d’interventi a dibattiti e conferenze[9]. Da questa campagna stampa, il movimento intellettuale collegato alle esternazioni di De Benoist vide assegnarsi l’etichetta, da allora instaccabile, di “Nuova Destra”, che tutt’oggi denomina gli intellettuali che in Francia ed in Italia (ad esempio M.Tarchi) si riconoscono nelle idee dello studioso francese.
Negli anni ottanta collaborò a France-Culture, fondò la rivista “Krisis”[10] ( staccandosi parzialmente dall’ambiente del G.R.E.C.E) ed intensificò la sua attività di saggista. A questo periodo appartengono: Come si può essere pagani?, Moeller van den Bruck o la rivoluzione conservatrice, Il nemico principale, Democrazia: il problema, Oltre l’occidente. Nello stesso decennio intraprese ed approfondì lo studio di Heidegger che, nel corso del tempo, finì per soppiantare Nietzsche nel pensiero debenoistiano, che, durante quel periodo, si incentrò sulle tematiche del etnopluralismo, dell’europeismo, dell’antindividualismo ed dell’antiliberalismo. Queste ultime due tematiche lo portarono a confrontarsi con gli studiosi del M.A.U.S.S (Movimento antiutilitarista delle scienze sociali), tra cui strinse buoni rapporti, in particolare, con Alain Caillé e Serge Latouche.
In seguito, nel corso degli anni novanta, il pensiero di De Benoist si articolò intorno alla tematica dell’antiamericanismo che, dalla caduta del muro di Berlino, divenne la base ideologica per incontri con personaggi come Aleksander Dughin, contestatario postcomunista del governo di Eltsin. Tra i suoi scritti in quel lasso di tempo si evidenziano: L’impero interiore, Operaio tra dei e titani.Ernest Junger “sismografo” dell’era della tecnica, Comunismo e Nazismo, Ripensare la Guerra. Nel 1993 l’intellettuale francese dovette difendersi per una seconda volta da una campagna stampa orchestrata contro le sue idee da Le Monde, che lo accusava di criptofascismo[11]a seguito della ripresa di tematiche come quelle dei diritti dei popoli e del diritto alla differenza, che hanno reso il pensiero di De Benoist uno dei pensieri “maledetti” della cultura contemporanea. Attualmente, De Benoist continua la sua collaborazione con riviste come “Elements” e “Krisis”, definendosi un’intellettuale trasversale al di là della destra e della sinistra e rispecchiandosi volentieri in un ottica neo-comunitaria ed antiutilitarista, portatrice di una rinnovata etica dell’onore e del rispetto, corroborata da più di trent’anni di studi e di riflessioni in merito.
Pensiero
“Chiunque abbia familiarità con le idee di Alain De Benoist, sa che racchiuderle in un’analisi unitaria è impresa ardua”[12]. Condividendo questo pensiero, si indicheranno di seguito quelle che, secondo l’autore del presente profilo, risultano le “linee guida” del pensiero debenoistiano, senza tentare di giungere ad una difficile ed alquanto rischiosa (sotto il profilo interpretativo) sintesi esaustiva. Si sottolinea anche al lettore l’impossibilità di tenere conto, in una sede prevalentemente riassuntiva, di tutti gli ambiti affrontati ed analizzati dall’autore francese, il quale si differenzia da molti altri per la sua innata poliedricità e per la sua insaziabile curiosità che lo hanno portato a scrivere su una miriade di argomenti spazianti dalle tradizioni francesi alla biologia, dall’etica all’epistemologia, dalla politica all’etologia.
Fatta questa breve, ma doverosa, premessa, le “linee guida” del pensiero dell’autore francese possono essere elencate seguendo uno schema dicotomico, che si espone seguentemente: antiuniversalismo/difesa delle diversità, antiamericanismo/europeismo, contro l’utilitarismo/a favore dell’etica dell’onore, contro la centralizzazione/a favore di una democrazia federale, anti-individualismo/comunitarismo. La scelta di descrivere il pensiero debenoistiano mediante coppie dicotomiche mette in evidenza il metodo dello studioso transalpino che risulta caratterizzato da un “pensare contro”, da una modalità d’espressione che non può fare a meno di porre in evidenza l’idiosincrasia tra le proprie teorizzazioni e la deludente temperie culturale (si tenga conto dell’emarginazione culturale della destra francese) vissuta dall’autore francese che, come tutti gli anticonformisti “radicali”, si pone costantemente in un ottica critica ed alternativa nei confronti del suo tempo.
Detto questo si passerà ad analizzare ogni singola coppia dicotomica nel pensiero debenoistiano.
Antiuniversalismo/difesa delle diversità. Il pensiero di De Benoist è estremamente chiaro su questo punto, per l’autore francese “ogni universalismo tende all’ignoranza o alla cancellazione delle differenze”[13]. L’universalismo è, secondo questa vulgata, il manto di cui si ricoprono tutte le forme di assolutismo della storia volte alla soppressione della libertà/differenza dell’essere umano nel nome di una verità superiore ed “esterna” alla realtà vissuta. Su questo filone si collocano le rispettive critiche di De Benoist all’egualitarismo,all’individualismo, al cristianesimo ed al marxismo, che in periodi differenti hanno caratterizzato il pensiero dell’autore, il quale specularmente ha sempre teorizzato la difesa delle diversità, incentrando il suo discorso sulla tutela del “diritto alla differenza”, sul pluralismo culturale e sul riconoscimento delle diverse identità. A proposito De Benoist scrive: “Riconoscere l’altro implica non solo riconoscerlo in quanto altro, ma anche ammettere che, se siamo simili, è prima di tutto perchè siamo diversi. Non si tratta quindi di concepire il riconoscimento alla maniera di un Levinas-per il quale riconoscere l’altro significa sottrargli la sua differenza e assimilarlo a quel Medesimo di cui entrambi siamo parte- bensì nel senso dell’alterità riconosciuta. L’eguaglianza dei diritti, in questa prospettiva, non è la riduzione dell’altro al medesimo. Include al contrario il diritto alla differenza. Restituisce all’uguale la sua differenza, il che vuol dire che non concepisce l’eguaglianza nel senso della assoluta coincidenza. Concepisce l’universale non come ciò che resta una volta che si sono soppresse le differenze (perchè in questo caso non resta niente), ma come ciò che si nutre delle differenze e delle particolarità”[14].
Antiamericanismo/europeismo. In Alain De Benoist, il doppio riferimento all’identità europea e alla critica dell’americanismo è un tratto costante. Il pensiero propositivo sull’europa dell’autore francese si manifesta attraverso due tipi di discorsi: “L’uno, incentrato sull’esaltazione dell’identità propria della cultura europea, un identità ricostruita in funzione di una provenienza, o di origini lontane; l’altro, segnato dalla visione normativa di un impero europeo, al contempo postnazionale e indipendente dai blocchi”[15].L’Europa pensata da De Benoist è, dunque, coesa culturalmente ed indipendente politicamente, vicina ai popoli oppressi del terzo mondo inquanto Europa e terzomondo si decolonizzerebbero in un processo simultaneo dalle ideologie totalizzanti ed imperialiste dell’età contemporanea. Così l’autore francese descrive il suo europeismo: “L’attaccamento appassionato all’Europa è certamente una delle molle più potenti che ci siano in me. Mi definisco europeo: un uomo che, ovunque in Europa, si sente a casa sua. Si potrebbe forse anche dire che la volontà di vedere l’Europa riappropiarsi di ciò che la fonda in proprio, di vederla riconquistare la sua libertà e di proporre al mondo un modello, al contempo imperiale[16] e organico, di esistenza comune, costituisce il punto fisso della mia evoluzione personale”[17]. Simultaneamente, ed in maggior misura a partire dalla caduta del muro di Berlino, De Benoist individua “il nemico principale” della sua visione europeista, “l’americanismo”, concepito come ideologia acritica filostatunitense. Il pensiero americanista viene così concepito inquanto “fra due nemici possibili, il nemico principale è semplicemente quello che dispone dei mezzi più considerevoli per combatterci e riuscirci a piegare alla sua volontà: in altre parole è quello che è più potente. Da questo punto di vista, le cose sono chiare: il nemico principale, sul piano politico e geopolitico sono gli Stati Uniti d’America”[18]. Ma il nemico principale nel pensiero De Benoistiano non concide con il nemico assoluto, in quanto come nemico politico non dovrebbe mai essere demonizzato, pena la ricaduta nel totalitarismo. Esso (il nemico) rappresenta per lo scrittore francese “un avversario del momento” e non un’incarnazione del male. L’ideologia americanista viene anche criticata come una forma di universalismo d’assalto che sdradica e distrugge le differenze culturali mondiali nel nome di una “Verità” che, se ben analizzata, svela, nella mentalità e nella prassi americanista, una forte dose di ipocrisia ed arroganza, descrivibile, per rifarsi a Chomsky, come “la quinta libertà”[19] del popolo americano.
Contro l’utilitarismo/a favore di un Etica dell’onore
La posizione etica dell’autore francese scaturisce dal rifiuto di ogni logica utilitarista e di ogni concezione del bene e del mare basata sull’interesse, il che lo porta a sostenere una “morale aristocratica” fondata sull’Onore. L’Onore, per De Benoist, consiste nella fedeltà alla norma che ci si è dati e nella capacita di saper agire contro i propri interessi. Da questa posizione si rivaluta la figura dell’eroe, intesa come quella persona che cerca sempre cosa può dare alla vita e all’esistenza in contrapposizione a coloro che cercano qualcosa da ricavare da essa (W.Sombart), al fine di fornire un’esempio etico alla società. Dalla concezione etica di De Benoist si rivaluta la posizione del Dovere nella diade Diritto/Dovere, in quanto “Se un uomo ha un Diritto ciò significa che ha anche dei doveri.Più precisamente, se deve esserci parità dei diritti deve esserci anche parità dei doveri”[20] Questa visione dell’etica è contornata dalla consapevolezza concernente la natura tragica dell’esistenza umana, la quale nasce dalla percezione di una doppia contraddizione: “in primo luogo tra la nostra piccolezza e la nostra brevità davanti all’immensità e all’infinità del mondo; poi dal fatto che noi siamo contenuti nel mondo sul piano materiale e il fatto che il mondo, pur così immenso, è allo stesso tempo contenuto in noi sul piano spirituale”[21]. L’uomo secondo De Benoist è, in quanto consapevole di questa tragicità, l’unico essere che riesce “a far uscire il più dal meno” creando forme dell’universo che al difuori dell’essere umano non esisterebbero. La grande rivincità umana, per l’autore transalpino, sarebbe quella dell’intensità della vita che, raggiungendo picchi infiniti, sconfiggerebbe la brevità e la finitezza dell’esistenza.
Contro la centralizzazione/ a favore di una democrazia federale
L’eredità della rivoluzione francese è ovviamente presente nelle considerazioni di Alain De Benoist sulla Democrazia e sulla ripartizione del potere all’interno di un’entità statale. La sua teoria democratica si poggia su una reinterpretazione di Rosseau[22], e la sua visione della sovranità si basa su una netta contrapposizione al centralismo giacobino e su la ripresa dell’idea federale così come proggettata da uno dei suoi padri J.Althusius. La sua Democrazia, infatti, deve avvicinarsi al modello delle piccole città-comunità descritto dal filosofo ginevrino sull’idea della polis greca al fine di riavvicinare il cittadino ad una forma di appartenenza alla cosa pubblica sentita e vissuta in autonomia ( che per De Benoist non significa né indipendenza, né decentralizzazione). Per restituire alle comunità una forma di partecipazione democratica basata sull’autonomia, De Benoist critica la concezione di sovranità così come elaborata da Bodin e ripresa dai giacobini, ovvero come esclusività del potere da parte del sovrano/governante, appoggiandosi alla visione di Altusius che, per riavvicinare l’esercizio della sovranità al popolo, concepisce un “organizzazione ascendente di comunità plurali costituite sulla base di associazioni anteriori e di appertenenze multiple” che “dispongono di poteri che si sovrappongono a vicenda”[23], la quale si fonda su un’alleanza (foedus) tra individui definiti anzitutto dalle loro appartenenze. L’erede di questo sistema nella politica contemporanea è costituito dal Federalismo (da foedus) il quale è concepito e promosso da De Benoist come “un sistema di unità politiche strettamente incastrate, solidali e che si stimolano reciprocamente”. Il Federalismo, infatti, è il solo sistema nel quale, per l’autore transalpino, “il governo centrale condivide le differenti competenze costituzionali e legislative con le collettività sulle quali ha autorità, delegando queste competenze ai livelli in cui possono esercitarsi meglio”[24].
Nel complesso, il Federalismo per De Benoist risulta essere la principale via per una autentica democrazia.
Anti-individualismo/comunitarismo
Le critiche all’individualismo esposte negli scritti di De Benoist hanno una comune radice nella critica all’astrazione impersonale e all’universalismo. Lo studioso francese, interrogato sul tema, così risponde nel 1984: “L’individualismo è anch’esso un’estremismo che, in quanto tale può generare intolleranze (ad esempio nei confronti dell’interesse generale). Ma bisogna intendersi sulle parole. Storicamente, la crescita dell’individualismo è associata a quella dell’egualitarismo. Ne è la conseguenza logica. L’individualismo è anche il contrario della personalizzazione: per me, tra l’individuo e la persona c’è tanta differenza quanta ce n’è tra una massa e un popolo. Nell’ideologia occidentale, l’individuo è quell’atomo astratto, convertibile, sconsacrato, che considera come leggittimo il ripudio delle sue eredità e delle sue appartenenze”[25]. Secondo la sua opinione anche lo Stato Totalitario è figlio dell’individualismo, in quanto quest’ultimo causerebbe quella disintegrazione del legame sociale che costituisce la condizione per la comparsa del totalitarismo.
Alla concezione individualista, sopra descritta, De Benoist oppone una visione dell’uomo come integrato in “sistemi di desideri” gerarchicamente ordinati. Questi sistemi di desideri sono le comunità, definite come “un ordine o una struttura di valori condivisi parzialmente costitutivo di un’identità o di una forma di vita comune”[26]. Questa concezione del rapporto uomo/società è ripresa ed incrementata dallo scrittore transalpino a partire dai testi del movimento comunitarista, composto tra gli altri da A,MacIntyre, R.Mangabeira, M.Sandel, C.Taylor, che afferma che “ogni essere umano è inserito all’interno di una rete di circostanze naturali e sociali che ne costituiscono l’individualità e ne determinano, almeno in parte, la concezione della vita buona”[27]. Quindi in base a questo enunciato “nessuno compie una scelta in base alla libertà sovrana, ma tutti esercitano la propria libertà sulla base di ciò che li lega gli uni agli altri”[28]. La comunità, nel pensiero debenoistiano, si erige a medium della vita del soggetto, che vive mediante la stessa, compartecipe del bene intrinseco rappresentato dalla comunità stessa. Nel complesso, l’analisi di De Benoist sul tema vede rinascere grazie alla comunità il concetto di bene comune e, con esso, apre un rinnovato spazio per la politica[29].
Di sicuro le idee di Alain De Benoist sono caratterizzate da prese di posizione molto forti e, a seconda dei punti di vista, più o meno discutibili. Ma un monito, per coloro che si avvicinano alla critica dell’intellettuale transalpino, resta d’obbligo: “Coloro che detestano le idee di Alain De Benoist devono combatterle con idee, non con bastoni o vetriolo. Le idee uccidono, ho detto, ma in effetti la bellezza e la fragilità del liberalismo è che non soffoca le voci, anche pericolose”[30].
Opere
Si esporrà seguentemente l’elenco degli scritti debenoistiani così come esposto nel sito ufficiale dell’intellettuale francese www.alaindebenoist.com
Scritti di Alain De Benoist
1973
1Alain de Benoist, Nietzsche: morale et «grande politique», GRECE, Paris 1973, 44 p. [introduction signée «Robert de Herte»].
1977
2. Alain de Benoist, Vu de droite. Anthologie critique des idées contemporaines, Copernic, Paris 1977, 626 p., ill. [sous couverture cartonnée].- dédié à Jean-Claude Valla. – 2e éd: Paris 1977.- 3e éd.: Paris 1977.- 4e éd.: Paris 1978. 3. Alain de Benoist, Argumento Etologia. Entrevista con Konrad Lorenz, s.éd., s.l.n.d. [Lisboã 1977], 58 p., trad. anonyme.
1978
4. Alain de Benoist, O que é a geopolítica, coll. «Campo livre», 8, Ed. do Templo, Lisboã s.d. [1978], 59 p., trad. Maria Júlia Beirão de Brito.
1979
5. Alain de Benoist, Les idées à l’endroit, Libres Hallier [Albin Michel], Paris 1979, 298 p.- dédié à Michel Marmin. 6. Robert de Herte, Le guide pratique des prénoms, coll. «Hors-série d’“Enfants-Magazine”», 1, Publications Groupe Média, Paris 1979, 98p.
1981
7. Alain de Benoist, Comment peut-on être païen?, Albin Michel, Paris 1981, 280p. A8. Alain de Benoist, Moeller van den Bruck o la Rivoluzione conservatrice, coll. «Aletheia», 2, Edizioni del Tridente, La Spezia 1981, 83 p., trad. Marco Tarchi.- trad. italienne de: «Arthur Moeller van den Bruck: une “question à la destinée allemande”», in Nouvelle Ecole, Paris, 35, janvier 1980, pp. 40-73.
1982
9. Alain de Benoist, Orientations pour des années décisives, coll. «Orientations», 1, Labyrinthe, Paris 1982, 78 p. 10. Alain de Benoist, Fêter Noël. Légendes et traditions, Atlas-Edena, Paris 1982, 64 p., ill. 11. Alain de Benoist (éd.), Les traditions d’Europe, Labyrinthe, Paris 1982, 480 p. 12. Alain de Benoist, I Thriskeia tis Eurôpis, Eleutheri Skepsis, Athinai 1982, 64 p.
1985
13. Alain de Benoist, Démocratie: le problème, Labyrinthe, Paris 1985, 86 p. 14. Alain de Benoist, Kulturrevolution von rechts. Gramsci und die «Nouvelle Droite», coll. «edition e», 6, Sinus, Krefeld 1985, 158 p., trad. Armin Mohler, Patrick de Trevillert et Charlotte Adelung, préface d’Armin Mohler [recueil de 8 textes]. 15. Alain de Benoist, Die deutsche Frage aus französischer Sicht, coll. «Missus-Schriftenreihe», 5, Studentenbund Schlesien, Göttingen 1985, 20 p., trad. Patrick de Trevillert.
1986
16. Alain de Benoist, Europe, Tiers monde, même combat, coll. «Franc-parler», 11, Robert Laffont, Paris 1986, 253 p.
1987
17. Alain de Benoist, Gialta. Ta desma tis Europis, coll. «Phakelloi», 2, Eleutheri Skepsis, Athinai 1987, 69 p., trad. anonyme. 18. Alain de Benoist et Robert de Herte, Tromokratia. To alithino problèma den tekhnikè poti, coll. «Phakelloi», 4, Eleutheri Skepsis, Athinai 1987, 77 p., trad. anonyme.
1992
19. Alain de Benoist, Contra el racismo, Alternativa Europea, Barcelona s.d. [1992], 11 p.- reprise [non autorisée] d’un chapitre de l’éd. espagnole de A5 (pp. 145-156 de l’éd. française).
1993
20. Im Gespräch mit Alain de Benoist, coll. «Interview-Reihe», 3, Junge Freiheit, Freiburg i.Br. 1993, 24 p., éd. par Armin Mohler et Dieter Stein.
1994
21. Alain de Benoist, Le grain de sable. Jalons pour une fin de siècle. Les éditoriaux d’«Eléments», 1973-1994, coll. «La bibliothèque du XXIe siècle», 1, Labyrinthe, Arpajon 1994, 191 p. [recueil de 65 éditoriaux publiés à partir de 1973, avec un texte de 1991 et une introduction inédite, pp. 9-18]. 22. Alain de Benoist, Nationalisme: phénoménologie et critique, n° spécial du Lien Plus, supplément au bulletin Le Lien, GRECE, Paris s.d. [1994], 12 p. [texte d’une communication au colloque organisé le 29 février 1992 à Paris par l’Institut culturel finlandais, sur le thème: «La montée des nationalismes a-t-elle un avenir?»].- 2e éd.: in Alain de Benoist, Critique du nationalisme et crise de la représentation, coll. «Points de vue», 7, GRECE, Paris s.d. [1994], 28p. 23. Alain de Benoist, Démocratie représentative et démocratie participative, n° spécial du Lien Plus, supplément au bulletin Le Lien, GRECE, Paris s.d. [1994], 11p. [texte d’une communication au colloque organisé le 3 juin 1993 à Rome par la revue Pagine libere, sur le thème: «Wall Street? No, grazie!»]. 24. Alain de Benoist, Nietzsche et la Révolution conservatrice, n° spécial du Lien Plus, supplément au bulletin Le Lien, GRECE, Paris s.d. [1994], 15 p. [texte d’une communication au colloque organisé le 31 mai 1994 à Rome, sur le thème: «Nietzsche — L’enigma, il suono, gli dei»].
1995
25. Alain de Benoist, L’empire intérieur, Fata Morgana, Fontfroide le Haut 1995, 180 p. 26. Alain de Benoist, La ligne de mire. Discours aux citoyens européens, 1972—1987, coll. «La bibliothèque du XXIe siècle», 2, Labyrinthe, Arpajon 1995, 175 p. [10 communications présentées entre 1972 et 1987 à des colloques nationaux du GRECE, avec une introduction inédite]. 27. Alain de Benoist, Ernst Jünger y El Trabajador. Una trayectoria vital e intelectual entre los dioses y los titanes, coll. «Disidencias», Barbarroja, Madrid 1995, 107 p., trad. Juan C. Garcia, présentation de José Luis Ontiveros.
1996
28. Alain de Benoist, Famille et société. Origines — Histoire — Actualité, Labyrinthe, Arpajon 1996, 191 p. 29. Alain de Benoist, La ligne de mire. Discours aux citoyens européens, 1988—1995 [vol. 2], coll. «La bibliothèque du XXIe siècle», 3, Labyrinthe, Arpajon 1996, 221 p. [8 communications présentées à partir de 1988 à des colloques nationaux du GRECE]. 30. Alain de Benoist, Céline et l’Allemagne, 1933-1945. Une mise au point, Le Bulletin célinien, Bruxelles 1996, 107 p. 31. Horizon 2000. Trois entretiens avec Alain de Benoist, coll. «Points de vue», 15, GRECE, Paris 1996, 31 p. 32. Alain de Benoist, La légende de Clovis, coll. «Textes et documents», 3, Cercle Ernest Renan, Paris s.d. [1996], 45 p. 33. Alain de Benoist, [«L’Amérique telle qu’elle est», titre en iranien], Sous-secrétariat à la recherche du ministère de la Culture et de l’orientation islamique, Centre des statistiques et de la planification des recherches culturelles et artistiques, Téhéran 1996, 32 p., trad. Chahrouz Rastegar.
1997
34. Alain de Benoist, Ernst Jünger. Une bio-bibliographie, Guy Trédaniel, Paris 1997, 186 p.
1998
35. Alain de Benoist, Communisme et nazisme. 25 réflexions sur le totalitarisme au XXe siècle, 1917—1989, Labyrinthe, Paris 1998, 154 p. 36. Alain de Benoist, The Study of Intelligence and the IQ Controversy. A Bibliographical Introduction, 1869-1997, Institute for the Study of Man, Washington 1998, 152 p. [bibliographie]. 37. Alain de Benoist, Minima Moralia, coll. «Docencia», Editorial de la Universidad nacional del Sur, Bahía Bianca s.d. [1998], 58 p., trad. Néstor Luis Montezanti.
1999
38. Alain de Benoist, Aufstand der Kulturen. Europäisches Manifest für das 21. Jahrhundert, Junge Freiheit, Berlin 1999, 237 p., trad. Claude Michel [12 textes précédés d’une introduction inédite]. 39. Alain de Benoist, Ripensare la guerra. Dallo scontro cavalleresco allo sterminio di massa, coll. «Quaderni», 1, ASEFI-Terziaria, Milano 1999, 100 p., trad. Marco Tarchi.
2000
40. Alain de Benoist, L’écume et les galets, 1991—1999. Dix ans d’actualité vue d’ailleurs, Labyrinthe, Paris 2000, 623 p. [recueil de 328 éditoriaux parus entre le 4 janvier 1991 et le 14 mai 1999 dans La Lettre de Magazine-Hebdo]. 41. Alain de Benoist, Jésus sous l’œil critique des historiens, coll. «Les jeudis du Cercle», 54, Cercle Ernest Renan, Paris 2000, 31 p. [texte d’une conférence prononcée le 18 novembre 1999 à Paris devant les membres du Cercle Ernest Renan]. 42. Alain de Benoist, Hayek, coll. «Contra — Argomentazioni antieconomiciste», 3, Il Settimo Sigillo, Roma 2000, 77 p., trad. et présentation de Carlo Gambescia. 43. Alain de Benoist, Bibliographie d’Henri Béraud, coll. «Cahiers Henri Béraud», 5, automne 2000, Association rétaise des Amis d’Henri Béraud, Loix-en-Ré 2000, 32 p.
2001
44. Alain de Benoist, Dernière année. Notes pour conclure le siècle, L’Age d’homme, Lausanne 2001, 302p. [journal de l’année 2000]. 45. Alain de Benoist, Schöne Vernetzte Welt. Eine Antwort auf die Globalisierung, Hohenrain, Tübingen 2001, 453 p., ill., index, trad. Claude Michel [recueil de 12 textes précédés d’une introduction inédite, pp. 7-25].
2002
46. Alain de Benoist, Charles Maurras et l’Action française. Une bibliographie, Editions BCM [Bulletin Charles Maurras], Niherne 2002, 227 p. 47. Alain de Benoist, Die Wurzeln des Hasses. Ein Essay zu den Ursachen des globalisierten Terrorismus, coll. «Dokumentation», 3, Edition JF [Junge Freiheit], Berlin 2002, 59 p., trad. Silke Lührmann. 48. Alain de Benoist, ¿Qué ha pasado con la izquierda?, coll. «Punto de vista», 12, GRECE, Mollet del Vallès [Barcelona] 2002, 36 p. 49. Alain de Benoist, Jésus et ses frères, coll. «Textes et documents», Cercle Ernest Renan, Paris s.d. [2002], 118 p. 50. Alain de Benoist, La «nuova evangelizzazione» dell’Europa. La strategia di Giovanni Paolo II, coll. «Segnavia», 20, Ariana, Casalecchio 2002, 103 p., trad. Giuseppe Giaccio. 51. Alain de Benoist, Zarathustra nyomában. Példabeszéd a jó európaiakhoz, Europa Authentica, Budapest 2002, XII + 287 p., trad. István Gazdag [recueil de 11 textes, précédés d’une introduction inédite].
2003
52. Alain de Benoist, Carl Schmitt. Bibliographie seiner Schriften und Korrespondenzen, Akademie, Berlin 2003, 142 p. [bibliographie internationale de l’œuvre de Carl Schmitt].- dédié à Günter Maschke. 53. Alain de Benoist, Critiques — Théoriques, L’Age d’Homme, Lausanne 2003, 574 p. [recueil de 28 textes, qui devaient initialement constituer deux ouvrages distincts, avec une introduction inédite, pp. 11-12]. 54. Alain de Benoist, Die Schlacht um den Irak. Die wahren Motive der USA bei ihrem Kampf um Vorherrschaft, coll. «Documentation», 4, Edition JF [Junge Freiheit], Berlin 2003, 81 p., trad. anonyme. 55. Alain de Benoist, Le sfide della postmodernità. Sguardi sul terzo millenio, coll. «Segnavia», 25, Arianna, Casalecchio 2003, 311 p., trad. Giuseppe Giaccio et Marco Tarchi, présentation de Eduardo Zarelli [recueil de 16 textes].
2004
56. Alain de Benoist, Au-delà des droits de l’homme. Pour défendre les libertés, Krisis, Paris, 153 p. 57. Alain de Benoist, Bibliographie générale des droites françaises, vol. 1: Arthur de Gobineau — Gustave Le Bon — Edouard Drumont — Maurice Barrès — Pierre Drieu La Rochelle — Henry de Montherlant — Thierry Maulnier — Julien Freund, coll. « Patrimoine des lettres », Dualpha, Paris-Coulommiers 2004, 614 p. 58. Alain de Benoist, Bibliographie générale des droites françaises, vol. 2 : Georges Sorel — Charles Maurras — Georges Valois — Abel Bonnard — Henri Béraud — Louis Rougier — Lucien Rebatet — Robert Brasillach, coll. « Patrimoine des lettres », Dualpha, Paris-Coulommiers 2004, 472 p. 59. Alain de Benoist, L’impero del «bene». Riflessioni sull’America d’oggi, coll. «Anamerica – Strumenti e materiali per lo studio dell’americanismo», 2, Il Settimo Sigillo, Roma 2004, 151 p., trad. Giuseppe Giaccio [recueil de 3 textes].
2005
60. Alain de Benoist, Bibliographie générale des droites françaises, vol. 3 : Louis de Bonald – Alexis de Tocqueville – Georges Vacher de Lapouge – Léon Daudet – Jacques Bainville – René Benjamin – Henri Massis – Georges Bernanos – Maurice Bardèche – Jean Cau, coll. « Patrimoine des lettres », Dualpha Editions, Paris 2005, 648 p. 61. Alain de Benoist, Bibliographie générale des droites françaises, vol. 4 : Joseph de Maistre – Ernest Renan – Jules Soury – Charles Péguy – Alphonse de Châteaubriant – Jacques Benoist-Méchin – Gustave Thibon – Saint-Loup (Marc Augier) – Louis Pauwels, coll. « Patrimoine des lettres », Dualpha Editions, Paris 2005, 648 et 736 p. 62. Alain de Benoist, Jézus és testvérei. Gondolatok a vallásról a hitröl, Europa Authentica, Budapest 2005, 291 p., trad. István Gazdag, index [recueil de 12 textes sur les questions religieuses]. 63. Alain de Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragione mercantile, Arianna Editrice, Casalecchio, et Macro Edizioni, Diegaro di Cesena 2006 [paru fin 2005], 221 p., trad. Alessandro Bedini, Massimo Carminati, Giuseppe Giaccio, Paolo Mathlouthi et Marco Tarchi, présentation de Eduardo Zarelli [recueil de 13 textes et entretiens sur l’écologie, la décroissance et la critique de la raison marchande]. * Le livre Le libéralisme n’est pas une solution, annoncé en1987 pour paraïtre chez Robert Laffont, dans la collection «Franc-parler», n’a jamais été publié. Il en va de même du livre sur Les traditions de Noël, pour lequel un contrat avait été signé le 13mai 1985 avec les éditions Imago. |
Principali scritti di Alain De Benoist in collaborazione con altri autori (a cura del autore del presente profilo)
Alain De Benoist e Giorgio Locchi (1978), Il Male Americano, Libreria Editrice Europa, Roma
Alain De Benoist e Tomas Molnar (1992), L’eclissi del sacro, Settecolori, Vibo Valentia
Alain De Benoist et Charles Champetier (2000), Manifeste pour une renaissance européenne. A la découverte du GRECE. Son histoire, ses idées, son organisation, GRECE, Paris
Su Alain De Benoist e la Nuova Destra
Pierre-Andre Taguieff (2004), Sulla Nuova Destra. Itinerario di un intellettuale atipico, Vallecchi, Firenze
Francesco Germinario(2002), La destra degli dei. Alain De Benoist e la cultura politica della nouvelle droite, Bollati Boringhieri,Torino
[1] Alain de Benoist, L’impero interiore, Ponte alle Grazie, Firenze, 1995 pag.75
[2] Per riprendere una formula coniata appositamente su De Benoist da Pierre-André Taguieff
[3] Vico intende con il termine “auttori” quegli autori che maggiormente hanno influenzato il suo pensiero, che nel suo caso sono Platone, Tacito, Bacone e Grozio. Volendo fare una similitudine un pò forzata si può sostenere che per De Benoist l’equivalente sia Nietzsche, Heidegger, Junger, Levi-Strauss.
[4] Tra le quali “Echo de la presse et de la pubblicité”, “Le Charivari”, “Le courrier de Paul Deheme”. Si veda a proposito in Pierre-Andrè Taguieff, Sulla Nuova Destra. Itinerario di un intellettuale atipico, Vallecchi, Firenze, 2004
[5] Si veda Alain De Benoist, Giorgio Locchi, in “Eléments”, n.76, dic.1992
[6] Si veda inAA.VV. Nietzsche et notre temps, “Engadine”n.13 e 14,1972
[7] Si veda ad esempio “A.De Benoist, Countre tous racismes (colloquio con Alain De Benoist), in “Eléments”, N.8-9,1974
[8] Importante nel pensiero di De Benoist il collegamento tra anti-egualitarismo ed anti-americanismo. Un esempio, per gli anni settanta di questa piega del suo pensiero è contenuto in R.de Herte e H.J.Nigra (pseudonimi per Alain De Benoist e Giorgio Locchi), Il était une fois l’amérique, in “Nouvelle école”, N.27-28, 1975
[9] Si veda in Pierre-André Taguieff, op.cit.
[10] Si è nel 1988
[11] Si veda l’appello alla vigilanza firmato tra gli altri da Rossana Rossanda e Umberto Eco in “Le Monde” 13\7\1993
[12] M.Tarchi, Il De Benoist di Germinario, in “Diorama Letterario”n.253,2002
[13] Alain De Benoist, Oltre i diritti dell’uomo, in “Diorama letterario”, n.261, 2003 pag.3
[14] Alain De Benoist, Il diritto alla differenza non può essere negato, in “Diorama Letterario”, n.274, 2005 pag.5
[15] Pierre-André Taguieff, Sulla Nuova Destra. Itinerario di un intellettuale atipico, Vallecchi, Firenze, 2004, pag.280
[16] Con il termine imperiale De Benoist non intende evocare una nuova egemonia né una forma rinnovata di dominio europeo bensì quel principio imperiale che si contraddistingue come comune idea di auctoritas sovranazionale. Si veda a proposito Alain De Benoist, L’impero interiore, op.cit.
[17] Alain De Benoist, Vers des nouvelles convergences, conversazione con A.De Benoist, in “Eléments”, n.56, dic.1985-feb.1986, pag.16
[18] Alain De Benoist, L’America che ci piace, in “Diorama letterario”, n.270, pag.3
[19] Ovvero la libertà di sostenere gli interessi americani nel mondo a tutti i costi e con tutti i mezzi, compresi l’omocidio, la rapina e lo sfruttamento. Si veda N.Chomsky, La quinta libertà, Eleuthera, Milano, 2002
[20] Alain De Benoist, L’idea nominalista. Fondamenti di un atteggiamento verso la vita, su “l’Uomo libero” N.7 del 01/07/1981 disponibile su www.uomo-libero.com
[21] Alain De Benoist, L’idea nominalista. Fondamenti di un atteggiamento verso la vita, su “l’Uomo libero” N.7 del 01/07/1981 disponibile su www.uomo-libero.com
[22] Si veda M.Prospero, Il Pensiero Politico della Destra, Newton and Compton, Roma, 1996
[23] Alain De Benoist, Le sfide della postmodernità, Arianna ed., Casalecchio (Bo), 2003 pag.24
[24] Alain De Benoist, Le sfide della post modernità, Arianna ed., Casalecchio(Bo), 2003 pag.177
[25] Alain De Benoist, Les ordonnaces du docteur Droite, conversazione con Alain Rollet, in “Le Monde aujourd’hui”17/18 giugno 1984, pp.XIV-XV.
[26] Questa definizione De Benoist la riprende da M.J.Sandel, Liberalism and the limit of giustice, Cambridge University press, Cambridge, 1982 pag.167
[27] Alain De Benoist, Le sfide della postmodernità,op.cit.pag.120
[28] Alain De Benoist, op.cit. Pag.120
[29] Politica come “arte della decisione in vista del bene comune”. Alain De Benoist, Le sfide della postmodernità, Arianna ed., Casalecchio (Bo), 2003 pag.7
[30] R.Aron, Mémoires, Juliard, Paris, 1983, tomo 2 pag.984
RICHARD SENNETT
A cura di Alberto Rossignoli
CENNI BIOGRAFICI
Richard Sennett è nato nel 1943 a Chicago, per la precisione nel quartiere Cabrini,progettato secondo gli austeri dettami del razionalismo elettronico.
Sua madre è stata precedentemente abbandonata dal suo compagno,il quale scelse di combattere nelle Brigate Internazionali; tornato a Chicago, profondamente segnato dalla guerra, preferì scomparire letteralmente nel nulla, lasciando soli e nell’indigenza madre e figlio, che si trasferirono al Cabrini.
La donna,per tirare avanti,diviene un’assistente sociale.
Sennett si trova dunque a crescere tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in cui l’America combatte una doppia guerra: all’interno, vuole sconfiggere definitivamente la povertà e il ricordo della lunga crisi economica che ha avuto nel crollo di Wall Street del 1929 il suo momento topico.
Fuori dai confini nazionali,invece, gli States erano impegnati nella guerra contro il nazifascismo e il militarismo imperiale nipponico (di stampo fascista).
Entrambe le guerre saranno vinte dagli Usa ma, allorché inizia la Guerra Fredda, l’America scatena le sue forze contro i comunisti.
Ha compiuto i suoi studi presse l’Università di Chicago, laureandosi con il massimo dei voti nel 1964, proseguendo la carriera accademica ad Harvard.
Professore Incaricato alla Yale University dal 1967 al 1968, dal 1969 al 1971 diviene direttore di u programma di studio sulla famiglia urbana presso il Cambridge Institute e, sempre nel 1971, viene eletto Membro di Facoltà alla New York University.
Attualmente insegna sociologia presso la London School of Economics e sociologia e storia alla New York University. Nel 1975 ha fondato il New York Institute for the Humanities, diretto fino al 1984.
Dal 1988 al 1993 è stato direttore della Commissione sugli Studi Urbani dell’ UNESCO e dal 1996 dirige il Council on Works.
Membro dell’American Academy di Roma e dell’American Academy of Arts and Sciences, è stato insignito del premio “Friedrich Ebert” per la sociologia.
E’ stato consulente del candidato alla Casa Bianca per il Partito Democratico Kerry ed è un oppositore della politica dell’attuale premier britannico Tony Blair.
OPERE
(con S. Thernstrom) Nineteenth Century Cities, Yale U.P., New Haven, 1969; Families Against the City: Middle Class Homes of Industrial Chicago, Harvard U.P., Cambridge (MA), 1970; The Uses of Disorder, Knopf, New York, 1970; (con j. cobb) The Hidden Injuries of Class, Knopf, New York, 1972; The Fall of Public Man, New York, Knopf, 1977 (trad. it.: Il declino dell’uomo pubblico: la società intimista, Bompiani, Milano, 1982); Authority, New York, Knopf, 1980 (trad. it.: Autorità. Subordinazione e insubordinazione: l’ambiguo vincolo tra il forte e il debole, Bompiani, Milano, 1981); Narcissismo y Cultura Moderna, Kairos, Barcelona, 1980; La Transparence du pouvoir aux Etats-Unis, Fayard, Paris, 1982; The Conscience of the Eye, Knopf, New York, 1990 (trad. it.: La coscienza dell’occhio: progetto e vita sociale nelle città, Feltrinelli, Milano, 1992); Flesh and Stone: the Body and the City in Western Civilization, Norton, New York, 1994; The Corrosion of Character: the Personal Consequences of Work in the New Capitalism, Norton, New York-London, 1998. Ha curato: Classic Essays on the Culture of the Cities, Prentice Hall, New York, 1969; The Psychology of Society, Random House-Vintage, New York, 1977. Sennett è anche autore di opere di narrativa: The Frog who Dared the Croak, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1982; An Evening of Brahms, Knopf, New York, 1984; Palais Royal, Knopf, New York, 1987 (trad. it.: Palais Royal, Feltrinelli, Milano, 1988).
PENSIERO
Il punto focale della riflessione di Sennett è dato dal “nuovo capitalismo”: tutte le sue opere si snodano attorno ad esso.
Ora, la cultura neo-capitalistica, ovviamente,procede consequenzialmente dal vetero-capitalismo,che ebbe in Max Weber uno dei suoi più importanti teorici; nel capitalismo dell’età moderna,a detta di Weber prima e di Sennett poi, che riutilizza l’immagine come la foto di una carta d’identità, essenziale era la “gabbia d’acciaio”.
Ma cos’è?
E’ la rigida macchina burocratica dello Stato e dell’economia così come si era sviluppata dalla fine dell’Ottocento in poi e che il filosofo e sociologo Max Weber descrisse nelle sue opere ai primi del Novecento.
Detta “gabbia d’acciaio” si basava sulla militarizzazione delle imprese e delle istituzioni in cui ognuno ha il suo posto e adempie ad una determinata funzione con compiti rigidamente fissati.
Non ricorda forse la rigida struttura della geocentrica società altomedievale?
Tutto ciò al fine dell’integrazione sociale delle masse e della pacificazione sociale contro le tendenze rivoluzionarie che agitavano quei tempi. Anche con specifico intento anti-comunista,dunque.
Ma il fulcro di questo capitalismo era soprattutto una ben precisa e determinata concezione del tempo, vale a dire a lungo termine, prevedibile e razionalizzato,in cui il singolo individuo poteva pensare alla propria vita come a una narrazione avente una scansione regolare e probabile.
Del resto, il cuore dell’etica protestante, come descritta da Weber, era il differimento della gratificazione immediata per obiettivi a lungo termine: la possibilità,dunque, di costruire un percorso esistenziale avente un determinato indirizzo e sviluppo.
Tuttavia, nel volgere di poco tempo, l’individuo è stato liberato dalla “gabbia d’acciaio”, ma a quale prezzo?
L’individuo si è ritrovato più solo a gestire la flessibilità e la frammentarietà della propria esperienza di vita, in particolare nella sfera lavorativa. I valori dominanti delle grandi imprese sono rapidamente radicalmente mutati: alla stabilità e alla staticità delle burocrazie e dei processi industriali sono subentrati flessibilità e leggerezza, divenute parole chiave del nuovo capitalismo.
Ma il singolo non ne ha ricavato maggiore libertà, bensì maggiore insicurezza.
Forze diverse hanno contribuito allo sgretolarsi della “gabbia d’acciaio” e all’instaurarsi consequenziale del neo-capitalismo.
Anzitutto lo sviluppo del capitalismo azionistico, che ha implicato nuove forme di governo delle imprese le quali, non avendo più il controllo finanziario su se stesse, sono divenute preda di investitori esterni da cui dipendono, il potere effettivo è passato nelle mani dei manager interni alla stessa azienda e agli stessi azionisti, in cerca dei maggiori profitti nel minor tempo possibile.
Si è dunque innescato un capitalismo dominato dalla frenesia dei mercati azionari per i quali le imprese devono apparire nelle migliori condizioni possibile: i licenziamenti per fini borsistici sono la conseguenza immediata di questo processo.
Il criterio del successo economico dell’azienda non sono più i dividendi delle azioni a lungo termine, ma il loro andamento quotidiano.
Altro elemento da considerare è lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione.
All’interno dell’organizzazione aziendale, esse rendono superflua gran parte dei quadri aziendali, oltre a rendere l’esercizio del controllo e la comunicazione da parte dei vertici immediato e diretto.
Rende inoltre superflua una gran parte dei lavoratori non specializzati e di conseguenza viene meno uno dei capisaldi del capitalismo di stampo weberiano: la già citata integrazione delle masse.
Il consumatore,da parte sua, è lasciato sempre più solo di fronte alle merci.
Alla struttura piramidale del vecchio modello di organizzazione aziendale si sostituisce un nuovo modello organizzativo: quello del lettore MP3.
Questo dispositivo ha la caratteristica di poter essere programmato in maniera estremamente flessibile: è possibile infatti saltare da un brano ad un altro e modificare le impostazioni di ascolto a nostro piacimento.
Ebbene, la direzione di un’azienda agisce più o meno allo stesso modo nei confronti dei suoi dipendenti: decide come, dove e per quanto tempo utilizzarli a seconda delle esigenze e delle tendenze del mercato.
Con quali conseguenze?
Anzitutto la separazione della base dal centro in termini sia fisici che economici; gli effetti più visibili di tutto questo sono rappresentati dalla delocalizzazione della forza-lavoro e dal crescente divario tra gli stipendi dei manager e quelli degli impiegati.
Dunque si passa da una struttura piramidale a una struttura a rete, una rete fatta di partite IVA, di collaboratori a progetto, di Co.co.co, in cui la maggior parte dei nodi non può tessere alcun filo.
Spesso, inoltre, l’autorità viene separata dal controllo e il potere decisionale è spesso demandato a consulenti che si assumono la responsabilità a breve termine circa le conseguenze delle loro decisioni sul futuro dell’azienda.
Inutile dire che,in questo stato di cose, l’individuo non può più fare della sua vita un qualcosa di stabile, ma deve praticamente vivere alla giornata, in un mondo fatto di relazioni e situazioni non stabili.
L’effetto combinato di automazione e globalizzazione rende vane le strategie di avanzamento basate sulla formazione e sulle specifiche competenze: il progresso tecnologico e informatico sono indifferenti alle qualifiche e all’esperienza.
Ne deriva che il nuovo valore su cui si punta è la potenzialità dell’individuo (fondamentalmente basata sull’adattarsi a i repentini cambiamenti): se non hai potenzialità,sei perduto.
Sennett individua un altro elemento della cultura neo-capitalista è l’esaltazione del cambiamento come fine a se stesso.
Il consumo come passione divoratrice si può scorgere dalla politica all’economia,al lavoro alla vita intima.
Un aspetto di questa questione è quello della “tecnica di piattaforma”: a un prodotto base vengono aggiunte piccole differenze al fine di renderlo unico e appetibile.
Stessa cosa in ambito politico: i programmi di destra e sinistra,a detta del sociologo americano, tendono sempre più a somigliarsi nella sostanza, facendo un largo uso di strumenti retorici per favorire questa “piattaforma”.
Il ragionamento che fa Sennett a proposito del capitalismo ruota attorno ad un tragico paradosso: il capitalismo delle origini mira alla distruzione della società.
Dal canto suo,il welfare state non fa che salvaguardare il capitalismo dalla sua logica distruttiva, puntando al rispetto di sé, alla crescita personale, allo sviluppo di attitudini personali e collettive, se con attitudine si intende un indicatore di potenzialità.
Il riconoscimento da parte dello Stato delle capacità potenziali ha evitato l’esplosione di conflitti devastanti.
Sarebbe bene che le pressioni che possono nuocere al welfare state abbiano dunque fine.
C’è tuttavia da rilevare un sentimento di dipendenza nei confronti delle istituzioni statali di cui il welfare state è appunto causa.
Sennett ritiene che il welfare state debba cambiare atteggiamento.
Infatti la burocrazia del welfare state ha sempre imposto una distanza emotiva tra il funzionario e gli assistiti per evitare che l’erogazione dei servizi sociali suonasse come carità.
Dovrebbe perciò rinunciare a vedere le persone in quest’ottica compassionevole:ciò nuoce al sistema riformismo liberale.
Devono attuare una politica sociale basata sul “rispetto”, sul “riconoscimento”, come il sociologo afferma nei suoi scritti, la cui lettura è caldamente consigliata a tutti se si vuol capire come sta andando il sistema socio-economico di questi ultimi anni e quali tendenze sta sviluppando.
Concludendo, focalizziamo brevemente l’attenzione sulle proposte avanzate da Sennett.
Ora, abbiamo dato per certo che, nelle condizioni di incertezza che si sono venute a creare, è sempre più difficile dare un senso alla propria esistenza. Dunque i possibili rimedi devono avere come scopo quello di ridare una continuità alla vita delle persone.
E’ necessario creare istituzioni parallele che diano ai lavoratori la stabilità che manca alle organizzazioni flessibili.
A detta di Sennett, il sindacato potrebbe farsi carico della difesa, in veste di agenzia di collocamento, di chi non ha un posto di lavoro e di chi non ne ha uno stabile.
Altra proposta del sociologo americano è quella del reddito minimo di base per tutti: in tal modo, come lui afferma, lo Stato, con le tasse, potrebbe garantire una certa dignità all’esistenza “ma scomparirebbe lo Stato-Balia”.
Infine, Sennett auspica che si recuperi in qualche modo lo spirito dell’artigiano del fare bene qualcosa come fine a se stesso e senza aspettarsi nulla in cambio, come in un’azione di contrasto nei confronti di una sempre più diffusa e radicata superficialità.
COSTANZO PREVE
A cura di Alessandro Monchietto
Presentazione del pensiero: marxismo e filosofia.
Ogni approssimazione alla ricostruzione del pensiero di un autore è anche sempre necessariamente una scelta di “ordine d’esposizione”di temi e di problemi. Occupandosi del pensiero di Costanzo Preve, autore sconosciuto ai più ma di indubbia originalità, si prova inevitabilmente un certo senso di straniamento. L’immagine che si aveva di Marx sino a quel momento va in pezzi, e al suo posto sopravviene una spiacevole sensazione di smarrimento, di disagio, e diciamolo, anche un certo fastidio. “Ma chi si crederà mai di essere questo signore, che in maniera quasi innocente stravolge opinioni consolidate e accettate dai più grandi studiosi marxisti degli ultimi centocinquant’anni?”
La maggior parte dei lettori (soprattutto tra coloro che hanno alle spalle anni di onorata e sincera “militanza”) risponde con un’alzata di spalle, abbandona il libro e si dedica a qualche ben più proficua occupazione.
Non è il caso ovviamente dell’autore di questo breve saggio, che ha invece deciso di dedicare la sua tesi di laurea proprio allo studio di questo singolare filosofo.
Nel tentativo di affievolire questo spaesamento, e di agevolare la lettura del saggio, in questa introduzione ne esporrò brevemente il contenuto e la struttura.
Inizierò trattando il concetto di economia in Marx, ed in particolare la distinzione tra economia politica classica, critica dell’economia politica ed economia politica critica di “sinistra”. Saranno analizzate poi le conseguenze della scelta marxiana di individuare nell’economia politica l’oggetto da criticare e rovesciare, prima fra tutte la rinuncia marxiana alla fondazione filosofica della propria teoria. Affronteremo infine il delicato tema della presenza/assenza di una teoria politica nel pensiero marxista, e delle sue possibili cause.
Nel secondo capitolo, mi dedicherò al problema della ricostruzione del profilo filosofico originale di Marx. In questo capitolo verrà affrontato inizialmente il concetto di scienza e quello di scienza filosofica; passeremo poi allo studio della nozione di alienazione nel pensiero marxiano, con un breve excursus sul concetto di Gattungswesen e sull’influenza esercitata dal pensiero di Aristotele; infine sarà dedicato un paragrafo all’analisi del materialismo in Marx, e delle innovazioni proposte dal professor Preve a questo riguardo.
Nel terzo ed ultimo capitolo analizzeremo invece quelli che (per Preve) sono gli errori più rilevanti presenti nel pensiero marxiano, ossia la tesi della capacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia e proletaria (rivelatasi largamente inesistente), la concezione della borghesia come unica classe-soggetto del capitalismo (dove, in realtà, il capitalismo si sviluppa per via largamente impersonale), e infine l’ipotesi dell’incapacità del sistema capitalista di sviluppare pienamente le forze produttive (dove in realtà si esperisce quotidianamente la sua smisurata abilità proprio in questo, anche se ciò avviene in un contesto di distruzione ecologica e antropologica).
Spero con ciò di aver fatto cosa utile al lettore.
1.1 Ho deciso di iniziare questo saggio soffermandomi brevemente sul concetto di economia in Marx, poiché spesso da qui nascono i primi malintesi. Non è insolito infatti sentirsi dire che Marx, dopo una prima fase giovanile in cui si era limitato a una critica di tipo prettamente filosofico al modo di produzione capitalistico, avesse saggiamente abbandonato questo instabile terreno per abbracciare la ben più solida scienza economica, scelta che gli permise di elaborare la sua teoria della genesi e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Non intendo assolutamente negare un fatto indubitabile, ossia la scelta marxiana (compiuta probabilmente a Manchester nell’estate 1845[1]) di individuare nell’economia politica il terreno privilegiato di critica.Vorrei però sgombrare il campo da possibili equivoci e definire con chiarezza i termini della nostra discussione.
Si è spesso tentato infatti(soprattutto in un’ottica di mobilitazione politico-elettorale) di vedere Marx come una sorta di “economista eretico”, ”economista di estrema sinistra”o meglio come un “economista dalla parte dei salariati”. Costanzo Preve invece, riprendendo tesi già elaborate negli anni settanta da Claudio Napoleoni, rileva come Marx in realtà non abbia mai condiviso né l’oggetto né il metodo dell’economia politica, e che per questo la sua critica dell’economia politica non sia affatto assimilabile a ciò che Napoleoni chiama “economia politica critica” (da Ricardo a Keynes, da Schumpeter a Sraffa).
Come Preve afferma in un suo recente scritto, “la critica dell’economia politica di Marx non è un’ ‘economia’ nel senso di Smith e Ricardo, ma è una vera e propria ‘scienza filosofica’ nel senso di Ficthe e di Hegel, in quanto interpella criticamente l’insieme olistico della società capitalistica, con i suoi vari aspetti religioso, politico, sociologico, culturale, eccetera, organicamente interconnessi”[2].
In questa frase, troviamo già esposta la tesi per cui quella di Marx è una scienza filosofica (tesi che tratteremo ampiamente nel prossimo capitolo); per il momento però vorrei soffermarmi sul concetto di critica dell’economia politica e sulle conseguenze che da essa si possono trarre.
Come si può facilmente dedurre dalla breve citazione di cui sopra, Preve è convinto che Marx, pubblicando nel 1867 il primo libro del Capitale, non intendeva affatto portare un “contributo” di sinistra all’economia politica ma intendeva impostare una critica complessiva della società capitalistica (di cui l’economia politica era la nuova religione globale di legittimazione).
Mentre quindi la critica dell’economia politica non è per nulla una “economia” in senso proprio ma una teoria generale della società, l’economia politica critica ha come oggetto specifico la distribuzione del reddito fra i vari gruppi sociali, ed in questo contesto rappresenta gli interessi della classe salariata.
Secondo Preve, quindi, il centro della teoria marxiana non sta nel semplice riconoscimento “del fatto dello sfruttamento” (Ausbeutung) che si nasconde nello scambio fra forza-lavoro e capitale, ma si situa invece nella connessione organica fra due piani, il piano filosofico della teoria dell’alienazione ed il piano economico della teoria del valore. Come vedremo più avanti, questa affermazione sarà ricca di conseguenze.
Preve arricchisce questa sua tesi indagando in maniera inedita il rapporto Aristotele-Marx. Come sappiamo Aristotele individua nel metron e nella lotta alla dismisura la differenza radicale fra oikonomia (l’economia, e cioè la legge riproduttiva della casa comune, il nomos dell’oikos), e chrematistiké (la crematistica, e cioè l’arte di accumulare più ricchezze private possibili).
Per il nostro autore Marx inizia dove Aristotele si era fermato. Marx infatti nota che la produzione capitalistica è per natura illimitata, e lo afferma anche apertamente: “Il movimento del capitale – egli scrive – è senza misura”[3]. L’economia politica fondata da Adam Smith con la Ricchezza delle Nazioni del 1776 non è a rigore una “economia” nel senso di Aristotele, ma una crematistica moderna, che pone il principio dell’illimitatezza potenziale dell’accumulazione capitalistica non come problema da indagare ma come ovvietà da constatare[4].
Come possiamo stabilire facilmente, questa tesi ci segnala chiaramente come il metodo e l’oggetto di Marx siano differenti e non coincidenti con quelli dell’economia politica inaugurata appunto da Adam Smith.
1.2 La scelta di Marx di individuare l’economia politica classica come il grande oggetto da criticare e rovesciare, ma anche da privilegiare, non è però priva di conseguenze.
Come viene dimostrato ampiamente da Preve nel primo capitolo di Marx inattuale[5], questa decisione comporta la rinuncia marxiana alla fondazione filosofica della propria teoria, con la conseguente rinuncia ad attribuire alla conoscenza filosofica uno spazio autonomo.
Il filosofo torinese non critica questa scelta, cosciente del fatto che se Marx non l’avesse compiuta il marxismo non sarebbe mai nato; ma ritiene sia stata proprio questa decisione a inibire a Marx ed al marxismo successivo l’unico rimedio capace di prevenire le inevitabili derive storicistiche, utopistiche ed economicistiche. Secondo il nostro autore infatti chi riduce la filosofia a sopravvivenza premoderna e precapitalistica oppure a sofisticata secolarizzazione protoborghese della religione finisce con il negare alle sue stesse produzioni teoriche lo spazio critico di autoriflessione.
“ In estrema sintesi, solo la pratica costante ed esplicita della conoscenza filosofica (il cui presupposto socratico non è solo quello di sapere di non sapere, ma è quello di mettere in mezzo, es meson, il sapere di non sapere) può, o forse potrà, o forse avrebbe potuto, evitare al marxismo di oscillare tra i due poli viziosi e convergenti, opposti e complementari, antitetici e solidali, della pseudo-scienza e della quasi-religione[6]. Lo statuto autentico della religione e della scienza può essere indagato solo da un terzo, e cioè dalla filosofia.
[…] la filosofia sarebbe invece utile, perché essa è appunto non l’arbitro, che dovrebbe decidere chi ha ragione (questa è un’illusione che mi guardo bene dal sostenere), ma appunto il terzo interlocutore, che socraticamente invita alla razionalità dialogica. La razionalità dialogica non è possibile se non ci si mette totalmente in discussione. Se al posto di questa messa in discussione totale si invoca una sorta di “principio di esenzione” (secondo la formulazione di un libro molto bello, anche se pochissimo noto, di Edoardo Benvenuto), la religione e la scienza si avvitano su se stesse e diventano incapaci di autoriflessione teorica e di autocollocazione storica”[7].
Per Preve la filosofia era proprio il tipo di conoscenza che, nella sua pratica socratica di tipo dialogico, poteva essere(e non è stata) il solo luogo comunicativo in cui criticare le pretese ideologiche dello storicismo, dell’economicismo e dell’utopismo.
Come viene ribadito in un altro scritto, “la funzione della filosofia può infatti essere paragonata a quegli ingranaggi salvavita che segnalano l’emissione di gas da un cattivo impianto di riscaldamento e la cui conoscenza può fare la differenza tra la vita e la morte. Lo spazio della filosofia è infatti uno spazio di controllo, autocontrollo, verifica e segnalazione di pericoli, ed il metodo dialogico che la filosofia ha ereditato dal suo fondatore Socrate permette ai vari soggetti politicamente attivi di diventare consapevoli della propria prassi”[8].
Non possiamo assolutamente criticare Marx per non aver previsto tutto questo, poiché non c’è cosa più sterile della critica realizzata “col senno di poi”, ma è indubbio che chi voglia riprendere seriamente un pensiero anticapitalista debba inevitabilmente confrontarcisi.
1.3 Secondo il nostro filosofo torinese, un’ulteriore conseguenza di questa decisione consiste nell’assenza di una teoria marxiana dello stato. Riprendendo un tema molto discusso in Italia nella seconda metà degli anni Settanta[9], Preve ne stravolge le coordinate tradizionali, e rifacendosi agli studi di Pierre Rosanvallon[10] e di Bernard Chavance[11] descrive il progetto marxiano come l’elaborazione di un comunismo utopico, frutto del rovesciamento dialettico del precedente capitalismo utopico di A.Smith.
Iniziamo con una citazione:
“Marx è soprattutto colui che ha pensato il comunismo secondo la modalità che i pensatori religiosi hanno chiamato ‘teologia negativa’, in cui la divinità non è descritta con categorie ontologiche ricavate da un’estrapolazione dell’ente umano generico, e cioè dell’uomo in generale, ma è ricavata per differenza contrastiva assoluta da questo fondamento stesso. Nello stesso modo Marx ricava il concetto di comunismo (che di conseguenza non definisce mai se non in modo volutamente generico) da una teologia negativa del modo di produzione capitalistico.
Questa è la sua forza, ma anche ovviamente la sua debolezza.
[..] Il comunismo di Marx è dunque un ‘rovesciamento dialettico’ dell’utilitarismo in ciò che dovrebbe essere il suo contrario, ma che in realtà finisce per essere il suo sdoppiamento replicato e la sua generalizzazione ‘collettivistica’ ”[12].
Abbiamo qui i termini fondamentali per iniziare la nostra discussione.
Scegliendo di criticare l’economia politica, Marx ne rimane in qualche modo preda, e come l’ateo rimane vittima del pensiero teista, elaborando prove dell’inesistenza di Dio al posto di prove dell’esistenza di Dio (Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino,ecc.), così Marx pensa il comunismo come un semplice rovesciamento del sistema capitalistico.
Per fare un esempio esplicativo si può pensare all’approccio marxiano alla teoria del valore, che è di tipo appunto contrastivo: proprio perché il capitalismo si fonda sulla teoria del valore, il comunismo dev’essere pensato come estinzione integrale di essa.
L’effetto più rilevante di questo fatto si rinviene però proprio nella debolezza della teoria politica marxista.
La stragrande maggioranza delle persone ritiene corretta la tesi secondo cui Marx avrebbe ereditato e sviluppato l’utopia democratica di Rousseau, dandole semplicemente una concretizzazione operaia e proletaria di tipo comunista. Questa è stata, tra gli altri, la risposta data da Lucio Colletti[13] nel dibattito sopra citato.
Il nostro autore però ritiene che questa tesi sia errata, e che si debba invece rintracciare l’origine di questa debolezza non tanto nella continuità tra Rousseau, Marx e Lenin, ma nell’inconfutabile influenza del pensiero di A.Smith su Marx.
Per Preve Marx è caduto vittima dell’incantesimo di quello che Rosanvallon chiama il “capitalismo utopico” dell’economia politica di Smith, “utopico” appunto poiché se ne pensava possibile la riproduzione sociale anche senza la mediazione di uno stato politico, data la “mano invisibile” che lo reggeva. In quest’ottica, Marx ha soltanto rovesciato il capitalismo utopico senza stato di Smith in un comunismo utopico senza stato, tanto più realmente speculare quanto più apparentemente opposto e contrario.
Ecco una citazione che chiarisce brillantemente la posizione del nostro autore:
“Il ‘capitalismo utopico’ di Smith, come è noto, funzionava idealmente senza fondazione politica e senza interventi umani consapevoli, sulla base dei soli meccanismi automatici riproduttivi della mano invisibile del mercato. Il ‘comunismo utopico’ di Marx ha la stessa logica di funzionamento riproduttivo automatico, e per questo non ha bisogno di essere integrato da una rappresentanza politica, da un sistema giuridico, da un sistema di istituzioni come la famiglia e la società civile, da uno Stato ecc. . Per questo Marx ripete che il comunismo è al di là della famiglia, della politica, del diritto, della morale, ecc. . Quella di Marx non è un’utopia roussoviana o hegeliana. Quella di Marx è il prolungamento utopico comunista di una precedente utopia capitalistica di Smith”[14].
Il comunismo marxiano appare come il rovesciamento dialettico sostanzialmente anonimo e impersonale di un capitalismo preventivamente pensato come un meccanismo autoriproduttore, in cui gli elementi giuridici, politici, statuali e culturali sono stati fortemente marginalizzati, per non dire del tutto eliminati. Come fa notare Preve, è proprio qui che l’economicismo si rovescia in utopismo, in quanto il rovesciamento utopico comunista ha come presupposto la totale autosufficienza del momento economico[15].
Chiudiamo questo capitolo con una citazione che illumina una ambiguità ineliminabile nel pensiero di Marx, e che ci apre la strada per la trattazione del profilo filosofico originale di Marx che affronteremo nel prossimo capitolo:
“Marx vorrebbe quindi giungere alla ‘deduzione scientifica’ della necessità storica della comunità umana ‘comunista’ (egli chiama comunismo semplicemente il suo ideale di comunità umana universalistica emancipata dall’alienazione) passando attraverso una forma di sapere non solo caratterizzato, ma addirittura fondato e radicato sul presupposto dell’individualismo atomistico.
É qui, in poche parole, l’enigma di Marx”[16].
Ed è da questo “enigma” che ricominceremo la nostra trattazione.
2.1 Ho terminato il capitolo precedente con un riferimento ad un’inestricabile ambiguità presente nel pensiero di Marx, che il nostro filosofo torinese non esita a chiamare un vero e proprio “enigma”. Per riallacciarci al discorso appena affrontato, e per richiamare al lettore i termini essenziali della questione, proporrò un’ulteriore citazione:
“Da Manchester[17] Marx tornò non sbarazzandosi del concetto di alienazione (come ha imprudentemente affermato la scuola althusseriana), ma innestando la teoria dell’alienazione nella teoria del valore fino a farne un’unità inscindibile. E’ possibile questo? E’ possibile innestare una teoria filosofica dipendente da un’antropologia e da una dialettica risalente addirittura agli antichi greci su una teoria economica che ha invece presupposti utilitaristi e che è per sua natura indifferente od ostile alla dialettica?
Questo non è uno dei problemi della concezione di Marx. Si tratta del problema, del solo ed unico problema teorico reale”[18].
Per affrontare correttamente questa rilevante questione, è necessario iniziare interrogandosi sullo statuto scientifico della teoria marxiana.
Nel marxismo, il termine “scienza” ha sempre costantemente avuto due significati intrecciati ma incompatibili: il primo derivante dalla nozione di “scienza filosofica”(Wissenschaft) elaborata dall’idealismo classico tedesco e da Fichte ed Hegel in particolare, il secondo derivante dalla tradizione di Galilei e Newton e confluito infine nel positivismo ottocentesco. Nel primo significato, “scientifico” è ciò che è logicamente ed ontologicamente conforme al proprio concetto, sulla base del preventivo riconoscimento dell’esistenza di un fondamento. Nel secondo significato “scientifico” è ciò che è regolarmente prevedibile, sulla base di un sapere che ha nella matematica e nell’esperimento i propri fondamenti, che in questo caso però sono solo epistemologici, e non logico-ontologici, e non hanno perciò bisogno di nessuna filosofia di riferimento.
Nel novecento l’interpretazione prevalente in ambito marxista[19] rivendicava con orgoglio lo statuto scientifico dell’analisi di Marx, visto come un Galileo delle scienze sociali[20] che con i suoi studi aveva inaugurato una sociologia materialista o meglio una metodologia delle scienze sociali (per usare la terminologia di un autorevole marxista come Galvano Della Volpe).
Preve però, in contrasto con questo illustre indirizzo di pensiero, afferma che il concetto di scienza in Marx non deriva affatto da Galieo o da Newton, ma proprio dalla corrente idealistica tanto osteggiata dai pensatori prima citati. A suo giudizio il loro è “un approccio positivistico, che vorrebbe ricondurre epistemologicamente Marx ad una ‘vera scienza’ depurata di presupposti filosofici diffamati come ‘metafisici’, ma questo è impossibile, perché la ‘vera scienza’ presuppone una differenza di principio fra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto che mi sembra incompatibile con la nozione di prassi”[21].
Secondo il nostro autore la concezione della scienza in Marx, comprendendo costitutivamente il ruolo della prassi del soggetto, non consente né il punto di vista di Galileo e di Newton sulla autonomizzazione quantitativa integrale della previsione scientifica, né il punto di vista di Max Weber sulla separazione fra giudizi di fatto e giudizi di valore.
Come scrive in un saggio intitolato Marx der Idealist, “l’idealismo di Marx è una ‘scienza filosofica’ nel senso di Hegel, e non certo una science nel senso dell’empirismo inglese o una science nel senso del positivismo francese, in quanto non consente di distinguere fra ontologia ed assiologia, fatto e valutazione, mentre la science, da Galileo a Newton in poi, si basa proprio sull’isolamento dei fatti dai valori morali.
Ma il comunismo di Marx è appunto unità (sottolineatura mia N.d.A.) fra preferenza assiologica e contenuto economico dell’evoluzione storica”[22].
Secondo Preve, quindi, il pensiero di Marx non può dar luogo ad una scienza nel senso “positivistico” del termine, poiché la scienza si basa sulla separazione funzionale fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, da un lato, e sulla separazione funzionale fra giudizi di fatto e giudizi di valore, dall’altro. La scienza filosofica di Marx al contrario, comprende al suo interno non solo il concetto ma anche la realtà della prassi, e si basa su di un giudizio di valore negativo complessivo sulla fusione capitalistica di valore e di alienazione.
Per il nostro autore “soltanto se il capitalismo fosse un sistema economico destinato al crollo per ragioni endogene e se l’avvento del comunismo potesse essere previsto come si prevede un’eclisse[23] (togliendo pure a questa previsione la data, lasciandoci soltanto la sicurezza del suo verificarsi), potremmo parlare seriamente di ‘scienza’. In caso contrario, (ci) stiamo raccontando delle storie, secondo l’insuperabile formulazione di Louis Althusser”[24].
Bene. Credo sia giunto ora il momento di trattare uno dei temi centrali dell’interpretazione previana di Marx, ossia la provocatoria tesi per cui il filosofo di Treviri sarebbe “un idealista al cento per cento”.
2.2 Come anticipato, questo paragrafo sarà dedicato all’analisi del cosiddetto idealismo di Marx.
Permettetemi però di tornare brevemente sul tema affrontato nello scorso paragrafo. Un attento lettore infatti si potrebbe chiedere: “Ma allora Preve vuole negare totalmente qualsiasi valore scientifico al pensiero di Marx? Non è questa una mossa sbagliata, ed anzi controproducente?” Certo caro lettore, se così fosse Preve starebbe commettendo un grave errore “buttando via il bambino con l’acqua sporca”(come recita il saggio proverbio popolare). Ma fortunatamente così non è. E per dimostrarlo ci serviremo nuovamente di una sua citazione:
“É ragionevole pensare che Marx, intorno ai venticinque anni di età, ha avuto prima una sorta di intuizione filosofica abbastanza generica, l’intuizione di una comunità umana solidale conforme all’essenza naturale dell’uomo e libera da ogni ‘alienazione’ ( questa confusa intuizione è l’oggetto dei quaderni inediti, pubblicati dopo la sua morte con il titolo redazionale di Manoscritti economico-filosofici del 1844), e soltanto dopo ha costruito una legittimazione scientifica che potesse dimostrare l’avvento storico inevitabile di questa sua intuizione, una legittimazione scientifica definita poi materialismo storico e teoria pura dei modi di produzione sociali”[25].
Per il nostro filosofo Marx ha avuto l’intuizione del comunismo come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”, e della necessità di trasformare il mondo e non solo più di “interpretarlo” come avevano fino ad allora fatto i filosofi, molto prima di poter minimamente “dimostrare” questo suo comunismo.
Preve, infatti, non nasconde che in Marx siano presenti sia un dato utopico di origine romantica, sia un dato scientifico, consistente nella costruzione di quattro concetti scientifici fondamentali (modo di produzione sociale, forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologie e sistemi ideologici) e nell’applicazione sistematica di questi quattro concetti al modo di produzione capitalistico.
Per il nostro autore “l’elemento utopico e quello scientifico fanno entrambi parte in modo indissolubile del modello di Marx, che è dunque un’utopia scientifica (sottolineatura mia N.d.A.). Sbagliano dunque, e di grosso, quegli autori marxisti posteriori che hanno cercato di isolare il solo elemento utopico ( si pensi al tedesco Ernst Bloch) oppure il solo elemento scientifico (è il caso del francese Louis Althusser)”[26].
Con ciò Preve afferma che il pensiero marxiano comprende inscindibilmente due elementi fortemente interconnessi e separabili solo con un’operazione di astrazione provvisoria, e cioè l’analisi del capitalismo e la sua critica radicale dal punto di vista del suo superamento “comunista”. Come abbiamo visto infatti, per il nostro filosofo quella di Marx è un’utopia scientifica (l’ossimoro è ovviamente intenzionale) in cui un’ispirazione utopica tardoromantica ha suscitato una specifica critica dell’economia politica basata sulla coincidenza fra la teoria filosofica dell’alienazione e la teoria economica del valore.
Per comprendere pienamente questo discorso però è necessario affrontare il tema centrale di questo secondo paragrafo, ossia l’idea per cui Marx è un’idealista inconsapevole[27].
Inizieremo dunque con una citazione tratta da un recente libro di Preve dedicato al rapporto tra Marx e gli antichi greci, che ci presenta i termini fondamentali della questione:
“La filosofia implicita di Karl Marx è una peculiare forma di idealismo universalistico dell’emancipazione umana, e si configura storicamente come l’ultimo rilevante episodio della storia dell’idealismo tedesco. Fondamento filosofico della specifica forma di idealismo di Marx non è il concetto di Io (come in Ficthe) e neppure il concetto di Spirito (come in Hegel), ma è il concetto di “ente umano generico” (Gattungswesen). Detto in altri termini, il fondamento del pensiero di Marx è una fusione fra ontologia ed antropologia.”[28]
Secondo Preve Marx edificò un sistema filosofico implicitamente idealistico, fondato su di un progetto che aveva “come soggetto l’ente umano naturale e generico storicamente inteso (Gattungswesen) e come oggetto il lato negativo delle situazioni di ‘alienazione’ (Entfremdung) ed il lato positivo di un progetto di emancipazione universalistica”[29]. La nota tesi marxiana per cui “i filosofi avevano fino ad oggi solo diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo”, tesi da sempre considerata come esempio di “rovesciamento dell’idealismo in materialismo”, per Preve è invece un segno di “idealismo purissimo”, perché la concezione secondo cui il filosofo non doveva più interpretare il mondo, ma trasformarlo, era già stata enunciata in forma chiara ed inequivocabile da Fichte nel 1794.
Fichte distingue infatti fra la logica formale, ossia scienza dell’uso corretto delle categorie del pensiero che si basa sulla separazione metodologica fra forma e contenuto, e la “dottrina della scienza” vera e propria (Wissenschaftslehre), che è una scienza filosofica[30] e che presuppone un rapporto organico fra un soggetto che progetta, agisce e modifica il mondo ed un oggetto, naturale e/o sociale, che ne viene agito e modificato.
Secondo Preve, “quando nel 1845 Karl Marx scrisse che i filosofi avevano fino ad allora soltanto diversamente interpretato il mondo, e si trattava ora di trasformarlo, egli non lascia dubbio alcuno di voler riprendere, in una nuova intenzionalità anticapitalistica e comunista, il programma proposto nel 1794 [da Fichte, N.d.A.] di una dottrina della scienza filosofica basata sulla centrale categoria di prassi”[31].
I fautori del marxismo come metodologia delle scienze sociali hanno da sempre cercato di segnalare e palesare i punti di contrasto tra l’idealismo(ed in particolare Hegel) ed il pensiero marxiano, essendo convinti che fosse impossibile difendere una concezione materialistica e al tempo stesso preservare la dialettica idealistica. Per loro una scienza sociale non poteva basarsi su presupposti metafisici, e quindi la loro ricerca era volta innanzitutto a dimostrare l’enorme differenza presente tra Marx,il suo metodo e le sue analisi, e la filosofia hegeliana ed idealistica in generale.
Preve si muove in direzione opposta. Non solo mette in luce i (molti) punti di contatto, ma asserisce addirittura che “quella di Marx è una ‘dottrina filosofica della scienza’ nel senso di Fichte, mossa dall’intenzione di trasformare il mondo e non solo di ‘rispecchiarlo’ ”[32].
Secondo il nostro autore Marx non ha affatto rovesciato la dialettica hegeliana, rimettendola “sui piedi”, ma si è semplicemente limitato ad applicarla ad un oggetto scientifico nuovo, ossia la sua teoria dei modi di produzione sociali. Marx e Hegel hanno perciò in comune sia l’oggetto (la totalità ontologica della società umana pensata come un tutto) sia il metodo (il metodo dialettico), e quindi, nonostante alcune importanti differenze, questi due filosofi fanno parte a suo parere di un “insieme inscindibile”.
Prima di passare all’analisi dell’alienazione in Marx (tramite cui esamineremo anche il concetto di Gattungswesen), e del suo materialismo, chiuderei con una citazione previana che sintetizza compiutamente il percorso fin ora compiuto:
“Filosoficamente, io considero Marx non un materialista (tanto meno dialettico!), ma l’ultimo esponente della grande scuola dell’idealismo classico tedesco iniziata con Ficthe. Tanto per essere chiari, un idealista al cento per cento, costretto a rimuovere psicanaliticamente il proprio idealismo vivendolo con falsa coscienza necessaria come materialismo.Dal punto di vista ‘scientifico’, Marx è interno al sogno positivistico (iniziato dal francese Comte) di produrre una conoscenza scientifica unitaria del presente storico che fosse però anche predittiva e prognostica. Era questa la concezione di ‘scienza’ del tempo, e considerarla oggi con sufficienza equivale, a mio modesto parere, a considerare con sufficienza Aristotele perché non aveva ancora letto Newton e Darwin”[33].
2.3 Prima di dedicarci allo studio del cosiddetto “materialismo” di Marx, vorrei fare un breve accenno alla questione dell’alienazione(Entfremdung, Entäusserung) in Marx.
Si tratta di una nozione centrale nel pensiero del giovane Marx, che però di fatto non ritorna più nelle opere della maturità.
Nella storia del marxismo, nei confronti di questo tema vi sono stati (e vi sono tuttora) sostanzialmente due atteggiamenti: alcuni affermano che questa nozione non ritorna più poiché Marx l’ha volutamente abbandonata, avendo realizzato una “rottura epistemologica” che abbandonava integralmente ogni concetto idealistico di origine hegeliana e/o feuerbachiana in favore di una concezione strutturale dei rapporti sociali di produzione; altri (come il nostro filosofo torinese) sostengono invece che questa nozione filosofica non ritorna più non perché Marx l’avesse ripudiata, abbandonata o “superata”, ma perché l’aveva per così dire “metabolizzata” e incorporata nel suo procedimento di pensiero.
Lo stesso concetto di alienazione può essere inteso in modi diversi. In un primo significato, alienazione significa abbandono progressivo di una situazione originaria per definizione pura, ed appunto ancora non “alienata”. Come sappiamo, questo significato è caratteristico del pensiero religioso che per definizione è un pensiero dell’Origine, non solo perché Dio come Creatore è all’Origine del mondo, ma anche perché la storia umana è una storia per definizione peccaminosa in quanto si “distacca” dalla sua origine, cui si tratterebbe appunto di ritornare e di restaurare in tutta la sua incorrotta purezza.
In quest’ottica, quando si scopre (ed è il caso di Lucio Colletti) che la teoria dell’alienazione è strettamente intrecciata con la teoria del valore, e che quindi non è possibile separare un Marx scienziato da un Marx fortemente influenzato dal pensiero hegeliano e dialettico, si è fatalmente portati a vivere il marxismo semplicemente come una secolarizzazione dell’escatologia giudaico-cristiana, situazione che non può che concludersi con un congedo definitivo da Marx e dal marxismo in generale.
Preve non nasconde che questa “grande-narrazione abbia caratterizzato il marxismo storicamente esistito[..], perché il marxismo è fondamentalmente stato un’ideologia di una classe profondamente subalterna[34], e le classi subalterne tendono spontaneamente e con ineluttabilità magnetica ad una concezione religiosa del mondo”[35]. Ma a suo parere Marx riteneva l’ente naturale generico alienato non tanto rispetto ad una sua origine, quanto rispetto alle sue possibilità ontologiche ed antropologiche: “La nozione centrale del concetto di alienazione in Marx non è quello di ‘origine’ (archè), ma quello di ‘possibilità’, più esattamente di ‘essente-in-possibilità’(dynamei on)”[36].
In quest’ottica il termine alienazione (Entfremdung) non deve essere concepito in rapporto a un’origine perduta nel ciclo della peccaminosità umana, ma deve essere invece più sobriamente inteso come estraniazione dalle concrete possibilità ontologiche di una vita sensata. Per Preve, “l’alienazione è tale solo in rapporto (sottolineatura mia, N.d.A.) alle potenzialità immanenti (dynamei on) dell’ente naturale generico (Gemeinswesen, Gattungwesen)”[37].
Come si può notare, l’interpretazione previana è opposta rispetto alla precedente; invece di legare il pensiero marxiano alla tradizione giudaico-cristiana, Preve segnala l’innegabile influenza esercitata dal pensiero greco (ed in particolare aristotelico) su Marx.
Per Preve, in contrasto con una corrente di pensiero spesso prevalente, è Aristotele, assai più di Platone, il pensatore antico che ha di fatto ispirato maggiormente Marx. Riferendosi alle analisi di Michel Vadée[38], il filosofo torinese asserisce che “la categoria che forse indica maggiormente l’influenza di Aristotele su Marx è quella di ‘possibilità oggettiva’, o più esattamente di ‘potenzialità immanente’ (dynamei on). Possibilità che non ha nulla a che vedere con la semplice casualità o contingenza (katà to dynatòn). In Marx il passaggio dal capitalismo al comunismo, che in genere è stato inteso e concepito come un passaggio ‘necessario’, nel senso di fatale e ferreamente predeterminato, è invece pensato (e le analisi di Vadée sono qui particolarmente convincenti) secondo la modalità aristotelica del passaggio dalla potenza (dynamis) all’atto (energheia). In questo passaggio non c’è nessuna necessità, ma neppure nessuna contingenza assoluta intesa di fatto come ‘casualità aleatoria’, secondo l’impostazione dell’ultimo Althusser”[39].
In quest’ottica Marx viene interpretato come un pensatore aristotelico della possibilità ontologica, e non come un pensatore del determinismo positivistico e della connessa concezione necessitaristica di scienza; il comunismo perciò “resta una possibilità ontologica interna agli sviluppi sociali del capitalismo, non certo un esito necessariamente veicolato da aumenti della composizione organica del capitale, cadute tendenziali del saggio di profitto, crescite esponenziali della coscienza di classe operaia e proletaria e via fantasticando e auspicando soluzioni provvidenziali in chiave economicistica e/o sociologistica della storia”[40].
Secondo Preve, un altro punto in cui è possibile constatare quanto l’eredità aristotelica abbia influito su Marx è la nozione marxiana di natura umana; come viene fatto notare, “tutta l’antropologia filosofica di Marx, e cioè la sua concezione della natura umana in società,[..] coincide pressoché al cento per cento con la teoria di Aristotele sull’uomo come essere per natura politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) e come essere dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo scientifico (zoon logon echon)[41]. Questo fa di Marx una sorta di aristotelico moderno, se pensiamo che invece tutto il pensiero politico detto ‘moderno’ [..] nasce con Thomas Hobbes con una radicale e provocatoria inversione di prospettiva (rispetto all’antropologia aristotelica, N.d.A.)”[42].
Riallacciandomi a quest’ultima citazione, ritengo necessario soffermarmi su un concetto finora poco trattato, ossia la nozione di Gattungswesen.
Secondo Preve, utilizzando il termine Gattungswesen (che si può tradurre come “essenza del genere”, o meglio come “essenza umana generica”) Marx intende dire che l’uomo, a differenza degli altri animali, non ha un’essenza specifica che si trasmette per eredità naturale, ma ha un’essenza aperta che gli permette di costituire forme diversissime di socialità.
Per chiarire meglio la questione, credo sia necessario soffermaci su questa citazione tratta da Marxismo e filosofia:
“Quando parliamo di alienazione, cioè di cessione e di perdita, bisogna subito dire chi è che aliena e che cosa aliena. Chi aliena è l’uomo, e non l’uomo naturale sebbene l’uomo già storicamente costituito (e non c’è dunque nessuna paura di cadere nel naturalismo astorico o nell’umanesimo astratto interclassista), e ciò che aliena è la sua essenza umana generica (Gattungswesen). Egli non aliena dunque solo la sua essenza umana, che è l’insieme dei rapporti di produzione, e non comprende l’elemento naturale e biologico della sua costituzione antropologica complessiva, ma aliena qualcosa di più, la sua essenza umana generica, in cui ciò che conta veramente è la parola ‘generica’. La parola ‘generico’ si contrappone alla parola ‘specifico’. Le termiti non si alienano assolutamente nel loro termitaio, così come le api non si alienano assolutamente nel loro alveare. Come si vede, il concetto di essenza umana non deve essere confuso con quello di natura umana, che è più ampio, e comprende una sintesi di naturale e di storico, mentre l’essenza umana è solo storica, e chi si ferma ad essa sbocca in un povero sociologismo. Anche la natura è ovviamente storica, ma la sua storicità è più lenta, e dunque l’uomo antropologicamente è l’unione di due temporalità distinte anche se interconnesse. Proprio perché l’uomo è un ente naturale generico il capitalismo lo aliena, perché lo strappa alla sua genericità e lo rende specifico, cioè specifico ai soli rapporti capitalistici di produzione, che vengono appunto specificati, nel senso di animalizzati ”[43].
A differenza degli animali, che sono biologicamente specifici, cioè predeterminati a ruoli e comportamenti direttamente dettati dal loro imprinting biologico, l’uomo è generico, non è vincolato a nessuna riproduzione fissa e specifica, ed appunto per questo si può alienare, estraniare, ma anche deificare, cosa che ovviamente l’animale non può fare[44].
A proposito della storicità dell’uomo, Preve afferma che “proprio dal fatto che la cosiddetta ‘essenza umana’ è storica e non naturale, la natura umana è vista come un Gattungswesen, cioè come caratteristica dell’uomo come ente naturale generico e non specifico, o più esattamente che si specifica storicamente solo sulla base di una genericità costitutiva precedente. In quanto ente naturale generico, l’uomo non è geneticamente prefissato a dar luogo a una e una sola forma di oggettivazione sociale. [..] L’ente naturale generico, cioè la Gattungswesen, che costituisce l’uomo come essere inscindibilmente naturale e sociale, permette all’uomo la storicità, che non è soltanto l’infinita produzione di configurazioni storiche e sociologiche diverse, ma è anche il luogo della perdita e del ritrovamento di se stesso.”[45]. Come si può facilmente intuire, per Preve il fatto che l’essenza umana sia storica e non naturale non significa che la natura umana non esista.
Molti filosofi credettero al contrario che Marx avesse sostenuto la tesi per cui la natura umana non fosse altro che l’insieme dei rapporti sociali, e lo avrebbe fatto per criticare coloro che sostengono invece una teoria dell’immutabilità della natura umana per giustificare la conservazione dei vecchi rapporti sociali. Questi pensatori marxisti sostennero che la natura umana in sé non esiste, o meglio esiste solo nella successione storica dei comportamenti sociali, e quindi il comportamento sociale comunista è antropologicamente possibile purché lo si voglia e lo si generalizzi con l’abitudine, l’educazione ed anche (se necessario) con la coercizione. Questa corrente di pensiero, maggioritaria per tutto il novecento, propugnò così una concezione prometeica in cui la malleabilità illimitata della natura umana socialmente condizionata fu vista come il presupposto di una creatività onnilaterale.
Ma come fa notare Preve, “qui si nasconde un tranello, in quanto purtroppo Prometeo ed il Grande Fratello abitano nello stesso appartamento. Il presupposto della creatività illimitata è filosoficamente affine, contiguo ed omologo al presupposto della manipolazione illimitata. Creatività illimitata e manipolazione illimitata vivono sotto lo stesso tetto. A differenza di come credono ingenuamente i relativisti sociologistici,[..] la sola garanzia contro la possibilità della manipolazione illimitata politica e sociale sta nella resistenza innata della natura umana”[46].
Negare ogni rilevanza al concetto ed alla realtà della natura umana significa consegnarsi alla manipolazione, la cui premessa sta proprio nella possibilità di “modellare” senza limiti la natura umana stessa, non importa se nella forma del consumo eterodiretto oppure nella forma del dispotismo burocratico. Come scrive il nostro autore, “chi nega la natura umana, e lo fa ‘da sinistra’ convinto che si tratti di un concetto conservatore e reazionario (confondendo così l’uso ideologico del concetto con la sua pertinenza filosofica e ontologica), non capisce purtroppo che proprio il carattere generico della natura umana stessa è il principale fattore di impedimento alla stabilizzazione di una dittatura manipolatrice”[47].
Vorrei chiudere questo paragrafo dedicato al concetto di ente naturale generico e di alienazione con una citazione, che in maniera molto chiara e concisa, riassume i termini essenziali della questione:
“Se è vero che l’uomo è un ‘ente naturale generico’ (Gattungswesen) allora è ‘alienata’ qualunque situazione che gli vuole imporre come cosa irrigidita, immutabile e deificata, una situazione storica determinata (che sia lo stalinismo o la globalizzazione)”[48].
2.4 Come anticipato, in questo paragrafo analizzeremo il cosiddetto “materialismo” di Marx.
È innegabile infatti che Marx, per tutta la sua vita, si sia percepito come un pensatore interamente materialista, e che la tradizione che a lui si ispirava abbia fatto del materialismo una bandiera. Queste considerazioni però smentirebbero tutte le analisi finora compiute, che si basavano appunto sulla premessa dello statuto integralmente idealistico del pensiero marxiano. Com’è possibile una tale contraddizione?
È presto detto. Come vedremo più in dettaglio, nella concezione previana il termine “materia” compare in Marx sempre e soltanto come metafora che rimanda a qualcos’altro e che, in ogni caso, non è mai la materia nel senso classico e scontato. Ciò significa che, “quando Marx parla di ‘materia’, non si riferisce mai a una natura costituita da elementi materiali e dotati di un movimento retto da leggi determinabili con precisione matematica (secondo l’immagine del mondo consolidatasi a partire dal Seicento)”[49]. Per dirla con Preve, “in Marx c’è certamente anche del ‘materialismo’, ma c’è soltanto come ‘metafora’, o più esattamente come insieme di ‘metafore’ ”[50].
Preve afferma recisamente che “non si esce dall’idealismo proclamando di non voler più essere ‘idealisti’. Se infatti i propri sistemi concettuali hanno sempre come fondamento la nozione di alienazione, e soltanto la coscienza umana individuale e sociale è il soggetto di questa alienazione possibile (perché la ‘materia’ non può certo esserlo), allora si è sempre sul terreno ontologico dell’idealismo,[..] anche se ci si illude di esserne usciti”[51].
A suo parere, Marx utilizza infatti la metafora della “materia” per indicare quattro distinti atteggiamenti: l’ateismo, e cioè la negazione dell’esistenza di una divinità ultraterrena pensata in modo personale, e quindi inevitabilmente antropomorfizzante, la prassi, e cioè la modificazione materiale attiva dei rapporti di produzione “alienati”, lo strutturalismo, e cioè il primato della struttura sulle sovrastrutture, ed infine la libertà umana[52]. Esaminiamo brevemente la sua argomentazione.
Preve parte dall’affermazione marxiana per cui “non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso”[53]. Come scrive in un suo recente lavoro “in filosofia, a differenza che per alcune pratiche burocratiche semplificate, l’autocertificazione non è un principio metodologicamente infallibile”; a suo parere infatti, “nella congiuntura storica concreta del decennio 1835-1845 solo l’autocertificazione soggettivamente veridica di ‘materialismo’ permetteva di fatto di rompere con l’insieme delle ideologie dominanti”[54]. Come abbiamo d’altronde visto precedentemente, Preve afferma che Marx è “un idealista al cento per cento, costretto a rimuovere psicanaliticamente il proprio idealismo vivendolo con falsa coscienza necessaria come materialismo”[55].
Analizziamo ora il significato che di volta in volta prende il termine materia nel pensiero marxiano. Secondo il nostro filosofo, il primo significato metaforico di materialismo è quello che lo identifica con il cosiddetto “ateismo”, e cioè con la negazione dell’esistenza di un Dio unico concepito in modo personale e onnipotente. Scrive Preve: “Marx è un idealista inconsapevole (il terzo dei grandi idealisti, dopo Fiche e Hegel), che si crede materialista per il fatto che, essendo ateo, ritiene che tutti gli atei siano per definizione materialisti”[56]. L’ateo è infatti identificato automaticamente con il “materialista”, in quanto quest’ultimo, negando Dio, afferma di conseguenza che l’unica realtà di cui possiamo sensatamente parlare è quella “materiale”.
Il secondo significato metaforico è quello che identifica il materialismo come metafora della prassi attiva rivoluzionaria trasformatrice, sia individuale che collettiva. L’incunabolo di questa variante si trova nelle famose Tesi su Feuerbach, ed in particolare nell’undicesima[57]. Dopo aver ribadito che questa tesi, considerata inerzialmente da più di un secolo come esempio di “rovesciamento dell’idealismo in materialismo” era invece un segno di idealismo purissimo, poiché la concezione secondo cui il filosofo non doveva più interpretare il mondo, ma trasformarlo, era già stata enunciata in forma chiara ed inequivocabile da Fichte nel 1794, Preve fa anche notare che “mentre i cosiddetti ‘materialisti’ (primo fra tutti il greco Epicuro) scelgono generalmente strategie di esodo e di secessione dal ‘mondo’ in base alla diagnosi realistica per cui sarebbe troppo difficile ‘trasformarlo’, è stato invece il super-idealista Ficthe a identificare di fatto l’interpretazione con la trasformazione del mondo, identificazione che può avvenire soltanto su basi idealistiche (nel suo caso, con il rapporto organico fra Io e conoscenza-trasformazione del Non-Io)”[58].
Passando al terzo significato metaforico di materialismo, quello che (per Preve) di fatto corrisponde integralmente ai termini “materialismo storico” o “concezione materialistica della storia”, giungiamo al caso in cui viene allegorizzato con il termine “materia” il riferimento alla base strutturale dei rapporti sociali di produzione. Come sappiamo, la concezione materialistica della storia è fondata su un modello strutturalistico per la comprensione del passato e del presente storici; in questo caso Preve, concedendosi una sorta di liberta d’interpretazione, afferma che “in un certo senso [..] la ‘struttura’ è considerata come la ‘materia’ di un Tutto in cui la ‘sovrastruttura’ è considerata come la ‘forma’ ”[59].
L’ultimo significato metaforico che il nostro filosofo ci segnala è quello in cui il termine materia indica l’idea di libertà. Com’è noto, nella sua tesi di laurea in filosofia discussa a Jena nel 1841 Marx esamina le differenze fra i due sistemi “atomistici” del pensiero greco, quello di Democrito e quello successivo di Epicuro. Preve sostiene che “in modo molto acuto ed intelligente Marx vede subito che il parlare da parte di Epicuro di ‘deviazione’ degli atomi (clinamen, parekklisis) non è qualcosa che riguardi solo il macrocosmo naturale, ma è un sintomo ed una metafora di come viene invece concepito e concettualizzato anche e soprattutto il mondo sociale e politico, da un lato, e la sorte dell’individuo singolo pensato come un ‘atomo’, dall’altro. E così Marx, spesso frettolosamente connotato come filosofo dell’autoritarismo o dell’eguagliamento forzato degli individui secondo il modello costrittivo della caserma e/o del convento, esordisce invece come vero e proprio filosofo della libertà. La libertà dell’individuo è pensata appunto come una ‘deviazione’ (clinamen, parekklisis) dalla caduta verticale, ed a sua volta la caduta verticale degli atomi è interpretata metaforicamente come un determinismo sociale rigido che non consentirebbe alcuna innovazione individuale e sociale”[60].
Secondo Preve, che qui espone una delle sue tesi più provocatorie, la genesi storica, filosofica e psicologica del pensiero marxiano è un episodio interno alla dialettica della coscienza infelice borghese[61]. A suo parere, il giovanile interesse marxiano per la filosofia epicurea (che introduceva nel determinismo di Democrito l’elemento del caso) era lo strumento intellettuale con cui il Marx studente pensava “la propria scelta soggettiva di non inserirsi nella riproduzione spirituale e materiale della società borghese, in cui era nato ed era stato allevato, e in cui secondo il determinismo meccanicistico applicato alla società avrebbe dovuto inserirsi, ma di scegliere di fare una vita assolutamente alternativa, ispirata alla lotta contro la superstizione dell’eternità del capitalismo”[62].
Mi rendo conto quanto queste tesi possano influire sul senso di straniamento avvertito dal lettore. In questa sede segnaliamo soltanto che anche un pensatore della statura di Etienne Balibar percorre una strada molto vicina a quella di Preve, individuando nel marxiano “ ‘materialismo della pratica’ la forma più compiuta della tradizione idealistica”[63], e non un’inversione di rotta rispetto ad essa.
Prima di chiudere questo capitolo, vorrei soffermarmi però su una tesi inedita (molto apprezzata dal professor Preve) della studiosa greca Maria Antonopoulou sul concetto di materia. L’Antonopoulou ha sostenuto in un saggio ampio e ben documentato filologicamente[64] che non è corretto scrivere una storia del cosiddetto “materialismo” come se si potesse tracciare un’unica grande-narrazione unificata da Democrito fino a Marx ed oltre (come fece per esempio la scuola del materialismo sovietico per tutto il novecento). Il materialismo “moderno” propriamente detto, che presuppone i modelli della scienza sperimentale di Galileo e dell’immagine cosmologica dell’universo di Newton, nasce solo nel settecento europeo, e nasce secondo l’ipotesi per cui era ormai necessario “unificare” in un solo concetto (la “materia” appunto) il mondo terrestre ed il mondo celeste. In questo modo si creava un medium omogeneo spaziale (la “materia”) in cui le merci avrebbero potuto circolare liberamente e senza alcun impedimento.
Come Preve fa acutamente notare, se così fosse il materialismo, “generalmente considerato il presupposto della visione proletaria e scientifica del mondo contro tutti i preti monoteisti e i filosofi idealisti, è in realtà marxianamente (e cioè secondo un rapporto di omologia tra formazioni sociali e corrispondenti formazioni ideologiche) interpretabile come l’edificazione di un solo spazio materiale unificato in cui simbolicamente potesse ‘transitare’ senza impacci lo scambio delle merci in domanda e in offerta”[65].
A questo proposito, il filosofo torinese fa notare come anche “il filosofo tedesco Koselleck, che ha studiato accuratamente la genesi del concetto moderno di ‘storia’ inteso non come semplice racconto di fatti (Erodoto) o come riflessione intelligente sulle cause dei fatti stessi (Tucidide), ma come vera e propria storia unificata dell’umanità pensata a sua volta come un unico concetto trascendentale riflessivo, ne colloca l’inizio verso la metà del Settecento, e quindi in pieno periodo illuministico”[66].In quest’ottica, due concetti che tradizionalmente erano pensati come strumenti proletari contro la borghesia tradizionalista ed idealista, si scoprono essere “quanto di più ‘borghese’ ed ‘utilitaristico’ possibile”[67]: nel settecento infatti il tempo venne unificato sotto la nozione di Storia, intesa come un concetto trascendentale riflessivo in cui il nuovo soggetto borghese potesse pensare astrattamente la propria universalizzazione e quindi anche la propria “mondializzazione”, e lo spazio venne unificato sotto la nozione di Materia, concepita come un concetto trascendentale riflessivo in cui il nuovo soggetto capitalistico potesse pensare astrattamente lo scambio illimitato delle merci e il dominio omogeneo del valore di scambio.
3.1 Siamo giunti all’ultima parte di questo nostro breve saggio. Dopo esserci fermati ampiamente sullo statuto filosofico e sugli aspetti per così dire più vitali del pensiero marxiano, in questo capitolo analizzeremo i punti più problematici di questo stesso pensiero ed in particolare quelli che Preve chiama “errori di previsione”.
Iniziamo dunque elencando i punti che falsificano le analisi di Marx (ovviamente, secondo il nostro autore), per poi soffermarcisi adeguatamente sopra. Secondo Preve[68]:
1) Le classi subalterne non sono state in grado di resistere alla radicalizzazione della sottomissione reale del lavoro al capitale che le ha integrate nei gruppi sociali di produzione capitalistici. Esse hanno così smentito empiricamente l’attribuzione metafisica che ne aveva fatto un Soggetto inter-modale.
2) La borghesia storica non esiste più, così come non esiste più quella “coscienza infelice” che le permetteva di conservare un atteggiamento critico nei confronti del suo stesso dominio, e che si era manifestata nella grande letteratura (Balzac, Dickens, Tolstoi, Zola, Proust, Thomas Mann, ecc.), o nel grande pensiero (Kelsen, Husserl, Cassirer, Croce, Durkheim, ecc.). La nuova élite dirigente, positivista ed economicista, è una classe nichilista che conosce soltanto la legge dell’accumulazione infinita del capitale, indifferente ai costi umani ed ecologici.
3) Il neocapitalismo per ora vittorioso si è mostrato capace di sviluppare le forze produttive ad un ritmo prodigioso, nonostante i danni enormi che ha inflitto sia all’uomo che alla natura. Ha potuto legittimarsi come il solo ordine possibile, facendo riferimento alle virtù di mercato, alla democrazia rappresentativa, alla “religione dei diritti umani”[69] e alla seduzione di un consumismo generalizzato.
Come si nota, Preve colpisce alcuni tra i nuclei portanti del pensiero marxista tradizionale. Quest’operazione non viene compiuta in nome di uno sterile spirito di decostruzione; il filosofo torinese è interessato al contrario alla rinascita di un dibattito serio e fecondo su Marx, ma ritiene che l’accettazione acritica di punti rivelatisi infondati possa rappresentarne soltanto un deleterio impedimento.
Il nostro autore fa notare a proposito come il marxismo abbia per più di un secolo tentato di dimostrare un fatto paradossale, ossia l’illusoria tesi per cui “Marx aveva ragione nel 100% di quello che diceva, e al massimo vi potevano essere errori di fraintendimento e di interpretazione”; poco oltre prosegue:
“L’idea che un pensatore abbia capito tutto e non vi siano nel suo pensiero incoerenze, incertezze, illusioni ecc., è un’idea superstiziosa. Il soffocante abbraccio di questi fanatici amici di Marx ha a lungo impedito la naturale applicazione dello stesso metodo critico di Marx al suo proprio pensiero marxiano e sopratutto al marxismo successivo. E’ infatti del tutto assurdo che il geniale scopritore del metodo della critica alle ideologie fosse, egli solo nella lunga storia del mondo, del tutto immune da un condizionamento ideologico nell’elaborazione della propria dottrina. E’ anche assurdo che egli sia stato l’unico pensatore della storia del mondo ad avere conseguito una perfetta ed assoluta trasparenza sull’uso critico delle proprie fonti ideologiche, scientifiche e filosofiche.
Il culto di Marx ha impedito per quasi un secolo un’analisi critica del suo pensiero. Naturalmente, vi era una ragione per spiegare questa follia. Marx doveva essere infallibile in tutte le cose che diceva, perché magicamente la sua infallibilità potesse essere trasmessa e trasferita ai dirigenti politici del movimento comunista burocratizzato”[70].
Come viene qui chiaramente illustrato, ma come è anche sostanzialmente noto, per i burocrati del comunismo storico novecentesco l’infallibilità di Marx era una risorsa ideologica, “perché il decretare infallibile il fondatore della ditta significava simbolicamente proiettare questa infallibilità originaria sulla loro presente infallibilità verso i seguaci fideisti e creduloni”[71].
Preve però non si limita a questa semplice affermazione: come tiene a precisare in un saggio successivo a suo parere “il marxismo, fenomeno largamente indipendente da Marx, non fu né un errore di interpretazione degli epigoni, né un tradimento di politici corrotti e neppure un travisamento religioso di plebi fideistiche ed irrimediabilmente subalterne e bambine, ma fu un ‘adattamento darwiniano’ assolutamente necessario. Nella forma aporetica e non coerentizzata datagli da Marx, il marxismo sarebbe stato impossibile, o sarebbe diventato al massimo quello che è diventato ora, e cioè una gnosi salvifica della storia ad un tempo gratificante (filosoficamente) ed impotente (politicamente)”[72]. Come viene ripetuto più avanti, “il cosiddetto ‘marxismo’ è [..] solo un adattamento darwiniano alla committenza ideologica imperativa di un ben preciso soggetto sociale prima inesistente, e cioè la classe operaia di fabbrica evocata dalla seconda rivoluzione industriale, che ebbe nella Germania il suo paese guida in Europa. [..] Il marxismo è diventato una gigantesca forza storica per almeno un secolo (1890-1990) non nonostante i suoi macroscopici errori scientifici, ma proprio grazie a questi errori scientifici. Un marxismo ‘giusto’ e conforme a Marx sarebbe rimasto una interessante elucubrazione testimoniale ultraminoritaria. Il marxismo ‘frainteso’ e ‘tradito’ è invece divenuto, proprio in grazia dei fraintendimenti e dei tradimenti, una gigantesca forza storica”[73].
In quest’ottica il marxismo è visto come un modello teorico che, anche partendo da tesi originali di Marx, le combinava insieme in modo tale da togliere a queste tesi ogni carattere aperto e problematico, conferendole una chiusura dogmatica facilmente spendibile sul terreno della “mobilitazione dei militanti” e soprattutto della loro “rassicurazione religiosa circa il buon esito finale garantito dei loro sforzi e delle loro aspirazioni”.
È giunto però il momento di interrogarsi proprio sull’entità e sulle reali capacità di questi stessi militanti, ossia quella che Marx chiama classe operaia di fabbrica.
Come sappiamo, fu lo stesso Marx ad assegnare alla classe operaia, proletaria e salariata il compito e la funzione di emancipare insieme a se stessa anche l’intera umanità, guidando la società verso la costruzione del futuro mondo comunista il cui magnifico motto sarebbe diventato “ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Per tutto il novecento si fraintese questa tesi marxiana, associando la classe operaia al Soggetto emancipatore indicato da Marx. Riferendosi alle acute analisi di Gianfranco La Grassa[74], Preve mette in luce come il Soggetto rivoluzionario marxiano fosse invece il lavoratore collettivo cooperativo associato, formatosi tramite la socializzazione capitalistica delle forze produttive, e destinato ad allearsi con le potenze mentali della produzione capitalistica da Marx definite con il termine inglese di general intellect[75]. É questo per Marx il probabile affossatore del capitalismo, non certo la classe dei lavoratori manuali di fabbrica in quanto tale. Questa classe è infatti per il filosofo di Treviri solo quella porzione di lavoratore collettivo cooperativo associato suscettibile di essere organizzata sindacalmente e politicamente.
Purtroppo però questo lavoratore collettivo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, non si è mai creato.
La Grassa spiega come l’ipotesi scientifica marxiana si sia rivelata errata per essersi strutturata a partire dalla forma della fabbrica anziché dalla forma dell’impresa. Le fabbriche infatti socializzano effettivamente la produzione, mentre le imprese invece la frammentano.
Il capitalismo però è fatto in prima istanza di imprese, e soltanto in seconda istanza di fabbriche, ed in questo modo inevitabilmente non si forma e non si può formare il lavoratore collettivo associato previsto da Marx.
Come fa notare inoltre Preve in un suo recente libro, “a differenza di come affermava erroneamente il marxismo, la classe operaia manifestava fisiologicamente una natura ribellistica (scambiata spesso per rivoluzionaria) soltanto nel primo periodo della sua recente uscita dalla precedente cultura comunitaria di tipo artigianale, bracciantile e contadina, mentre mano a mano che si ‘integrava’ nella società industriale capitalistica si adattava massicciamente sia all’economicizzazione puramente sindacalistica del conflitto sia all’incorporazione nazionalistica. Detto altrimenti, la classe operaia e salariata europea realmente esistente, e non il suo raddoppiamento ideale sognato dal comunismo, era spontaneamente socialdemocratica e non certo ‘comunista’ ”[76].
Preve fa qui riferimento alle analisi svolte da Zygmunt Bauman[77] in un libro intitolato Memorie di classe, in cui il noto sociologo spiega come già a partire dagli anni venti dell’Ottocento in Inghilterra (e poi progressivamente in altri paesi) la classe operaia abbia dovuto accettare il terreno obbligato della cosiddetta “economicizzazione del conflitto”, tramite cui rinunciava ad imporre il ritorno a forme produttive precedenti o alternative per inserirsi sul nuovo terreno della distribuzione maggiormente equa dei beni e dei servizi prodotti capitalisticamente. Secondo il filosofo torinese questo fattore, sommato alla cosiddetta nazionalizzazione delle masse e all’integrazione consumistica, rivelò l’incapacità rivoluzionaria della classe operaia, che invece di dimostrarsi quella classe universale cui Marx anelava si dimostrò essere una classe intrinsecamente subalterna.
Preve comunque non intende affatto colpevolizzare Marx per questo errore; come scrive in un suo recente saggio, “la prima cosa che si impara studiando Marx e il marxismo è che non ha senso retrodatare la consapevolezza di un fenomeno, positivo o negativo che sia, ad un momento storico precedente in cui non ne erano ancora apparse le condizioni di visibilità”[78].
3.2 Con ciò ci siamo lasciati alle spalle una delle tesi più “scandalose” (per il tradizionale pensiero comunista) del nostro filosofo di Torino. In questo paragrafo affronteremo però un altro tema perlomeno altrettanto spinoso, ossia la sua nozione di Borghesia.
Secondo l’impostazione tradizionale, la borghesia è la classe sociale portatrice dei rapporti di produzione capitalistici; essa è dunque ritenuta una vera e propria classe-soggetto, a cui si contrappone la classe-soggetto (ritenuta intrinsecamente rivoluzionaria) dei proletari. Come abbiamo appena visto, La Grassa e Preve smentiscono in toto questa seconda tesi, dimostrando anzi come la classe operaia sia facilmente assimilabile nella logica del capitale tramite un’opera di integrazione statalistica e consumistica.
Ma il nostro autore dimostra come anche la prima affermazione, sottoposta ad un’attenta analisi, si riveli errata. Preve afferma: “Ritengo che ogni concezione della borghesia come classe-soggetto del capitalismo, concezione che porta in fondo a identificare i due termini (con la Borghesia che diventa il ‘lato soggettivo’ del Capitalismo, e il Capitalismo che diventa il ‘lato oggettivo’ della Borghesia) sia errata nell’essenziale, e dunque da abbandonare”[79].
Per il nostro autore infatti il capitalismo è un sistema autoriproduttivo largamente impersonale, mentre la borghesia è un soggetto sociale collettivo assai complesso. Come scrive in un suo saggio, “l’abitudine a concepire il capitalismo in modo antropomorfico è dura a morire. Il capitalismo, però, non è il teatro delle azioni coscienti di un Soggetto collettivo denominato Borghesia, ma il luogo sistemico di una riproduzione anonima e impersonale, che si tratta di conoscere bene”[80].
La tesi di Preve è che oggi si stia assistendo ad un sistema sostanzialmente post-borghese e post-proletario in cui il capitalismo “ha liberalizzato la sua etica e il suo riferimento alla religione, e lo ha fatto spinto dalla sua intrinseca logica ad allargare la mercificazione universale dei beni e dei servizi, per cui oggi sono mercificati beni e servizi che la borghesia classica intendeva invece preservare dalla sua stessa attività mercificante. I marxisti sciocchi e superficiali naturalmente non capiscono questa distinzione elementare, e continuano a definire ‘forze conservatrici’ le forze economiche e politiche capitalistiche, laddove ovviamente è il contrario. Esse non ‘conservano’ proprio nulla”[81].
Il modo di produzione capitalistico è stato indubbiamente promosso e sviluppato da una classe sociale europea chiamata “borghesia”, ma ormai da quasi vent’anni si è passati ad una fase che il nostro autore designa come ultracapitalistica, in cui gli agenti imprenditoriali della produzione capitalistica non coincidono più con la classe sociale denominata appunto “borghesia”[82].
Ma le analisi del nostro autore non si fermano a questo. Preve afferma addirittura che “lo stesso materialismo storico di Marx è [..] un prodotto storico integrale della ‘coscienza infelice’ della borghesia europea, nella misura in cui il suo codice filosofico si basa sull’analisi coerente dell’incompatibilità fra universalizzazione reale della coscienza umana e particolarismo inevitabile degli interessi privati capitalistici.
[..] Il comunismo di Marx, basato sulle due nozioni di libera individualità integrale, da un lato, e di universalizzazione dei bisogni del genere umano, dall’altro, nozioni che risalgono entrambe alla filosofia classica tedesca e a Hegel, punto massimo e vetta insuperata del grande pensiero borghese europeo, è un comunismo che viene dialetticamente ricavato dalle determinazioni contraddittorie del pensiero borghese stesso, e solo di esso”[83].
Come si vede per il filosofo torinese il pensiero di Marx è stato il prodotto filosofico di uno svolgimento dialettico della coscienza infelice della Borghesia, ossia il prodotto della “consapevolezza filosofica borghese del fatto che all’interno della produzione capitalistica non ci potrà mai essere superamento dell’alienazione, alienazione che non è altro che la coscienza infelice della borghesia stessa di fronte alla propria stessa produzione parzialmente inconsapevole e non voluta, il mondo dello sfruttamento capitalistico”[84].
In ogni caso, il carattere post-borghese e post-proletario del moderno capitalismo non significa affatto la fine delle sue contraddizioni, ma semplicemente il fatto che queste contraddizioni non potranno più essere descritte e rappresentate nella forma in cui sinora il marxismo le aveva interpretate.
3.3 Eccoci allora giunti all’ultima parte prettamente teorica di questo capitolo. Come abbiamo visto nello scorso paragrafo, la borghesia non è stata affatto rimpiazzata dall’incalzante proletariato rinnovatore, ma entrambe le classi si sono in qualche modo consumate e sono state assorbite all’interno di un ultracapitalismo oramai mondializzato.
Ma da dove trae origine quest’errore marxiano? Secondo Preve, è dovuto ad una particolare patologia storica occidentale, ossia “l’irresistibile incantesimo della analogia storica come fattore di previsione storica scientifica”[85].
Marx, cadendo in quest’errore, aveva creduto che la transizione capitalismo-comunismo potesse essere pensata attraverso la ripetizione del modello di transizione feudalesimo-capitalismo.
In quest’ottica, la presunta incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive è ricavata da Marx dall’analogia con la reale incapacità dei ceti feudali e signorili di sviluppare le forze produttive. Ma Marx si è visibilmente sbagliato: la produzione capitalistica infatti “si è rivelata capacissima di sviluppare le forze produttive attraverso la concorrenza capitalistica stessa, sia pure in un contesto di distruzione ecologica e di uniformazione antropologica forzata del pianeta”[86].
Secondo Preve “Marx confondeva il ripetersi ciclico delle crisi capitalistiche di sovrapproduzione e di sottoconsumo, crisi cicliche che anziché indebolire rafforzano la produzione capitalistica complessiva eliminandone via via i rami secchi e le produzioni obsolete, con una crisi ‘mondiale’ del sistema”[87].
Questo abbaglio fu ereditato dal movimento comunista successivo e da molti dei suoi pensatori più eminenti, e così l’errata previsione marxista sull’incapacità della borghesia di sviluppare le forze produttive e sulla capacità della classe operaia e proletaria di attuare una vera e propria “transizione” (da un modo di produzione ad un altro) non venne mai messa seriamente in discussione.
Inoltre, secondo il nostro autore quest’incantesimo dell’analogia storica fece inevitabilmente compiere a Marx un passo indietro rispetto al suo maestro Hegel (per cui come è noto l’autocoscienza umana ideale può solo essere autocoscienza del presente storico e non può ne deve “prolungarsi” in una incerta previsione del futuro). Marx si rifiutava infatti di descrivere nei dettagli il proprio comunismo, poiché capiva che questa era stata la via sterile caratteristica della tradizione utopistica; ma, come fa prontamente notare Preve, “teneva fermo nell’affermare il comunismo, sia pure nella vaga formulazione dell’esaurimento dei bisogni in assenza di Stato politico e di mercato economico”[88]. Marx rinunciava a predeterminare le forme, ma non rifiutava affatto a predeterminare il contenuto, ed il contenuto del post-capitalismo era per lui il comunismo.
Per il filosofo torinese però questa pretesa và fermamente abbandonata; un venturo movimento anticapitalista deve accettare il fatto che “il futuro non è predeterminabile non solo per quanto riguarda le sue forme, ma anche e soprattutto per quanto riguarda il suo contenuto”.
Tramite quest’errore tuttavia è possibile vedere chiaramente quanto il pensiero aristotelico abbia influito su Marx. A differenza di Hegel, il filosofo di Treviri (come abbiamo visto) ritiene di avere il diritto di concettualizzare il prolungamento comunista del capitalismo, e (secondo Preve) lo fa proprio sulla base del principio aristotelico della categoria di “essente-in-possibilità” (dynamei on)[89].
Il comunismo marxiano non è pensato quindi come una semplice utopia, ma come lo sviluppo di una sostanzialità presente già nel capitalismo.
3.4 Siamo così pervenuti al termine di quest’ultimo capitolo, dedicato come è noto all’esame di alcuni rilevanti errori marxiani. Prima di chiudere, accenneremo brevemente alle conseguenze che il nostro autore trae da tutte queste analisi.
A differenza di molti filosofi, in cui la presa di coscienza di queste ineliminabili carenze coincise con l’abbandono del marxismo (visto come un paradigma intrinsecamente contraddittorio di cui è necessario disfarsi), il nostro autore ritiene sia possibile un ripensamento e una ripresa critica del pensiero di Marx. A suo parere “l’errore di Marx si rivela essere un tipico errore ‘scientifico’ in senso fisiologico e non patologico[..]. Le scienze procedono non nonostante gli errori, ma grazie agli errori, che ponendo il problema della loro correzione pongono contestualmente la possibilità di sintesi teoriche più avanzate e comprensive di elementi inediti”[90].
Preve segnala come solo un pensiero pseudo-religioso possa pretendere la completa infallibilità del proprio fondatore; gli errori e le inesattezze sono invece qualcosa di fisiologico, ed anzi sono proprio questi sbagli che permettono alle scienze di procedere.
Richiamandosi alle analisi svolte da Thomas Kuhn, epistemologo di fama mondiale, il nostro autore sostiene che “ogni scienza non procede per progressiva accumulazione quantitativa di conoscenze, ma per rivoluzioni scientifiche, cioè per veri e proprio ‘salti’ di modelli globali che vengono modificati ogni volta che non si possono più ‘salvare’ i modelli precedenti con vari accorgimenti ad hoc. [..] Non vedo personalmente nulla in contrario ad applicare la teoria dei paradigmi di Kuhn anche al marxismo. Come Newton a suo tempo affermò che esistevano lo spazio e il tempo assoluti, Einstein modificò radicalmente questa concezione, ma non per questo la fisica come scienza finì, nello stesso modo a mio avviso il paradigma marxiano potrebbe essere radicalmente riformato senza essere distrutto”[91].
Secondo Preve il paradigma marxiano potrebbe essere rilanciato attraverso modificazioni di tipo “kuhniano”, a partire dall’abbandono della teoria del crollo automatico del capitalismo e alla rinuncia all’ipotesi del carattere rivoluzionario in sé e per sé della classe operaia e del proletariato.
A questo punto pèrò all’autore di questo saggio non resta che fermarsi, lasciando che a questo critico compito si dedichi qualcuno più competente e dotato di lui.
VITTORIO MATHIEU
A cura di Osvaldo Ottaviani
“L’uomo è un animale ermeneutico, perché parla: perciò la filosofia ritrova l’unità dell’uomo con se stesso e col mondo. Risale a ciò che non si può costruire, come fonte della costruzione. Quindi a ciò che va rispettato, perché non si può manipolare: l’uomo, e la natura della realtà, che va rispettata anche quando la si vuole assoggettare. La filosofia ermeneutica rispetta l’essenza, perché ha imparato che l’essenza non è una cosa“.
Vittorio Mathieu è nato a Varazze (Savona) il 12 dicembre 1923. Allievo di Augusto Guzzo all’Università di Torino, si laurea in filosofia teoretica nel 1946, con una tesi dal titolo Della distinzione kantiana fra fenomeno e cosa in sé. Libero docente nella stessa materia nel 1956, dal 1958 è stato incaricato e dal 1961 ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Trieste. Primo vincitore del concorso di Storia della Filosofia del 1960, dal 1967 è stato ordinario di Filosofia, poi di Filosofia morale, nell’Università di Torino. Dal 1987 è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei; vice-presidente del Comitato Premi della Fondazione Internazionale Balzan; membro del Consiglio nazionale per la Bioetica istituito presso la Presidenza del Consiglio del Governo italiano; Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Ideazione. Dal 1972 al 1980 è stato membro del comitato per le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR); dal 1976 al 1980 è stato membro, poi vicepresidente, del Consiglio esecutivo dell’UNESCO; dal 1994 al 1997 è stato il rappresentante italiano nella Commissione consultiva del Consiglio Europeo contro il razzismo e la xenofobia.
Massimo conoscitore italiano dell’opera di Bergson, cui ha dedicato un’importante monografia, Bergson, il profondo e la sua espressione (1954, 1971), e di cui ha curato l’edizione italiana dell’Evoluzione creatrice e dell’Introduzione alla metafisica (presso Laterza). Grande studioso di Kant, in particolare dell’Opus Postumum, cui ha dedicato La Filosofia trascendentale e l’Opus postumum di Kant (Torino, 1958), successivamente tradotto in tedesco; ha curato l’edizione italiana (parziale) dell’Opus Postumum (Bologna, 1963); ha operato una fondamentale revisione della traduzione Gentile.-Lombardo Radice della Critica della Ragion Pura (Roma- Bari, 1958) e ha curato la traduzione della Critica della Ragion Pratica e della Fondazione della Metafisica dei Costumi. Ha dedicato una monografia al carteggio Leibniz- Des Bosses sul problema del “vinculum substantiale” (Leibniz e Des Bosses, Torino, 1960). Ha scritto una popolare Introduzione a Leibniz (Laterza), del quale ha curato anche i Saggi di Teodicea e un’importante edizione degli Scritti Politici e di diritto naturale. Le sue opere maggiori sul rapporto tra scienza e filosofia sono L’oggettività nella scienza e nella filosofia moderna e contemporanea (1960) e Il problema dell’esperienza (1963). Numerose le raccolte di saggi: sull’ermeneutica (L’uomo animale ermeneutico, 2000) e la filosofia del diritto (Luci ed ombre del giusnaturalismo, 1989), Dialettica della libertà (1970), La speranza nella rivoluzione (1972), Perché punire (1980), Cancro in Occidente (1983), Filosofia del denaro (1985), Elzeviri swiftiani (1986). Numerose pure le opere di estetica, dall’importante voce Romanticismo dell’Enciclopedia Filosofica Sansoni, ai libri Dio nel Libro d’ore di R. M. Rilke, 1968, La voce, la musica, il demoniaco (1983), Goethe e il suo diavolo custode (2002). Ricordiamo infine la Storia della Filosofia, Brescia, 1965; Perché leggere Plotino, Milano, 1992; Per una cultura dell’essere, Roma, 1998; Le radici classiche dell’Europa, Milano, 2002. Per la bibliografia completa, anche se aggiornata solo al 1995, si veda il volume Trascendenza, trascendentale, esperienza. Studi in onore di Vittorio Mathieu, Padova, 1995.
L’oggettività e la concezione “prospettica” del reale
La riflessione filosofica di Mathieu si sviluppa parallelamente ai suoi studi su filosofi come Kant e Bergson, ma non rimane sul piano della mera esegesi del testo, bensì sviluppa, attraverso il confronto con gli autori studiati, una propria sintesi originale, che illumina tutti i campi della ricerca filosofica. Per cominciare, possiamo prendere in considerazione un saggio del 1954 dal titolo Il reale in prospettiva (da cui sono tratte le citazioni di questo paragrafo), successivamente rielaborato come conclusione del libro su Bergson, Il profondo e la sua espressione. Il confronto con Bergson induce Mathieu a riflettere sul rapporto tra filosofia e scienza e lo porta a formulare la sua teoria della “stratificazione dell’essere”. L’intento dello scritto è quello di mostrare che le determinazioni del reale non sono “tutte in una barca” (Whitehead), ma si trovano su piani diversi ordinati in una successione continua che costituisce la stessa realtà. La considerazione iniziale è volta a chiarire come il modo d’essere “spaziale” delle cose non ci presenta l’essere nella sua totalità. Il punto più importante da sottolineare è che, anche se una cosa non può non essere da noi pensata senza lo spazio, lo spazio non è mai capace di contenere l’essere della cosa, anche quando si tratti di una cosa materiale. Il problema è che non è facile uscire dalla spazialità col pensiero, perché l’oggetto di pensiero in quanto tale è spaziale: i corpi sono l’uno fuori dall’altro non per una necessità fisica, bensì per una necessità insita nel pensare l’uno come non essente l’altro, l’esser pensata rende la materia impenetrabile, tale, cioè, che ogni sua parte dev’essere fuori dell’altra, nello spazio. In realtà, pensare una cosa significa identificarla, pensarla come questa e non altra. Se l’oggetto di pensiero in quanto tale è spaziale, risulta difficile affermare che vi sono modi di essere non spaziali. Eppure, il compito del pensiero filosofico è appunto questo.
I caratteri della filosofia in quanto tale vengono messi in risalto da Mathieu attraverso un confronto con il modo di procedere della scienza. Innanzi tutto, bisogna mostrare il legame della scienza col modo d’essere spaziale, anzi, la scienza è definita come la sistematicità del modo di pensare spaziale. Il carattere matematico della scienza moderna richiede che in essa si introducano i concetti di numero e misura. Il numero implica l’esteriorità spaziale, secondo Bergson, perché le unità che formano il numero devono essere omogenee e due entità omogenee non hanno altro modo di distinguersi che una reciproca esteriorità. Per poter misurare, cioè stabilire le sue relazioni numeriche, la scienza deve, dunque, squadernare i propri oggetti nello spazio, che rende possibile il numero e, quindi, la misura. Ora, poiché la scienza tende a fare astrazione da tutto ciò che non è la pura forma matematica delle relazioni, l’oggetto della scienza tende di conseguenza a spazializzarsi e perde ciò che della sua essenza non si riduce a spazialità. Il successo della scienza galileiana si spiega col fatto che l’isolamento del particolare aspetto della spazialità nell’essere fisico, permette di prevedere il comportamento della natura e di dominarlo praticamente.
In altri termini, la scienza considera soltanto la “buccia” dell’essere e da questo riconoscimento nasce il problema della stratificazione dell’essere. Lo spazio viene ora ad essere considerato come il primo e il più superficiale degli strati dell’essere (l’unico che possa dirsi “strato” in senso proprio e non per metafora). Rimane il problema di determinare, rispetto ad esso, il modo in cui si presenta il resto dell’essere. Questo problema non è presente nella filosofia antica e medievale, non perché questa non si ponga il problema dell’essere, ma perché non si trova di fronte la realtà della nuova scienza. Con essa il termine “astrazione” assume un significato del tutto diverso rispetto al mondo antico. La filosofia moderna a partire da Cartesio (con importanti eccezioni, come Leibniz e Vico) non ha la coscienza che l’aspetto di cui si occupa la nuova scienza sia solo la “buccia” delle cose: per Cartesio l’estensione è sostanza, è l’essere della materia senz’altro, non una “buccia” o un suo aspetto superficiale.
Nel pensiero contemporaneo, di fronte all’affermarsi del positivismo, che conduce alle estreme conseguenze il modo di pensare cartesiano, Mathieu vede la reazione più acuta nell’opera di Bergson, che, partendo dagli stessi presupposti del positivismo, giunse a scoprire che per sua natura il modo di vedere della nuova scienza lascia fuori certi modi dell’essere (…) di cui non coglie che l’aspetto esteriore.
La riflessione di Mathieu vuol dunque inserirsi in questa linea di pensiero “bergsoniana”, ma con l’obiettivo, inevitabile, di andare oltre Bergson. Bergson si concentra sugli stati d’animo profondi, mentre Mathieu preferisce cominciare dall’analizzare oggetti comuni, presenti nello spazio, come può essere un colore. Noi non possiamo rappresentarci concretamente un colore fuori da una certa estensione, cioè senza una molteplicità di parti esterne l’una all’altra; eppure, il modo d’essere del colore non si trova tutto sul piano dello spazio, come parrebbe a prima vista. Ciò che avesse il modo d’essere dello spazio, sarebbe divisibile indefinitamente in parti omogenee con il tutto; ma ciò che ha il modo d’essere del colore non è divisibile in parti omogenee oltre un certo limite. Il modo d’essere del colore, dunque, non si trova tutto dentro lo spazio. Il colore, per un lato si diffonde nello spazio, per un altro affonda in una “dimensione” diversa. Questa (metaforica) dimensione che evade dalle dimensioni spaziali è ciò che chiamiamo “profondità metafisica”degli enti. Il primo carattere di questa altra “dimensione” è il raccogliersi in unità dell’esteriorità reciproca. Le cose materiali, che si presentano a noi contenute nello spazio, non hanno nello spazio il loro essere, ma si affacciano nello spazio, si fanno presenti ad esso [ si manifestano] da una profondità metafisica ulteriore.
Dunque, l’oggetto della scienza non è che un piano, una sezione superficiale dell’essere, rispetto a cui le qualità concrete si trovano su piani più profondi, ma il concreto risulta dalla proiezione di queste qualità più profonde sul piano dell’oggettività.
L’oggetto di una scienza, ad es. della meccanica razionale (considerazione non empirica, ma pensata del movimento) è astratto, ossia, quanto quella scienza prende in considerazione è ricavato da qualcosa di più complesso, di cui una “parte” è lasciata fuori. La meccanica razionale considera ciò che del movimento è spaziale, ma l’aspetto spaziale del movimento, da solo, non sarebbe nulla: è qualcosa solo come uno strato terminale d’un fenomeno complesso, non contenuto, nella sua interezza, dallo spazio. Lo stesso discorso vale per le determinazioni geometriche dello spazio. La più fondamentale di tali determinazioni, apposte dal di fuori, allo spazio, è il punto: il punto è nello spazio, ma come segno del farsi presente ad esso di ciò che è assolutamente aspaziale (inesteso). L’inesteso, in quanto è, non è certo nello spazio (…), ma può farsi presente allo spazio, segnandovi un punto. A questo punto, bisogna precisare che tutta questa concezione delle dimensioni dell’essere implica un ricorso alla metafora. La stessa similitudine usata da Mathieu, la sezione di un tronco d’albero, le cui linee concentriche (spaziali), presuppongono la dimensione solida del tronco, ha il pregio della chiarezza ma rischia di trarre in inganno, come egli stesso sottolinea: uscendo da una sezione di tronco per considerare altre sezioni, o il tutto dell’albero, io mi trovo sempre ancora nello spazio, cioè in qualcosa che, ontologicamente, ha le stesse proprietà di ciò da cui ero partito. Invece, l’uscita dallo spazio, implica il passaggio ad una dimensione qualitativamente ed ontologicamente diversa, che potrà essere detta “sezione” o “strato” solo per metafora. Si noti che tutte le espressioni che rinviano alla dimensione “metafisica” devono essere per forza metaforiche: “uscire” “profondità” “dimensione” “fuori dallo spazio” ecc. sono tutti termini che hanno un significato spaziale, ma vengono usati per indicare una dimensione del tutto aspaziale. Ciò implica uno sforzo concettuale nel tentativo di pensare la dimensione della “profondità metafisica” dell’essere. Allo spazio non si aggiunge una dimensione ancora spaziale, ma ciò implica che si devono utilizzare espressioni di per sé inadeguate, senza mai potersi liberare da questa metaforicità.
Dove aver parlato a lungo del primo strato dell’essere, lo spazio, si pone il problema di come affrontare la trattazione degli altri livelli. Bergson ha fatto ricorso all’osservazione psicologica, senza però ricadere nella “psicologia”; anzi, l’osservazione interiore ha il compito di presentarci oggetti dotati di caratteri utili a definire la “profondità” dell’essere. Uscendo dalla dimensione spaziale, si esce dal campo della “oggettività”: si presenta forse il rischio di cadere nel soggettivismo? L’analisi del significato dell’oggettività permetterà di affrontare il problema dal giusto punto di vista. Gli oggetti esterni che si presentano ai nostri sensi non sono entità puramente spaziali: però sono appiattiti contro il piano dello spazio, e appunto per questo si ha l’impressione che essi siano contenuti nello spazio (vedi l’es. del colore). Oggettivare significa proprio considerare qualcosa come un oggetto, posto di fronte a noi, ossia, proiettare nello spazio. Ciò che nell’oggetto è appiattito e schiacciato sul piano dello spazio, è invece in rilievo e differenziato nella costituzione del soggetto. Ciò non vuol significare che i soggetti sono sempre singoli, di contro al carattere pubblico, universale, che è proprio dell’oggetto. Questa critica al soggettivismo si basa sulla credenza che il carattere dell’universalità sia da rintracciarsi solo nel campo dell’oggettività. Ma la teoria della stratificazione dell’essere vuol oltrepassare la contrapposizione soggettivismo-oggettivismo, perché fa discendere soggetto e oggetto da una relazione dinamica che si trova all’interno dell’essere, il quale rimane, pertanto, anteriore alla distinzione. L’attenzione verso la soggettività si spiega col fatto che, per il suo essere “in rilievo”, facilita l’analisi dei diversi livelli dell’essere. L’attenzione verso la soggettività è dovuta al fatto che in essa si mostra più chiaramente quella concentrazione, quel raccogliersi in unità, che è caratteristica della profondità dell’essere. Noi pensiamo –almeno indirettamente, anche se non riusciamo a rappresentarcela direttamente- la nostra personalità come un punto che racchiude nella propria in estensione una molteplicità virtuale. È evidente in questo punto l’influenza kantiana: del principio inesteso dell’io, in cui ogni molteplicità è raccolta insieme, non abbiamo, direttamente esperienza: lo cogliamo, piuttosto, per la necessità in cui si trova l’esperienza -per essere esperienza di qualcuno-di riferirsi tutta ad un unico punto, come al fuoco di una lente. Viene così a crearsi un dipolo tra assoluto esser-dentro dell’io e il reciproco esser-fuori degli enti nello spazio: in mezzo, però, vi sono dei gradi, che partecipano più o meno, a seconda della loro posizione, dei caratteri dell’uno e dell’altro. Un modo d’essere intermedio è, ad es., quello di un sentimento: non ha parti reciprocamente esteriori nello spazio, ma neppure può essere sentito in una folgorazione assolutamente puntuale. Da un punto di vista matematico, spaziale, questo discorso non ha senso, non ha senso pensare un che di intermedio tra ciò che è esteso e l’assolutamente inesteso, ma la concezione “stratificata” dell’essere consiste precisamente nel pensare tutta una gamma di passaggi qualitativi tra un essere puntuale e un’estensione spaziale.
Occorre, a questo punto, fare una precisazione: la disposizione a diversi livelli riguarda l’essere (finito) non gli enti. Cioè: non si può pensare che gli strati più superficiali, ad es., formino la materia inorganica, e che, al di sotto, altri strati costituiscano, poniamo, la psichicità. L’essere di tutte le cose particolari è il riferirsi di un atto puntuale originario al piano dell’oggettività: esso occupa sempre, quindi, l’intera dimensione della profondità ontologica. Ciò che è diverso, nel caso della materia o dell’esistenza cosciente, è solo il modo del riferirsi: immediato in un caso, mediato nell’altro.
Man mano che si scende nella dimensione della profondità dell’essere, si assiste ad una progressiva condensazione dell’essere stesso, per cui non si possono più distinguere parti esterne l’una all’altra. L’essere perde il carattere dell’oggettività. Il senso che Mathieu conferisce a “oggetto” è quello originario di “ ciò che sta di fronte alla mente”. Abbiamo visto prima che l’oggetto spaziale è un oggetto pensato. Il fatto che l’essere degli enti abbia una “profondità” significa esattamente che tale essere non è contenuto tutto sul piano dell’oggettività. Citando Vico, Mathieu conclude che l’essere oggettivo è come un essere piatto, rispetto all’essere reale, che è solido. L’oggettività pura si può attribuire solo ai rapporti matematici, che presentano perciò una trasparenza assoluta. Ciò che è concreto, invece, possiede uno “spessore” ontologico che emerge dalla pura oggettività. Esso può venir considerato un semplice oggetto (fisico) quando questo spessore venga proiettato tutto sul piano più esterno, quello dello spazio- è quella che Mathieu chiama “oggettivazione ingenua”. Ridurre l’ente all’oggettività, ossia ridurlo allo spazio, è invece ciò che propriamente fa la scienza. L’analisi scientifica è analisi oggettiva, cioè risoluzione dell’ente nei suoi elementi. “Dividere” significa situare i vari elementi uno fuori dell’altro, cioè spazializzare. La scienza stabilisce l’oggettività risolvendo gli enti nello spazio. Essa stabilisce rapporti e il rapporto, matematicamente, non è altro che una divisione: la misura di quante volte una grandezza sta dentro un’altra.
La radice ultima dell’essere è in se stessa in oggettivabile. Quando la designiamo con il “punto” (altro riferimento vichiano, ed in ultima analisi neoplatonico), la proiettiamo sul piano dello spazio, perché direttamente essa non ci si può porre dinanzi (come un oggetto tra gli altri). Eppure questo è il livello da cui tutto l’essere dipende. Così facendo, Mathieu, oltre che a Bergson, si richiama al pensiero di Heidegger sulla differenza ontologica e, pur non accogliendone la terminologia (preferendo la tradizione dell’analogia entis), il suo sforzo è proprio quello di pensare l’essere degli enti non come un oggetto, seppur ideale, ossia uno sforzo di evitare la heideggeriana “dimenticanza dell’essere”. L’essere profondo contiene, concentrato in sé , ciò che è nell’essere superficiale (ciò che per l’universo si squaderna, anche se Mathieu scrive, volutamente, “esperienza” al posto di “universo”), mentre quest’ultimo è fatto essere solo dal farsi presente, dal manifestarsi (nel senso greco di phaino) dell’essere profondo al suo livello. Il “punto” profondo come principio degli enti finiti dà luogo all’ente muovendo verso un piano di oggettività. Non si può, quindi, prendere il profondo tralasciando il superficiale: si può solo prendere il profondo attraverso il superficiale. La non-oggettività dell’essere profondo importa solo questa conseguenza: che le forme esteriori, che possiamo oggettivare di fronte alla mente, non contengono immediatamente l’essere, ma lo esprimono, lo indicano intenzionalmente. L’essere non va identificato senz’altro con l’oggetto della mente che, come tale, ha una dimensione di meno, bensì con ciò di cui l’oggetto della mente è espressione.
A questo punto, Mathieu qualifica la radice puntuale e profonda dell’essere come “atto”, contrapponendola all’essere superficiale che è “oggetto”. Si ripropone così la bipolarità che abbiamo visto prima in relazione alla coscienza. In mezzo, c’è sempre l’essere intermedio, dotato di entrambi i caratteri, in diversa proporzione a seconda dei livelli. Il rapporto tra l’oggettività di un ente e la sua attualità è simile al rapporto tra le figure proiettate su uno schermo e il fuoco della lente di una macchina da proiezione. Le figure divengono oggettive soltanto sullo schermo, ma sono reali solo per il rapporto che hanno con un punto che non si trova sul piano dello schermo. La distanza tra il fuoco della lente e lo schermo è ciò che abbiamo chiamato la dimensione (non oggettiva) della “profondità dell’essere”; il fuoco rappresenta l’“atto originario” dell’ente, in cui si trova raccolto, concentrato in un punto, ogni elemento che poi si sviluppa spazialmente sullo schermo oggettivo. Lo schermo è lo spazio, sede dell’oggettività. Abbiamo detto che, in quanto spaziale, ogni rappresentazione è inadeguata, è metafora dell’evadere dell’essere degli enti dalle dimensioni oggettive dello spazio. La differenza principale è che nell’immagine esposta sopra non c’è un passaggio qualitativo, ma un salto: invece la profondità dell’essere consiste precisamente in uno svilupparsi qualitativamente graduale delle articolazioni spaziali dal nucleo originario.
Poiché noi, in quanto enti finiti ci troviamo, per restare alla similitudine, nella dimensione dello schermo, non possiamo rappresentarci direttamente, oggettivamente, la profondità dell’essere, ma dobbiamo coglierla, dice Mathieu con una metafora perfetta, in prospettiva. Identificare la dimensione spaziale con l’essere nella sua totalità, significa l’appiattimento dell’essere: dal modo di vedere l’oggettività proprio della nuova scienza nasce un problema di prospettiva: salvare, nelle linee della concezione dell’essere proiettata sul piano dell’oggettività, quella dimensione ulteriore della profondità metafisica che nel piano non è contenuta. Si tratta di far emerger a livello del “piano” quella dimensione del “profondo” che direttamente non ci si può manifestare, anche se nel far ciò deve ricorrere ad un artificio (anche in pittura la prospettiva è un artificio), cioè ad esprimersi costantemente in modo metaforico e inadeguato, alludendo (ossia, come Mathieu ricorda sempre, “giocando a rimandare a”) a quell’ulteriore dimensione, propria della metafisica (cfr. Il pensiero allusivo, in L’uomo animale ermeneutico)
La visione prospettica comporta una conseguenza caratteristica nei riguardi di nozioni come spazio e possibilità. Se gli enti mostrano di possedere una profondità metafisica non rappresentabile ( se non prospetticamente) sul piano oggettivo, allora il rapporto tra lo spazio e l’essere viene a mutare: lo spazio non è più considerato come “recipiente”, bensì come limite ( sezione terminale) dell’essere, cui l’essere tende col crescere della sua oggettività. Lo stesso discorso fatto per lo spazio sul piano intuitivo, vale per la possibilità sul piano logico : il possibile, in linea di principio, deve essere del tutto oggettivabile. Possibilità-limite ( cfr. Kant) che contiene l’aspetto oggettivo del reale, ma cui manca la dimensione della profondità.
Nel considerare l’essere, se non teniamo conto del grado ulteriore di libertà non contenuto nel piano oggettivo, rischiamo di porre l’una accanto all’altra determinazioni che, in realtà, si trovano su piani diversi e che possono appartenere entrambe all’essere concreto unicamente perché si trovano su piani diversi. In questo modo, Mathieu mostra come si possano risolvere problemi come quello della continuità-discontinuità del reale, o quello, analogo, dell’antinomia kantiana tra divisibilità infinita o non infinita del reale composto. In particolare, se si rimane su di un unico piano (oggettivo) entrambe le tesi sono false, ma nella concezione prospettica possono essere entrambe vere. Nell’aspetto per cui è contenuto nello spazio il reale è sempre fatto di parti: ma poiché la realtà è data dal farsi presente allo spazio di qualcosa di aspaziale, questo farsi presente di un modo d’essere più profondo, come introduce una discontinuità, così introduce una certa indivisibilità, per cui la scomposizione non può progredire indefinitamente. Con lo stesso metodo Mathieu passa in rassegna le categorie di sostanza e causa, il problema della libertà, della necessità e della contingenza. Per questioni particolari rimandiamo al testo, ma su quest’ultimo problema occorre dire qualcosa. Per Mathieu, così come per Kant, il piano dell’oggettività è il piano della necessità, solo che per Mathieu una attenta considerazione dell’oggettività rimanda per forza alla dimensione metafisica del “profondo”. Il fondamento della “contingenza” è dato proprio dalla distanza tra l’attualità profonda dell’essere e la sua oggettività. Sul piano oggettivo nulla accade senza ragione, quindi non c’è nulla di contingente, ma, per contro, l’intero piano oggettivo dipende da un’attualità posta ad un livello diverso, la quale, mentre fonda ogni ragione, non è connessa a sua volta ad una forma particolare da una ragione determinante. Per comporre necessità e contingenza si richiedono dimensioni diverse. La conclusione di questo discorso è di grande interesse: la relazione di contingenza riscontrata tra il tutto di una forma e la radice profonda dell’essere fa sì che non vi sia un’unica espressione della verità, bellezza, etc., nonostante che verità e bellezza siano tutte (…) in ogni loro espressione. Ciò spinge Mathieu ad affrontare il problema del “valore”.
“ Valore” è per definizione un termine relativo, perché si può parlare di valore solo in relazione ad una norma atta a commisurarlo. Eppure si parla spesso di “valori assoluti” e non a torto. Perché vi siano valori assoluti vi debbono essere norme assolute, ma è possibile formulare tali criteri? La risposta è no. Questo non vuol dire cadere nel relativismo o, nel caso del diritto, nell’affermare che esistono solo norme positive e nessuna norma “naturale”. In tutti questi casi il problema si risolve se si tiene conto che l’opera è criterio di se stessa. Rimane sempre una dualità tra il criterio di giudizio e l’oggetto giudicato, solo che le due cose non si trovano sullo stesso piano, in particolare la norma, il criterio non è considerabile alla stregua di un oggetto, sia pure ideale. In che senso, però, l’opera ha un valore intrinseco? Il problema rimane insolubile finché si rimane sul piano dell’oggettività. Si deve porre la dualità non sul piano oggettivo, ma su piani diversi dell’essere. Per questo, il criterio di giudizio non si lascia mai cogliere in una formula, ossia in una forma oggettiva. È l’essere profondo che nelle formule si esprime, ma non si lascia contenere, e le cui espressioni sono esse stesse oggetti di giudizio, di cui si deve valutare se abbiano espresso l’essere profondo bene o meno bene. La dualità norma-oggetto giudicato intercorre tra l’essere e le forme esteriori in cui si manifesta. Il criterio di giudizio di una cosa è anche il suo essere profondo. L’universalità del criterio sarà un’universalità qualitativa: il giudizio di valore, kantianamente, sarà sempre un giudizio “riflettente” e mai un giudizio “determinante”, perché l’universale, la norma, non è mai dato sul piano dell’oggetto ( a tal proposito cfr. Regola implicita e giudizio riflettente kantiano, in Luci ed ombre del giusnaturalismo). Fino a che si veda l’assolutezza in una forma oggettivamente definita, ci si espone all’obbiezione di chi mostra come a questa forma se ne contrappongano altre, al solo fine di screditarle tutte e di far vedere che non c’è una norma assoluta. (…) Ma se, al contrario, a tutte le forme esteriori e norme formulate si chiede una rispondenza alla radice dell’essere, se si chiede che esprimano, nei loro elementi articolati l’uno fuori dell’altro, l’unità profonda in cui consiste originariamente l’universalità, non si lascia più posto all’arbitrio e al convenzionalismo. Si può leggere gran parte della produzione successiva di Mathieu come un approfondimento di questo pensiero nel campo del diritto, in particolare il rapporto tra diritto naturale e norma positiva ( Luci ed ombre del giusnaturalismo ), nell’estetica ( in particolare lo studio sul romanticismo), nella storia della filosofia, con particolare attenzione al rapporto tra l’unica verità trascendente e le varie filosofie ( cfr. la Storia della filosofia). È Mathieu stesso a riconoscere la scomodità di questa prospettiva, che comporta uno sforzo continuo, un continuo impegno e il rischio di fallimento: Dire che l’essere profondo è definito, ma non di una definitezza oggettiva, che si lasci formulare, implica l’impossibilità di trovare l’essere di fronte a sé, bell’e fatto,e di prenderne atto con una semplice constatazione. Qui si rivela appunto la distanza, la profondità metafisica, che è compito dell’esistenza superare. “Essere” viene ad indicare non più uno stato, ma un compito: il compito di esprimere, nelle forme esteriori, un nucleo profondo, e di dare così un senso all’oggettività ( cfr. Per una cultura dell’essere). In questa apertura al rischio, allo sforzo continuo sta anche il senso della libertà dell’uomo, di cui la filosofia non può fornire una definizione, ma può mostrare la “dialettica” ( cfr. Dialettica della libertà).
La filosofia e le sue forme
Dovendo parlare della concezione della filosofia come attività ermeneutica, sarà meglio cominciare esponendo le idee di Mathieu sulla filosofia e la storia della filosofia, prendendo in considerazione i suoi volumi di Storia della Filosofia ed il volumetto Temi e problemi della filosofia contemporanea ( Roma, 1971). Chiedere “che cos’è la filosofia?”significa per Mathieu domandarsi quale senso abbia la filosofia dopo la nascita della scienza moderna, se, oltre all’esistenza di fatto di un sapere filosofico, la filosofia abbia anche il “diritto” di porsi accanto alla scienza, come un sapere diverso e al tempo stesso complementare ad essa. Innanzi tutto, abbiamo già visto come l’oggetto della filosofia sia qualcosa di qualitativamente differente dall’oggetto delle altre scienze, anzi , parlando con rigore, se il carattere della scienza è proprio l’oggettività ( vedi sopra), ciò cui la filosofia di rivolge esula dal campo proprio dell’oggettività. Detto in altri termini, se ogni scienza può riferirsi in almeno due modi al suo oggetto , parlandone o mostrandolo, la filosofia non gode di questo privilegio. Il filosofo non può mostrare in natura gli oggetti intorno a cui verte propriamente il suo discorso. E, anche se muove da cose o operazioni che si incontrano nella concreta esperienza, non vuole presentarvele semplicemente come dati di fatto: vuole farvi percepire un loro senso più profondo.
D’altronde, i fatti d’esperienza sono già tutti oggetto di una qualche scienza particolare, sicché la filosofia non troverebbe un campo esclusivo in cui lavorare; però, non c’è dato d’esperienza che non possa fornire da spunto per considerazioni filosofiche. L’oggetto cui veramente mira il filosofo si trova al di là dell’esperienza immediata, per questo egli non può indicarlo se non indirettamente, attraverso il suo stesso discorso.
Ci si può chiedere, inoltre, se i quesiti propri della filosofia non trovino una soluzione più adeguata nelle risposte della scienza. Il problema è che le ragioni indicate dalla scienza non sono mai ragioni ultime, perché la scienza muove sempre da un dato o da un’ipotesi, per mostrare la dipendenza di un dato dall’altro. Ma un dato primo e definitivo da cui partire, non c’è. Quindi le scienze non risolveranno mai tutti i problemi, o, per meglio dire, non risolveranno mai i problemi sotto tutti gli aspetti. La filosofia sussiste accanto alla scienza, come una ricerca che si giustifica di per sé, perché, nonostante la conoscenza scientifica, rimarrà sempre un fondo di enigmaticità circa le ragioni prime e gli scopi ultimi. Ancora, è lecito domandarsi: “può la filosofia fornire una risposta alle questioni ultime?” Se si intende solo il tipo di risposta proprio della scienza ( una risposta che fruisce di una certa utilizzabilità), la risposta è sicuramente: “no”. La filosofia, per Mathieu, ha innanzi tutto una funzione critica, che si esercita anche sul sapere scientifico. La filosofia, anche se non accresce il sapere scientifico quantitativamente, gli dà tuttavia un altro senso. Senza la filosofia, il sapere degenererebbe, per ignoranza dei propri limiti qualitativi. Oltre a questo, però, la filosofia ha anche una funzione fortemente positiva. Come potrebbe la filosofia chiarire sempre meglio all’uomo che nell’esistenza c’è qualcosa da capire, se essa in qualche modo non approfondisse il senso dell’esistenza? Il compito della filosofia è dunque far emergere dall’esperienza il senso complessivo dell’esistere, scoprendo nell’esistenza un’enigmaticità che nessuna scienza potrà mai chiarire: Il “risultato” della filosofia non è quindi un risultato pratico: è piuttosto un “far risultare” all’uomo il senso dell’esistenza” . Emerge chiaramente in questi passi la preferenza di Mathieu per un metodo “fenomenologico” non nel senso husserliano , bensì hegeliano del termine: la fenomenologia hegeliana fa emergere dai fenomeni, presi nella loro singolarità, un senso non afferrabile fuori del fenomeno stesso…qualcosa che non può stare per conto suo, di fronte alla mente, ma solo emergere dal fenomeno come il suo senso ( che , appunto perciò, ha bisogno del fenomeno per mostrarsi”). Di questo metodo sono esemplificazione anche i saggi fenomenologici di Mathieu, come La speranza nella rivoluzione ( 1972), da cui è tratta l’ultima citazione.
Il senso dell’esistenza, che la filosofia ha il compito di “far risultare”, non “consta” al filosofo nello stesso modo in cui “consta” un fatto, e neppure nel modo in cui si può verificare una legge scientifica. Anche le parole che lo esprimono, dunque, non possono presentarlo come si indica un oggetto: sebbene la riflessione filosofica lo faccia emergere dall’esperienza, esso non è un dato d’esperienza. Ciò non toglie che la filosofia disponga di una propria tecnica. Solo, dice Mathieu, occorre fare attenzione per non confondere la tecnica propria di ogni filosofia col suo senso. Strutture e procedimenti dimostrativi sono solo mezzi, strumenti per giunger a qualcosa che è al di là della tecnica …e che, appunto per questo, è chiamata con la parola “senso”: senso delle cose, del mondo, dell’esistenza. Occorre anche una particolare “sensibilità” per coglierlo; e lo studio della filosofia ha come scopo ultimo non di fornire certe nozioni, bensì di sviluppare questa capacità, insita potenzialmente in ognuno.
Questo punto di vista permette di rendere ragione dello scandalo, suscitato in molti, filosofi e non, dalle opinioni divergenti dei vari filosofi nel corso della storia del pensiero. Lo scandalo nasce dall’aver scambiato indebitamente i mezzi con i fini, ossia lo strumento concettuale, che varia da un filosofo all’altro ( soprattutto nel pensiero contemporaneo) per la “verità” medesima, che è identica in tutti: sicché è sembrato che i filosofi dicessero ciascuno una cosa diversa, quando in realtà, dicevano-o, meglio, cercavano di dire- tutti una stessa verità, attraverso infinite prospettive diverse. La filosofia si mostra capace di verità universali, ma esprimere verità universali ( capire il senso delle cose) non significa enunciare certe proprietà o certe connessioni di fatto tra le cose, quindi non c’è da scandalizzarsi se i filosofi affrontano un tal compito per mezzo di costruzioni diverse. Il paragone di Mathieu è con l’esperienza artistica : ars una, species mille.
La verità che la filosofia intende fornire, non può trovare nel nostro discorso un’espressione perfettamente adeguata. Se ciò fosse possibile, non sarebbe ammissibile enunciare intorno ad essa tante proposizioni diverse…il discorso potrebbe, al più, diventar molto lungo; potrebbe anche allungarsi indefinitamente, se i filosofi che si succedono via via aggiungessero ciascuno un nuovo particolare…ma tutti questi particolari apparterrebbero a un medesimo sistema …e ciascuno costituirebbe la parte di un tutto, sommabile con le altre. Una filosofia siffatta sarebbe indistinguibile dalla scienza, il cui procedimento è rispecchiato perfettamente dalla descrizione riportata sopra. Le filosofie, invece, non si sommano in un unico sistema, non sono parti di un tutto, ma ambiscono piuttosto a rappresentare ciascuna un tutto, perché, anche quando si fermano su un particolare solo, ciascuna ce lo presenta da un punto di vista tutto suo, che non si lascia sommare agli altri. Ciò induce a sostenere che il modo d’essere della filosofia sia qualcosa di radicalmente diverso: la verità filosofica non si lascia dividere in parti, ma c’è tutta in ciascuna filosofia, sebbene a volte accada che l’una la esprima meglio dell’altra. Ciò implica anche che nessuna filosofia, per quanto contenga in sé “tutta” la verità, abbia l’esclusiva su di essa, ossia implichi il rifiuto di altre forme che esprimano in modo diverso quella stessa verità. Questo perché le forme del nostro discorso non potranno mai esprimere in modo pienamente adeguato e definitivo la verità: una forma può essere più o meno appropriata, senza mai esaurire il suo contenuto, ossia la “verità”. Le costruzioni del nostro pensiero e del nostro discorso sono in un modo diverso da quello in cui la verità (filosofica) è. In ultima analisi il modo d’essere della filosofia ci conduce al problema che, in un’ottica heideggeriana, potremmo chiamare della “differenza ontologica”. Teologicamente parlando, il senso ultimo della realtà si presenta solo per speculum et in aenigmate. La ragione che rende inevitabile ( e desiderabile) una pluralità di filosofie è la trascendenza della verità: la verità trascende le forme in cui la filosofia la esprime; ha un essere che non si colloca direttamente nel nostro discorso, ma se ne lascia adombrare.
Se i filosofi non possono dare alla verità una forma che le sia propria, da dove traggono quelle forme ( concettuali) di cui si servono? Se le inventano? Certo, una componente inventiva non può mancare al filosofo, come del resto non manca allo scienziato. Non per questo, però, ogni invenzione equivale ad una filosofia, solo un’invenzione che miri a rivelare la verità può considerarsi attinente all’attività filosofica. L’efficacia rivelativi non è propria della scienza, la quale coglie l’oggetto sotto il riguardo dell’operabilità e verifica ( rende vera) l’esattezza delle proprie concezioni per mezzo di operazioni effettive. Le forme operative…ci permettono di far nostra la realtà ( l’oggetto della scienza è , per Mathieu come per Heidegger, “ciò che è a portata di mano”), ma non in tutte le sue dimensioni, bensì in quella soltanto su cui può far presa la nostra operazione. Dunque, la molteplicità irriducibile delle filosofie non distrugge la verità, ma la porta al suo livello, superiore a quello delle forme discorsive in cui è espressa. Noi non padroneggiamo questo livello della verità come se fosse nostro, non è a portata di mano, come l’oggetto della scienza, ma questo non vuol dire che non vi sia rapporto con la verità: se con la verità non avessimo nessun rapporto, neppure ne sentiremmo il bisogno. Dunque, la stessa insoddisfazione verso i risultati raggiunti, che ci spinge a cercare sempre di nuovo, è un indizio che la filosofia non ha fallito il suo scopo, ma, anzi, lo ha realizzato. Essa ha stabilito un rapporto con la verità.
L’ermeneutica
Abbiamo visto come, per Mathieu, il senso genuino della filosofia non stia nel possesso del sapere (giacché il tipo di sapere proprio del filosofo non può essere un nostro possesso), ma nell’aspirare “socraticamente” alla verità. Il modello socratico-platonico della filosofia come amore per un sapere che non è in nostro possesso, è esplicitamente contrapposto alla pretesa hegeliana di fare filosofia dal punto di vista dell’Assoluto: noi filosofiamo appunto perché non siamo l’assoluto, non ne possediamo la scienza, ma siamo mossi da un’aspirazione verso l’assoluto, grazie a cui l’assoluto ci si rivela in forme sempre nuove, mai adeguate una volta per tutte.
Alla base di questo discorso c’è quella che si potrebbe chiamare, in linguaggio esistenzialistico, la finitudine dell’uomo e, in linguaggio teologico, la sua natura creaturale. E questa è qualcosa di molto più enigmatico del semplice “esser finiti”: è un esser finiti in rapporto a un infinito (da L’uomo animale ermeneutico, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono).In questa situazione l’uomo, oltre ad essere un animale che pensa, è un animale che fa pensare (quaestio mihi factus sum), e per questo un animale ermeneutico: esige e sviluppa un’interpretazione della propria natura o del proprio modo d’essere.
La riflessione sull’ermeneutica si impone come una riflessione sul linguaggio, perché “interpretare” reca in sé la radice pret di phrazein: interpretare significa “inserire il linguaggio” tra l’uomo e qualsiasi ente con cui l’uomo si trovi in un rapporto umano. La riflessione ermeneutica diventa anche una riflessione filosofica su ogni attività umana (dall’arte al diritto). La lingua è indispensabile non solo per la comunicazione con altri uomini, ma anche nel rapporto con la natura inanimata. Per conoscere il mondo e per adoperare le cose l’umanità deve servirsi di una certa lingua che, nelle scienze, diviene lingua matematica. Schematizzando, Mathieu costruisce un quadrato con al centro l’uomo: dall’alto scende la dipendenza da Dio. Verso destra l’uomo entra in rapporto con altri uomini. A sinistra e al di sotto si riferisce alla natura animata e inanimata, per conoscerla e adoperarla. In tutti questi casi è indispensabile un’interpretazione linguistica, perché la lingua non può essere espunta da nessuna di queste relazioni. Perché la lingua è così importante? Lo è – risponde Mathieu- perché rende possibile l’attuarsi di un’essenza (quella dell’uomo), la cui esistenza è, per un verso, del tutto interiore e, per l’altro, consiste tuttavia solo in rapporti con l’esterno. Quella che si può chiamare la “relazionalità interna” dell’uomo deve necessariamente, per non chiudersi nel solipsismo, esternarsi, ossia essere “esposta”. La lingua è l’unico mezzo con cui un ente, che manifesta un mondo chiuso in se stesso, può raggiunger una comunicazione indiretta con altri enti. Essa dunque è condizione dell’esistenza stessa del soggetto umano; e, essendo un mezzo di collegamento indiretto, deve in ogni caso venire interpretata.
In tutte le forme fondamentali dell’attività umana, comprese nello schema proposto, viene inserito un discorso tra il soggetto e l’oggetto, o tra un soggetto e l’altro. In tutte è necessaria un’interpretazione, ossia l’inserimento della lingua. L’effetto di questo inserimento è l’emergere di un senso, sviluppato dall’interpretazione. Mathieu mette in evidenza come la condizione dell’ascolto del discorso, di qualsiasi discorso, sia sostanzialmente simile a quella dell’obbedire. Obbedire ad un discorso significa essere persuasi, assoggettarsi a un certo influsso che differisce profondamente da un effetto fisico (costrizione esterna), perché nella persuasione non si è passivi (solo chi è libero può persuadersi). Diverso, dunque, l’ascoltare dall’obbedire passivamente. L’ascolto è un effetto di tipo particolare a cui solo un essere libero è sottoposto. Non si tratta, dunque, di un’obbedienza meccanica, che non richiederebbe interpretazione alcuna, bensì di un caso in cui tra la formula della prescrizione e il contenuto dell’operazione, non sussiste una corrispondenza automatica. Il senso va esplicitato, questo è il compito ermeneutico, che impegna la libertà dell’interprete. La fedeltà al senso non consiste in una scelta tra alternative preesistenti, bensì un processo che ha un aspetto “creativo”. La massima fedeltà coincide, dunque, con la suprema libertà. E ciò chiama in causa il problema della fedeltà al vero, come problema di una interpretazione che non è, né corrispondenza meccanica, né presa di posizione arbitraria.
Gli esempi possibili sono molti. Il credente è libero solo nella misura in cui obbedisce fedelmente alla parola di Dio, così come l’artista è libero quando obbedisce al senso genuino della sua opera. In entrambi i casi, non si tratta di un’obbedienza estrinseca a regole date. Apparentemente diverso sembra il dialogo tra uomini su questioni pratiche, in cui le parole hanno un significato convenzionale, conosciuto in anticipo, grazie a cui l’esattezza della comprensione può essere controllata operativamente. Anche qui, però, ogni interlocutore deve innanzitutto capire l’intenzione dell’altro: l’intenzione è espressa con parole, ma non coincide in nessun caso con le parole. Il contenuto genuino di un’asserzione non si offre all’interlocutore come un oggetto, perché tra il contenuto della comunicazione ed il mezzo che lo comunica sussiste una differenza ontologica: differenza ontologica e non ontica, spiega Mathieu, perché non è possibile sostituire la parola con la cosa comunicata (ossia con l’intenzione), poiché quest’ultima esiste solo nel mezzo di comunicazione. In luogo della parola “sedia”si può bensì indicare o additare una sedia, perché tra il suono della parola e la cosa sussiste una differenza ontica. Per contro la differenza tra la verità divina e le espressioni che la rivelano è ontologica e, di conseguenza, la comunicazione è intrinsecamente linguistica. Anche in un senso strettamente teologico, il Padre si manifesta solo attraverso il Figlio e cioè la parola.
Uno spettacolo, un dipinto, una poesia, un edificio non comunicano solo suoni, colori, rapporti di peso etc., e neppure il semplice “significato” delle parole e delle immagini, bensì il senso dell’insieme. Che cos’è questo senso? Quando non si sia capita del tutto la frase del parlante, gli si domanda: “In che senso?”. In altri termini: con quale intenzione hai usato queste parole? Ma il senso si può indicare, di nuovo, solo con altre parole. In contrasto col significato inteso come una cosa, il senso può venire svelato (e velato) solo come intenzione, mediante parole. Non è possibile sostituire qui ad una parola la cosa designata, perché la differenza è ontologica: l’intenzione non si lascia cogliere fuori dell’enunciato. Il modo d’essere del senso non è lo stesso che quello dell’enunciato, appartengono a due diversi livelli ontologici e, pertanto, sono si possono collocare l’uno accanto all’altro, come fossero due cose. Essi sono la medesima cosa, collocata tuttavia su due diversi piani ontologici, tra i quali solo l’intenzione linguistica getta un ponte. Per questo, Mathieu sottolinea l’importanza del giudizio riflettente in tutti i campi dell’attività ermeneutica: in casi come questo, un giudizio determinante sarebbe impossibile, perché manca l’universale dato, perché l’universale (il senso) non è una cosa accanto alle altre cose (sebbene avente una generalità maggiore). L’immagine che meglio rappresenta l’ermeneutica è, dunque, il ponte tra due sponde (a patto che ci si attenga agli evidenti limiti della metafora): La lingua attraversa dunque una differenza ontologica e getta un ponte tra due sponde. Il senso è sempre “in cammino verso la lingua”; e l’interpretazione è sempre alla ricerca di un senso.
Il linguaggio, qui, non va inteso in senso puramente “naturalistico” (il linguaggio non è la parola), altrimenti non si capirebbe il legame che Mathieu vede, ad es., tra filosofia, teologia ed esperienza artistica. L’esempio più eloquente è proprio l’opera d’arte. L’intenzione, come senso dell’opera, che non è l’intenzione “psicologica” dell’artista, coincide con la cosiddetta “ispirazione” (parola che ha a che fare anche con l’ambito teologico): l’artista deve arguire il senso dell’opera che non ha ancora eseguita, ascoltarlo e obbedirgli, per incarnarlo in un corpo sensibile. In questo processo, se esso ha da riuscire, ogni arbitrio va escluso. L’artista deve interpretare fedelmente l’ispirazione; e anche chi fruisce più tardi della sua opera deve fare lo stesso. Il pittore dipinge senza parlare, ma egli è capace di parlare: tra il sentimento e l’esecuzione si muove il suo pensiero che, anche se non usa parole, è sempre discorsivo.
L’artista interpreta un’ispirazione che, fino a quel punto, non ha ancora preso forma: qualcosa di non ancora conosciuto agisce sul suo animo come una sollecitazione, senza ancora che egli sappia che cosa gli si chiede: eppure tale sollecitazione è così precisa da respingere ogni interpretazione inadeguata (verrebbe da dire, veritas est index sui et falsi). Come può dunque questa cosa sconosciuta fornire indicazioni così precise, benché non formulate? Non si può dare una spiegazione concettuale di questo fenomeno (se la creazione fosse spiegabile non sarebbe più tale), perciò Mathieu parla di una causa ontologica (di contro a una causa fisica, psicologica, etc.): è lo stesso essere dell’opera d’arte quello che fornisce quelle indicazioni, implicite e misteriose…ciò mostra che una stessa entità può possedere due modi d’essere molto lontani tra loro: l’uno oggettivato, l’altro non oggettivato…l’entità non ancora oggettiva decide da sé quale corpo debba avere. Ciò che ispira, che spesso viene personificato in una divinità, non è tuttavia un “dato”: non perché sia vago (è anzi precisissimo), bensì al contrario, perché è sovradeterminato rispetto ad ogni dato.
Nell’essere come tale, infatti, ogni singola determinazione coesiste con ogni altra senza mescolanza e senza esclusione reciproca. Qualcosa di analogo agli intelligibili nel nous plotiniano: Mathieu non fa affatto mistero di essere risalito, attraverso pensatori più o meno consapevolmente “neoplatonici” (Bergson, Schopenauer, Leibniz) , al senso genuino della filosofia di Plotino (si veda Perché leggere Plotino): una filosofia “inattuale” ma che Mathieu ritiene fondamentale per comprendere anche il nostro tempo.
L’unità dell’essere contiene tutto, non solo ciò che è contenuto in una determinata opera, ma il senso di un’opera d’arte designa appunto un’entità che ha già subito un’individuazione incoativa. E ciò che mette in moto (nei rari casi che noi ascriviamo al “genio”) tale individuazione dell’essere rimane celato…ma l’effetto di tale individuazione si trova davanti a noi: è l’unità dell’opera d’arte, il segno che essa ha origine nell’essere. Tale unità non ha una causa “artificiale”, ossia ottenibile da una nostra attività puramente tecnica, per composizione, ma è un’unità incomposta, che viene dall’essere, ossia da ciò su cui non possiamo “mettere le mani”, e appunto perciò non si può influire in alcun modo su di essa. Ha il carattere della “spontaneità”. Qualcosa di simile avviene per l’unità del vivente (L’unità del vivente è appunto il titolo di un saggio di Mathieu che approfondisce l’argomento).
L’unità non composta dell’opera d’arte attesta l’efficacia di un’attività dell’essere non dominabile e neppure escogitabile da noi: il punto ultimo, a cui la creazione rinvia, è dunque ancor più profondo del senso: è l’essere. Il richiamo di Mathieu è alla figura di Hermes (da cui il termine “ermeneutica”) , che trasporta i doni di Apollo, fornendo un corpo alla spiritualità. La duplicità di Hermes, dio dell’inganno, rappresenta bene il duplice problema dell’interpretazione;da un lato significa che, nel ricevere i doni di Apollo, non siamo passivi: dobbiamo impegnare la nostra attività. In secondo luogo significa che nell’esplicare tale attività possiamo ingannarci (per cui il discorso tradisce l’intenzione, nel doppio senso di “consegnarla” e “falsarla”). Un tale pericolo deriva dal fatto che il percorso tra il senso in statu nascendi e l’opera compiuta non è un tragitto spaziale, perché la distanza non è una differenza ontica, bensì ontologica. Una differenza ontica potrebbe essere coperta con mezzi puramente tecnici: in quanto ontologica, per contro, la differenza può essere superata [ anche se mai “colmata”] solo da un’attività in cui confluiscano la guida dell’essere e l’esercizio delle nostre forze. Ma la guida dell’essere non è una prescrizione esplicita, non è un comando che ci basti obbedire. Per questo l’ermeneutica non è una “tecnica”.Una tecnica è indispensabile, necessaria ma non sufficiente. Oltre che alla divinità possiamo riferirci alla natura: un processo spontaneo, non padroneggiato da noi, guida il nostro comportamento tecnico. Come è possibile ciò? Non c’è risposta, perché un tale evento non cade sotto la categoria della possibilità…La natura deve guidare la tecnica, perché lo spirito non lo si afferra, né con l’occhio, né con la mano.
PIERRE HADOT
A cura di Fabio Funiciello
Pierre Hadot (Parigi, 1922) è un filosofo e scrittore francese. Direttore della École pratique des hautes études dal 1964 al 1986, è stato nominato professore al Collège de France nel 1982. Il suo ambito di interesse è la filosofia antica, soprattutto il rapporto tra la Filosofia Greca e la sua ricezione da parte della Letteratura Latina. È stato uno dei primi ad aver introdotto il pensiero di Wittgenstein in Francia alla fine degli anni cinquanta del Novecento attraverso delle conferenze tenute al College Philosophique diretto da Jahn Wahl dove Hadot ci da un’interpretazione del Filosofo Viennese centrata sulle nozioni di “gioco linguistico” e di “forma di vita” restituendo un’immagine di Wittgenstein più vicina alle tematiche affrontate dal nostro nella sua visone della filosofia come “esercizio spirituale”. La tesi principale di Hadot, esposta soprattutto nei due testi Esercizi Spirituali e Filosofia antica e Che Cos’è la Filosofia Antica, è che la filosofia è nata, nell’antichità greca, come “stile di vita”, saggezza intesa come “saper vivere”, in una unità di teoria e prassi tipica dell’epoca nella quale appunto nasce e non come mera riflessione teorica fine a se stessa, quale invece ha preso a svilupparsi a un certo punto della storia occidentale. La Filosofia Greca e quella che le scuole filosofiche romane ereditano serve alla trasformazione dell’essere umano nella vita quotidiana. Le opere filosofiche del passato non sono composte per esporre un sistema, ma per diffondere un sapere formativo: in vista di questo scopo, il filosofo cercava anche di insegnare un approccio alla lettura facendola diventare un’azione di trasformazione del proprio sé. Gli esercizi spirituali impegnano tutte le facoltà dell’individuo che si mette in discussione trasformando la propria esistenza in maniera radicale. Per gli Stoici, per esempio, la filosofia è divisa in logica, fisica ed etica, ma ognuna di queste discipline non va vista chiusa in se stessa ma come un tutto unico che va vissuto a pieno con consapevolezza di sé, come peraltro risulta bene dall’immagine stessa che gli Stoici impiegavano per qualificare la propria tripartizione della filosofia: un “uovo”, le cui parti – lungi dall’essere indipendenti – sono in relazione tra loro, come il tuorlo e il guscio dell’uovo. Il discorso sulla filosofia non è la filosofia. In altri termini, secondo Hadot, in Grecia le teorie filosofiche sono al servizio della vita filosofica. Nell’epoca ellenistica e romana la filosofia si presenta come un modus vivendi, come arte della vita, come una maniera d’essere. In effetti, la filosofia antica aveva questo carattere, almeno a partire da Socrate. La filosofia antica propone all’essere umano un’arte della vita, mentre la filosofia moderna si presenta come un sapere tecnico riservato a specialisti o, comunque, a pochi “addetti ai lavori”. Hadot critica aspramente i filosofi moderni che vedono nella filosofia un mero sistema di proposizioni astratte e lontane mille miglia dalla vita concreta, con tutti i suoi “problemi reali”:
“Tradizionalmente, coloro che sviluppano un discorso filosofico senza cercare di mettere la loro vita in rapporto con il discorso, e senza che il loro discorso derivi dalla loro esperienza e dalla loro vita vengono chiamati ‘sofisti’ dai filosofi” (P. Hadot, Esercizi Spirituali e Filosofia Antica).
Ciò significa che presso i filosofi dell’antichità il discorso filosofico si integra armonicamente con le loro pratiche di vita: per loro la filosofia è prima di tutto una forma di vita e, solo in seconda battuta, un discorso concettuale, che però non può prescindere dall’esperienza vissuta del filosofo. Se la filosofia diventa solo una riflessione sulla correttezza logica delle proposizioni, allora subisce una modificazione radicale (e letale), rischiando di trasformarsi in una disciplina scolastica e istituzionale che si interessa solo della speculazione pura e non dell’esistenza quotidiana degli esseri umani nel rapporto con se stessi, con gli altri e con il mondo. Nella riflessione aurorale dei Greci – e in ciò sta, per Hadot, la loro insuperata e forse insuperabile grandezza – tra vita e riflessione filosofica non c’era contrasto, ma piuttosto armonia, nella misura in cui la vita stessa si configurava come una vita filosoficamente vissuta, in cui la filosofia provava a rispondere ai problemi che la vita stessa, di giorno in giorno, sollevava. Per l’essere umano è più importante imparare a vivere una vita umana attraverso l’esercizio psicagogico della filosofia. In questo senso, la posizione filosofica di Hadot può servire a rileggere l’intera storia della filosofia occidentale:
“Lo storico della filosofia dovrà cedere il posto al filosofo, il filosofo deve sempre restare vivo nello storico della filosofia. Questo ultimo compito consiste nel porre a se stesso, con lucidità maggiore la domanda decisiva: Che cos’è Filosofare?” (P. Hadot, Esercizi Spirituali e Filosofia Antica).
Domanda impegnativa, certo: alla quale si può rispondere ripercorrendo la strada che in origine percorsero i Greci, tenendo unite tra loro – senza mai scinderle – la vita e la filosofia. Un’altra tesi sostenuta da Hadot riguarda la continuità tra mondo greco e mondo cristiano: Hadot, che ha studiato attentamente il mondo tardo-antico (con particolare attenzione per Marco Aurelio) e il suo trapasso in quello cristiano, mette in luce con particolare enfasi come l’idea degli “esercizi spirituali” dei Greci (e soprattutto degli Stoici) riceva un nuovo impulso presso i Cristiani, che ad essi danno un nuovo sviluppo. Tra mondo greco e mondo cristiano non c’è contrasto ma, semmai, continuità, nella misura in cui il secondo eredita (e declina in nuovi modi) il pensiero elaborato dal primo: tesi, questa, sostenuta anche, seppure con sfumature diverse, dal filosofo italiano Giovanni Reale.
CHARLES TAYLOR
A cura di Fabio Funiciello
Carriera
Charles Taylor, soprannominato dai suoi amici “Chuck” ,si è formato alla McGill University(B.A. in Storia nel 1952). Ha continuato gli studi all’ Università di Oxford, prima come Rhodes Scholar al Balliol College, (B.A. in Philosophy, Politics and Economics in 1955, e poi a post-graduate, Master of Arts in 1960, Doctor of Philosophyin 1961), sotto la guida di Isaiah Berlin and G.E.M. Anscombe. Ha ereditato la cattedra di John Plamenatz come Chichele Professor of Social and Political Theory nell’ University of Oxford ed è Fellow of All Souls College ed è stato per molti anni Professore di Political Science and Philosophy at McGill University in Montreal, Canada, dove è poi diventato professore emerito. Taylor è poi stato Board of Trustees Professor of Law and Philosophy at Northwestern University.Molti dei suoi studenti sono diventati importanti filosofi e politologi. Nel 1995, è diventato membro dell’ Order of Canada. Nel 2000, è stato nominato Grand Officer del National Order of Quebec. Nel 2007 ha vinto il Templeton Prize per le sue ricerche nell’ambito delle “realtà sociali”. Nel 2007 lui e Gérard Bouchard sono stati messi a capo per un anno della Commission of Inquiry per la ricerca di una soluzione ragionevole per la “questione Quebec”. Nel Giugno 2008 ha vinto il Kyoto Prize nella categoria arte e filosofia. Il Kyoto Prize viene paragonato dai giapponesi al Nobel.
Il Pensiero
Charles Taylor è l’espressione più avanzata del recupero della Filosofia Continentale in Nord-America. Egli si è formato nel clima analitico di Oxford di cui manterrà il rigore metodologico cercando di far dialogare la filosofia analitica e la filosofia dell’esistenza (in particolare lo influenza Merleau-Ponty e il passaggio nel suo itinerario speculativo dalla psicologia associazionista alla scoperta del metodo fenomenologico). Taylor nell’opera del 1964 The Explanations of Behavoir cercherà di studiare il comportamento dal punto di vista analitico e fenomenologico criticando la psicologia comportamentista e cercando di delineare la struttura dell’agire umano in maniera teleologica, vedendo che anche gli animali percepiscono la situazione in cui sono “gettati”. Il comportamento umano non può essere spiegato oggettivamente perché ci sono i desideri, le intenzioni che non possono essere neutralizzati da una presunta “psicologia scientifica”che vuole spiegare logicamente i comportamenti dell’essere umano. Il soggetto morale è guidato nel realizzare i suoi fini dagli iperbeni che sevono come criterio di scelta degli altri beni. I beni per Taylor sono ancorati nel preconscio spirituale degli esseri umani e l’identità si riferisce al bene e realizza un’ideale di vita, il bene morale ha una trascendenza ontologica che fa si che l’essere umani desideri realizzare il bene nella storia anche attraverso l’incontro con gli altri. Per Taylor il soggetto morale non può separarsi da un ineludibile quadro assiologico in cui si trova gettato e che fin dalla nascita influenza i nostri criteri di scelta e per definire la natura della vita buona bisogna valutare il rapporto tra tradizione e identità morale. La successiva riflessione di Taylor si orienta verso il rapporto tra il soggetto morale e l’eredità della modernità. Egli riprende il concetto di cultura dell’epistemologia strutturale per cui la cultura è un sistema di segni e simboli di cui il linguaggio è un’esperienza paradigmatica per cui non vi un solo modello culturale ma ve ne è una pluralità e per questo bisogna valutare se la modernità occidentale ha una sua specificità cercando una via di mezzo tra individualismo metodologico e strutturalismo. Il punto di partenza di Taylor è la critica al “pacchetto illuminista” che vuole un’interpretazione a-culturale della modernità che cerca di omogeneizzare la modernità sul modello occidentale che si fonda su:
– Rivoluzione Scientifica
– Secolarizzazione
– Crisi della Metafisica
– Individualismo
La modernità per Kant doveva liberare il soggetto dall’autorità esterna ereditando dal cristianesimo il valore assoluto della coscienza personale. Con la crisi della Storia Ordinata dalla Provvidenza l’individuo si trova a torcersi verso se stesso e il culmine di questa torsione è il “cogito cartesiano” che fonda la filosofia moderna e fa si che l’individuo moderno si trovi rinchiuso nella sua riflessività in un mondo dominato dall’anomia e dalla crisi dell’identità personale dove domina una concezione utilitarista del benessere dove l’essere umano sembra non avere più prospettive per il futuro.
La critica comunitaria del Liberalismo
Taylor è associato a filosofi politici come Michael Walzer e Michael Sandel per la loro critica comunitaria alla teoria liberale della comprensione del sé. I Communitarians (“Comunitaristi”) enfatizzano l’importanza della società e dei valori comuni ereditati da una tradizione che hanno importanza per la comprensione di se stessi e della propria identità. Nel 1991, Taylor pubblica il Disagio della Modernità, dove delinea quali sono i mali della società moderna occidentale. Taylor sostiene, tra le tante cose, che la tradizionale teoria liberale dell’identità personale è troppo astratta,strumentale e ad una dimensione .Per Taylor, da John Locke a Thomas Hobbes fino ai più moderni teorici liberali come John Rawls e Ronald Dworkin, ci si è dimenticati della dimensione comunitaria in cui l’essere umano si trova gettato. L’uomo vive sempre in una comunità composta da suoi simili ed è, in questo senso, un “animale comunitario”, come già era stato magistralmente colto da Aristotele: questi aveva definito l’uomo un “animale socievole” (zoòn politikòn), destinato alla vita comunitaria. Contro la tradizione che – trovando in Locke e Hobbes i suoi massimi esponenti – si è dimenticata del carattere comunitario dell’esistenza umana, Taylor rivaluta in modo altamente positivo Hegel (studiato in Hegel e la società moderna), inteso come fondatore del comunitarismo. Per dare una comprensione più realistica alla comprensione del sé, Taylor conduce una analisi degli “orizzonti culturali” in cui gli esseri umani si trovano a vivere e ribadisce l’importanza dell’incontro\scontro con l’altro\i.
Lotte per il Riconoscimento
Nel saggio Multiculturalismo. Lotte per il Riconoscimento Taylor vede nel multiculturalismo un problema di riconoscimento e dedica gran parte del testo a fare la genealogia della nascita del concetto nel pensiero delle élite europee del Sette-Ottocento che hanno fatto si che il riconoscimento della propria identità culturale diventasse il programma principale del multiculturalismo del Novecento. Nel saggio Taylor vuole cercare di comprendere il “dilemma del riconoscimento”, che vuole riconoscere la pluralità delle culture cercando di negare l’esistenza di un universale valore culturale, di uscire dalle maglie dell’imperialismo culturale occidentale che sosteneva che le altre culture erano inferiori o di riconoscere solo alcune culture degne di essere valorizzate rispetto ad altre. L’analisi parte dalla svolta settecentesca in cui gli intellettuali europei passano dalla ricerca “dell’onore” alla ricerca del “riconoscimento” per poi passare ad un “caso concreto” di politica di riconoscimento quello dei canadesi francofoni del Quebec.
Testi di Charles Taylor in Italiano
TAYLOR, CHARLES, Hegel e la società moderna, Il Mulino, Bologna, 1984.
TAYLOR, CHARLES, Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma, 2005.
TAYLOR, CHARLES, Multiculturalismo, la politica del riconoscimento, Anabasi, Milano, 1993.
TAYLOR, CHARLES, Il disagio della modernità, Laterza, Bari, 1994.
TAYLOR, CHARLES/ HABERMAS, JUERGEN Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. di Leonardo Ceppa e Gianlazzaro Rigamonti, Feltrinelli, Milano, 1998.
Testi e articoli su Charles Taylor:
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PIRNI, ALBERTO, Charles Taylor. Ermeneutica del sé, etica e modernità, Lecce, Micella, 2002, p. 19. Saggio fondamentale delle analisi tayloriane sul problema dell’identità, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, trad. di R. Rini, Feltrinelli, Milano, 1993.
PARIOTTI, ELENA, Individuo, comunità, diritti tra liberalismo, comunitarismo ed ermeneutica, Giappichelli, Torino, 1997.
CORRADINI, ANTONELLA, Il pensiero di Charles Taylor tra comunitarismo e liberalismo, in G. Dalle Fratte (a cura di), Concezioni del bene e teoria della giustizia. Il dibattito fra liberali e comunitari in prospettiva pedagogica, Armando, Roma, 1995
COSTA, PAOLO, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano, 2001.
VITALE, ERMANNO, Il soggetto e la comunità. Fenomenologia e metafisica dell’identità in Charles Taylor, Giappichelli, Torino, 1996.
COSTA, PAOLO, Sfera pratica e argomentazione trascendentale in Sources of the Self, Fenomenologia e Società, XIX (1996), n. 1-2.
CREMASCHI, SERGIO, Charles Taylor e le due facce dell’individualismo, Iride, IX (1996), n. 18
PIRNI, ALBERTO, Identità, vita quotidiana e spazio pubblico a partire da Charles Taylor, in A. DE SIMONE (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, QuattroVenti, Urbino, 2005.
AMADEO BORDIGA
“Noi crediamo alla rivoluzione, non come il cattolico crede in Cristo, ma come il matematico crede ai risultati delle sue ricerche“.
LA VITA
Amadeo Bordiga nasce a Resina (Napoli) il 13 giugno del 1889. Già nel 1907 inizia a frequentare l’ambiente socialista napoletano. Nel 1910 si iscrive al Partito Socialista Italiano. Due anni dopo fonda a Napoli il Circolo Carlo Marx, nell’intento di combattere le tendenze riformistiche del partito. In questi anni conduce una battaglia intensa contro il militarismo e la guerra di Libia per il giornale L’Avanguardia, di cui nel frattempo è diventato direttore. Al Congresso di Reggio Emilia del Partito Socialista, è alla guida della corrente dei giovani rivoluzionari, che si configura come Frazione Intransigente Rivoluzionaria. Nel 1914 conduce una dura opposizione alla guerra dalle colonne de Il Socialista, rifiutando la parola d’ordine “né aderire né sabotare” adottata dal PSI e scontrandosi subito con l’apparato di partito. Gli interventisti escono dall’organizzazione. Nel 1916 è chiamato alle armi ma riesce a evitare il fronte. La sua attività è fortemente limitata dal controllo della polizia. Nel giugno del 1918 sposa Ortensia De Meo, militante socialista già presente alla fondazione del Circolo Carlo Marx e dalla quale avrà due figli. Nel dicembre fonda Il Soviet, periodico che diventerà presto il centro vitale della polemica con i riformisti e poi l’organo della battaglia per il nuovo partito già esistente di fatto in una corrente che, intorno al giornale, è qualcosa di più di una frazione tra le altre. Nello stesso anno, al XV Congresso del PSI, sostiene la necessità di appoggiare le tesi di Lenin sulla rivoluzione internazionale e si fa promotore della Frazione Comunista Astensionista. Nel 1920 partecipa al II Congresso dell’Internazionale Comunista. Contribuisce alla definizione dei “21 punti di adesione” presentati poi da Lenin e interviene sulla necessità di non impegnare le forze del partito nelle contese elettorali e parlamentari, ormai non solo inutili ma anche dannose, in Occidente, ai fini rivoluzionari. Verso la metà di ottobre presenta il Manifesto della Frazione Comunista, al Convegno di Milano della Frazione, detta in seguito anche dei “comunisti puri”. Alla discussione sulla eventuale separazione dal PSI partecipano anche Gramsci e Terracini in rappresentanza dei socialisti torinesi. Inizia la sua collaborazione redazionale a Il Comunista che esce dal novembre. Molti articoli sono chiaramente preparatori di una scissione dal PSI. Il 29 novembre presenta la mozione della Frazione Comunista al Convegno Nazionale di Imola invocando “un taglio netto” con la socialdemocrazia. Nel 1921, al Congresso Nazionale del PSI a Livorno, nel gennaio, denuncia con un intervento definitivo l’impossibilità di convivenza tra le forze rivoluzionarie, il riformismo e il massimalismo. La delegazione comunista si separa e, in un altro locale, fonda il Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale. Si trasferisce a Milano nel febbraio come “membro direttivo” del nuovo partito che decide di costituire in quella città la sua direzione. Intensifica la sua attività nei diversi settori di intervento del nuovo partito. In questo periodo compie frequenti viaggi presso le nuove sezioni del partito, scrive regolarmente su quattro periodici: Il Soviet, Il Comunista di cui è diventato direttore, L’Ordine Nuovo che diventa organo del partito e Rassegna Comunista che ne è la rivista teorica. Sotto la sua direzione, il nuovo partito organizza subito sia la rete sindacale che quella illegale militare, mentre per disciplina all’Internazionale deve mettere da parte l’astensionismo e partecipare alle elezioni. Sul piano dei princìpi e della tattica incomincia a scrivere articoli di orientamento teorico e pratico da cui risulta evidente che già all’inizio del 1921 individuava l’esistenza di problemi non indifferenti con l’Internazionale. Negli articoli che scrive nel corso del 1921 si chiariscono tutte le divergenze, non ancora esplicite (cioè non ancora oggetto di polemica diretta), tra la direzione del PCd’I e l’Internazionale: il problema della rivoluzione in Occidente; la tattica dell’azione con le altre forze politiche (Fronte unico); la valutazione sul fascismo; la natura dell’Internazionale (cioè Partito Comunista mondiale o federazione dei partiti comunisti nazionali). Nel dicembre partecipa come inviato dell’Internazionale al Congresso di Marsiglia del Partito Comunista Francese. Nel 1922, dopo neppure due settimane dalla fascista Marcia su Roma, si apre il IV Congresso dell’IC (dal 5 novembre al 5 dicembre) in cui Bordiga tiene la relazione sulla situazione italiana. In primavera viene arrestato dalla polizia e incriminato per “complotto contro lo Stato”. Nel giugno i dirigenti arrestati vengono sostituiti alla direzione del partito. La responsabilità organizzativa e politica passa a Togliatti e Terracini. Dopo il processo e la scarcerazione, viene invitato dall’Internazionale a riprendere il suo posto nel Comitato Esecutivo del partito, ma rifiuta (22 dicembre) spiegando che vi è incompatibilità fra le sue posizioni e quelle dell’IC: un impegno direttivo lo costringerebbe per disciplina a sostenere posizioni che non ha e ciò comporterebbe un falso di fronte all’organizzazione. Nel gennaio del 1924 fa uscire a Napoli la rivista mensile Prometeo. L’intento è di dare una voce alla Sinistra del partito. Nel mese di maggio si svolge la Conferenza di Como in cui il partito si dichiara a stragrande maggioranza per le tesi della Sinistra. Bordiga rifiuta di presentarsi candidato alle elezioni. Partecipa al V Congresso dell’IC e ripresenta le tesi sulla tattica mettendo in guardia contro il revisionismo di destra che minaccia il partito russo. Le tesi vengono di nuovo respinte. Nel successivo Congresso clandestino di Napoli si scontra con i nuovi dirigenti allineati alle posizioni dell’IC. Nel 1926, dal 21 al 26 gennaio partecipa al III Congresso del PCd’I a Lione (clandestino). Il mese successivo si aprono i lavori del VI Esecutivo allargato dell’Internazionale a Mosca. In entrambe le occasioni Bordiga tenta l’ultima appassionata difesa delle tesi marxiste. Il 22 novembre viene condannato senza processo a tre anni di confino e immediatamente arrestato mentre i fascisti gli devastano la casa. Viene condotto prima a Ustica poi a Ponza, isolotti di 7-8 kmq, dove rimarrà fino al 1929. Durante la prigionia organizza una scuola per detenuti e con Gramsci tiene regolarmente lezioni su materie scientifiche. Nel 1930 viene espulso dal partito con l’accusa di attività frazionistica “trotzkista”. Al rientro dal confino si dedica alla professione di ingegnere senza più occuparsi di questioni politiche. Del resto ne sarebbe completamente impossibilitato perché la polizia lo controlla 24 ore su 24 con ben sei funzionari che si danno il cambio. Negli archivi di polizia rimane traccia di questo controllo che dura fino al 1943, quando a Napoli la guerra ha fine in seguito agli sbarchi anglo-americani. Nel dopoguerra fonda il partito comunista internazionalista e continua l’attività politica soprattutto attraverso articoli che vengono pubblicati sulla nuova rivista Prometeo sotto gli pseudonimi di Alfa e A. Orso. Nel 1968 si ritira, malato, nella casa di Formia. L’anno dopo viene colpito da un ictus cerebrale da cui si ristabilisce a fatica e solo parzialmente. Muore il 23 luglio del 1970. Una curiosità: Bordiga non firmava i propri scritti, alsciandoli anonimi. E questo per due motivi: a) la firma era – a suo giudizio – un vezzo borghese, quasi un’estensione del concetto di proprietà privata nell’ambito del pensiero; b) non ha alcuna importanza – dice Bordiga – che chi teorizza il comunismo ponga la propria firma, dato che il comunismo è una necessità storica inaggirabile e non l’invenzione mentale di un qualche genio. Detto altrimenti, chiunque pensi alla necessità del comunismo non sta facendo altro che dare voce alla realtà fattuale o, come amava dire Marx, al “movimento reale” della storia.
IL PENSIERO E LE OPERE
La formazione di Bordiga fu di carattere scientifico. A differenza della quasi totalità dei politici moderni, egli sottopose fin da ragazzo la teoria politica a una visione scientifica piuttosto che il contrario (nelle sue opere della maturità sostenne che la scienza moderna è marcatamente influenzata dall’ideologia). Il padre Oreste, piemontese, fu uno stimato studioso di scienze agrarie, la cui autorevolezza era riconosciuta specialmente a proposito dei secolari problemi agrari del Mezzogiorno italiano. Lo zio paterno, Giovanni, fu matematico, esperto di geometria proiettiva, insegnante all’università di Padova, militante del radicalismo tardo risorgimentale (appassionato d’arte, fondò tra l’altro la Biennale di Venezia). La madre, Zaira degli Amadei, discendeva da una antica famiglia fiorentina e il nonno materno fu cospiratore nelle lotte risorgimentali. L’ambiente familiare fu dunque fondamentale nella formazione del giovane rivoluzionario, che seppe fondere la scienza con l’arte, come ebbe a dire nel 1960 a proposito dell’intero movimento rivoluzionario. Con queste premesse, Bordiga si laureò in ingegneria al Politecnico di Napoli nel 1912. Aveva già conosciuto il movimento socialista al liceo, tramite il suo professore di fisica (Calvi) e nel 1910 aveva aderito al Partito Socialista Italiano. L’opposizione dei socialisti radicali alla Guerra di Libia lo vide in prima linea nelle assemblee e in piazza, come registrano i rapporti di polizia. Nell’aprile del 1912 fondò con alcuni giovani compagni il Circolo Carlo Marx, gruppo che uscì dalla sezione napoletana del PSI ma non dal partito, rientrandovi quando terminò il tentativo delle manovre bloccarde con i massoni. Sotto la sua influenza, la sezione napoletana del partito divenne il nucleo di una combattiva corrente che poco a poco si fece strada nei convegni locali della gioventù socialista e nei congressi nazionali del partito. Nello stesso tempo cresceva l’esperienza di lotta, vissuta in una delle aree industriali, quella ad est di Napoli, che allora era tra le più sviluppate d’Italia. Il suo rifiuto dell’approccio pedagogico alla politica divenne in quegli anni uno dei suoi cavalli di battaglia. Fu fin dall’inizio profondamente ostile alla democrazia rappresentativa, che considerava strettamente legata all’elettoralismo borghese: “Se esiste una totale negazione dell’azione democratica, essa va ricercata nel socialismo” (In Il Socialista, 1914). Fu contrario alla libertà di azione concessa ai parlamentari socialisti, che invece egli voleva porre sotto il diretto controllo della direzione del partito. Similmente alla maggior parte dei socialisti nei paesi mediterranei, fu avversario severo della massoneria. Allo scoppio della guerra, nel 1914, si distinse per la sua campagna rigorosamente antimilitarista. Nel 1915 fu chiamato alle armi e dovette sospendere l’attività aperta contro la guerra. Esonerato dal servizio attivo per grave miopia, riprese l’attività politica presentando nel partito, nel 1917, una mozione contro la formula ambigua e fuorviante di “né aderire né sabotare”. Destò grande sorpresa fra i dirigenti del partito il risultato della votazione: 14.000 voti per la mozione della Sinistra e 17.000 per quella degli altri raggruppamenti. Nell’agosto del 1917 Bordiga fu l’animatore della “Frazione Intrasigente Rivoluzionaria”, della quale scrisse le tesi politiche, fatte accettare quasi all’unanimità al seguente congresso della Federazione Giovanile. Allo scoppio della Rivoluzione russa nell’ottobre del 1917, aderì al movimento comunista internazionale e formò la “Frazione Comunista Astensionista” all’interno del PSI. La frazione si diceva astensionista in quanto si opponeva alla partecipazione alle elezioni borghesi e fu questa corrente, alla quale si affiancò quella torinese dell’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, a uscire dal PSI a Livorno nel gennaio 1921 per formare il Partito Comunista d’Italia (Pcd’I). Era l’epilogo di una lunga divisione interna ai socialisti, che fin dal 1919 si erano trovati nel dilemma se accettare o meno interamente le condizioni poste da Lenin per entrare nella Terza Internazionale. Nel corso delle dispute su queste condizioni, Bordiga, partecipando al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1920, fece aggiungere 2 condizioni alle 19 già fissate da Lenin. Nonostante l’appoggio di Lenin ai comunisti italiani contro i riformisti del PSI, le posizioni astensioniste di Bordiga furono criticate dallo stesso Lenin in “L’estremismo: una malattia infantile del comunismo” (cui Bordiga rispose negli anni ’60 con un saggio contro i falsificatori di Lenin). Sotto la guida carismatica di Bordiga il Partito Comunista d’Italia si avviò ad essere un organismo assai dissimile dagli altri partiti che avevano aderito all’Internazionale. La composizione prettamente operaia non aveva prodotto la solita gerarchia interna piramidale con al vertice gli intellettuali. D’altra parte, la pur rigorosa disciplina interna non si fondava tanto su disposizioni statutarie quanto sul programma e su quello che proprio in quel periodo si stava configurando come “centralismo organico”. Questo particolare assetto “naturale” fu spiegato e rivendicato già dal 1921 come elemento distintivo della Sinistra Comunista “italiana”. In un articolo dello stesso anno, Bordiga chiarisce che il partito rivoluzionario si caratterizza per il fatto di essere già il progetto, la base fondante della società futura e da questa deriva la sua specifica natura e struttura, mentre rigetta ogni meccanismo interno mutuato dalla società presente. Bordiga fu eletto nel Comitato Centrale del Pcd’I e vi rimase fino al suo arresto nel 1923. Nel giugno egli e gli altri dirigenti arrestati vennero sostituiti alla direzione del partito per ordini di Mosca. Assolto al processo, rifiutò di entrare nel comitato esecutivo. Nel 1926 partecipò al Congresso clandestino di Lione, dove la Sinistra fu messa in minoranza dai centristi allineati a Mosca (Gramsci, Togliatti, Terracini, tra gli altri, si erano schierati con il campo che si stava delineando come stalinista) con vari espedienti, nonostante disponesse ancora della stragrande maggioranza dei voti congressuali. Subito dopo il Congresso di Lione, in cui furono presentate le ultime tesi che la Sinistra Comunista poté scrivere in difesa dell’Internazionale, Bordiga partecipò al VI Esecutivo allargato dell’IC, dove tentò per l’ultima volta di intervenire in difesa dei principii fondanti di quello che doveva essere il partito mondiale. Nello stesso anno fu arrestato e inviato al confino sull’isola di Ustica, dove con Gramsci contribuì a organizzare la vita dei prigionieri. Al rilascio fu sempre più emarginato dall’attività politica finché nel 1930 venne espulso per aver difeso Leone Trockij nonostante le divergenze con lui. Per diversi anni non poté più svolgere politica attiva, controllato notte e giorno dalla polizia fascista. Bordiga aveva un rapporto quasi paterno e protettivo nei confronti del giovane Gramsci, fisicamente poco adatto alla dura lotta politica del tempo, in ambiente di guerra civile. Cercava di assecondare come poteva “il suo lento evolvere dall’idealismo filosofico al marxismo”. Non gli importava nulla che fosse stato interventista di guerra e gli fu amico anche nei momenti di dura polemica. Lo sarebbe stato anche se avesse conosciuto la sua corrispondenza segreta con Togliatti e gli altri centristi di minoranza alleati a Mosca che lavoravano alla liquidazione della Sinistra: essendo completamente estraneo alle manovre politiche sia concretamente che come mentalità, badava alla salvaguardia del partito rivoluzionario indipendentemente dalle sue componenti interne e dai numeri di iscritti che esse coinvolgevano. Quando il gruppo gramsciano si avvicinò alla Sinistra, reputò “leale” il titolo della sua rivista, che non parlava di Classe, Stato e Società come facevano i comunisti, ma genericamente di “Ordine Nuovo”. Bordiga scherzava sulla concezione antideterministica di Gramsci, che ancora nel 1919 interpretava la Rivoluzione d’Ottobre come una specie di “miracolo della volontà umana”, contro ogni determinismo delle reali condizioni economiche e politiche della Russia: “Solo a rilento Gramsci accettò le direttive marxiste sulla dittatura del partito e sulla stessa incidenza del sistema marxista, fuori dell’economia di fabbrica, in una visione radicale di tutti i rapporti di fatti nel mondo umano e naturale”. Quando poi conobbe Lenin, racconta ancora Bordiga, “la cosa non restò senza effetto; maestro ed allievo non erano da dozzina”. Gramsci ammetteva di non accettare tutto del marxismo e di maturare lentamente, tanto che rispose a tono: “Preferiremo sempre quelli che imparano lentamente capitoli del marxismo a quelli che li dimenticano”. Ma ancora nel 1926, in margine al Congresso di Lione, quando ormai la Sinistra era liquidata, a una precisa affermazione di Bordiga, che ormai considerava un avversario da rimuovere, rispose: “Do atto alla sinistra di avere finalmente acquisita e condivisa la sua tesi, che l’aderire al comunismo non comporta solo aderire ad una dottrina economica e storica e ad una azione politica, ma una visione ben definita, e distinta da tutte le altre, dell’intero sistema dell’universo anche materiale”. Al confino insieme per qualche tempo a Ustica alla fine del 1926, Bordiga e Gramsci organizzarono una “scuola di partito” per prigionieri dove nessuna “materia” era esclusa. Di comune accordo, tenevano a turno “lezioni” in cui l’uno esponeva la materia secondo le tesi dell’altro, scherzando alla fine sul confronto delle eventuali manchevolezze di ognuno. (Le citazioni in corsivo sono memorie di Bordiga). In seguito allo sbarco alleato e allo spostamento al Nord del fronte di guerra nel 1944, intorno a Bordiga si raccolsero i vecchi compagni del ’21. Con la guerra ancora in corso, furono presi contatti clandestini con i compagni del Nord. Nell’immediato dopoguerra vi furono le prime riunioni congiunte, ma Bordiga rifiutò di far parte del partito se fosse rinato nuovamente sulle basi della vecchia Internazionale degenerata. Iniziò quindi a collaborare al periodico “Battaglia Comunista” (1945), organo del neo-costituito Partito Comunista Internazionalista. All’uscita della rivista “Prometeo” (1946), organo teorico dello stesso partito, scrisse sul primo numero un Tracciato d’impostazione che doveva servire da riferimento programmatico. Nel 1949 iniziò a scrivere la serie di 136 articoli “Sul filo del tempo”, tesa a dimostrare la necessaria continuità fra le origini del movimento comunista e i compiti attuali. Sulla base di tale impostazione teorica scrisse una gran mole di articoli e saggi tendenti a dimostrare che l’URSS era da considerarsi un paese capitalista impegnato in un “industrialismo di stato”. Questa posizione lo poneva in irriducibile contrasto con lo stalinismo ed il togliattismo, che sostenevano invece l’idea che in Russia si stesse “costruendo il socialismo in un paese solo”. Dal 1945 partecipò alquanto dall’esterno alla organizzazione del Partito Comunista Internazionalista. Affermò di non voler essere presente ad alcun convegno o congresso per non influenzare con il suo carisma ancora integro lo schieramento dei militanti (disse di non aver problemi a “militare”, come stava facendo, ma non voleva assolutamente “generalare”). Alcuni articoli come Bussole impazzite furono scritti contro la confusione che regnava nel giovane partito, come anche l’abbozzo di tesi Natura funzione e tattica del partito rivoluzionario. Nel 1951 preparò con un certo numero di compagni di partito le Tesi caratteristiche sulle quali si consumò la scissione che diede vita ad un nuovo “Partito Comunista Internazionalista” (“Internazionale” dal 1964). Il nuovo organismo si basava sul “centralismo organico” già rivendicato negli anni ’20, e ora più significativo che mai nel senso di un rifiuto del modello organizzativo della III Internazionale (“centralismo democratico”) a favore di una compagine di lavoro che avesse finalmente la possibilità di realizzarsi. Continuava comunque a denunciare “da sinistra” l’URSS, rimanendo fedele al marxismo e a Lenin, criticando e denunciando lo stalinismo come corollario orientale degli Stati Uniti nella controrivoluzione mondiale. Nel 1964-66 fissò in ulteriori tesi quelle che avrebbero dovuto essere le basi storiche e organizzative del partito rivoluzionario, coadiuvate dall’intenso lavoro di “difesa del programma” e di “restaurazione teorica” iniziato nell’immediato dopoguerra. Nel 1969 fu colpito da una paresi che lo rese semiparalizzato. Ciò non gli impedì di rilasciare una lunga intervista, nel giugno 1970, un mese prima di morire, quasi un testamento politico. Morì il 23 luglio del 1970. Una delle posizioni più acute di Bordiga è sicuramente la sua diagnosi dell’Unione Sovietica come realtà capitalistica: in opposizione ai seguaci di Trotzkij e della teoria del “collettivismo burocratico”, secondo cui l’URSS non poteva essere intesa come una realtà capitalistica perché in essa mancavano del tutto una borghesia imprenditrice, il mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione, Bordiga – scorgendo nel capitalismo, sulle orme dello stesso Marx, non una società governata da un soggetto ma un grande meccanismo anonimo e impersonale. Per sostenere questa tesi, apparentemente poco convincente, scrive centinaia di pagine per spiegare che l’URSS non è mai uscita dal capitalismo, configurandosi essa stessa come una forma di capitalismo mercantile a industria statizzata. L’idea cardinale di Bordiga – semplice ma troppo spesso dimenticata – è che non si può sopprimere il plusvalore senza sopprimere la forma di valore e non si può superare la produzione capitalistica conservandone le categorie economiche. Se dunque dall’URSS non ci si poteva aspettare alcunché, in chi o in che cosa occorreva riporre le speranze? La risposta di Bordiga è semplice: dalla crisi catastrofica del capitalismo – determinata dalle stesse contraddizioni strutturali di cui è intessuto – e dall’insorgenza rivoluzionaria del proletariato, unico Soggetto della storia in senso pieno. Questo modo di pensare – in perfetta sintonia con le tesi della Seconda Internazionale – è stato anche etichettato come un “bolscevismo atemporale” (Costanzo Preve, Ideologia italiana. Saggio sulla storia delle idee marxiste in Italia). Per questa via, l’avvento del Regno di Dio tratteggiato a suo tempo da San Paolo si capovolge in una sobria previsione economica dell’avvento del grande crollo catastrofico del sistema e del grande “risveglio” della classe operaia internazionale. In questo modo, il pensiero di Bordiga assume la forma di un vero e proprio “messianesimo economicistico”. Senza abbracciare l’antifascismo radicale, Bordiga mostra piuttosto come tanto il fascismo quanto l’antifascismo siano posizioni interne alla classe borghese e, pertanto, degne di essere avversate, anche perché distolgono la classe operaia dai suoi veri obiettivi di classe: “l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo”, scrive Bordiga.
IL PRINCIPIO DI INDUZIONE COMPLETA: N+1
“Henry Poincaré, ha potuto mostrare che anche in questa verità si nasconde una convenzione, ossia un arbitrio, alla fine. Già Leibnitz aveva cercato di dimostrare il teorema 2 + 2 = 4. Ma non era che una ‘verificazione’. Tutte le nozioni di aritmetica elementare non sono dimostrabili che ammettendo per buono il ‘principio di ricorrenza’, cioè che se si possono fare date operazioni su n, si potranno fare su n + 1. Occorre inoltre avere definito questo famoso uno in modo che sia proprio quello al principio degli aggettivi numerali, e quando lo affibbio al numero n con quel segno più. Quando poi affibbio tutti quegli uni ad enti concreti, per dati sviluppi e calcoli, devo ritenere che siano tutti identici nelle condizioni reali di ambiente… forse è più facile definire la Divinità che l’unità, di cui ci serviamo mille e mille volte al giorno; ed è in fondo Pacelli che cammina sul sicuro; sul comodo”.
Poincaré doveva piacere non poco a Bordiga perché aveva espresso i suoi stessi concetti a proposito della logica. Aveva ad esempio criticato in modo molto acceso Russel il quale intendeva dimostrare che si può ridurre la matematica a logica. La logica, dice Poincaré, è scienza astratta e formale; può essere utile per sistematizzare la conoscenza a proposito della matematica, ma è assolutamente ininfluente sullo sviluppo della matematica come scienza. L’aritmetica e l’analisi sono scienze induttive e quindi rientrano nel “principio di ricorrenza”, chiamato anche da Poincaré “principio di induzione completa”. Essendo il progresso della matematica induttivo, cioè basandosi sulle conoscenze del tutto nuove che esso stesso provoca nel suo corso, non può essere continuo, per ciò stesso non c’entra con la logica che presuppone sempre il sillogismo se – allora. Solo il modo di ragionare matematico ci permette di compiere il salto qualitativo dal finito all’infinito: una volta che il nostro cervello ha imparato a compiere una certa operazione e la può ripetere più volte con lo stesso risultato, esso è in grado di reiterarla all’infinito, sia materialmente che idealmente. Ma allora questo modo di ragionare si può chiamare assioma, mentre quello di Russel non è che un postulato. Gli assiomi sono dimostrativi, mentre i postulati sono semplici ipotesi. Per dimostrare la propria tesi, Russel interpreta i suoi postulati come assiomi e ciò è sbagliato. Poincaré ritiene che la possibilità di concepire un concetto come quello di “classe di trasformazioni” sia una facoltà a priori del cervello, la manifestazione esteriore di un certo suo modo di funzionare. Per quanto ci sia un po’ di linguaggio kantiano, in questo apriorismo si riconosce la presenza degli invarianti. Sappiamo che Poincaré era “filosoficamente” vicino a Felix Klein e sappiamo che Klein è il padre della teoria degli invarianti. Peano era con entrambi al Congresso di Genova dove si sviluppò la polemica contro Russel nel 1904, Bordiga aveva 15 anni e non si interessava ancora di politica. Ma quando incominciò a studiare il problema dello sviluppo delle forme di produzione attraverso le “catastrofi” rivoluzionarie, doveva avere presente quel tipo di riflessioni. La sua battaglia “giovanile”, che inizia e si conclude nel 1911-12, è già condotta sulla base di una solida teoria. Il quadro teorico della battaglia di sessant’anni non cambierà più: “Per la descrizione del comunismo e del suo avvento non occorre a noi altro materiale di quello predisposto da Marx nel 1858, un secolo addietro, ossia la serie dei modi produttivi che parte dal primitivo comunismo tribale ed è già pervenuta a darci saggi storici maturamente sviluppati del modo moderno: mercato – capitale – salario. Non abbiamo razzi e missili truffaldini da aggiungere a quelle ‘armi convenzionali’ della lotta di classe, in dottrina già ben affilate in quel 1858. Da allora non diciamo che la storia si è fermata, ma che ha continuato a discendere nel pattume della fogna borghese, e da allora come partito, e si adonti chi vuole, sappiamo tutto“. Così inizia un passo del 1958 in cui ci si riferisce alla serie di Marx in cui compaiono gli invarianti storici entro i modi successivi di produzione, possesso, proprietà, proprietà capitalistica ecc. Il concetto di Poincaré sulla convenzionalità delle notazioni simboliche viene utilizzato per una serie finita e non per una ricorrenza infinita; con questo si dimostra che effettivamente l’opportunista trova più fecondo definire la Divinità che non l’unità, dato che introduce per comodo suo delle mezze unità di transizione che non c’entrano con la serie. “Questo nostro centrale teorema contiene lo sbugiardamento di tutte le menzogne revisioniste che circolano. È facile enunciarlo, sempre a fine non di esaurire lo sterminato tema, ma di chiarificarne e rinvigorirne la duramente raggiunta presentazione. Lo diremo, a rabbia dei chiacchieroni ‘a soggetto’, in modo schematico. Se le forme o modi sociali col capitalismo sono state n, in tutto esse sono n + 1. La nostra rivoluzione non è una delle tante, ma è quella di domani; la nostra forma è la prossima forma”. La serie dei modi di produzione non è progressiva all’infinito, 1-2-3-4 ecc. che sarebbe come dire n+1, n+2, n+3, n+4 ecc. Tale serie è tripartita in grandissime epoche dell’umanità che sono: comunismo primitivo; epoca delle società proprietarie; comunismo sviluppato. Applicando gli invarianti alle forme di produzione troviamo che le tre epoche rappresentano degli “insiemi” che sono sovrapponibili solo a coppie: il comunismo primitivo ha in comune con il comunismo sviluppato solo il fatto di non conoscere la proprietà, ma il comunismo sviluppato conosce la produzione di surplus che invece è conosciuta solo dall’epoca intermedia. D’altra parte sembrerebbe che le due prime epoche non abbiano nulla in comune, mentre sono abbinate dialetticamente da Marx per il fatto di rappresentare, insieme, l’intera preistoria umana (“l’avvento del comunismo rappresenta la fine della preistoria umana”). La formulazione che interessa Bordiga è quindi quella che stacca la rivoluzione comunista dalle forme precedenti. Per questo l’insieme delle forme proprietarie e sfruttatrici con il comunismo primitivo, la preistoria umana, è rappresentato unitariamente dal simbolo “n“. Per questo il segno “+” non può che rappresentare la fine della serie (il secondo assioma di Peano afferma che il segno “+” messo dopo un numero produce un numero). Ma nel corso di questo libro abbiamo visto che Marx comprende nel capitalismo sviluppato tutti gli invarianti dei modi di produzione precedenti, quindi n è il modo di produzione che determina tutti gli altri, li contiene. “Il comunismo diverrebbe in teoria la forma n + 2, se comparisse una forma di più che sia già post-capitalismo e non sia ancora comunismo; comunismo con tutti quei precisi caratteri che abbiamo sviscerati partendo dai caratteri differenziali tra il capitalismo che intorno ci appesta e le forme a cui esso è seguito. Se così fosse, non sarebbe giunto un secolo e più fa il momento storico per fondare il sistema invariante della rivoluzione, come dottrina, come partito, come combattimento”. Dire n + 2 significa già, nella nostra notazione simbolica e in realtà, essere anticomunisti. Chiunque infatti sostenga che esiste la possibilità di un trapasso graduale da una forma di produzione all’altra attraverso aggiustamenti delle forme precedenti non è comunista ed è automaticamente schierato contro i grandi avvenimenti storici che preparano il salto qualitativo da un tipo di società all’altro. Se quindi neghiamo la possibilità di una forma n + 1 non comunista è perché neghiamo nel tempo stesso l’aberrazione staliniana che sia socialismo la sopravvivenza di capitale, del salario e lo scambio secondo valore. La Russia staliniana era a tutti gli effetti dentro n e non se ne toglieva solo per il nome che Baffone e tutti i suoi seguaci le davano. E di fronte al nostro schema non se la cavano meglio i trotzkisti che di fronte al fenomeno russo abbandonano n ma chiamano n + 1 l’ibrido del tutto fantastico dello “Stato operaio degenerato”, quella dominazione della burocrazia che non sarebbe più capitalismo e non è ancora socialismo. Peano aveva ragione e Bordiga lo dimostra: con lo schema si sbugiardano i pasticcioni contaballe, perché al di là delle belle parole i grandi nemici staliniani e trotzkisti devono per forza giungere alla formula comune n + 2 per il comunismo. Essendo fallita la rivoluzione in Occidente, la rivoluzione russa ha dovuto abortire i compiti di doppia rivoluzione e limitarsi ad essere una rivoluzione antifeudale n -1. Facciamo un passo necessario. Se chiamiamo N (maiuscolo) l’insieme delle forme successive di produzione fino al capitalismo sviluppato, possiamo dire che la rivoluzione russa è stata una delle n-sime (minuscolo) formazioni sociali determinate da N. Oggi è facile constatarlo guardando al capitalismo esplosivo, crudele e arraffone della Russia contemporanea, vero sottoprodotto di N, ma i meno giovani ricordano perfettamente cosa significava per uno staliniano anni ’50 il paradiso sovietico. Mancando la scienza che sostiene la fede rivoluzionaria, la fede soltanto diventa allucinazione e la professione di “comunismo” assume la stessa natura delle psicosi collettive attorno alle apparizioni della Madonna. Eppure il nostro schema non teme smentite. Applichiamo il principio di ricorrenza: N sia il modo di produzione che determina n formazioni sociali. N è vero per n = 1 (poniamo l’Inghilterra). Se è vero per l’Inghilterra (cioè per 1), è vero per 2 (poniamo la Francia). Quindi è vero per 2. Se è vero per 2, è vero anche per 3. Quindi è vero per 3, e così di seguito finché N coinvolge tutte le forme comunitarie in tutte le aree del mondo e dà luogo a tutte le n forme sociali specifiche. La similitudine esiste solo tra N e N + 1; entrambe sono per la prima volta nella storia degli invarianti alla scala universale. Il passaggio da N a N + 1 è irreversibile: non vi potrà essere ritorno né a N né a N – 1. Con il comunismo, la preistoria dell’umanità è davvvero lasciata alle spalle per sempre. La tragedia dello stalinismo coinvolse anche le file di quei rivoluzionari che stalinisti non erano ma non riuscivano a capire l’importanza dei trapassi storici da un modo di produzione all’altro e guardavano alle rivoluzioni nazionali sottovalutandone l’importanza dato che, dicevano, nella nostra epoca solo la rivoluzione proletaria deve far convergere tutta la nostra attenzione. Lo stalinismo commise la follia di legare le rivoluzioni nazionali dei popoli non bianchi agli interessi imperialistici dello Stato russo e, nella competizione con l’imperialismo americano, la lotta per la libertà, per la democrazia e contro le basi americane divennero lo scopo principale di tutti i partiti “comunisti” del mondo. Bordiga chiamò indifferentismo l’atteggiamento di chi sottovalutava per reazione la lotta “democratica” dei popoli coloniali o ex coloniali. “La stessa follia si ravvisa nel negare carattere di trapasso rivoluzionario alla rivoluzione nazional-liberale dei popoli di colore, per condannarli da un tribunale di fantasia alla immobilità e passività fino a che non possano spiccare lo stalinistico salto da n – 1 ad n + 1 improvvisando dal nulla la lotta di classe tra imprenditori capitalisti e proletari, ovvero facendosi iniettare dall’esterno una volontarista attuazione di socialismo, a cui non si può credere senza passare nel gregge di Stalin. È indiscutibile che fin dall’apparire del modo storico di produzione borghese in vaste parti del mondo, essendo una delle caratteristiche della forma capitalista il passaggio dall’obbiettivo interno, mercato nazionale (che vuol dire indipendenza nazionale, Stato nazionale borghese), all’obbiettivo esterno del mercato mondiale, termine essenziale in Marx, il moto generale si accelera grandemente e gli scarti di tempo nei passaggi tra forme sociali in diverse zone geografiche divengono minori. La rivoluzione borghese del 1848 in Europa, che ebbe alleata la classe operaia rimbalzò in pochi mesi dall’una all’altra delle grandi capitali, e questo è esempio classico del tracciato marxista. Da allora la borghesizzazione e industrializzazione del mondo procede a ritmo invincibile. Quindi quella che abbiamo sempre chiamata doppia rivoluzione, e che ora diremo rapido passaggio da n – 1 ad n, e poi da n ad n + 1, si presenta come un’eventualità storica fortemente probabile, come si era presentata per la Russia. Ma la sua condizione era internazionale, ossia la rivoluzione politica e la trasformazione sociale nei paesi di capitalismo già maturo, come passaggio da capitalismo a socialismo. La dottrina della sinistra ha provato che la rivoluzione russa, mancate e tradite le rivoluzioni occidentali (da n a n + 1) si è dovuta ridurre ad una pura rivoluzione capitalista (da n – 1 ad n). Ma indubbiamente gli effetti del fallimento – più che tradimento di persone – stalinistico sono lì. Non essendo storicamente da attendersi rivoluzioni comuniste vere in Occidente e per ora nemmeno in Russia, in quanto non si vedono partiti organizzati per la presa del potere e sul giusto programma rivoluzionario, gli altri paesi ancora pre-capitalistici non ci possono dare rivoluzioni doppie, come si poteva sperare per la Russia, nel periodo fecondo per l’Europa del primo dopoguerra”.
MARTHA NUSSBAUM
A cura di Fabio Funiciello
L’emozione come criterio valutativo e cognitivo è il tema centrale dell’ultima fase del pensiero di Martha Craven Nussbaum, docente di Ethic and Law presso l’Università di Chicago, autrice eclettica di una già vasta bibliografia. Il pensiero di Nussbaum si articola in diverse fasi, pur mantenendo un’estrema coerenza tra le tematiche affrontate. Esporremo la trattazione filosofica, che si avvale di fonti psicoanalitiche, antropologiche, filosofiche e letterarie, in seno all’emozione come criterio di analisi del reale, sia a livello individuale sia a livello sociale. Vedremo come quest’ultima fase si riallacci perfettamente alle tesi precedentemente teorizzate, come la fragilità del bene, la vulnerabilità umana in rapporto con la fortuna, il recupero del metodo empirico e aristotelico, che porta alla compilazione di una lista di capacità fondamentali da garantire ad ogni essere umano, la centralità della compassione. Il nucleo centrale delle opere etiche di Nussbaum sembra essere verosimilmente la ricerca di un ideale di società liberale e delle possibilità concrete di applicazione dei principi di eguale dignità e libertà di tutti i cittadini. Ciò emerge dall’analisi della natura umana che l’autrice pone come presupposto epistemologico per ogni trattazione etica e politica, analisi che prende le mosse dal pensiero aristotelico per arrivare alle teorie psicologiche contemporanee di Donald Winnicott e politiche di John Rawls e Amartya Sen, quest’ultimo suo stretto collaboratore e ispiratore per ciò che concerne l’approccio delle capacità. Da Aristotele coglie il tema dell’eudaimonia, la prosperità umana, come nucleo della ricerca e della capacità cognitiva umana; le emozioni, infatti, informano l’individuo sulla struttura del mondo proprio in base alle valutazioni emotive e, quindi, ai propri progetti e aspettative, cioè alla propria idea di eudaimonia. Esiste, cioè, un’intelligenza delle emozioni, ovvero, l’intelligenza è profondamente connessa all’emotività, senza la quale, risulta amputata. L’ideale della razionalità come sguardo distante sul mondo è fuorviante ed erronea, sorge dal tentativo, costante nella storia filosofica, sociale e umana, di trascendere l’umanità. Questo tentativo è comprensibile alla luce di un’analisi approfondita dello sviluppo emotivo negli esseri umani, e dalla constatazione della natura vulnerabile e mortale dell’umanità stessa. L’emotività è costantemente attraversata, nell’età adulta, da pulsioni infantili di narcisismo e onnipotenza, che rimandano al mito dell’“età dell’oro”, luogo e tempo ove non sussiste alcuno stato di sofferenza, di bisogno. Tali pulsioni, per quanto fondamentali per lo sviluppo emotivo individuale, sono pericolose quando si estrinsecano nelle pratiche sociali, sono alla base della stigmatizzazione, ovvero della discriminazione, delle minoranze, si esprimono nell’anti-socialità. Ma vi sono emozioni creative che possono fondare un’etica ragionevole, l’etica della pari dignità, come la compassione e la gratitudine, ma anche la rabbia e l’indignazione. Sono emozioni che, da proto-etiche al momento della loro genesi connessa alle crisi di ambivalenza infantili, possono svilupparsi adeguatamente e formare una concezione etica, vicina alla comprensione della natura umana. Infatti, il provare emozioni è strettamente connesso con l’accettazione della propria vulnerabilità e mortalità, nel caso dell’emozione del lutto, della compassione, dell’amore e della rabbia, o la non accettazione di tali caratteristiche, come nella vergogna e nel disgusto; ciò che è costante, è la realtà di tale vulnerabilità e mortalità, e la realtà problematica del rapporto degli individui con queste caratteristiche della natura umana. In virtù dell’onnipresenza dell’emozione nella vita e nell’intelligenza individuale, l’emozione-valutazione si trova ad essere implicata nella vita e nella pratica pubblica in diversi modi, e Nussbaum tenta di indicare la strada più ragionevole per profittare di tale condizione ai fini della promozione della dignità umana e della libertà, a primo motore e valore di ogni società che voglia definirsi liberale — il termine liberal, ha nell’accezione americana una carica progressista e riformista notevole, non esplicabile dal termine italiano “liberale”; ai fini di una maggiore comprensione del testo, è bene chiarire che userò il termine liberale nell’accezione americana —. Perciò l’autrice passa all’analisi di emozioni specifiche, quali la compassione, come presupposto per politiche di tutela dei diritti dei cittadini, il disgusto e la vergogna, come ostacoli e limiti alla prima. Vi è ad oggi un acceso dibattito interno al liberalismo politico che si trova, in alcune occasioni, a colludere con tesi comunitariste e normative, e che riguarda proprio la possibilità di utilizzare la vergogna a fini sociali, attraverso le shame penalties — terminologia che sarà tradotta, in alcuni punti del testo, con “pene volte all’esposizione alla vergogna” —, che Nussbaum considera antitetiche rispetto agli ideali del liberalismo stesso. Il disgusto è un’emozione particolarmente problematica, vedremo che l’autrice ritiene accettabile, nella sfera del diritto, un richiamo al disgusto come danno inflitto a persone non consenzienti — il principio del danno a terzi come criterio giuridico, è ripreso da On liberty di John Stuart Mill, filosofo utilitarista —, ma non ne accetta l’appello in genere, perché fonte di aggressività verso la propria, in un primo momento, e altrui mortalità e umanità, tramite una proiezione di natura quasi “magica” delle caratteristiche ritenute disgustose su minoranze sociali. Tra le minoranze più stigmatizzate, nella società americana in particolare, troviamo gli afroamericani e i diversi gruppi etnici, gli omosessuali e le lesbiche, i disabili e, in generale, tutti gli individui che non rientrano nella categoria arbitraria di “normalità”. La presunta imparzialità di tale categoria è facilmente confutabile in virtù della sua relazione con le caratteristiche fisiche e psichiche del gruppo dominante di una società, caratteristiche che si trovano difficilmente, in realtà, nella maggioranza degli individui. La distinzione tra normale e deviante non deve sussistere in una società liberale, afferma Nussbaum, soprattutto alla luce di un’analisi delle radici emozionali di tale distinzione, cioè la vergogna e il disgusto, e per le conseguenze, nei termini del “panico morale”, conservatrici, stigmatizzanti e repressive sugli individui.
1. Eudaimonia, radici e sviluppo della filosofia di Martha Nussbaum.
Aristotele è per Nussbaum il filosofo guida per una teoria etica universale basata sul concetto di virtù e per l’affermazione della filosofia pratica, quindi di un’etica pratica connessa alla praxis politica e alla libertà umana, nell’ambito della ricerca contemporanea. Critica verso un liberalismo politico che esclude una concezione spessa del bene di ispirazione aristotelica, anteponendole la concezione del bene di ogni singolo individuo ai fini della costruzione di società pluralistiche che si basino sull’uguaglianza dei consociati, ed allo stesso tempo verso la tradizione utilitaristica e verso l’approccio kantiano di Rawls, la prima colpevole di considerare il bene come una variabile dipendente dei desideri e preferenze degli individui, il secondo, pur elaborando una teoria sottile del bene, per la tendenza a distinguere la sfera morale da quella empirica, l’autrice elabora un’etica essenzialista volta alla prassi politica, al fine di scongiurare il diffondersi di un relativismo etico che considera pericoloso e dilagante. La prospettiva di Nussbaum è quella di “un filosofo liberale progressista convinto che il rispetto delle persone richiede un rispetto notevole ed una deferenza nei confronti delle loro rispettive concezioni di ciò che ha valore nella vita” e che ritiene, allo stesso tempo, che nella vita esistano valori universali che vanno promossi e, ove non sussistano, insegnati e tutelati. Ciò che più caratterizza l’approccio aristotelico all’etica pratica, è la priorità che assume la concezione del bene umano. John Rawls nell’opera A Theory of Justice sostiene che prima di discutere i principi di giustizia sia necessario proporre una thin theory of the good, teoria ristretta a pochi elementi da lui considerati essenziali per ogni essere umano, tra i quali nomina reddito e ricchezza. Secondo Nussbaum, Rawls considera questi beni come fini e non come mezzi, a differenza dell’approccio aristotelico che non considera determinati beni importanti in sé, ma si concentra sulla “funzione” che quei beni possono promuovere. Nussbaum è in accordo con l’idea che i cittadini debbano essere trattati come individui liberi ed eguali, idea promossa dal liberalismo, ma ritiene che libertà e uguaglianza siano raggiungibili se e solo se si forniscono agli individui gli strumenti necessari per “l’esercizio della facoltà di scegliere e della ragion pratica”. Rispetto all’approccio utilitarista che insiste sull’importanza dei desideri, o meglio, delle preferenze individuali nell’individuazione della concezione del bene, Nussbaum risponde, sulle orme del Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che la preferenza può essere manipolata e arbitraria: chi vive in una condizione di alienazione, chi vive senza la coscienza della propria intrinseca dignità, può non esprimere preferenze appropriate rispetto alla sua reale condizione. L’autrice fonda un’etica che tenta di essere realmente pluralista e attenta alla realtà, un’etica empirica, che si fondi sull’idea di natura umana universale, e che trova il suo antecedente nell’etica eudaimonistica aristotelica, comunemente definita come dottrina morale che ripone il bene nella felicità e la felicità nella vita virtuosa, intesa da Nussbaum come precetto etico in difesa di specificità e oggettività del bene umano in contrasto con la difesa preconcetta di tradizioni irrispettose dei diritti umani. Il termine greco eudaimonia è stato tradotto dalla tradizione utilitaristica e kantiana come “felicità” in un’accezione erronea, per la quale ogni posizione rivolta verso il bene supremo viene considerata come rivolta ad un bene psichico, come contentezza o stato di piacere, mentre nella tradizione greca e in particolare quella aristotelica il termine è intimamente riferito all’attività. “Prosperità umana” è la traduzione che Nussbaum accetta, perché coglie il senso aristotelico di eudaimonia, come attività in accordo con le virtù-eccellenze e in stretto rapporto con la passività di fronte alla fortuna e alla fragilità dell’uomo rispetto ai beni esterni. La vita buona è ostacolata dall’assenza di mezzi d’aiuto, infatti “è impossibile, o non facile, compiere azioni belle se si è sprovvisti di risorse”, e si concretizza nell’agire secondo virtù proprio a fronte delle mancanze e della vulnerabilità della vita umana. Il relativismo etico si fonda, secondo Nussbaum, sulla scomparsa di un’idea di natura umana che lascia spazio ad idee confuse riguardo al bene o alla vita buona. Questo approccio rischia di fossilizzare la nozione di etica e di accettare indirettamente pratiche razziste, sessuofobe ben saldate in tradizioni locali. Un esempio per tutti potrebbe essere l’obbligo per la famiglia di una donna indiana di pagare alla famiglia del futuro sposo la dote, pratica tradizionale dell’India, causa di ricatti, molestie e omicidi verso donne inermi. È forse necessaria un’idea universale di bene con la quale contrastare comportamenti di questo genere? Non si rischia di universalizzare concetti o precetti di un gruppo dominante senza tenere conto dell’idea di bene di ogni singola persona? Per Nussbaum l’approccio aristotelico può aiutare a risolvere queste obiezioni. L’etica delle virtù poggia ben salda sul valore del bene umano, la cui universalità è giustificabile alla luce di caratteristiche umane che sottendono alle specificazioni culturali locali e tradizionali. Aristotele si dimostra critico verso le forme di conservazione dell’esistente, soprattutto nel II libro della Politica (II 8, 1269a 4-13), ci ricorda Nussbaum, quando afferma che le “leggi dovrebbero essere correggibili, non fissate, in virtù del fatto che un progresso verso una maggior appropriatezza nelle nostre concezioni etiche esiste, come anche nelle arti e nelle scienze”, e perciò fossilizzare l’esistente, mantenendo le stesse leggi, significherebbe fermare il progresso etico. In Etica Nicomachea, nei libri II – V, l’ultimo interamente dedicato alla giustizia, Aristotele ci offre un’ampia analisi delle virtù etiche, definite come le attività più eccellenti dell’anima razionale, quelle che particolarmente interessano alla trattazione di Nussabum sulla natura umana. Un’azione può essere cattiva o per difetto o per eccesso ed il bene coincide in ogni caso, in ogni sfera d’esperienza, con la “via di mezzo” (mesótes). Questo vale anche per il comportamento morale: “quindi la virtù è uno stato abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente” (Etica Nicomachea, II 6, 1107a 1-3). A questo punto della trattazione, Aristotele tratta alcune virtù specifiche che nel libro II dell’Etica Eudemia vengono presentate attraverso uno schema, una lista. Nussbaum riprende questa lista che comprende virtù quali coraggio, moderazione, giustizia, generosità, considerando primariamente il modo in cui Aristotele articola il suo approccio a tali virtù, vale a dire “partendo dalla descrizione di sfere universali di esperienza e scelta, e introducendo la virtù come denominazione (non ancora definita) di ciò che è appropriato scegliere in quell’area di esperienza”. In effetti non tutte le virtù da lui descritte hanno un nome, a dimostrazione del fatto che sono le esperienze che definiscono e specificano il reale significato di virtù. Solo le “laws should be revisable, not fixed, by pointing to evidence that there is progress toward greater correctness in our ethical conceptions, as also in the arts and sciences”. Ciò che Nussbaum vuole affermare è che Aristotele propone un’interessante connessione tra le virtù, la ricerca di un’etica oggettiva, e la critica alle norme locali esistenti, teoria da tenere in considerazione nelle analisi filosofiche – sfera etica -, socio-politiche – sfera della praxis -, economiche – riguardo al principio distributivo dei beni – contemporanee. Le virtù, dunque, esistono in riferimento a sfere evenemenziali a fronte delle quali è necessario che l’individuo compia delle scelte. Ci sono esperienze che accomunano tutta l’umanità, perché la vita umana è in costante rapporto con i beni esterni e la loro fragilità. Nella lista di Aristotele troviamo tra le sfere esperienziali la paura per danni alla propria persona o ai propri cari, la paura della morte, gli appetiti fisici e la loro soddisfazione le cui virtù corrispondenti, attraverso la scelta del “giusto mezzo”, sarebbero coraggio e moderazione; la giustizia è la virtù relativa alla distribuzione di risorse limitate, la generosità alla gestione della proprietà privata. Insomma i riferimenti ai beni esterni e il riconoscimento del ruolo attivo che giocano nella determinazione delle virtù umane dimostrano un’analisi attenta della realtà della vita e la volontà di affrontarla con onestà intellettuale, caratteristiche di ricerca che differenziano il filosofo dalla tradizione filosofica greca che indica, invece, nell’eccellenza umana il momento di trascendimento dell’umanità stessa, come l’ascetismo platonico e stoico. La figura tradizionale del saggio infatti è quella di chi slega la propria esistenza dai beni esterni e caduchi, evitando la propria esposizione alla fortuna, vulnerabilità della vita prettamente umana, e vivendo in piena virtù, nell’accezione praticamente contraria a quella di Aristotele, il quale umanizza appieno il concetto stesso di virtù. L’eccellenza umana è quindi per Nussbaum strettamente legata a beni esterni, incontrollabili dalla ragione, ed è grazie alla fragilità e alla vulnerabilità che può essere definita eccellenza. Aristotele afferma che solo gli uomini, a differenza di animali e dei, sono in grado di formare concetti etici e vivere secondo virtù, perché i primi non possono formare concetti e i secondi mancano di esperienza del limite e della finitezza: l’esperienza della vulnerabilità è una caratteristica non sufficiente ma necessaria dell’umanità. Da Platone in poi vi è stato un tentativo nella filosofia volto a salvare l’uomo dalla caducità, a permettergli di trascendere la propria umanità con la forza della ragione, definendolo animale razionale, a proporre il controllo delle passioni e a negare l’importanza dei beni esterni . È grazie ad Aristotele che la dimensione umana ritrova la sua specificazione nel rapporto con i beni esterni, attraverso la rivalutazione dell’eccellenza e della virtù proprio alla luce della loro concreta determinazione nel vissuto. La natura umana si caratterizza dunque dal confronto con determinate esperienze, si costruisce a partire dalla finitezza e dal rapporto problematico con la fragilità dei beni esterni; è importante comprendere che non si nega la varietà infinita dei modi di affrontare l’esperienza, soggettivamente ma anche culturalmente determinati, ma si afferma l’universalità della presenza di sfere evenemenziali specificatamente umane nella vita di ognuno. Nella sua thick vague theory of the good, Nussbaum, riprendendo la lista aristotelica delle virtù, individua alcuni elementi costitutivi dell’essere umano. La mortalità è un fatto con cui ogni essere umano si trova a fare i conti e, indipendentemente dalle credenze che si hanno su di essa, esiste. Ogni uomo è provvisto di un corpo che impone dei limiti, necessità, appetiti naturali. Nussbaum chiarisce in più scritti la natura astratta di questa teoria, a chiarire il suo essere costantemente “aperta” a sviluppi e cambiamenti, spessa nel senso che si pone l’obiettivo di individuare una vasta gamma di beni veramente essenziali per una reale prosperità umana.
JAN PATOČKA
“ La mia propria vita in filosofia non ha dato impulso ad alcun nuovo pensiero rilevante, ma si è mossa in tanti ambienti della filosofia del nostro secolo, fra tante interessanti ed importanti personalità e tendenze che, forse, vale la pena di raccontarla”. (Dalla conferenza Cosa sono i Cechi?, tenuta alla radio cecoslovacca nel febbraio del 1967)
VITA E OPERE
La giovinezza
Terzo di quattro figli, Jan Patočka nasce a Turnov, in Boemia, in una modesta ma colta famiglia il 1 giugno del 1907. La madre Františka era stata cantante d’opera e instillerà nel piccolo Jan l’amore per l’arte e la musica. Il padre Josef era un professore di scuola media dalla solida formazione filologico-classica, attento e sensibile alle novità del dibattito letterario ed estetico, nonché pedagogo seguace delle dottrine del filosofo Otokar Hostinský, sostenitore, tra Otto e Novecento, della necessità di una concezione dell’estetica del tutto autonoma da ogni fondazione filosofica a priori: qui, con ogni probabilità, trae origine l’interesse per il mondo dell’arte che caratterizzerà successivamente l’attività di Patočka. Le condizioni economiche della famiglia sono assai precarie e peggiorano ulteriormente con la malattia del capo famiglia e lo scoppio della Grande Guerra. Alla fine del conflitto, Josef Patočka insegna all’Istituto Comenio di Praga, da cui, per ragioni di salute, viene presto pensionato. Nel 1924, diviene consigliere regionale e ha modo di frequentare molti dei più autorevoli protagonisti della scena politica della neonata Repubblica Cecoslovacca, che, spesso, sono ospiti a casa Patočka; fra di loro, spicca soprattutto František Drtina (1861- 1925), filosofo, pedagogo e politico, esponente di primo piano della cerchia del Presidente-filosofo Tomáš Garrigue Masaryk. Dopo la maturità, soprattutto per l’influenza del padre, Jan si iscrive alla Università Carlo di Praga per seguire i corsi di filologia romanza e di slavistica. Ben presto, si manifesta in lui anche l’interesse per la filosofia, per la quale il padre non aveva in verità una particolare predilezione, e che, invece, come ricorderà successivamente Patočka, rappresenta agli occhi della sua generazione “la ricerca di un centro spirituale per la vita” che si sarebbe poi intensificata “nell’incontro con le correnti più vive del pensiero europeo”. Tuttavia, le aspettative per così dire “esistenziali” riposte da Patočka nella filosofia vengono ad essere a tutta prima deluse: l’ambiente filosofico ceco è infatti caratterizzato da un declinante positivismo, il cui esponente principale è l’anziano František Krejčí (1858-1934), del quale Patočka segue alcune lezioni e seminari, riportando una forte delusione che impronterà la sua successiva, caratteristica avversione per il positivismo e lo scientismo: “Le diatribe filosofiche della nostra giovinezza si concludevano tutte attorno al positivismo e al suo superamento”. Ma anche l’antipositivismo del cosiddetto “idealismo ceco” (che annoverava personaggi come Karel Vorovka, Vladimír Hoppe, František Pelikán) non offriva, stando ai ricordi di Patočka, alcuna alternativa praticabile al bisogno di rinnovamento filosofico della gioventù, proponendo, tutt’al più, soluzioni nebulose che inclinavano “alla mistica e alla teosofia”. Né poteva ritenersi soddisfacente la proposta della filosofia neotomista ceca, rappresentata allora da un autore come Josef Kratochvil, lapidariamente bollata come “filosoficamente anemica”, nella sua vana aspirazione di “superare il positivismo mediante il teismo o quanto meno l’eticismo”. Maggior soddisfazione, e stimolo decisivo per i suoi studi futuri, Patočka lo troverà nel suo professore di filosofia Jan Blahoslav Kozák (1889- 1974), importante teologo protestante e successore di Drtina alla Cattedra di filosofia, durante le cui lezioni, oltre ad una vasta panoramica della filosofia europea contemporanea, può per la prima volta accedere ai principali temi delle Ideen di Husserl. L’opera di Kozák, riscuote immediatamente l’interesse del giovane Patočka che vi rinviene due fondamentali motivi che rappresenteranno un costante tema di riflessione in tutto il corso della sua opera successiva. Sul piano teologico, Dio rappresenta per Kozák la questione filosofica della vigenza ultima, della indisponibile validità dei valori e dell’incondizionatezza dell’esigenza etica dell’uomo: così, più che il Dio che si rivela, Cristo è per Kozák l’uomo che arriva a morire per un ideale etico supremo (cfr. l’opera Gesù nella fede e nella scepsi, del 1929), mentre, conformemente alla tradizione liberale protestante e alla filosofia di Masaryk , la storia è il risultato di un “sinergismo” in cui l’uomo, agendo liberamente, è chiamato a collaborare con Dio nella realizzazione della Sua opera nel mondo e nell’instaurazione di un ordine etico provvisto di una incondizionata validità. Fedele alla lezione di Masaryk, la filosofia di Kozák riprende la polarità stabilità dal Presidentefilosofo tra il piano della positività e della esattezza dei fatti e quello dell’appello al senso ultimo dei valori morali, così che risulta impossibile fondare l’incondizionatezza della morale sull’ordine eticamente neutro della natura, che è invece rivelata dal pathos del soggetto chiamato alla responsabilità e alla verità. Sul piano teoretico, Kozák è il primo filosofo ceco a recepire l’opera di Husserl (e di Scheler) che applica alla sua riflessione con una marcata curvatura etica e filosofico-religiosa: la vigenza dei valori va ancorata alla coscienza trascendentale, che è di natura intersoggettiva e rappresenta il luogo in cui, come il daimonion socratico, l’imperativo categorico si impone all’uomo con irrefutabile evidenza. In Kozák, il giovane Jan può dunque trovare la via di un superamento del positivismo, ancora imperante nel pensiero ceco della Prima Repubblica, che poggia finalmente su una rinnovata acribia teoretica, nonché una prima soddisfacente formulazione di quell’imperativo a perseguire una “vita nella verità” che, per il Patočka maturo, costituirà il nocciolo della stessa idea filosofica di Europa.
Parigi
Alla conclusione dei suoi studi a Praga, nel 1929, Patočka si reca in Francia per un soggiorno di studio di un anno che si svolgerà alla École des Hautes Etudes ed al Collège de France. La fattiva intensità dello studio accademico francese, basato principalmente su seminari e letture di testi, lo entusiasma: a Parigi, racconta, le lezioni accademiche “erano solo supplementi da parata per un pubblico più vasto e la cosa più importante era la lettura dei testi”. Per tutta la sua vita, dagli esordi dell’attività accademica ai mitici bytové semináøe ( i seminari privati tenuti in casa sua, che sono all’origine di alcuni dei suoi testi più importanti, fra cui Platone e l’Europa), Patočka mostrerà sempre una predilezione per il symphilosophein, per il lavoro seminariale fatto in comune. A Parigi, Patočka segue le lezioni di Alexandre Koyré, in particolare un seminario su Jan Hus al quale, come ricorderà in seguito, “oltre al relatore partecipavamo solo lo storico slovacco Varsík ed io”. Koyré, che aveva iniziato la sua attività filosofica in Germania come membro della scuola di Monaco-Gottinga, a stretto contatto con il magistero di Husserl, familiarizza Patočka con il pensiero moderno (Descartes e la Scolastica) ed inizia ad introdurlo ai concetti fondamentali della fenomenologia. Grazie a Koyré avviene il primo incontro fra il giovane studioso ceco e il settantenne Husserl che proprio in quell’anno tiene alla Sorbonne quelle “lezioni parigine” destinate a passare alla storia della filosofia come Meditazioni cartesiane. Ad una di esse, in cui fra gli uditori ci sono anche Gabriel Marcel, Emmanuel Lévinas e Lev Šestov, Patočka ascolta per la prima volta Husserl: “Un giorno, al corso di logica, il Professor Lalande disse che dovevamo finire prima poiché nella nostra aula vi sarebbe stata una lezione del Professor Husserl di Friburgo; io naturalmente rimasi a sedere ed attesi la riunione della Società francese di filosofia, dove per la prima volta vidi l’uomo di cui non molto tempo dopo l’amico Tardy scrisse che era il più grande filosofo vivente. In patria, avevo sentito parlare per la prima volta di Husserl da Vorovka, poi se ne era parlato nel seminario di Kozák, avevo avuto fra le mani le sue Ideen ed alla fine ci avevo anche fatto una relazione senza riuscire a tirarvi fuori molto; ma per me allora era già un nome e le lezioni mi interessarono profondamente; principalmente di quella meditazione mi affascinava il fatto che fosse del tutto ignara che si svolgeva di fronte agli occhi del pubblico, come se il filosofo sedesse nella stanza di Cartesio e sviluppasse il suo tema più avanti, molto più avanti.” La presentazione di Patočka a Husserl avviene però qualche tempo più tardi, in occasione della discussione della dissertazione di abilitazione di Koyré, cui presenzia anche Husserl, suo maestro. Nei suoi ricordi, il giovane filosofo ceco così rammenta l’impressione avuta da quell’incontro: “Accompagnato dalla moglie Malvina e da alcuni conoscenti (…) dava un’impressione di grande vigore (…) era impossibile dimenticare l’eccezionale dignità del suo portamento e dei suoi movimenti”. Dall’esperienza francese, Patočka ritornerà straordinariamente arricchito, sia per ciò che riguarda l’ampliamento a scala continentale dei suoi riferimenti culturali, sia, soprattutto – come affermerà in seguito – per la acquisita “consapevolezza che non bastava semplicemente ‘superare il positivismo’, bensì che era necessario trovare (scil.: per la filosofia ceca, NdA) un collegamento ai grandi temi della filosofia classica, che si trattava di una ripresa (in senso kierkegaardiano) del tentativo filosofico di porre le domande ultime – e la coscienza che questa ripresa, nella fenomenologia e nelle correnti da essa influenzate, era già pienamente in corso, che la filosofia rinnovava la sua pretesa di essere scientia generalis a partire dai suoi fondamenti, e non più ancilla et debitor scientiarum specialium”. Risultato degli studi parigini, è il primo lavoro di una certa importanza di Patočka, la dissertazione Pojem evidence a jeho význam pro noetiku (Il concetto di evidenza e il suo significato per la noetica, 1931) in cui rifiuta la nozione tradizionale di verità e di evidenza (affermata da razionalismo ed empirismo), sostenendo una tesi già fenomenologicamente matura: “Da ragione potrebbe fungere soltanto l’essente che si manifestasse, che si desse a conoscere da solo. Pertanto si darebbe adeguazione laddove l’essere si manifestasse nella sua essenza. Questo mostrarsi dell’essente è per me l’evidenza. E può essere essente per me solo per come e quanto mi si manifesta. Così, dall’essere esterno si origina inevitabilmente l’essere ‘interno’; il senso dell’esistenza dell’essente coincide per me con l’essere”. Anche se in seguito il pensiero di Patočka evidenzierà sempre di più i limiti “idealistici” del pensiero husserliano, in questo lavoro viene posto per la prima volta un tema che il filosofo ceco continuerà ad approfondire in tutto il corso della sua opera: l’importanza per la filosofia contemporanea dell’aspirazione husserliana ad un “rinnovamento” della filosofia come “scienza rigorosa”, in grado di venire a capo del relativismo, dell’ideologia e del nichilismo novecenteschi. Dopo la discussione di questa dissertazione, nel giugno del 1931, Patočka lavora come assistente di Kozák per pochi mesi, quindi, dal 1932, insegna al Ginnasio di Kutná Hora. Dopo aver ottenuto una borsa della Humboldt- Stiftung, parte nuovamente alla volta della Germania, con prima destinazione Berlino.
Berlino e Friburgo
A Berlino Patočka può ampliare ulteriormente i suoi orizzonti culturali: segue le lezioni ed i seminari di Nicolai Hartmann, di Werner Jaeger e di Jacob Klein, che era stato allievo di Heidegger a Marburgo, il quale, oltre a perfezionarlo nella conoscenza della filosofia di Platone ed Aristotele, comincia ad introdurlo all’opera del Maestro, che, come è noto, ha in quegli anni ottenuto la Cattedra all’Università di Friburgo, di cui è anche diventato Rettore. Nella capitale tedesca, ha inoltre modo di vedere il nascere del nazismo: delle adunate di quegli anni, ricorderà di aver notato l’inquietante “senso di speranza, rivolta in modo terribilmente ostile contro tutto ciò di cui noi abbiamo vissuto storicamente e politicamente”, da cui sono agitate masse enormi di persone. Dal canto suo, Patočka medita di recarsi a Friburgo per poter studiare con Husserl, che è Professore emerito ed ancora attivo in quella Università. Dalla Humboldt, cui presenta domanda, riceve una presentazione che gli permette rivolgersi direttamente a Husserl con una istanza che, dato il numero delle richieste che arrivano all’anziano luminare da tutto il mondo, ha scarse probabilità di essere accolta. Husserl, invece, risponde con grande cordialità il 12 maggio del 1933, dichiarandosi disposto ad accogliere lo studioso ceco, per affidarlo al suo Assistente Dr. Eugen Fink, che è quasi suo coetaneo e che rimarrà uno degli amici più stretti di Patočka fino alla fine. Diversi storici ed interpreti sono inclini a ricondurre l’accoglienza “a braccia aperte” che Patočka racconterà di aver ricevuto a Friburgo da Husserl, oltre alla stima che il fondatore della fenomenologia nutre per le doti del giovane, anche al fatto che quest’ultimo fosse un suo “paesano”: Husserl, infatti, era nato a Prostějov (la tedesca Prossnitz) in Moravia, era stato compagno di studi di Masaryk a Lipsia e a Vienna, alla scuola di Franz Brentano, e, fortemente impressionato dagli eventi che si verificano dall’inizio degli anni ’30 nei Sudeti a causa delle provocazioni della minoranza tedesca sobillata da Hitler, sta meditando proprio in questo periodo di fare ritorno “alla sua vecchia patria”. Nei suoi ricordi, Patočka si mostra assai orgoglioso, fra tanti “assistenti” delle più diverse parti del mondo, d’essere il primo collaboratore “paesano” di Husserl. L’anziano e preoccupato Husserl, però, non intrattiene più rapporti strettissimi coi suoi allievi più promettenti (E. Stein, R, Ingarden, Heidegger), e di alcuni di essi diffida apertamente: con Patočka avrà modo di parlare soprattutto durante i the pomeridiani a cui lo invita, mentre per Patočka il canale fondamentale per restare in contatto con Husserl è l’originale e intraprendente Fink, che gli mette a disposizione tutti i manoscritti ancora inediti del Maestro, su cui discutono animatamente, talvolta alla sua presenza. Tuttavia, l’astro nascente di Heidegger, la cui fama è in costante ascesa presso la popolazione studentesca, viene momentaneamente a turbare i rapporti fra Patočka e Husserl. Quest’ultimo, infatti, diffida Patočka dalla tentazione di combinare – come avverrà più tardi – la fenomenologia con la Existenzphilosophie di Essere e Tempo e lo invita apertamente a non seguire le lezioni dell’ex-allievo, fino a porlo di fronte ad un esplicito aut-aut: le lezioni di Heidegger o la sua frequentazione. L’irritazione di Husserl si placa solo allorché Patočka lo rassicura di voler diligentemente terminare il suo studio con lui per tornarsene in patria con una chiara reputazione scientifica. Tuttavia, anche per lo studioso ceco è difficile resistere al fascino che la personalità di Heidegger diffonde, soprattutto per l’influenza di Fink, che continuamente lo invita a fecondi e stimolanti confronti fra le idee di Husserl e quelle di Heidegger, in lunghi conversari da tenere accuratamente celati al vecchio maestro. Ma Heidegger, quell’anno, lavora poco come didatta : Patočka ricorda che ”teneva poche lezioni e seminari, in compenso faceva molto il Rettore e le manifestazioni; fu il suo anno peggiore”. Tuttavia, ha modo di ascoltare alcune lezioni heideggeriane su Hegel e di partecipare a un seminario sul concetto di scienza; ne riporta un’impressione fortissima, dalla quale ricorderà in seguito d’essere stato colpito “ogni volta che andav[a] alle lezioni dello stupefacente genio demoniaco, una delle cui magie consisteva nell’essere il meraviglioso professor Faust, che era contemporaneamente il proprio Wagner”.
Il “Circolo filosofico di Praga”
Al ritorno dalla Germania, Patočka continua la sua formazione filosofico-fenomenologica a Praga alla scuola di Ludwig Landgrebe, ex assistente di Husserl, e partecipa con assiduità alle riunioni del neonato Cercle philosophique de Prague pour les recherches de l’entendement humain, di cui diviene segretario. Il “Circolo filosofico” nasce nel 1934 per iniziativa del filosofo Emil Utitz, discepolo di Brentano, e di Jan Blahoslav Kozák, professore all’Università ceca e maestro di Patočka, per affiancare il già famoso “Circolo linguistico”, nel quale, grazie al magistero di Roman Jakobson, le Ricerche logiche di Husserl avevano avuto una enorme risonanza. L’occasione è data dall’ottavo Congresso mondiale di filosofia che si tiene dal 2 al 7 settembre a Praga, soprattutto grazie all’impegno di Emanuel Rádl (1873-1942) , un significativo filosofo ceco assai apprezzato dal Patočka maturo, che ne vuol fare una tribuna di altissimo livello scientifico dedicata alla crisi della democrazia che investe l’Europa degli anni ’30. Prima ancora di sostenere la sua abilitazione, Patočka ottiene il consenso di Radl ad invitare Husserl. Anche stavolta, la risposta di Husserl è pronta e cordiale: sarà Patočka a rivedere l’intervento (“sul ruolo della filosofia nella nostra epoca”) che Husserl invierà e a leggerlo personalmente alla tribuna del Congresso. In questi mesi, Utitz si attiva anche per corrispondere alle crescenti preoccupazioni di Husserl relative alla situazione politica in Germania e al destino della sua causa culturale e scientifica. Il progetto è quello di trascrivere integralmente gli stenogrammi degli inediti husserliani: si tratta dell’idea originaria dell’”archivio Husserl”, fondato ufficialmente più tardi da Herman Leo Van Breda, che ha la sua prima sede proprio a Praga, in quanto capitale di quella “vecchia Patria” dalla quale l’anziano filosofo si sente sempre più attratto. Mentre, infatti, il nazismo ha conseguito il completo dominio della Germania, nel Cercle di Praga lavorano fianco a fianco filosofi e scienziati tedeschi, cechi ed ebrei in una mirabile sintesi culturale favorita dall’atmosfera democratica della Prima Repubblica. Per la realizzazione dell’Archivio – che, com’è noto, avrà poi sede a Lovanio – il Parlamento ceco stanzierà addirittura un significativo finanziamento. In questa atmosfera, matura la decisione di invitare Husserl a tenere delle conferenze a Praga. Latore dell’invito è ancora una volta Patočka, che si reca a Friburgo nel Natale del ’34, accolto calorosamente dal Maestro, il quale gli parla a lungo dei suoi anni di apprendistato e di amicizia trascorsi con Masaryk in Germania, e la notte di Natale gli regala addirittura il leggio che il futuro Presidente della Repubblica gli aveva donato per ricordo alla sua partenza da Lipsia. Colpito dalla simbolicità di quel gesto, Patočka scriverà nelle Memorie di Husserl: “Diventai così erede di una grande ‘tradizione’ di cui non mi sentii mai sufficientemente degno”. Apprendendo, inoltre, che Patočka non ha mai avuto l’occasione di conoscere personalmente il Presidente, gli consegna una stupenda lettera da recapitargli personalmente, nella quale, dopo aver tessuto le lodi della “non comune dote filosofica” del giovane “che un giorno renderà onore alla sua nazione”, augura al suo ex compagno di studi: “Possa compiersi pienamente il suo antico ideale di un esserci nazionale etico, al cui vertice la Provvidenza ha posto Lei, di cui ha scelto il suo bel genio: un unico popolo, unito dall’amore per la patria comune e dall’unità della storia patria – un popolo non diviso dalle diverse lingue, ma diversamente arricchito e accresciuto dalla partecipazione diversificata alle eccezionali potenzialità linguistiche e culturali.” Masaryk, però, si ammalerà gravemente poco dopo e non sarà più possibile alcuna visita. Husserl, invece, onorerà l’invito nel maggio del 1935, per tenere a Praga delle lezioni sul “mondo della vita”, uno dei temi fondamentali di quella che sarà la sua ultima opera, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Patočka, entusiasta, ricorda che nell’esposizione husserliana “ si vide sorgere, dietro la crisi della scienza che, malgrado tutti i successi si stava aprendo, la crisi della ragione e dell’umanità, si levarono gli occhi su una crisi secolare e crescente dell’Illuminismo, che si doveva superare non attraverso un allontanamento dalla ragione, bensì tramite il conseguimento di uno stadio della ragione e della scienza ancora imprevisto. Ciò per un contrasto con le conferenze parigine, in cui veniva sviluppata una concezione nel puro Empireo del nuovo pensiero fondante, mentre qui si levava una voce in controtendenza, che recava il messaggio dei filosofi all’umanità che si trovava nel più estremo pericolo…” Durante il soggiorno a Praga, Husserl sprona Patočka a conseguire l’abilitazione: nel 1936 esce così Il mondo naturale come problema filosofico. In esso, Patočka, in accordo con Husserl, constata la crisi dell’uomo contemporaneo, ridotto a vivere in un mondo duplice: da un lato, nel mondo delle costruzioni scientifiche, che è l’unico ad essere ritenuto oggettivamente “vero”, dall’altro, in quello “naturale” dell’esperienza quotidiana, che modernamente tende ad essere messo in secondo piano come qualcosa di inessenziale. Di qui la difficoltà, per la filosofia contemporanea, di comprendere le condizioni ed i presupposti che rendono possibile la conoscenza, nonché, sul piano etico, l’incapacità di rispondere alla domanda sul senso del mondo e di fondare la responsabilità umana per esso. Se alla fenomenologia viene riconosciuta una importanza decisiva per aver portato all’evidenza le modalità di costituzione di ogni oggettività a partire dalla esperienza originaria del mondo naturale, già in questa prima opera Patočka evidenzia come la totalità del mondo naturale, in quanto correlato di questa pura esperienza, non sia soltanto un orizzonte di datità passivamente appercepite, ma una sfera che rende possibile e richiede una scelta di prospettive ed un’attiva presa di posizione che configura un incessante “movimento” esistenziale. Saranno l’ approfondimento di questo aspetto e la critica progressiva alla “ soggettività trascendentale” di Husserl, a condurre Patočka, negli scritti successivi, a formulare la propria originale proposta di una “fenomenologia asoggettiva”, in cui le datità oggettive risulteranno effetti delle attività costitutive, anche pre-riflessive, che avvengono a partire dal mondo naturale e non più meri fenomeni riflessi dalla soggettività intuente.
Dal Protettorato al 1948.
Alla fine degli anni ’30, questa folgorante stagione culturale volge tragicamente al termine, così come la vita della Prima Repubblica Cecoslovacca. Masaryk muore nel 1937; col patto di Monaco del 1938, Hitler può invadere, nella codarda indifferenza delle potenze occidentali, la Cecoslovacchia. l’attività del Cercle si affievolisce e i membri ebrei del Circolo sono costretti ad emigrare, mentre il paese torna a subire una pesante germanizzazione. Con la chiusura delle scuole superiori di lingua ceca, inoltre, Patočka non può più sperare in una collocazione stabile. Tuttavia, anche in questo terribile periodo, riesce a lavorare proficuamente, approfittando della uscita di un importante periodico letterario, il Kritický Mìsíèník, fondato dal critico e filosofo Václav Černý (1905-1987) nel 1938, sul quale, fino al “tradimento di Monaco” sull’identità nazionale ceca e sul ruolo della filosofia nell’epoca del totalitarismo. In questi articoli – tutti dominati del tema epocale della “disfatta” – compare per la prima volta il motivo della “scossa” (otøes), intesa come evento non solo negativamente estrinseco ma costitutivo della soggettività umana, che ‘ne approfitta’ in maniera essenziale per realizzare una piena assunzione di responsabilità nei confronti dell’esistenza e cogliere l’opportunità di una catarsi mediante la filosofia. Si tratta di un nodo fondamentale per comprendere l’intera opera filosofica di Patočka che, da un lato rappresenta una sorta di ampliamento in chiave a-soggettiva e filosofico-storica della epoché husserliana, e, dall’altro, reca chiaramente l’impronta dell’esistenzialismo, specie della nozione jaspersiana di “situazione-limite” (Grenzsituation); nell’ultimo Patočka, poi, la “solidarietà degli scossi” costituirà il principio non metafisico sul quale sarà possibile il dispiegarsi di un umanesimo non ideologico, in grado di tenere assieme l’evidenza tragica del nichilismo dell’età della tecnica e il reiterato progetto filosofico di una direzione etica dell’esistenza, fondata sull’esperienza abissale della libertà. Ma già alla fine degli anni ’30 Patočka scrive: “ La vera esperienza della libertà è pertanto un’esperienza di scossa, in cui la scossa concerne il normale fungere del mondo, e in questa scossa il mondo, finora celato oltre le cose, nascosto oltre la loro usualità e sicurezza, perde la sua non-perspicuità e diviene visibile.” Al termine della guerra – durante la quale è costretto anche a lavorare come operaio nella costruzione di tunnel – Patočka si dedica con passione alla riorganizzazione del sistema scolastico ceco e dell’ordinamento universitario. Progetta un grande ciclo di lezioni di Storia della filosofia all’Università Carlo, di cui riuscirà a tenere nei semestri successivi alla liberazione, solo quelle dedicate alla filosofia antica (Socrate, Platone e Aristotele) e insegna filosofia nella neo-fondata Facoltà pedagogica dell’Università Masaryk a Brno. Nel 1947 diviene “foreign consulting editor” della rivista americana Philosophy and Phenomenological Research, fondata negli USA dall’allievo di Husserl Martin Farber. La situazione, però, sta per mutare drammaticamente ancora una volta, travolgendo le speranze di Patočka di avere finalmente una vita professionale e scientifica ‘normale’. Già nel 1946 confessa sconsolatamente ad un corrispondente: “Dal punto di vista personale, adesso passo giorni abbastanza scuri. Pensate che sono accusato (…) di esistenzialismo . Uno dei miei ex-assistenti, che è diventato comunista, mi ha attaccato pubblicamente per due volte. Pare che anche noi avremo la nostra disputa sull’esistenzialismo (…), solo che si tratta di una disputa senza filosofia e senza filosofi.” L’atmosfera politicoculturale che prepara la presa del potere dei comunisti (febbraio 1948) procura a Patočka l’accusa di essere un “esponente del pensiero tedesco”, intriso di “idealismo borghese” e di “esistenzialismo soggettivo”. Diviene sempre più chiaro che a decidere del suo futuro intellettuale e professionale sarà il rapporto che intenderà intrattenere con l’incipiente dittatura marxista-leninista sulla cultura. Ma, in questo senso, il destino di Patočka, è segnato: già all’epoca del mensile di Černý, in un saggio dal titolo Ideologia e vita nell’idea, egli aveva distinto fra l’essenza ideale del socialismo e la sua realizzazione pratica in quanto ideologia, affermando che “la libertà dell’uomo è qualcosa di extra-umano; si realizza in qualche modo al di fuori dell’uomo mediante un processo, alla cui fine sta come scopo futuro e non come questo stesso processo di realizzazione”. Nel 1949, Patočka rifiuta di iscriversi al Partito Comunista e per vent’anni viene escluso dall’insegnamento.
Gli anni ’50: Comenio profeta della crisi
Dopo l’allontanamento dalla Facoltà di Lettere, Patočka venne assunto nel 1950 come ricercatore all’ Istituto T. M. Masaryk, dove lavorò fino al 1954, anno in cui esso venne chiuso nel quadro della campagna stalinistica contro il cosiddetto “masarykismo”. In questi anni, si dedicò a raccogliere documenti concernenti la battaglia che Masaryk aveva condotto negli anni della Prima Repubblica contro l’antisemitismo nel cosiddetto affaire Hilsner, luminoso esempio di applicazione della concezione di “religione democratica” del Presidente-filosofo, cui Patočka dedicò anche un saggio dal titolo Masaryk v boji proti antisemitismu (M. in lotta contro l’antisemitismo ) che, per ragioni politiche, non poté mai vedere la luce. A Praga, infatti, la cappa dello stalinismo si fa sempre più opprimente: sono gli anni delle grandi epurazioni, sovente galvanizzate da un aperto antisemitismo da parte del regime, che culminano con il celebre processo-farsa contro Rudolf Slánský, primo Segretario del PCC, condannato a morte e giustiziato insieme ad altri dirigenti comunisti nel 1952. Nel 1954 Patočka passa all’ Istituto pedagogico dell’Accademia delle scienze cecoslovacca dove è costretto nuovamente a cambiare ambito di ricerca e, in pratica, ad inventarsi un nuovo lavoro. Come sempre, però, Patočka si tuffa con entusiasmo in una nuova grande impresa, l’edizione critica dell’opera completa di Jan Amos Komenský (1592-1670), il grande pensatore boemo, latinamente noto come Comenius, esule dopo la fine della Guerra dei Trent’anni e considerato il fondatore della didattica e della moderna filosofia dell’educazione. Dedicandosi a Comenio, Patočka riesce a reimmergersi in un campo di ricerca che lo ha sempre interessato, quello della nascita problematica del razionalismo metafisico moderno e delle sue conseguenze nello sviluppo della filosofia europea contemporanea, senza destare i sospetti dell’onnipresente censura e riuscendo in una straordinaria impresa dal punto di vista scientifico, quella di reinserire Comenio a pieno titolo fra le grandi personalità del dibattito filosofico del XVII secolo, dei quali condivise interessi e problematiche. In Comenio, Patočka, in numerosi scritti composti dagli anni ’50 fino alla morte (prefazioni, introduzioni, note critico-filologiche, relazioni a congressi, ecc.) che riempiono oggi due interi tomi di “studi comeniologici” nell’edizione critica dei suoi scritti, vede compendiarsi tutti gli aspetti che fanno la peculiarità del Seicento in quanto pietra angolare del pensiero moderno: la nascita della scienza matematica della natura, della scienza politica, della metodologia storica, e della pedagogia sistematica, tutti aspetti che mettono capo ad un progetto unitario, la delineazione – nelle parole di Patočka – di un grandioso quadro dell’universo, della “totalità dell’essente”. Tuttavia, nell’importanza data da Comenio in questo disegno alla pedagogia sistematica, Patočka vede un fondamentale mutamento di prospettiva rispetto al meccanicismo della “nuova scienza”: nella “pansophia” comeniana riemerge – come Patočka evidenzia in saggi magistrali – l’antichissimo pensiero dell’armonia dell’universo, dell’analogia e del “parallelismo” universale, che Comenio mutua dal neoplatonismo e dal Cusano. Se la realtà è composta di livelli ordinati secondo una struttura analogica, ciò implica, per Comenio, che non è possibile comprenderla attraverso una mera descrizione fattuale dei suoi elementi singolarmente isolati, ma che è necessario rispettarne l’armonia e la gradualità, essendo consapevoli che ogni sua parte rinvia oltre sé e che comprendere il mondo come un tutto vuol dire aderire praticamente a queste parti che incessantemente rimandano ad altre. In questo senso, Patočka sottolinea, con inequivocabili accenti antitotalitari, che in Comenio l’educazione non è questione teorica, contemplativa, ma eminentemente pratica: “l’educazione – scrive – non è strumento, mezzo, tecnica di dominazione della persona, bensì il ritorno della nostra essenza dall’erranza soggettiva alla grande totalità oggettiva, all’ordine dell’essere”. Del resto, per Patočka, l’educazione, la didattica e la scuola fanno largo ricorso all’analogia e agli esempi e costituiscono così, in termini comeniani, una grande gioco del mondo che col suo ordine corrisponde all’ordine dell’universo e ne è espressione. Ma ciò che è decisivo nella straordinaria interpretazione patočkiana di Comenio è il fatto che quest’ultimo – nell’idea della funzione salvifica dell’educazione rispetto al caos del ”labirinto del mondo”, inteso come ambito dell’ambiguità e della non-verità, da cui essa, etimologicamente, ci trae fuori – ha rappresentato per primo il pensiero della crisi che attanaglierà l’uomo europeo moderno per tutto il corso dei secoli successivi. La necessità di un sistema della educazione, dell’esodo dal labirinto oscuro e frammentato del mondo, dalla caverna platonica verso la verace totalità dell’essere, è posta proprio, secondo Patočka, dalla dolorosa consapevolezza, primieramente avvertita da Comenio all’alba del mondo moderno, della rottura dell’ordine del “mondo naturale” e dell’avvento del dominio tecnico della natura che, pur coi suoi indiscutibili risultati, ha finito per consegnare l’uomo ad un destino di “esistenza inautentica”. La strada che fuoriesce dal labirinto può così essere indicata, per Patočka, da una fondamentale conversione dello spirito a cui soltanto una idea di educazione filosoficamente fondata può fornire i presupposti, mentre di questa metànoia può essere capace solo chi è riuscito a sbarazzarsi di tutto ciò che rende inautentica la vita e la reifica, rinserrandolo in una dimensione di chiusa cosalità: “l’educazione è conduzione, ma condurre può solo colui che si è lasciato alle spalle il labirinto, chi ha compiuto la conversione nel modo più pieno”. Anche negli studi comeniologici, quindi, riemerge il filo rosso di tutta l’opera di Patočka. In questi scritti, infatti, fondamentale è l’insistenza sulla “crisi” del “mondo naturale” come problema filosofico fondamentale del moderno cui un’idea umanisticamente intesa di educazione deve – contro Heidegger – rispondere, mentre in filigrana si intravede il motivo, cruciale negli ultimi scritti fenomenologici e nei Saggi eretici, dello “scotimento” (otøesenost) come condizione tragica in grado di aprire all’autenticità e ad un orizzonte di solidarietà non ideologica. Il ritorno alla totalità dell’essere, la conversione dello spirito che ha luogo nell’uomo e-ducato, allude, infine, a quell’idea di “cura dell’anima” su cui Patočka, negli anni successivi, concentrerà la propria attenzione negli studi e nei corsi universitari su Platone e la filosofia greca. Sempre in questi anni, Patočka lavora alla stesura di un lavoro di grande respiro teoretico, rimasto inedito, che avrebbe dovuto intitolarsi Platonismo negativo: in esso, il filosofo ceco opera un significativo trapasso dall’idea della incommensurabilità tra vita e concetto, fra mondo naturale e pensiero ‘sceintifico’, a quella della incommensurabilità ontologica tout court tra verità oggettive e verificabili e Verità non relativizzabile. In questa concezione, Patočka problematizza in maniera affatto originale il tema heideggeriano della Differenz, giungendo a vedere nell’idea platonica il simbolo di questa verità ontologica, priva di contenuto, la cui funzione consiste esclusivamente nell’affermazione di ciò che è altro rispetto all’ente: “Ogni dato – scrive – sia esso oggettivo che soggettivo, è sottoposto alla critica dell’Idea, è messo in relazione con l’Idea per il fatto che essa proferisce la sua negazione su di lui, il suo ‘no’, l’espressione della sua trascendenza”. L’Idea platonica, non è così né oggetto né concetto, ma il potere disoggettivante, il potere ontologico della distanza rispetto ad ogni oggetto possibile, un “nonessere” che è però “momento della verità assoluta che fonda tutte le nostre verità relative, umane e storiche, e ogni processo dell’apparire storico della verità”. Si tratta di un’acquisizione teorica decisiva, con la quale Patočka riprende, per un verso, la tematica heideggeriana della Lettera sull’umanismo, polemizzando con quell’”umanesimo integrale” che coincide con la metafisica e consiste nell’aspirazione a raggiungere un sapere positivo e definitivo su tutta la realtà; per l’altro, criticando a fondo il postulato di un ordine globale oggettivo che l’”umanesimo integrale” vorrebbe attingere, sgombra alla dimensione pratica dell’esistenza il terreno da ogni fondamento metafisico che minaccia costantemente di reificare nell’ideologia qualunque libera determinazione dell’azione umana, riuscendo così –differentemente da Heidegger – nell’impresa di riproporre, nel segno di un umanesimo non più metafisico, tutto il depositum del pensiero filosofico occidentale come guida per un agire responsabile ed eticamente connotato. Nel 1957, Patočka passa alla sezione editoriale dell’ Istituto di filosofia dell’Accademia cecoslovacca delle Scienze: si tratta, ancora una volta, di una collocazione di scarso prestigio, che gli consente però di tornare di nuovo ad occuparsi direttamente di filosofia all’interno dell’Accademia – seppur in una posizione di secondo piano – senza neppure essere iscritto al Partito. Nella sua nuova funzione, Patočka concepisce il progetto di una collana, la “biblioteca filosofica”, (nella quale fa pubblicare gli scritti di logica di Aristotele, i Frammenti dei Presocratici, le Vite di Diogene Laerzio) e mette in cantiere una serie di opere che usciranno solo negli anni della “normalizzazione”, fra cui La crisi delle scienze europee e le Meditazioni cartesiane di Husserl, nonché opere di Scheler e Landgrebe. In questi anni nascono pure le sue grandi traduzioni hegeliane: dalla Fenomenologia (1960), all’Estetica (che uscirà alla fine degli anni ’60), mentre il progetto di traduzione della Scienza della logica rimarrà irrealizzato. Frattanto, il clima politico sembra migliorare un poco. Così, Patočka, dopo essersi dedicato pubblicamente per tutto il corso degli anni ’50 al lavoro editoriale, può tornare a curare la sua produzione scientifica personale (con la pubblicazione di Aristotele, suoi precursori ed eredi, del 1964, col quale conseguirà il titolo di CSc., candidat. scientiarum) e a riprendere i contatti con la comunità scientifica internazionale: nel 1956 soggiorna ad Heidelberg, dove rivede Dmytro Čiževskij (slavista e filosofo ucraino allievo di Husserl e Heidegger, autore, tra l’altro di una celebre Storia dello spirito russo, che negli anni ‘30 aveva insegnato a Praga presso la “libera università ucraina” e l’università tedesca), mentre nei primi anni ’60 – allorché maturano le condizioni politiche che porteranno alla “Primavera di Praga” – può recarsi , per convegni e conferenze, in alcune università tedesche (Bonn, Mainz, Colonia, Friburgo, dove rincontra Eugen Fink). Nel 1964 diviene membro dell’Istituto internazionale di filosofia di Parigi, può visitare l’Archivio Husserl a Lovanio, partecipare al Congresso hegeliano di Salisburgo ed invitare Jean Paul Sartre e l’amico Ludwig Ladgrebe a tenere conferenze a Praga. Con l’avvento della “Primavera” di Dubček, viene riaperto l’Istituto Masaryk, chiuso dalla dirigenza stalinista negli anni ’50 e Patočka viene chiamato a dirigerlo: sul piano culturale è il segno inequivocabile che qualcosa in Cecoslovacchia sta veramente cambiando, anche se momentaneamente. Del tragico fallimento di questa speranza, la vita e l’opera di Patočka subiranno ancora una volta le conseguenze.
La “primavera” e il “programma nazionale” ceco.
Con l’avvento di Alexander Dubček alla Segreteria del Partito prende avvio la breve stagione della cosiddetta “Primavera di Praga” ed il tentativo di riforma democratica del sistema comunista che fu definito “socialismo dal volto umano”. Patočka, ormai in là con gli anni, ripone molte speranze nella svolta di Dubček, confidando che possa finalmente garantirgli quella libertà scientifica di cui non hai mai goduto in tutta la sua esistenza. Per questo, si fa più moderato nei suoi giudizi sul regime che pure era stato così duro con lui e, in sintonia con la nuova intelligencija riunita attorno ai dirigenti “eretici” del PCC, inclina a vedere nel popolo ceco, in virtù della sua storica propensione alla questione sociale, il soggetto ideale per la realizzazione di un socialismo migliore, più democratico ed umano rispetto al modello imposto dall’URSS. Per questo, si dedica di nuovo, sulla scorta della tradizione masarykiana, a studi sulle idee e gli autori del cosiddetto “programma nazionale” del Risorgimento boemo, inteso come piattaforma costitutiva del “democraticismo elementare” connaturato all’identità del popolo ceco. In esso, Patočka distingue essenzialmente due fonti: la prima, di ispirazione herderiana, risalente all’opera di Josef Jungmann (il filologo che aveva “riesumato” la lingua letteraria ceca con la compilazione di un grande Dizionario ceco-tedesco, pubblicato tra il 1834 e il 1839), secondo la quale il legame che unisce un popolo è costituito dalla lingua, la seconda, risalente al magistero di Bernard Bolzano (matematico e filosofo di lingua tedesca, Docente a Praga nella prima metà dell’Ottocento), per il quale il nocciolo della coesione identitaria di una nazione è rappresentato dalla sua sfera sociale. Sintesi di queste due fonti è per Patočka, František Palacký (1798-1876), autore della monumentale Storia del popolo ceco, uscita in III volumi dal 1836 al 1845, e sostenitore di una filosofia romantica della storia secondo la quale la dinamicità del continuum storico è determinata dall’opposizione tra l’autorità e la libera ragione, e in cui lo hussitismo rappresenta l’atto costitutivo della coscienza europea moderna. Negli scritti di questo periodo (in particolare ne Il senso dell’oggi) Patočka cerca di leggere il fatale avvento del comunismo in Cecoslovacchia come qualcosa di comprensibile, dal punto di vista della razionalità storica, proprio sullo sfondo di questa tradizione, poiché “ il problema del nostro popolo moderno – scrive – è stato fondamentalmente e fin dagli inizi il problema sociale” ed anche se l’inserimento del Paese nel campo comunista ha comportato problemi “di portata tragica”, il senso della “Primavera” gli sembra consistere nel genuino tentativo di “ritorno al senso originario del socialismo come liberazione dell’uomo” mediante il ripristino delle libertà individuali insopprimibilmente connesse all’essenza della civiltà europea. In particolare, Patočka interpreta l’audacia dell’eresia ceca come peculiare contributo della tradizione nazionale al superamento dell’equilibrio del terrore nucleare e della divisione in due del mondo della “guerra fredda”, come una “sintesi” che non è “eclettismo, bensì soluzione creativa”, punto di equilibrio fra un campo in cui vieppiù si affermano le libertà individuali ed un altro in cui, seppur a detrimento di queste, sono in vista “grandi mutamenti strutturali”. Nella convinzione –determinata dall’impressione delle rivolte studentesche che scoppiano in tutto il mondo nel ’68 – che la diffusione moderna della cultura scientifica abbia ormai realizzato il passaggio dell’intelligencija dalla condizione di élite a quella di classe generale e che nella civiltà contemporanea l’universalità della ragione stia ineluttabilmente per inverarsi in essa, Patočka arriva a dirsi utopisticamente disponibile ad accettare anche l’ambizione del “socialismo scientifico” di proclamarsi “teoria del grado supremo della razionalità”, pur rifiutando di concedere che ciò sia stato già raggiunto dal “socialismo reale”. Segno dell’avvento di questa nuova epoca, in cui una intelligencija di massa coinciderebbe con la marxiana classe generale che si avvia a realizzare una società fondata sulla solidarietà, sulla ragione e la tolleranza, è rappresentato per Patočka dai “recenti sviluppi avvenuti da noi”. Ma l’ottimismo di Patočka, come quello di tutti i suoi connazionali, è destinato a durare poco: l’invasione sovietica dell’agosto ’68, il suicidio di Jan Palach – uno studente della Facoltà di Lettere di Praga che si brucia vivo in Piazza S. Venceslao per protesta contro l’occupazione militare del paese – e l’avvio della cosiddetta “normalizzazione”, rendono subito chiaro agli occhi del filosofo che, come in un incubo ricorrente, si sta andando verso una situazione che ripete quella del febbraio ’48. Nonostante tutto, Patočka non sarà mai sfiorato dalla tentazione di abbandonare il paese (come invece farà il fior fiore della cultura della “Primavera”) anche quando potrebbe averne l’occasione, come nell’autunno del ’69, allorché, recatosi in Germania per un congresso fenomenologico, subisce le energiche pressioni di Eugen Fink affinché non faccia ritorno in Cecoslovacchia. Ma Patočka considera ormai il suo personale destino di intellettuale inestricabilmente legato a quello della sua tormentata patria e non può neanche concepire di starne lontano: ritiene, anzi, che dalla sfortunata esperienza della “primavera” si debbano trarre nuovi stimoli per la riflessione filosofica, in particolare per ciò che riguarda il problema della “crisi” della civiltà europea, del ruolo delle masse nell’agire politico e la necessità di superare il machiavellismo della “dottrina Breznev” nella direzione di una rinnovata sintesi fra etica e politica, tutta basata sul ruolo fondamentale dei singoli cittadini, sul “potere” di quei “senza potere” di cui, di lì a poco, parlerà Vaclav Havel in un celebre saggio. E’ giocoforza, così, ritornare ad occuparsi dei temi che erano stati al centro del pensiero di Masaryk, la cui analisi critica – cui sono dedicati i Tre studi su Masaryk, rimasti inediti – costituisce per Patočka una sorta di propedeutica alla stesura dei Saggi eretici di filosofia della storia. In questi scritti, Patočka si rifà all’interpretazione masarykiana della Grande guerra come “rivoluzione mondiale”, che considera “il primo tentativo di una filosofia nazionale ceca”, ma ne evidenzia il carattere contraddittorio, in quanto eccessivamente tributaria di una visione comtiana della storia, secondo la quale la conflagrazione del primo conflitto sarebbe effetto di una “semicultura”, dell’incompiutezza intellettuale dell’umanità europea, di una essenziale mancanza di armonia e di consenso sociale che, sul piano psicologico, conduce al “titanismo” tragico del soggetto razionalistico, romanticamente rinchiuso nell’arbitrio della propria volontà ed ormai privo di ogni criterio di rapporto col mondo. Nella civiltà di massa del moderno, ciò conduce, per Masaryk, alla diffusione del fenomeno del suicidio e la stessa guerra mondiale non è altro che un immane “suicidio di massa”. In questa concezione, per l’uomo moderno si rende necessaria una nuova psicologia che, pur lasciando al soggetto il suo fondamentale valore individuale, sia però in grado di sostenerlo e inserirlo nell’ordine del mondo, nella vita – secondo l’espressione di Masaryk – “sub specie aeterni”. A questo compito, nel pensiero masarykiano, deve assolvere la religione come unico fattore in grado di medicare la crisi del moderno, sottolineando il valore della responsabilità, il significato purificatore della sofferenza, l’importanza decisiva della socialità e dell’alterità. In ciò, Patočka, ravvisa una aporia consistente nell’innesto di un “fondamentale moralismo pratico”, desunto da una psicologia tratta dai grandi autori della letteratura europea (Goethe, Dostoevskij), su uno schema di pensiero “comtianamente positivistico, cioè naturalistico”. Se Masaryk compie un gesto fondamentale, dal punto di vista filosofico, allorché per primo indica nella prima guerra una rivoluzione a scala mondiale, nella diagnosi della “crisi” di cui essa fu iniziale espressione Nietzsche – secondo Patočka – è andato assai più a fondo, in quanto non è il filosofo “di una sola guerra”, bensì il profeta “di tutta la contemporaneità in quanto epoca di guerra, epoca (…) di permanente e crescente nichilismo, in cui il ‘mondo vero è diventato favola ’” . Dal confronto fra Masaryk e Nietzsche – suggerito dalla lezione di Rádl– scaturisce così una riflessione sulla crisi della soggettività contemporanea in cui la soluzione proposta da Masaryk non può che apparire anacronistica e debole di fronte all’avvento della civiltà della tecnica e dell’epoca della “morte di Dio”. Titanismo e soggettivismo estremo non sono per Patočka soltanto conseguenza della filosofia speculativa del Romanticismo e dell’idealismo tedesco – come riteneva Masaryk – ma anche, e soprattutto, del “naturalismo astratto” che il Presidente-filosofo mutuava da Comte, senza poter vedere come anch’esso costituisse uno dei fondamenti metafisici di quel dominio planetario della tecnica che rappresenta – heideggerianamente – il compimento del nichilismo: “Nel momento in cui tutta la realtà non è che un ‘puro fatto’ che io constato e col quale mi comporto come con un materiale il cui unico senso è quello che mi pongo a mio arbitrio, è anzitutto qui il problema del nichilismo che Masaryk traspone come ‘moderna disposizione al suicidio’” . Si tratta allora di vedere se il “delirio della soggettività” di cui l’Europa d’inizio secolo è preda, sia l’effetto di un soggettivismo tout court che ha semplicemente smarrito l’oggetto cui per secoli si è attenuto – la fede e l’orizzonte dell’eternità come senso autentico della esistenza umana, come riteneva Masaryk – oppure, al contrario, non derivi dalla perdita di senso dell’oggettività, ovvero del correlato di una ‘coscienza’ o di un’’anima’, che Patočka –diversamente dal ‘secondo’ Heidegger – continua a pensare ‘neoclassicamente’ in maniera fenomenologica. Il soggettivismo moderno è così per Patočka non la causa ma il “momento disvelante” di una vita “reificata e ‘oggettivizzata’” e come tale non significa “nulla di assolutamente negativo”. Il problema sta piuttosto nella possibilità di distinguere un soggettivismo in grado di comprendere come siano possibili i valori oggettivi della nostra esistenza, quali siano i loro modi di datità, e un soggettivismo attivamente nichilistico che fa pendant con una concezione estremamente oggettivistica in cui “‘tutto è uno’ ed esiste pertanto solo l’arbitrio dell’interesse proprio”. Anche se Masaryk si occupato solo di questo secondo tipo di soggettivismo, la sua acuta analisi del nichilismo europeo e della condizione dolorosa dell’europeo contemporaneo rappresentano comunque un merito enorme che ha decisivamente contribuito a togliere la filosofia nazionale ceca da una posizione marginale, trasformandola in una “filosofia nel senso forte della parola”, il cui decisivo coronamento è rappresentato dalla fondazione del moderno stato cecoslovacco. In esso, Patočka – che accoglie anche suggestioni del pensiero della Arendt – vede una assunzione di responsabilità per la costruzione di una nuova polis, il decisivo passaggio dalla sterile astrattezza della teoria alla dinamicità dell’agire politico: “ da questo punto di vista bisogna dire ora che l’azione di Masaryk fu il tentativo di rinnovare ciò che gli antichi chiamavano bìos politikòs. La vita politica, la vita dell’azione responsabile in quanto distinta dalla vita in altri ambiti, in cui si deve lavorare, produrre, fare ricerca, discutere, ma non si agisce. Masaryk è il creatore di uno stato che, fidando nella forza morale della società ceca, (…) ha fatto appello al popolo ceco affinché vivesse libero, ovvero agisse sub specie aeterni. “ Nel pensiero di Masaryk ne va così della possibilità per un “piccolo popolo” di vivere nella quotidianità del presente e, nel contempo, di assumere responsabilità e compiti di portata storica: “In questo sta il significato della filosofia ceca di Masaryk: in essa si tratta della quotidianità e dell’evidenza del grande atto che non si lascia spaventare dal rischio e dalla decisione”. In questi scritti, come si vede, sono già chiaramente delineati i motivi fondamentali degli ultimi lavori di Patočka, che confluiranno a formare la piattaforma culturale e filosofica di Charta 77: dalla concezione, cara a Havel, della politica come “vita nella verità”, all’idea della dissidenza politica come esercizio di costruzione attiva di una “polis parallela”, a quella della insopprimibile dignità d’una cultura nazionale chiamata, anche in circostanze estreme, a dare testimonianza della propria universalità. Anche Patočka, di qui a poco, tradurrà in pratica questo programma ideale in prima persona, compiendo un “grande atto” apparentemente così contrario alla sua natura schiva di intellettuale severo e rigoroso. La realtà della “normalizzazione” che avanza a grandi passi, lo ha pienamente convinto che “ abbiamo sopravvalutato le nostre possibilità, le nostre forze e la situazione mondiale”. Nel 1971 la Facoltà di Lettere del Politecnico di Acquisgrana decide di conferirgli una Laurea honoris causa: per il divieto all’espatrio da parte delle autorità, potrà ritirarla solo nel 1975 nella sede dell’ambasciata tedesca di Praga, in una cerimonia cui presenzia lo stato maggiore del dissenso cecoslovacco (il futuro Presidente Havel, il filosofo Karel Kosík, il 19 drammaturgo Pavel Kohout, lo scrittore Ivan Klíma). Nel 1972, il regime può finalmente “toglierselo dai piedi”, ponendolo anticipatamente in pensione. Da quella data, a parte l’avventurosa partecipazione ad un Convegno su Comenio a Varna (Bulgaria), la sua attività didattica è consegnata esclusivamente ai seminari che tiene in casa sua, alla presenza di ex-allievi ed intellettuali amici. Quella politica, brevissima, comincia nel 1976, quando un gruppo di politici ed intellettuali della “primavera” (fra cui Havel e l’ex-ministro degli esteri Jiří Hájek) decide che è giunto il momento di “fare qualcosa”, specie dopo che il governo cecoslovacco ‘normalizzato’ ha formalmente sottoscritto l’Accordo finale della Conferenza di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che prevede un Patto internazionale sui diritti civili e politici, entrato in vigore nel 1976. Nella Dichiarazione di Charta 77 (datata 1 gennaio 1977) si legge: “Ognuno ha la sua parte di responsabilità per la situazione generale e quindi per l’osservanza dei patti sottoscritti, alla quale sono tenuti oltre che i governi, anche tutti i cittadini”. Jan Patočka ne diviene portavoce.
La morte
Non appena fondata, Patočka si getta a corpo morto nell’attività di propaganda clandestina a favore di Charta 77, dando prova di infaticabile lena e perfino di humor, allorché riceve dei dinieghi: “ non ha firmato, andrà all’inferno!”, soleva esclamare in tali casi, come ricorda un testimone. Dimostra, tuttavia, grande comprensione per i giovani e per chi è particolarmente esposto e si rifiuta categoricamente di fare proselitismo fra gli studenti, sostenendo, sulla base della sua esperienza personale, che “talvolta è più difficile fare gli esami che firmare qualcosa ed essere espulso da scuola per motivi politici”. Gli allievi ricordano concordemente il mutamento che avviene nell’anziano e rigoroso professore durante il primo periodo di attività “chartista” : fra Patočka e gli amici, i collaboratori, gli studenti si instaura un clima di grande solidarietà e affetto, di cui anche il filosofo è umanamente appagato e riconoscente: “ adesso, ci siamo tutti così avvicinati…”. Non c’è dubbio che l’impegno diretto di Patočka rappresenti il veicolo di promozione più decisivo per le sorti del movimento; ricorda Václav Havel : “Non so cosa sarebbe stata Charta, se agli inizi non le avesse illuminato la strada Patočka con il fulgore della sua grande personalità”. Lo stress dovuto a questa instancabile attività, che lo porta a dormire poco, negli intervalli da una riunione all’altra, e a sostenere periodicamente estenuanti interrogatori nella stazione della StB, la polizia segreta, che lo sorveglia continuamente, è notevole. Ma grazie a lui, Charta comincia ad avere una risonanza internazionale. Si interessa, in particolare, al movimento il ministro degli esteri olandese Max van der Stoel, che agli inizi del marzo 1977 è in visita ufficiale a Praga e, per il tramite di alcuni giornalisti olandesi, invita Patočka il 2 all’Hotel Intercontinental per informarsi sulle finalità del movimento, lo stesso giorno in cui il filosofo è convocato di nuovo dalla prokuratura per interrogatori. Patočka si reca lo stesso dal capo della diplomazia olandese, ma la polizia riesce a smantellare la conferenza stampa prevista dopo l’incontro fra il ministro e il filosofo. La sera stessa, come ricorda Jan Vladislav, la StB va a prelevarlo a notte alta a casa; Patočka non apre la porta, è terribilmente stanco e non si sente bene, ma il mattino successivo deve recarsi coi poliziotti al commissariato per essere interrogato. Ritorna a casa debilitato dopo quasi dieci ore, in preda ad una crisi cardiaca – probabilmente causata dalla brutalità dell’interrogatorio – per cui il medico prescrive il ricovero in ospedale. Nell’ospedale di Strahov riesce, nonostante le sue condizioni siano gravi, a lavorare ancora, a ricevere visite, a stendere documenti. L’ultimo conservato, datato 8 marzo, è considerato il testamento politico di Patočka ed è dedicato alla confutazione delle critiche che più frequentemente venivano mosse al movimento. All’obiezione che Charta 77 avrebbe peggiorato le condizioni di vita dei dissidenti e della popolazione, inasprendo l’opera repressiva del regime, il filosofo ribatte sostenendo che “ nessuna arrendevolezza ha finora portato a un miglioramento, bensì soltanto ad un peggioramento della situazione. Quanto maggiore è la paura e il servilismo, tanto più quelli che hanno il potere hanno osato, osano e oseranno…”. Sul piano internazionale, Patočka è convinto che Charta 77 potrà finalmente rivelare l’inadempienza da parte dei governi del blocco orientale degli impegni previsti dalla Conferenza di Helsinki sui diritti umani. Da ultimo, Charta riveste per Patočka un fondamentale significato di ordine etico e questo è l’aspetto a suo avviso più decisivo nella piattaforma del movimento, che dopo decenni di rassegnazione ha fatto sì che “la gente tornasse a sapere che esistono cose per cui mette conto anche soffrire. Che le cose per cui eventualmente si soffre sono quelle per cui vale la pena di vivere”. Sul piano dell’agire politico, ciò rappresenta la concreta applicazione del tema del “sacrificio”, in cui culmina la riflessione filosofica di questi ultimi, drammatici anni. Negli ultimi scritti politici ( saggi e protocolli di seminari pubblicati postumi), Patočka pone infatti con radicalità il problema di come accedere ad un rapporto con la verità da parte dell’uomo nell’età della “cosmovisione tecnica” e dell’indigenza che le è inerente: nel mondo compiutamente dominato dalla tecnica (di cui anche il totalitarismo comunista è manifestazione) l’umanità si trova installata in un mondo omogeneo ed inautentico, in cui è impossibile un rapporto non superficiale con la problematicità inerente al “fondo” dell’essere. Riprendendo la terminologia heideggeriana , ma variandone significativamente il campo d’applicazione, Patočka sostiene che è la modalità del sacrificio che può dare accesso ad una diversa forma dello svelamento: “ …nel sacrificio ‘c’è’ (es gibt) l’essere: l’essere si ‘dà’ a noi, non più nel nascondimento, ma esplicitamente”. Il sacrificio autentico non è quello basato sullo scambio, bensì quello che consiste nello stabilire una relazione con ciò che non è una cosa, un ente: “ in un senso essenziale, è un sacrificio per niente, se per ‘niente’ s’intenda ciò che non è un ente”. In questo senso, esso è un darsi – in un laico e purissimo senso ‘religioso’ – a ciò che, non essendo un ente, domina ogni ente e questo aprirsi implica una radicale trasformazione della comprensione dell’ente che, a sua volta, si fa esigenza di conquistare la pienezza della propria umanità, di tendere verso ciò che è più umano (e non è mai, quindi, ‘ideologicamente’ dato, come prevede l’ intentio del “platonismo negativo”), in una parola, di “vivere nella verità”. Il 10 marzo, la StB torna all’ospedale per interrogarlo di nuovo. L’accanimento spietato dell’apparato repressivo del regime nei suoi confronti lo prostra definitivamente: la notte successiva sopravviene una emorragia cerebrale e, dopo tre giorni di coma, la morte, nel pomeriggio del 13. Come era consuetudine all’epoca, il regime continuò a perseguitare l’illustre dissidente anche dopo la morte: come riferiscono i testimoni, i funerali di Patočka furono trasformati dalla StB in una vera e propria operazione di polizia. Tutti gli esponenti più in vista del movimento vennero preventivamente arrestati perché non si recassero alle esequie e persino i Colleghi stranieri di Patočka – fra cui il filosofo tedesco Walter Biemel – vennero senza riguardo espulsi dal Paese; a familiari, amici e colleghi vennero da parte delle autorità frapposte ogni sorta di difficoltà perché fosse loro reso difficile recarsi alla cerimonia che si tenne nella chiesa di S. Margherita, nel quartiere di Brevnov, dalla mancata concessione di permessi di circolazione al ritardo nella stampa degli annunci mortuari e al divieto di vendita di fiori e corone in prossimità del cimitero, dove una pattuglia di agenti sguinzagliati fra le tombe fotografava implacabilmente tutti i convenuti. Questi ultimi, nonostante la tensione, accorsero in più di 1200. L’ultimo oltraggio, come riferiscono le testimonianze, ha luogo durante l’orazione funebre, che viene fragorosamente disturbata dal rumore inopinato di motori di motociclette da corsa proveniente dal vicino Stadio della Stella Rossa e dagli elicotteri della polizia che incrociano incessantemente sul cimitero.
IL PENSIERO
di Domenico Jervolino
Jan Patocka (1907-1977), il “Socrate di Praga”, è un pensatore che sempre più col passare degli anni emerge sullo scenario europeo, non solo per la sua alta figura etico-politica, ma anche per la sua opera filosofica: egli appare come una delle personalità di primo piano del “movimento fenomenologico”, in compagnia di autori come Merleau-Ponty, Fink, Landgrebe, Ricoeur, che si collocano non solo dopo ma anche in qualche modo oltre Husserl e Heidegger. Il grande linguista russo Roman Jakobson, animatore del celebre “circolo linguistico di Praga”, lo aveva già annoverato, in un articolo appassionato, pubblicato dopo la tragica morte del filosofo, fra le tre personalità filosofiche ceche di livello mondiale, insieme al grande pedagogista del Seicento Comenio e al fondatore e primo presidente della Repubblica cecoslovacca T. G. Masaryk. Patocka, che era stato in gioventù uno degli ultimi discepoli di Husserl a Friburgo, fu tra i principali animatori del Circolo filosofico di Praga (costituito sul modello del Circolo linguistico), e tra gli organizzatori nel 1935 della celebre conferenza del suo maestro, conferenza che rappresentò il primo nucleo dell’opera postuma husserliana su La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Secondo l’anziano filosofo, come è noto, le scienze europee sono in crisi, nonostante i successi del progresso tecnico-scientifico, perché esse hanno perso il loro senso umano, che può essere recuperato solo a partire dal loro radicarsi nel “mondo della vita”. A questo tema il giovane studioso dedicò la sua tesi di abilitazione all’insegnamento universitario, presso l’Università Carlo, nel 1936 e si adoperò, nel 1938, alla morte del maestro, che era di origine ebraica e inviso al regime nazista, per il salvataggio della preziosa eredità dei manoscritti husserliani, che sono ora conservati e studiati nell’università cattolica di Lovanio, in Belgio. Purtroppo, Patocka non ebbe vita facile. Salvo brevi periodi dovette fare i conti prima con la barbarie dell’occupazione tedesca e poi con il lungo inverno staliniano. Nel 1968, lo ritroviamo come uno dei protagonisti della breve “primavera” di Praga. Poi deve affrontare la repressione e una nuova più pesante emarginazione, costretto a dare seminari a un gruppo ristretto di discepoli in un sottoscala, mentre i suoi scritti potevano circolare solo in forma di dattiloscritti, clandestinamente. Fondatore e portavoce di “Charta 77”, movimento che rivendicava il rispetto dei diritti sanciti dalla Costituzione ma negati dal regime, muore dopo brutali interrogatori da parte della polizia in quello stesso anno, il 13 marzo 1977. All’opinione pubblica mondiale la sua figura appare come quella del “filosofo resistente”, secondo l’espressione del filosofo francese Paul Ricoeur, come l’esempio di un “socratismo politico” che testimonia con la vita e il sacrificio la dedizione alla libera ricerca della verità. La fenomenologia dell’esistenza umana sviluppata da Patocka sottolinea come dato primario il carattere corporeo e pratico-sociale della condizione umana e ne articola l’analisi lungo la direttrice di tre “movimenti” fondamentali. I tre movimenti fondamentali dell’esistenza sono, secondo il nostro autore: a) il movimento dell’accettazione. L’esistenza non è solo esser-gettati nel mondo, ma anche esservi introdotti, accolti, radicarsi in esso. Quello che per le cose e per i prodotti della natura è un puro adattamento meccanico o una armonizzazione reciproca, per l’uomo diventa necessità di essere introdotto nella comunità interumana. In questo modo il rapporto con l’altro viene introdotto fin da principio. All’essere accettati risponde il secondo movimento: b) il movimento della difesa o del lavoro. Si può accettare l’altro solo esponendo se stessi, provvedendo ai suoi bisogni non meno che ai nostri, e cioè lavorando. Il lavoro è questo mettersi a disposizione e al tempo stesso disporre degli altri che ha le sue radici nella vita stessa. Questi due primi “movimenti” dell’esistenza, radicarsi nel mondo e spendersi per sopravvivere, accettare e difendere la vita, sono correlativi fra di loro e caratterizzano l’umano fin nella sua pre-istoria. Ma anche l’uomo preistorico ha una oscura intuizione di una di una forma superiore e più giusta di esistenza, che gli si presenta come in una sorta di “metafora ontologica” nelle forme del mito e del sacro. Anche nell’uomo primitivo, in quanto umano, è quindi presente in qualche modo il terzo movimento dell’esistenza, l’essere per la verità, la ricerca del senso di se stessi e del mondo. Questa lotta per il senso diventa il tema proprio della storia, della politica e della filosofia per quell’umanità “greca” e poi “europea”, che ha inventato appunto storia, filosofia e politica e che, nell’ottica di Patocka, deve diventare, non solo idealmente, umanità universale. La filosofia “eretica” della storia di Patocka è la filosofia di questa lotta. Una lotta che comporta l’esperienza della traversata del deserto della mancanza del senso, il confronto con l’esperienza globale del mondo moderno che culmina nella crisi del nostro secolo di cui sono espressione le “guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra”. Questa lotta, che è il filo conduttore della storia, è giunta oggi ad un punto critico decisivo. Per Patocka, “filosofo resistente”, la vita umana in tutte le sue forme contiene il germe di una vita nella verità, verità finita, che non vuol dire verità relativa, ma verità da riconquistare sempre nella lotta quotidiana contro tutti i tentativi di ridurre l’uomo a cosa, ad oggetto manipolabile. La posta in gioco è la difesa militante dell’umanità dell’uomo contro il falso razionalismo di una ragione strumentale, asservita ai totalitarismi palesi o latenti nell’età delle guerre mondiali e della pace post-bellica dominata dalla stessa logica manipolatrice e totalizzante che si è manifestata nelle guerre del nostro secolo. Chiamato dalla sorte a rivivere la figura “socratica” del filosofo testimone, Patocka ci ammonisce ancora, ricordandoci la sua strada per uscire dalla condizione tragica dell’uomo contemporaneo: la solidarietà di coloro che non si rassegnano a sopravvivere come meri ingranaggi di un sistema anonimo ed alienante. Dopo la morte di Patocka si assiste a una progressiva diffusione della sua opera, clandestina in patria, in Europa e nel mondo. In particolare, in Francia e nel Belgio egli può considerarsi come un protagonista postumo della rinascita degli studi fenomenologici nell’ultimo ventennio. Ben tredici opere sono tradotte in francese, in tedesco vengono pubblicati cinque grossi volumi di Scritti scelti, mentre, seppure in misura minore, traduzioni sono disponibili o progettate nelle altre principali lingue europee. In Italia, dove fu pubblicato già nel 1970 il primo libro di Patocka tradotto all’estero, Il senso dell’oggi in Cecoslovacchia, edizioni Lampugnani Nigri, Milano e poi nel 1981 i Saggi eretici sulla filosofia della storia, Cseo, Bologna, più recentemente Platone e l’Europa, è stato tradotto presso Vita e Pensiero di Milano, nel 1997. Segnaliamo, inoltre, le lezioni su Socrate, nella collana Bompiani “Testi a fronte”.
ERIK PETERSON
LA VITA
A cura di Barbara Nichtweiß e Andrea Nicolotti
Erik Peterson Grandjean – i suoi antenati erano di provenienza in parte svedese e in parte francese – nacque nel 1890 ad Amburgo e morì nella stessa città nel 1960. I suoi saggi più famosi sono raccolti nei Theologische Traktate [Trattati teologici] 1951/1994; in essi si concentra in una maniera particolarmente rilevante e fruttuosa la tensione dialettica tra la teologia e le moderne scienze umane.
Questo teologo originariamente evangelico, ma convertito nel 1930 alla fede cattolica, durante la sua vita rimase certamente –nolens volens – in una posizione marginale, secondo l’esempio di Sören Kierkegaard, e rimase condannato per un lungo periodo dopo la sua morte ad essere unicamente una referenza ignota ai più. Solo con il lavoro di recupero del suo ponderoso lascito, conservato a Torino, si è reso palese il considerevole influsso che questo pioniere esercitò su teologi come Karl Barth, Ernst Käsemann, Heinrich Schlier, Joseph Ratzinger e sulla teologia francese (Jean Daniélou, Yves Congar etc.) Gli scritti di Peterson furono a suo tempo e continuano ad essere tradotti in italiano, francese, spagnolo e inglese.
Già in qualità di professore (Privatdozent) di archeologia cristiana a Göttingen a partire dal 1920, Peterson si era in primo luogo sbarazzato sia dei precedenti vincoli con una religiosità pietista sia dell’influenza della scuola di storia delle religioni; aveva rapidamente acquisito un largo orizzonte di conoscenze patristiche e, a partire dal 1924 quando divenne professore a Bonn, anche esegetiche. In contrasto sia con la teologia liberale (Adolf von Harnack) sia con la teologia dialettica (Karl Barth), Peterson provoca molto scalpore con i suoi brillanti trattati Was ist Theologie? [Che cos’è la teologia?] nel 1925 e Die Kirche [La Chiesa] nel 1928/29. La sua argomentazione difende il recupero dell’autorità dogmatica e dell’ambito pubblico tipicamente ecclesiale, attraverso il quale egli si avvicina sempre più al concetto cattolico di Chiesa. Per la sua metodologia fenomenologica e l’orientamento dei suoi contenuti verso l’escatologia protocristiana, gli scritti di Peterson certamente precorrono assai anche la teologia cattolica del suo tempo. Impossibilitato ad esercitare la docenza in Germania, Peterson si reca a Roma, dove vive dal 1933 fino a poco prima della sua morte, e costituisce una famiglia con cinque figli tra enormi difficoltà economiche; ottiene un piccolo posto nell’ambito della storia della Chiesa presso il Pontificio Istituto di archeologia cristiana (1937), incarico che nel 1947 è trasformato in cattedra. Peterson continua i suoi studi specialistici sull’antichità cristiana che aveva iniziato nel 1926 con Heis Theos e fornisce un importante impulso sia alla comprensione della gnosi, dell’ascesi e dell’apocalittica antica, sia allo studio delle relazioni tra giudaismo e cristianesimo (Frühkirche, Judentum und Gnosis, 1959 [Chiesa antica, giudaismo e gnosi]). In qualità di teologo si dedica a cicli di conferenze e a pubblicazioni soprattutto nell’ambito germanofono con sublimi esposizioni di carattere critico di fronte alle ideologie, in forma di interpretazioni della Scrittura e della storia (Die Kirche aus Juden und Heiden, 1933 [Il mistero degli Ebrei e dei Gentili nella Chiesa]; Zeuge der Wahrheit, 1937 [I testimoni della verità]). Nel 1935 appare lo studio Der Monotheismus als politisches Problem [Il monoteismo come problema politico] discusso fino ai giorni nostri nell’ambito della teologia politica, il quale rappresenta altresì la rottura spirituale con il suo amico Carl Schmitt. Nel medesimo anno il libretto Von den Engeln (1935) [Il libro degli angeli] fonde lucidamente le dimensioni ecclesiali, politiche e mistiche della teologia di Peterson. Nel 1951 gli studi dell’anteguerra appaiono raccolti nei Theologische Traktate, mentre gli scritti meditativi e parzialmente enigmatici diMarginalien zur Theologie (1956) [In margine alla teologia] si addentrano maggiormente nella profondità spirituale di un pensatore per il quale un esilio cristianamente motivato, nel mezzo del capitalismo e della tecnologizzazione, è infine divenuto l’unico modo di esistenza possibile.
LA CRITICA DELLA TEOLOGIA POLITICA DI SCHMITT
“Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti”. È questo il celebre “teorema della secolarizzazione” quale viene formulato da Carl Schmitt in Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität del 1922. Una formulazione certo drastica, ma non peregrina, se si considera non solo lo sviluppo decisivo che a questo problema ha dato, seppur da una diversa prospettiva, Karl Löwith (Significato e fine della storia, 1949), ma anche il fatto che già Leibnitz, nella Nova Methodus discendae docendaeque jurisprudentiae, del 1667, afferma di avere trasferito il modello della ripartizione dell’opera “dalla teologia al diritto poiché l’analogia delle due discipline è straordinaria”. Ma anche se si considera che una puntuale esposizione delle analogie di questo tipo si trova nella gius-filosofia della controrivoluzione, nelle opere di de Bonald, De Maistre e Donoso Cortés, e che Max Weber, il quale riconosce al diritto della Chiesa romana d’aver creato “come nessun altro diritto sacro un canone razionale”, afferma incontestabile “il fatto che il diritto canonico sia divenuto per il diritto profano addirittura una delle guide sulle vie della razionalità”. Ora, se i concetti del moderno diritto pubblico sono concetti teologici secolarizzati, se il diritto laico ha seguito come modello sulla via della razionalità il diritto sacro, non sarà strano che in una Scuola di diritto, laico e moderno, ci si interessi di teologia e di teologia del diritto in particolare. Ma non è questa se non una ragione accidentale della decisione che sta alla base della nostra iniziativa. Anche perché dalla polemica seguita alla prima pubblicazione della schmittiana Teologia politica, ad opera del teologo Erick Peterson, con il saggio Der Monoteismus als politiches Problem, del 1935, ma che poi si è andata arricchendo di nuovi interventi tanto da divenire una “leggenda scientifica” sino alla Politische Theologie II di Schmitt, del 1970, dalla polemica nessuna delle parti è uscita con argomenti del tutto convincenti: né quella che ritiene del tutto liquidata la teologia politica sulla base dell’assunto, questo certamente plausibile, che non sia possibile giustificare un regime politico con il dogma cristiano; né quella che ritiene plausibile una dottrina politica fondata sulla Rivelazione in base all’assunto, questo certamente plausibile, che “la Chiesa di Cristo non è di questo mondo e della sua storia, ma è in questo mondo”. A prescindere da tutti questi motivi – e senza alcuna pretesa di risolvere in via definitiva la questione –, va comunque detto che è merito di Peterson aver posto in dubbio il dispositivo della secolarizzazione quale viene attivato da Schmitt. In sostanza, riducendolo all’osso, l’argomento di Peterson può così essere compendiato: la teologia politica schmittiana è inaccettabile perché – da un punto di vista strettamente teologico, quale è quello di Peterson – la teologia non è politica. L’argomento del teologo di Amburgo si muove tutto nell’ambito della teologia: è il carattere eminentemente non-politico a rendere vano, in partenza, ogni tentativo di formulare una “teologia politica”. Argomento al quale Schmitt risponderà che se politica e teologia sono grandezze diverse e tra loro inaccostabili – come appunto sostiene Peterson –, com’è possibile che il teologo pretenda di liquidare la politica con argomenti teologici? Come può Peterson mettere in congedo la “teologia politica” se, dal suo punto di vista, politica e teologia sono ambiti inaccostabili?
KAREL KOSÍK
A cura di Linda Cesana
Karel Kosík nasce a Praga nel 1926. Da giovane s’iscrive al partito comunista ceco partecipando alla resistenza durante l’occupazione nazista e, avviatosi agli studi di filosofia e di sociologia presso l’Università San Carlo di Praga, si addottora nel 1950, due anni dopo che un colpo di Stato ha portato al potere il partito comunista ceco. Nel 1956, accusato di tendenze hegeliane a seguito di un articolo su Hegel, viene allontanato dall’Accademia delle scienze di Praga, dove lavora, e punito con un anno di lavoro in fabbrica. Sotto un regime comunista in cui si propaganda la classe operaia al potere è emblematico il fatto che la massima punizione per i dissidenti sia il lavoro in fabbrica. Tornato nel 1963 a lavorare all’Accademia delle scienze, pubblica l’opera Dialettica del concreto, il suo lavoro filosofico più conosciuto. In quest’opera il filosofo, facendo guadagnare al pensiero un’istanza veritativa, spezza il granitico mondo del capitalismo occidentale e dello stalinismo burocratico, portando alla luce la realtà umana come prassi oggettivante e oggettivata. L’immagine dell’uomo che offre (l’uomo come singolo e l’uomo inteso come genere umano) è sorprendente se si considera la data dell’opera nella Praga del governo di Novotý in cui l’uomo è ridotto dal sistema a soggettività eterodiretta. Nel 1968 scrive diversi articoli sulla Primavera di Praga che, sotto il nuovo Presidente Dubček, sembra traghettare la Cecoslovacchia in un “socialismo dal volto umano”, e di cui è uno dei protagonisti. Rispetto agli scritti degli anni venti in questi articoli emerge il congedo dall’idea di un semplice rinnovamento del socialismo esistente e la comprensione del movimento riformatore della Primavera di Praga come tentativo di superare l’alternativa tra i due blocchi, occidentale e orientale, uniti dallo stesso sistema di manipolazione. La fine dell’esperienza della Primavera di Praga a seguito dell’invasione sovietica segna la smentita di questo tentativo. Dopo l’invasione sovietica Kosík viene allontanato dall’insegnamento e indotto al silenzio, controllato dalla polizia. Nella convinzione che il pensiero non può riposare, il filosofo riflette su una alternativa al sistema di manipolabilità del capitalismo e del socialismo burocratico. Nel 1975 l’appartamento di Kosík è perquisito dalla polizia che gli sequestra un manoscritto di mille pagine, che avrebbe dovuto costituire un’opera filosofica. Kosík scrive dunque una lettera aperta a Sartre, per sollevare uno scandalo internazionale e su cui si legge “Sono morto eppur vivo”. Dopo un anno la polizia restituirà al filosofo il manoscritto. Nel 1989 diviene presidente della Repubblica Havel che pone fine alla fase di “normalizzazione”. Kosík ritorna quindi ad insegnare presso l’università San Carlo per essere nuovamente allontanato a seguito del varo della legge “lustrace” che interdice dal pubblico impiego chi si è compromesso in passato con il partito comunista. Il cambio politico infrange ancora la speranza di un cambiamento democratico riconoscendo come unica istanza quella del mercato. Pur avendo la possibilità di insegnare all’estero Kosík preferisce restare a Praga, legato alla Cecoslovacchia da un profondo vincolo, scrivendo articoli sul passato e sul presente storico, come quelli in cui denuncia la guerra in Serbia del 1999. Muore a Praga nel febbraio del 2003.
Kosík è rimasto fino alla morte filosofo marxista, non ha mai abbandonato la prospettiva anticapitalistica, diversamente da molti suoi colleghi che si sono presto riciclati nel liberalismo “vincente” dopo il crollo dell’Urss nel 1991, e nello stesso tempo ha individuato le falle dello statalismo burocratico in quel sistema di manipolabilità generalizzata, di eterodirezione degli uomini, di svuotamento del senso della vita quotidiana degli uomini, che non ne hanno più fatto una reale alternativa al sistema capitalistico (caratterizzato parimenti da una manipolabilità e da una alienazione che svuotano di un contenuto autentico la vita delle persone). Lo sguardo di Kosík sulla realtà presente, quando le aspettative si infrangono e il corso degli eventi apre alla disillusione (come la “normalizzazione” dopo la “Primavera di Praga”) non ha fatto venire mai meno in lui la lucidità, al di là di un semplice ottimismo che prospetta il socialismo come meta vicina e al di là del pessimismo che chiude i conti con il socialismo riconciliando con il tempo presente capitalistico, di non abbandonare la tendenza di fondo al socialismo come appropriazione della genericità dell’uomo nella dialettica con la ricchezza dell’individuo[1].
In Dialettica del concreto è tematizzato il mondo della pseudoconcretezza, intendendo con ciò, il mondo degli oggetti e delle rappresentazioni di essi, vissuto dagli uomini come indipendente dalla prassi umana. Iscrivendosi nella tradizione filosofica occidentale per cui la realtà è unione di realtà autentica e apparenza, il filosofo ammette la quotidianità dell’apparenza e del senso comune come orizzonte ineliminabile della vita degli uomini in cui le loro azioni si automatizzano per rendere possibile la vita. Gli uomini vivono nella sfera dell’apparenza, dell’opinione, della quotidianità come se fosse il loro ambiente naturale. E’ da qui che si apre la realtà autentica in cui l’uomo si riscopre soggetto attivo (soggetto autentico) rispetto all’oggetto colto inizialmente nel suo autonomo apparire e non nella sua essenza di prodotto umano. La pseudoconcretezza sorge quando la sfera dell’apparenza si cristallizza e i fenomeni vengono scambiati per realtà autentica, distaccati dalla prassi umana, cadendo nella feticizzazione. Essa è dunque il mondo della quotidianità alienata e della prassi alienata in cui il lato umano e quello oggettivo non stanno in un rapporto reciproco. Questo mondo diventa l’espressione della società capitalistica e del socialismo burocratico che riducono il mondo a oggetti autonomi da manipolare. Lo stesso uomo nella pseudo concretezza si riduce a “uomo della cura” e a “uomo economico”. Il primo utilizza gli oggetti per perseguire scopi soggettivi mentre il secondo è un atomo individualisticamente proteso alla ricerca dei propri interessi. È il recupero della definizione marxiana di uomo come “ente naturale generico” che permette a Kosík di ammette l’uomo come genericità, potenzialità mediante la prassi sociale e storica produttrice di oggetti e di spazi sociali nuovi. La natura umana esiste ed è prassi, e in ciò sta la sua diversità rispetto agli animali. La prassi, come per gli idealisti tedeschi, è inserita in un percorso storico che è caratterizzato da una umanizzazione dell’uomo e del mondo, dall’idea di una emancipazione nella storia sulla base dell’autocoscienza storica. L’uomo quindi è un soggetto pratico che agisce creando la realtà umana e sociale attraverso la storia, è un prodotto storico, di una storia da lui creata, ma nello stesso tempo non si riduce alle condizioni contingenti, effettuali. Egli è possibilità ontologica di trascendere le condizioni sociali date, essendo portatore di prassi rivoluzionaria. Nell’opera di trasformazione del mondo sociale, l’uomo costituisce anche se stesso come uomo. È nel corso della realizzazione di sé che l’uomo si può alienare, ossia può decadere a livello degli oggetti dimenticando la sua caratterizzazione ontologica, la prassi come creazione della realtà umano-sociale. La concretezza dunque è data dalla totalità concreta in divenire dialettico attraverso il rapporto tra soggetto e oggetto umanità e realtà umano-sociale) mentre la pseudoconcretezza è data dal venire meno di questo rapporto attraverso la feticizzazione degli oggetti e la riduzione della prassi degli uomini a mero utilizzo e manipolazione degli oggetti stessi.
È la filosofia, tenuta distinta dall’ideologia (visione antropomorfizzante inevitabile che non può cogliere le connessioni strutturali e l’essenza delle cose) che, giudicata “attività umana indispensabile” avente come oggetto la verità, l’universale, può distruggere la pseudoconcretezza. Essa ha per oggetto, infatti, la verità intesa come rapporto di soggetto e oggetto, per come si crea nel divenire storico (non storicistico) mediante la prassi sociale degli uomini. Per cogliere la verità la filosofia deve distruggere la pseudoconcretezza. La tematizzazione filosofica della categoria di prassi come attività conoscitiva di distruzione della pseudoconcretezza pone le basi per una prassi rivoluzionaria di superamento della pseudoconcretezza stessa. La dialettica come pensiero che smuove le feticizzazioni della pseudo concretezza e la dialettica come prassi rivoluzionaria sono dunque il superamento di una condizione di alienazione per una emancipazione che riconsegni all’uomo le potenzialità di ente naturale generico. L’ontologia dell’uomo di Kosík permette quindi di pensare il superamento della condizione di alienazione dell’orizzonte capitalistico per la creazione di uno spazio sociale emancipato che trova nella storia autentica un termine di riferimento normativo.
[1] L. Cesana, C. Preve, Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosík, Editrice Petite Plaisance 2012.
AXEL HONNETH
A cura di Alessandro Ferrara
Axel Honneth (1949) è stato fra gli anni 1983-90 assistente di Habermas e oggi è docente all’Università di Francoforte sul Meno e direttore dell’Istituto per la Ricerca Sociale di cui fa parte della terza generazione dopo quella storica di Horkheimer e Adorno e la seconda dominata dalla figura di Habermas. Honneth muove i suoi primi passi all’interno del quadro analitico e di teoria sociale articolato nella Teoria dell’Agire Comunicativo ed ha cercato di introdurvi degli elementi che ne mitigassero certi tratti di astrattezza e formalismo. In una prima fase culminata nel volume Critica del Potere (1985) Honneth criticava l’impoverimento del concetto di lavoro retrocesso al rango di “agire strumentale”, l’assenza di una adeguata riflessione sul potere e il conflitto, l’indebita trasposizione della dicotomia agire comunicativo\agire strategico, di pertinenza esclusivamente analitica, in un’immagine falsante delle società complesse come di fatto scisse in un’area a prevalenza comunicativa(mondo della vita) e un’area a prevalenza strategica (il mercato e la pubblica amministrazione), Ma soprattutto Honneth rimproverava a Habermas di aver fatto svaporare l’immagine del mutamento sociale come frutto dello scontro tra gruppi sociali concreti che configgono intorno ad interessi e concezioni normative contrastanti nell’immagine molto più esangue e disincarnata di uno scontro, o meglio di una tensione, fra due diversi processi di razionalizzazione che inaugurano e accompagnano la modernità: uno interessa la sfera economica e in parte quella politica e si dipana sotto il segno della razionalità rispetto allo scopo, l’altro posto sotto l’egida dell’agire comunicativo, conduce dapprima alla formazione di un mondo di vita autonomo, non più fuso con istanze sacrali o strumentali, e poi alla sua ulteriore differenziazione interna. A questa critica immanente del paradigma comunicativo di Habermas è subentrata da qualche anno, al centro del lavoro di Honneth – memore della lezione della Fenomenologia dello spirito hegeliana e della sua “dialettica servo-signore” in lotta per il riconoscimento – una linea di ricerca che di quella critica fa tesoro per sviluppare un approccio originale e propositivo, imperniato sui concetti di “riconoscimento” (Anerkennung) e “lotta per il riconoscimento” che Honneth espone nel suo volume Lotte per il Riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto. Il nostro sulla scia di Habermas è uno di quei teorici muniti di doppia cittadinanza filosofica e sociologica. Nel suo pensiero teoria sociale e riflessione filosofica si intrecciano indissolubilmente: la teoria del riconoscimento risponde insieme ad una esigenza sociologica l’obiettivo di Honneth è al fondo quello di articolare in un coerente quadro teorico la compresenza di conflitto e progresso, due nozioni che i paradigmi vigenti difficilmente riescono a coniugare insieme senza ridurre uno dei due termini a vuoto simulacro. Da un lato vi sono concezioni della società moderna come quelle di Parsone e Habermas che si sforzano di dare l’intuizione di un progresso normativo nel modo umano di associarsi e convivere e in particolare nel passaggio dalle società premoderne a quelle moderne. Il prezzo che queste concezioni pagano è spesso quello di appiattire il ruolo del conflitto sociale,di eliminarne la tragicità di precostituirne l’esito, di relegarlo a un fenomeno di secondo piano, contingente, e dunque eliminabile. L’evoluzione prevale sulla storia. Dall’altro vi sono teorie che caratterizzano il mutamento sociale come uno scontro fra gruppi sociali concreti in lotta per la propria autoaffermazione e considerano gli aspetti normativi, istituzionali,e culturali come stati di equilibrio, più o meno stabili, in cui però in ultima analisi non si riflettono altro che le istanze di quel gruppo o costellazione di gruppi a cui la contingenza storica e le vicissitudini del conflitto hanno dato modo di prevalere. Difficile è in questo quadro articolare una nozione sensata di progresso: c’è storia ma non evoluzione, nel senso che una forma di dominio (Adorno), o una formazione discorsiva (Foucault) ne succede ad un’altra. Honneth si sforza di articolare il senso in cui è concepire un progresso nel conflitto, piuttosto che un progresso a dispetto del conflitto. Tale progresso nel modo di configgere da per scontata l’ineliminabilità del conflitto tra gruppi sociali portatori di visoni diverse ma rende questa conflittualità il luogo in cui il progresso normativo, lungi dal distruggersi, nel lotta e nel confronto al contrario si fa. Questo è lo sfondo su cui si articola la prospettiva di Honneth. La figura di cui Honneth si occupa, riguarda una questione più specifica: su che cosa verte, qual è il vero oggetto del conflitto da cui può emergere il progresso normativo? È conflitto per il riconoscimento per essere riconosciuti dall’altro. Qui Honneth imprime una svolta inter-soggettiva al tema dell’autoaffermazione e, se vogliamo, della volontà di potenza. Il Conflitto Sociale, nella visione di Honneth, non è mai solo un conflitto per il mero controllo delle risorse, per avere di più, per imporre agli altri una volontà, per il potere. È un conflitto che ha come fine l’affermazione del Sé individuale o collettivo, ma una affermazione che non è veramente completa se non conquista il riconoscimento dell’altro\a. Se il conflitto è al fondo una lotta per essere riconosciuti nel proprio valore dall’altro, alla sua radice c’è sempre in qualche modo una mancanza di riconoscimento. Honneth sviluppa il momento centrale di questa visione articolando a diversi livelli i concetti ancora indifferenziati di riconoscimento, spregio o mancato riconoscimento di cui già Hegel e Mead avevano offerto una prima definizione. Honneth analizza tre tipi di riconoscimento ricostruendoli in negativo ossia come elementi normativi presupposti necessariamente ogni volta parliamo di un’esperienza di spregio, offesa e umiliazione. Si può essere offesi nella propria integrità fisica, con la violenza di forme di maltrattamento che ci pongono nella impossibilità di esercitare l’autonomia più elementare ossia il disporre del proprio corpo. Ad un livello superiore, si può essere offesi di forme di umiliazione che colpiscono la comprensione normativa di sé di una persona forme di umiliazione ad esempio che ci escludono dal godimento dei diritti accordati a tutti i membri a pieno titolo della nostra società. Questo genere di umiliazione rappresenta un attacco al nostro rispetto da noi stessi. Infine si può umiliati nel senso di vedere negato ogni valore sociale al proprio modo di essere, alle proprie affiliazioni culturali, al proprio orizzonte di valori. Questo tipo di umiliazione ci depriva non già della nostra capacità di disporre autonomamente del nostro corpo o di godere dei diritti attribuiti a tutti gli altri membri della nostra comunità, bensì della possibilità di far riferimento al nostro ideale di vita come a qualcosa dotato di significato positivo all’interno della comunità. Da una analisi di queste esperienze negative Honneth trae una distinzione fra tre modalità positive del rapporto dell’attore sociale con se stesso, generate da altrettanti tipi di relazioni di riconoscimento:la fiducia in se stessi come prodotto implicito della relazione d’amore, il rispetto di sé come rispetto implicito nella relazione giuridica e infine l’autostima come prodotto del riconoscimento implicito improntato ad una situazione di solidarietà-Queste tre modalità positive del rapporto con se stessi, legate a tre forme di riconoscimento, rappresentano altrettanti presupposti dell’autorealizzazione individuale. E qui ritroviamo la doppia valenza della riflessione sociologica e filosofia della riflessione del nostro. Sul versante di filosofia morale queste riflessioni sugli elementi costitutivi di relazione con se stessi sono intesi da Honneth come l’ossatura di una teoria formale della buona vita, formulata da una prospettiva post-metafisica e intersoggetiva che va ad affiancarsi ed integrare le altrimenti troppo scarne concezioni deontologiche della giustizia, nel cui novero rientra l’etica del discorso di Habermas. La teoria del riconoscimento, precisa Honneth mira ad occupare una posizione mediana fra una teoria morale di ascendenza kantiana e le etiche comunitariste;della prima condivide l’interesse verso norme quanto più possibili generali, che possano intendersi come condizioni per il realizzarsi di determinate possibilità, delle seconde condivide però il fine dell’autorealizzazione della persona. Sul versante della teoria sociale, queste riflessioni di Honneth conducono invece alla questione del tipo di riconoscimento reciproco su cui l’integrazione di una società complessa deve poggiare. Già Hegel e Mead, i due pensatori che per primi hanno gettato le basi per una teoria del riconoscimento si resero conto del perdurare anche nella società moderna di una esigenza integrativa che solo un orizzonte valoriale può soddisfare. Di questo orizzonte comune, da cui può trarre alimento una solidarietà individuata e individuante, Hegel e Mead hanno messo in luce solo alcuni tratti formali, primo fra tutti il suo dover essere compatibile con le limitazioni normative poste dai rapporti di riconoscimento giuridico sui si basa l’autonomia dei soggetti moderni. Non vi è dubbio però continua Honneth che ciò è insufficiente. Un orizzonte comune in grado di generare solidarietà un ethos democratico moderno dovrà pur avere dei contenuti specifici e materiali da consentire la formazione di identità collettive in un’età in cui l’affermazione della differenza individuale e collettiva sembra diventata la norma. Honneth rifiuta la possibilità che sia la teoria ad indicare questa esigenza integrativa delle società complesse possa in ultima analisi venire meglio soddisfatta da una qualche forma di repubblicanesimo politico, di ascetismo ecologicamente fondato o di esistenzialismo collettivo, e se essa rimanga o meno compatibile con le condizioni di una società capitalista. La risposta ultima spetta solo ad un futuro intessuto di conflitti sociali. Rimane da veder e gli anni a venire daranno risposta questo interrogativo se un atteggiamento di riserbo normativo come questo si in ultima analisi compatibile con le secche del formalismo habermasiano o se invece il punto di una teoria filosofica della società contemporanea non sia di indicarci, sia pure con la cautela postmetafisica indispensabile oggi, quale concreto orizzonte integrativo meglio si attagli a chi noi siamo e perché. In Reificazione, Honneth mette in evidenza i tre mattoni fondamentali sui cui poggia la lunga riflessione lukácsiana in merito alla natura e alle cause della reificazione: 1) equivalenza tra processi di spersonalizzazione delle relazioni sociali e i processi di reificazione; 2) necessaria unità tra le diverse dimensioni della reificazione; 3) eziologia sociale saldamente ancorata ad un rigido determinismo di matrice materialista. Sulla base di questi tre mattoni è dunque possibile ricostruire lo scheletro dell’argomentazione di Lukács: dal momento che ormai la totalità della società è stata investita dall’economia capitalista e che in tale orizzonte le interazioni sociali sono ridotte a meri scambi tra merci nell’ambito dei quali l’altro non viene considerato in quanto persona, ma viene oggettivato in quanto semplice controparte, vi è una tendenza generale alla reificazione che porta a considerare se stessi, gli altri e l’ambiente naturale in quanto “cose” da cui è possibile ricavare un profitto. In altre parole, “Lukács descrive l’effetto prodotto dalla società di mercato capitalistica come se conducesse automaticamente a una generalizzazione delle disposizioni reificanti in tutte e tre le dimensioni, fino a che rimangono soltanto soggetti che reificano tanto se stessi, quanto il loro ambiente naturale e tutte le altre persone” (p. 78). Nella prospettiva lukácsiana l’effetto che viene meccanicamente prodotto nella cornice di una società governata dal modo di produzione capitalistico, è dunque una “seconda natura” artificiale e alienata e, in quanto tale, intrinsecamente malata. La fredda analisi di Lukács nasconde infatti, indubbiamente, un secco giudizio di valore: “La reificazione configura una sindrome di coscienza distorta a più livelli e permanente” (p. 21). Giudizio inappellabile che è sempre sul punto di estendere la propria portata da una condanna ristretta, seppur totale, del sistema capitalistico, ad una condanna estesa, seppur confusa, della Modernità. Si tratta di quella stessa, pericolosa, deriva anti-moderna insita, in maniera più o meno esplicita, in molte opere dei Francofortesi (si veda, ad esempio, un testo cardine quale La dialettica dell’illuminismo) come in molte riflessioni contemporanee, deriva che spinge verso un condanna indistinta tanto della “logica del capitale” quanto della “geometria del moderno”. Le critiche che si possono fare all’approccio lukácsiano sono molteplici e, del resto, ne sono state formulate in gran copia. Tuttavia quella proposta da Honneth mi sembra, nella sua essenzialità, particolarmente stringente: l’approccio di Lukács “è sia concettualmente, sia tematicamente troppo orientato dall’identità tra lo scambio di merci e la reificazione per poter costituire il fondamento teorico di un’analisi allo stesso tempo globale e differenziata” (p. 81). L’approccio strettamente materialista abbracciato da Lukács produce infatti un vero e proprio “accecamento sistematico” (p. 80) che, in quanto tale, impedisce l’elaborazione di una teoria della reificazione che risulti globale, ovvero in grado di inquadrare i diversi processi di reificazione (non solo quelli di natura economica) in uno stesso sguardo sistematico complessivo, e diversificata, ovvero in grado di analizzare statuto e cause delle diverse forme in cui si incarnano, e delle diverse dimensioni secondo cui si manifestano, i processi di reificazione. Ed è proprio a partire da una simile constatazione che Honneth si mette nella condizione di poter intravedere una teoria della reificazione che invece aspiri ad essere ad un tempo globale e diversificata, cioè, nel concreto, capace da una parte di inquadrare e di comprendere, in quanto fenomeni appartenenti alla medesima classe, processi di reificazione economica, fenomeni di tipizzazione quali il maschilismo e l’antisemitismo, l’approccio fisio-biologico nell’ambito degli studi sul cervello, la riduzione dell’essere umano a dati genetici, la ricerca del partner attraverso internet, ecc; dall’altra parte, di fornire per ciascuno di questi fenomeni una descrizione appropriata in virtù di un strumentario concettuale unitario ed adeguato, ovvero sensibile all’inalienabile eterogeneità dei fatti sociali. Anche se l’elaborazione di una simile teoria della reificazione è lungi dal potersi dire completa, è indubbio che il saggio di Honneth riesca, pur nella sua brevità, a fornire importanti indicazioni circa i principi e le direttrici fondamentali del suo dispiegamento. Un’efficace definizione del fenomeno, debitrice di una precedente formulazione della teoria del riconoscimento che raccoglie l’apporto della riflessione di Heidegger, Dewey e Adorno, oltre che di Lukács (capp. 2 e 3), riesce infatti a coglierlo in tutta la sua complessità: reificazione è oblio del riconoscimento, ovvero “è il processo attraverso il quale nel nostro sapere di altre persone e nella loro conoscenza perdiamo la consapevolezza di quanto l’uno e l’altra siano debitori di una precedente disposizione alla partecipazione coinvolta e al riconoscimento” (p. 55). Perdita di consapevolezza che investe, oltre alla dimensione intersoggettiva, la dimensione soggettiva (autoreificazione) e quella oggettiva (reificazione della natura), ovvero quelle che sono le tre dimensioni della reificazione, collegate tra loro seppur autonome. Perdita che si esplica secondo due diverse modalità, l’una che deriva da fattori interni all’azione, l’altra da fattori esterni: la perdita della consapevolezza del riconoscimento può derivare da “l’autonomizzarsi di uno scopo particolare rispetto al contesto dal quale ha tratto origine” oppure da “una serie di schemi di pensiero (che) influenza la nostra prassi, portando a un’interpretazione selettiva dei fatti sociali” (p. 59). Si tratta dunque, in definitiva, o di pratiche sociali o di schemi di pensiero che, a seconda della situazione, provocano – in maniera più o meno consapevole, più o meno efficace, più o meno controllata – la negazione del riconoscimento, ovvero la rimozione di quella forma originaria di relazione emotivamente carica (“cura” in Heidegger, “coinvolgimento pratico” in Dewey, “prassi impegnata” in Lukács, “imitazione” in Adorno) che, alla base di ogni nostra conoscenza della realtà, conferisce ad essa qualità e valore. Negazione che indubbiamente, in determinate circostanze, costituisce la causa determinante di gravi “patologie sociali”, di vere e proprie schiavitù, nell’ambito della prassi vitale umana. Ma che in altre costituisce, in quanto distanziamento controllato e consapevole, la condizione necessaria per l’instaurazione di determinate prassi (si pensi, banalmente, ad un’attività elementare quale il gioco) che, lungi dal condurre meccanicamente ad assetti patologici, contribuiscono in maniera determinante ad arredare lo scenario sociale e a renderlo abitabile. Ma se dunque ogni processo di oggettivazione non è da considerarsi in sé reificante, allora una critica sociale attenta alle forme della complessità moderna non può non riconoscere legittimità a spazi delegati all’oggettivazione (le scienze, la politica, il diritto, ecc.), sempre a patto che questa avvenga in maniera riflessa ed esplicita. Questa è la conclusione, forte e radicalmente contraria rispetto alla prospettiva lukácsiana, che si affaccia qua e là nel corso dell’argomentazione di Honneth. Conclusione che è il naturale esito della prospettiva costruita sapientemente nel corso di tutto il saggio e che emerge in maniera ferma ed esplicita, seppure in forma di dubbio, in questo passo: “Sorge la questione se Lukács non abbia gravemente sottostimato la misura in cui le società altamente differenziate esigono – per ragioni di efficienza – che i loro membri apprendano a rapportarsi strategicamente con sé e con gli altri. Se fosse così, una critica della reificazione non potrebbe essere così totalizzante come la concepisce Lukács, ma dovrebbe escludere sfere sociali nelle quali il comportamento da osservatore distaccato ha un posto del tutto legittimo” (p. 24). Questa è del resto, come sottolinea giustamente Honneth in una nota, la posizione sostenuta, tra gli altri, da Habermas nella Teoria dell’agire comunicativo.
Bibliografia delle opere di Honneth disponibili in italiano
– Critica del Potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, edizione Dedalo.
– Lotte per il Riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto,edizione il Saggiatore.
– Riconoscimento e Disprezzo. Sui Fondamenti di un’etica post-tradizionale, edizioni Rubbettino.
– Il dolore dell’Indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel, edizioni Manifestolibri.
– La Reificazione, Biblioteca Meltemi.
– Redistribuzione o Riconoscimento? (con Nancy Fraser), Biblioteca Meltemi
NORBERT ELIAS
A cura di Silvia Ferbri
“La civilizzazione non è ancora compiuta: è in divenire.”
Introduzione
Norbert Elias è una delle più grandi figure della sociologia del secolo scorso, la cui grandezza però per tutta una serie di sfortunate circostanze non ha avuto il riconoscimento che meritava fino quasi al termine della sua vita. Le sue opere infatti vennero scoperte e apprezzate dal largo pubblico solo molto tempo dopo essere state scritte. Ma considerarlo un “semplice” sociologo può apparire ancora riduttivo: è di certo più esatto definirlo un “sociologo dotato di vocazione filosofica”, come ha correttamente osservato Giuseppe Limone in un suo recente saggio scritto per un seminario dell’Università degli studi di Napoli. Nei testi di Elias non troviamo soltanto il rigore e la precisione della ricerca storico-empirica, o un’approfondita riflessione teorico-sociologica; troviamo anche un pensiero che attraversa quasi con noncuranza profondità più ampie, un pensiero quindi che ha spesso un sapore squisitamente filosofico anche se forse non ricercato e neppure del tutto consapevole. Elias del resto si era laureato in filosofia prima di dedicarsi agli studi sociologici, e questa sua formazione ha inevitabilmente lasciato la sua impronta.
La sua opera fondamentale, Il processo di civilizzazione, pubblicata nel nostro paese nella sua originaria unità solo molti anni dopo le prime edizioni frammentate, apparve in Svizzera nel 1939. Norbert Elias era all’epoca un giovane sociologo ebreo, assistente per qualche anno di Karl Mannheim all’Università di Francoforte prima di essere costretto a stabilirsi per una trentina d’anni in Inghilterra. Non aveva scritto molto fino a quel momento, e la prima edizione di quell’opera monumentale, Über den Prozess der Zivilisation, non poté per ovvi motivi essere diffusa in quel periodo né in Germania né in qualsiasi altro territorio occupato dai nazisti, così come aveva difficoltà a circolare nel mondo di lingua francese e anglosassone, sia per le quasi ottocento pagine che per il nome totalmente sconosciuto dell’autore e non ultimo per motivi linguistici, essendo scritta in tedesco. Tra le scarsissime recensioni che apparvero negli anni immediatamente successivi all’uscita del testo spicca soltanto quella di Franz Borkenau, membro negli anni Trenta dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, il celebre centro di ricerca diretto da Horkheimer e Adorno. Elias e Borkenau erano amici, e di lì a poco avrebbero condiviso lo stesso destino di emigranti, in esilio prima a Parigi e poi a Londra. La recensione di Borkenau apprezzava lo studio di Elias, accostandolo alla migliore tradizione di Max Weber e della sua scuola, pur criticandone l’analisi in alcuni punti.
A lungo il testo di Elias ed Elias stesso resteranno quasi sconosciuti al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, fino alla comparsa della seconda edizione del libro in Germania nel 1969, accostata alla prima edizione di un altro grande lavoro di Elias, inedito fin dagli anni Trenta, Die höfische Gesellschaft (La società di corte). Finalmente questo grande sociologo poté uscire dall’ombra. Da quel momento in poi Elias ha conosciuto un successo editoriale dopo l’altro, fino al conferimento a Francoforte del prestigioso premio Adorno, che rappresentò una sorta di consacrazione definitiva.
Quali sono i temi e i contenuti del pensiero di Elias?
Innanzitutto le configurazioni dinamiche dei rapporti sociali, i processi che si svolgono nel tempo, l’interdipendenza dei fenomeni analizzati, presi sempre in esame nella loro unione inscindibile e nella loro complessità. Poi lo stretto rapporto che esiste tra dimensione sociale e dimensione psicologica, di conseguenza il legame altrettanto inscindibile tra il singolo individuo e la società di cui fa parte, il tutto analizzato nel suo processo storico. Elias stesso definì la sua sociologia una “sociologia storico-processuale“, a sottolineare la fondamentale importanza dello sviluppo sociale nel tempo e del suo continuo mutare e divenire storico. Ci troviamo pertanto di fronte a una “sociologia evolutiva“. Nell’interrogarsi su cosa debba essere la sociologia, Elias prese ben presto le distanze da quella che definì “metafisica sociale”, elaborando una forma di pensiero e un metodo di ricerca autonomi e acquisendo così un ruolo di “outsider” in Germania. Secondo Elias la sociologia si era ridotta ad applicare meccanicamente la metodologia delle scienze naturali ai fenomeni sociali. A questo metodo egli contrappose la configurazione e il processo, due categorie concettuali in grado di rispondere in maniera ben più adeguata, scientificamente, alle esigenze delle scienze sociali e alle concrete necessità delle realtà storiche, quindi alle problematiche economiche, psicologiche, istituzionali. Le sue ricerche si discostavano decisamente dalle posizioni quantitativiste e funzionaliste dominanti.
“Per capire di che cosa si occupa la sociologia“, scrisse, “si deve essere in grado innanzitutto di percepire se stessi come una persona tra le altre persone.” (Che cos’è la sociologia). Egli effettuò una approfondita critica delle “categorie” sociologiche ed elaborò una vera e propria teoria dello sviluppo sociale. Le strutture, le istituzioni e i ruoli (intesi spesso non solo nel linguaggio sociologico, ma anche in quello comune, come oggetti fisici, statici ed esterni a noi) vengono riumanizzati da Elias e acquistano spessore storico. I temi che Elias affronta in Che cos’è la sociologia?, proponendo la sua “sociologia evolutiva”, sono di grande respiro: il passaggio dal sapere prescientifico a quello scientifico, la distinzione tra scienze della natura e scienze della società (temi non solo weberiani, ma specifici anche in Dilthey), la divisione del lavoro scientifico, la ricerca delle caratteristiche fondamentali comuni a tutte le società, il potere che le persone e i gruppi esercitano gli uni verso gli altri. Il merito della sociologia processuale consiste infatti nel produrre una conoscenza infra-politica, e forse anche infra-filosofica, della complessità sociale, (attraverso l’analisi delle varie tipologie di legami sociali) svelando il funzionamento interno e le profonde modificazioni storiche dell’epoca attuale e, in un certo senso, di tutte le epoche dell’uomo. Di fronte al quesito: è l’individuo che costruisce la società o è la società che costruisce gli individui?, di fronte alla scelta tra un “individualismo” o un “olismo” metodologici, per Elias la prima cosa da dire è che simili domande non esprimono altro che un falso dilemma: individuo e società sono due aspetti diversi ma inseparabili tra loro (quasi come i “sinoli” di Aristotele). Uno non può esistere né venire spiegato senza l’altro. Sono due prospettive diverse per designare lo stesso fenomeno. “Quello che spesso nel pensiero si tiene diviso come se si trattasse di due sostanze diverse o strati dell’uomo, la sua «individualità» e la sua «determinazione sociale», non sono altro che due diverse funzioni di cui gli uomini dispongono nei loro rapporti reciproci: indipendentemente l’una dall’altra non hanno alcuna consistenza.” (La società dell’individuo). Sia le teorie olistiche che quelle atomistiche della società vanno pertanto superate. Se pensiamo all’uso dei pronomi personali (“io”, “tu”, “noi”, “voi”, che in Elias diventano modelli figurazionali), osserva Elias, ci rendiamo conto che non è che il modo più elementare per esprimere il fatto che ogni uomo è fondamentalmente in rapporto con gli altri e che ogni individuo è essenzialmente un essere sociale. Per Elias tanto una teoria sociologica dell’azione (che si basa sull’individuo singolo, slegato dal sistema sociale) quanto una teoria sociologica del sistema (che analizza invece il sistema sociale prescindendo dai singoli individui), rispettivamente l’approccio di Weber e quello di Parsons, risultano lacunose e fallimentari. Egli critica pertanto, come modello di homo sociologicus, la concezione dell’homo clausus, alla quale oppone la concezione di homines aperti, caratterizzata da pluralità e processualità. Pluralità, perché ogni individuo vive di interdipendenze ed è inserito nella coralità sociale (ove assume un’identità), processualità, per rendere il senso della continua trasformabilità culturale e storica delle unità individuali e collettive. La processualità implica il mutamento. L’uomo non solo attraversa un processo, ma, per Elias, è un processo egli stesso. Le figurazioni di Elias, basate sul concetto di interdipendenza tra gli uomini, sono processi dinamici. Occorre quindi definitivamente superare, oltre alle concezioni statiche, la concezione dualistica che vede uomo e società contrapposti come due unità diverse e antagonistiche. Dopo l’antico predominio della dimensione comunitaria sull’individuo, da Cartesio in poi è stata l’assoluta centralità dell’individuo, dell’io, a imporsi e a condizionare fortemente i metodi di pensiero e di studio. Elias rigetta questa impostazione, limitata e incompleta come l’approccio opposto. In questo senso Elias prende le distanze anche da Max Weber e dal suo spiccato individualismo metodologico (così come da Parsons per il metodo opposto) pur essendovi stato spesso accostato. Secondo Elias, Talcott Parsons, considerato per lungo tempo punto di riferimento e teorico-guida degli studi sociologici, scompone analiticamente nelle loro componenti elementari i diversi tipi di società. Elias critica i suoi elementary components e i suoi pattern variables (“variabili modello”), che vengono applicati a partire dalla distinzione tra “comunità” e “società” elaborata da Tönnies. Si tratta di concezioni statiche, di elementi chiusi in se stessi, che non entrano mai davvero in contatto gli uni con gli altri (quasi delle monadi leibniziane), e le categorie di base (innanzitutto la contrapposizione “Ego-System”) sono alquanto arbitrarie. Max Weber, in modo concettualmente analogo, contrapponeva l'”agire sociale” a quello “non sociale”. La dimensione relazionale è invece per Elias alla base stessa della disciplina sociologica. Per questo rifiuta con decisione di concepire le componenti della società come esseri ontologicamente indipendenti, così come la visione ideale di un individuo libero e indipendente da tutti gli altri. Respinge una ipotetica “penetrazione” dell’elemento individuo nell’elemento società o viceversa: società e individuo sono tutt’uno, uno non può esistere senza l’altra. Allo stesso modo Elias non condivide la visione dei mutamenti sociali come fenomeni casuali che arrivano dall’esterno a turbare un sistema sociale ben equilibrato (che non può esistere).
In Elias è poi centrale il tema del potere, per il quale talvolta è stato accostato a Michel Foucault. Se prendiamo in esame il testo Strategie dell’esclusione (The Established and the Outsiders, Londra 1994), edito in Italia da Il Mulino nel 2004, una ricerca condotta dal giovane studioso John L. Scotson e diretta da Elias nei primi anni Sessanta sulla popolazione di una piccola comunità operaia inglese, Winston Parva (dove nuove famiglie operaie arrivano dalla campagna o da altre zone dell’Inghilterra a stabilirsi accanto alle “vecchie” famiglie del posto), rileviamo la specifica “impronta” della teoria e del metodo del grande sociologo-filosofo tedesco. La ricerca è ispirata infatti alla sua teoria configurazionale sui gruppi sociali interdipendenti. Proprio nel saggio introduttivo di Elias emerge la più vasta portata dell’indagine sociologica svolta a livello locale tra “radicati” (established) ed “esterni” (outsiders). Il testo riveste un grande interesse sia sul piano sociologico che su quello filosofico: da un lato offre un’applicazione significativa (un “paradigma empirico”) delle idee esposte da Elias nelle sue opere maggiori (come Il processo di civilizzazione) nel quadro di quella che lui stesso, come abbiamo visto, definì “sociologia storico-processuale”, dall’altro consente di elaborare alcune riflessioni critiche sul tema della “comunità”, sottraendolo ad ogni vaga concettualizzazione per ricondurlo entro i netti confini dell’analisi dei rapporti sociali nell’occidente moderno. Nell’esame dei rapporti tra “vecchi” e “nuovi” residenti, tra la comunità dei “radicati” e quella degli “esterni”, tra la “maggioranza” e la “minoranza anomica”, troviamo un’interessante configurazione dinamica di due gruppi sociali, basata su un’asimmetria di potere. All’interno di questo discorso ricevono ampio spazio i temi dell’esclusione e della devianza. Elias dimostra come si trovino facilmente supporti etnici, religiosi, economici, culturali, anche quando di fatto questi non esistono, tutte le volte che sono in gioco i rapporti di potere tra gruppi diversi all’interno di un unico sistema complesso. E’ la stessa interdipendenza sociale a produrre quelle asimmetrie comparative che portano i “radicati” a sentirsi superiori agli “esterni”, e gli “esterni” a esprimere il proprio risentimento con comportamenti spesso aggressivi e violenti. L’interdipendenza rivela inoltre che non esistono comunità buone in sé, dotate di norme universalmente valide e contrapposte perciò ad altre comunità in sé cattive ed anomiche. Solo nell’ambito di una configurazione sociale e nei suoi rapporti di potere emerge la distinzione “radicati-esterni” o “superiori-inferiori”. Sono analizzati l’autoidentificazione e il carisma di gruppo, che nel caso della minoranza anomica assumono come abbiamo visto un ruolo di difesa con tratti aggressivi, tra cui fenomeni di devianza tra i giovani del gruppo minoritario. Pare riproposto in una nuova forma il tema weberiano dell’avalutatività. Ma Elias è andato oltre, sottolineando anche il ruolo dell’immaginario nella costruzione dell’identità sociale e il carattere composito, strutturato e conflittuale di ciò che immediatamente designiamo con il termine “comunità”. E’ criticato anche il presunto carattere felice e originario della comunità dei radicati, dimostrando la loro specifica auto-costrizione, il loro auto ed etero controllo, il loro conformismo, la competizione e l’ostilità all’interno del gruppo dominate, essendo la rivalità un elemento indispensabile per conquistare riconoscimento agli occhi della gerarchia che detiene le risorse di potere. Outsiders e Established sono ancora una volta due aspetti dello stesso problema, impensabili come soggetti a sé, e pertanto vanno analizzati contemporaneamente. La teoria che qui emerge non è vincolata al contesto analizzato, ma può essere applicata a una vasta gamma di modelli mutevoli di disuguaglianze umane: alle relazioni tra classi, gruppi etnici, colonizzatori e colonizzati, uomini e donne, genitori e figli, omosessuali ed eterosessuali. Si impone la figura dello straniero moderno, frutto della mobilità sociale e geografica: non solo la figura del migrante, ma quella dell’estraneo, dell’outsider, che è trasversale alle più diverse situazioni di rapporti tra gruppi sociali. L’outsider mette in moto un modello di interazione peculiare, un antagonismo reciproco e inevitabile (non espressamente voluto) tra se stesso e il gruppo più antico e coeso. Questo tipo di straniero, nell’era moderna, prende il posto dello straniero del mondo antico, che era tale in quanto proveniente da un altro paese. Uno degli aspetti più originali dei questa indagine è che le forme di potere che Elias rileva e analizza hanno radici dinamiche e profondamente diverse da quelle tradizionali (maggiore ricchezza, possesso dei mezzi di produzione). Qui ci troviamo infatti all’interno della stessa classe sociale, quella operaia nello specifico, e osserviamo che la dinamica del potere si basa sulla costruzione di forti elementi identitari da parte del gruppo più “anziano” per affermare la propria coesione e la propria superiorità e per mantenere gli ultimi arrivati al loro posto, tramite l’esclusione e la stigmatizzazione. Autocontrollo e autostima rivolti al proprio gruppo, diffidenza e disistima nei confronti dell’altro. Un gruppo si impegna quindi a migliorare la propria posizione, l’altro a mantenere la propria (indipendentemente dal fatto che prevalga di volta in volta l’aspetto razziale, etnico, linguistico, ecc.). I ruoli infatti, all’interno dell’odierna mobilità sociale, sono intercambiabili. (Le persone, più che spostarsi fisicamente, geograficamente, osserva Elias, si muovono in realtà da un gruppo sociale all’altro, ed è questo che si è in genere trascurato, così come si è guardato di più alla dimensione verticale della mobilità sociale rispetto a quella orizzontale, quella che avviene cioè nell’ambito di una stessa classe economica). Oggi mi trovo a essere un established, domani potrei essere un outsider. Il problema è che non siamo attrezzati per questa mobilità troppo veloce, abbiamo ancora una bassa soglia di tolleranza per chi è diverso da noi, per chi non conosciamo. Rileviamo ancora una volta, anche in questo lavoro, il rifiuto della contrapposizione ontologica, così cara alla sociologia accademica, tra individuo e società. Elias respinge con profonda convinzione sia l’atomismo individualistico che l’olismo sociale, vizi di comprensione della reale pluralità umana, che sempre va colta nella sua struttura profonda e nel suo divenire storico. E poi, ancora, rileviamo l’arbitrarietà di una ricerca divisa tra ciò che funziona e ciò che non funziona, tra ciò che è bene e ciò che non lo è, tra maggioranze e minoranze (pensiamo al concetto di anomia di Durkheim, alla contrapposizione anomia/nomia), perché ciò che funziona e ciò che non funziona sono nella realtà elementi uniti e inseparabili. E’ la percezione del ricercatore, quindi, che rende dipendenti o indipendenti i fenomeni. Si potrebbe osservare che il concetto di “configurazione” era presente anche in Simmel. Ma l’uso di tale concetto non è identico nei due autori. Simmel lo usa per indicare indifferentemente forme di reciprocità tra uomini o forme di associazioni, Elias invece in una prospettiva storica ed evolutiva. Se ricordiamo il contributo di Talcott Parsons e Niklas Luhmann all’analisi dell’oggettivazione del potere, e il piano essenzialmente teorico e astratto su cui questo contributo si collocava, non possiamo che rallegrarci di tutti quei lavori originali, basati su approfondite ricerche e su un’ampia documentazione di tipo storico, svolti nel corso del Novecento sia da Elias che da Michel Foucault. Per quanto riguarda invece il rapporto di Elias con Mannheim, di cui fu allievo, fu questo un rapporto alquanto complesso. Elias prese le distanze dalla concezione politica di Mannheim della “pianificazione sociale”, ma al tempo stesso continuò ad elaborare la sua “posizione conoscitiva” e la sua visione della “concatenazione delle generazioni”.
Il Processo di civilizzazione di Elias (che analizzeremo più avanti) è un’opera straordinaria, uno studio che possiamo definire rivoluzionario per il suo irrompere con approcci e temi del tutto nuovi nel panorama alquanto stagnante della sociologia dell’epoca, anche se il riconoscimento che meritava ha tardato così a lungo.
Elias è stato infine riconosciuto come quel grande studioso e grande ricercatore che era, un ricercatore che ha aperto nuove strade prima impensabili e a cui quindi dobbiamo molto, un ricercatore e un pensatore instancabile e mai soddisfatto di quanto stesse facendo. All’età di novant’anni scrisse: “Fino a oggi non ho l’impressione di essere capito del tutto. Nei miei scritti ci sono così tanti temi che non vengono ripresi e recepiti. Non ho ancora l’impressione di aver compiuto il mio lavoro.”
La vita e le opere
Norbert Elias nacque a Breslavia (oggi Wroclaw, città polacca, allora appartenente alla Germania) il 22 giugno 1897, da una famiglia ebrea, unico figlio di Hermann Elias, piccolo imprenditore tessile, e Sophia Elias. Norbert non seguì la strada paterna e dopo gli studi ginnasiali e l’esperienza della prima guerra mondiale (sul fronte occidentale) si iscrisse all’università della sua città natale dove studiò medicina e filosofia. Trascorse interi semestri a Friburgo e ad Heidelberg, dove studiò con Rickert e dove conobbe Karl Jaspers. Scrisse però la sua tesi di dottorato a Breslavia, sotto la guida del filosofo neokantiano Richard Hönigswald. Il titolo della tesi era: Idee und Individuum (L’idea e l’individuo). Elias conseguì la laurea in filosofia nel 1924, al prezzo di un profondo disaccordo con Hönigswald. Le obiezioni di Elias, che rivelava così la sua spiccata personalità e la sua autonomia di pensiero, si spingevano fino al cuore dell’intera tradizione kantiana. Ciò che Elias contestava e metteva in discussione era la convinzione di Kant che determinate categorie di pensiero (lo spazio, il tempo, la causalità, e alcuni fondamentali principi morali) non derivassero dall’esperienza ma fossero innate, eterne e universali nella mente umana. Il rifiuto di questo assunto da parte di Elias fu determinante per la sua carriera successiva. Dalla filosofia egli passò alla sociologia. Decise infatti di continuare a studiare all’università di Heidelberg, attratto dagli studi storico-sociologici là dominanti, sotto la guida di Alfred Weber (il fratello più giovane di Max Weber) e Karl Mannheim, con il quale strinse una profonda amicizia. Quando quest’ultimo si trasferì a Francoforte, dove gli era stata offerta la cattedra di sociologia, Elias lo seguì come assistente. L’università si trovava all’interno dell’istituto diretto da Horkheimer che si sarebbe caratterizzato come sede della “Scuola di Francoforte”. Fu allora che iniziarono le ricerche di Elias sulla società di corte, un argomento in cui si era imbattuto in modo piuttosto casuale, mentre cercava di risalire alle origini sociali e culturali del pensiero liberale francese ottocentesco. Questa tema sarà di fondamentale importanza per i suoi lavori futuri. Aveva appena completato questo studio, che doveva essere la sua tesi per l’abilitazione, quando i nazisti salirono al potere in Germania ed Elias dovette lasciare il suo paese. Si trasferì prima a Parigi e poi, nel 1935, in Inghilterra.
In quegli anni difficili, in un paese straniero di cui non conosceva la lingua e con ben poche prospettive davanti a sé, lavorò intensamente al saggio Über den Prozess der Zivilisation. Soziogenetische und Psychogenetische Untersuchungen (Il processo di civilizzazione, Bologna, Il Mulino, 1988), che venne pubblicato in due volumi nel 1939 presso la casa editrice svizzera Haus zum Falken di Basilea. L’opera passò pressoché inosservata nel mondo accademico, con l’eccezione di uno sparuto gruppo di studiosi olandesi, che ne colsero fin da subito l’originalità e l’importanza. Quest’opera piacque molto a Thomas Mann. Walter Benjamin invece non volle recensirla sulla rivista dei sociologi francofortesi in esilio.
Gli anni successivi furono così particolarmente duri per Elias. Privo di un incarico universitario stabile, era costretto a sopravvivere con mille lavori d’occasione. Ciononostante continuò i suoi studi storico-sociologici e approfondì il suo interesse per la psicologia, seguendo anche dei corsi di formazione per la conduzione di gruppi terapeutici. In quegli anni morirono entrambi i suoi genitori. La madre di Elias perse la vita ad Auschwitz, probabilmente nel 1941, e questo evento rappresentò il più grande dolore della sua vita.
Soltanto nel 1954, all’età di cinquantasette anni, gli fu finalmente offerta una cattedra all’università di Leicester, dove Elias contribuì a dar vita a un importante dipartimento di sociologia (vi studiarono Anthony Giddens e John Goldthorpe). Ma anche dopo aver raggiunto questo obiettivo, le sue pubblicazioni continuarono ad essere conosciute soltanto da pochi studiosi. Nel 1962, concluso per limiti di età il suo incarico a Leicester, decise di trasferirsi in Ghana, dove insegnò sociologia per due anni presso l’università Legon di Accra.
Tornato in Inghilterra intraprese nuove ricerche (nel 1965 apparve The Established and the Outsiders) e cominciò a lavorare a una seconda edizione del Processo di civilizzazione, che uscì così finalmente anche in Germania nel 1969. In quello stesso anno fu pubblicata per la prima volta in tedesco Die höfische Gesellschaft. Untersuchungen zur Soziologie des Königtums und der höfische Aristokratie mit einer Einleitung: Soziologie und Geschichtswissenschaft (La società di corte, Bologna, Il Mulino, 1980). Fu l’inizio di una nuova fase nella carriera scientifica di Elias. Le sue idee cominciarono ad essere conosciute e apprezzate, se ne iniziò a discutere nelle università europee e statunitensi. Elias ricevette numerosi inviti in Germania e in Olanda. Il Processo di Civilizzazione, lavoro ambizioso fin dall’inizio nel suo analizzare le fasi e il percorso della civilizzazione nell’Europa Occidentale a partire dal medioevo, (basandosi sulla formazione dei ceti sociali e sul monopolio del potere al loro interno), per Elias era ancora qualcosa di più e rivestiva quindi una grandissima importanza: non si trattava di una tesi singola e specifica, valida unicamente per quello studio, bensì di un nuovo paradigma che doveva rivoluzionare il modo stesso di fare sociologia. Tutto questo cominciava infine, dopo così tanti anni, ad essere accolto e condiviso.
Nella prima metà degli anni Settanta presero ad uscire edizioni economiche dei suoi libri e anche le prime traduzioni, accolte ovunque con un significativo successo di vendite. L’università di Francoforte lo nominò professore emerito e nel 1977 gli fu assegnato il prestigioso premio culturale Theodor Adorno.
“Con questo“, disse Elias in quell’occasione, “avete premiato qualcuno che, senza aver dimenticato il legame con il passato, non si è mai piegato alla sua autorità. E’ stato molto faticoso. Mentre si fa ricerca, ci risuonano all’orecchio le voci delle autorità del passato e dei contemporanei che ci criticano. Si sentono tutti i possibili argomenti e commenti come voci nelle nostra testa. Ma si è perduti se ci si lascia fuorviare nella propria capacità di pensare autonomamente.”
Passò gli ultimi anni della sua vita senza smettere mai di lavorare ad Amsterdam (l’Olanda era in qualche modo la sua patria adottiva per quanto riguarda l’accoglimento dei suoi primi lavori), dove morì il 1° agosto del 1990.
Tra le sue ulteriori opere ricordiamo:
Der Übergang vom feudalen zum bürgerlichen Weltbild. Studien zur Geschichte der Philosophie der Manufakturperiode, Parigi 1934, trad. it. La transizione dall’immaginario feudale all’immagine borghese del mondo, Bologna, Il Mulino, 1984,
Was ist Soziologie?, Monaco 1970, trad. it. Che cos’è la sociologia?, Rosenberg & Sellier, 1990,
Engagement und Distanzierung, Francoforte 1983, trad. it. Coinvolgimento e distacco, Bologna, Il Mulino, 1988,
Über die Zeit, Francoforte 1984, trad. it. Saggio sul tempo, Bologna, Il Mulino, 1986,
Humana Conditio. Beobachtungen zur Entwicklung der Menschheit am 40. Jahrestag eines Kriegsendes (8 May 1985), Frankfurt 1985, trad. it. Humana Conditio, Bologna, Il Mulino, 1987,
Die Gesellschaft der Individuen, Frankfurt, 1987, trad. it. La società degli individui, Bologna, Il Mulino, 1990,
Quest for excitement. Sport and Leisure in the Civilizing Process, Oxford, 1986, trad. it. Sport e aggressività, Bologna, Il Mulino, 1989,
Über die Einsamkeit der Sterbenden in unseren Tagen, 1982, trad. it. La solitudine del morente, Bologna, Il Mulino, 1985,
Studien über den Deutschen, l’ultimo libro pubblicato quando Elias era ancora in vita, dove è ripreso il tema della fragilità del processo di civilizzazione e del pericolo sempre presente di iniziare un inverso processo di “barbarizzazione”.
Dopo la sua morte comparvero Norbert Elias über sich selbst, 1990, Mozart: zur Soziologie eines Genies, 1991, Mozart, sociologia di un genio (Il Mulino 1991) The symbol theory, London, 1991, Teoria dei simboli (Il Mulino 1998) e recentemente Frühschriften, una raccolta dei suoi primi lavori.
La società di corte
Nella breve introduzione ai sette capitoli del testo, Elias precisa subito qual’è l’oggetto del suo studio: la corte, come “organo” centrale e rappresentativo della società europea nel Cinquecento, nel Seicento e nel Settecento.
“A quell’epoca“, scrive, “non era ancora la “città”, ma la “corte”, e la società di corte, la matrice capace di esercitare la massima influenza ovunque.”
Questo potere della corte è particolarmente evidente proprio in Francia, durante il regno di Luigi XIV. Elias ricostruisce in maniera estremamente minuziosa i singoli aspetti della vita quotidiana nella reggia di Versailles, gli appartamenti degli aristocratici, le regole dell'”etichetta”, i riti quotidiani, le cerimonie. L’etichetta è la rappresentazione di un ordine gerarchico istituzionalizzato.
Si tratta infatti di un mondo specifico, connotato da un complesso sistema di interdipendenze tra gli individui che include lo stesso monarca. Il significato e le funzionalità di quel particolare mondo sono al centro dello studio di Elias. La società di corte ci appare come una articolatissima struttura sociale che anticipa in qualche modo quella razionalizzazione dei comportamenti giudicata da Weber e altri studiosi come un tratto peculiare della società borghese.
La condotta aristocratica, con la sua ricerca di prestigio piuttosto che di denaro, può apparire irrazionale per i valori borghesi, ma riscontriamo significative analogie tra i due sistemi socio-culturali, analogie basate sullo stimolo a sviluppare una capacità di controllo dei comportamenti individuali in relazione al calcolo delle conseguenze nella competizione sociale. E’ quindi un lavoro innovativo quello di Elias, sia nei metodi che nei risultati, estraneo alle tradizioni accademiche. Le critiche e le perplessità non sono mancate (in particolare si è accusato Elias di eccessiva fiducia in una presunta superiorità dell’Occidente) ma infine le sue teorie su società e cultura, come abbiamo visto, sono state ampiamente accolte.
L’analisi di Elias in questo testo parte dagli spazi, con un capitolo dedicato a “strutture e significato delle abitazioni”. Vengono analizzate le residenze della nobiltà di corte (che possiede palazzi in città e appartamenti a Versailles) e quelle dell’alta borghesia, in particolare le articolazioni e le divisioni interne degli alloggi, rivelatrici dello status, dei valori e dei comportamenti dei diversi ceti sociali. E’ esaminata nel dettaglio la differenziazione e la funzione degli spazi di ricevimento nelle case dell’alta nobiltà. Nel secondo capitolo Elias ci parla invece della differenza tra l'”ethos sociale” della borghesia professionale (che subordina le spese alle entrate per consentire risparmi e investimenti) e quello della nobiltà di corte (ethos del consumo per lo stato), che spende in maniera adeguata al proprio rango per non perdere il rispetto della società. Questo comporta l’accentuarsi dei legami di dipendenza degli uomini di corte dal favore del re.
Il terzo capitolo descrive e analizza l’etichetta e il cerimoniale di Versailles, illustrandoci quindi quella complessa gerarchia sociale che ha al suo vertice il palazzo reale.
Il re è l’indiscusso “padrone di casa”, nella corte e nell’intero paese, e qui tutto serve a rimarcarlo. Elias ci conduce attraverso le stanze e i corridoi, ci fa assistere ai diversi rituali che vengono celebrati nei suoi appartamenti, a partire dal risveglio mattutino. Ci rendiamo conto, via via che procede la descrizione, che lo stesso re dipende dall’etichetta e dalla nobiltà di corte, essendo quest’ultima del tutto indispensabile per la legittimazione del potere sovrano.
Esiste un complesso “sistema di interdipendenze” nell’intera società dell’antico regime. Questo delicato equilibrio è il risultato di un complesso processo storico (analizzato nel quinto capitolo), e cioè la trasformazione dei rapporti tra monarchia, nobiltà e borghesia nel corso dell’età moderna.
Questa evoluzione spinge una parte della nobiltà cavalleresca a mescolarsi con la borghesia emergente e a trasformarsi in una nobiltà di corte (fenomeno definito da Elias come “curializzazione della società guerriera”), che porta alla nascita di un romanticismo aristocratico. Il libro si conclude con un capitolo sulle “cause sociali” della rivoluzione francese.
Qui Elias osserva che sono proprio la natura e il funzionamento della società di corte a spiegare l’inadeguatezza delle reazioni della monarchia e della nobiltà alle pressioni dei nuovi gruppi sociali in ascesa, poi protagonisti della rivoluzione e della fine dell’antico regime.
I gruppi al vertice, prigionieri ormai delle proprie istituzioni, non facevano che irrigidirsi ancora di più e non erano in grado di guardare in faccia la realtà, illudendosi di poter mantenere le privilegiate posizioni di potere che avevano acquisito. A questo modo non furono capaci di accettare e attuare delle concessioni economiche e quindi trasformare pacificamente le istituzioni secondo i mutati rapporti di forza.
La società di corte di Elias è indubbiamente una delle opere che più hanno influenzato il rinnovamento degli studi di storia culturale e sociale negli ultimi trent’anni del Novecento.
L’approccio tipico di Elias è in questo testo inconfondibile: nella vita degli uomini esiste uno stretto rapporto tra dimensione sociale e dimensione psicologica. E’ necessario pertanto analizzare la formazione e gli sviluppi delle società e dei sistemi politici in relazione alle trasformazioni dei comportamenti individuali e dei modelli di costruzione delle identità personali.
Superando ancora una volta la tradizionale divisione tra individuo e società, Elias sottolinea come la costruzione e il consolidamento dello stato moderno in Europa siano stati accompagnati e favoriti dalla nascita e dalla diffusione di nuove forme di moralità e inediti meccanismi di autocontrollo e inibizione, temi che saranno ripresi a sviluppati ancora più a fondo nel Processo di civilizzazione.
Il processo di civilizzazione
La civiltà delle buone maniere e Potere e civiltà uscirono separatamente, così come avvenne all’estero, anche nel nostro paese, (rispettivamente nel 1982 e nel 1983 presso Il Mulino) prima di comparire finalmente riuniti in un unico volume, Il processo di civilizzazione, che come abbiamo visto è l’opera probabilmente più importante di Norbert Elias, anche se ha dovuto attendere una trentina d’anni prima di venire pubblicata nel paese natale dell’autore e prima di ottenere ovunque il riconoscimento che meritava.. L’opera ha riacquistato così la sua unità originaria, nella quale soltanto ha il suo senso pieno e la sua completezza. Il libro, costruito sui due piani contigui della ricerca storico-empirica e della riflessione teorico-sociologica, esamina due temi specifici: la formazione dello stato moderno (in quanto detentore del monopolio pubblico della violenza fisica e dell’apparato fiscale, tema ripreso da Max Weber) e lo sviluppo del controllo e della repressione delle emozioni (tema ripreso da Freud). Ma ciò che il testo in realtà vuole affrontare è il nodo più generale del mutamento storico, e il problema di quanto esso sia determinato dal cieco intrecciarsi degli eventi o dalle azioni intenzionali degli uomini. E’ un tema che ritorna incessantemente in tutto il percorso intellettuale di Elias, e che lo accomuna solo in parte, come abbiamo visto, alla tradizione sociologica europea, in un certo senso più “arretrata” di lui sotto questo aspetto.
I due temi cui abbiamo accennato sono esaminati nella loro interrelazione storica, e ciò su cui si concentra l’autore è l’interrogativo circa il modo in cui questo intreccio prende forma all’interno di una precisa fase storica di passaggio: quella che trasforma la società cavalleresco-cortese dell’undicesimo e dodicesimo secolo nella società assolutistico-curiale del sedicesimo e diciassettesimo secolo. Questo trapasso, così come qualsiasi altro, è per Elias il risultato di una dinamica storica in cui si intrecciano interdipendenze e differenziazioni che non sempre riflettono le reali intenzioni e i progetti degli uomini del tempo. Il tutto è saldato strettamente al tema, fondamentale per Elias, del rapporto tra organizzazione sociale e comportamento individuale.
E’ ben presente qui il concetto di configurazione, che abbiamo già esaminato, e che come abbiamo visto esprime un insieme di relazioni dinamiche tra individui interdipendenti: concetto relazionale e processuale al tempo stesso, che permette di superare la netta separazione tra individuo e società al centro invece di tutta una parte della sociologia dell’epoca.
Con questo lavoro Elias voleva gettare le basi per una teoria sociologica non dogmatica, che si distaccasse da quelle idee metafisiche che al concetto di evoluzione collegano o l’idea di una necessità meccanica o quella di una finalizzazione teleologica. Una teoria sociologica empiricamente fondata, quindi, dei processi sociali in genere e dello sviluppo sociale in particolare.
Non solo, ciò che Elias sperava era anche di avvicinarsi il più possibile alla soluzione di un problema non da poco: quello cioè del rapporto tra strutture individuali, psicologiche (le cosiddette strutture della personalità) e le configurazioni che molti individui interdipendenti creano congiuntamente, cioè le strutture sociali. In Elias entrambi questi tipi di strutture sono visti non come immutabili, ma come strutture mutabili e in mutamento, aspetti interdipendenti del medesimo sviluppo a lungo termine.
Elias esamina i due diversi livelli su cui si costruisce il passaggio dalla società cortese cavalleresca a quella assolutistico-curiale: il livello sociogenetico, con la formazione di uno stabile monopolio della violenza fisica, e il livello psicogenetico, con la comparsa di uno stabile apparato di autocostrizione individuale.
Si tratta di un processo sociale di individualizzazione, come vedremo meglio tra poco.
Qual’è dunque la direzione che viene assunta dal processo di civilizzazione del mondo occidentale? Si tratta, per Elias, di un graduale mutamento dell’equilibrio tra eterocostrizione e autocostrizione individuale. Ad un certo punto l’autocostrizione individuale inizia a funzionare indipendentemente dalla presenza di organi repressivi esterni e prende il sopravvento sull’eterocostrizione, assumendo un aspetto automatico e onnipervasivo.
Ciò che accade è un lento e continuo processo di privatizzazione, di scollamento di certi ambiti della vita personale (legati al cibo, al vestiario, al sonno…) dalla sfera della comunicazione sociale tra gli uomini. Compare una paura socialmente instillata, compaiono e si amplificano il senso di disgusto, di vergogna e di pena.
Il testo prende l’avvio dall’esame dei concetti di civiltà e cultura, analizzando la genesi sociale dell’antitesi civiltà e cultura in Germania. Civiltà, innanzitutto, fa rilevare Elias, non ha lo stesso significato in tutte le nazioni occidentali. Esiste una notevole differenza tra l’uso che si fa di questo termine in Inghilterra e in Francia e l’uso che se ne fa invece in Germania. Se nelle prime due lingue, inglese e francese, civiltà esprime l’orgoglio per la propria nazione e per il progresso dell’Occidente e quindi dell’intera umanità, in Germania questa parola ha un valore assai minore, perché il termine tedesco con cui si definisce se stessi e l’orgoglio per le proprie prestazioni è cultura.
Il concetto francese e inglese di civiltà può riferirsi a fatti politici o economici, religiosi o tecnici, morali o sociali. Il termine tedesco cultura si riferisce invece essenzialmente a fatti spirituali, artistici e religiosi, e tende a distinguere nettamente questi ultimi dai fatti politici, economici e sociali. Il concetto tedesco di cultura sottolinea fortemente le differenze nazionali e le peculiarità dei gruppi, mentre il concetto di civiltà entro certi limiti tende ad attenuare le differenze nazionali tra i popoli. Il concetto tedesco di cultura è inoltre essenzialmente statico (si riferisce a prodotti degli uomini come le opere d’arte, i libri o i sistemi filosofici, che stanno lì “come i fiori nei campi”), mentre il concetto di civilizzazione indica un processo, o quanto meno il risultato di un processo, qualcosa che è in costante mutamento e che quindi progredisce.
Quali sono le cause di questa peculiarità tedesca? In Germania, spiega Elias, dopo la guerra dei Trent’anni, il calo demografico e il mostruoso collasso economico la borghesia era povera, e aveva notevoli difficoltà a coltivare l’arte o la letteratura. Nelle corti, dove invece il denaro non mancava, non si parlava il tedesco ma il francese. Il francese era il segno distintivo dei ceti elevati. L’esclusione della borghesia dalla vita politica e da quella aristocratica, il suo isolamento, influenzerà grandemente la letteratura tedesca dell’epoca, che tenderà a mettere in risalto il contrasto tra la superficialità, il cerimoniale, le conversazioni esteriori da un lato e l’introspezione, la profondità dei sentimenti, la dedizione alla lettura e allo studio, la formazione della propria personalità dall’altro (la medesima antitesi tra civiltà e cultura). La rigorosissima separazione sociale tra nobiltà e borghesia che esiste in Germania, non esiste affatto a questi livelli in Francia. In Francia, addirittura, l’aristocrazia di corte ha invece la tendenza ad assimilare, a “colonizzare” elementi degli altri strati sociali e assorbirli al suo interno. La genesi sociale dell’antitesi tra civiltà e cultura sarà pertanto molto diversa in Francia. Qui civiltà andrà a significare sempre di più affinamento dei costumi, cortesia, buone maniere: quindi un ben determinato modo di comportarsi. Un modo di comportarsi che si delinea in alto, nell’aristocrazia e nella nobiltà, a partire dalla corte, e via via contamina gli altri strati sociali. La borghesia francese, anche quella più critica, non contrappone alla falsa civiltà una civiltà effettiva, non contrappone all’homme civilisé un altro modello di uomo come fa l’intellighenzia tedesca con il suo gebildeter Mensch: gli intellettuali riformisti francesi, a parte poche eccezioni, non fanno altro che assumere, quindi fare propri, i modelli della corte per svilupparli e migliorarli. La seconda parte del libro, Le buone maniere, ci descrive la civiltà come trasformazione del comportamento umano, una trasformazione lenta e inarrestabile che coinvolge ogni singolo aspetto della vita quotidiana, riguardando prima di tutto il comportamento esteriore, il modo di presentarsi in pubblico (atteggiamento del corpo, gesti, abbigliamento). Vengono pubblicati saggi e manuali che illustrano nel dettaglio il corretto modo di comportarsi, sia per quanto riguarda la tavola (i galatei), la preparazione, la presentazione e il consumo dei cibi (troviamo così un’interessante storia delle posate, scoprendo ad esempio quanto sia recente l’uso della forchetta, comparsa innanzitutto come oggetto di lusso per gli strati sociali superiori, come mangiare con le mani venga sempre di più considerato disgustoso e da evitare, come il coltello vada maneggiato in maniera da non suscitare la paura di essere aggrediti, come la preparazione della carne vada “relegata dietro le quinte”, per dissociare il più possibile il cibarsi di carne dall’animale morto che stiamo mangiando), sia per quanto riguarda l’igiene personale, non trascurando praticamente nulla. A poco a poco si viene a costruire un muro invisibile tra le persone, tra i loro corpi, separandoli e respingendoli, un muro che oggi avvertiamo già con il semplice avvicinarci a qualcosa che è entrato in contatto con la bocca o le mani di qualcun altro. Questo muro si manifesta come un sentimento di disgusto alla mera vista di molte funzioni fisiche altrui, oppure come un senso di vergogna al pensiero che le nostre personali funzioni fisiche possano essere esposte alla vista di altri. Si arriva quindi fino al punto di censurare il proprio comportamento non soltanto quando ci si trova in pubblico, ma anche quando ci trova soli e nessuno in realtà può osservarci.
Vediamo come la soglia della sensibilità e la soglia del pudore si spostano, come il codice di comportamento si irrigidisce sempre di più, come aumentano il controllo sociale e la pressione (costrizione) esercitata dagli individui gli uni sugli altri. La correzione dei comportamenti sbagliati avviene in modo cortese e riguardoso, e questo si dimostra assai più efficace e vincolante rispetto a metodi più brutali. Alla stessa maniera si modifica lentamente il meccanismo con cui la società modella le manifestazioni affettive. Il comportamento a tavola, i bisogni naturali, le relazioni tra adulti e bambini e le relazioni tra i sessi si modificano completamente, l’aggressività viene moderata e trasformata, creando appositi spazi di sfogo circoscritto, controllato e regolamentato, come lo sport o il ballo. (Allo sport e al suo legame con l’aggressività umana Elias dedicherà più di un lavoro, non tutti tradotti in italiano).
In Potere e civiltà è analizzata la genesi sociale della civiltà occidentale a partire dal Medioevo e dalla feudalizzazione, fino al formarsi delle dinastie più potenti e infine degli stati, attraverso il meccanismo della monopolizzazione (monopolio economico, monopolio militare). Il monopolio privato del singolo individuo si socializza, diviene il monopolio di interi strati sociali, un monopolio pubblico, l’organo centrale di uno stato. Allo stesso tempo però si riduce l’ambito decisionale del detentore del monopolio, a causa della maggiore complessità dell’intreccio sociale. Cresce infatti la potenza sociale della massa dei dipendenti in rapporto ai pochi o al solo monopolista, non soltanto per il loro numero, ma anche per la dipendenza in cui i pochi monopolisti vengono a trovarsi nei confronti della massa crescente di dipendenti per poter conservare e sfruttare le loro chances monopolizzate. Vediamo quindi che i monopoli (sia quello della costrizione fisica che quello fiscale) tendono a trasformarsi da privati in pubblici o statali: questa per Elias è una funzione dell’interdipendenza sociale. Quando il potere di disporre della terra viene sostituito dal potere di disporre dei mezzi finanziari, allora il grande monopolio centralizzato non si disgrega più in unità territoriali più piccole, diviene lentamente uno strumento dell’intera società in cui le funzioni sono divise: diviene quell’organo centrale che chiamiamo stato, che assume il carattere e il compito di organo supremo di coordinamento e regolamentazione di tutto il complesso dei processi di divisone delle funzioni.
Nel quarto e ultimo capitolo, Per una teoria della civilizzazione, Elias analizza nel dettaglio il passaggio dalla costrizione sociale all’autocostrizione, osservando che man mano che il tessuto sociale si va differenziando e diviene sempre più stratificato e complesso, il meccanismo sociogenetico dell’autocontrollo psichico diviene a sua volta più differenziato, più universale e più stabile. Constatiamo poi che la peculiare stabilità dell’apparato di autocontrollo psichico che emerge come un tratto decisivo nell’habitus di ogni uomo “civile”, è strettamente collegata alla formazione di monopoli della costrizione fisica e alla crescente stabilità degli organi sociali centrali. Per lo strato sociale superiore una rigorosa codificazione del comportamento non è solo uno strumento di prestigio, ma è soprattutto un mezzo di dominio. E diventa necessaria la collaborazione dei dominati, diventa indispensabile servirsi di loro stessi, modellando il loro Super-Io.
Quale giudizio dà quindi Elias del risultato di questo processo individuale di civilizzazione? Egli afferma che questo risultato è interamente negativo e interamente positivo soltanto in pochi casi; nella grande maggioranza, la gente “civile” vive nello spazio tra questi due estremi, su una linea mediana.
Si formano però nuove angosce all’interno dell’individuo. Per comprenderle dobbiamo analizzare le ampie modificazioni che avvengono nell’intera economia psichica, a partire dalla forte spinta alla razionalizzazione e dal non meno accentuato progredire della soglia del pudore e della ripugnanza, tutti aspetti di una trasformazione della psiche. Il conflitto nasce all’interno dell’economia psichica dell’individuo, non soltanto tra l’individuo e l’opinione sociale: l’individuo si riconosce da se stesso come inferiore. Non entra in contrasto cioè soltanto con altri individui, ma anche con quella parte del suo Io che rappresenta l’opinione sociale, e da cui è quindi controllato. Se è vero che diminuiscono i timori di una minaccia fisica diretta o della sopraffazione da parte di altri individui, è anche vero però che aumentano le angosce automatiche interne, ossia le costrizioni che il singolo esercita su se stesso.
La conclusione importante comunque a cui giunge Elias al termine di questo lungo e approfondito studio, che abbiamo dovuto inevitabilmente in questa sede trattare soltanto per pochi cenni e a cui quindi non abbiamo reso giustizia, è che gli schemi di comportamento della nostra società, inculcati al singolo fin da piccolo in modo da diventare una sua seconda natura, e la cui permanenza è consolidata in lui da un potente controllo sociale sempre più rigorosamente organizzato, non devono essere intesi in base a finalità umane universali e al di fuori della storia, ma come un prodotto della storia stessa. Allo stesso modo, le angosce che agitano gli uomini non sono che opera dell’uomo stesso. Il punto in cui ci troviamo non è certo un punto di arrivo né un culmine. La storia non si è ancora conclusa. “Le tensioni e le contraddizioni interne agli uomini potranno attenuarsi soltanto se si attenueranno le tensioni tra gli uomini, le contraddizioni insite nella struttura del consorzio umano. Allora non sarà più un’eccezione ma la regola, il fatto che il singolo individuo trovi quell’equilibrio ottimale della sua psiche che spesso evochiamo con parole quali «felicità» e «libertà»: ossia un equilibrio permanente, anzi una piena armonia tra i compiti sociali, l’insieme delle esigenze dovute all’esistenza sociale, da un lato, e le sue personali tendenze ed esigenze, dall’altro. Soltanto quando la struttura delle relazioni interumane sarà tale, quando la cooperazione tra gli uomini funzionerà in modo che tutti coloro i quali operano nella complessa catena dei compiti comuni possano almeno trovare questo equilibrio: soltanto allora gli uomini potranno davvero proclamare a buon diritto di essere «civili». Ma fino a quel momento, potranno dire nella migliore delle ipotesi che sono inseriti nel processo di civilizzazione. E fino ad allora dovranno ripetersi di continuo: «La civilizzazione non è ancora compiuta: è in divenire.»“
Il saggio sul tempo
“Una volta ho letto la storia di un gruppo di uomini che salivano su una torre sconosciuta. La prima generazione arrivò al quarto piano, la seconda al settimo, la terza al decimo. Col tempo i discendenti arrivarono sino al centesimo piano, ma lì giunti la scala sprofondò. Gli uomini si stabilirono così a quel piano. Col tempo dimenticarono che i loro antenati avevano vissuto ai piani inferiori e scordarono come essi erano giunti sino al centesimo piano. Vedevano il mondo e se stessi dalla prospettiva del centesimo piano senza sapere come gli uomini fossero giunti sin lì. Si, essi ritenevano che le idee che si erano fatti da quella prospettiva fossero le idee comuni a tutti gli uomini. Gli inutili sforzi fatti sinora per risolvere un problema in fondo così semplice come è quello del tempo sono un ottimo esempio di quanto avviene allorché ci si dimentica del passato della società. Quando lo si ricorda, si scopre se stessi.”
Citando Agostino (“Che cosa è dunque il tempo?” Se nessuno me lo chiede, lo so bene: ma se volessi darne una spiegazione a chi me ne chiede, non lo so. Così, in buona fede, posso dire di sapere che se nulla passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se nulla fosse, non vi sarebbe il tempo presente.”) Elias ci introduce al suo Saggio sul tempo.
Come si può misurare qualcosa, si domanda, che non riusciamo a percepire con i sensi? Certo, ci sono gli orologi (sequenze socialmente standardizzate di avvenimenti che incorporano modelli di sequenze uniformemente ricorrenti come le ore e i minuti), un tempo erano utilizzate le serie naturali (maree, sole, luna..), ma noi, come percepiamo il tempo? Come ci poniamo di fronte a qualcosa di così misterioso, che tuttavia gli orologi riescono perfettamente a misurare?
Secondo Elias, un problema che è sempre stato poco studiato è quello di come gli uomini apprendono nel corso dei secoli ad orientarsi sempre meglio nel loro mondo. (Che non è l’unico possibile, e che non è sempre stato così come è adesso).
Elias passa quindi ad analizzare la difficoltà che sempre si è avuto nell’elaborare una teoria consensuale del tempo.
Due posizioni infatti si sono contrapposte nella lunga polemica filosofica riguardo il concetto di “tempo”.
Per la prima, il tempo è un dato oggettivo della creazione naturale (Newton); per la seconda, il tempo è una sorta di sguardo unitario sui fenomeni, dipendente dalla particolarità della coscienza umana, o, a seconda delle versioni, dallo spirito umano, dalla Ragione umana, e quindi precedente, essendone una condizione, qualunque esperienza. (Cartesio, Kant). Il tempo, come lo spazio, appare un dato immutabile della natura umana. Una teoria oggettivistica e una soggettivistica, quindi: ma con alcuni assunti di fondo in comune.
Riguardo il problema della conoscenza, Elias elabora una sua teoria: il sapere umano (o meglio, l’idea che sta alla sua base) è il risultato di un lungo processo di apprendimento dell’umanità, un processo che è privo di inizio. Ciascun individuo fa proprio un patrimonio di conoscenze già disponibile quando egli viene al mondo e lo sviluppa ulteriormente. Diamo per scontato, nella nostra civiltà, saper rispondere senza difficoltà alla domanda: “quanti anni hai?”, ma così non è sempre stato o non è stato per tutti, così come non è altrettanto automatico per qualsiasi popolo comparso sulla terra. Segue quindi un’affascinante storia del calendario, per noi ovvio e immutabile come l’orologio, quindi una riflessione sui vantaggi e gli svantaggi della costrizione dovuta al computo del tempo. Il bambino impara molto presto a riconoscere nel tempo il simbolo di una istituzione sociale e quindi inizia ad avvertire altrettanto presto la sua eterocostrizione. Dovrà imparare a sviluppare un apparato di autocostrizione conforme all’istituzione del tempo, diversamente gli sarà difficile, o impossibile, vivere come adulto in questa società (ecco che tornano i ben noti temi del processo di civilizzazione).
Ma qual’è, quindi, lo statuto ontologico del tempo? (Se non è una particolarità inappresa, quindi innata, della coscienza umana)? E’ un oggetto naturale? E’ un oggetto culturale? E’ un aspetto di qualche processo naturale? Se ad esempio possiamo dire: niente uomini, niente navi (la nave quindi esiste perché esiste l’uomo), potremmo dire allo stesso modo: niente tempo, niente orologi e calendari? Ma allora esiste davvero il tempo? Non è dunque soltanto un’idea? Possiamo definire il tempo un mezzo di orientamento creato dagli uomini (utilizziamo il tempo per orientarci nell’assolvimento di molti compiti), ma il tempo è soltanto una scoperta degli uomini?
Di certo è anche un’istituzione sociale, non unicamente un’idea, come abbiamo visto, ed è un’istituzione che cambia a seconda dello stadio di sviluppo sociale, un qualcosa che, a seconda della società in cui nasciamo, possiamo trovarci a dover imparare fin da piccoli (e siamo in grado di farlo).
Nell’attuale stadio di sviluppo, il tempo è diventato simbolo di un intreccio molto esteso di relazioni, in cui le sequenze sono collegate tra loro a livello individuale, a livello sociale, a livello naturale. La determinazione del tempo rappresenta quindi essenzialmente una sintesi, una sintesi simbolica di livello molto elevato, un atto di integrazione.
L’impresa di armonizzare, nella forma temporale del calendario, le sequenze naturali con le esigenze scaturite dalle sequenze sociali è stata secondo Elias un’impresa tutt’altro che facile, un qualcosa a cui di solito non pensiamo affatto, dandolo completamente per scontato. Nel processo di socializzazione dell’individuo, sono diversi i simboli creati dagli uomini, quindi appresi, non fissati geneticamente, per orientarsi nel mondo. Il tempo è uno di questi. Negli uomini esiste un equipaggiamento di mezzi di comunicazione inappresi molto ridotto rispetto agli altri esseri viventi, per cui è solo apprendendo dagli altri che possiamo svilupparci fino a diventare autonomi.
Partendo dall’antichità, vediamo che già Orazio, ad esempio, assegnava ai simboli del tempo che gli uomini avevano creato, agli anni, quegli attributi dello scorrere e del trapassare che sono in realtà gli attributi del divenire sociale della natura, ordinato dai simboli regolativi, e dello scorrere individuale della vita verso la morte.
Negli odierni stati molto organizzati, la sensibilità individuale per il tempo è altissima. E l’eterocostrizione sociale del tempo favorisce il perfezionamento dell’autocostrizione individuale. In questo modo si rafforza il senso di ineluttabilità della coscienza individuale del tempo, che ci appare così onnipresente e ineludibile. E’ probabilmente per questo che si ha un continuo impulso a interrogarsi sul tempo, che arriviamo a considerare una particolarità della vita umana.
L’individualizzazione della regolazione sociale del tempo ha in sé, in forma quasi paradigmatica, i tratti di un processo di civilizzazione.
Per gli uomini diviene difficile distinguere tra i simboli e la realtà. Viviamo con la continua sensazione che il tempo stia passando, ma ciò che avvertiamo non è che lo scorrere della vita, il mutare della società e della natura. E del resto questo stesso orientarsi nel mondo con l’aiuto dei simboli è parte della realtà. Nel quadro di un processo di civilizzazione, ciò che muta sono soprattutto i modelli di autoregolazione e il modo in cui vengono assimilati dagli uomini. (L’autocostrizione esiste anche nelle società più semplici, ma ha un carattere più irregolare e discontinuo, così come è differente il rapporto tra etero ed auto-costrizione).
Gli uomini delle società più sviluppate considerano innate le particolari costrizioni del loro carattere, che li rendono diversi dagli altri uomini, e non si pongono in genere il problema su come siano andate invece formandosi nel tempo queste costrizioni, impensabili soltanto pochi secoli fa.
E’ come se si prendesse in esame un uomo senza società, un uomo senza mondo, che è poi l’uomo della nostra cultura, della nostra tradizione egocentrica, da Cartesio ai filosofi esistenzialisti del ventesimo secolo.
Elias vuole introdurci a un nuovo modo di pensare con questa originale ricerca sul tempo, che si discosta totalmente da quella visione egocentrica e limitata. E’ proprio il tempo del calendario a illustrarci in maniera molto semplice l’inserimento del singolo in un mondo con molti altri uomini, un mondo sociale quindi, all’interno di un più ampio universo naturale: è grazie all’aiuto del calendario che siamo in grado di determinare con precisione il momento in cui siamo entrati nella corrente dei processi naturali e sociali.
Ed è soltanto per esseri viventi quali gli uomini che ha un senso e uno scopo elaborare delle relazioni ordinatrici tra processi come quello dell’universo o della luce e quello della rotazione apparente del sole. Solo nello stadio in cui compaiono gli uomini, gli esseri naturali (di cui gli uomini fanno parte) acquistano quella capacità di sintesi che consente loro, con l’aiuto dei simboli sociali, di immaginare contemporaneamente e assieme il corso dell’universo e l’apparente rotazione del sole attorno alla terra. E’ necessario un lungo sviluppo sociale, osserva Elias, prima che gli uomini apprendano a sviluppare simboli corrispondenti a immagini così complesse, senza i quali non potrebbero comunicarsi tra loro tali immagini, né orientarsi in base ad esse.
Il tempo è un simbolo di questa sintesi sociale appresa. Non è quindi una sintesi a priori, un dono della ragione innata (come da Cartesio a Kant e oltre).
Gli uomini sono ancora ben poco consapevoli della natura e del modo di funzionare dei simboli che essi stessi hanno creato e che utilizzano costantemente.
Si smarriscono così nel groviglio dei loro stessi simboli, tra cui il tempo, che appare come un qualcosa di fortemente enigmatico.
Con questo libro Elias si propone anche, e ce lo dice in modo chiaro, di contribuire all’impresa di collocare nella giusta prospettiva le particolarità dei simboli umani, al di fuori delle tradizionali alternative filosofiche tra soggettivismo e oggettivismo, tra nominalismo e realismo.
Egli mira quindi all’elaborazione di una vera e propria teoria sociologica del sapere e della conoscenza. La tradizione filosofica si è sempre occupata di teorie della conoscenza, quella sociologica di sociologie del sapere, creando così confusione tra sapere e conoscenza, una confusione che per Elias deve essere finalmente superata.
L’atto individuale della conoscenza non è invece assolutamente separabile dalla quantità di sapere che gli uomini hanno appreso da altri e accumulato nel corso del tempo, cioè dallo stadio di sviluppo del patrimonio sociale del sapere. Chi non sa nulla, non può conoscere.
Vediamo così che il saggio sul tempo di Elias è qualcosa di più, diventa un saggio sul vasto problema del sapere e del conoscere, di impronta prettamente filosofica. Ed è proprio un viaggio all’interno del pensiero filosofico quello dove Elias a un certo punto ci conduce.
Il soggetto della conoscenza non è dunque il singolo, ma lo scorrere del genere umano nel suo sviluppo. In questo modo, e solo così, perdono di significato e diventano inutilizzabili molti dei concetti, molte di quelle reificazioni che ci sono più familiari.
Elias analizza a fondo il cambiamento del tutto specifico della condotta umana rispetto agli oggetti della conoscenza, il mutamento quindi nel corso del tempo e dello sviluppo sociale della struttura e della forma dei simboli umani di orientamento, così come il trasformarsi del rapporto, sempre variabile, tra coinvolgimento e distacco degli uomini, tema questo elaborato in un altro testo del nostro autore (Coinvolgimento e distacco).
E’ rimarcato l’indissolubile rapporto tra lo sviluppo della vita comune degli uomini e lo sviluppo della struttura sociale della personalità di ciascuno (rapporto tra etero e autocostrizione).
Vediamo quindi che lo spazio di decisione degli uomini (la loro libertà) poggia sulle possibilità che essi hanno di pilotare in modi molteplici l’equilibrio più o meno flessibile che si instaura tra le diverse istanze costrittive, costantemente mobili. Non si può pertanto inseguire la libertà, ammonisce Elias, se ignoriamo queste costrizioni.
Oltre a una teoria del sapere e della conoscenza, manca, secondo Elias, una teoria della formazione delle sintesi (una di queste è il tempo, come abbiamo visto). Esistono infatti sintesi di vari livelli, dal più basso al più alto e differenziato, a seconda della diversa complessità sociale.
Dopo il simbolo tempo, a cui dedica pagine davvero intense e affascinanti, Elias va ad analizzare il simbolo spazio, altro concetto a cui i filosofi hanno dedicato infinite riflessioni. E così li confronta: ciò che chiamiamo spazio si riferisce a relazioni posizionali tra eventi in movimento che cerchiamo di determinare astraendo dal loro movimento e mutamento, mentre ciò che chiamiamo tempo si riferisce a relazioni posizionali all’interno di un continuum di cambiamenti che tentiamo di determinare senza astrarre dal loro continuo movimento e mutamento. Quello che per Elias è importante rilevare, è che l’analisi dei nostri concetti o simboli non va condotta come se questi siano sempre stati così come sono ora, ma tenendo conto del loro mutare ed evolversi nel corso della storia umana. Il percorso della conoscenza non è rettilineo e neppure irreversibile. Questo va tenuto ben presente, così come l’incongruenza della frattura quasi spaziale che si è venuta creando tra il singolo individuo come contenitore isolato del sapere e il mondo fuori di lui, tra mondo interno e mondo esterno.
La considerazione sociologico evolutiva dei cambiamenti umani e sociali, ugualmente distante tanto dall’assolutismo filosofico che dal relativismo storico, è quindi per Elias l’approccio più corretto e più fecondo da seguire.
La solitudine del morente
Aveva una fantasia ricorrente, Norbert Elias, dai tempi in cui arrivò a Leicester, che lo accompagnò per tutta la vita: si immaginava nell’atto di parlare al telefono, e chiunque si trovasse all’altro capo del filo non riusciva mai a sentire ciò che Elias stesse dicendo. La sua continua impressione di non essere compreso? (Anche se ci fu un momento in cui si sentì in grado di affermare: “Comincio a credere di essere vicino al punto in cui non sussiste più il pericolo che vada completamente perso ciò che ho tentato di fare.“)
Un senso di isolamento, di solitudine?
Difficile dirlo. Certo nel saggio La solitudine del morente, scritto quasi a novant’anni, la solitudine è descritta in modo mirabile, quasi agghiacciante. Mai come al giorno d’oggi, racconta Elias, gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente, e mai sono stati così soli. I morti devono venire isolati, separati dai vivi. Ma anche questo fatto, come tutti gli altri, è dovuto ai mutamenti sociali, quindi alla rimozione dell’idea, del pensiero della morte, e alla repressione, al controllo e all’occultamento delle emozioni che caratterizza la nostra società, impegnata a “relegare dietro le quinte” tutto ciò che può turbare la nostra “sensibilità” odierna.
Conclusioni
Elias ci ha lasciato molto, e soprattutto ci ha affidato più di un compito. Convinto della irriducibilità delle configurazioni (forme e caratteristiche che assume l’interdipendenza tra gli individui), attraverso le quali è possibile interpretare il rapporto biunivoco tra individuo e società (che non possono esistere indipendentemente uno dall’altra), ci rivolge alcuni inviti. L’invito, innanzitutto, a modificare l’equilibrio Io-Noi, quindi un approfondimento del concetto di identità, individuale e collettiva. La tendenza attuale, come abbiamo visto, è quella dello spostamento verso l’Io, un Io che è però sempre più isolato e sempre meno consapevole. Un Io che guarda dalla prospettiva del centesimo piano senza più rendersene conto!
Pertanto dobbiamo sforzarci sempre di ricordare, di conoscere, di analizzare, come abbiamo attraversato i piani precedenti e come siamo arrivati fino al punto in cui oggi ci troviamo.
L’invito a un coinvolgimento distaccato, o a un distacco coinvolto, nei confronti dell’oggetto studiato.
L’invito a eliminare l’astratta divisione tra le diverse scienze umane, oltre a comprendere che la scienza non deve essere utilizzata come strumento di potere.
Al cuore dello stile epistemologico di Elias c’è una complessa scelta etica: l’impegno a lasciarsi coinvolgere nello sforzo di comprensione di tutti i pezzi particolari di umanità che, in quanto composti di umanità, sono necessariamente sempre universali, senza finire con il relativizzare o sminuire la portata di tale intuizione con considerazioni di parte e riduttive implicazioni personali.
Gli esseri umani sono così chiamati a porre fine alle loro idee di antropocentrismo, etnocentrismo e nazionalismo. In qualche modo, volenti o nolenti, essi infatti sembrano condotti a superare, nel corso della loro evoluzione, l’abisso apparentemente insormontabile tra natura e società, quindi quello tra natura e cultura, e ritrovare così a poco a poco, in una forma nuova, la loro presunta originaria unità.
MIRCEA ELIADE
Figlio di un capitano dell’esercito, Mircea Eliade (Bucarest, 13 marzo 1907 – Chicago, 22 aprile 1986) è stato uno storico, scrittore e antropologo rumeno. Uomo di cultura vastissima e di straordinaria erudizione, grande viaggiatore, parlava e scriveva correntemente otto lingue: rumeno, francese, tedesco, italiano, inglese, ebraico, persiano e sanscrito. A 14 anni pubblicò il suo primo romanzo, Come ho scoperto la pietra filosofale.
Nel 1925 si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia all’università di Bucarest. Furono, quelli, anni di incontri e di viaggi: Emil Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi Exercises d’admiration) e Eugène Ionesco, con i quali mantenne una lunga amicizia; due soggiorni in Italia nel 1927 e nel 1928; e infine, dopo la laurea in filosofia con una tesi su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno, una borsa di studio per studiare a Calcutta la filosofia indiana con Surendranath Dasgupta. L’incontro con la cultura italiana da parte di Mircea Eliade è consacrato da un autore, Giovanni Papini, per leggere le opere del quale iniziò a studiare l’italiano. Eliade, conquistato dalle pagine di Un uomo finito nelle quali si identificò profondamente, conserverà sempre una sconfinata ammirazione per lo scrittore fiorentino. Il viaggio in India durò dal novembre 1929 al dicembre 1931, avendo come sede principale Calcutta (dove Eliade cominciò a studiare il sanscrito), ma comprendendo anche un viaggio e soggiorno in un ashram dell’Himalaya. L’esperienza e gli studi di questo periodo e lo stretto contatto con le religioni dell’India influenzarono e orientarono profondamente il suo pensiero. Fu qui che preparò la sua tesi di dottorato, discussa a Bucarest nel 1933, pubblicata a Parigi nel 1936 con il titolo Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne, che diventerà poi Lo yoga, immortalità e libertà. Dal 1933 al 1940 insegnò filosofia all’università di Bucarest e svolse un’intensa attività editoriale, pubblicando vari romanzi e saggi. Nel 1940 Eliade viene nominato consigliere culturale dell’ambasciata rumena, prima a Londra poi, dal 1941 fino al settembre 1945 a Lisbona. Alla fine della guerra è a Parigi che diventa la sua residenza di riferimento fino al 1956. Qui insegna, scrive, ha contatti fittissimi con università e intellettuali di vari paesi (invitato da Jung comincia a partecipare alle conferenze di Eranos nel 1950), ma conduce sostanzialmente una difficile vita da esule. Dal 1957 la sua attività ufficiale fu di professore di storia delle religioni all’università di Chicago, ma nel frattempo continuò a viaggiare moltissimo, a pubblicare (quasi tutto in Francia) e a svolgere fittissime attività accademiche. Dal 1960 al 1972 diresse, insieme a Ernst Jünger, la rivista di storia delle religioni Antaios, pubblicata dall’Editore Klett di Stoccarda. Morì a Chicago il 22 aprile 1986, un mese dopo l’uscita, a Parigi, dell’ultima raccolta di saggi – Briser le toit de la maison. La sua eredità letteraria fu raccolta dal suo allievo Ioan Petru Culianu che però morì misteriosamente assassinato in una toilette dell’Università di Chicago nel 1991. Tra le sue principali opere scientifiche ricordiamo Il mito dell’eterno ritorno (1949), Il sacro e il profano (1956), Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi (1951), Miti sogni e misteri, Arti del metallo e alchimia (1956), La nascita mistica, riti e simboli d’iniziazione (1959), Spezzare il tetto della casa, la creatività e i suoi simboli (1986), Storia delle credenze e delle idee religiose, Occultismo, stregoneria e mode culturali, Cosmologia e alchimia babilonese, Lo yoga. Immortalità e libertà (1954), Trattato di storia delle religioni (1949-64), L’isola di Euthanasius, Tecniche dello Yoga, Enciclopedia delle Religioni, Oceanografia. Eliade fu fenomenologo delle religioni, studioso ed espertissimo di yoga e di sciamanesimo, filosofo e saggista. Per i contatti giovanili con l’estrema destra rumena detti sopra, lo studioso è stato tenuto lungamente al bando e screditato, tra gli intellettuali italiani e, per converso, assai caro e citato dalla destra nostrana. Entrambe le posizioni costituiscono un pre-giudizio che nulla ha a che vedere con il valore dello studioso e del letterato, proposto 10 volte (sia pure senza esito) per il premio Nobel della letteratura. Al centro del pensiero di Eliade c’è il concetto di mito come ierofania (apparizione / rivelazione del sacro). Il mito è un atto di creazione dello spirito indipendente dalla storia, ma che anzi fonda esso stesso la storia, e che nel corso della storia si ripete e ritorna ciclicamente. La storia delle religioni è quindi storia delle ierofanie che si ripetono nel tempo dell’uomo, riproponendovi l’alternanza sacro / profano (sia nel tempo – con le feste – che nello spazio – con i “centri del mondo”) e riattualizzando per questa via i miti primordiali. Docente all’École des hautes études succedette poi (1957) a J. Wach come professore di storia delle religioni nell’università di Chicago. È uno dei maggiori specialisti dello sciamanesimo (Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, 1951), dello yoga (Lo yoga. Immortalità e libertà, 1954), dei rapporti fra magia e alchimia (Alchimia asiatica, 1935-37; Arti del metallo e alchimisti, 1956; Il sacro e il profano, 1956). Ha inoltre scritto alcune opere di carattere più generale (Trattato di storia delle religioni, 1949; Il mito dell’eterno ritorno, 1949). In esse Eliade formula la sua concezione fondamentale del mito e della religione. Il mito è un atto di creazione autonoma dello spirito, indipendente dalle condizioni socioeconomiche. Il valore dei miti sta nel loro carattere fondamentale di «ierofanie», cioè di rivelazioni del sacro. Secondo Eliade, non vi è religione naturale, poiché la natura non è sacra di per sé ma solo in quanto manifesta un significato soprannaturale. D’altra parte, tale significato è trascendente anche rispetto alla storia, dal momento che quest’ultima aggiunge continuamente significati nuovi ai simbolismi arcaici, ma non può distruggere la struttura originaria del simbolo. Il mondo del mito si muove sempre entro i la polarità sacro-profano, in cui la sacralità è riconosciuta come la vera realtà, contrapposta alla profanità in quanto irrealtà. L’unica comprensione corretta del mito è, dunque, quella religiosa, che lo considera come rivelazione del sacro. Per questo motivo una storia delle religioni deve svolgersi come una fenomenologia comparata delle ierofanie più diverse ed eterogenee, volta a individuare in esse, senza selezioni preventive, la comune modalità del sacro. Il rapporto tra sacro e profano non si risolve, per Eliade, in una semplice opposizione, poiché il sacro, che si rivela pur sempre come «altro» dal profano, si manifesta però nel profano, che come strumento di questa manifestazione viene sacralizzato, diventa simbolo del sacro.
Attraverso l’esame delle varie ierofanie è possibile individuare alcune strutture principali, alcuni significati fondamentali della realtà, che acquistano particolare importanza in tutti i sistemi mitici e religiosi: la trascendenza (cielo), la fecondità (terra), il centro del mondo (casa, palazzo, tempio) ecc. Eliade sottolinea anche la differenza tra il tempo sacro e quello profano: mentre il secondo è in sé una durata evanescente, che assume un senso solo quando diventa momento di rivelazione del sacro, il primo è un susseguirsi di eternità periodicamente recuperabili durante le feste che costituiscono il calendario sacro: esso si configura perciò come un eterno ritorno. Eliade insiste anche sul valore archetipico del mito, che costituisce il modello e l’esempio per tutte le azioni umane e per tutta la realtà: le vicende cosmiche e storiche hanno quindi significato in quanto ripetono e riattualizzano la realtà sacra del tempo primordiale.
HARVEY COX
Harvey Cox (Malvern, 19 marzo 1929) è un teologo statunitense. Cox è uno dei più noti teologi cristiani contemporanei e ministro della chiesa battista è il maggior rappresentante delle teologie della secolarizzazione. La sua ricerca teologico-filosofica orbita attorno al fuoco prospettico della secolarizzazione, della “teologia della liberazione” e del ruolo del Cristianesimo nei paesi dell’America Latina. Il nome di Cox è legato soprattutto al suo libro del 1965, The Secular City, che – nonostante l’argomento se non di nicchia, comunque non propriamente rivolto a un grande pubblico – ha venduto più di un milione di copie. Nella sua opera, Cox sviluppa diffusamente la tesi secondo cui la Chiesa, ancor prima che un’istituzione, è una comunità di fede e di azione. Di conseguenza, ben lungi dal tenersi a debita distanza dalla società, la Chiesa dovrebbe secondo Cox permeare la vita della società stessa, promuovere il mutamento sociale e celebrare le nuove maniera in cui la fede va esprimendosi nel mondo. È questo il nucleo della cosiddetta “teologia della secolarizzazione”, le cui radici devono essere rinvenute soprattutto nella “demitizzazione” portata avanti, a suo tempo, da Dietrich Bonhoeffer (1906-1945). La “teologia della secolarizzazione” si caratterizza per una piena accettazione del percorso della filosofia contemporanea e dello sviluppo scientifico-tecnologico moderno che svaluta, da un lato, la metafisica e che, dall’altro, toglie alla fede qualsiasi segno di sacralità. Questo difficile tentativo di ridisegnare la teologia parte dal presupposto che solo accettando pienamente la secolarizzazione della Chiesa – il suo perdere qualsiasi significato mitico-metafisico, la sua pretesa teologico-epistemica che pretendeva di vincolare l’uomo al soprannaturale – si può riaprire finalmente un orizzonte autentico entro il quale sviluppare un rapporto più genuino tra Dio e l’uomo nell’ambito del mondo, nella mondanità, rinunciando alla tradizionale “verticalizzazione” del rapporto tra cielo e terra. Tra le pubblicazioni di Cox ricordiamo anche God’s Revolution and Man’s Responsibilities (1966), The Feast of Fools: A Theological Essay on Festivity and Fantasy (1969), The Seduction of the Spirit: The Use and Misuse of People’s Religion (1973), Turning East: Why Americans Look to the Orient for Spirituallity-And What That Search Can Mean to the West (1978), Religion in the Secular City: Toward a Postmodern Theology, (1985), Many Mansions: A Christian’s Encounter with Other Faiths (1988), The Silencing of Leonardo Boff: The Vatican and the Future of World Christianity (1988), Fire from Heaven: The Rise of Pentecostal Spirituality and the Re-shaping of Religion in the 21st Century (1994). La sua opera più rilevante resta però The Secular City, tradotta in italiano con il titolo La città secolare. In essa, egli sostiene che il processo di secolarizzazione e la progressiva diminuzione d’interesse per la religione da parte degli uomini contemporanei sono ormai un dato evidente, che le Chiese cristiane non si possono ostinare a trascurare. Particolarmente chiara è la scomparsa di ogni interesse socialmente rilevante per gli aspetti più direttamente soprannaturali della religione: escatologia, angeli, diavoli, guarigioni e miracoli. Anziché lottare contro la secolarizzazione — impresa impossibile, e pertanto puerile — le Chiese devono interrogarsi sul proprio ruolo nella “città secolare”, a cui potrebbero del resto apportare un utile contributo — accettando modestamente un ruolo limitato, ma almeno salvandosi dalla totale scomparsa — attraverso un impegno di tipo prevalentemente sociale. La città secolare ebbe un enorme impatto sulla vita di numerose denominazioni protestanti “ecumeniche” — così chiamate in quanto facenti parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese —, che procedettero — una dopo l’altra — a forme di “aggiornamento” secondo le linee indicate dal teologo americano. L’influenza de La città secolare non mancò di farsi sentire anche nella Chiesa cattolica. Nel libro del 1995 Fire from Heaven, (Fuoco dal Cielo) — un’analisi dell’“ascesa della spiritualità pentecostale e riformulazione della religione nel ventunesimo secolo” —, Cox ritorna su La città secolare, un libro, afferma, in cui “cercavo di elaborare una teologia per l’epoca ‘postreligiosa’ che molti sociologi ci avevano prospettato con fiducia come prossima”. Al contrario, scrive Cox, “oggi è la secolarità [secularity], non la spiritualità, che può essere vicina all’estinzione”. È diventato “ovvio che al posto della ‘morte di Dio’ che alcuni teologi avevano dichiarato non molti anni fa, o del declino della religione che i sociologi avevano previsto, è avvenuto qualcosa di veramente diverso”. A proposito de La città secolare, il teologo americano aggiunge: “forse ero troppo giovane e impressionabile quando gli accademici facevano queste previsioni tristi. In ogni caso me le ero bevute davvero troppo facilmente, e avevo cercato di pensare quali avrebbero potuto essere le loro conseguenze teologiche. Ma ora è diventato chiaro che le predizioni stesse erano sbagliate. Chi le faceva […] ammetteva che la fede avrebbe potuto sopravvivere come un’eredità culturale, forse in ridotti etnici o abitudini di famiglia, ma insisteva che i giorni della religione come una forza capace di dare forma alla cultura e alla storia erano finiti. Tutto questo non è accaduto. Al contrario, prima che i futurologi accademici facessero in tempo a ritirare la loro prima pensione, una rinascita religiosa — di un certo tipo — ha cominciato a manifestarsi in tutto il mondo. […] Che stiamo entrando in una nuova ‘età dello Spirito’, come alcuni osservatori più entusiasti sperano, può essere oppure non essere vero. Ma ci troviamo certamente in un periodo di rinnovata vitalità religiosa, un altro ‘grande risveglio’ se vogliamo chiamarlo così, con tutte le promesse e i pericoli che i risvegli religiosi portano sempre con sé, questa volta tuttavia su scala mondiale”. Dopo nove capitoli in cui esamina come e perché le previsioni de La città secolare si sono dimostrate false negli Stati Uniti d’America, in America Latina, in Asia e in Africa, Cox arriva all’Europa e riferisce che, secondo la maggioranza dei teologi europei che ha incontrato negli ultimi anni, “l’Europa è veramente un’eccezione” alla tesi, che ora lo studioso americano fa sua, secondo cui si approssima un risveglio religioso mondiale: in Europa le chiese si spopolano, e per la religione “non c’è nessuna rinascita in vista”. Questa opinione, tuttavia, veniva riferita a Cox principalmente da teologi. I sociologi, anche in Europa, fornivano informazioni diverse. Citando un suo incontro con Eileen Barker, la nota sociologa della London School of Economics, Cox racconta di essersi trovato di fronte, per la Gran Bretagna, a “statistiche […] molto significative, ma ancora una volta non sorprendenti. Mi raccontavano una storia familiare. Negli anni tra il 1985 e il 1990 le ricerche mostrano che i battisti, i metodisti, i presbiteriani, gli anglicani e i cattolici nel Regno Unito hanno tutti perso membri, con le maggiori perdite a carico dei cattolici e degli anglicani, che hanno perso il 10% dei membri di ciascun gruppo. Nello stesso periodo di cinque anni le cosiddette “Chiese cristiane indipendenti” — il che significa soprattutto pentecostali e carismatiche — hanno guadagnato intorno al 30% di fedeli”. Sulla base di queste statistiche, racconta Cox, “ho cominciato a pensare che forse l’Europa non era, dopo tutto, un’eccezione”. Il teologo americano riferisce di aver trovato una notevole resistenza a staccarsi dal modello de La città secolare negli ambienti teologici da lui visitati in Italia. Tuttavia, quando ha potuto finalmente esaminare statistiche sulla crescita del pentecostalismo in Sicilia — statistiche, aggiunge, completamente ignorate dalla maggioranza dei suoi interlocutori italiani —, sui diversi movimenti carismatici cattolici e sul numero di italiani che si sono recati in pellegrinaggio a Medjugorje e in altri luoghi, il teologo di Harvard ha concluso che l’Italia non è un’eccezione alla regola secondo cui, “benché la frequenza nelle chiese cattoliche e protestanti abbia raggiunto nuovi record negativi in anni recenti, milioni di europei affollano nuovi e vecchi luoghi di pellegrinaggio, spesso non autorizzati”.
PAVEL ALEKSANDROVIC FLORENSKIJ
di Giulio Mellana
Pavel Aleksandrovic Florenskij (1882-1937) fu filosofo, scienziato, teologo, matematico russo.
Per introdurre il suo pensiero filosofico, segnato dai più diversi interessi, è giusto anteporre delle premesse che permettano di meglio decodificare le linee guida e il sostrato culturale del pensatore russo.
Il segno filosofico generale del pensiero di Florenskij è quello di un certo platonismo, più neoplatonico che prettamente platonico. Mentre Platone sostiene un dualismo, dunque una frattura totale tra questo mondo e quello ideale, il platonismo di Plotino propone un monismo, cioè una tragica distanza tra oggetti su piani ontologici differenti. La seconda prospettiva, quella cioè di un tragico divario ontologico tra elementi di un’unica realtà (neoplatonismo) è quella che maggiormente influenza Florenskij.
Sempre nella suddetta prospettiva neoplatonica, s’inserisce il palamismo. Palamas (1296-1359) fu monaco del Monte Athos nell’Impero bizantino e in seguito Arcivescovo di Tessalonica. Egli elaborò una teologia di matrice neoplatonica, in cui risultavano centrali l’esicasmo (ossia la preghiera del cuore) e la teoria delle energie divine. Energie divine vanno qui intese nel senso etimologico greco di energeia, cioè “attività”, “effetto”. Risulta quindi, agli occhi di Palamas, un mondo interamente pervaso e percorso da attività divine: la luce, il calore, il colore in quanto commistione di ombra e luce, etc. Tale visione della fusiV, s’interseca costantemente con l’esicasmo, cioè quella pratica di preghiera perpetua incentrata sulla ripetizione appena sussurrata, per essere poi del tutto interiorizzata, di una semplice preghiera. A sua volta, l’esicasmo è basato su quell’altra convinzione religioso-filosofica per il cui il nome è centro propulsore dello sviluppo della lingua (“gloria nel nome”). Da qui l’idea che nel nome di Dio c’è Dio in quanto energia, ma non come sostanza; cosa per cui il nome di Dio è Dio, ma Dio non è solo il suo nome.
Non è mia intenzione delineare a fondo e totalmente il sistema gnoseologico florenskijano. Mi ha interessato, piuttosto, studiare le forme attraverso le quali è possibile la conoscenza, quali i suoi presupposti e le sue modalità.
Premessa imprescindibile è, per Florenskij, l’esistenza di due mondi: quello invisibile, esperibile empiricamente coi sensi, il mondo dello spazio, del tempo e della quotidianità; e quello invisibile, ontologicamente superiore, caratterizzato da assolutezza divina e trascendenza metafisica. L’impostazione culturale neoplatonica, come accennato precedentemente, non gli fa intendere i due mondi come due diverse realtà distanti ed autosufficienti; per Florenskij sono le due facce complementari di una stessa unica realtà. Nonostante il mondo invisibile, in quanto proprio di Dio, sia ontologicamente superiore, il mondo visibile, giacché abitato dalle energie divine, non risulta affatto annichilito, anzi (qui Florenskij si distanzia dall’impostazione strettamente platonica) è passabile di conoscenza. Lo stesso Florenskij, infatti, si occupò di scienze matematiche e di fisica elettromagnetica, a testimonianza del fatto che il mondo visibile ha il suo valore gnoseologico.
Tuttavia se è possibile una conoscenza del nostro mondo, ciò è reso possibile dall’azione dell’aldilà sull’aldiqua.. Ne consegue che la conoscenza di questo mondo è imprescindibile dalla conoscenza del piano metafisico, che fa da base e da culmine. Le forze elettromagnetiche, ad esempio, sono energie divine, cioè manifestazioni del mondo invisibile. Anzi, più che manifestazione, sono simbolo.
IL SIMBOLO
Il vivo interesse di Florenskij per il simbolo, come sottolinea a più riprese Tagliagambe[1], sorge dall’interrogarsi sul rapporto tra i due mondi. Se Dio agisce sul mondo visibile, ciò significa evidentemente che c’è relazione tra i due piani, c’è, insomma, un continuo rimando. Questa comunicazione intermondana attraversa inevitabilmente il confine che separa i due mondi.
Ma cos’è questo confine? Qual è il suo significato?
Il confine è inteso da Florenskij con un doppio valore. É sia la demarcazione, l’individuazione, la delimitazione delle differenze specifiche: confine ha qui dunque il senso di limite. Oppure confine, per Florenskij, è anche la zona in cui le differenze specifiche si avvicinano, convergono ed entrano in comunicazione: confine, allora, ha anche il valore di contatto. Privilegiando perlopiù la seconda accezione, il filosofo russo giunge a considerare l’esistenza una zona di transizione in cui sfumano progressivamente le differenze specifiche. Per esempio, l’esperienza onirica è un momento in cui colui che sogna entra in contatto con l’invisibile: “Il sogno – ecco il primo e più comune passo della vita […] verso l’invisibile”[2]. Il fatto, dunque, che il mondo visibile sia “contaminato” di invisibile e viceversa è la base necessaria affinché si possa dire che l’uno è simbolo dell’altro, o meglio: il simbolo si configura come la zona di confine e transizione dall’uno all’altro mondo. In questo senso e solo così possiamo comprendere l’affermazione florenskijana: “Il sogno è un segno del trapasso dall’una all’altra sfera e simbolo. Di che cosa? Visto dall’alto – simbolo di quaggiù; e visto di quaggiù – simbolo dell’alto”[3].
La stessa etimologia del vocabolo rivela la sua natura mediana: il greco sumballein significa “mettere assieme”, “tenere collegati”, “congiungere”. Il simbolo è quindi luogo di tensione tra mondo visibile e mondo invisibile.
Perché un simbolo sia davvero tale, deve soddisfare alcune condizioni (che rimandano alle tesserae hospitales):
– presenza: è l’esistenza immediatamente presente e concreta dell’oggetto che assume valore simbolico;
– rottura: indica la frattura che divide l’oggetto dal significato completo;
– rinvio: è, invece, la tensione dell’oggetto verso la ricomposizione del suo senso complessivo (in seguito, appunto, alla frattura).
Nel breve saggio Le porte regali, del 1922, l’analisi metafisico-estetica dell’icona che l’autore propone è incentrata sul ruolo del simbolo. Il saggio mi sembra dunque di grande aiuto per comprendere la natura di quest’ultimo.
Dopo aver introdotto il lettore all’esistenza dei due mondi (visibile e invisibile) complementari di un’unica realtà, Florenskij spiega che l’esperienza terrena è simbolo della vita spirituale, in quanto la realtà invisibile “è più oggettiva delle oggettività terresti, più sostanziale e reale di esse; è il punto d’appoggio dell’opera terrestre”[4]. Le implicazioni gnoseologiche di tale affermazioni non sono irrilevanti: come detto poc’anzi, il visibile empirico è sì passabile di conoscenza, tuttavia tale comprensione va inserita in un’ottica metafisico-religiosa in cui il simbolo svolge un ruolo pressoché dominante.
Da qui, Florenskij distingue due tipologie di volto, a seconda del loro valore conoscitivo: lo sguardo e la maschera. Innanzitutto, per volto s’intende la manifestazione dell’essenza e della potenziale conoscenza insita nel fenomeno studiato. Il volto è “la manifestazione della coscienza diurna”[5], nel senso che è il nostro contatto con l’invisibile in alternativa al sogno (che è, appunto, coscienza notturna). In base alla qualità ontologica e gnoseologica del volto, Florenskij chiama sguardo la manifestazione dell’ontologia, cioè di Dio. É questa una manifestazione pura, per cui il volto realizza “la dignità della sua struttura spirituale”[6]. Il volto si è dunque fatto sguardo, e lo sguardo è somiglianza a Dio palesatasi sul volto. Il volto, quindi, ha senso solo se è sguardo, in quanto solo così è veramente mediatore tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, solo così è simbolo qualitativamente elevato. Al volto come sguardo, Florenskij contrappone la maschera: “è qualcosa che ha una certa somiglianza col volto, che si presenta come volto, ed è preso per tale, ma che dentro è vuoto, sia nel senso materiale, fisico, sia in quanto a sostanza metafisica”[7]. La maschera, dunque, inganna, simula il ruolo di mediatrice tra conoscente e conosciuto, e in realtà non mette in relazione i due elementi, ma li disgiunge. In virtù di questo sua caratteristica disgiuntiva si può affermare che la maschera è diabolica, etimologicamente riconducibile all’antitesi di simbolo: diaballein, “separare”, “disunire”, “mettere in discordia”. Con tali affermazioni, il filosofo russo si pone in aperto contrasto con la tradizione filosofica occidentale, in particolare col kantismo.
La soluzione proposta da Kant per quanto riguarda la conoscenza, nella Critica della ragion pratica, è quella di un soggetto conoscente non direttamente a contatto con il fenomeno. Questo viene infatti analizzato da apriori che pongono inevitabilmente una distanza tra i due enti. Per altro, il conoscente ha davanti a sé un fenomeno che non rivela il noumeno interno. L’essenza del fenomeno resta, per il kantismo, inconoscibile. Secondo Florenskij, invece, e ciò è evidente, il fenomeno in quanto volto resosi sguardo è rivelazione e manifestazione del noumeno stesso: fenomeno, nella vera conoscenza (quella che non ammette maschere), è simbolo della realtà noumenica e divina che sta alla base del visibile. La conoscenza kantiana, per il pensatore russo, è falsa, si occupa di maschere, ed è quindi diabolica.
La comunicazione tra mondo visibile e mondo invisibile non è assicurata solo dalla fede umana in Dio e dalla potenzialità dell’uomo di ascendere al visibile (coscienza notturna e coscienza diurna), bensì l’azione è reciproca. Esistono infatti entità che stanno al confine tra visibile e invisibile, che di per sé sono invisibili: queste sono i santi. I santi sono stati uomini, quindi enti del mondo visibile e carnalmente presenti, che hanno “trasfigurato il corpo e rinnovato la mente”[8] e che ora abitano l’invisibile. E’ grazie all’iconostasi che i santi possono guardare il mondo visibile; è grazie all’iconostasi che noi possiamo guardare il mondo invisibile. L’icona, in virtù di questa natura mediana e simbolica, è il confine tra mondo visibile e mondo invisibile. I santi non testimoniano Dio passivamente venendo raffigurati sulla tavola, ma guardano il mondo visibile, compiono attivamente un’azione, e quindi la loro testimonianza non consiste tanto nella presenza quanto nello sguardo. Così come, da parte del fedele, egli può cercare il mondo invisibile non solo stando di fronte all’icona, ma partecipandovi, stando quindi al gioco di sguardi che l’icona invoca. L’icona è quindi simbolo solo se è conforme al loro scopo, ha bisogno cioè che ci sia partecipazione reciproca di visibile e invisibile, di fedeli e santi.
Volendo trasporre queste considerazioni di ordine religioso sul piano gnoseologico, si può affermare che il fenomeno svolge davvero il suo ruolo di manifestazione, dunque di simbolo, solo se permette l’accesso ad una conoscenza vera. Il fenomeno in quanto tale non è autosufficiente, ma necessita del contatto e del coinvolgimento tanto del noumeno quanto del soggetto conoscente.
L’azione delle icone sul fedele non si limita ad una comunicazione del visibile con l’invisibile, comunicazione che in sé non sarebbe nulla di eccezionale. Il simbolo, che l’icona è, fa di più: come dicono i Santi Padri, nella contemplazione delle icone il fedele “solleva la mente dalle immagini agli archetipi”. Anche in questo caso, la portata gnoseologica della speculazione florenskijana non è indifferente. Il soggetto conoscente, coinvolto e trasportato dal fenomeno-simbolo, comprende l’archetipo che ha prodotto il fenomeno. Ciò significa cogliere, con echi neoplatonici, la sorgente da cui tutto trabocca. Ovvero, quando entriamo in “contatto ontologico con l’archetipo”[9], il segno sensibile non è più rappresentazione, ma svelamento di luce alla coscienza. In questo senso, le icone evocano i propri archetipi, “cioè destano nella coscienza una visione spirituale”[10].
Per terminare il discorso sul simbolo, va aggiunto che una prospettiva, quella florenskijana, che tenga conto della comunicazione reciproca, tramite il simbolo, tra mondo visibile e mondo invisibile, non può limitare la propria risorsa gnoseologica alla semplice ascesa dal mondo sensibile a quello trascendente. A tale proposito, mi sembra chiarificante l’esempio dell’attività dell’artista.
L’arte, per Florenskij, non è un semplice atto – per così dire – di libera volontà da parte dell’artista, ma è l’incarnazione di processi complessi e stratificati.
L’arte non è rappresentazione: infatti, in un’ottica metafisica di tale intensità e forza, come sarebbe possibile la trasposizione in caratteri solamente materiali di tratti che sono aldilà del nostro mondo? E ancora, sempre in tale ottica, l’icona è il prodotto della sola azione umana dell’artista o c’è dell’altro?
L’arte è manifestazione: nell’attività artistica l’invisibile s’incarna e, come Cristo, si palesa e si rende visibile. Addirittura, le sante figure delle icone sono immagini che guardano, prima che essere guardate. Scrive Florenskij con vena platonica: “Nella creazione artistica l’anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì senza immagini si nutre della contemplazione dell’esistenza del mondo celeste, tocca gli eterni movimenti delle cose e, impregnata e carica di conoscenza ritorna al mondo terreno. E tornando giù per la stessa strada arriva alla frontiera della terrestrità, dove il suo acquisto spirituale è investito in immagini simboliche – le stesse che, fissandosi, formano l’opera d’arte”[11].
Il filosofo russo fa uso anche dei termini nietzscheani dionisiaco e apollineo per spiegare questo doppio movimento: “l’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell’invisibile – questa è l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile. Sollevata che si sia in alto, nell’invisibile, essa cala di nuovo nel visibile e a questo punto le vengono incontro ancora le immagini simboliche del mondo invisibile […]: questa è la visione apollinea del mondo spirituale”[12].
L’attività della creazione artistica, continua Florenskij, è pari ad un sogno sostenuto: con questa similitudine l’autore ci fa capire che, come il sogno è involontario, nel senso che non è comandato dalla nostra volontà, né è consapevole, così anche la creazione artistica ha dell’inconsapevole.
Di conseguenza risultano, nell’attività artistica, fondamentali tanto l’ascesa dell’artista al mondo invisibile degli archetipi e della Verità, quanto il ritorno dell’artista, che è ora impregnato di simboli e di impressioni divine, al mondo sensibile. Quindi, in risposta alla seconda domanda posta poco sopra, l’effettiva azione dell’artista consiste “solo” nella riproduzione a colori della luce divina; l’altra parte del compito è svolto dal mondo invisibile, più propriamente da Dio stesso, che trasporta a sé l’artista, conducendolo ad un’estasi dionisiaca, per poi riportarlo nel mondo sensibile, dove, carico delle impressioni vive del dionisiaco, può finalmente mutare la propria estasi in forme apollinee belle. Belle perché hanno conosciuto la Verità. Belle perché sono simbolo della Verità.
L’ILLUSIONE
In Lo spazio e il tempo nell’arte, Florenskij passa ad analizzare il problema dell’illusione. L’autore inserisce tale studio in una dimensione di più ampio respiro che, avendo di mira il tema della conoscenza in ambito estetica, tratta dell’opera d’arte sotto un profilo di stampo olistico. Per Florenskij, infatti, l’opera d’arte è caratterizzata dalla sottomissione delle parti al tutto e dalla loro interdipendenza. L’opera non è dunque la mera somma delle sue parti, ma è tale che l’insieme degli elementi riuniti acquista senso e valore accresciuti. Ciò significa che se non ci fossero legame e interdipendenza tra le parti, l’opera si ridurrebbe alla pura somma di questi elementi. Ma se l’opera è davvero totalità, “allora non dovrà essere formata passivamente da singoli elementi, ma dovrà dominarli, indirizzarli e farli partecipi della sua interezza”[13]. Se alla totalità compete dominare le parti, queste, dal canto loro, svolgono una funzione da noi percepita come elastica. Ed è grazie alla loro elasticità, al loro piegarsi, che possiamo apprezzare la forza dell’intero.
È la totalità, quindi, l’interesse di Florenskij. Di conseguenza, per accostarsi ad un’opera d’arte, affinché, cioè, il nostro atteggiamento verso questa sia “autentico”, non bisogna assumere uno sguardo analitico, che è invece proprio dell’opinione comune e, in parte, del positivismo. Piuttosto è necessaria quella che Florenskij chiama sintesi percettiva: “tutti gli elementi, qualunque essi siano, devono essere percepiti e valutati nell’intera opera in modo diverso da quello in cui si percepiscono e si valutano gli stessi elementi presi ognuno, separatamente, in sé”[14]. La totalità, come si deduce, è il contesto nel quale le singole parti acquistano un certo significato che, senza il contesto, risulta incomprensibile. La sintesi percettiva è uno strumento formidabile atto a non privare del senso totale l’opera; servendosi di questa tipologia di percezione, gli elementi dell’opera non vengono percepiti come se fossero percepiti separatamente e avulsi dal contesto. Ciò significa che le parti vengono percepite in modo diverse da ciò che sono, cioè le parti non sembrano quello che sono. In breve, si tratta di illusione.
Florenskij, pur conservando il termine illusione, non intende dargli un senso negativo. L’illusione non è qui un “prendersi gioco di”, come suggerirebbe la derivazione latina il-ludo, ma molto più ampiamente e positivamente “ciò che non sembra ciò che è”. Evidentemente, c’è illusione laddove un’interezza sottomette i suoi singoli elementi, in quanto deforma il loro significato originale.
Gli elementi della illusione si dividono in due classi: il fenomeno generale, che predomina sugli altri, e il fenomeno particolare, che si caratterizza per la sua subordinazione al fenomeno dominante. Il fenomeno totale che ne deriva, l’illusione appunto, è definibile come l’interazione nella nostra coscienza tra il fenomeno generale e il fenomeno particolare, in tensione tra loro.
Nella sua analisi dell’illusione, Florenskij si rifà ad uno studio del 1905 di Preobraženskij, il quale indica le tre regole a cui si sottomettono i fenomeni illusori:
1) Per aumentare l’illusione bisogna aumentare il fenomeno generale in modo da non indebolire il fenomeno particolare.
2) L’illusione non sparisce ad un’osservazione attenta, anzi aumenta.
3) L’illusione non è rimossa dalla conoscenza della sua causa.
Ora, qui non si vuole fornire, come già detto, l’analisi esaustiva del movimento gnoseologico in gioco, piuttosto studiarne le problematiche e le implicazioni teoretiche.
La comprensione comune è poco interessata alla sintesi percettiva, cosicché quando s’imbatte in una illusione la considera un’eccezione e una rarità rispetto allo schema generale a cui fanno riferimento perlopiù i fenomeni. Ma in realtà, un punto di vista che consideri la sintesi delle percezioni uno strumento d’indagine basilare trova che l’intera realtà è una illusione. Non nel senso plotiniano di sortilegio, piuttosto il mondo come illusione ci rimanda a quella stratificazione di senso e alla paradossalità del reale, come lo studio precedente sul simbolo ha voluto mostrare.
Intendere il mondo come una illusione significa, assumendo una formula matematizzante, che il fenomeno A in un certo contesto significa X e in un altro può voler dire Y. Cioè, in breve, A = X ma anche A = Y, e ciò senza che nessuna delle due sia erronea, e senza che nessuna delle due sia “più vera” dell’altra.
In definitiva, l’atteggiamento che il soggetto conoscente deve sostenere di fronte all’oggetto conosciuto, nel caso di una illusione, è quello di considerarlo all’ordine del giorno. Cioè, il fenomeno illusorio non deve mettere in crisi, né “intimorire” gli schemi più comuni con cui leggiamo la realtà. “Dal momento che tocca al pensiero scontrarsi con fenomeni che non è possibile deformare secondo un modello prestabilito, questi si aggrappa allo schema precostituito, giudicando il fenomeno che non gli si sottomette come un fenomeno assolutamente particolare”[15].
LA VERITA’
Come si è detto poc’anzi, il fenomeno illusorio può far sì che a=x e a=y, senza che una delle due uguaglianze prevalga sull’altra. Tuttavia, per comprendere il significato di verità in Florenskij è bene anche tener fermo il concetto di simbolo e la sua struttura logica intimamente antinomica, perché composta da due poli differenti. Solo avendo chiara la doppia antinomia, quella del simbolo e quella dell’illusione, è possibile comprendere perché “la verità è contraddizione per il raziocinio, contraddizione che diventa evidente appena la verità riceve formulazione verbale”[16].
Seguendo l’impostazione data al medesimo tema da Tagliagambe (impostazione per altro data anche dallo stesso Florenskij), è utile approfondire il rapporto che le tre maggiori culture antiche avevano stabilito con la verità.
Presso i Greci, la verità era indicata col termine αλήθεια, cioè ciò che non è soggetto all’oblio, ciò che non è soggetto alla perdita di coscienza e conoscenza dopo la morte, perché non immerso nel fiume Lete (che, per l’appunto, significa Oblio). L’αλήθεια, per tanto, non è soggetta al divenire. Ma non sta a significare originariamente qualcosa di assoluto, piuttosto è lo sforzo umano di opporre una barriera al πάντα ῥεῖ costante. Verità è quindi intesa come memoria eterna.
La veritas dei latini, invece, introdotto nella filosofia da Cicerone, è di derivazione giuridica e sta ad indicare la reale situazione dei fatti, contrapposta ad una delle due versioni dei fatti. Al senso giuridico è quindi anche accostato un senso morale.
Gli antichi Ebrei, invece, rifacendosi ai testi biblici associano la verità alla parola di Dio; questo porta a considerare verità la fede in Dio, cioè è verità la fede nella verità. In quanto Dio si è rivelato tramite alcuni profeti (Mosè, ad esempio), verità è anche un concetto storico, oltre che sacrale.
Diversamente da queste culture, la tradizione russa adotta istina per delineare il concetto di verità. Istina, etimologicamente, è riconducibile ad est’, infinito del verbo “essere”; pertanto la verità è connotata in senso ontologico, e non staticamente, ma come qualcosa di vivo e perdurante, sicuramente intrecciato all’idea di Sofia.
Dal momento che nella cultura russa verità non è associata ad concetto di staticità, bensì di movimento vivo, Florenskij rifiuta i due principi basilari della logica occidentale: il principio di identità e il principio di non contraddizione. Questo è stato già implicitamente accennato con l’ambivalenza del fenomeno A in materia di illusione; ora risulta ancor più evidente. I principi logici occidentali sono tautologie, per cui A = A e A ≠ non-A. Ma le tautologie non possono che esprimere staticità, in quanto “qualcosa è perché è” oppure “qualcosa è perché non è qualcos’altro”, il che non aggiunge nulla ma semplicemente ribadisce constatando. Florenskij individua la causa dell’impostazione tautologica nella concezione del linguaggio: il kantismo (ovvero l’Occidente) considera il linguaggio immanente ed autonomo, cioè indipendente dallo stato di cose del mondo. Ne scaturisce una condizione per cui è all’interno delle proposizioni stesse che bisogna cercare la verità. Di avviso opposto, Florenskij considera il linguaggio come parte integrante della realtà, come manifestazione della vita spirituale (la sua filosofia del linguaggio ha come presupposto, infatti, la filosofia del nome), per cui il linguaggio non è avulso dal contesto spazio-temporale. Le tautologie reggono finché sono considerate in se stesse come sistemi chiusi; ma il linguaggio è simbolo del mondo, per tanto appena si cerca di dimostrare empiricamente tali tautologie, queste crollano, perché distanti dalla realtà.
Inoltre, per Florenskij, il linguaggio ha la caratteristica di non dire come sta la realtà, ma di prospettare le modalità alternative possibili. Risulta quindi fondamentale che il linguaggio prospetti letture del mondo antinomiche, cioè proponga letture contrarie l’una all’altra: “ecco perché la legge d’identità, che pretende di essere un fondamento assoluto e universale di ogni intuizione, è in realtà infranta e contraddetta da ogni intuizione reale”[17]. Così, continua Tagliagambe, “A, escludendo tutti gli altri elementi, viene escluso da tutti questi, in quanto se ognuno di essi per A è soltanto ‘non-A’, anche A rispetto a ‘non-A’ è soltanto non-‘non-A’”[18].
Da qui possiamo dedurre un’idea di verità come un concetto capace ci accogliere in sé tutte le eventuali contraddizioni. Insomma, verità è un giudizio autocontraddittorio.
Tutto sommato, resta ancora da “materializzare” una siffatta verità, cioè capire come disporne concretamente. Per questo passo, Florenskij si appella al matematico Cantor, il quale, dopo una complessa dimostrazione matematica sull’infinito, giunge a considerare “qualcosa di essenzialmente nuovo”: la novità consiste in uno spostamento di livello, dal piano razionale a quello che trascendente le facoltà intellettive umane. Per accostarsi al fenomeno della verità è necessario, dunque, l’irrazionale, inteso come “atto creativo dello spirito”[19]. Allora la verità è un atto non solo di comprensione intellettiva, ma anche di vera e propria esperienza.
Come detto, la verità non ha nulla a che fare col raziocinio, è bensì una questione irrazionale (che qui vale per “vita spirituale”). Si pensi, infatti, che la Verità delle verità, cioè la Verità assoluta che sta a fondamento di tutto è il dogma della Trinità, per cui “la Trinità è nell’Unità, come l’Unità è nella Trinità”. È una verità che va oltre la logica umana. Per questo, la verità è sì discorso, nel senso di argomentazione, in cui trovano posto le ‘tautologie occidentali’, ma il passaggio finale, come nel miglior neoplatonismo, è un’intuizione che non ha nulla da spartire col raziocinio.
Ho voluto studiare la gnoseologia florenskijana in un percorso che si snodasse tra simbolo, illusione e verità, in quanto questi tre elementi riescono bene a delineare il problema della conoscenza, e quanto tale problema sia ricco di ambiguità.
Col simbolo ho voluto descrivere la problematicità e la non linearità del processo gnoseologico: l’ascesa al mondo invisibile non è completa senza la discesa al mondo visibile. Non è un processo unidirezionale, ma, appunto, complesso.
L’illusione, invece, ha proposto in maniera insolita la lettura della stratificazione di senso nella realtà: A=X e A=Y senza che, tuttavia, ciò risulti sbagliato. Ciò si scontra con la ragione umana, ma non è erroneo. Con questo, quindi, Florenskij vuole anche suggerire che sbaglia il kantismo nella sua cieca fiducia nella ragione umana: facendo ciò, la filosofia occidentale vuole fondare l’io sull’io stesso con falsi razionalismi. Florenskij è di un’opinione meno celebrativa della ragione, per cui un fenomeno può essere vero senza che tuttavia la ragione lo riconosca.
La parte finale, sulla verità, la parte a mio avviso un po’ più tecnica, voleva mostrare come il concetto di Verità assoluta si sposasse, in Florenskij, con l’idea di autocontraddizione.
La ragione umana si trova in una realtà composta dal mondo visibile e dal mondo invisibile, realtà abitata da energie divine e da Dio stesso, realtà in cui la conoscenza è una questione primariamente simbolica e solo in un secondo tempo razionale, realtà in cui l’illusione è quotidiana, realtà in cui la i principi logici reggono finché reggono, per poi essere suppliti dall’irrazionalità.
[1] S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, 2006, Bompiani.
[2] P. A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di Elémir Zolla, 2007, Adelphi, p. 20.
[3] Ibidem, p. 33.
[4] Ibidem, p. 42.
[5] Ibidem, p. 42.
[6] Ibidem, p. 44.
[7] Ibidem, p. 45.
[8] Ibidem, p. 54.
[9] Ibidem, p. 66.
[10] Ibidem, p. 69.
[11] Ibidem, p. 34.
[12] Ibidem, pp. 35-36.
[13] P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, a cura di N. Misler, Adelphi, 2001.
[14] Ibidem, p. 205.
[15] Ibidem, p. 215.
[16] P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, p. 206 citato in S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij.
[17] S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, p. 145.
[18] Ibidem, p. 146.
[19] P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, p. 579, citato in Tagliagambe, Come leggere Florenskij.
PAOLO VIRNO
a cura di Giovanni Copertino
Paolo Virno, nato a Napoli nel 1952 è un filosofo italiano contemporaneo, semiologo e figura di spicco del movimento marxista italiano dopo il secondo dopoguerra. Attualmente insegna filosofia del linguaggio presso l’università di Roma Tre.
Trascorsa la sua infanzia a Genova, dove vi si forma politicamente. Negli anni a cavallo i ’60 e i ’70 il suo nome si associa ai gruppi armati dell’estrema sinistra, fino al 1969 anno in cui entra a far parte di Potere Operaio.
“Entro in Potere Operaio dopo gli episodi cruciali della primavera ’69 a Torino, dopo il convegno nazionale dei comitati di base di fine luglio, e dunque alla fine di agosto del ’69 quando, dopo la rottura con Lotta Continua, si sta per formare realmente Potere Operaio come organizzazione. Come tanti altri, mi colpì questa apertura teorica e culturale, il fatto che si prendesse sul serio la grande cultura borghese, che si prendesse sul serio il pensiero negativo, che si prendesse sul serio la filosofia classica e la grande economia, Keynes, Schumpeter, in una situazione in cui viceversa la cultura e i riferimenti correnti nel movimento erano quelli che si sanno. Ciò naturalmente provocava anche dei vizi (narcisismo, quelli che…), e ovviamente non tutti i compagni di Potere Operaio leggevano quelle cose, non è questo il punto: ma una cosa è far finta di aver letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta di aver letto il Libretto di Mao”.
Il suo impegno intellettuale per la causa marxista, comporta che dal 1970 fino al 1972, impartirà lezioni sul Capitale di Marx nello stabilimento dell’Alfa Romeo di Arese:
“queste specie di lezioni sul Primo Libro de Il capitale (era quello il libro di testo): ci si può quindi immaginare la lettura del capitolo sulle macchine, del capitolo sulla giornata lavorativa, fatta in parte con dei compagni, in parte invece con degli operai qualsiasi, non particolarmente politicizzati. Il che però era una specie di conferma, qualche anno più tardi (verso la fine del ’73) di questo assunto generale dell’esperienza operaista, cioè sul carattere immediatamente applicabile delle pagine più avanzate di Marx alla condizione materiale dell’estrema modernità.”
Nel 1977 assieme a Franco Piperno e Oreste Scalzone fonda la rivista Metropoli di chiara matrice marxista.
In seguito nel 1979 nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria nota come “7 aprile” accusano Virno e gli altri di appartenere in blocco all’organizzazione eversiva «costituita in più bande armate variamente denominate».
Fu prosciolto soltanto 8 anni più tardi, gli di carcere sono riassunti nelle seguenti parole:
“…Io vado a Novara, Oreste va a Cuneo, quell’altro va a Favignana, quell’altro ancora da un’altra parte. Comincia questo giro negli speciali, e ci ritroviamo non tutti ma in parte nel carcere di Palmi, inaugurato nell’autunno del ’79, carcere per soli politici o per detenuti comuni completamente politicizzati, una specie di “Kesh”. Là dentro c’era una situazione curiosa, anche molto spettacolare, perché si incontrano assolutamente tutti. Infatti, per un primo periodo con i compagni delle BR o con Alunni o quelli dei NAP, si pensò anche di approfittare di questa situazione per avviare una discussione larga, di carattere “costituente”: però, il problema è che anche lì c’è il fatto che i più spregiudicati di loro, come Curcio, erano d’accordo, avevano capito di aver perso l’essenziale, cioè il cambio di paradigma del ’77, cioè il fatto che i giovani operai erano non più riconducibili a quelli del ’69; altri invece no. Comunque, c’era una disponibilità generale all’inizio. Però, loro erano in un periodo di pieno sviluppo di quella che chiamavano strategia dell’annientamento, insomma diciamo di massificazione della lotta armata, e naturalmente è un vincolo materiale troppo forte il tipo di tattica, di passaggio che stai attraversando per avere la snellezza mentale di affrontare una discussione così grande.
“Riassumendo in breve, la mia detenzione fu un anno dal ’79 all’80, poi due anni liberi in cui curai la serie continua di Metropoli nell’81, due anni ancora di carcere, condanna a 12 anni in primo grado, un anno di arresti domiciliari … l’assoluzione (insieme a tanti altri imputati del 7 aprile) fu nell’87, la conferma nell’88”.
Dopo svariate docenze (si annovera un’esperienza nell’Università di Montreal), tuttora insegna filosofia del linguaggio all’Università di Roma Tre.
Pensiero
Paolo Virno, convinto della necessità di un nuovo linguaggio della politica che chiarisca le trasformazioni economiche, sociali e culturali che da più di un decennio caratterizzano le società occidentali, introduce nell’opera Grammatica della moltitudine, una riflessione sul contrasto tra i termini di “popolo” e “moltitudine” che generarono un’accesa polemica teorico filosofica nel secolo XVII. Quando avvenne la formazione degli stati nazionali fu il termine popolo a prevalere e Virno si domanda se non sia venuto il tempo di restaurare l’altro concetto.
I primi a discutere sulla contrapposizione di popolo-moltitudine furono Spinoza e Hobbes. Per Spinoza, la “multitudo” è quell’insieme di persone che nell’azione politica e in quella economica, pur agendo collettivamente non perdono il senso della propria individualità, resistendo sempre alla riduzione a unica massa informe com’è nel termine di “popolo”. Per Spinoza moltitudine è dunque la base delle libertà civili.
Al contrario Hobbes vede nel concetto di moltitudine, cioè in una pluralità che non si sintetizza nell’uno, il più grave pericolo per l’autorità dello Stato che esercita il «supremo imperio». «Dopo i secoli del «popolo» e quindi dello Stato (Stato-nazione, Stato centralizzato ecc.), torna infine a manifestarsi la polarità contrapposta, abrogata agli albori della modernità. La moltitudine come ultimo grido della teoria sociale, politica e filosofica? Forse.»
Il Ricordo del presente
“Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla da come non fu, è mutato”
G. Caproni
Il saggio di Virno, Il ricordo del presente, si apre con i versi della poesia Ritorno di Giorgio Caproni che racchiudono nella loro poetica l’inquietante fenomeno del déjà vu.
Problematica cardine del libro è la fine della storia, e il rapporto tra teoria della memoria e folosofia della storia.
Il déjà vu è un’inquietante patologia della memoria, in base alla quale ci sembra di rivivere sempre di nuovo qualche frammento del passato. La “fine della Storia” è l’idea, o lo stato d’animo, che caratterizza il senso comune postmoderno. Vi è un rapporto tra le due cose? “La fine della Storia” ha la sua radice nel fenomeno del déjà vu?
Il professore Virno nella prima parte del libro, riprende Henri Bergson, e il suo saggio Le souvenir du présent et la fausse reconnaissance (1908).
Il déjà vu, secondo Bergson, rivela in via eccezionale il modo ordinario in cui opera la nostra coscienza: mostra ciò che noi percepiamo la realtà, simultaneamente come presente e come passato.
“La formazione del ricordo non è mai posteriore a quella della percezione ma, contemporanea a essa. Il fuggevole presente è sempre afferrato sotto due profili distinti e concomitanti”
Percezione e ricordo nascono per parto gemellare, e quel che chiamiamo ricordo non è altro che il presente stesso, visto sotto la specie del possibile, l’intromissione del condizionale in un hic et nunc retto dall’inesorabilità dell’indicativo. Le due esperienze simultanee, sono solo differenti in “natura” e non d’importanza: noi facciamo esperienza del presente come reale, compiuto, attraverso le nostre percezioni, ma, nello stesso istante, facciamo esperienza anche della “memoria” del presente (come, appunto, nel fenomeno del déjà vu), che consiste nel processo in atto di formazione della memoria, anziché nel sentimento di un evento già accaduto e che sembra ripetersi in maniera inquietante nel presente. Memoria e percezione sono dunque due funzioni coestensive del presente: è solo a causa del nostro bisogno di azione che spesso saltiamo la percezione della memoria-in-progress per dare spazio alle più utili e contingenti informazioni che ci consentono di muoverci e agire nella situazione presente. Il déjà vu emergerebbe allora in quei momenti in cui l’azione vacilla, e noi possiamo cedere la nostra attenzione alle fessure di una percezione temporale estesa.
Per Virno, il déjà vu nella sua modalità di falso riconoscimento del passato nel presente, o paramnesia, è una patologia che corrode la genesi stessa del tempo storico come possibilità di riproduzione della vita affrancata da una coazione a ripetere: è lo stesso virus, se vogliamo, che si è insinuato nella negatività delle teorie della Fine della Storia.
In realtà per Virno, così come per Bergson, l’anacronismo che riflette la nostra percezione del presente è solo formale e in quanto tale viene ad affermare la pura coesistenza e simultaneità della potenza e dell’atto, delle “generali facoltà” del linguaggio e dell’intelletto e della loro declinazione performativa attuale.
Se, al contrario, il déjà vu è interpretato come il richiamo di un fatto passato che sembra ripetersi irrimediabilmente, noi consideriamo il presente-possibile in un passato-reale.
L’inestricabile ambiguità del déjà vu, come processo attuale della memoria e sentimento fallace del passato, si ripartisce – e forse si riequilibra – nella polarità del performer e dello spettatore. Conferendo un valore di “fatto” al presente in corso (presente, beninteso, per noi; per i “performer” si tratta di un passato fittizio).
Quello che potesse essere, nella storia attuale, liquidato come irrealizzabile utopia, qui si dà come possibilità fattuale, soglia aperta di potenziale, attraverso la quale articolare la nostra voce e il nostro linguaggio – anche se si tratta solo di un atto di parola. Se una sintesi temporale delle anamorfosi in cui si declinano gli atti di parola è possibile, questa avviene nel segno e nel tempo linguistico del futuro anteriore: nel considerare un’esperienza prossima ventura come già trascorsa, si sottomette a quella valutazione che spetta ai fatti compiuti – e contemporaneamente si esercita un dubbio “metodico” nei confronti di quello che, ora, è spacciato come destino inevitabile o inclinazione “naturale”.
È come se, nel semplice atto di prendere la parola e di dar conto del presente, noi ci investiamo nel processo e nella responsabilità di comporlo come memoria, di introdurre in tal senso uno scarto, una “differenza”, di sospenderne l’uso corrente. L’atto di parola, di fronte a testimoni presenti o virtuali, è – nei termini di Virno – un diagramma logico-linguistico dell’azione innovativa, vale a dire della possibilità di interrompere il flusso dell’esperienza e di operare “quei mutamenti di direzione argomentativa e quegli spostamenti di significato che, nel macrocosmo della prassi umana, provocano la variazione di una forma di vita”.
Proponendo un’interpretazione dei due termini in chiave temporale: potenza è non-ora, inattualità; atto è “adesso” , presenza. Su questa base, si chiede se il tempo storico non sia costituito precisamente dall’intreccio permanente di potenza e atto, non-ora e adesso, inattualità e presenza.
Nel rendere cronologia a questi due concetti ci permette di far sorgere un’evidenza, preoccupante se fosse a comprenderla in sfere differenti e in particolare a quella del lavoro: ciò che gli adepti di una fine della Storia giungono a metterla in opera, attraverso ciò che non è che l’effetto di una patologia della memoria, poiché è la negazione cui si sottintende la potenza.
L’inchiesta tracciata intorno al concetto di forza-lavoro prende una dimensione di particolare rilievo, da allora che il concetto dimostri fino a che punto il rifiuto di una storicità del tempo non è che l’utile che permette di fare l’economia di ciò che è portatore della sola potenza, bersaglio privilegiato della società capitalista, nel saper l’individuo intanto, come corpo vivente e produttore di forza-lavoro.
Ciò che infine accade nell’ultima parte del libro, le tesi di carattere generale sono messe alla prova nel tentativo di chiarire lo statuto temporale del capitalismo.
Inevitabile, a questo punto, il confronto con la tesi di Heidegger, secondo la quale la storicità avrebbe la sua radice nella morte:
“Il passato scaturisce in certo modo sull’avvenire…La storia, in quanto modo di essere dell’Esserci, getta così profondamente le sue radici nel futuro che è proprio la morte, come possibilità caratteristica dell’Esserci, a rigettare l’esistenza anticipante verso il suo esser-stato effettivo”.
MARCEL MAUSS
di Michele Bellingeri
Marcel Mauss (Épinal, 10 maggio 1872 – Parigi, 10 febbraio 1950) è stato un antropologo, sociologo, etnologo e storico delle religioni, uno dei padri fondatori della etnologia francese, ultimo degli allievi di Émile Durkheim, di cui era anche nipote. Marcel Mauss studia all’università di Bordeaux dove si laurea in filosofia. Completa la sua preparazione alla Scuola Pratica degli Alti Studi di Parigi (EPHE). Nel 1901 è nominato titolare della cattedra di “Storia delle religioni dei popoli non civilizzati”. Pur non avendo mai effettuato ricerca sul terreno, fu un tenace fautore dell’etnografia di campo. I suoi studi si concentrano sulla magia, il sacrificio, sullo scambio, ma soprattutto sul dono. Mauss ha influenzato profondamente il fondatore dell’antropologia strutturale Claude Lévi-Strauss. L’influsso di Mauss è rintracciabile in gran parte del pensiero anti-utilitarista, in Bourdieu soprattutto, ma anche in Latouche, Caillè, De Benoist. Il suo testo più famoso è il Saggio sul dono (1923). Tra le sue opere: Le origini dei poteri magici, Teoria generale della magia e altri saggi, Sociologia ed antropologia, Manuale di Etnografia, Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi.
Il Saggio sul dono
Il lavoro di maggior importanza di Mauss è sicuramente Il Saggio sul dono, libro diventato celebre e vera pietra miliare della antropologia culturale. In questo saggio Mauss, rifacendosi agli studi di Franz Boas sul rituale del potlàc e di Bronislaw Malinowski sul kula, descrive la socialità del dono nelle società arcaiche e primitive. Da Questa ricerca Mauss ricava alcune tesi fondamentali sulla natura del dono: 1) il dono è socialità obbligatoria; 2) il dono non è quindi pratica disinteressata; 3) il dono crea, rafforza e conserva i legami sociali e comunitari; 4) il dono, “come prestazione totale”, unisce gli aspetti sociali ed economici, ed è perciò rudimento economico, cioè è parte di una economia primitiva indissolubilmente legata alla socialità e alla vita.
L’obbligatorietà del dono
Mauss individua tre caratteristiche fondamentali del dono: “dare, ricevere, ricambiare” e mostra come i tre fondamenti del dono fossero essenzialmente obbligatori all’interno delle comunità primitive da lui studiate. Si deve “dare” per mostrare la propria potenza, la propria ricchezza; si è nell’obbligo di “ricevere”, cioè non si può rifiutare il dono, pena la scomunica della comunità ed il disonore; si deve “ricambiare”, cioè restituire alla pari o accrescendo ciò che si è ricevuto: restituire meno di ciò che si è ricevuto è un’offesa al donatore. Nel Saggio sul dono si mostra quindi come gli individui delle società arcaiche fossero obbligati a donare. Il dono non è quindi pratica libera, è un obbligo sociale, è un vincolo comunitario, non è liberalità del singolo, non è disinteresse. L’obbligo al dono è indotto innanzitutto da vincoli comunitari e di onore, chi non partecipa al rito del dono, chi non è nella capacità di reperire e possedere oggetti da immettere nel circolo del dono, è soggetto alla esclusione dal gruppo. Se si si rifiuta un dono, o non si ricambia in modo congruo, si incrinano i rapporti tra la famiglia del donatore e quella del donatario, si rompono legami di parentela, si creano rancori che possono durare tutta una vita.
Ma alla imposizione sociale si aggiunge lo spinta al dono determinata dall’animismo dei primitivi, che spiritualizzano gli oggetti e li credono provvisti di un anima. Nelle tribù studiate dall’antropologo francese gli uomini vedono negli oggetti una forza magica, un mana che le li lega indissolubilmente al donatore. Gli oggetti donati e ricevuti presentano caratteristiche magiche, simboliche, mitiche, religiose, immaginarie, che vincolano e influenzano la persona che le dona o le riceve. L’oggetto ricevuto possiede un anima e incorpora l’identità del donatore; il donatario che non se ne libera, che non ricambia al dono, verrà colpito e danneggiato dall’influsso dello spirito contenuto nell’oggetto. Si deve donare per non entrare in conflitto con lo spirito della cosa.
Mauss citando la credenza degli indigeni nell’anima delle cose, indica come nelle tribù primitive le cose rivestono un valore altissimo, quasi pari a quello degli uomini. L’animismo delle tribù primitive eleva gli oggetti inanimati al rango di persone, pone in loro uno spirito ed una volontà. Al di sopra di questo doppio fondamento, il legame forte tra uomini e cose, e la grande importanza delle cose, Mauss spiega come le cose possedute (e quindi donate) determinino propriamente il valore degli individui all’interno della tribù: maggiore è il prestigio degli oggetti posseduti e donati, maggiore è il valore dell’uomo.
Nel Saggio sul dono si dimostra quindi, che nelle società primitive studiate, ma anche nelle società antiche come quella romana, le cose, “le res”, possedessero un valore più alto, una importanza maggiore di quella che gli oggetti possiedono nel mondo contemporaneo. Scrive Mauss a proposito della società romana: “ In origine le cose possedevano una personalità ed una virtù proprie. Le cose non sono quegli esseri inerti che il diritto Giustiniano e il nostro intendono. Innanzitutto fanno parte della famiglia: la familia romana comprende le res, oltre che le persone…”. Questa grande importanza che le cose rivestivano nel passato arcaico è in un qualche modo sorprendente e contro il senso comune. Si può affermare che la communis opinio interpreta il moderno come una epoca in cui si dona eccessiva importanza alle cose a detrimento delle persone. Mauss ci rivela come questa prospettiva sia un qualche modo falsa, e che nel passato si concedeva più, non meno valore alle cose. L’autore indica questa enorme importanza attribuita alle res come aspetto comune a molte società arcaiche o primitive da lui studiate e fenomeno presente in grandi civiltà antiche come quella romana.
Il dono non è disinteressato, è “utile”
La scoperta della obbligatorietà del donare, nella individuazione delle relazioni sociali che inducono e forzano il donare e il contraccambiare al dono, pone la socialità del dono all’interno della nozione di utile. Mauss dimostra come il dono nel passato non fosse gratuito e disinteressato come la concezione contemporanea vuole fare credere: il donare è nell’interesse del donatore, cosi come il contraccambiare è nell’interesse del donatario. L’individuo che non dona viene posto ai margini della società, cosi come il donatario che non accetta, o che non corrisponde al dono offende e incrina i legami con la famiglia del donatore. In summa, chi non partecipa alla socialità del dono subisce l’emarginazione. Come nota Marco Aime: “..il dono, come viene concepito nella sua accezione contemporanea, è il prodotto di un’idealizzazione portata avanti dal cristianesimo, per cui si parla di dono solo quando questo è assolutamente gratuito, unilaterale, senza aspettativa di ricambio, in poche parole, disinteressato”. Il dono descritto da Mauss nelle società primitive non è quindi gratuito e disinteressato, instaura un ricircolo dei beni cui tutti hanno interesse nel farne parte. Non solo, il dono determina anche una forma di “rudimentale credito”, una aspettativa di ricambio al dono, ”un potere” del donatore nei confronti del donatario.
Il dono rafforza i legami sociali e comunitari
La socialità del dono svolge una basilare funzione sociale, crea, rafforza e conserva i legami comunitari tra individui, tra famiglie, tra tribù, tra sessi. L’economia del dono, nell’obbligo a concorrere al continuo “dare e ricevere”, rinsalda e fortifica un fitto insieme di relazioni sociali e comunitarie all’interno delle tribù primitive. Afferma Mauss in merito a questo “costante give and take”: “…la comunione e la colleganza che esse stabiliscono sono relativamente indissolubili….questo simbolo della vita sociale, -il permanere della influenza delle cose scambiate-, non fa che esprimere, abbastanza direttamente, il modo in cui i sottogruppi di queste società frammentate, di tipo arcaico, sono costantemente connessi reciprocamente e sentono di doversi tutto”. Il dono è rito sociale che rafforza la socialità. Mauss definisce il dono come facente parte “del sistema delle prestazioni totali”, in quanto meccanismo che interessa la totalità delle classi sociali e delle relazioni comunitarie, capace quindi di rinsaldare le relazioni tra tutte le classi sociali.
Il fatto sociale totale
Il “fatto sociale totale” è l’oggetto teorico definito da Marcel Mauss che ha maggiormente influenzato l’antropologia del secolo scorso. La nozione di “fatto sociale totale” è confluita, anche se con distinzioni fondamentali, nello strutturalismo del grande antropologo Claude Levi-Strauss. Per fatto sociale totale si intendevano quei fatti in grado di influenzare e determinare una messe di fenomeni di natura analoga, quei fatti cioè capaci di coinvolgere gran parte delle dinamiche della comunità. Come spiegato nei paragrafi precedenti il rito del dono è un fatto sociale totale, perché influenzava e colpiva la tribù in una molteplicità di fenomeni, univa aspetti pratici ed economici a quelli mitici, affettivi, e religiosi. Tutti i prodotti ed i beni immessi nel sistema della circolazione per mezzo del dono sono anche pretesto per creare e fortificare complesse trame di relazioni sociali. Attraverso un singolo fatto, un solo fenomeno, si poteva cosi spiegare la struttura e forma dei rapporti sociali nel suo complesso. Per Mauss il fatto sociale totale era un potente strumento a disposizione dello studioso: una struttura base attraverso la quale diveniva possibile dirimere ed interpretare dinamiche apparentemente lontane e di natura diversa. Ad esempio, attraverso fatti sociali totali di natura pratico-economica come il dono, si arriva poi a capire le forme magiche, religiose, etiche e morali della tribù. Levi-Strauss rileva come nel pensiero di Mauss, in particolare nella teorizzazione del fatto sociale totale, esista quindi un chiaro embrione “strutturalista”, dello strutturalismo sviluppato poi dal noto antropologo francese. Per Levi-Strauss c’è cioè in Mauss “…una certezza di ordine logico e cioè che lo scambio sia il denominatore comune di un gran numero di attività sociali apparentemente eterogenee”: un solo fenomeno che determina poi l’intera struttura.
Il rudimentale aspetto economico del dono
Mauss nota che questa obbligatorietà al restituire, è una forma rudimentale di credito, ed affermando ciò l’autore porta una critica alla “sociologia inconsapevole”, cioè a quella sociologia colpevole di riconoscere il solo baratto, cioè lo scambio simultaneo di beni, come forma economica di commercio delle società antiche. Nelle società arcaiche esiste anche un “termine”, un tempo stabilito, entro il quale il dono deve essere ricambiato, entro il quale il debito deve essere risarcito. Entro questo termine il donatario è colpito dalla influenza negativa della cosa donata. Entro questo tempo il donatario diviene soggetto al giudizio negativo della comunità. Il dono diviene quindi un baratto a scadenza, uno scambio ricambiato a termine, e rientra a tutti gli effetti in una dinamica economica primitiva. Dice l’autore nel Saggio sul dono: “…il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito. L’evoluzione non ha fatto passare il diritto all’economia del baratto alla vendita, e la vendita da quella in contanti a quella a termine. E’ da un sistema di doni, dati e ricambiati a termine, che sono sorti, invece, da una parte, il baratto, per semplice avvicinamento di tempi separati, e dall’altra, l’acquisto e la vendita, quest’ultima a termine ed in contanti, ed anche il prestito”. Nel tracciare una sorta di genealogia della prassi economica della vendita, il dono verrebbe prima del baratto per l’etnologo francese. Il baratto sarebbe originato dal dono come avvicinamento dei tempi di ricambio della cosa donata; dal baratto si sarebbe poi passati alla vendita. All’interno di questa interpretazione del dono come economia rudimentale, possiamo anche dire che questo “obbligo della reciprocità”, al corrispondere sempre più di quanto si sia ricevuto, si presenti come una spinta, come una fonte di dinamismo di questa “economia primitiva e premoderna”. Il donatario, costretto al ricambio del dono pena la scomunica sociale, si vede nella necessità di reperire, produrre e possedere una quantità crescente di oggetti, aumentando cosi la quantità di beni circolante. Il fondamento economico del dono delle società arcaiche è però nettamente differente dalla concezione economica moderna che scinde abissalmente gli aspetti materiali-produttivi da quelli etici-affettivi. Il dono rientra in quello che Mauss definisce il “sistema delle prestazioni totali”, quel sistema che coinvolgendo, oltre che tutte le classi sociali, anche tutte le forme della vita comunitaria, è sistema sociale ed economico nel contempo. Il dono quindi occupa tutti gli aspetti della vita della comunità, sia quelli economici che quelli sociali. La dimostrazione che nelle società arcaiche non vige la separazione tipica del moderno, tra sfera economica e sfera sociale-affettiva, è un importante lascito dell’antropologia culturale proposta da Mauss. Coerente con la dimostrazione della ricerca dell’interesse e dell’utile come fondamento di tutte le socialità basate sul dono, nelle conclusioni del Saggio sul dono, Marcel Mauss deriva una interessante interpretazione dell’Homo oeconomicus. Il carattere distintivo dell’Homo oeconomicus moderno, la differenza di esso se rapportato all’uomo arcaico, non consterebbe appunto nella ricerca dell’utile e dell’interesse, che già era presente nelle società primitive (e nel dono), ma nella razionalizzazione e tecnicizzazione di questa ricerca. Per Mauss non è la presenza di un fondamento di utile ad indicare l’uomo economico contemporaneo contrapposto ad un “disinteressato e buon primitivo”, sarebbe la scientificità con cui nel moderno si organizza l’utile: sono il puro e freddo calcolo e la razionalità applicata del capitalista e del banchiere, ad identificare e contraddistinguere l’uomo economico moderno.
Il rito del potlàc
Il rito del potlàc (scritto anche potlatch o potlach) è una cerimonia tipica di alcune tribù native del nordamerica occidentale (Canada e Stati Uniti). Mauss inserisce questa usanza nelle “prestazioni sociali di tipo agonistico”. Se nelle “prestazioni totali” o “fatti sociali totali” si dischiudevano meccanismi sociali capaci di coinvolgere la comunità nel suo complesso, nelle “prestazioni sociali totali di tipo agonistico” si aggiunge una competizione sfrenata tra individui volta alla affermazione dello status sociale. Nell’usanza del potlàc, durante un ricco banchetto a cui partecipa tutta la comunità venivano distribuiti e scambiati beni, e, in un’ orgia annientatrice, apparentemente irrazionale ed immotivata, si attuava la distruzione di beni di prestigio e di consumo, bruciando carne di foca e di salmone, incenerendo vestiti e pelli di animale, spargendo per terra olio e sale. Nel potlàc gli individui della comunità gareggiano a chi riesce ad accumulare la maggior quantità di beni da distribuire e sperperare: chi sperpera di più ottiene il primato sociale e si afferma come individuo di valore. Il valore dei beni distribuiti e sperperati diventa quindi la misura del valore dell’uomo, sancisce il rango nella comunità, la sua potenza: un individuo di alto rango deve poter disporre, distribuire e sperperare, beni commisurati al suo status sociale. Più si è in alto, più si deve distribuire e distruggere, pena il declassamento sociale. Mauss constata come il potlàc sia parte della economia del dono, ed allo stesso tempo ne sia anche la magnificazione, ne rappresenti l’esasperazione. Come nel dono anche nel rito del potlàc gli individui sono, sia per motivi magici che sociali, obbligati a donare, obbligati al ricambiare più di quello che gli altri hanno donato loro, i componenti della tribù sono vincolati nel distruggere una quantità sempre maggiore, sempre crescente, di beni. Il potlàc è quindi essenzialmente sperpero e profusione irrazionale di energie, dei singoli e della comunità, ed è per questo una ritualità la cui essenza è nettamente contrapposta a quella mercantilistica e borghese del risparmio, dell’accumulo e dell’uso razionale (cioè produttivo) delle risorse.
Frasi e riflessioni di Marcel Mauss
“ L’obbligo di donare non è meno importante; il suo studio offrirebbe la possibilità di comprendere come sia invalso tra gli uomini il sistema dello scambio. Possiamo indicare solo alcuni fatti. Rifiutarsi di donare, trascurare di invitare, cosi come rifiutare di accettare equivalgono ad una dichiarazione di guerra; come rifiutare l’alleanza e la comunione. Si fanno dei doni perché si è obbligati a farli, perché il donatario ha una specie di diritto di proprietà su tutto ciò che appartiene al donatore”. (Saggio sul dono)
“Nessuno è libero di rifiutare un regalo offertogli. Tutti, uomini e donne, tentano di superarsi l’un l’altro in generosità. C’era una sorta di rivalità, nascente dal desiderio di offrire un maggior numero di oggetti e di maggior valore”. Dice Mauss citando Radcliffe-Brown (Saggio sul dono).
“Ma in tutte le società possibili, la natura peculiare del dono è quella di obbligare nel tempo”. (Saggio sul dono)
“ La cosa donata frutta una ricompensa in questa vita e nell’altra. Qui produce automaticamente per il donatore una cosa identica a se stessa: non è perduta, si riproduce; là, è la stessa cosa accresciuta che viene ritrovata”. (Saggio sul dono)
“Ma il motivo di questi doni e di questi sperperi forsennati, di queste perdite e queste distruzioni folli di ricchezza non è in nessun grado disinteressato, soprattutto nelle società dove è in uso il potlàc. E’ attraverso i doni che si stabilisce la gerarchia tra capi e vassalli, tra vassalli e seguaci. Donare, equivale a dimostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto, magister; accettare senza ricambiare o senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere più in basso (minister)” (Saggio sul dono)
“In questo caso, la ricchezza è, da tutti i punti di vista, un mezzo per ottenere prestigio e una cosa utile. Ma è certo che le cose da noi vadano diversamente e che la ricchezza non sia, prima di tutto, il mezzo per imporre agli altri la propria volontà?”. (Saggio sul dono)
ISTVÁN MÉSZÁROS
a cura di Corrado Bertolotto
István Mészáros è considerato uno dei principali filosofi marxisti della seconda metà del xx° secolo e inizio xxi° La maggior parte dei suoi scritti è dedicata all’analisi della possibilità, e necessità, di transizione dal capitalismo al comunismo. Una delle sue opere più importanti: ‘Beyond Capital: Toward a Theory of Transition’ (Oltre il Capitale – Verso una Teoria di Transizione) del 1995, oltre ad affrontare il tema della transizione mira a fornire un’analisi della società capitalistica attuale e della sua ‘crisi strutturale’. Contemporaneamente l’autore critica senza mezzi termini l’ideologia borghese che instilla l’idea che non ci siano alternative e che si possano ottenere dei miglioramenti solo all’interno della società capitalistica, ma ‘gradualmente’. Analizza inoltre a fondo i fallimenti del ‘socialismo reale’. Altre opere fondamentali sono ‘Marx’s Theory of Alienation’ (La teoria dell’alienazione in Marx) del 1970 e soprattutto ‘Social Structure and Forms of Consciousness’ in due volumi (2010-2011): il primo con sottotitolo ‘The Social Determination of Method’, e il secondo con sottotitolo ‘The Dialectic of Structure and History’.
La vita e l’opera
István Mészáros fu un filosofo marxista ungherese, nato a Budapest il 19-12-1930 e morto a Margate (Inghilterra) l’ 1-10-2017.
Fu allevato dalla madre single e dalla nonna materna, e all’età di dodici anni falsificò la data di nascita per aiutare la famiglia ottenendo l’assunzione nella fabbrica di motori d’aeroplano dove lavorava sua madre. Le tristi condizioni di lavoro direttamente vissute avrebbero sviluppato in lui l’odio inestinguibile per le situazioni di sfruttamento e oppressione.
Intorno ai 15-16 anni Mészáros entrò in contatto con la filosofia di Marx frequentando una libreria. Dopo aver letto di Marx il ‘Diciotto Brumaio di Luigi Napoleone’, ‘L’Anti Dühring’ di Engels e il ‘Manifesto Comunista’ di Marx ed Engels prese interesse agli scritti di György Lukács sulla letteratura. Decise allora di iscriversi all’Università di Budapest e potè farlo nel 1949 vincendo una borsa di studio, quando l’Ungheria divenne uno Stato comunista. All’Università si affiliò alla ‘Scuola di Budapest’, un gruppo di filosofi ungheresi (tra cui Ágnes Heller e György Markus) allievi di Lukács o da lui influenzati. Durante questo periodo Lukács era molto criticato dal Partito Comunista Ungherese e il Governo di Mátyás Rákosi mise al bando alcuni suoi scritti tra il 1949 e la metà degli anni cinquanta. A causa del suo sostegno a Lukács e della frequentazione dei suoi ‘Seminari’ Mészáros rischiò di essere espulso dall’Università. Nel 1950 Mészáros scrisse una meticolosa difesa di una rappresentazione teatrale del classico ungherese ‘Csongor es Tünde’ di Vörösmarty censurato dalle autorità. Il suo saggio fu pubblicato in due puntate sulla rivista letteraria ‘Csillag’ e ricevette nel 1951 il premio intitolato al poeta ungherese Attila Jószef, e l’opera teatrale censurata tornò a essere rappresentata. Tutto ciò indusse Lukács a nominarlo suo assistente all’Istituto di Estetica dell’Università di Budapest.
Dal 1950 al 1956 Mészáros partecipò attivamente ai dibattiti culturali e letterari come membro dell’Associazione degli Scrittori Ungheresi, su cui più tardi scrisse nel suo libro ‘La rivolta degli intellettuali in Ungheria’ pubblicata in Italia nel 1958. Nel 1956 il suo saggio ‘Il Cararattere Nazionale di Arte e Letteratura’ fu scelto come tesi centrale dell’incontro plenario, presieduto dal compositore Zóltan Kodály, dell’antistalinista ‘Circolo Petöfi’, un gruppo accreditato di aver posto le basi della rivolta ungherese di Ottobre-Novembre di quell’anno. Egli pubblicò anche la rivista Esmélet (Consapevolezza), cofondata con Kodály, Lukács e altre figure culturali di punta.
Nel 1955 Mészáros incontrò a Parigi l’italiana Donatella Morisi, che diverrà sua moglie il 14 febbraio 1956 con Lukács testimone alle nozze. Fino alla sua morte (2007) essa gli fu compagna nella vita, nella comunanza di idee e nella lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione. Ebbero tre figli.
Mészáros conseguì a Budapest il dottorato in filosofia; la sua dissertazione di laurea (1955) intitolata ‘Satira e Realtà’ fu seguita da Lukács. Più o meno nello stesso periodo Lukács designò Mészáros suo successore all’Istituto di Estetica, Però verso la fine del 1956, dopo i moti di ottobre repressi con l’invasione sovietica e l’imprigionamento di Lukács egli si convinse che non ci fosse più nessuna speranza di trasformazione socialista del suo paese e con la famiglia abbandonò l’Ungheria. Mészáros e Lukács, pur lontani, rimasero in stretto contatto fino alla morte del filosofo nel 1971.
Lasciata l’Ungheria Mészáros andò in Italia dove ottenne, grazie anche all’interessamento di Norberto Bobbio, un incarico di insegnamento presso l’Università di Torino. Quando Lukács era praticamente prigioniero in casa a Budapest, sorvegliato speciale dal Partito Comunista per sospetto deviazionismo, Mészáros andò a trovare Sartre a Parigi e gli propose un proficuo confronto filosofico con Lukács. Sartre considerò interessante la proposta e disse che avrebbe scritto a Lukács in merito. Poichè questa idea non ebbe seguito la eventuale lettera potrebbe essere stata intercettata dalla occhiuta censura del partito comunista ungherese.
La carriera di insegnamento di Mészáros proseguì in Inghilterra: presso il Bedford College di Londra dal 1959 al 1961; all’Università di St. Andrews dal 1961 al 1966; all’Università del Sussex dal 1966 al 1995, dove tenne la cattedra di filosofia. Nel 1971 ricevette ‘The Isaac Deutscher Memorial Prize’ per il suo libro ‘Marx’s Theory of Alienation’. L’anno seguente ottenne un permesso accademico dall’Università del Sussex per poter accettare l’incarico di ‘senior professor’ di filosofia alla York University di Toronto. Questo divenne un caso celebre dopo che le autorità canadesi gli rifiutarono il visto di entrata con la motivazione che egli costituiva un ‘rischio per la sicurezza’. Dopo una generale presa di posizione in sua difesa da parte di eminenti personalità del mondo politico e universitario del Canada e del Regno Unito, e le dimissioni del Ministro canadese per l’Immigrazione, il Visto gli fu concesso e ottenne l’incarico. Dopo tre anni di insegnamento alla York University di Toronto tornò all’Università del Sussex, dove nel 1991 fu nominato ‘Professore Emerito’. Verso la fine degli anni settanta egli raccolse e pubblicò presso la Merlin Press di Londra tredici saggi dello storico filippino Renato Constantino, preceduti da una sua partecipe introduzione successivamente ripubblicata nel ‘Journal of Contemporary Asia’ Nel 1995 egli divenne membro dell’Accademia Ungherese delle Scienze e nello stesso anno pubblicò ‘Beyond Capital’. Fu a seguito di quest’opera che l’allora Presidente del Venezuela Ugo Chaves dichiarò che Mészáros “illumina il sentiero da percorrere. Egli punta all’argomento che dobbiamo rendere centrale … al fine di condurre l’offensiva – a livello mondiale – nel movimento verso il socialismo”.
Nel 2008 a Caracas la Giuria del ‘Premio Libertador al Pensamiento Critico’ su 102 opere esaminate conferì a maggioranza di voti a István Mészáros il prestigioso premio per il libro ‘El Desafìo y la Carga del Tiempo Histórico: El Socialismo del siglo XXI’
Dopo la pubblicazione in due volumi di ‘Social Structure and Forms of Consciousness’ (2010-2011) il filosofo si accinse a scrivere un seguito a ‘Beyond Capital’ intitolato ‘Beyond Leviathan: Critique of the State’. Di quest’ultima opera egli aveva abbozzato tre volumi: The Historic Challenge, The Harsh Reality e The Necessary Alternative. Al momento della morte (1.10-2017) Mészáros aveva quasi completato il primo volume.
Dagli anni 90 fino alla sua morte fu un consulente importante della Casa Editrice Monthly Rewiew diretta da Harry Magdoff e John Bellamy Foster.
Infine Mészáros nel corso della vita si prodigò in conferenze ed incontri in Europa e in America (soprattutto nell’America latina) per comunicare il suo pensiero filosofico e militante, radicato nel pensiero marxiano, per lui strumento necessario di ogni ricerca storica, a maggior ragione quando l’analisi vuole conoscere i legami strutturali della società capitalistica dei nostri giorni.
Il Pensiero
Essenziale al pensiero filosofico di Mészáros è la ricerca del rapporto dialettico fra Struttura e Storia, essenziale per una adeguata comprensione della natura e per definirne le caratteristiche, di ogni formazione sociale nella quale si cercano soluzioni sostenibili ai problemi incontrati. Ciò è particolarmente importante nel caso della formazione sociale del capitale, con la sua tendenza inesorabile verso una onnicomprensiva, strutturale determinazione di tutti gli aspetti della riproduzione sociale e – per la prima volta nella storia – al dominio globale implicito in questa forma di sviluppo. Non è quindi per nulla casuale, secondo Mészáros, che nell’interesse del richiesto mutamento strutturale Marx abbia focalizzato la sua attenzione critica sul concetto di struttura sociale durante le crisi e le esplosioni rivoluzionarie della decade 1840-50, quando articolò la propria – radicalmente nuova – concezione della storia.
A proposito del modo di produzione capitalistico, Mészáros insiste, con Marx, che essendo un modo di produzione storico, come i modi di produzione che lo hanno preceduto è destinato a essere superato. Il problema sono le contraddizioni che si sviluppano all’interno del sistema dalle quali il capitale ha sempre cercato, talvolta con temporanei successi, delle vie d’uscita che gli permettessero di proseguire, come un treno in corsa sprovvisto di freni, il suo processo continuo di autoaccumulazione attraverso il profitto. Le soluzioni escogitate il più delle volte irrispettose dell’ambiente e della dignità dell’uomo, non hanno potuto impedire l’avvicinarsi del collasso definitivo dell’ ecosistema umano. Questo esito non asintotico, ma incombente, deve spingere il mondo dei lavoratori a prendere in mano, prima che sia tardi, il destino dell’umanità dando vita a un nuovo modo storico di produzione sociale, gestito in comune dai produttori associati.
Forse il tentativo più effettivo di posporre lo storico ‘momento della verità’ e così prolungare il dominio del capitale sulla vita umana a dispetto della sua crescente distruttività e dell’acuirsi della crisi strutturale, si è realizzato con l’ibridazione del capitalismo. Questa ibridazione assume nei paesi capitalisticamente avanzati la forma di una massiccia iniezione di fondi pubblici per la rivitalizzazione delle imprese capitalistiche del preteso ‘libero mercato’ con il coinvolgimento diretto dello Stato. Questo tipo di operazione è messo in campo per assicurare la continua sostenibilità dell’ordine riproduttivo stabilito. Le determinazioni causali sottese a questo problema potrebbero essere descritte come il margine che storicamente si restringe delle alternative del capitale oggettivamente percorribili per dislocare e gestire le sue contraddizioni antagonistiche. Le distruttività su tre fronti del sistema capitale oggi dolorosamente ovvie si concretano:
1) – in campo militare, con guerre interminabili del capitale a partire dall’instaurazione dell’imperialismo monopolistico nelle ultime decadi del diciannovesimo secolo, e con le sue sempre più devastanti armi di distruzione di massa negli ultimi settantanni;
2) – con l’intensificazione dell’impatto distruttivo del capitale sull’ecosistema, che oggi colpisce e danneggia direttamente lo stesso fondamento dell’esistenza umana;
3) – nel campo della produzione materiale e dello spreco in continuo aumento, dovuto al progredire della produzione distruttiva al posto della un tempo elogiata ‘creativa’ ovverossia distruzione creativa
e sono la conseguenza necessaria di questo margine che si restringe.
Per rendere espliciti gli aspetti fondanti del pensiero di Mészáros citiamo alcune pagine dal capitolo 8 del suo libro basilare ‘Social Structure and Form of Consciousness’ vol.1
“… nelle presenti condizioni di aggravamento della crisi strutturale del sistema del capitale l‘elaborazione di una via di mediazione del metabolismo sociale qualitativamente differente, non antagonistica, è la condizione vitale del successo futuro. Corrispondentemente l’interesse necessario alle questioni di metodo appropriate per dominare i severi problemi e le difficoltà della nostra epoca storica di transizione è strettamente collegato a questo tema. L’importanza di una necessità di mediazione qualitativamente nuova è inestimabile, poiché, se risultasse impossibile elaborare in un prevedibile futuro un modo di mediazione non antagonistico del rapporto tra l’umanità e la natura e tra gli stessi individui, si renderebbe del tutto problematica la possibilità di istituire un ordine riproduttivo genuinamente socialista.
Il punto di partenza necessario a questo riguardo per riorientare il metodo ereditato dal passato consiste nel sottoporre a una critica radicale la modalità stabilita della mediazione riproduttiva sociale sotto il comando del capitale. La questione può essere riassunta facendo riferimento alla differenaza fondamentale tra il primo e il secondo ordine di mediazioni. Queste ultime, come sappiamo, sono irrimediabilmente mediazioni antagonistiche, costituenti un sistema di controllo metabolico sociale che dev’essere integralmente abbandonato come sistema organico perverso, e rimpiazzato dalla sua alternativa egemonica, costituita e consolidata, nuovamente come sistema organico storicamente praticabile e pienamente cooperativo. La teoria dell’alienazione di Marx, come cornice esplicativa del secondo ordine di mediazioni antagonistiche del capitale, è intimamente collegata a questi problemi. Sia le sue prime diagnosi che le soluzioni furono articolate nel suo sistema in statu nascendi, da lui scritto a Parigi e pubblicato postumo con il titolo ‘Manoscritti Economico-filosofici del 1844‘.
Il contrasto tra l’ordine primario e il secondo ordine di mediazioni è impressionante. Le mediazioni essenziali strutturalmente richieste per ogni forma praticabile di riproduzione sociale sono:
· la regolazione necessaria, più o meno spontanea dell’attività riproduttiva biologica e della dimensione della popolazione sostenibile in rapporto alle risorse disponibili;
· la regolazione del processo lavorativo mediante il quale l’interscambio necessario della comunità data con la natura può produrre i beni necessari alla gratificazione umana, insieme agli strumenti di lavoro appropriati, alle imprese produttive, e alla conoscenza dei mezzi con cui lo stesso processo produttivo può essere mantenuto e migliorato;
· l’impostazione di convenienti rapporti di scambio con i quali i bisogni storicamente mutevoli degli esseri umani possono essere tra loro collegati allo scopo di ottimizzare le risorse naturali e produttive – incluse quelle culturalmente produttive – disponibili;
· l’organizzazione, la coordinazione e il controllo delle molteplici attività mediante le quali le domande materiali e culturali per il successo di un processo di riproduzione metabolico sociale di comunità umane sempre più complesse possano essere assicurate e salvaguardate;
· l’allocazione razionale delle risorse materiali e umane contrastando la tirannia della scarsità mediante l’economico (nel senso di economizzare) utilizzo dei modi e dei mezzi di riproduzione della società data, per quanto possibile sulla base del livello di produttività raggiunto e nei limiti stabiliti dalle strutture socioeconomiche; e
· la messa in atto di regole e di regolazioni della società data intesa come un tutto, in connessione con le altre funzioni e determinazioni mediatorie primarie.
Come possiamo vedere, nessuno di questi imperativi mediatori primari di per sé richiede l’impostazione di gerarchie strutturali di dominio e subordinazione come cornice necessaria del processo di riproduzione metabolico sociale. In acuto contrasto, il secondo ordine di mediazioni del sistema del capitale presenta caratteristiche totalmente diverse, che possono essere riassunte come segue:
· la famiglia nucleare, articolata come ‘microcosmo’ della società che, in aggiunta al suo ruolo di riproduzione della specie, condivide tutti i rapporti riproduttivi del ‘macrocosmo’ sociale, compresa la mediazione delle leggi dello Stato verso tutti gli individui, direttamente necessarie anche alla riproduzione dello stesso Stato;
· i mezzi alienati di produzione e le loro ‘personificazioni’ attraverso cui il capitale acquisisce ‘volontà di ferro’ e forte coscienza, strettamente comandate ad imporre a ciascuno di conformarsi alle oggettive richieste disumanizzanti dell’ordine metabolico sociale dato;
· il denaro che assume una molteciplità di forme mistificanti e sempre più dominanti nel corso dello sviluppo storico fino alla stretta soffocante dell’attuale sistema monetario internazionale;
· la produzione di obiettivi feticistici, che sottomettono in una forma o in un’altra la soddisfazione dei bisogni umani (e la corrispondente provvista di valori d’uso) ai ciechi imperativi dell’accumulazione ed espansione del capitale;
· il lavoro strutturalmente escluso dalle possibilità di autocontrollo, sia nelle società capitaliste dove deve funzionare come forza-lavoro coatta e sfruttata dalla costrizione economica, sia sotto il dominio postcapitalista del capitale dove la forza-lavoro viene dominata politicamente;
· le varietà di formazione di Stati capitalistici nelle loro complessive configurazioni con cui si confrontano l’un l’altro (talvolta anche con i mezzi più violenti, trascinando il genere umano sull’orlo della distruzione); e
· il mercato mondiale incontrollato nella cui cornice i partecipanti, protetti dai rispettivi Stati nazionali fino al grado permesso dai rapporti di potere prevalenti, devono adattarsi alle precarie condizioni di coesistenza economica, mentre tentano di procurarsi il più alto vantaggio sconfiggendo le controparti concorrenti e ponendo così i semi di conflitti sempre più distruttivi.
Rispetto alla maniera in cui tutti questi elementi costitutivi del modo di controllo metabolico sociale dato sono tra loro collegati si può solo parlare di un circolo vizioso. Poichè le singole mediazioni di secondo ordine si sostengono reciprocamente, rendendo impossibile contrastare la forza alienante e paralizzante di ognuna di esse se presa isolatamente, mentre resta intatto l’immenso potere autogenerativo e autoimponentesi dell’insieme del sistema. Sulla base di una penosa evidenza storica la sconcertante verità della faccenda è che il sistema capitale riesce ad imporsi – atttraverso le interconnessioni strutturali delle sue parti costituenti – sugli sforzi emancipatori miranti a traguardi specifici limitati. Di conseguenza ciò che dev’essere affrontato e superato dagli avversari del presente ordine di riproduzione metabolico sociale, incorreggibilmente discriminatorio, non è solo la forza positivamente autoalimentantesi del capitale attraverso l’estrazione del plusvalore, ma anche il devastante potere negativo – la sensibilmente ostacolante inerzia – dei suoi collegamenti circolari …”
Indichiamo ancora brevemente alcuni altri snodi importanti del pensiero del filosofo Mészáros:
· l’analisi approfondita degli errori irrimediabili del socialismo sovietico, che hanno impedito uno sviluppo possibile verso una vera società socialista conducendo questa esperienza al collasso e a un definitivo sbocco nell’alveo del capitale;
· l’analisi altrettanto puntuale degli storici errori dei partiti socialisti occidentali che accettando l’ideologia dei ‘piccoli passi’ non sono riusciti a scalfire la struttura dello sfruttamento classista del capitale. Le briciole che essi hanno potuto strappare a favore dei lavoratori nelle fasi di notevole espansione economica sono state generalmente riprese dal capitale, spesso con gli inteessi, quando l’economia è andata in crisi. A maggior ragione questo accade oggi che la crisi del capitale è divenuta strutturale;
· le condiderazioni filosofiche circa l’influenza distorcente esercitata sulla razionalità del giudizio anche dei più grandi pensatori, come Rousseau, Kant, Adam Smith e Hegel, dalla loro accettazione in linea di principio del modo di produzione sociale in cui hanno vissuto, che resta la cornice indiscussa dentro la quale conducono le loro ricerche e sviluppano le loro teorie. Non parliamo qui dei laudatori vergognosi della società capitalistica che, spesso da essa premiati, ne assumono le difese senza se e senza ma e che spuntano numerosi a sostegno ideologico proprio nella fase di sviluppo discendente del capitalismo ; particolarmente severo tra gli altri il giudizio di Mészáros sul sociologo e filosofo Max Weber e sull’economista Friedrich Von Hayek.
· Le approfondite ragioni per cui con l’avvento di un modo di produzione socialista diventa imprescindibile l’estinzione dello Stato, la cui esistenza è consustanziale al capitalismo;
· l’attenzione continua al potere dell’ideologia, la cui influenza determinante sulle azioni umane egli mette in evidenza nella maggior parte dei suoi scritti;
· La critica instancabile dei politici e dei filosofi che usano costantemente la frase ‘non c’è alternativa’ .
Le principali Opere pubblicate
La rivolta degli intellettuali in Ungheria – Ed. Giulio Einaudi – Torino 1958
Attila Jószef e l’arte moderna – Ed. Lerici – Milano 1964
Marx’s Theory of Alienation – Ed. Merlin Press – London 1970 – vinse the Isaac Deutscher Avard (La Teoria dell’Alienazione in Marx – Editori Riuniti – Roma 1976)
Aspects of History and Class Consciousness – Ed. Merlin Press – London 1971
The Necessity of Social Control (Isaac Deutscher Memorial Lecture) – Ed. Merlin Press – London 1971
Lukács Concept of Dialectic – Ed. Merlin Press – London 1972
Neo-Colonial Identity and Counter-Consciousness: Essays in Cultural Decolonisation (by Renato Constantino) – Ed. Merlin Press – London 1978
The Work of Sartre: Search for Freedom – Ed. Harvester Press – Brighton 1979 (Re-edited and expanded ‘… Search for Freedom and the Challenge of History’ in 2012 by Monthly Review Press – New York)
Philosophy, Ideology and Social Science: Essays in Negation and Affirmation – Ed. Harvester Wheatsheaf – Brighton 1986
The Power of Ideology – Ed. Harvester Wheatsheaf – Brighton 1989 (Re-edited in 2005 by Zed Books – London)
Beyond Capital: Toward a Theory of Transition – Ed. Monthly Review Press – New York 1995 (Oltre il Capitale: Verso una Teoria della Transizione – Ed. Punto Rosso 2016)
Socialism or Barbarism: From the American Century to the Crossroads – Ed. Monthly Review Press – New York 2001
The Challenge and Burden of Historical Time: Socialism in the Twenty-First Century – Ed. Monthly Review Press – New York 2008
The Structural Crisis of Capital – Ed. Monthly Review Press – New York 2010
Historical Actuality of the Socialist Offensive: Alternative to Parliamentarism – Ed. Bookmarks Publications – London 2010
Social Structure and Forms of Consciousness – vol.1: The Social Determination of Method – Ed. Monthly Review Press – New York 2010
Social Structure and Forms of Consciousness – vol.2: The Dialectic of Structure and History – Ed. Monthly Review Press – New York 2011
The Necessity of Social Control – Ed. Monthly Review Press – New York 2014
A Montanha que Devemos Conquistar: Reflexões acerca do Estado – Ed. Boitempo – São Paulo 2015
ERNST JÜNGER
L’ esperienza della guerra, durante la quale compì imprese eccezionali, fu di fondamentale importanza per la formazione di Ernst Jünger. Nato nel 1895, in gioventù si era arruolato nella legione straniera, indotto dal desiderio di azione e da uno spirito di rivolta anti-borghese. Egli indicò nella guerra, proprio a causa della sua vicinanza con la morte, il movimento di massima intensità della vita. La guerra è un rito sacro nel quale si produce voluttà ed ebrezza, è la manifestazione dello spirito di una comunità, legata da un unico destino e tenuta a battesimo dal sangue, e rappresenta la fine dell’ epoca borghese, che mira soltanto alla sicurezza e al benessere e pretende di eliminare la pericolosità. Ma la guerra segna la fine di quest’ epoca anche in un altro senso, che Jünger precisa in opere quali La mobilitazione totale (1930) e Il lavoratore (1932). Il servizio militare obbligatorio dà origine ad un nuovo tipo di guerra, che mobilita tutto il popolo e la nazione: il che annuncia, secondo Jünger, una nuova epoca, in cui il lavoro pervade ogni aspetto della vita e della realtà. E’ l’ epoca del lavoratore, caratterizzata dal dominio totale della tecnica. Se usata soltanto come strumento per il conseguimento del benessere economico e della sicurezza borghese, la tecnica porta alla massificazione e all’ involgarimento; ma la tecnica può anche aprire nuove possibilità : la guerra stessa, infatti, ha dimostrato la superiorità di gruppi scelti ben armati e addestrati rispetto alle masse. In questo quadro nasce un tipo di uomo completamente nuovo, superiore agli individui anonimi che compongono la massa e destinato a conquistare il potere politico. La tecnica diventa così sinonimo di volontà di potenza e, allo stesso tempo, la base per distruggere il vecchio assetto borghese e cristiano e costruire nuove gerarchie di potere: al vertice di queste vi sarà la figura del guerriero . Attraverso la tecnica si pongono le basi per la costituzione di un dominio mondiale, fondato su un nuovo ordine e una nuova umanità. Secondo Jünger, l’ epoca presente è uno stato di transizione verso questa nuova epoca, che sarà caratterizzata da uno stile monumentale, reso possibile da una straordinaria possibilità di mezzi. Con questi temi era consonante la propaganda nazista, sia nella versione arcaizzante, che insisteva sui legami di sangue e di suolo come fondamento del popolo e della nazione, sia nella versione modernizzante, che scorgeva nella tecnica il mezzo essenziale per assicurare la vittoria e il dominio e, a tale scopo, procedeva all’ organizzazione di corpi paramilitari. Quando però, nel 1933, il Partito nazionalsocialista giunse al potere, Jünger si tenne in disparte, e solo nel dopoguerra riprenderà le tematiche precedenti, soprattutto in Oltre la linea (1950), dedicato a Heidegger. L’ età moderna appare a Jünger contrassegnata da una moltiplicazione di idoli e di fedi e rappresenta, dunque, un momento del processo di avvicinamento al nichilismo completo. In questa situazione è possibile cogliere con maggiore lucidità i sintomi di tale processo, che rischia di annullare gli individui e di condurre ad una catastrofe universale: le decisioni, infatti, vengono prese da grandi centri di potere, lo Stato divora ogni cosa, gli individui diventano sempre meno padroni della propria interiorità e tutto tende ad essere esteriorizzato ed egualizzato. Il nichilismo, però, secondo Jünger, non può impadronirsi dei due aspetti essenziali della vita, l’ amore e la morte, né dell’ ambito in cui si condensa l’ interiorità spirituale, ossia l’ arte. Jünger ravvisa l’ unica via di salvezza nella poesia , da lui accostata, in sintonia con Heidegger, al pensiero: ” Nel linguaggio il sole sorge ancora “, egli asserisce, e, attraverso esso, ci si avvia verso un nuovo inizio, i cui tratti sono ancora incerti. Se Jünger fu un assiduo sostenitore del nazionalismo per tutto il corso della sua vita, è però anche vero che egli, da giovane, sostenne il pacifismo , come si è evinto da alcuni scritti a lungo rimasti sconosciuti. In essi, il filosofo nazionalista scrive: ” ogni forma di vita è durissima lotta per la luce e per il nutrimento, ogni albero e ogni pianta che cresce schiaccia altre vite. Anche noi esseri umani ci facciamo avanti nella vita solo al costo di sofferenze e privazioni altrui… “; anche il Contratto sociale, aggiunge Jünger nella sua prosa suggestiva e affascinante, non cancella il carattere di lotta dell’esistenza . Per questo, sottolinea, sorge ai giorni nostri l’Idea del Pacifismo, come dichiarazione di guerra alla guerra . Ogni essere umano degno e dignitoso, sostiene Jünger, è amante della pace. Anche i soldati e i reduci dal fronte (come fu appunto lui da giovane, mentre scriveva queste pagine). Per meglio spiegare ai lettori del tempo la necessità del pacifismo, Jünger immagina un dialogo tra due amici, un pacifista a oltranza e un nazionalista moderato. Dialogo che sembra scritto oggi; ‘non capisce, amico, che in guerra figli di madri identiche vanno ad uccidersi, e che questo è inscusabilmente barbaro? Non capisce che è barbaro uccidere, ferire e mutilare esseri umani, Lei che è anche un essere umano?’ dice il Pacifista. ‘Sì, ma lei riterrebbe giusto impedire anche con la violenza ai fautori della guerra di realizzare i loro sogni criminali’ , replica il nazionalista. Il pacifista risponde invocando la necessità degli Stati Uniti d’Europa e sottolineando l’insensato spreco di risorse cui ogni conflitto porta, il nazionalista conclude confessando dubbi pesantissimi sul superamento di ogni legame tradizionale, della Patria e della Famiglia. Fin dall’illuminismo, egli dice, troppe tradizioni sono state messe in discussione, io sono contro questa prassi perché mi pare di violare la realtà. Ma poi il nazionalista conviene con l’amico-contradditore pacifista che la realtà può essere cambiata dallo Spirito, il quale si sforzerà con ogni mezzo di tradurre in realtà i suoi nobili ideali. E quindi il nazionalista ammette: ‘Caro amico, la sua idea di dichiarare guerra alla guerra è degna di considerazione’.
GILBERT RYLE
Uno dei maggiori e più influenti esponenti della filosofia analitica è stato Gilbert Ryle (1900-1976). Formatosi ad Oxford in un ambiente ancora dominato dalla vecchia tradizione idealistica, se ne distaccò sia entrando in contatto con Russell, sia studiando il pensiero logico-psicologico tra Otto e Novecento (Bolzano, Brentano, Husserl, Meinong). Non fu tra i seguaci più diretti di Wittgenstein; non ne seguì, in particolare, certi princìpi ispiratori successivi alla sua ‘svolta’. In effetti la sua interpretazione e pratica della filosofia analitica puntò non tanto alla riabilitazione dei linguaggi ordinari quanto alla critica delle contraddizioni e delle inconsistenze logiche accertabili nel parlare umano (soprattutto in quello teoreticamente organizzato dei filosofi). Già in uno dei suoi primi saggi di rilievo – Espressioni sistematicamente fuorvianti (1931-32) – Ryle sottolineava la necessità di un’indagine sistematica sulle sorgenti concettuali dei paradossi, antinomie, fallacie, ecc. che compromettono la validità del pensiero e del linguaggio dell’uomo, e ciò allo scopo di indicare i modi di un altro pensiero/linguaggio più fondato e rigoroso: ” sono incline a credere che questo è il contenuto dell’analisi filosofica, e che questa è l’unica e intera funzione della filosofia “. Alla fine degli anni ’30 il celebre articolo Sulle categorie (1938) evidenziava ancor meglio il tipo di indagine privilegiato da Ryle e la sua differenza rispetto a quelli solitamente praticati dal movimento analitico . Per Ryle il compito critico-terapeutico della filosofia non si può arrestare al livello del puro e semplice linguaggio. Al di là di esso vi sono forme e modi intellettuali che sono i veri responsabili delle incongruenze espressive: gli errori linguistici rimandano insomma ad “errori categoriali” (un concetto centrale del pensiero ryliano più maturo). Di conseguenza il pensiero analitico sbaglia se e quando si arresta a una mera “descrizione” dei linguaggi quotidiani: il conseguimento di ben precisi obiettivi richiede non tanto “parafrasi” quanto “argomentazioni”, ossia un lavoro critico-razionale capace di risalire alle vere radici (categoriale) delle nostre fallacie Linguistiche – il che, sottolinea polemicamente Ryle, ” è di solito trascurato dalle più recenti definizioni: della filosofia come ‘analisi'”. Non si deve credere però che il lavoro privilegiato da Ryle sia di natura esclusivamente destruens : al contrario, egli ha in mente anche un ben determinato obiettivo e ideale construens . Nell’importante discorso su Argomenti filosofici (1945) egli lo preciserà con grande chiarezza. Il fine degli ” argomenti ” della filosofia non è solo di denunciare gli ” errori categoriali”: è anche di mostrare come si possano evitare attraverso l’individuazione delle ” regole che governano la corretta manipolazione dei concetti “. Ma i concetti e le idee non si danno mai in modo autonomo e irrelato: operano sempre in connessioni e interazioni che è necessario padroneggiare. Occorre allora realizzare una sorta di indagine d’assieme del nostro universo concettuale: un’indagine alla quale Ryle ha dato il nome di ” chiarificazione cartografica ” o di “geografia logica” delle idee: ” il problema non consiste nel fissare separatamente la localizzazione di questa o quella idea singola, ma nel determinare le implicazioni reciproche di tutta una galassia di idee appartenenti allo stesso campo o a campi contigui. Come la ricerca geografica, la ricerca filosofica è necessariamente sinottica. I problemi filosofici non possono essere posti o risolti isolatamente “. Il libro più noto di Ryle è Il concetto di mente (1945; tradotto in italiano col titolo Lo spirito come comportamento ), uno dei capolavori del pensiero analitico inglese e, insieme, una delle opere più influenti della filosofia contemporanea. In essa Ryle affronta lo studio dell’universo mentale, considerato uno dei modi più enigmatici dell’intera tradizione intellettuale d’occidente. Il proposito ryliano non è tanto (come spesso si dice) di negare l’esistenza di tale universo, ma di darne una caratterizzazione appropriata, esente da pericolose fallacie teoriche. Si tratta, cioè, di ridisegnare la corretta “cartografia” dei concetti che usualmente adoperiamo quando ci riferiamo a una determinata classe di esperienze. Ma a questo fine è preliminarmente necessario sbarazzarsi degli “errori categoriali” che hanno compromesso un’adeguata comprensione del (cosiddetto) ‘mentale’. Il principale di tali errori è di aver conferito a questo ‘mentale’ una consistenza ontologica. In effetti la tesi centrale del libro è appunto che qual-cosa come ‘la Mente’ non si dà: non ha un’esistenza dello stesso tipo di quella del corpo e degli altri enti fisici. Dietro tale assunto si coglie l’eco dell’anti-mentalismo wittgensteiniano e, in parte del comportamentismo psicologico che peraltro tendeva a dissolvere il mentale secondo prospettive diverse da quelle di Ryle (il quale infatti amerà definirsi semmai ” comportamentista logico ” e mostrerà scarsa simpatia per il comportamentismo ortodosso). Per Ryle la ‘mente’ quale è presente nel pensiero e nel linguaggio d’occidente è un “dogma” infondato: è anzi un vero e proprio “mito filosofico” che viene suggestivamente battezzato ” lo spettro nella macchina “. Tale denominazione rinvia a quello ch’è per Ryle il maggiore responsabile, nell’età moderna, dell’errore mentalistico: Cartesio. E’ stato Cartesio a interpretare l’uomo come, appunto, una “macchina” abitata da un principio chiamato “spirito” o “anima”. E’ stato lui a conferire a tale principio una sostanzialità ontologica – diversa ma, a ben guardare, simmetrica e speculare rispetto alla res corporea. Da quel momento in poi tutto un filone del pensiero d’occidente è stato “dualista”: non solo ha separato arbitrariamente certe funzioni umane da altre, ma accostato la dimensione ‘mentale’ dell’esperienza come se fosse una res omologa alla res extensa (materia). Proprio questo, ripetiamolo, è stato l’errore categoriale di fondo del sapere moderno: un errore consistente nel ” presentare i fatti della vita mentale come appartenenti a un tipo o categoria (o classe di tipi o categorie) logico (o semantico) diverso da quello cui essi invece appartengono “. Se il rifiuto ryliano di ogni concezione ‘dualistica’ del rapporto mente-corpo è assoluto, non si deve credere che Il concetto di mente inclini a riproporre un’interpretazione ‘monistica’ (più esattamente monastico-materialistica) di tale rapporto. A questo proposito la tesi di Ryle è che il materialismo compie in fondo un errore uguale a quello commesso dai dualisti: l’errore di interpretare il mentale come una res . Invece il mentale, ben lungi dall’ essere una cosa (non importa se ‘spirituali’ o ‘materiali’), è essenzialmente l’insieme dei modi teorico-linguistici nei quali l’uomo organizza ed enuncia determinati atti o eventi della propria vita. Correlativamente, si tratta di analizzare tali modi nella loro sede linguistico-concettuale appropriata: chiedendo loro a quali funzioni rispondono, a quali logiche specifiche obbediscono. Nell’esaminare tutta una serie di questioni classiche di filosofia della mente – dalle nozioni di ‘io’ e di coscienza al problema della conoscenza di sé, del rapporto tra volontario e involontario a quello tra sensazioni e tendenze, dalla relazione tra determinismo e libero arbitrio a quella tra disposizioni e azioni – Ryle evidenzia l’irriducibile complessità dell’esperienza cosiddetta mentale, mostra che tale esperienza avviene in un luogo costituito non tanto dallo ‘spirito’ o dal ‘corpo’ quanto dal contesto delle concrete interazioni sociali tra gli uomini; suggerisce che la ‘mente’ si realizza in una serie di “atti” e di “comportamenti” la cui comprensione implica quella delle regole che li ispirano.
MAX WEBER
Solamente chi è sicuro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, solamente chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: “non importa, andiamo avanti”, solamente quest’uomo ha la “vocazione” per la politica. (La politica come professione)
A cura di Homolaicus.com
VITA E OPERE
Weber nasce a Erfurt in Turingia nel 1864. Suo padre, di idee liberal-nazionali di destra, era un amministratore municipale e deputato della Dieta prussiana. Sua madre era una donna di grande cultura, interessata ai problemi religiosi e sociali. Sino alla sua morte, nel ’19, restò in stretto rapporto intellettuale col figlio, nel quale ravvivò sempre l’attenzione per i problemi religiosi. La loro casa era frequentata da noti uomini della cultura tedesca, come ad es. Dilthey e Mommsen. Terminati gli studi liceali, W. studiò giurisprudenza, economia, storia, filosofia e teologia nelle Università di Heidelberg, Strasburgo, Berlino e Gottinga. A Strasburgo, durante il servizio militare, divenne ufficiale dell’esercito imperiale. In quegli anni era su posizioni liberal-nazionali e aveva aderito alla Lega Pangermanica, da cui più tardi si sarebbe staccato per l’indifferenza ch’essa mostrava verso il problema dell’immigrazione dei contadini polacchi. Ammiratore della politica bismarckiana, che aveva fatto della Germania unificata una grande potenza, ne criticava tuttavia l’opera di distruzione del liberalismo tedesco, che aveva lasciato in Germania un vuoto politico privando così la nazione di un efficiente classe dirigente. Nel 1887-’88 partecipa a diverse manovre militari in Alsazia, contro i francesi, e nella Prussia orientale, contro i polacchi. Negli anni 1886-89 seguì un’attività seminariale in diritto commerciale e storia agraria conseguendo infine la laurea con una tesi di storia economica sulla Storia delle società commerciali nel Medioevo. Subito dopo, per influsso del Mommsen, si dedicò alla storia agraria romana. Poi aderì al “Verein für Sozialpolitik”, una sorta di “Fondazione dei socialisti della cattedra”. Il socialismo di Stato o “della cattedra” sorse dalla “Scuola storica”. Esso voleva fondare una nuova teoria sociologica in cui si trovassero uniti la teoria dello sviluppo sociale, la teoria della conoscenza scientifica e la pratica politica: una sociologia che fosse una scienza dell’ethos, secondo l’insegnamento del Romanticismo e di Fichte, per cui il Volksgeist, ossia la volontà di una nazione, rappresenta la legge fondamentale del suo sviluppo sociale. Lassalle, Rodbertus, A. Wagner e altri cercarono, in pratica, di conciliare i conflitti di classe attraverso la mediazione dello Stato bismarckiano e l’abolizione del sistema della libera concorrenza. Si trattava di un socialismo senza rivoluzione, per uno Stato senza società civile autonoma. L’esperimento fallì con la sconfitta della Germania nella I guerra mondiale. Per incarico della “Fondazione” W. si occupò dei problemi socio-politici della Germania orientale, pubblicando un’inchiesta, Le relazioni dei lavoratori della terra nella Germania orientale (1892) in cui mise in luce i danni per l’economia tedesca creati dall’immigrazione dei braccianti polacchi; egli in sostanza criticava la politica dei grandi proprietari terrieri a est dell’Elba, i quali, servendosi della manodopera immigrata (polacca e russa) a basso costo, avevano costretto i lavoratori tedeschi a emigrare verso le città industriali dell’ovest. A W. però preoccupava soprattutto il fatto che in tal modo gli junkers “sgermanizzavano” l’est tedesco. Nel 1891 conseguì l’abilitazione in diritto commerciale germanico e romano, La storia agraria romana nel suo significato per il diritto pubblico e privato, iniziando così la carriera universitaria. Il suo particolare interesse per la storia antica dipendeva dal fatto che le facoltà di diritto di quel tempo, in Germania come in Francia, riservavano ampia attenzione allo studio del diritto romano. Tuttavia il nucleo principale delle sue indagini scientifiche venne ben presto precisandosi attorno al problema del processo evolutivo del capitalismo moderno, anche se l’interesse per le società antiche non verrà mai meno in W.. Nel 1894 gli venne conferita la cattedra di economia politica dall’Università di Friburgo, dove l’anno dopo tenne la prolusione, Lo Stato nazionale e la politica economica, con cui manifestò apertamente la sua fiducia nella Realpolitik imperialistica, opponendosi agli interessi particolaristici delle classi economiche e all’immatura classe politica uscita dalla politica bismarckiana. Egli cioè dichiarò esplicitamente di appartenere alla “classe borghese” e voleva che lo Stato tedesco avesse un volto di capitalismo moderno e razionale, e che l’industrialismo trionfasse sui pesanti residui feudali. Siccome credeva che per ottenere questo occorreva, come già in Francia e in Inghilterra, una democratizzazione della politica interna, ovvero un abbandono del regime personale degli Hohenzollern e della burocrazia che ne era il sostegno, pensò che sostenere l’espansione coloniale tedesca e la lotta per i mercati mondiali fosse il mezzo migliore. Nel ’94 pubblicò Le tendenze nell’evoluzione della situazione dei lavoratori rurali della Germania orientale. Nel ’96 ottiene la cattedra di economia politica all’Università di Heidelberg e pubblica Le cause sociali della decadenza della civiltà antica, ma, colpito da una grave malattia nervosa, è costretto a dare le dimissioni nel 1903, rinunciando all’insegnamento. Per quattro anni non riesce a compiere nessun lavoro: viaggia in Italia, Corsica e Svizzera per sedare il suo stato di ansietà. Nel 1899 cessa volontariamente di appartenere alla Lega pangermanica. Nel 1902 riprende il suo insegnamento ad Heidelberg ma non riesce più a svolgere un’attività intensa come nel passato. A partire dal 1903 iniziano le sue riflessioni metodologiche in stretto contatto con le idee dei suoi colleghi, H. Rickert e W. Windelband. Prende posizione nella polemica tra gli economisti della Scuola storica di Berlino e la Scuola teoretica di Vienna in Roscher e Knies e il problema logico dell’economia politica-storica (1903-6), ed entra nella direzione, insieme a W. Sombart, della prestigiosa rivista “Archivio di scienza sociale e politica sociale”, ove pubblica L'”oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904). In questi anni appaiono anche L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5) e Le sètte protestanti e lo spirito del capitalismo (1906), ove W. chiarisce la netta differenza della sua sociologia dal marxismo. Nel 1904 si reca negli USA per assistere a un Congresso di scienze sociali, dove riceve una vivida impressione del capitalismo americano. La democrazia americana gli appare soprattutto alla stregua di una misura tecnica per selezionare e favorire l’ascesa di una classe politica efficiente e preparata. Tiene una conferenza sul capitalismo e la società rurale in Germania. La sua partecipazione alla vita politica si va facendo sempre più intensa: si interessa direttamente della rivoluzione russa del 1905 e continua a criticare in alcune lettere private scritte al deputato F. Naumann, la politica del kaiser e lo pseudo-costituzionalismo tedesco. Questi sono anni di intense discussioni e dibattiti nell’ambiente universitario di Heidelberg, in cui spiccano i nomi, oltre che di Weber, di Windelband, Sombart, E. Troeltsch, G. Simmel, R. Michels, G. Lukács, K. Jaspers, F. Tönnies. W. studia psicologia del lavoro industriale, interessandosi al fatto che il capitalismo della grande industria ha cambiato il “volto spirituale del genere umano fino a renderlo quasi irriconoscibile”, e pubblica Sulla psicofisica del lavoro industriale (1908). L’anno dopo pubblica un lungo saggio sulla struttura sociale delle società antiche, I rapporti agrari nell’antichità. Pubblica anche nel 1906 La situazione della democrazia borghese in Russia e L’evoluzione della Russia verso un costituzionalismo apparente, ed anche Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura. Un’eredità nel 1907 gli consente di ritirarsi dall’insegnamento e di dedicarsi completamente ai suoi studi. Nel suo salotto di Heidelberg riceve la maggior parte degli studiosi tedeschi dell’epoca: Windelband, Troeltsch, Sombart, Simmel, Michels, Tönnies, Naumann. Colllabora attivamente alla fondazione dell'”Associazione tedesca di sociologia”, in un congresso della quale, nel 1910, prende netta posizione contro l’ideologia razzista. Ne uscirà nel 1912, a causa di divergenze sulla questione della neutralità assiologica (avalutatività). Assume però la direzione del “Grundriss der Sozialoekonomik”(1909), un’opera enciclopedica cui diede un decisivo contributo con il trattato di sociologia generale, Economia e società (1922, postumo). Intanto continua a occuparsi di sociologia della religione con il saggio metodologico, Alcune categorie della sociologia comprendente (1913). Nel 1909 aveva pubblicato I rapporti di produzione nell’agricoltura del mondo antico. Coerente nelle sue convinzioni imperialistiche, W. si mostra favorevole all’entrata in guerra della Germania. Allo scoppio della guerra chiede di essere richiamato come ufficiale della riserva. Sino alla fine del 1915 dirige un gruppo di ospedali militari impiantati nella regione di Heidelberg. Riprende gli studi religiosi nell’ambito dei quali prosegue la critica alla concezione materialistica della storia, Etica economica delle religioni universali (1916, su Confucianesimo e Taoismo) e Sociologia della religione (1916-17 su Induismo, Buddismo ed Ebraismo antico). Dopo aver dato inizio alla pubblicistica politica e aver fondato con Naumann, Troeltsch, Brentano e altri il “Volksbund fur Freiheit und Vaterland”, si dichiarava, a causa delle difficoltà della guerra, contrario alla politica annessionistica, al bellicismo tedesco, al piano della guerra sottomarina e comincia a sostenere la pace. Auspica una riforma parlamentare nell’ambito del regime monarchico, che consentisse un’effettiva autorità al parlamento e favorisse la formazione di un’aristocrazia di capi politici volta a sostituire il regime dei “parvenus e dei dilettanti burocratici” della Germania di Guglielmo II (Wahlrecht und Demokratie in Deutschland, 1917; Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania, 1918). W. escludeva la possibilità di una rivoluzione repubblicana, che, secondo lui, avrebbe soltanto accresciuto le divisioni interne; d’altro canto riconosce la funzione progressiva dei conflitti sociali, quando fossero controllati dalle strutture burocratiche, sindacali e partitiche. Di qui il suo giudizio positivo sull’azione delle socialdemocrazie nel disciplinare le masse; ma nella misura in cui la politica socialdemocratica non coincideva con i suoi ideali imperialistici, la considerava inadatta alla guida della nazione. Dal 1916 al 1917 svolge diverse missioni ufficiose a Bruxelles, Vienna e Budapest. Moltiplica gli sforzi per convincere i dirigenti tedeschi a evitare l’estensione del conflitto, ma nello stesso tempo afferma la vocazione della Germania alla politica mondiale (imperialismo) e vede nella Russia la minaccia principale. Nel 1918 tiene un corso estivo all’Università di Vienna. In questa occasione presenta la sua sociologia della politica e della religione come una Critica positiva della concezione materialistica della storia. Dopo la proclamazione della Repubblica di Weimar, aderisce al nuovo partito democratico (di centro-sinistra borghese, aconfessionale), presentandosi candidato all’Assemblea nazionale nella circoscrizione di Francoforte, ma non viene eletto. Va precisato che W. più che un politico di professione (egli non ha mai partecipato, in posizione dirigente, alla vita politica del suo paese), è sempre stato un intellettuale: ricercatore, conferenziere, pubblicista, accademico, talvolta consigliere del sovrano, ma con poco successo. Egli è sempre rimasto insofferente a una rigorosa disciplina di partito. Si era impegnato nel partito perché riteneva che la sconfitta della Germania fosse dipesa dalla mancanze di serietà politica della classe dirigente. Soprattutto cercava un dialogo con gli studenti universitari: quelli del gruppo “Germania libera”, politicamente non orientati con chiarezza, risposero con entusiasmo. I conservatori nazionalisti rifiutavano le sue critiche al regime guglielmino: in particolare W. si era rifiutato di credere alla leggenda per cui le sinistre, demoralizzando gli eserciti combattenti, avevano fatto perdere la guerra alla Germania. Ciò tuttavia non gli valse le simpatie degli studenti di sinistra. Negli anni della repubblica di Weimar, egli era passato da convinzioni parlamentaristiche a convinzioni repubblicano-presidenzialistiche e ad una concezione cesarista della direzione politica, considerata come la miglior forma di governo in una società di massa, l’unica in grado di salvare la democrazia. In questo senso esercitò un peso determinante nella commissione per la redazione della costituzione di Weimar (ad es. riuscì a far accettare: 1) l’elezione plebiscitaria del presidente della repubblica, sul modello americano, in modo da poterlo considerare investito direttamente dalla sovranità popolare; 2) il diritto d’inchiesta, garantito alle minoranze, in modo che l’opposizione avesse la possibilità non solo di controllare casi di corruzione parlamentare ma anche di partecipare ad un’azione positiva di governo, attenuando la tendenza all’assolutismo della maggioranza). Ad Heidelberg partecipò anche ad alcune riunioni del Consiglio degli operai e dei soldati, restandone impressionato positivamente; però chiese anche al governo che si reprimesse, pur senza violenza, il movimento di Liebknecht e della Luxemburg. A Monaco disapprovò la grazia concessa al conte Arco che aveva assassinato il capo della repubblica socialista bavarese, K. Eisner, ma manifestò simpatie per le idee politiche del giovane conte. Intervenne energicamente per far punire dal rettore dell’Università gli studenti nazionalisti che avevano malmenato una minoranza di studenti socialdemocratici, ma si dichiarò sempre un acceso nazionalista. Intervenne come testimone a favore nel processo contro O. Neurath e E. Toller, due rivoluzionari della repubblica comunista bavarese, ma a Monaco disse ai propri studenti che non aveva alcuna intenzione d’impegnarsi attivamente, cioè politicamente, per la trasformazione della società: al massimo era disposto a fornire una consulenza scientifica in materia di economia politica. Dopo la capitolazione della Germania, viene nominato esperto presso la delegazione tedesca a Versailles. Egli infatti si recò a Parigi con la commissione per la riparazione dei danni di guerra, collaborando alla redazione del Libro bianco tedesco, inteso a controbattere le accuse mosse alla Germania come la sola responsabile della guerra. Nel 1918 tiene all’Università di Monaco le conferenze La scienza come professione e La politica come professione, nonché le lezioni sul Significato della “avalutatività” nelle scienze sociologiche ed economiche. Il problema ch’egli cercava di risolvere era quello di definire un’equazione funzionale fra lo Stato come protagonista di una politica di potenza da un lato, e l’opportunità dall’altro di dare agli ordinamenti democratici un’ampiezza più o meno estesa. Intanto continua i lavori di completamento di Economia e società (che però resterà incompiuto), e prepara la raccolta degli Scritti di sociologia della religione (1920-21, postumo). Nel 1919 accetta una cattedra all’Università di Monaco, ove succede a Brentano. Il corso tenuto nel ’19-’20 riguarda la Storia economica generale e sarà pubblicato nel ’24. Le sue ultime battaglie politiche furono rivolte contro l’antisemitismo, sostenendo vivaci discussioni con gli studenti pangermanisti. Nel 1920 abbandona il partito democratico, di cui disapprovava le concessioni fatte al programma di socializzazione dei socialdemocratici. Morì nel giugno dello stesso anno, a Monaco, di febbre spagnola. L’influsso della sua sociologia su quella tedesca fu allora poco significativo, anche dopo la sua morte, poiché quella ufficiale ha sempre preferito cercare dei nessi con lo storicismo o con il positivismo metafisico. La ripresa dei temi weberiani avverrà nella Scuola di Francoforte, ma anche in Mannheim, per il quale i significati della realtà sociale hanno solo una funzione psico-sociologica, e soprattutto nel funzionalismo di T. Parsons (1902-79). In Italia il suo nome cominciò a diventare noto con la traduzione di Parlamento e governo ad opera di Croce.
LA FORMAZIONE CULTURALE
Il lavoro di Max Weber, che per alcuni aspetti sembra doversi collocare al di fuori dello storicismo come movimento filosofico, per altri rappresenta senz’ombra di dubbio il risultato più fecondo e duraturo scaturito dalla discussione delle sue problematiche. Dedicatosi prevalentemente a studi di economia e scienze sociali, soltanto negli ultimi anni della sua vita Weber si volse a considerare alcune implicazioni filosofiche dei sui lavori: tanto i suoi studi specifici quanto le sue riflessioni metodologiche si sono rivelati in seguito di grande rilievo non solo nel campo di discipline da lui professionalmente coltivate, ma anche nel dibattito filosofico contemporaneo, dall’etica alla gnoseologia e alla filosofia politica. Max Weber nacque a Erfurt nel 1864, figlio di un uomo politico, deputato del partito nazional-popolare, nella cui casa di Berlino si riunivano alcuni dei più noti esponenti della cultura tedesca. Condusse i suoi studi, secondo il costume del tempo, in diverse università (Heidelberg, Berlino,Gottinga e poi ancora Berlino); dopo l’abilitazione, insegnò a Friburgo e, dal 1895, ad Hidelberg, dove la sua casa col tempo diventerà un grande cenacolo di intellettuali,da Treeltsch a Simmel, da Jaspers a Sombart a Bloch e Lukàcs. Ma il brillante inizio della carriera accademica fu interrotto da una grave crisi nervosa, nel 1897, che costrinse Weber a lasciare l’insegnamento e le ricerche per alcuni anni. Gli studi ai quali Weber si era dedicato fino allora sono riconducibili a due filosofie principali: lo studio della storia economico-sociale del Medioevo e dell’Antichità e la ricerca sulle condizioni di vita dei contadini tedeschi a est dell’Elba, alla quale si era volto nell’ambito dell’attività del Circolo di politica sociale, della quale era membro. Egli tornò al lavoro nel 1901, rinunciando all’ insegnamento universitario, e negli anni successivi furono pubblicati gli studi metodologici, i principali dei quali sono tradotti in italiano col titolo Il metodo delle scienze storico-sociali , e i famosissimi lavori sullo spirito del capitalismo e il suo rapporto con l’etica protestante. Nel 1904 diventò condirettore della rivista “Archiv fùr Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, nella quale pubblicò la maggior parte dei suoi studi e che diventò una delle più prestigiose riviste di scienze sociali. In questi stessi anni prese forma il problema centrale ( storiografico e sociologico) di Weber, quello del processo di razionalizzazione della società moderna. Tra il 1910 e la fine della guerra mondiale attese alla composizione dei saggi e dei materiali che costituiranno le grandi opere, incompiute o pubblicate postume, sull’ Etica economica delle religioni universali , su Economia e società , sulla Storia economica . Gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra videro Weber impegnato sul piano dell’attività politica diretta, attraverso la collaborazione alla “Frankfurter Zeitung”, dove, sebbene approvasse le ragioni ideali e politiche della guerra, egli prese posizione contro la politica ufficiale del Reich, e soprattutto con la partecipazione alla commissione d’armistizio e in seguito all’elaborazione della costituzione repubblicana di Weimar. Nel 1918 ritornò all’insegnamento; morì a Monaco nel 1920. I suoi ultimi scritti di rilievo sono il saggio Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e le due conferenze su Scienza come professione e politica come professione .
LE SCIENZE STORICO/SOCIALI
Weber è stato in principio soprattutto uno storico economico, che è andato poi progressivamente avvicinandosi alla ricerca sociologica. Il suo successivo interesse per la riflessione metodologica è avvenuto in relazione al dibattito sul metodo della scienza economica che si era sviluppato nei due ultimi decenni del 1800, soprattutto fra marginalisti ed esponenti della scuola storica, tra quelli che sostenevano che l’economia politica ha per oggetto la regolarità del comportamento economico e coloro che la riducevano a una scienza specificatamente storica, parte di una scienza universale della società. Nei suoi primi saggi metodologici, Weber prende posizione contro i presupposti della scuola storica e contro l’eredità romantica che in essa sopravvive, soprattutto l’idea che i fenomeni storici colgano intuitivamente nella loro individualità mediante un procedimento di comprensione immediata; egli elabora le sue considerazione riguardo a questi problemi sempre da un punto di vista metodologico, cioè di ‘ un’autoriflessione sui mezzi che hanno trovato conferma nella prassi ‘ delle singole discipline, non dal punto di vista generale di una teoria della conoscenza o di una teoria filosofica della storia. Questo spiega perché, di fronte all’alternativa tra Dilthey, da un lato, e Windelband e Rickert dall’altro, tra la distinzione delle scienze storiche da quelle naturali fondata su base oggettiva e quella fondata sul metodo, Weber prende subito posizione in favore della seconda: ‘ né le qualità cosali della materia, né le differenze ontologiche del suo essere, né, infine, il modo del procedimento psicologico con cui si consegue una determinata conoscenza decidono del suo senso logico e dei presupposti della sua validità ‘. L’oggetto delle scienze storico-sociali può essere definito soltanto in relazione al loro metodo orientato verso l’individualità e in base all’analisi della loro struttura logica, escludendo quindi ogni dimensione psicologica. Se l’interesse della ricerca è rivolto alla conoscenza di regolarità secondo leggi naturali, si costituisce l’oggetto della scienza naturale; se invece è rivolto alla conoscenza della realtà individuale, si costituisce l’oggetto storico. Come per Rickert, mondo fisico e mondo storico possono entrambi diventare oggetto sia della scienza naturale sia della conoscenza storica. Ma il richiamo delle posizioni rickertiane non si ferma a questo: dall’allievo di Windelband, Weber riprende la nozione di relazione al valore, intesa come criterio di selezione del dato delle scienze storico-sociali. Il significato dell’oggetto storico deve presupporre ‘ la relazione dei fenomeni culturali con idee di valore ‘ , in quanto riguarda processi ai quali si attribuiscono da parte del ricercatore significati culturali . Il distacco di Weber dalla filosofia dei valori è, invece, fortissimo a proposito del modo d’essere dei valori: essi sono più forniti di validità incondizionata e di esistenza metastorica, ma sono i valori di una determinata cultura, adottati in rapporto allo specifico punto di vista del soggetto della ricerca. La ricerca storico-sociale ha quindi un punto di ricerca soggettivo, un particolare punto di vista che stabilisce l’oggetto e la direzione dell’indagine. Si pone, allora, il problema di individuare le condizione fondamentali che consentono alle scienze storico-sociali di condurre a risultati oggettivamente validi, pur partendo da presupposti soggettivi. E’ il problema che Weber affronta nei saggi metodologici più importanti, e soprattutto in L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, del 1904, e Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura , del 1906. Weber indica qui due fondamentali condizioni. La prima consiste nella rigorosa esclusione dei giudizi di valore dall’ambito delle scienze storico-sociali, come del resto da qualunque altro campo del sapere. Weber distingue, infatti, la relazione del valore, che si è visto essere il criterio con cui il ricercatore individua l’oggetto della sua indagine, dal giudizio di valore, che è invece una presa di posizione valutativa, ossia l’approvazione di valori, la prescrizione di comportamenti, la difesa di scopi pratici, di posizioni politiche e così via. La ricerca sociale deve accertare quel che è, non indicare quel che dev’essere. E’ possibile una critica tecnica dei valori, consiste nella considerazione del rapporto dei valori assunti come scopo dell’agire e i mezzi della loro realizzazione, oppure nell’analisi delle conseguenze che possono derivare dalla scelta di certi valori e dall’impiego di determinati mezzi. Ma giudicare della validità dei valori è per Weber ‘ una questione di fede, forse un compito della condizione speculativa; sicuramente non l’oggetto di una scienza empirica ‘.La seconda condizione consiste nel ricorso alla spiegazione causale. Le scienze storico sociali non possono mai dare una spiegazione completa ed esauriente di un avvenimento, dal momento che gli antecedenti ai quali un avvenimento può essere ricondotto sono, il linea di principio, infiniti. Ma alla ricerca storica spetta ‘ la spiegazione causale di quegli elementi e di quegli aspetti dell’avvenimento in questione che rivestono un significato universale da determinati punti di vista e perciò un interesse storico ‘. Il che può avvenire mediante la messa in relazione dell’evento o del processo storico reale con processi storici possibili costruiti concettualmente; se, eliminando o modificando un elemento della situazione, il processo possibile mostrerà un allontanamento da quello reale, allora l’elemento in questione potrà essere considerato in rapporto causale con l’evento che si intende spiegare. I giudizi di possiblità oggettiva ( così Weber definisce i procedimenti di imputazione causale di questo tipo ) mettono capo ad un tipo di spiegazione condizionale, che nega il postualto positivistico ( peraltro valido per le scienze naturali ) del legame tra causalità e necessità. Essi portano alla scoperta delle condizioni che favoriscono (e del grado in cui le favoriscono) o che impediscono il verificarsi di un determinato avvenimento. Tutto questo implica il riferimento a regole dell’esperienza, sulla cui base costruire una conseguenza di avvenimenti che non è data empiricamente, e a concetti generali che hanno il carattere di tipi ideali. Regole e concetti costituiscono quel che Weber definisce sapere nomologico : per la scienza naturale essi rappresentano lo scopo della ricerca, nella conoscenza storico-sociale essi assolvono a una funzione strumentale. Il che comporta la differenza che le unità di comportamento constatate nelle leggi sociali non sono leggi vere e proprie, ma costruzioni concettuali che nella nostra che nella loro purezza ideale si trovano raramente, e a volte mai, ma che, d’altra parte, sono l’unico mezzo per costruire rappresentazioni della realtà empirica. Un’ altra conseguenza consiste nel riconoscimento che la ricerca storica, di per sé volta all’ individualità, deve servirsi a scopo euristico delle scienze sociali astratte. In seguito, lo studio delle regolarità dell’agire umano arriverà a rappresentare uno scopo autonomo della ricerca storico-sociale, lo scopo della sociologia.
IL CAPITALISMO
La problematica della natura e dell’origine del capitalismo era largamente dibattuto nella cultura tedesca degli ultimi anni dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, soprattutto a partire da Marx. Erano infatti da poco stati pubblicati da Engels il secondo e il terzo libro del Capitale di Marx, e le teorie marxiane cominciavano ad essere accettate o almeno prese in considerazione da economisti e storici, sia che le si volesse confutare, sia che le si volessero avvalorare. Uno dei primi studiosi ad aver considerato come opera scientifica valida il Capitale fu Werner Sombart, coodirettore con Weber dell’ Archiv fur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, ed del libro Il capitalismo moderno, in cui presentava il capitalismo moderno come il risultato della combinazione della tendenza al maggior guadagno possibile con un orientamento razionale nell’agire. Weber a sua volta giungeva all’analisi del capitalismo moderno dall’analisi del capitalismo antico, che era stato oggetto dei suoi studi di economia politica. Anch’egli come Sombart, riconosceva il carattere del capitalismo moderno nel razionalismo economico, concepito come l’aspetto economico di un più generale processo di razionalizzazione, che comportava l’organizzazione razionale dell’impresa, la tendenza razionale al profitto sulla base del calcolo del capitale, la redazione di bilanci preventivi e consuntivi, la separazione tra impresa e amministrazione domestica, l’impiego del lavoro formalmente libero, l’esistenza di un libero mercato. Ma accanto a questi elementi, egli indicava un aspetto che, dal punto di vista marxiano, si direbbe sovrastrutturale, lo spirito del capitalismo , ovvero una specifica mentalità economica che, secondo Weber, affonda le sue radici nel terreno della religione. Il problema di Weber è quello di spiegare ‘ il particolare carattere del capitalismo occidentale e, in seno a questo, di quello moderno, e le sue origini ‘. Non era nuova l’osservazione, anzi la constatazione, del più avanzato grado di sviluppo economico e civile in generale della società in cui si erano diffuse le confessioni riformate. Weber ne trae spunto per impostare la usa nuova tesi del rapporto tra la mentalità capitalistica e l’etica economica del protestantesimo ascetico, cioè del calvinismo e delle sette anabattistiche e puritane. Il credente di queste confessioni, convinto che la sua salvezza o la sua dannazione siano decretate da Dio e dall’eternità e non dipendono dalle sue opere, cerca una conferma della grazia divina, e la trova nel successo economico. Il compimento del proprio volere nel mondo è voluto da Dio ad accrescimento della sua gloria nella sua rinascita è un segno dell’elezione divina. Si caricano, quindi, di significato religioso i caratteri dell’operosità, dello zelo, della coscienza rigorosa e severa, che si traducono nella concezione della professione come vocazione e in una condotta di vita metodica. In seguito, il capitalismo si è spogliato di questo senso etico-religioso, ma è rimasta la tendenza al profitto, concepito come scopo a sé, ed è rimasto l’abito di una condotta metodica (razionale) di vita. Con la volontà di opporsi a Marx, Weber guarda alle cose dal punto di vista delle sovrastrutture e si domanda di qual genere di uomo (e non – come ci si aspetterebbe da Marx – di qual genere di strutture) ci fosse bisogno affinché potesse nascere il capitalismo. Egli risponde prendendo in esame i protestanti e il loro grande accumulo di ricchezze a partire al Cinquecento. Il termine chiave per capire questo accumulo è – dice Weber – il termine tedesco Beruf, che significa tanto “vocazione” quanto “lavoro”, quasi come se sussistesse un’identità di professione di fede e professione lavorativa. Per i protestanti la salvezza è decretata da Dio ab aeterno (giustificazione per fede) e non la si ottiene in virtù delle proprie opere: un indizio per capire se si sarà o meno salvati è il successo professionale che si ha nel corso della vita, quasi come se, dal successo nel lavoro, si potesse avvertire il proprio essere graditi a Dio. Sicché quella che il protestante compie è un’autentica “ascesi intramondana”, per cui egli è strumento di Dio nel mondo: chi lavora con dedizione per tutta la propria vita e riscuote grande successo accumulando ingenti ricchezze (e non per fini edonistici: accumula senza consumare, perché ciò è proibito dalla religione), può ritenersi salvato da Dio. Da ciò nasce secondo Weber il capitalismo: non già da particolari condizioni materiali, storiche ed economiche (come credeva Marx), bensì da idee, da sovrastrutture. Per chiarire quanto accade nel mondo protestante, ricorre all’esempio del mantello che, dapprima usato per riscaldare, finisce poi per imprigionare come una “gabbia d’acciaio”; infatti, l’accumulo di ricchezza effettuato dai protestanti finisce a lungo andare per diventare fine a se stesso e non più funzionale alla religione, ossia finisce per trasformare il mantello della religione in una gabbia che la annienta. La “razionalità rispetto al valore” si smarrisce lungo la strada e viene rimpiazzata dalla “razionalità rispetto allo scopo”. La vita spesa nel lavoro diventa priva di senso e fine a se stessa: ne segue la perdita della libertà, l’accumulo domina l’uomo e lo rende superfluo. . In Sociologia delle religioni, Weber ci propone poi uno sconcertante elenco di conquiste dell’Occidente e ci chiede se siano effettivamente universali, degne di essere esportate in quanto umane e superiori; tali conquiste sono, ad esempio, la scienza e “la forza più fatale” (il capitalismo). Agli occhi di Weber, la modernità viene a configurarsi come un processo che tutto razionalizza (l’insegnamento, la politica, ecc) ma che poi, per ironia della sorte, tende a capovolgersi e a far risorgere gli antichi dei della Grecia: ciascuna delle realizzazioni della modernità, infatti, risponde solamente a sé, cosicché ciò che è buono non per questo è anche vero, ciò che è bello non per questo è anche buono, ecc. Si attua cioè un autentico frazionamento dei valori o, come lo chiama Weber, un “politeismo dei valori” di fronte al quale l’individuo può chinare il capo ad uno dei tanti dei trascurando gli altri: può così scegliere il valore della religione (conducendo una vita religiosa), oppure quello della scienza (conducendo una vita dedita alla ricerca), e così via. Ma tra i molteplici valori non v’è contatto né comunicazione: pertanto il moderno si prospetta come tragico smarrimento del senso e della libertà, come fredda “gabbia d’acciaio”. Se in Marx e in Hegel vi era il “superamento” dialettico, in Weber regna invece l’accettazione, cosicché il suo si presenta come un “individualismo eroico” che accetta come destino il frazionamento dei valori. E’ evidente che la teoria weberiana dell’origine dello spirito capitalistico è in contrasto con la concezione marxista , dal momento che rovescia il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura; del resto, Weber aveva già polemizzato con la concezione materialista della storia negli scritti metodologici. Bisogna però sottolineare che l’opera di Weber non si propone neppure di sostenere un qualsivoglia primato di fattori spirituali su quelli materiali. Egli rifiuta infatti ogni pretesa di spiegazione onnicomprensiva dei fenomeni storico-sociali e ogni assolutizzazione di principi, dal momento che l’unica forma di spiegazione possibile è quella condizionale. Dalla sua ricerca egli trae la conclusione, limitata al problema del sorgere della mentalità economica razionale del capitalismo, che vi è uno stretto rapporto tra questa e l’etica economica del protestantesimo ascetico. E alla stessa conclusione giungeva per via negativa mostrando negli studi sull’etica economica delle religioni universali (confucianesimo, taoismo, induismo raccolti poi nella postuma Sociologia della religione ,come in nessun’altra civiltà che non fosse l’Occidente moderno si sia verificata una correlazione come quella che si è stabilita tra etica protestante e mentalità capitalistica.
LA SOCIOLOGIA
Nell’ultima fase della sua vita, gli interessi di Weber concentrarono sulla sociologia, con lo scopo di determinare la specificità nei confronti della ricerca storica e delle altre scienze sociali. Già nel saggio Su alcune categorie della sociologia comprendente , del 1913, Weber definiva la sociologia come lo studio dell’agire sociale, cioè di quell’agire che si riferisce all’agire di altri individui. L’oggetto della sociologia e quindi l’atteggiamento umano in quanto fornito di senso, vale a dire di un termine di riferimento e di una direzione rispetto ad esso, e in quanto mostra nel suo corso connessioni e regolarità al pari di ogni altro accadere. Si tratta di una disciplina che ha come scopo la ricerca di uniformità di comportamenti, e quindi la formulazione di generalizzazioni, e in questo si avvicina alla scienza naturale. Dalla scienza naturale però si distingue per il procedimento, che richiede il ricorso alla comprensione , dato che le connessione e le regolarità dell’atteggiamento devono essere interpretate: non sono leggi come quella della sociologia positivistica, ma uniformità espresse in forma di tipi ideali e constatabili empiricamente. Viene ripreso quindi un concetto di chiaro stampo diltheyano, ma con un significato molto diverso: la comprensione deve essere sempre controllata con la spiegazione causale. Da questo punto di vista, si precisa in modo nuovo il rapporto tra scienza sociale e ricerca storica: esse rappresentano due direzioni di ricerca autonome e tra loro complementari. La storiografia mira alla spiegazione causale di eventi individuali che rivestano un significato culturale, la sociologia ‘ elabora concetti di tipi e cerca regole generali dell’accadere ‘. La complessa (e non ultimata) costruzione di Economia e società si presenterà, allora, come lo studio sistematico dei rapporti tra i tipi di atteggiamento ( e le corrispondenti forme di relazione sociale) e le forme di organizzazione economica. Naturalmente una sociologia così intesa non può non fondarsi e non prendere le mosse da una prima generale classificazione dei tipi fondamentali di agire sociale . E’ quella che troviamo, all’inizio di Economia e società , tra agire razionale rispetto allo scopo , agire affettivo e agire tradizionale. Gli ultimi due rappresentano forme di atteggiamento non razionale, i primi due forme di razionalità contrapposte. Essi sono disposti in un ordine decrescente di intellegibilità, e proprio il richiamo alla nozione di intellegibilità consente di comprendere meglio il motivo della centralità del problema della razionalità nella sociologia di Weber. Razionale, per Weber, è quel che si può comprendere in base a una relazione tra mezzi e scopo; quanto più un comportamento umano è fondato su una relazione tra mezzi e scopo, tanto più risulta comprensibile, perchè calcolabile e prevedibile. L’agire diventa intellegibile, e dunque razionale, mediante il ricorso a tipi ideali, cioè a costruzioni di modelli di comportamento rispetto ai quali l’effettivo agire sociale risulta più o meno distante. Questo non vuol dire che la spiegazione razionale sia lo scopo della sociologia, né che soltanto gli atteggiamenti razionali possano essere idoneamente compresi; essa è però l’unico strumento che permetta di spiegare e comprendere anche gli atteggiamenti irrazionali. La razionalità è un concetto riferito a comportamenti pratici. Non è conoscenza di leggi oggettive della società, né rivelazione di significati immanenti alla storia o alla natura umana; è, piuttosto la risposta alla mancanza di senso nel mondo, è disincantamento del mondo . E disincantamento del mondo può essere considerato il processo attraverso il quale la civiltà occidentale moderna si è sviluppata, dal lontano sorgere delle religioni della redenzione fino al passaggio dall’etica protestante allo spirito del capitalismo. A questo riguardo Weber introduce, nel capitolo sulle Categorie sociologiche fondamentali dell’agire economico di Economia e socialità , la distinzione tra razionalità formale e razionalità materiale che è una distinzione valida innanzi tutto nella sfera economica: la razionalità formale consiste nella calcolabilità, quella materiale riguarda l’agire economico subordinato a postulati valutativi. La distinzione coincide soltanto in parte con quella tra atteggiamento razionale rispetto allo scopo e atteggiamento razionale rispetto al valore. Quello che importa far rilevare è che essa non si limita alla sfera economica, visto che trova la sua realizzazione. Oltrechè nel capitalismo moderno, anche nelle istituzioni sociali che lo accompagnano: il diritto razionale-formale, l’amministrazione burocratica, il moderno sapere scientifico. Così si ritorna ancora al problema dell’individualità del capitalismo moderno, vero centro degli interessi di ricerca di Weber, risolto in quest’opera in termini di comparazione sociologica, ovvero attraverso l’analisi dei vari possibili modi di rapporto tra forme di organizzazione sociale e strutture economiche. Da questo centro si sviluppano, e intorno ad esso ruotano, riflessioni e teorie che sono ormai divenute formulazioni classiche, ripetutamente riprese, della sociologia contemporanea: la sociologia politica e le forme del potere legittimo, l’analisi sociologica delle religioni e delle città, del diritto e della musica e così via. Tra queste teorie riveste una particolare importanza quella dello Stato e del potere. Per Weber, la prima condizione perché un’associazione politica possa essere chiamata “Stato” è che essa possegga il monopolio della forza; da questo punto di vista, egli si inscrive nella lunga tradizione del realismo politico. La novità consiste nella rinuncia a ogni considerazione di tipo finalistico della natura dello Stato, e soprattutto nella affermazione che questa forza, di cui lo Stato detiene il monopolio, deve essere legittima. Da ciò consegue la necessità di esaminare i tipi di potere legittimo e il loro fondamento. L’influenza dell’opera di Weber è stata grandissima, soprattutto nel campo delle scienze sociali, e rivolta in molteplici direzioni. I più fecondi indirizzi della ricerca sociologica, anche quando non si pongono come sviluppi delle impostazioni weberiane, non hanno quasi mai potuto, nel nostro secolo, sottrarsi ad un confronto critico con esse. La stessa analisi dei caratteri del mondo contemporaneo, la riflessione più propriamente filosofica sulla cosiddetta “modernità”, tiene largamente conto delle sue considerazioni.
ETICA DEI PRINCIPI E DELLA RESPONSABILITA’
Come abbiamo visto in precedenza, Weber si muove all’interno di una filosofia dei valori i cui presupposti sono la distinzione tra essere (Sein) e dover essere (Sollen) e il riconoscimento di una pluralità di sfere dei valori (quel “politeismo dei valori” in forza del quale nell’etica il valore è il buono, nell’estetica il bello, ecc). A differenza della scienza, che ha a che fare coi fatti, la filosofia si occupa dei valori, che però sono non un qualcosa di assoluto e immutabile (come avevano preteso Windelband e Rickert), ma piuttosto un qualcosa di mutevole e relativo (come aveva colto Dilthey). Di fronte ad un mondo che di per sé manca di significato, sta agli uomini attribuirgliene uno: proprio in forza del disincantamento del mondo (Entzauberung der Welt), il mondo si è spopolato degli dèi e delle forze magiche per diventare il puro e semplice teatro dell’agire razionale dell’uomo. Proprio perché i valori sono tanti e inconciliabili, nel chinare il capo a certi valori se ne escludono altri: in ciò consiste quella che Weber chiama “collisione” dei valori. Ma tale rapporto conflittuale sussiste anche all’interno di uno stesso ambito di valori: così, se prendiamo come esempio l’ambito estetico, gli artisti chinano il capo al valore del bello, ma lo intendono poi in maniera diversa. Così un artista si rifarà ai valori barocchi, un altro artista a quelli gotici, ecc. Tale frazionamento dei valori si riflette anche nell’etica, alla quale Weber dedica il suo importantissimo saggio Tra due leggi (1916). Il “politeismo dei valori” (espressione che Weber mutua in parte da John Stuart Mill) si declina nell’etica sotto forma del dualismo tra l’etica dei principi (Gesinnungsethik) – anche detta etica delle intenzioni o delle convinzioni – e l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik). La prima forma di etica fa riferimento a principi assoluti, che assume a prescindere dalle conseguenze a cui essi conducono: di questo tipo sono, ad esempio, l’etica del religioso, del rivoluzionario o del sindacalista, i quali agiscono sulla base di ben precisi principi, senza porsi il problema delle conseguenze che da essi scaturiranno. Si ha invece l’etica della responsabilità in tutti i casi in cui si bada al rapporto mezzi/fini e alle conseguenze. Senza assumere princìpi assoluti, l’etica della responsabilità agisce tenendo sempre presenti le conseguenza del suo agire: è proprio guardando a tali conseguenze che essa agisce. Sicché l’etica dei principi e quella della responsabilità sono due etiche opposte e inconciliabili, che fanno capo a due diversi modi di intendere la politica, come nota Weber in Politica come professione: l’etica dei princìpi è, in definitiva, un’etica apolitica, come è testimoniato dal Cristiano che agisce seguendo i suoi principi e senza chiedersi se il suo agire possa trasformare il mondo. Al contrario, l’etica della responsabilità è indissolubilmente connessa alla politica, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze dell’agire.
A cura di M.Parolini
CONTRO LA FILOSOFIA DELLA STORIA
Il rifiuto della filosofia della storia da parte di Weber può essere compreso più facilmente grazie a due sue osservazioni:
1) il problema del senso del mondo è esclusivamente di tipo etico/religioso e non scientifico;
2) il progresso va inteso in senso puramente tecnico e non storico.
Nel testo “Considerazioni intermedie della sociologia della religione” (1916), Weber definisce le religioni della redenzione in base al loro bisogno di dare un senso etico alla vita umana, con l’intento di risolvere due problemi: l’esistenza della sofferenza e la distribuzione diseguale della felicità e della sofferenza. Per risolvere il primo problema, la religione si fa portatrice di premesse di salvezza, di una giustificazione in base alla prospettiva di una redenzione nell’aldilà o nel mondo stesso (per esempio, la reincarnazione per l’induismo). Per quanto riguarda il secondo problema, invece, la religione elabora una sorta di meccanismo di compensazione etica con il compito di riportare un’eguaglianza di trattamento fra gli uomini (chi ha sofferto di più in questa vita, sarà più felice in un’altra). Si arriva cosi alla formulazione di teodicee, di giustificazioni del mondo in quanto creato da Dio; ma a prescindere dal tipo di teodicea, secondo Weber, vi è sempre una netta contrapposizione con le spiegazioni che invece ne deducono le cause in termini scientifici. Purtroppo, l’intento della religione, elevatasi dallo stadio di pura magia, di razionalizzare eticamente, ossia di dare un senso al mondo e all’esistenza umana, si è andato a scontrare ben presto con l’autonomia raggiunta dagli altri settori della vita (politica, economia. ecc.), che spesso ha dato origine a comportamenti non eticamente e rigorosamente corretti. Questa tensione si manifesta soprattutto nel rapporto fra religione e sfera intellettuale, poiché, se nella magia sussisteva ancora un legame fra gli avvenimenti naturali e la vita dell’uomo, nella religione la strada di una razionalizzazione etica, per forza di cose, si scontra con la razionalizzazione intellettuale basata sulla conoscenza: infatti, laddove esiste una conoscenza di tipo empirico razionale vi è la consapevolezza che il cambiamento del mondo è un processo esclusivamente causale, completamente slegato quindi dalle concezioni religiose, Che postulano l’esistenza di un cosmo creato e ordinato da Dio, fornito per ciò di senso etico. Il sapere scientifico non riconosce alcun senso nel mondo e nei suoi avvenimenti, si propone soltanto di spiegare questi avvenimenti, di determinare relazioni causali sotto forma di leggi. E, quasi paradossalmente, la religione, che dapprima sente il bisogno di staccarsi dalla magia per un’esigenza di razionalizzazione, ora di fronte alla razionalizzazione operata dalla scienza, appare come sapere addirittura irrazionale o anti-razionale. Il problema del senso del mondo assolutamente improponibile in termini scientifici, è un discorso facilmente adattabile anche al processo storico. Nel saggio, metodologico “Il senso della avalutatività delle scienze economiche e sociologiche” (1917), Weber affronta il problema della nozione di progresso: si può parlare legittimamente di progresso solo nel significato tecnico del termine. Si può parlare di progresso solo nell’uso di certi mezzi per la realizzazione di fini dati e non già di progresso della storia (non si parla, ad esempio, di progresso dell’arte, ma di progresso nelle tecniche artistiche). Questa puntualizzazione del concetto di progresso può essere meglio spiegata grazie alla teoria del Politeismo dei valori: i valori e le sfere di valori non costituiscono un cosmo ordinato gerarchicamente, infatti, nell’ambito dell’agire personale orientato in senso etico, ci troviamo sempre a dover scegliere fra vari valori che fanno riferimnto o all’etica dell’intenzione o della coscienza, o all’etica della responsabilità. Di norma quindi si agisce seguendo uno di questi postulati:
1.il valore in sé dell’agire etico, il puro volere o l’intenzione, in qualunque modo lo si esprima, deve bastare alla sua giustificazione, proprio secondo la massima “il cristiano agisce bene e ne rimette a Dio la conseguenza”;
2 é indispensabile prendere in considerazione la responsabilità della conseguenza dell’agire.
Entrambi fanno riferimento a massime etiche che però sono in eterno contrasto fra di loro: da un lato il fine è considerato come assoluto, dall’altro invece è concepito in relazione ai mezzi e alle conseguenze della sua realizzazione. In questo consiste il Politeismo dei valori: tra i valori si tratta sempre non già di semplici alternative, ma di una lotta senza possibilità di conciliazione: tra di loro non è possibile alcun compromesso. Dunque è chiaro come in un mondo dominato da valori cosi contrastanti e inconciliabili si possa parlare esclusivamente di progresso tecnico, poiché non disponiamo di alcun criterio per dire che certi valori sono superiori ad altri, per sostenere che un certo modello di società costituisce qualcosa di più avanzato, o di più arretrato, rispetto ad un altro modello di società. Queste riflessioni chiariscono il motivo per cui Weber rifiuta la filosofia della storia nelle sue diverse formulazioni. Infatti, il progetto di tale filosofia è sempre stato quello di dare un senso globale al processo storico. Bene o male, ogni filosofia della storia si è sempre proposta di individuare nel processo storico o la realizzazione di un progetto divino, o il progredire dello spirito o degli spiriti del popolo, o lo sviluppo dell’umanità attraverso forme di produzione o stadi culturali via via superiori. In Weber non si trova, tuttavia, una critica sistematica della storia; vi è invece il rifiuto di una concezione della storia intesa come sviluppo dell’idea, ossia come progredire dello spirito verso gradi sempre più alti di libertà (vi è il rifiuto del cosiddetto Emanatismo hegeliano: il processo storico è considerato come l’emanazione di qualche principio infinito, di uno spirito del mondo); vi è insomma il rifiuto di una filosofia della storia che pretende di dedurre il processo storico da leggi generali (vi è una critica quindi allo hegelismo, alla concezione storica romantica, ma anche a quella del Positivismo e di Comte). In questo senso, Weber si colloca sulla scia di altri filosofi appartenenti allo Storicismo tedesco, che avevano già avanzato una critica a tali concezioni, come, ad esempio, Dilthey che, nell’opera “Le scienze dello spirito” (1883), afferma 1’impossibilità di una conoscenza del processo storico nella sua totalità. Le scienze dello spirito (psicologia, sociologia ecc.) infatti, possono conoscere soltanto aspetti particolari del processo storico: la filosofia della storia è un’eredità teologica nata con Sant’Agostino, e che entra in crisi nel momento in cui cerca di staccarsi dai suoi presupposti teologici. Ma per Dilthey è impossibile anche una scienza generale della società, così come si era proposta di essere quella positivistica di Comte. Anche Rickert si pone nella stessa ottica e propone la tesi dell’indeducibilità degli avvenimenti da leggi naturali, che inserendosi in un sistema complesso di leggi, sono incapaci di spiegare gli eventi nella loro individualità (come aveva già sostenuto Windelband). Simmel, invece, si sofferma a criticare la stessa nozione di legge storica: è possibile formulare in termini di legge solo il comportamento degli individui, che è motivato psicologicamente, ma il modo in cui tali comportamenti si combinano dando luogo a processi storici sfugge alla possibilità di essere ricondotto a leggi. Anche la metodologia weberiana delle scienze sociali ci spiega però come e perché una filosofia della storia sia impossibile in linea di principio. I processi storici sono sempre il risultato di una costruzione concettuale operata dallo storico o dallo scienziato sociale sul dato empirico. Infatti, quella che Weber chiama relazione al valore, impone una scelta personale nella selezione del dato empirico, la cui analisi, di conseguenza, non potrà mai essere universale e totale, perché dettata da parametri differenti, che portano alla formazione di varie spiegazioni e interpretazioni. Risulta assurdo, quindi, pensare di poter determinare tutte le infinite cause che partecipano al verificarsi di un avvenimento. Weber critica anche il materialismo storico di Marx come concezione generale e particolare della storia in termini di sviluppo progressivo, pur riconoscendogli il merito di aver messo in luce l’importanza. del condizionamento di processi non economici da parte di processi economici. Il processo storico in sé, tuttavia, non può essere spiegato né in termini razionali, né irrazionali, poiché la razionalità è solamente una qualificazione che può essere data a certi comportamenti in base a determinati modelli. Oltretutto, per Weber non è possibile nemmeno parlare di razionalità in senso univoco, poiché esistono due tipi diversi di comportamento razionale:
1. il comportamento razionale rispetto allo scopo (fondamento della razionalità materiale)
2. il comportamento razionale rispetto al valore (fondamento della razionalità formale)
Ma se la storia diventa razionale solo nel momento in cui può essere spiegata riconducendola a certi modelli di comportamento, viene a mancare qualsiasi fondamento di una filosofia della storia in termini universali. In Weber è comunque presente una riflessione sulla storia, sviluppata in tre nuclei teorici. Il primo è costituito dall’interpretazione del mondo moderno in chiave di razionalità formale: solamente in occidente per Weber si è raggiunto uno stadio più elevato del processo di razionalizzazione, rappresentato dal razionalismo formale in cui vi é la graduale conquista dell’autonomia da parte di ogni sfera della vita: solo nel mondo occidentale moderno infatti è nato il capitalismo come forma di razionalismo economico, guidato da quella particolare mentalità che Weber definisce Spirito del capitalismo. Il secondo nucleo teorico è rappresentato da un’analisi storico/comparativa fra i vari ambiti culturali: sulla base di un confronto fra le religioni universali e le loro rispettive etiche economiche, Weber cerca di spiegare in termini comparativi il modo con cui le grandi religioni hanno preso posizioni nei confronti del mondo economico e delle altre sfere della vita. Il terzo nucleo è rappresentato dall’analisi del presente. La visione del presente in Weber è tutt’altro che positiva: infatti, soffermandosi a considerare il suo tempo, si accorge di come l’impegno professionale sia diventato una dura necessità, una coercizione, slegato ormai dai valori puritani e calvinisti su cui si fondava, ma che ha abbandonato nel momento in cui il capitalismo moderno è divenuto un meccanismo autonomo. Quasi paradossalmente, questa razionalizzazione, invece di rendere l’uomo più libero, l’ha posto sotto il dominio delle istituzioni. A seguito di questa osservazione, Weber sfata la rassicurante utopia marxiana, secondo la quale il progressivo sviluppo avrebbe portato alla liberazione dell’uomo, generando la società comunista, senza dominio di classe.
A cura di P.Venditti
ANTROPOLOGIA DI WEBER E DI MARX
Nella struttura della nostra società la scienza conosce due direzioni: la sociologia borghese che ha come rappresentante Max Weber e il Marxismo che ha come rappresentante Karl Marx. L’ambito in cui si muovono le loro indagini è la struttura capitalistica, punto d’incontro delle diverse problematiche dell’uomo nella sua totale umanità, ove si manifesta la contraddizione dell’ordine borghese-capitalistico. Se si vogliono comprendere le ricerche sociologiche di Marx e Weber bisogna risalire a questa idea dell’uomo, analizzato da Weber dal punto di vista di una razionalizzazione universale e inevitabile, da Marx dal punto di vista negativo di una autoalienazione universale ma che si può sovvertire. Secondo Weber è la razionalità che si manifesta nello spirito del capitalismo borghese e che domina l’arte, la scienza, la vita statale ed economica del mondo moderno, infatti nell’economia capitalistico-borghese vi è una razionalizzazione economica che allontana l’uomo da se stesso. Le imprese capitalistiche ad esempio, investono una quantità di denaro non in base ai reali bisogni dell’uomo ma calcolando, e quindi razionalizzando, una entrata di guadagno sempre maggiore arrivando così ad una razionalizzazione dell’esistenza in favore della calcolabilità. Questa razionalizzazione esiste per Weber, anche nella mentalità del lavoratore che, invece di servire una persona, preferisce dare il suo lavoro pagato ad una azienda impersonale, arrivando ad essere in questo senso affine alla mentalità dell’imprenditore che reinveste ogni profitto per rinforzare la sua azienda e non arriva mai a godere pienamente del suo guadagno. Questo lavoro per Weber è insensato, perché entrambi coltivano un concetto professionale, che oggi chiamiamo specializzazione, con cui si cerca di raggiungere, attraverso una logorante lotta per il successo, una posizione professionale ed un accumulo di guadagno. Tutto questo esiste nella società capitalistico-borghese, dove l’uomo spersonalizzato vive nel calcolo esatto avendo come fine il puro guadagno. Ma, per Weber, è proprio questa razionalità che rappresenta la libertà di fronte a tutti gli ordinamenti, istituzioni e organizzazioni della moderna società capitalistica, poiché all’interno di tale società ci si muove come individui liberi, – agire come persona libera significa infatti, agire in vista di un fine adeguando razionalmente al fine posto i mezzi dati-. In questa correlazione tra mezzo e fine, decisiva per i concetti di razionalità, viene intesa da Weber l’irrazionalità poiché tale processo di razionalizzazione della nostra vita si rovescia nell’irrazionale: il guadagno ad esempio, finalizzato ad una economia sicura è razionale, mentre il guadagno razionalizzato in virtù del guadagno è irrazionale. Questo sistema rappresenta il carattere fondamentale della vita dell’occidente e il capitalismo ne è la potenza più fatale. Questo è, per Weber, il vero problema della civiltà, cioè la razionalizzazione che tende a rovesciarsi nell’irrazionale, in quanto, a proposito del mezzo per raggiungere un fine, il proprio mezzo si autonomizza e diventa esso stesso fine. Questa perversione assume anche per Marx la forma economica di un rovesciamento universale, consistente nel fatto che, in generale, la cosa domina l’uomo. Vi è, in Marx quanto in Weber, il presupposto che il fine originario e ultimo di tutte le istituzioni è rappresentato dall’uomo che ha perso la sua identità e importanza primaria a favore di un’economia che, essendosi autonomizzata, non ha più alcun rapporto chiaro con i bisogni dell’uomo come tale. Per Weber l’uomo stesso partecipa alla realizzazione di questa “gabbia d’acciaio” in cui vive e alla quale un giorno si rassegnerà impotente, perché è impossibile arrestare lo sviluppo di tale sistema sociale e umano, infatti dobbiamo accettare la quotidianità di questo mondo così composto e all’interno di esso agire su responsabilità propria. L’individuo, inserito in questo mondo di servitù, si regge su se stesso e realizza in questo mondo e contro di esso dei fini propri. Accettando quindi l’impostazione della società borghese, Weber si trova in una posizione opposta a quella di Marx, il quale voleva invece superare tutte le contraddizioni di questa società. L’analisi critica che Marx compie è infatti una critica del mondo borghese in generale, secondo il principio dell’autoalienazione in esso. Marx paragona l’uomo della società borghese alla merce, in quanto prodotto del semplice lavoro, e l’espressione economica dell’autoalienazione è costituita dal mondo delle merci come autoestraneazione dell’uomo nella cosa. Questa estraneazione nella cosa è, per Marx, autoalienazione in quanto sono le cose stesse che finiscono col diventare la misura dell’uomo astraendolo da ciò che è in realtà. Nella società capitalistico-borghese la merce è l’espressione economica dell’autoalienazione in quanto questa non viene scambiata come prodotto secondo bisogno umano, ma perviene sul mercato come valore diventato autonomo, per giungere nelle mani del venditore, poi nelle mani del consumatore, fino al punto in cui esso, cioè il prodotto, domina l’uomo assumendo una importanza primaria. Per superare questa perversione Marx sviluppa la possibilità di un ordinamento sociale comunistico a cui corrisponde non solo la rimozione del capitalismo ma un ritorno dell’uomo da parziale a naturale. E’ significativo il fatto che quanto Marx rigettava come autoalienazione del mondo umano moderno, veniva accettato da Weber come destino inevitabile. L’idea Marxista di società umana e comunistica si attua soltanto nel superamento della contraddizione borghese tra vita privata e vita pubblica in una comunità che abbracci l’intera essenza dell’uomo. Solo quando l’uomo individuale è diventato, nel suo lavoro, nella sua vita empirica, un essere collettivo, riconoscendo le proprie forze come forze sociali, soltanto allora sarà compiuta l’emancipazione umana. Secondo Marx solo con un mutamento sociale diventa possibile la realtà personale e la dissoluzione della società è affidata al proletariato come ceto particolare. Il proletario infatti, nella sua attività lavorativa disumanizzata, in quanto deve alienare se stesso come merce, ha sviluppato una coscienza critico-rivoluzionaria per emanciparsi, insieme però all’emancipazione dell’intera società. Non appena il proletariato libera se stesso si dissolve con esso la proprietà privata e l’economia capitalistico-privata, giungendo al superamento della contraddizione borghese tra esistenza privata e esistenza pubblica, in una società senza classi, dove l’uomo è semplicemente uomo, superando la sua autoalienazione. Possiamo dire che la differenza tra le concezioni del mondo e le idee dell’uomo in Marx e Weber trova riscontro nelle rispettive divergenze di interpretazione del mondo capitalistico-borghese moderno: in Weber la razionalità, in Marx l’autoalienazione.
“Il fortunato raramente si accontenta del fatto di possedere la fortuna. Egli prova inoltre il bisogno di averne anche il diritto” (Sociologia della religione)
A cura di Homolaicus.com
METODOLOGIA DELLE SCIENZE STORICO-SOCIALI
Premessa generale
W. ha contribuito anzitutto alla formulazione di metodi e compiti propri della sociologia borghese. Egli ha preso le mosse criticando la “Scuola storica” tedesca dell’economia che vedeva in ogni sistema economico la manifestazione dello “spirito di un popolo” (la posizione di Savigny, che si poneva sulla scia di Hegel, era stata ereditata da Roscher, Knies e Hildebrandt). W. rivendica, in questo caso, l’autonomia logica e teoretica della scienza. Lo “spirito del popolo” non è per lui che un prodotto culturale. In secondo luogo, egli critica il materialismo storico-dialettico in quell’aspetto che pone la sovrastruttura ideologica in stretta dipendenza dalla struttura economica. Per W. questo rapporto va determinato di volta in volta, perché può anche essere rovesciato (ad es. la religione può influire sull’economia in maniera determinante, come dirà nell’Etica protestante). In terzo luogo, W. critica il neo-criticismo e lo storicismo tedesco contemporaneo, rifiutando la riduzione della sociologia a scienza ausiliaria delle scienze storiche, ovvero negando che la psicologia sia la base della sociologia (in particolare W. rifiuta l’idea che con l’intuizione si possa comprendere e rivivere l’esperienza altrui. L’ERLEBNIS di Dilthey appartiene al sentimento non alla scienza controllata). Dello storicismo W. rifiuta anche l’idea che possa esistere un oggetto storico “individuale” in sé e per sé: esso -dice W.- esiste solo nella scelta individualizzante fatta dal ricercatore all’inizio dell’indagine, nel mentre considera certi oggetti più importanti di altri. L’oggettività per W. è un criterio molto relativo: non è possibile parlare della conoscenza come di una riproduzione integrale o definitiva della realtà, in quanto va affermata la relatività dei criteri di scelta della conoscenza storica nonché l’unilateralità dell’indagine storica che delimita di volta in volta, orientandosi verso un valore o verso un altro, il proprio campo di ricerca. Il destino dello scienziato è quello di venir superato continuamente in un lavoro senza fine. Sotto questo aspetto non esistono neppure per W. delle scienze privilegiate. Infine dello storicismo rifiuta la critica al positivismo. Per W. la visione del mondo positivista è fallita perché la realtà socio-culturale in cui gli uomini vivono è sempre diversa, non deducibile da leggi generali (il positivismo invece si era trasformato in una metafisica). Però W. resta fedele al concetto positivistico di scienza, secondo cui la validità delle affermazioni scientifiche si basa non su presupposti sovraempirici ma su dati empiricamente dimostrabili (i fatti vanno separati dai desideri). La “sociologia comprendente” di W. è il tentativo di conciliare storicismo e positivismo, cioè le connessioni storico-culturali con l’esigenza di una validità empirica. In questo senso W. tiene unito ciò che la sociologia precedente teneva diviso: ricerca empirica-elaborazione teorica-interpretazione generalizzante di formazioni sociali collettive. In Germania nessun altro seppe farlo e in Francia vi riuscì solo E. Durkheim. W. in sostanza cercherà di opporsi sia a quel “realismo” che attraverso organismi collettivi (come gruppi e istituzioni) voleva rendere indipendente le leggi sociali dall’individuo, sia quell'”idealismo” che voleva porre a fondamento della propria spiegazione i cd. “valori”.
Scopo e oggetto delle scienze storico-sociali
Oggetto e scopo delle scienze storico-sociali (in particolare della sociologia) è la comprensione oggettiva (in quanto “causale”) dell’agire sociale (cioè dotato di senso). Queste scienze hanno il compito di descrivere e spiegare conformazioni storiche individuali e regolarità dell’agire sociale. La comprensione delle scienze storico-sociali è diversa da quella delle scienze naturali, poiché qui le regolarità osservate si possono cogliere ricorrendo a quantificazioni e misure (alla matematica), in quanto per comprendere i fenomeni vanno prima spiegati con proposizioni confermate dall’esperienza (metodo deduttivo). Viceversa, nelle altre scienze, che studiano il comportamento umano, la comprensione è più immediata/intrinseca, non nel senso che il ricercatore comprende intuitivamente determinati comportamenti (come nella psicologia diltheyana), ma nel senso che sulla base dei testi e dei documenti il significato di un comportamento soggettivo/individuale diventa immediatamente comprensibile senza che si debbano cercare ulteriori conferme per poter stabilire una regola generale. Questo perché tra soggetto e ricercatore c’è un elemento comune: la coscienza (il che implica sempre un certo margine d’insicurezza nell’interpretazione). Per W. esiste una sola scienza, perché unico è il criterio di scientificità delle diverse scienze: quello delle spiegazioni causali. Naturalmente è possibile la scientificità anche in presenza di una scelta/selezione operata dal ricercatore, relativamente ai settori d’indagine, ai fenomeni, ecc. La scientificità non sta necessariamente nell’universalità del sapere. La selezione si opera in riferimento ai valori. I quali non sono etici, né assoluti o incondizionati, né obiettivi o universali. Riferirsi ai valori per W. significa semplicemente operare una scelta tecnica fra diversi campi d’indagine, fenomeni, problemi… Si tratta, infatti, di determinare, tra gli elementi di una serie causale individuata, uno schema di rapporti che sia suscettibile di verifica/controllo. Di qui l’uso della nozione di possibilità oggettiva. Il ricercatore non emette giudizi di valore, semplicemente delimita la propria ricerca per garantirsi meglio un esito scientifico. Si potrebbe in un certo senso dire che W. ai “giudizi di valore” (che sono personali e soggettivi) preferisce l’espressione “rapporto ai valori”, che implica un processo di selezione/organizzazione della realtà per ottenere una scienza oggettiva. Ad es. due soggetti storici possono esprimere giudizi di valore assai diversi sulla libertà politica: ebbene, compito del ricercatore è appunto quello di tener conto che tale libertà costituiva per quei soggetti un “valore”, che le loro interpretazioni erano diverse e che l’affermazione di una invece che dell’altra ha determinato precise conseguenze. Compito del ricercatore non è dunque quello di esprimere un giudizio su questo valore o sull’interpretazione che ne davano quei soggetti. Lo storico deve evidenziare gli aspetti salienti, dominanti di un’epoca/civiltà/formazione sociale… e delinearne lo svolgimento logico. La spiegazione causale non consiste nel riconoscere un evento come necessariamente determinato dalla serie causale (altrettanto necessaria) degli eventi precedenti, ma nell’isolare, in una situazione storica determinata, un campo di possibilità, mostrando le condizioni che hanno reso possibile la decisione in favore di un’alternativa invece che di un’altra. Il significato di questa decisione può essere colto mediante il confronto con le altre possibilità/alternative (W. cita l’esempio della battaglia di Maratona, in cui si confrontavano due possibilità: la prevalenza di una cultura religiosa/teocratica e il mondo spirituale ellenico. Prevalse la seconda alternativa che, a sua volta, fu condizione di un corso di eventi di carattere universale). La sociologia deve costatare i fatti non deve esprimere giudizi di valore su queste alternative. Ovviamente accettando il fatto compie indirettamente un giudizio di valore, ma la sociologia non ha lo scopo di ritenere l’affermazione di un’alternativa come un fatto necessario, che doveva per forza accadere, essendo un’alternativa migliore dell’altra.
[Rilievi critici]
W. aveva preso da Rickert l’esigenza di selezionare, in quello che per entrambi era il caos della storia, determinati valori, ma se ne distacca quando vuole affermare una metodologia avalutativa. Paradossalmente, proprio mentre W. cercava di distinguere le scienze storico-sociali da quelle naturali, applicava il metodo di queste a quelle, limitandosi a un’analisi meramente descrittiva e lasciando alla coscienza dell’interlocutore la facoltà di esprimere giudizi di valore, che proprio per questa ragione diventano del tutto irrilevanti.
Teoria del tipo-ideale
Per essere riconosciuta oggettiva la possibilità/alternativa dev’essere fondata su fatti accertabili in base alle fonti del periodo storico in cui la possibilità s’è espressa. In secondo luogo la possibilità deve essersi espressa in modo conforme alle regole generali dell’esperienza (quelle che reggono la motivazione della condotta umana): è il cd. “sapere nomologico”, che vale come criterio per l’autenticazione delle possibilità oggettive. Una semplice somma di fatti non porta con sé -dice W.- la conoscenza scientifica (“ingenuo empirismo”). Occorrono delle uniformità statistiche che corrispondano al senso intelligibile di un agire sociale. E comunque solo una parte limitata dell’illimitata quantità di fenomeni è per W. fornita di significato. W. in sostanza fa questo ragionamento: siccome l’atteggiamento altrui è definito secondo il carattere della problematicità e non della necessità (in quanto esistono sempre opzioni equivalenti che si possono scegliere), è impossibile delineare compiutamente, di questo atteggiamento, le caratteristiche, la natura, le modalità, per cui è preferibile individuare una gamma fluida di forme di atteggiamento, all’interno della quale sarà poi possibile definire una tipologia. In pratica W. enuclea, per astrazione, dei “tipi-ideali” di atteggiamento, costruiti accentuando unilateralmente uno o più punti di vista, in modo tale che ciascuno di essi presenti in forma “pura” determinate caratteristiche (di qui i concetti convenzionali di “economia cittadina” o “economia rurale”, ecc., in cui non è dato riconoscere i regimi storici di produzione cui essi si riferiscono). I “tipi-ideali” non sono ipotesi sulla realtà ma devono guidare le formazioni ipotetiche in una direzione positiva. Sono punti di partenza non di arrivo, poiché il maturarsi di una scienza suppone il loro superamento. Questo quadro concettuale, pur non avendo riscontri nella realtà, può permettere al ricercatore -secondo W.- di avere un metro di paragone. E’ un espediente euristico, uno strumento metodologico (i concetti “ideal-tipici” sono uniformità-limite) che si usa per misurare e comparare la realtà effettiva, controllando l’avvicinamento o la deviazione di questa al modello. W. in sostanza ha elaborato una vasta e complessa tavola sinottica comprensiva di tutte le fondamentali formazioni sociali, di ogni tempo ed epoca, disposte secondo criteri ordinatori rigorosamente definiti che le accomunano e le distinguono (le formazioni sociali per W. sono il frutto di determinati atteggiamenti: il capitalismo ad es. è frutto della razionalità connessa al profitto). In tal modo egli è convinto di poter trasformare una ricerca storica individualizzante (su un argomento specifico) in una di carattere generalizzante. Per spiegare i fatti storici -dice W.- c’è bisogno di leggi e queste vengono offerte dalla sociologia. Naturalmente il carattere sinottico del suo procedimento non vuole escludere la dimensione evoluzionistica. W. pone in ordine gerarchico i tipi-ideali di atteggiamento, disponendoli secondo un criterio di crescente razionalità: 1) il minimo di razionalità si trova nell’azione dettata dalla fedeltà a tradizioni-abitudini-costumi-credenze, 2) poi si passa all’azione determinata da un sentimento/istinto/stato d’animo; 3) poi ancora all’azione razionale rispetto a un valore (p.es. il capitano di una nave che decide di affondare con essa); 4) infine vi è l’azione razionale in rapporto a un fine (p.es. l’ingegnere che costruisce un ponte). L’azione razionale in rapporto a un fine è definita in funzione delle conoscenze dell’agente piuttosto che dell’osservatore o ricercatore. W. non dice che è oggettivamente irrazionale l’azione nella quale l’agente sceglie mezzi inadatti a causa dell’inesattezza delle sue conoscenze. La razionalità dipende dal fatto che l’agente ha concepito come adeguati i mezzi per raggiungere determinati scopi. In un certo senso per W. il fine giustifica sempre i mezzi, se chi li usa li ritiene adeguati al fine (di qui i paralleli con la politologia del Machiavelli, di cui condivideva l’idea che la politica non poteva preoccuparsi della moralità delle proprie azioni)). Viceversa, l’azione rispetto a un valore è razionale non perché l’agente consegue un fine, ma per restare fedele all’idea ch’egli si è fatto di un determinato valore (ad es. abbandonare la nave che affonda sarebbe per il capitano un’azione disonorevole, anche se di fatto è “poco pratica”). Nell’azione di valore W. ha in mente gli ideali dell’aristocrazia, nell’azione finalizzata a uno scopo ha in mente gli ideali della borghesia. Per W. infatti la società che si fonda sul tipo di atteggiamento più razionale è quella del moderno capitalismo, che è culmine e chiave di volta dell’intero complesso delle formazioni sociali. Tale razionalità è possibile solo quando si postula una realtà priva di ogni senso magico e che presupponga, sotto il profilo religioso, l’assoluta trascendenza della divinità.
[Rilievi critici]
W. è partito dall’idea che nella lotta tra opposti valori che si verifica nel mondo sia impossibile esprimere un giudizio di merito, cioè trovare un criterio dirimente, per cui ha preferito costruire artificialmente uno schema di comportamenti in cui questo o quel valore possa trovare una certa corrispondenza. W. non tiene conto del fatto che eventi singoli, individuali (come ad es. la battaglia di Maratona) non possono modificare interi processi storici: possono al massimo rallentarne la marcia, deviarli momentaneamente ma non invertirli o distruggerli completamente. Se ciò accade è perché quei processi erano già in via di dissoluzione, per cui taluni fatti singoli possono come rappresentare il “colpo di grazia”. In ogni caso la comprensione della dissoluzione non può essere dedotta dalle fonti dell’epoca, poiché non è possibile comprendere un’epoca dal giudizio che quell’epoca aveva di se stessa. Risulta atresì alquanto astratto il “sapere nomologico”, poiché le regole di cui W. si serve sono quelle dedotte dalla sua stessa epoca, che è quella capitalistica, ch’egli non mette mai in discussione e che anzi cerca di considerare come modello per tutte le epoche passate. W. è partito da esigenze importanti, quale ad es. quella di analizzare la formazione sociale capitalistica, ma poi è deviato nelle astrazioni della sociologia formale. Criticando Comte, nonché le idee giusnaturalistiche e contrattualistiche, W. non è risalito a Saint-Simon né a Marx, ma al kantismo. La distinzione tra scienza avalutativa e morale/politica valutativa ha infatti le sue radici nel kantismo. Alla sociologia delle “leggi”, nata direttamente dall’impianto positivista da Comte a Spencer, W. sostituisce la concezione del “tipo-ideale”: questo probabilmente era il massimo di scientificità possibile, nell’ambito borghese, dopo la crisi metodologica delle generalizzazioni positiviste. Significativo inoltre è il fatto che in Germania la scienza veniva fatta nelle Università, ove vigeva il principio che la politica andava lasciata ai politici. W. ha cercato di superare questo dualismo, trasformandosi in ricercatore che s’interessa di fatti politici, ma la sua posizione, in politica, è sempre rimasta intellettualistica o comunque moderata.
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo
Secondo W. alla razionalità del mondo moderno ha contribuito in misura determinante la religione protestante, che rappresenta il disincantamento dal mondo, cioè la fine delle illusioni (i grandi fini e valori del passato per W. vengono tenuti in vita solo dalla volontà degli uomini). Lo stesso capitalismo non è che l’effetto più rilevante del protestantesimo (da notare che il marxismo sosteneva il contrario). Si badi però: il capitalismo -per W.- non è nato dal protestantesimo tout-court ma dal razionalismo, di cui il protestantesimo è stato il veicolo più potente. Il protestantesimo (soprattutto nella sua variante calvinistico-puritana) è tanto ascetico sul piano religioso (in quanto rifiuta di darsi immagini della divinità, inoltre è essenziale nei riti, ha abolito molti sacramenti considerandoli magici, ha affermato il concetto di predestinazione e di sola fide/sola gratia…), quanto pratico e attivo sul piano economico. Il protestantesimo cioè avrebbe capito che all’uomo tutto è possibile se riconosce l’assoluta trascendenza della divinità (il che, in sostanza, è una forma di ateismo). Queste caratteristiche di praticità, razionalità hanno raggiunto il massimo di espressione nel capitalismo, che si è liberato di ogni riferimento alla religione. L’origine della volontà razionale, nell’ambito della religione, W. la fa risalire alla profezia israelitica, che predicando un dio temibile e inavvicinabile rendeva vani ogni magia e ogni misticismo. I profeti chiedevano un agire razionale in nome di Jahvè. La razionalità sarebbe dunque nata dall’alienazione, dall’acuta coscienza di un netto dualismo tra uomo e dio. La razionalità è la consapevolezza che non esiste un valore nel mondo, una legge o una “totalità simpatetica” che lo regoli per il bene dell’uomo. La razionalità è il tentativo di sopravvivere dandosi degli scopi, sulla base di interessi, il più delle volte contro gli interessi degli altri, poiché nella razionalità si afferma “la lotta dell’uomo contro l’uomo”. W. definisce il capitalismo come l’esistenza di imprese che hanno come scopo il massimo profitto da raggiungere attraverso l’organizzazione razionale del lavoro, profitto che, a differenza delle epoche precedenti, non viene semplicemente goduto ma reinvestito. La razionalità del capitalismo si esprime secondo W.: 1) nello sviluppo di una rigorosa scienza della natura, 2) nello sviluppo di un forte apparato statale, amministrativo e burocratico, 3) nello sviluppo di un diritto razionale-formale. In particolare per W. la crescita della burocrazia costituisce il fenomeno principale della società moderna. Né il capitalismo né il socialismo possono sfuggire alla pressione burocratica, che secondo W. può essere attenuata democratizzando la società. Tuttavia, siccome nella società burocratica l’uomo rischia di annullarsi, W. non era contrario all’idea di un “capo carismatico” che sapesse stabilire tra sé e le folle una comunicazione immediata. Per quanto riguarda il marxismo, W. non esprime un giudizio del tutto negativo: lo considera uno dei punti di vista mediante cui può essere condotta un’analisi teorica (quella che appunto evidenzia i fattori economici). Egli però considera illegittima la pretesa di fare di un unico fattore degli eventi storici (l’economia) il principio di spiegazione causale di ogni altro fattore. Le forze economiche sono troppo “cieche” per potersi porre come causa di fondo dei processi storici: le cause di fondo sono di origine culturale. La storia per W. è tutta un fenomeno culturale (come in Rickert); l’uomo è un essere solo culturale; la struttura economica capitalistica è lo “spirito” del capitalismo e lo spirito è anzitutto razionalistico. W. ha riconosciuto vero il marxismo laddove afferma che la fonte principale della moderna alienazione sta nella “lotta dell’uomo contro l’uomo”, condotta principalmente per motivi economici. Tuttavia, paragonando la libera concorrenza economica al processo darwiniano di selezione naturale, egli del marxismo non ha colto il momento “positivo”, che è appunto quello di non considerare tale concorrenza come un fenomeno “naturale”, cioè inevitabile. W. era spaventato dalla enorme avidità della borghesia tedesca, costretta a ciò a motivo della lentezza con cui si era incamminata sulla strada del capitalismo in Europa occidentale. Tuttavia W. era anche convinto che lo Stato tedesco avesse in sé forze sufficienti per tenere sotto controllo questo nuovo fenomeno. Secondo lui anzi doveva essere proprio l’imperialismo a far sì che l’idea di “nazione” sopravvivesse agli sconvolgimenti causati dalla libera concorrenza. La storia, la realtà sociale ha senso solo in quanto è l’uomo a dargliene uno consapevolmente. Ciò che conta non è ciò che l’uomo fa ma il modo in cui l’uomo considera ciò che fa. Oggetto della storia sono i comportamenti intenzionali degli uomini. L’oggettività sta nella volontà con cui si persegue uno scopo. La scienza può diventare scelta o atto di vita se si immedesima negli stessi fini, altrimenti è pura riflessione (astratta) su questi medesimi fini.
[Rilievi critici]
Manca completamente nella definizione di capitalismo il lato negativo e irrazionale di questo sistema, e cioè lo sfruttamento dell’uomo-proprietario dei mezzi produttivi sull’uomo-proprietario solo della propria forza-lavoro. Inoltre il marxismo non esclude l’influenza della sovrastruttura sulla struttura: afferma soltanto che in ultima istanza è la struttura che determina la sovrastruttura e che in ogni caso è nell’ambito della sovrastruttura che si prende consapevolezza delle contraddizioni della struttura e si organizza politicamente un modo (la rivoluzione) per superarle.
L’avalutatività delle scienze storico-sociali
W. ha cercato di fondare l’autonomia delle scienze culturali sulla base del concetto di “avalutatività”. Egli afferma che queste scienze, come quelle naturali, si basano sulla spiegazione causale per descrivere i fenomeni. Ora egli specifica che il riferimento al valore (da non confondersi col “giudizio di valore”, mai ammesso da W.), una volta costituito l’oggetto dell’indagine scientifica, deve sparire nella costruzione dell’edificio logico-concettuale, in modo che tutte le operazioni necessarie alla costruzione scientifica possano essere controllate da chiunque. “Descrizione” si oppone a “valutazione”. La considerazione scientifica concerne la tecnica dei mezzi non la valutazione degli scopi. W. non nega l’importanza della valutazione, dice soltanto ch’essa, essendo una presa di posizione pratica, esce fuori dal compito descrittivo della scienza: “quando ciò che vale normativamente diventa oggetto di un’indagine empirica, perde, come oggetto, il carattere normativo: viene considerato come esistente non come valido”. W. in sostanza rinuncia a una fondazione scientifica dell’atteggiamento etico o politico. Egli non ha mai cercato di trovare una legittimazione alle azioni etico-politiche, ma si è limitato a chiarire in che misura è possibile verificare se certe asserzioni scientifiche sono vere o false, se cioè esistono dei presupposti verificabili. W. afferma la relatività dei valori, che sono assoluti sono nell’epoca in cui sono stati vissuti. Non esiste tribunale -egli afferma- che possa decidere del valore relativo della cultura tedesca e della cultura francese. Ogni universo di valori comporta un senso proprio e obbedisce a proprie leggi. E’ impossibile presentare in termini scientifici un atteggiamento pratico, “tranne il caso della discussione sui mezzi per uno scopo che si presuppone già dato”. Relativamente alla scelta di un valore/fine/scopo il destino è superiore alla scienza. Le ipotesi sovraempiriche (vedi ad es. Rickert) in W. non sono mai valori validi assolutamente (o idee), ma prospettive della ricerca, in base alle quali si possono porre determinate questioni e costruire metodi, che devono trovare la loro giustificazione nelle loro stesse conseguenze pratiche non in altro. Il valore per W. sussiste solo nel momento in cui il ricercatore prova un interesse per un oggetto/problema specifico. Scienza e oggetti conoscitivi infatti non sono costituiti da connessioni obiettive di cose, valori o idee, ma da connessioni di interessi e problemi di ricerca.
[Rilievi critici]
Nessuna ricerca scientifica è avalutativa. La scelta stessa di un determinato oggetto su cui indagare o di porre un determinato problema esige una valutazione. Non si garantisce la scientificità della scienza separandola dall’etica o dalla politica: la scienza che insegna come agire -dice W.- è una “fede”: sì, ma esattamente come quella che pretende di non insegnare alcunché. La differenza sta nel fatto che sulla ragionevolezza dei criteri della prima scienza è sempre importante discutere, poiché essi riguardano la prassi. W. ha detto che “la verità scientifica vuole essere valida solo per coloro che vogliono la verità”. Ma coloro che dicono di volere la verità potrebbero anche arrivare a credere in una verità non scientifica. W. dà per scontato che la conoscenza della verità sia possibile solo attraverso un atteggiamento onesto. E’ vero che l’oggettività della verità non implica di per sé la sua accettabilità, ma tale accettabilità non aumenta facendo dipendere l’oggettività dalla soggettività del ricercatore e dell’interlocutore cui quello si rivolge. Una scienza di tal genere non è molto diversa dalla religione: nel migliore dei casi si tratta di una mera tecnica che chiunque può utilizzare per scopi diversissimi. Da questo punto di vista (che è squisitamente kantiano, in quanto si afferma il conoscere per il conoscere) sarebbe interessante esaminare il nesso esistente tra la razionalità avalutativa affermata in campo scientifico e la conseguenza irrazionale sul piano politico che tale affermazione più o meno direttamente può comportare. W. ha sempre sottovalutato il fatto che nella moderna alienazione della società capitalistica la razionalità può facilmente trasformarsi in irrazionalità. Al massimo si può accettare, di W., l’esigenza di tenere distinti il riconoscibile (da tutti) dal desiderabile (per il ricercatore), onde permettere un sapere verificabile intersoggettivamente. W. riflette l’esigenza di una borghesia emergente che non vuole confrontarsi politicamente sul problema dei valori, essendo convinta di non avere le forze sufficienti per farlo. Egli rappresenta una borghesia che vuole convivere con i valori tradizionali (aristocratico-feudali) in cui però non crede più e dai quali si difende mostrando il non-senso dell’esistenza umana. Per W. non ci sono leggi storiche: l’autore dell’azione è sempre e solo l’individuo, mentre il mondo non è che un immenso e caotico flusso di eventi, un’incessante lotta per la vita in cui l’uomo accetta la socializzazione solo per meglio sopravvivere. W. è ostile ai valori tradizionali (vuoti di contenuto in quanto non rispondenti alla realtà) in nome della libertà d’iniziativa del singolo borghese. Ciò che “deve essere” non è più un valore che può essere riconosciuto da tutti con ovvietà; esso anzi è divenuto problema della scelta/decisione individuale, del cui peso non si può essere alleggeriti dalla scienza, il cui compito non è l’apologia di valori/azioni ma la conoscenza di situazioni. Il carattere scientifico dev’essere motivato in modo strettamente soggettivo, in base alle scelte compiute, senza riferimenti a idee sovratemporali. La borghesia tedesca non era rivoluzionaria come quella francese: essa voleva soltanto affermare che nella società civile vi possono essere diverse alternative per l’uomo che deve scegliere. Questa borghesia vuole vincere sul terreno speculativo (filosofico-scientifico non filosofico-metafisico) la propria battaglia contro l’aristocrazia.
Osservazioni sulle concezioni politiche di Weber
W. scrisse poco sulla lotta tra gli Stati, sulle nazioni e sugli imperi, sulle relazioni tra cultura e potenza. Praticamente egli accettò il nazionalismo della Germania guglielmina per pura tradizione, cioè senza mai metterlo in discussione. L’altro aspetto che gli sembrava del tutto naturale, cioè assolutamente immodificabile (e in questo egli si era lasciato influenzare dalla visione darwiniana della realtà sociale) era la lotta tra le classi (e gli individui) per il potere. W. aveva saputo cogliere l’asprezza delle contraddizioni dell’epoca borghese nel suo stadio di capitalismo-monopolistico e imperialistico, ma si era fermano semplicemente a contemplarla. Ai suoi occhi un popolo o un individuo privi di “volontà di potenza” (e in ciò egli si avvicinava a Nietzsche) si trovano automaticamente fuori della politica. Egli infatti disse che “soltanto i popoli superiori [il primo dei quali ovviamente era quello tedesco] hanno la vocazione di dare una spinta allo sviluppo del mondo”. La superiorità dei tedeschi, in questo senso, si manifestava -secondo W.- nella “cultura”: “Prestigio culturale e prestigio di potenza sono strettamente congiunti, ogni guerra vittoriosa promuove il prestigio culturale…”. W. avvertiva questa caratteristica dell’epoca moderna con un senso di attrazione/repulsione: era convinto che sulla base di essa la persona umana o la nazione potesse esprimere il meglio di sé, ma nel contempo si rendeva conto del pericolo opposto, quello di affermare i lati peggiori delle cose. Tant’è che ad un certo punto arrivò a sostenere che i veri valori possono realizzarsi in nazioni prive di “potenza politica”, cioè in comunità che rinunciano a fare politica tout-court. In questo senso W. non è mai giunto a sostenere delle posizioni nichiliste o irrazionali, ma non poche sue tesi vi conducono. Di qui i lati contraddittori di certe sue prese di posizione: si oppose all’idea di un accordo di compromesso con la Francia a proposito della Lorena e considerò ridicola l’idea di un plebiscito in Alsazia, eppure fece di tutto per convincere la Francia a coalizzarsi con la Germania contro la Russia; non voleva assolutamente l’assorbimento nel Reich delle popolazioni non-tedesche o di quelle ostili, ma ha sempre rifiutato l’idea di suddividere l’Europa centrale in Stati nazionali che comprendessero minoranze nazionali; avendo stabilito che la Russia era il nemico principale del Reich, raccomandò a più riprese, nel 1914-18, una politica tedesca favorevole alla Polonia, la quale avrebbe potuto fare da cuscinetto all’imperialismo panslavo, eppure non ha mai voluto ammettere l’idea di riconoscere piena indipendenza allo Stato polacco (il massimo che fece fu di smettere di protestare contro l’immigrazione in Germania dei lavoratori polacchi e abbandonò completamente le antiche idee di colonizzazione tedesca verso est). Alla lotta interna fra le classi e gli individui, W. ha sempre preferito la lotta esterna fra le nazioni, in quanto ha sempre sostenuto il primato della politica estera e l’obiettivo di fare di una Germania unita e forte una nazione capace di “politica mondiale”. In tal senso W. ha sempre cercato di combinare il parlamentarismo con il nazionalismo imperialistico, anche in funzione anti-nobiliare e anti-monarchica: egli non ha mai risparmiato le critiche alla Germania guglielmina e all’autorità patriarcale degli junkers. Non a caso considerava i funzionari dei di governo dell’imperatore dei burocrati privi di senso della lotta politica. W. ha sempre contestato la politica di potenza che si presentava in maniera superficiale, senza professionalità e competenza, il che implica rischio, morale della convinzione (quella di chi obbedisce agli imperativi della propria fede, quali ne siano le conseguenze) e soprattutto etica della responsabilità (quella con cui si accetta la realtà con le sue regole dure e spietate, che spesso portano a drammi e tragedie). W. non è mai stato un politico “puro” della borghesia, ma solo un suo intellettuale, che il più delle volte è insofferente ai compromessi del potere, alla logica delle “correnti”.
“Un esperto è una persona che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di nulla.“
A cura di Swif.it
LA SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE
Può destare sorpresa che, nella Premessa – scritta nel 1920, cioè poco prima della morte – alla monumentale Sociologia della religione, Weber dichiari esplicitamente la propria relativa incompetenza in tema di religioni non cristiane. Egli riconosce di aver utilizzato delle traduzioni, non essendo in grado né di leggere direttamente i testi religiosi indiani e cinesi, né di “valutarli in modo autonomo” (p. 16). Solo per ciò che riguarda la sezione ebraica afferma di aver potuto avvalersi di una sommaria conoscenza della lingua. Ne consegue che questi scritti sono da intendersi come assolutamente provvisori e destinati a essere superati quanto prima da indagini più approfondite. L’A. si augura che “il sinologo, l’indologo, il semitista, l’egittologo” non vi trovino “nulla di essenziale per il tema che dovesse venir giudicato errato dal punto di vista dei fatti” (ibid.). Come si spiega il fatto che uno studioso così scrupoloso e altrimenti avverso a ogni forma di dilettantismo (“Il dilettantismo come principio della scienza ne segnerebbe la fine. Chi vuole la ‘visione’ vada al cinematografo”, ibid.) si sia cimentato in un’impresa così rischiosa? Il motivo è chiaramente spiegato dallo stesso Weber: “Essi sono stati scritti soltanto perché, come si può comprendere, finora non esistevano analisi specialistiche condotte con questo fine particolare e da questi particolari punti di vista” (ibid.). In primo luogo, dunque, si tratta di colmare una lacuna, sia pure in modo provvisorio; in secondo luogo, ciò che l’A. si propone è verificare una tesi non attinente in senso stretto alla sociologia della religione: la specificità del razionalismo occidentale e del modo di produzione capitalistico. Certo, se si usa il termine capitalismo in senso generico, tratti riconducibili a questo modello sono riconoscibili in epoche e in ambiti geografici assai diversi, anche nell’antichità e in Oriente. Ma se con questo termine s’intende “l’organizzazione capitalistico-razionale del lavoro (formalmente) libero”, connessa con “la separazione tra economia domestica e impresa” e con “la tenuta razionale dei libri” (p. 11), bisogna concludere che si tratta di un fenomeno temporalmente e geograficamente assai circoscritto: un fenomeno specificamente occidentale e moderno. Solo l’Occidente – secondo Weber – ha conosciuto quel processo di razionalizzazione che ha dato luogo allo Stato (“Lo ‘Stato’ stesso, nel senso di un’istituzione politica con una ‘costituzione’ razionalmente statuita, con un diritto razionalmente statuito e con un’amministrazione affidata a funzionari specializzati (…) è noto in questa combinazione essenziale di elementi decisivi (…) solamente in occidente”, p. 7) e al modo di produzione capitalistico, inteso come la “forza più fatale della nostra vita moderna” (ibid.). L’opera si apre con i due saggi più vecchi, vale a dire L’etica protestante e lo spirito del capitalismo e Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, pubblicati per la prima volta fra il 1904 e il 1906. Qui Weber avanza la celeberrima tesi secondo la quale il tratto specifico dell’occidente capitalistico sarebbe da ricondurre all’influenza esercitata dall’etica calvinista. Differenziandosi da Werner Sombart, il quale riteneva che un ruolo decisivo nella nascita del capitalismo moderno fosse stato svolto dagli ebrei, l’A. individua tale elemento nella religiosità propria del calvinismo, “intento – come scrive Pietro Rossi nell’Introduzione – a cercare ‘nel mondo’, cioè nell’attività economica, il presagio del destino nell’aldilà” (p. X). Non si tratta però di una derivazione di tipo meccanico: così come rifiuta il materialismo storico, inteso come rapporto immediato fra struttura e sovrastruttura, allo stesso modo Weber rifiuta di dedurre tout court il capitalismo dalla sfera religiosa: “Non può naturalmente essere nostra intenzione sostituire ad un’interpretazione causale della civiltà e della storia in senso unilateralmente ‘materialistico’ un’altra interpretazione altrettanto unilateralmente ‘spiritualistica’. Entrambe sono parimenti possibili, ma con l’una e con l’altra si serve altrettanto poco la verità storica, qualora essa pretenda di costituire non già un lavoro preparatorio, ma una conclusione dell’indagine” (pp. 186-187). Il meccanismo di imputazione causale di un fenomeno storico, insomma, appare all’A. complesso e non univoco. Per ciò che riguarda il capitalismo e il razionalismo occidentale, se non si devono trascurare “le condizioni economiche, data la fondamentale importanza dell’economia” (p. 15), occorre tenere nella massima considerazione anche la mentalità religiosa. Le ricerche di sociologia dedicate alle religioni non cristiane servono allora a confermare e completare le tesi avanzate ne L’etica e ne Le sette. Per questo motivo, l’interesse che muove Weber in questa direzione di ricerca “non si può qualificare come propriamente religioso” (p.X): infatti, “se in un determinato ambito storico la religione si è rivelata la premessa indispensabile della specifica mentalità del capitalismo moderno, è lecito presumere che altrove essa abbia esercitato una funzione analoga oppure, al contrario, abbia impedito l’affermarsi di forme di economia capitalistica” (p. XV). Se la prima parte dell’opera raccoglie le ricerche dedicate all’etica calvinista, le parti successive raccolgono gli studi dedicati rispettivamente all’etica economica del confucianesimo e del taoismo, dell’induismo e del buddismo e infine del giudaismo antico. Il confucianesimo è caratterizzato dalla presenza di un esteso e articolato apparato burocratico che si fa portatore di un’etica ‘conformista’, tendente a confermare e perpetuare l’assetto esistente. Nell’induismo abbiamo la presenza di un ceto sacerdotale inserito in posizione di privilegio all’interno di un rigido sistema di caste. Analogamente alla burocrazia confuciana, anche tale ceto è interessato a promuovere un’etica economica di stampo conservatore. Nel giudaismo antico, il ceto intellettual-religioso più rilevante è invece quello dei profeti: per arginare la diaspora del popolo ebraico, si fanno promotori di un’etica religiosa incentrata sulla nozione di redenzione in grado di garantirne e perpetuarne l’unità spirituale anche lontano dalla terra promessa. Se dunque induismo e confucianesimo sembrano assolvere a una funzione giustificativa nei confronti dell’assetto esistente, sia dal punto di vista sociale che economico, il giudaismo antico prefigura invece una trasformazione, almeno nei termini dell’annunciata redenzione del popolo ebraico. Ma è con il cristianesimo che si realizza una decisa rottura nei confronti dell’assetto economico e politico esistente. Essa, scrive Rossi, “ha condotto al rifiuto delle forme tradizionali di attività economica, giungendo nel Protestantesimo ascetico a concepire la ricerca del profitto come la ricerca del segno dell”elezione’ divina e quindi di una promessa di salvezza eterna” (ibid.). Si legge infatti ne L’etica: “Fin dove arrivò la potenza della concezione puritana della vita, essa favorì in ogni circostanza (…) la tendenza ad una condotta di vita borghese, economicamente razionale. Essa fu il suo sostegno essenziale e soprattutto l’unico sostegno coerente. Essa fu all’origine dell”uomo economico’ moderno” (p. 177). Naturalmente, nel momento in cui questi movimenti nacquero, non esercitarono subito un’influenza positiva sull’elemento economico: all’inizio era troppo forte la spinta strettamente religiosa. Quell’influenza cominciò a manifestarsi poco alla volta, man mano che l’iniziale entusiasmo andava scemando e trasformandosi, per così dire, in energia intramondana: “Quei potenti movimenti religiosi (…) dispiegarono la loro piena influenza economica soltanto dopo che era già stata superata l’acme dell’entusiasmo puramente religioso, quando lo spasimo della ricerca del regno di Dio cominciava a risolversi gradatamente nella sobria virtù professionale, quando la radice religiosa si inaridiva lentamente facendo posto all’utilitarismo dell’aldiquà” (p. 179). Si tratta di uno snodo essenziale, perché rivela come per l’A. la connessione fra religione ed economia non sia affatto pacifica, ma costituisca un campo di tensioni destinate nel tempo a radicalizzarsi sempre più. Su questo punto converrà rifarsi alla Zwischenbetrachtung e alle ultime, ispirate pagine de L’etica. Nella cosiddetta Zwischenbetrachtung, ovvero nell’Intermezzo: Teoria dei gradi e delle direzioni del rifiuto religioso del mondo, Weber prende in esame il rapporto di tensione che si istituisce fra le religioni, in particolare quelle basate sull’idea di salvazione, e la sfera dell’agire profano. Particolarmente significativa è l’analisi della tensione fra religione e conoscenza. Da un lato, la religione appare come un importante strumento di razionalizzazione del mondo (si pensi a questo proposito al ruolo, evidenziato in Economia e società [Tübingen 1922; trad. it. Milano 1961], svolto dall’istituzione Chiesa nel processo di formazione dello stato moderno); dall’altro, quanto più l’occidente dispiega la propria razionalità, tanto più si emancipa dalla sfera religiosa e dalle spiegazioni della realtà fondate su un principio trascendente. È il cosiddetto ‘disincantamento del mondo’. Tale processo dà luogo, per usare le parole di Julien Freund, “a una tecnica puramente meccanica e a una conoscenza razionale dei problemi, di modo che la religione si trova sempre più relegata fra le forze irrazionali e antirazionali che esigono il ‘sacrificio dell’intelletto'” (Sociologia di Max Weber (1966), trad.it., Milano 1968, p. 187). Se lo stato moderno eredita per molti versi la razionalità giuridica della Chiesa cattolica, se il capitalismo è debitore nei confronti dello spirito calvinista, tuttavia il processo di sviluppo dell’occidente sembra volgersi infine contro ciò che l’ha generato. L’A. esprime questo concetto nelle ultime pagine de L’etica attraverso la famosa metafora della gabbia d’acciaio: “Quando infatti l’ascesi fu trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a dominare l’eticità intra-mondana, essa cooperò per la sua parte all’edificazione di quel possente cosmo dell’ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con stravolgente forza coercitiva (…) lo stile di vita di tutti gli individui nati in questo ingranaggio, e non soltanto quelli direttamente attivi nell’acquisizione economica. Secondo l’opinione di Richard Baxter, la cura per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come un ‘sottile mantello che si possa gettare via in ogni momento’. Ma il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio. Mentre l’ascesi intraprendeva lo sforzo di trasformare il mondo e di esercitare la sua influenza nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere crescente e, alla fine, ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia. Oggi il suo spirito – chissà se per sempre – è fuggito da questa gabbia” (p. 185). In queste righe si avverte la tipica polarità che anima lo sforzo intellettuale di Weber e che tanto contribuisce alla sua forza fascinatrice. Da un lato, si rivolge al proprio oggetto di studio con lo sguardo oggettivo e disincantato di chi analizza, secondo le parole di Bobbio, “un processo ormai compiuto” (“La teoria dello Stato e del potere”, in P. Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Torino 1981, p. 243). Dall’altro, appare emotivamente coinvolto – e dunque politicamente partecipe – dinanzi ai rischi connessi a questo processo apparentemente inarrestabile di tecnicizzazione impersonale. Come è stato giustamente osservato, la riflessione weberiana, “lungi dal risolversi in una pacata rassegna delle tappe trascorse e in una fatalistica rassegnazione all’ineluttabilità del destino, è attraversata sino alla fine da una drammaticità derivante dall’acuta intuizione che gli esiti del processo di razionalizzazione non sono né pacifici né scontati” (G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma 1983, p. 96).
LA RAZIONALITA’
Secondo Max Weber, l’Occidente ha avuto uno sviluppo diverso rispetto a quello di ogni altra cultura al mondo: ciò in virtù del fatto che soltanto in Occidente il processo di razionalizzazione è progredito a tal punto da investire globalmente i sistemi di credenze, le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e addirittura le attività artistiche. Anche altrove la razionalizzazione ha avuto la sua importanza, ma mai come in Occidente: infatti – nota Weber – nei Paesi non occidentali essa non si è mai spinta ad inglobare ogni credenza e perfino l’attività artistica. Weber si interroga dunque su questo “sviluppo singolare” (Sonderentwicklung) e addiviene alla conclusione che esso è dovuto precipuamente al fatto che solamente in Occidente si è sviluppato un sistema di credenze che, ponendo il sacro (e quindi la divinità) su un piano assolutamente trascendentale rispetto al mondo terreno, ha consentito di guardare alla realtà naturale e umana come ad una realtà oggettiva, priva di significati magici e, pertanto, manipolabile – senza restrizioni – dalla volontà umana. L’ordine sociale, liberato dalla sacralità della tradizione, ha potuto così subire un processo di radicale trasformazione nella direzione della modernità e, all’interno di tal processo, un ruolo di primaria importanza è stato svolto dalla scienza (qui si innesta poi la distinzione weberiana “tra scienze naturali”, le quali spiegano, e “scienze sociali”, le quali, oltre a spiegare, comprendono). Il processo di razionalizzazione comporta una sempre crescente ed estesa razionalizzazione del mondo e dell’uomo che lo abita: l’uomo occidentale è, dunque, un uomo razionale, non già nel senso che tutto ciò che fa è razionale, ma piuttosto nel senso che egli può agire razionalmente e in ciò risiede la differenza tra uomo e natura: in natura ogni cosa pare avere un senso, così la pioggia ha senso se riferita al raccolto, ecc; ma se consideriamo in maniera a sé stante ogni singolo fenomeno naturale, ci accorgiamo che ciascuno di essi, di per sé, non ha senso (che senso ha, di per sé, la pioggia?); diverso è il caso delle azioni umane, che anche di per sé prese hanno un senso. A tal proposito, Weber suddivide (in Economia e società, cap.I) l’agire razionale in quattro diverse categorie:
1] “agire razionale rispetto allo scopo”: un’azione si dice razionale rispetto allo scopo se chi la compie valuta razionalmente i mezzi rispetto agli scopi che si prefigge, considera gli scopi in rapporto alle conseguenze che potrebbero derivarne, paragona i diversi scopi possibili e i loro rapporti;
2] “agire razionale rispetto al valore”: un’azione si dice razionale rispetto al valore quando chi agisce compie ciò che ritiene gli sia comandato dal dovere, dalla dignità, da un precetto religioso, da una causa che reputa giusta, senza preoccuparsi delle conseguenze;
3] “agire determinato affettivamente”: l’agire determinato effettivamente si ha nel caso di azioni risolvibili in pure manifestazioni di gioia, gratitudine, vendetta, affetto o di altro stato del sentire; come le azioni razionali rispetto al valore, anche quelle determinate affettivamente hanno senso di per se stesse, senza riferimento alle possibili conseguenze; tuttavia – a differenza delle azioni razionali rispetto al valore – queste non hanno riferimento consapevole all’affermazione di un valore, trattandosi piuttosto dell’espressione di un bisogno interno;
4] “agire tradizionale”: l’agire tradizionale è semplice espressione di abitudini; è dunque una reazione abitudinaria a stimoli ricorrenti, comportamenti che si ripetono senza interrogarsi su possibilità alternative e sul loro reale valore, senza porsi il problema se vi siano o meno altre vie per raggiungere gli stessi risultati.
Brani Antologici
JOHN SEARLE
INTRODUZIONE
A cura di Matteo Abbà
John R. Searle, nato a Denver (Colorado) nel 1932, occupa un ruolo di primo piano nella comunità filosofica internazionale. Formatosi a Oxford, alla scuola dei “filosofi del linguaggio ordinario” come John Austin e Peter Strawson, dove ha insegnato dal 1956 al 1959, John Searle è uno dei maggiori filosofi americani contemporanei. Dalla fine degli anni cinquanta è professore di filosofia del linguaggio e di filosofia della mente all’Università di Berkeley in California. Le sue indagini filosofiche spaziano dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della mente, all’intelligenza artificiale e alla realtà sociale. E’ di prossima uscita, presso l’editore Raffaello Cortina, l’ultimo lavoro di Searle, dal titolo, in inglese, Mind, Language and Society. L’ambito nel quale il lavoro di Searle si è particolarmente sviluppato, fin dalla fine degli annai cinquanta, è sicuramente quello relativo al concetto di intenzionalità. Nata con Brentano e ripresa poi da Husserl che ne ha fatto un concetto-chiave della fenomenologia, l’intenzionalità rappresenta un tema di attualità nel dibattito filosofico. Edmund Husserl riconosce all’intenzionalità (anche sulla scorta del concetto di significato derivato da Frege) il ruolo di dare (costituire) significato all’oggetto indagato. Intenzionalità non significa, in questo contesto, instaurazione di una rapporto causale ma rappresenta l’atto attraverso il quale l’oggetto assume e mostra significato. Nell’opera del 1983, Intentionality. An Essay in the Philosophy of Mind, John R. Searle si sforza di ricondurre il concetto di intenzionalità all’interno della relazione tra corpo e mente, eliminando il trascendentalismo proprio dell’accezione husserliana. Perché questo sia possibile Searle deve riuscire a dimostrare una sorta di bidirezionalità del processo intenzionale che, sotto alcuni aspetti, oltre a presupporre causalità conoscitiva, dovrà procedere anche in modo autoreferenziale. E’ quanto succede, secondo Searle, ad esempio nel processo percettivo. La sua interpretazione dell’atto visivo concretizzata nella visione di un auto, viene così descritta:
Ho un’esperienza visiva con la mente che trova conferma nel mondo il cui contenuto intenzionale è [(a) c’è un’automobile prima di me, (b) che c’è un’automobile che sta causando l’esperienza visiva]
Ecco che in questo passo appare evidente sia il processo autoreferenziale sia il processo causale. Infatti il contenuto intenzionale dell’atto conoscitivo (che può essere individuato nella proposizione a) per essere vero, per potersi dire soddisfatta la condizione di veridicità, sembra necessitare sia della verifica dell’esistenza effettiva di un’automobile prima di me sia del processo causale che si instaura tra l’oggetto conosciuto e l’atto intenzionale (proposizione b). A partire da questa revisione del concetto di intenzionalità e della sua interpretazione collegata alla causalità, Searle ritiene possibile ridurre la dicotomia tra l’intenzionalità considerata dal punto di vista trascendentale ed il mondo naturale. Infatti, così scrive sempre nell’opera del 1983:
La coscienza e l’intenzionalità sono parte della biologia umana tanto quanto la digestione o la circolazione sanguigna. E’ un fatto oggettivo relativo al mondo che questo contenga sistemi (cervelli) con stati mentali soggettivi, ed è un fatto fisico relativo a questi sistemi che essi abbiano caratteristiche mentali. La soluzione corretta al problema “mente-corpo” non è nella negazione della realtà dei fenomeni mentali ma nell’apprezzamento della loro natura biologica.
Il tema del rapporto tra corpo e mente non viene assolutamente abbandonato da Searle, anzi. Se nel 1983 il punto cardine del suo processo di ricerca era il concetto di intenzionalità, nel 1992 l’attenzione si sposta sul concetto di coscienza. In The Rediscovery of the Mind l’attenzione di Searle si concentra sul rapporto tra la coscienza e la scienza, in particolare sulle difficoltà di quest’ultima nell’affrontare e spiegare gli atti di coscienza. Secondo Searle la coscienza si struttura in base ad una ontologia soggettiva che non può essere raccolta nel concetto di ontologia oggettiva che per la scienza rappresenta il modello, il paradigma della verità. Queste posizioni vengono riprese e approfondite in un lavoro più recente, The Mystery of Consciousness del 1997 nel quale Searle riprende e completa le riflessioni avviate in The Rediscovery of Mind. In merito al discorso relativo al rapporto tra coscienza e scienza, Searle sottolinea lo scarto che esiste tra l’esigenza che la scienza necessita dal proprio oggetto d’indagine, dal punto di vista epistemico, quindi l’oggettività epistemica e ciò che invece non può esigere (cioè l’oggettività ontologica). E a partire da queste considerazioni che la coscienza può e deve, secondo Searle, perdere qualsiasi aura di mistero e diventare parte integrata della lettura scientifica.
Ma quest’ultima caratteristica, l’oggettività ontologica, non è un tratto essenziale della scienza. Se la scienza deve “render conto” di come il mondo è strutturato e se gli stati soggettivi di coscienza sono parte del mondo, ecco che dovremmo cercare uno stato (epistemicamente) oggettivo di una realtà (ontologicamente) soggettiva, la realtà degli stati soggettivi di coscienza. Ciò che sto sostenendo qui è la possibilità di avere una scienza epistemicamente oggettiva di una realtà che è ontologicamente soggettiva.
Se il rapporto tra coscienza e scienza si gioca sul concetto di soggettività ontologica, Searle ribadisce la relazione esistente tra corpo e mente. Infatti anche la coscienza (come l’intenzionalità con cui è strettamente collegata) è espressione di un’attività biologica del corpo umano e non agisce ad un livello separato o “trascendente” rispetto all’organicità del corpo umano. Secondo Searle gli stati di coscienza non sono altro che il risultato di processi neurobiologici del cervello umano. Questa relazione causale tra attività cerebrale e coscienza non deve dare adito alla convinzione che a partire da ciò si possa parlare di una realtà fisica ed una realtà mentale delle cose, anzi. Proprio assumendo questa relazione si devono riconoscere diversi livelli di “manifestazione” del sistema corpo-mente che spiegano quanto sintetizzato fino ad ora.
I processi cerebrali causano gli stati di coscienza ma gli stati di coscienza che causano non sono sostanze o entità estranee. Non sono altro che un la forma di un livello più alto dell’intero sistema. Le due relazioni cruciali tra la coscienza ed il cervello possono così essere riassunte: livelli più bassi di processi neuronali nel cervello causano gli stati di coscienza e gli stati di coscienza sono semplicemente un livello più alto di manifestazione del sistema che ha origine dall’attività neuronale di livello più basso.
La riflessione di Searle su intenzionalità e coscienza ha permesso di sviluppare un paradigma del funzionamento dell’attività cerebrale e della relazione di questa con il corpo e la fisicità dell’uomo. A partire da queste considerazioni, Searle elabora, a partire dai primi anni ottanta, una forte critica al modello che vorrebbe equiparare il funzionamento cerebrale a quello di un computer (funzionalismo). Searle nega con decisione questo parallelo, ribadendolo con forza anche in una recente intervista.
“Quando ho cominciato ad occuparmi dell’intenzionalità e della coscienza mi sono inevitabilmente trovato a riflettere sui contenuti della teoria computazionale, che sostiene l’analogia tra la mente e il computer e a riscontrarne un grave errore di fondo: la teoria computazionale si applica alla manipolazione di simboli, a 0 e 1. Ma la mente implica qualche cosa di più della manipolazione di simboli: la mente non possiede soltanto una sintassi, ma anche una semantica“.
E per dimostrare questo assunto nel 1980 in un articolo intitolato Minds, Brains and Programs, Searle presenta il cosiddetto argomento della stanza cinese (The Chinese Room Argument) che resta tutt’oggi argomento di dibattito e discussione per la comunità filosofica internazionale. L’obiettivo di Searle è quello di dimostrare fondamentalmente quattro proposizioni: a) i programmi per computer sono formali o sintattici; b) il cervello umano ha dei contenuti mentali o semantici; c) la sintassi di per sé non costituisce e non è neppure sufficiente per originare la semantica; d) si conclude che i programmi di computer non sono costitutivi e neppure sufficienti per il cervello. Per verificare la validità di queste asserzioni, Searle ipotizza la realizzazione di un esperimento che ha proprio lo scopo di dimostrare la differenza tra cervello umano e computer. Si ipotizzi di chiudere un soggetto che conosce la sola lingua inglese in una stanza e fornirlo di istruzioni, in lingua inglese, per ordinare correttamente tra loro i caratteri della lingua cinese. Ora, in base a queste istruzioni e partendo da alcuni caratteri ricevuti dall’esterno della stanza, il soggetto restituisce i caratteri ordinati in modo diverso. L’esempio prevede che i caratteri in ingresso nella stanza rappresentassero delle domande e le istruzioni a disposizione del soggetto all’interno della stanza gli permettessero di disporre in caratteri in modo tale da fornire le corrette risposte alle domande. Coloro che ricevono le risposte all’esterno della stanza sono cinesi ed essi, all’insaputa di tutto, potranno pensare che all’interno della stanza vi sia un soggetto in grado di scrivere e comprendere il cinese ma evidentemente così non è. A partire da queste considerazioni, alla domanda se la mente può essere considerata alla stregua di un programma di computer, Searle risponde così in uno scritto degli anni novanta:
Poiché i programmi sono definiti esclusivamente da un punto di vista formale o sintattico e poiché il cervello ha un contenuto mentale intrinseco, ne deriva immediatamente che il programma di per se stesso non può essere equiparabile al cervello. La sintassi formale del programma non garantisce da sé la presenza del contenuto mentale. Ho già dimostrato questa realtà una decina di anni fa, nell’argomento della stanza cinese. Un computer, io per esempio, può compiere le diverse operazioni del programma relative ad alcune abilità mentali, come capire il cinese, senza comprenderne una parola. L’argomento si basa sulla semplice verità logica che la sintassi non è identica e neppure da sé sufficiente alla semantica.
In realtà, le ricerche di Searle attorno al concetto di intenzionalità, coscienza, intelligenza artificiale, si concretizzano in un progetto unico che sembra avviarsi a sintesi in un’opera del 1995, significativa fin dal titolo, The Construction of Social Reality. In questo testo che sembra chiudere il circolo di una ricerca avviata alla fine degli anni sessanta con Speech Acts (1969), l’attenzione di Searle si focalizza su come sia possibile che la coscienza ed i fenomeni intenzionali si integrino in un mondo costituito di particelle fisiche calate in diversi campi di forza. La risposta a questa domanda si articola a partire dall’enunciazione di due principi, già presenti nelle opere precedenti. Il primo, il cosiddetto principio di costituzione per cui X costituisce Y nel contesto C ed il principio di traslazione per cui X conta come Y nel contesto C. Il principio di costituzione permette a Searle di spiegare la relazione tra l’aspetto mentale (stati di coscienza) e quello fisico (stati neurofisiologici): i fenomeni intenzionali e gli stati di coscienza sono causati e originati da stati neurofisiologici ma in virtù del loro statuto di macrofenomeni non sono riducibili alle singole proprietà delle strutture sottostanti. Il principio di traslazione si applica, viceversa, a quegli oggetti non intrinsicamente intenzionali, quali ad esempio i simboli ma anche le istuzioni sociali. A partire da questi presupposti e applicando al contesto sociale il principio di traslazione Searle può parlare di intenzionalità collettiva dove ai fenomeni sociali, alla realtà sociale viene riconosciuta la propria funzione dai singoli che ne sono parti costitutive. Così ne parla Searle in una recente intervista:
E questo è ciò cui ho cercato di rispondere nel mio libro La costruzione della realtà sociale dove sostengo che le istituzioni sociali non hanno, di per sé, alcuna realtà: sono gli uomini che rendono reali i fatti e le strutture sociali. La realtà dei fatti naturali, delle “montagne” e delle “molecole”, esiste indipendentemente dalle nostre rappresentazioni, mentre il denaro o il matrimonio, acquistano “realtà” solo in riferimento ad una accordo convenzionale che gli uomini decidono intenzionalmente di stabilire. In un certo senso, potrei dire che ho scritto un solo libro in tutta la mia vita, un libro che comprende diversi capitoli, uno sugli atti linguistici, uno sull’intenzionalità, la coscienza e la realtà sociale.
MENTE, LINGUAGGIO E SOCIETA’
Un illuminista del nostro tempo, alle prese con i grandi interrogativi del pensiero filosofico e scientifico che riguardano la mente e il linguaggio. Che cos’è la realtà? E come è possibile che si dia un soggetto libero di scegliere in un universo “fatto tutto di particelle in campi di forza?” Come agisce la coscienza e in che modo il linguaggio struttura il mondo delle istituzioni? Interrogativi che toccano questioni di ontologia, metafisica e di epistemologia, temi essenziali del pensiero filosofico, e che John Searle – professore di filosofia della mente e filosofia del linguaggio all’Università di Berkeley – affronta in questo suo libro Mente, linguaggio e società, con straordinarie capacità di chiarezza e di divulgazione. Riprendendo gli obiettivi di chiarezza e generalità che avevano dato origine alle Reith Lectures del 1984, pubblicate con il titolo Mind, Brains and Science, Searle si conferma filosofo provocatorio e originale. Le Reith Lectures erano dedicate alla presentazione di argomenti contro il programma “forte” dell’intelligenza artificiale e a delineare un percorso di ricerca su mente, azione e società. Questo nuovo libro riprende i temi da Searle trattati nell’arco di oltre trent’anni – dagli atti linguistici, all’intenzionalità, la coscienza e la società – cercando di “salire dai livelli della mente e del cervello al linguaggio e alla realtà sociale in generale”. Sin dal primo capitolo, “La metafisica di base”, emerge il realismo radicale di Searle, presupposto di qualsiasi filosofia “sana”: la realtà è il dato imprescindibile di ogni nostro pensiero sul mondo. La nostra esperienza quotidiana è possibile proprio perché esiste un mondo che esiste indipendentemente dalle nostre sensazioni e fantasie. Se non ci fosse questo mondo di sostanze – alberi, montagne, spiagge, esseri umani e altri corpi – gran parte delle nostre azioni sarebbero prive di senso. Searle mostra di prendere molto sul serio l’ontologia, cioè lo studio dei vari sensi in cui possiamo dire che ci sono delle cose. La sua è una difesa argomentata di un’ontologia non riduzionista, nella quale i corpi hanno legittimità di esistenza quanto gli elettroni – se pure a diversi livelli di descrizione. La mente è un fenomeno biologico come la digestione o la mitosi, ma si differenzia da altri fenomeni naturali per un aspetto qualitativo, la soggettività: ed è tale elemento individuale, ciò che caratterizza gli stati mentali, le intenzioni, i desideri, le credenze, e che impedisce la riduzione della mente “a qualcos’altro”. Intenzionalità e coscienza – temi a cui Searle ha dedicato i suoi lavori di grande importanza – vengono ricondotte nell’ambito della natura, in quanto prodotti dell’evoluzione. L’indagine di Searle si estende dai fatti individuali della coscienza all’ontologia sociale. Il fatto che i corpi coscienti e dotati di intenzionalità siano anche dotati di linguaggio rende possibile un’interazione sociale che comprende anche la capacità di imporre una funzione a corpi. I fatti istituzionali, come il matrimonio, le università, le aule dei tribunali, sono in questo senso il prodotto di una funzione: la loro realtà non esiste “di per sé”, ma solo in relazione ad un soggetto che li pensa e attribuisce loro una funzione. Il matrimonio o il denaro, per esempio, esistono perché una comunità di individui ha stabilito convenzionalmente di riconoscere a tali istituzioni una funzione di valore: essi sono degli status function. Certamente, non c’è nulla di irreale in una banconota da 20 dollari o da 10.000 lire, a essa corrisponde un potere d’acquisto oggettivo. Ma se proviamo a immaginare una società in cui tale credenza nell’istituzione del denaro viene meno, vedremo che lo stesso pezzo di carta diventa un semplice pezzo di carta verde, o blu, che non ha più alcuna realtà oggettiva. Diversamente dalla coscienza e dall’intenzionalità, che sono fenomeni biologici dotati di una realtà ontologica “in prima persona”, i fatti sociali hanno una realtà “epistemica”, in “terza persona”, che dipende dal fatto che vi sia un soggetto che li pensa. In questo modo il nostro mondo si arricchisce e la nostra ontologia si complica, ammettendo oltre agli alberi e agli esseri umani anche la realtà delle istituzioni sociali, denaro, matrimonio, università, governi, partite di calcio, cocktail party, ecc. In quella che si potrebbe definire la “pars destruens” del libro, Searle mette a punto un attacco serrato alle posizioni antirealistiche della tradizione filosofica – dallo scetticismo al dualismo e all’idealismo – mettendone in evidenza l’inconsistenza logica, tramite argomentazioni tipiche di un filosofo analitico, che mira ad attaccare le premesse dell’argomento e a dimostrarne l’inconsistenza o la falsità. In questo senso il libro di Searle si può leggere anche come un’introduzione alla filosofia secondo lo stile analitico. Attraverso la discussione di problemi che riguardano appunto la mente, il linguaggio e la società, Searle riesce a dare un saggio di come fare filosofia, come discutere una tesi e presentare i propri argomenti, quale ruolo dare alle intuizioni e all’uso linguistico. Una lettura dunque, rivolta non solo a chi si occupa professionalmente di filosofia, ma a tutti coloro che pensano che un argomentare chiaro e corretto sia essenziale per la comprensione dei problemi, siano essi natura filosofica o scientifica.
GEORG SIMMEL
A cura di Antonino Magnanimo
“L’uomo moderno è simile a una cifra da cassaforte, formata da elementi comuni a tutti gli altri, mescolati però in modo da produrre una precisa e inconfondibile combinazione. ” (“Filosofia del denaro”)
VITA, OPERE E IMPIANTO FILOSOFICO
Georg Simmel nasce a Berlino il 1° marzo 1858, in una famiglia ebrea convertita al cristianesimo e muore a Strasburgo il 28 settembre 1918. Nel 1881 consegue la laurea presso l’università di Berlino e nel 1885 ottiene la cattedra. Le sue prime opere riguardano la filosofia della storia e la sociologia. Ricordiamo tra le più importanti: “Sulla differenziazione sociale” (1890); “I problemi della filosofia della storia” (1892); “Il problema della sociologia” (1894); “Filosofia del denaro” (1900); “La metropoli e la vita dello spirito”. Tra il 1900 e il 1914 compone altre opere, portando avanti la sua ricerca sociologica e alcuni saggi sul relativismo. Nel 1914 diventa professore ordinario all’Università di Strasburgo e, proprio durante la guerra, scrive le sue ultime opere, riguardanti esclusivamente la filosofia della vita: “Il conflitto della cultura moderna”; “Sulla filosofia della religione” (1912); “L’intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici” (1918). L’influsso di Simmel, che ha avuto tra i frequentatori delle sue lezioni berlinesi E. Bloch, G. Lukàcs, M.Buber, R. Pannwitz, è stato notevole sia sul pensiero filosofico, sia su quello sociologico (anche americano). L’esistenzialismo, poi, ha ripreso alcuni dei temi da lui affrontati; si pensi in particolare all’originale trattazione del problema della morte e del tempo.
La prima fase del suo pensiero è caratterizzata dal tentativo di inserire la tradizione kantiana nel positivismo evoluzionistico di Fechner, Spencer e Darwin (“Sulla differenziazione sociale”, 1890; “I problemi della filosofia della storia”, 1892; “Introduzione alla scienza morale”, 1892-93; “Filosofia del denaro”, 1900). Con la crisi del positivismo, Simmel si avvicina al neokantismo e alla filosofia dei valori di Windelband e Rickert, nonché alla fenomenologia di Husserl. Questa fase, pur muovendo dal riconoscimento di forme e valori ideali che sovrastano l’accidentalità empirica del mondo fenomenico, presenta una prevalente tendenza relativistica (“Kant. Sedici lezioni”, 1904; “Kant e Goethe”, 1906; “La religione”, 1906; “Schopenhauer e Nietzsche”, 1907; “Sociologia. Ricerca sulle forme di associazione”, 1908; “Problemi fondamentali della filosofia”, 1910; “Cultura filosofica”, 1911; “Goethe”, 1913, “Rembrandt”, 1916). Nell’ultima fase della sua opera, in cui si accentuano le tendenze mistiche , Simmel sviluppa una concezione vitalistica , una vera e propria filosofia della vita intesa come accettazione rassegnata dell’eterno conflitto tra soggetto e oggetto. Unico rimedio è il mondo dell’ arte , ancora caratterizzato dalla libertà. La vita si manifesta come contrasto tra lo spirito e le sue stesse forme. Lo spirito vitale deve continuamente travalicare la non-vita di ciò che è semplice esistenza e deve nel contempo trascendere l’irrigidirsi delle forme spirituali medesime, in quanto destinate a cadere nella non-verità. Questo contrasto non può mai metter capo a una verità definitiva e assoluta. Anche la filosofia non può che essere espressione di “tipi o forme molteplici della spiritualità umana” (per esempio la concezione del mondo di Schopenhauer e, nello stesso tempo, il suo opposto specifico proposto da Nietzsche). In ognuno di questi tipi, la vita pulsa per un attimo, per poi passar oltre: la metafisica della vita non può trovare espressioni adeguate e definitive della sua verità. Il contrasto tra la vita e le forme è infatti l’elemento necessario in cui vive la vita stessa. Esso si esprime in vari modi: nella morte, dove la vita non conosce soltanto la propria cessazione, ma anche il suo limite immanente, in un’anticipazione che presuppone un’esperienza del tempo diversa da quella della successione irreversibile degli attimi ; la morte diventa così capacità di individuazione, giacché “solo ciò che è unico e irripetibile può propriamente morire”. Un’altra espressione del contrasto è il dovere morale, sentito come autonoma capacità normativa. Il contrasto, infine, costituisce ciò che Simmel chiama la tragedia della cultura , cioè la tendenza sempre perdente delle forme culturali a conservarsi contro la vita che le ha prima incorporate e poi superate. Nel mondo contemporaneo la resistenza delle forme si riduce progressivamente: la vita manifesta un’avversione definitiva per la forma in quanto tale; a ciò corrisponde allora una tragedia sociale : l’individuo rifiuta sempre più di sottomettersi passivamente alle forme e istituzioni sociali. Da qui una permanente conflittualità che si pone alla base del processo stesso di socializzazione.
LA FILOSOFIA DEL DENARO
La “Filosofia del denaro” (1900) è stata spesso considerata l’opera migliore di Simmel: essa pone il denaro come simbolo dell’epoca moderna , epoca caratterizzata dall’impersonalità dei rapporti umani, sempre più freddi e distaccati, per analizzare poi, nell’ultima parte dell’opera, le conseguenze negative derivanti dalla sempre maggiore diffusione di questa organizzazione monetaria della società, e riconosce nella più grave, la riduzione dei valori qualitativi a valori quantitativi (tutte tematiche già in qualche misura toccate da Marx stesso), dato che la vita diventa un continuo calcolo matematico, che porta alla prevaricazione da parte dell’attività intellettuale delle attività spirituali, in particolar modo di quelle affettive ed emotive. L’ambiente perfetto per questa società è la grande città : gli effetti che suscita nell’individuo vengono studiati ne “La metropoli e la vita mentale”. L’uomo diventa un piccolo ingranaggio rispetto all’enormità di tutto il sistema, ed è costretto ad aumentare la sua attività nervosa per adattarsi ai veloci cambiamenti tra sensazioni esterne ed interne. Il tema principale della “Filosofia del denaro”, è però il predominio dello spirito oggettivo su quello soggettivo , che porta sino all’alienazione totale dell’individuo: causa principale di questa situazione è la divisione del lavoro dopo l’invenzione delle macchine; l’uomo diventa parte di un processo di produzione, non si riconosce più come autore del lavoro. Per Simmel l’individuo moderno è mobile, fluido, plasmabile ma nel senso di un intreccio variabile di realtà date e di possibilità costruite. L’uomo moderno è simile a una cifra da cassaforte, formata da elementi comuni a tutti gli altri, mescolati però in modo da produrre una precisa e inconfondibile combinazione. Nel passato l’uomo era incapsulato dentro una molteplicità di sfere tendenzialmente concentriche (famiglia, stirpe, corporazione, Stato, Chiesa). Abbandonando tale ordine e ponendo il singolo all’intersezione di circoli sociali eccentrici, la società contemporanea avanza invece verso una accentuata differenziazione. L’individuo diventa così tanto più se stesso, quanto più ingloba tratti di universalità condivisi con altri e quanto più allarga il ventaglio delle combinazioni possibili (la tematica della massificazione è sullo sfondo). Oscillando tra processi di socializzazione e di personalizzazione, ciascuno ha ora l’opportunità, non sempre colta, di realizzarsi. Dare senso alla propria vita quando la centralità dell’individuo non è più garantita dalle istituzioni, è tuttavia un’impresa ardua. A ogni accrescimento del ruolo della soggettività si produce infatti, come contraccolpo, una dilatazione dell’ambito dell’oggettività (e viceversa), nel senso, ad esempio, in cui la razionalità inserita in una semplice macchina da cucire (oggettività priva di coscienza, progettata però consapevolmente da uno o più uomini) prende il posto della coscienza, dell’abilità, della capacità, dell’attenzione della donna che con l’ago e il filo eseguiva a mano le medesime operazioni. Simili movimenti risultano ora inglobati nella razionalità interna della macchina , in cui lo spirito è – per così dire – trapassato. La diffusione delle macchine esonera dalle mansioni più pesanti o che richiedono maggior tempo, ma la prestazione si paga, persino nel campo dei lavori domestici. Alla donna di determinati ceti si spalanca infatti, all’improvviso, un inatteso spazio di virtualità, di tempo libero, di cui essa però non ha ancora appreso a godere. La nuova condizione la mette anzi in conflitto con il proprio ruolo tradizionale, giacché il matrimonio in quanto istituzione non ha progredito con la stessa velocità dello “spirito soggettivo” dei coniugi e delle innovazioni tecniche. La liberazione dalle fatiche non si traduce così in una maggiore soddisfazione personale, in un aumento sensato del tempo di una vita sensata : moltissime donne della classe borghese hanno visto sfuggire il contenuto attivo della vita senza che con altrettanta rapidità altre attività o altre mete siano subentrate nel posto rimasto vuoto. La frequente insoddisfazione delle donne moderne, l’inutilizzabilità delle loro forze che retroagendo provocano tutta una serie di turbamenti e di distruzioni, la loro ricerca, in parte sana e in parte morbosa, di conferme in un ambito esterno alla casa, è il risultato del fatto che la tecnica nella sua oggettività ha preso un cammino proprio, più rapido della possibilità di sviluppo delle persone. Quanto più la razionalità emigra dalla coscienza soggettiva e si insedia in automatismi e supporti materiali (come il denaro), tanto più il singolo rischia dunque di venire svuotato delle sue precedenti prerogative. La razionalità tende a diventare priva di senso e il senso privo di razionalità. Il trasferimento della spiritualità entro automatismi oggettivi lascia tuttavia agli individui uno spazio sempre più ampio di libertà e di indeterminatezza. Essi non si devono ora preoccupare tanto di sopravvivere, quanto di non “sottovivere”, ossia di non restare al di sotto delle proprie possibilità inespresse. La pienezza e il significato della vita si ritrovano però in tempi e spazi virtuali. Ad essi giungiamo in un movimento che solo apparentemente va verso le cose future, e in direzione di paesi esotici. Li scopriamo invece nel presente e dentro di noi. Ciò che si dimostra dapprima estraneo o straniero è già in noi, è anzi noi. Attraverso un falso movimento, Simmel scopre l’essenziale nell’inessenziale , fissando il centro dei nostri interessi nella periferia della vita consueta: nel marginale, nell’eccentrico, nelle possibilità non saturate che ci vengono incontro come un dono o come il risultato di un’attività non interamente nostra, non interamente voluta (l’avventura, i sogni, le opere d’arte). Attraversando spazi logicamente intransitabili, si varca con il desiderio la parete dello specchio che separa il reale dall’immaginario, si penetra in un mondo senza spessore che appare più significativo di quello in cui tridimensionalmente ed effettivamente viviamo. Si stabilisce un gioco di vicinanza e di lontananza. Siamo sospinti verso una zona di irrealtà che soddisfa, verso un’illusione più vera di ogni realtà che ci circonda. Si aprono così impreviste e improbabili finestre di senso, mondi extraterritoriali alla realtà e al tempo cronologico, che alludono a un’altra esistenza più degna di essere vissuta, a una gemma incastonata nella banalità del quotidiano.
FILOSOFIA E PSICOLOGIA
La filosofia non può, secondo Simmel, essere disgiunta dalla psicologia. Ogni visione del mondo si lega alla vita degli individui e muta con il mutare di questa. La stessa filosofia non è oggettiva, ma esprime un tipo di reazione dell’individuo ai problemi della comunità di cui fa parte: è un “tipo”, cioè un modello né individuale né universale, ma dotato di universalità personalizzata, tradottasi nella specificità della persona di un filosofo. Non esiste, quindi, una verità assoluta: ad esempio, la proposizione “tutto cambia”, “tutto evolve”, si evolve essa stessa. Occorre quindi abbandonare ogni pretesa di trovare un fondamento ultimo della scienza, la conoscenza scientifica è relativa, non assoluta. Il relativismo (quello affacciatosi sulla storia della filosofia con Protagora) investe in pieno la storia e la società, nonché le scienze che le studiano: ogni formazione storica e sociale costituisce un mondo a sé, regolato dai propri principi e valori e non commisurabile ad altri. La storia è una specie di psicologia applicata , perché il suo contenuto umano presuppone che gli eventi siano analizzabili anche come eventi psichici. Lo storico non può pervenire a una conoscenza oggettiva del passato ma deve mirare a una “penetrazione psicologica” che gli consenta di rivivere i caratteri dell’epoca che sta indagando. La comprensione storica rivela allora una molteplicità di mondi (religione, filosofia, arte, scienza) che coesistono, fondandosi ognuno su un proprio principio organizzativo. Nell’individuo tali mondi si trovano l’uno accanto all’altro, senza richiedere mai una conciliazione definitiva. La pluralità dei mondi e il loro sviluppo vengono studiati alla luce di una concezione biologica della vita spirituale : in ogni sfera si afferma progressivamente una tendenza organica che è espressione dell’autopotenziarsi della vita, la quale seleziona quelle verità che la favoriscono, mentre accantona come falso ciò che le è dannoso. Esiste quindi un’identificazione tra verità e utilità vitale.
METROPOLI E PERSONALITA’
Simmel ha formulato interessanti riflessioni di carattere sociologico in virtù delle quali viene considerato uno dei padri della sociologia. In particolare nel breve saggio “Metropoli e personalità”, egli individua alcuni caratteri essenziali della metropoli del proprio tempo fornendo chiavi interpretative che tuttora, trascorso parecchio tempo e cambiate radicalmente le condizioni di vita dell’uomo, risultano di estremo interesse ed attualità. Simmel guarda, con un certo distacco, la metropoli, gli uomini che la popolano, le interazioni sociali che in essa si verificano e confronta quanto osservato con i corrispondenti fenomeni che avvengono in una piccola città. Dal confronto emergono due osservazioni, due differenze sostanziali fra metropoli e piccole città o ambienti rurali dalle quali Simmel trae due categorie interpretative che, utilizzate congiuntamente, permettono di spiegare alcuni fenomeni metropolitani:
1) osservazione di carattere neuro-psicologico: nella metropoli gli abitanti ricevono un ricco insieme di stimoli che evolvono e cambiano rapidamente, un susseguirsi di impressioni ed immagini che affollano la loro mente. Spostandosi in ambiente rurale da tale ritmo veloce, conseguente alle intense stimolazioni nervose, si passa ad un ritmo lento. Il ritmo della vita e delle immagini sensorie mentali scorre più lentamente, più abitudinariamente e con maggior uniformità.
2) osservazione di carattere economico: la città è sede dell’economia monetaria. Qui tutti gli scambi sono regolati con il denaro. Per dirla con Simmel, “l’economia del denaro domina la metropoli”. Il baratto, lo scambio diretto di beni, spariscono e chi produce lavora per il mercato, per un consumatore che non conosce e che non incontra mai direttamente, un consumatore che effettua i propri acquisti presso vari commercianti, intermediari che grazie all’esistenza del denaro possono più facilmente speculare sugli acquisti e sulle vendite ricavando un guadagno personale senza aver realizzato alcun prodotto. In realtà all’origine dello sviluppo dell’economia del denaro e della divisione del lavoro sta la rivoluzione industriale, il mutamento delle modalità di produzione e del sistema di scambi. Ma a Simmel non interessa indagare tale circostanza; egli intende soprattutto esaminare le peculiarità psicologiche del carattere degli individui che abitano in un’area urbana e le conseguenti interazioni sociali.
Consideriamo ora alcune caratteristiche dell’ambiente metropolitano che Simmel ha individuato e spiegato attraverso i due paradigmi interpretativi descritti.
Intellettualità sofisticata : la prima di queste caratteristiche consiste nell’intellettualità sofisticata, nel distacco e nella razionalità che, secondo Simmel, sono tipiche dell’uomo metropolitano. Come conseguenza della prima osservazione che vede la metropoli luogo di sovrastimolazione sensoriale Simmel, utilizzando un approccio evoluzionista, deduce che necessariamente l’uomo metropolitano, per adattarsi all’ambiente, ha sviluppato un organo di difesa che lo protegge dagli eccessivi stimoli a cui è sottoposto: l’ intelletto . Ha imparato a rispondere ai numerosi stimoli che lo colpiscono reagendo con l’intelletto anziché con il cuore. Per difendere, tutelare la propria vita soggettiva contro il potere opprimente della vita metropolitana il cittadino ha sviluppato una intellettualità sofisticata, una indifferenza per qualsiasi individualità e un’abitudine ad instaurare rapporti formali e distaccati. E’ facile osservare che gli abitanti di una grande città hanno una sorta di riservatezza, riserbo, indifferenza verso gli altri concittadini. Ciò perché se ai continui contatti esterni con innumerevoli individui corrispondessero altrettante reazioni interne, come avviene nelle cittadine dove si conoscono quasi tutte le persone che si incontrano, sarebbe impossibile condurre normalmente la propria vita quotidiana. Il risultato di questo riserbo è che spesso non si conoscono neppure superficialmente quelli che sono stati per anni i nostri vicini.
Il denaro
Anche il carattere monetario dell’economia cittadina contribuisce a spiegare, accrescere e rafforzare l’intellettualità, la razionalità del cittadino metropolitano. L’uomo abituato a rapportare tutto con il denaro acquisisce un atteggiamento pragmatico nel trattare gli uomini e le cose, un atteggiamento in cui a una giustizia formale si unisce una durezza spietata. Il denaro riduce qualsiasi qualità e ogni individualità alla domanda: quanto?” L’altro viene ad essere considerato solo, o prevalentemente, in termini di un egoistico tornaconto personale. Ciò che interessa è solo il rendimento oggettivo misurabile. Così le relazioni, le interazioni con gli altri divengono quasi sempre delle pure contrattazioni. Dunque l’uomo è spinto, condizionato, anche dall’ambiente economico in cui vive a rapportarsi con i propri simili utilizzando l’intelletto anziché il cuore.
L’atteggiamento blasé
Un’altra caratteristica tipica dell’ambiente metropolitano è l’atteggiamento blasé: l’individuo ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all’origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un’incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell’atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l’economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch’essi l’atteggiamento blasé. Il denaro è l’equivalente, l’unità di misura e spesso l’unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l’uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell’essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell’oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l’insensibilità ad ogni distinzione, che è un’altra caratteristica dell’atteggiamento blasé.
La monetizzazione del tempo
Ulteriore caratteristica metropolitana è la precisione con cui tutto è misurato, monetizzato e calcolato. Anche il tempo delle persone, quindi la loro vita o parte di essa, viene accuratamente misurato e monetizzato. Nella metropoli gli individui agiscono in modo sincrono. L’orologio permette e regola il funzionamento di tutte le metropoli, misura la vita e ne consente una quantificazione economica, la monetizzazione del tempo. L’importanza assunta dal tempo, dalla più rigida puntualità nelle promesse e nei servizi e quindi dal corrispondente strumento di misura: l’orologio, è conseguente soprattutto alla complessa organizzazione della vita metropolitana, alla divisione e specializzazione del lavoro. Organizzazione che a sua volta deriva dall’elevato numero di persone che vivono nella stessa città e quindi dalle inevitabili distanze che separano individui luoghi ed attività e che rendono ogni attesa e ogni appuntamento mancato un intollerabile spreco di tempo che la società non può permettersi.
La maggiore libertà possibile
La metropoli è anche il luogo della società in cui, secondo Simmel, l’uomo gode della maggior libertà possibile. Libertà che deriva proprio dalle caratteristiche fin qui descritte ed in particolare da quel riserbo, quell’indifferenza e quel distacco che caratterizzano i rapporti interpersonali metropolitani. Dunque l’uomo metropolitano è libero rispetto alla meschinità e ai giudizi che limitano l’uomo della piccola città. Purtroppo l’altra faccia di questa maggior libertà è che nella folla metropolitana ci si sente tanto soli e sperduti come non mai. E ciò non deve stupire perché non è assolutamente stabilito che la libertà dell’uomo assuma per la sua vita emotiva un ruolo confortevole.
Evoluzione umana e sociale
Nella metropoli Simmel individua inoltre alcuni aspetti dell’evoluzione umana e sociale conseguenti soprattutto alla rivoluzione industriale. Mentre l’uomo primitivo conquistava la propria sopravvivenza nella quotidiana lotta contro la natura il cittadino moderno, dice Simmel, combatte ogni giorno contro il livellamento e lo sfruttamento perpetrato ai sui danni dalla società e dalla tecnologia. Attraverso queste battaglie, il cittadino difende la propria sopravvivenza fisica e sociale, la propria posizione. La città ospita una molteplicità di imprese e di organizzazioni che necessitano di una ricca serie di servizi. Nel contempo la concentrazione di persone e la loro lotta per conquistare una propria individualità emergendo sugli altri spinge ciascuno a specializzarsi in una funzione in cui non possa essere facilmente sostituito da un altro. Si può quindi affermare che la vita cittadina ha trasformato la lotta con la natura per il sostentamento in una lotta tra uomini per il guadagno, guadagno che non è offerto dalla natura, ma da altri uomini.
GERALD EDELMAN
Scheda di Astro Calisi – sito di riferimento: Il Diogene
VITA
Gerald Maurice Edelman è nato a New York nel 1929, conseguendo nel 1960 il dottorato in biochimica e immunologia presso la Rockefeller University. I suoi studi hanno portato un contributo fondamentale alla conoscenza della struttura e del ruolo delle immunoglobuline, per i quali ha ricevuto nel 1972 il premio Nobel per la medicina, insieme a Rodney Porter. Edelman si è successivamente occupato dei meccanismi di regolazione della crescita cellulare e dello sviluppo degli organismi multicellulari. Negli ultimi anni i suoi interessi si sono progressivamente spostati verso la neurobiologia, con importanti contributi teorici, tra i quali la Teoria della Selezione dei Gruppi Nervosi (TSGN). Oltre ad aver ricevuto numerosi riconoscimenti, Edelman è presidente del Dipartimento di Neurobiologia presso lo Scripps Research Institute (La Jolla, California). Le ricerche principali del dipartimento ruotano intorno allo sviluppo dei vertebrati, con particolare riferimento al sistema nervoso.
PENSIERO
La concezione di Edelman ha come punto di partenza le scoperte nel campo del sistema immunitario, alle quali l’autore stesso ha dato un contributo notevole. Il sistema immunitario è un sistema somatico composto da molecole, cellule e organi specializzati, il cui funzionamento si basa sulla selezione; esso è in grado di distinguere e di reagire alle caratteristiche chimiche degli invasori batterici e virali che potrebbero compromettere la funzionalità dell’organismo. Quando si introduce nel corpo una molecola estranea (appartenente ad esempio a un batterio o a un virus), questa viene a trovarsi a contatto una popolazione di cellule, chamate linfociti, ognuna con uno specifico anticorpo sulla propria superficie. Se una porzione di antigene si lega a un anticorpo che presenta una corrispondenza sufficiente, la cellula portatrice di quell’anticorpo viene stimolata a dividersi con maggior frequenza. Come risultato finale si ha un numero molto più elevato di cellule di quel tipo specifico, in grado di attaccare gli invasori fino alla loro completa eliminazione. Questo processo, secondo Edelman, è totalmente a posteriori e si contrappone alla vecchia concezione istruttiva che considerava l’anticorpo capace di prelevare informazioni dall’antigene e di riprodursi di conseguenza. Si tratta, infatti, di un sistema selettivo, basato su una popolazione di anticorpi diversi originariamente prodotti senza alcuna informazione sulle molecole che si sarebbero presentate successivamente.
Per giungere a una teoria globale della coscienza, la Teoria della Selezione dei Gruppi Neuronali (TSGN), Edelman trasferisce i concetti elaborati durante i suoi studi del sistema immunitario a quello dello sviluppo del cervello, nel tentativo di costruire un modello dettagliato delle strutture e dei processi che sono alla base delle nostre facoltà cognitive. Detta teoria si basa sul cosiddetto darwinismo neuronale (o neurodarwinismo), ossia sull’idea secondo la quale le funzioni cerebrali superiori sarebbero il risultato di una selezione che si attua sia nel corso dello sviluppo filogenetico di una data specie, sia sulle variazioni anatomiche e funzionali presenti alla nascita in ogni singolo organismo animale. In tale prospettiva, lo sviluppo del cervello, soprattutto per quanto riguarda la categorizzazione percettiva e la memoria, non avviene in termini di istruzioni preesistenti, che indichino quale tipo di struttura e di organizzazione debba essere costruito. Il cervello è infatti dotato sin dalla nascita di una sovrabbondanza di neuroni e si organizza attraverso un meccanismo che ricorda molto da vicino il processo di selezione naturale proposto da Darwin come base per l’evoluzione delle specie viventi: a seconda del grado di effettivo utilizzo, alcuni gruppi di neuroni muoiono, altri sopravvivono e si rafforzano. L’unità su cui si effettua la selezione non è il singolo neurone, bensì i gruppi di neuroni, costituiti da un numero variabile di cellule che va da alcune centinaia a molti milioni. La TSGN ha come punto di partenza la constatazione che ogni organismo appena nato si trova a vivere in un mondo privo di etichette, ossia non suddiviso preventivamente in “oggetti” ed “eventi”. E’ quindi necessario che l’organismo sviluppi, tramite la sua attività nell’ambiente, le informazioni che consentano una tale suddivisione. L’etichettatura avviene in conseguenza di un comportamento che conduce a particolari eventi selettivi all’interno delle strutture neuronali del cervello. La TSGN si fonda su tre concetti fondamentali:
1. Selezione in fase di sviluppo. Secondo tale principio, i processi dinamici di sviluppo che hanno luogo durante la fase embrionale e postnatale, portano alla formazione delle caratteristiche neuroanatomiche di una data specie. L’intero processo si basa sulla selezione e coinvolge gruppi di neuroni impegnati in una competizione topobiologica, dove il rafforzamento o l’estinzione dipende dalla posizione in cui vengono a trovarsi i gruppi stessi.
2. Selezione esperienziale. Processo selettivo, determinato dal comportamento, che rafforza o indebolisce popolazioni di sinapsi e porta alla formazione di molti circuiti nervosi.
3. Il rientro. Processo per mezzo del quale nel corso del tempo si verifica la connessione tra mappe diverse attraverso una selezione e connessione parallela di gruppi neuronali situati in varie aree. Questo processo fornisce una base per la categorizzazione percettuale.
La TSGN e l’ipotesi che i diversi gruppi di neuroni interagiscano con “segnalazioni rientranti” per formare mappe cerebrali di rappresentazione del mondo e di azione, fanno giustizia della concezione neuropsicologica (tipicamente istruttiva) che comporta una regressione all’infinito di “homuncoli” e simili. La teoria del darwinismo neurale rappresenta in ogni caso un esempio clamoroso di programma di ricerca unificante, che spazia dalla neurobiologia alla filosofia, anche se le conferme sul piano sperimentale finora ottenute non sono moltissime e non manchino critiche da parte di sostenitori di teorie rivali.
HANS KELSEN
“La dottrina pura del diritto è una teoria del diritto positivo. Del diritto positivo semplicemente, non di un particolare ordinamento giuridico. È teoria generale del diritto, non interpretazione di norme giuridiche particolari, statali o internazionali. Essa, come teoria, vuole conoscere esclusivamente e unicamente il suo oggetto. Essa cerca di rispondere alla domanda: che cosa e come è il diritto, non però alla domanda: come esso deve essere o deve essere costituito. Essa è scienza del diritto, non già politica del diritto” (Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1967, p. 48).
Hans Kelsen nacque a Praga nel 1881, studiò e insegnò Diritto all’università di Vienna e allo stesso tempo fu collaboratore per il progetto per la costituzione della repubblica austriaca e fu giudice presso la Corte Costituzionale austriaca dal 1921 al 1930. Nel 1930 passò all’università di Colonia, ma nel 1933, prima dell’avvento del potere nazista, si spostò a Ginevra e nel 1941 negli USA, dove morì nel 1973, dopo aver insegnato a Harvard e a Berkeley, in California. Fu autore di parecchie opere giuridiche e politiche, tra le quali è opportuno ricordare la Dottrina generale dello Stato (1925), la Dottrina pura del diritto (1934) e la Teoria generale del diritto e dello Stato (1945). Kelsen vuole elaborare una “dottrina pura del diritto” (reine Rechtslehre), cioè liberata da ogni commistione con nozioni morali, politiche o sociologiche; solo in questo modo si può garantire il carattere obiettivo della scienza del diritto, la quale ha un compito descrittivo, e non quello di produrre valori o norme o di esprimere giudizi di valore. Questa è invece la pretesa del giusnaturalismo o del marxismo, ai quali Kelsen contrappone l’ideale weberiano dell’avalutatività della conoscenza scientifica. Il giusnaturalismo presuppone che nella natura vi sia un valore immanente assoluto e ritiene dunque di poter dedurre il diritto, cioè quel che è giusto in assoluto, dalla natura stessa; ma questo vuol dire, spiega Kelsen, compiere un salto scientificamente illegittimo dal piano dell’essere (natura) a quello del dover essere (diritto). Allo stesso modo il marxismo compie un’operazione indebita, nella misura in cui mescola la teoria giuridica, riguardante il campo delle norme (cioè il “dover essere”, sollen) con una sociologia economica, concernente invece i dati di fatto (l’“essere”, sein). Kelsen è noto come il capostipite novecentesco della dottrina liberal-democratica del diritto su base giuspositivista. Per Kelsen la legge è norma positiva (cioè “posta” dagli uomini e non dal trascendente). Per il filosofo del diritto, la norma è dover-essere, è necessità contrapposta all’essere, all’esistente. Mentre la sociologia del diritto si occupa delle interconnessioni a livello fattuale tra attività positiva del diritto e comportamenti degli uomini, la scienza giuridica dovrebbe invece occuparsi della ricerca, nel mondo delle idee, di una teoria generale del diritto. In questo studio ideale i comportamenti umani rilevano solo di riflesso, in quanto presupposti fattuali per l’applicazione del diritto. La norma inoltre è relativa, cioè senza alcun fondamento di Verità. Non si può parlare,secondo la sua prospettiva, di una legge naturale, almeno non nell’ambito giuridico. Secondo la teoria di Kelsen, infatti, il Diritto è costituito solo ed esclusivamente dalle norme positive e valide dell’ordinamento giuridico, qualsiasi precetto esse contengano. Non a caso la sua teoria viene chiamata Dottrina Pura del Diritto, come una delle sue opere più famose. Secondo il pensiero kelseniano l’ordinamento giuridico è l’oggetto del diritto, null’altro. Lo studioso pone come base di ogni ordinamento le norme sulla produzione del diritto oggettivo (le c.d. fonti del diritto) e crea il concetto di Grundnorm (norma fondamentale), norma che pone a fondamento del rispetto dell’ordinamento stesso. In altri termini, ogni norma è giustificata dalla conformità alla norma ad essa superiore gerarchicamente, sino ad una norma cardine (tipicamente uno statuto o una costituzione). L’intero ordinamento, al suo apice, è giustificato da un carattere esterno: l’imposizione coattiva, quella che il giurista chiama efficacia dell’ordinamento (cogenza). L’impostazione prende così, per così dire, un aspetto esteticamente piramidale. Infine, dal punto di vista della singola norma, Kelsen concepisce il precetto giuridico come obbligo imposto a un soggetto di diritto. Non è quindi possibile ravvisare una chiara distinzione tra varie situazioni giuridiche soggettive, poiché, pur sempre, ciascuna figura soggettiva non è che un obbligo imposto dalla norma che trova (nel caso concreto) applicazione. La struttura kelseniana è: se A allora B, dove A è il presupposto e B è la coazione (obbligo) della sanzione. Kelsen fu tra i fondatori della dottrina pura (secondo cui non c’è nessun tipo di rapporto tra diritto e società) e viene considerato uno degli autori della costituzione austriaca del 1920. L’impatto del pensiero kelseniano è estremamente attuale, infatti esso coinvolge profondamente la filosofia del diritto e la filosofia morale, trovando spesso opposizione in concezioni giusnaturalistiche, le quali vedono la Giustizia immanente e non artificialmente creata dal volere umano. La teoria delle fonti che sottostà alle idee su esposte ebbe notevole impatto nell’ondata costituzionale successiva alla seconda guerra mondiale, in particolare per quanto concerne la previsione della corte costituzionale negli ordinamenti costituzionali. Uno dei principali “avversari” di Kelsen fu Carl Schmitt. Nel contesto culturale italiano le sue tesi furono molto criticate – in una prospettiva liberale ed individualista – da Bruno Leoni. Inoltre anche Santi Romano e Giuseppe Capograssi criticarono la teoria pura del diritto di Kelsen affermando, sia pure con ricostruzioni teoretiche differenti, che il diritto è frutto dell’evoluzione della società e della storia. A livello di teoria generale, la dottrina pura del diritto trova una dottrina antitetica nei movimenti che tendono a sottolineare l’effettività del diritto, definendo “giuridico” non tanto ciò che è legale, ma le norme che i giuristi applicano: queste teorie si definiscono del realismo giuridico in particolare scandinavo e americano. Campione del realismo giuridico scandinavo fu peraltro un allievo di Kelsen, il danese Alf Ross, che studiò presso di lui a Vienna prima di trasferirsi a Uppsala e poi a Copenaghen.
GASTON BACHELARD
A partire circa dagli ultimi anni del 1950 si è diffusa nella cultura francese una crescente insoddisfazione nei confronti del pensiero esistenzialistico. Il primo a farne le spese è stato naturalmente Sartre, al quale si è rimproverato di essere rimasto ancorato a tematiche filosofiche invecchiate, di mescolare arbitrariamente la riflessione teorica rigorosa con nozioni e comportamenti pratico-politici, di privilegiare la filosofia di contro al lavoro (ben altrimenti efficace e positivo) delle scienze. Ben presto il processo intentato all’autore di Essere e nulla è stato allargato a tutta la tradizione ‘ufficiale’, universitaria della filosofia francese. La prima e fondamentale accusa mossa a questa tradizione è di essere stata umanistica e coscienzialistica: di avere cioè conferito un valore eccessivo e infondato all’uomo e un rilievo altrettanto sproporzionato e fuorviante alla coscienza, col rischio di incoraggiare sviluppi interioristici e idealistici della riflessione filosofica. La seconda accusa è quella di spiritualismo e di storicismo: la filosofia francese tradizionale avrebbe dissolto fatti, eventi e concetti determinati in un generico divenire dinamico della realtà umana, governato da rassicuranti principi e valori spirituali. La terza accusa è quella di avere sistematicamente sottovalutato il sapere scientifico, e si tratta forse del rilievo più significativo. Ciò che più divide la tradizione umanistico-spiritualistica dai suoi critici è infatti che questi ultimi ritengono di essere stati i soli ad aver seguito il grande lavoro teorico compiuto dalla scienza contemporanea, comprendendone a fondo certe implicazioni filosofiche. Questo riferimento alla scienza offre l’occasione per evocare quella ch’è stata una delle maggiori figure della cultura francese del Novecento: Gaston Bachelard (1884-1962). Alcuni dei suoi libri principali sono comparsi negli anni ’30 ( soprattutto Il nuovo spirito scientifico , 1934; La formazione dello spirito scientifico , 1938). D’altra parte la sua opera ha avuto un’adeguata risonanza solo nel secondo dopoguerra – epoca nella quale egli ha pubblicato tra l’altro vari nuovi saggi di grande rilievo ( Il razionalismo applicato , 1949; Il materialismo razionale , 1953). E’ infatti a partire dagli anni ’50 che molti filosofi della nuova generazione hanno scoperto che proprio Bachelard era stato ed era il pensatore francese forse più autonomo dalla tradizione cui si è accennato sopra, e quello più impegnato nell’elaborazione di una filosofia non ‘umanistica’ ma ‘scientifica’ decisa a liberarsi da presupposti e condizionamenti speculativi e ad analizzare le condizioni di possibilità e il modus operandi di un sapere degno di questo nome. La distanza che separa Bachelard da quella ch’egli chiamava la ” filosofia dei filosofi ” si coglie già nella polemica da lui condotta contro un pensiero per il quale l’indagine teorica sulle scienze era solo un aspetto (e spesso non il più importante) di una più ampia filosofia sistematica. Bachelard si situa su posizioni molto diverse, sottolineando l’urgenza di riabilitare ed emancipare l’epistemologia, nonché di fornire la scienza della ” filosofia che si merita “. Da questa nuova prospettiva, assai vicina e sensibile al cammino del sapere scientifico avanzato, egli avvia una riflessione estremamente originale e innovatrice, alimentata dai risultati più aggiornati di quelli che vengono definiti i diversi “razionalismi regionali”, ossia i vari ambiti di indagine scientifica. Per Bachelard l’epistemologia deve anzitutto illuminare la vera fisionomia dell'”oggetto” della scienza e i modi in cui esso viene costituito. Da questo punto di vista il filosofo francese polemizza sia contro l’empirismo ingenuo, sia contro il razionalismo astratto. Del primo viene denunziato il culto acritico del fatto bruto; del secondo, il mito di una ragione considerata un organo ‘puro’ e autosufficiente della conoscenza. In verità, il sapere non è né ‘ fattualistico ‘ né ‘razionalistico-puro’. Da un lato lo scienziato, ben lungi dal sussumere in modo immediato i dati empirici, costruisce l’oggetto della propria indagine (nella scienza, sottolinea Bachelard, ” niente è dato, tutto è costruito “), e elaborandolo in sede concettuale alla luce di precise coordinate teoriche (il reale in quanto oggetto di studio ” bisogna che sia ripreso in un sistema teorico “). Da un altro lato lo scienziato medesimo sa anche che la scienza ha bisogno di “complicare” e di “applicare” la ragione: quest’ultima è certo uno strumento assai potente, ma le sue categorie e procedure si concretizzano solo in rapporto con i campi e i problemi eletti a tema di ricerca. Solo cimentandosi in una “pratica” effettiva di indagine, la ragione diventa l’ organon in grado di definire in modo efficace l’oggetto di un certo interesse cognitivo e la sua logica specifica. Inoltre la ragione scientifica è ragione storica, nel senso che i suoi strumenti e i suoi problemi si modificano col modificarsi del contesto storico-culturale. E’ da tali premesse generali che si è sviluppata l’intensa attività teorica di Bachelard , documentata in una numerosa serie di scritti (a quelli già indicati vanno aggiunti almeno La filosofia del no , 1940; e L’attività razionalista della fisica contemporanea , 1951) in tali opere vengono enunciati quei concetti che, uniti ai cruciali principi evocati sopra, hanno fatto di Bachelard un significativo punto di riferimento dell’epistemologia del secondo dopoguerra (almeno in area francese) e l’ispiratore di alcune componenti di fondo della filosofia dello strutturalismo. E’ il caso, in particolare, della nozione di ” ostacolo epistemologico “. Con essa Bachelard intende indicare il limite continuamente posto e superato dalla ricerca scientifica nel suo processo di approssimazione successiva alla verità : un limite (si badi) non esclusivamente fattuale ma, appunto, epistemologico – ossia costruito da un insieme di assunti che frenano la trasformazione di determinati quadri teorici e l’apertura di nuove prospettive. Il cammino del sapere coincide in larga misura con questo continuo oltrepassamento degli “ostacoli” che la conoscenza scientifica di volta in volta riconosce e che rimangono comunque sempre diffusi nella conoscenza comune. La seconda più nota figura teorica del pensiero bachelardiano è quella di ” rottura epistemologica “., sotto molti aspetti essa pare strettamente congiunta con la nozione di “ostacolo epistemologico”. In effetti se la scienza in cammino consiste (almeno in parte) nella critica e nel superamento di determinati obstacles concettuali e nell’elaborazione di nuovi princìpi e “oggetti” d’indagine, è evidente che il sapere progredirà non tanto in modo ‘continuistico’ (ossia secondo un movimento accrescitivo omogeneo e senza fratture) quanto in modo ‘discontinuistico’; ossia secondo salti, radicali mutamenti di rotta, vere e proprie rivoluzioni teoriche. Il principio della “rottura” epistemologica esprime appunto la centralità nella dinamica del sapere dei momenti di frattura, di modifica radicale negli assetti generali o particolari delle conoscenze scientifiche. In varie sue opere e nei manifesti programmatici della sua “epistemologia del no” Bachelard ha esaminato la vicenda di alcune di queste “rotture epistemologiche”: rotture che hanno dato luogo a una fisica non-newtoniana, a una chimica non-lavoisieriana, a una geometria non- euclidea. Occorre tuttavia sottolineare che per quanto la conoscenza proceda sempre attraverso un conflitto tra la “resistenza” costituita dalle credenze passate (e in parte presenti) e le nuove istanze cognitive – o, sotto un diverso profilo, attraverso un conflitto tra l'”errore” e la “verità” – è anche vero che l’errore (e con esso il passato, la tradizione) hanno per Bachelard una funzione positiva e irrinunciabile. Per l’autore della Filosofia del no non v’è anzi scienza senza una sorta di dialettica tra errore e verità, tra ‘passato’ e ‘presente’: una dialettica che obbliga lo scienziato a un continuo processo di “problematizzazione” e di “rettificazione” disposizioni teoriche date storicamente. In tale modo la “filosofia scientifica” elaborata da Bachelard si costituisce in buona misura, sotto forma di una “storia problematica” delle scienze, volta a individuare i momenti cruciali e le discontinuità epistemologiche accertabili nell’itinerario del sapere (da tale punto di vista sarebbe interessante confrontare alcune di queste posizioni – fatte salve, ovviamente tutte le differenze – col falsificazionismo popperiano e con la teoria Kuhniana delle rivoluzioni scientifiche). La filosofia bachelardiana è d’ispirazione fortemente razionalistica. Non si tratta certo di un razionalismo centrato sul Cogito (Hachelard si è spesso proclamato radicalmente anti-cartesiano), o sul rigido assetto categoriale Kantiano, o tanto meno sul panlogismo dialettico-hegeliano. Si tratta invece di un razionalismo anti-soggettivistico e anti-coscienzialistico, anti-sistemizzante ed anti-riduzionistico, il quale intende promuovere una filosofia “aperta” e “pluralistica”, “sperimentale” e “applicata”. Una filosofia che valorizza non tanto la Ragione quanto le ragioni; non tanto un presunto Sapere unitario-generale quanto i saperi differenziati e ‘locali’, dotati di diverse logiche e di diversi tempi e modi di sviluppo. Una filosofia peraltro, sempre impegnata nella ricerca di possibili integrazioni, di sintesi transdisciplinari, di condizioni strutturali, di possibilità delle pratiche cognitive umane. Una filosofia, infine, decisa ad avanzare sempre di nuovo interrogazioni rigorosamente teoriche sulla natura, i fondamenti, la fisionomia dei problemi del conoscere razionale. E sarà soprattutto per questa sua vocazione teoretico-problematizzante – congiunta col proposito di trattare il saper come un “oggetto” indipendente da intenzioni, fini e significati soggettivi – che i maggiori esponenti dello strutturalismo filosofico considereranno Bachelard uno dei principali punti di riferimento del loro lavoro.
ANTONIO BANFI
BIOGRAFIA
Antonio Banfi nacque a Vimercate, in provincia di Milano, il 30 settembre 1886 da una famiglia di tradizione colta, cattolica e liberale. Il padre Enrico era ingegnere e per quarant’anni fu preside dell’Istituto tecnico di Mantova, il nonno paterno fu ufficiale napoleonico e quello materno era uno Strambio de Castiglia, nome questo che richiama direttamente quella tradizione della nobiltà milanese in cui le ispirazioni patriottiche e nazionali si fondevano, per un verso, con un’interpretazione moderna e positiva del cattolicesimo, e per altro con gli influssi illuministici valorizzati soprattutto nella loro componente tecnico-scientifica. Questo fu l’ambiente che circondò la primissima formazione del giovane Banfi, i cui soggiorni si alternavano tra Mantova, dove condusse a termine al Liceo Virgilio i suoi studi medi, e Vimercate, dove la famiglia trascorreva il periodo delle vacanze estive nella casa paterna, la cui ricca biblioteca fu il primo luogo di raccoglimento intellettuale del giovane. Nel 1904 s’iscrisse alla Regia Accademia-scientifico-letteraria di Milano per i corsi della Facoltà di Lettere che ultimò quattro anni dopo, ottenendo i pieni voti assoluti e la lode con una monografia su Francesco da Barberino discussa con Francesco Novati. Iniziò immediatamente il suo lavoro di insegnante all’Istituto Cavalli-Conti di Milano, e contemporaneamente, proseguì all’Accademia gli studi di filosofia (con Giuseppe Zuccante per la storia della filosofia e Piero Martinetti per la teoretica), e conseguì il dottorato nell’autunno del 1909 con pieni voti discutendo con Martinetti una dissertazione composta di tre monografie sul pensiero di Boutroux, Renouvier e Bergson. Nello stesso periodo conseguì anche i diplomi dei corsi di magistero sia per le lettere che per la filosofia. A 23 anni la sensibilità culturale del giovane Banfi appare già vivacissima, agile nell’individuare i più vivi problemi speculativi, curiosa delle correnti più moderne, desiderosa di spezzare i limiti della provincia filosofica italiana. E, a questo punto, più che ogni considerazione è utile riportare direttamente alcuni passi particolarmente salienti della lettera con cui Banfi si rivolgeva nel settembre del 1909, due mesi prima di conseguire la laurea in filosofia, alla commissione dell’Istituto Franchetti di Mantova, che aveva l’incarico di attribuire le borse di studio per l’estero agli studenti e ai laureati meritevoli di appoggio: ” […] Io intendo di recarmi in una sede di Università germanica, e preferibilmente in due semestri successivi come ivi lo concedono le leggi: ed è l’uso degli studenti desiderosi di una vasta cultura, a Berlino ed ad Heidelberg per iscrivermi ai corsi universitari di filosofia. E noto che in Germania la filosofia costituisce una profonda tradizione nazionale che colora e vivifica tutte le manifestazioni dello spirito: essa ha ispirato l’arte da Goethe a Wagner, ha discusso e rinnovato i fondamenti e i metodi scientifici dalla celebre disputa del materialismo alla famosa relazione del Du Bois-Reymond, alla più recente del Lipps, alle attuali dispute biologiche sull’evoluzionismo, ha guidato gli spiriti a quelle ricerche storiche che, uscite dalla fonte prima del1 hegelismo, Si sono rivolte agli studi sulle origini delle civiltà e delle religioni, sullo sviluppo del pensiero, sull’evoluzione sociale e sui suoi caratteri che hanno lasciato orma sì profonda pur nella vita contemporanea. Tale senso dell’organicità e della vitalità della filosofia manca purtroppo in generale alla nostra cultura italiana che sembra a volte privata di una unità interiore e di estenuarsi nell’astrattismo speculativo, nel pedante frammentarismo storico e letterario, nell’invecchiato dogmatismo scientifico. […] Ma una ragione ancora più precisa, l’attuale corso degli studi, mi consiglia una dimora in Germania. I1 lavoro che costituì l’argomento della mia tesi letteraria, e di cui solo l’ampiezza ha ritardato la pubblicazione, nacque da un lungo studio sulla civiltà e il pensiero medioevale in cui io venni organizzando i risultati intorno all’esame critico delle opere – nella più parte inedite e per la cui ricerca l’Accademia milanese mi fornì un sussidio – di Francesco da Barberino tra le più caratteristiche della tarda cultura enciclopedica dell’età di mezzo. Ebbi allora l’occasione di studiare i rapporti che il Medio Evo stabilì tra le scienze della natura, la scienza dello spirito e la religione, di porli a raffronto con lo stato loro nel Rinascimento e nell’età moderna. Ma i problemi che tali rapporti presentavano, gravi pure al pensiero contemporaneo e che costituiscono, giustamente interpretati, il problema della filosofia, compresa come sintesi del sapere, alla Cui Soluzione io mi ero venuto preparando con un paziente esame storico, richiamarono tosto il mio interesse. Mi posi ad un lavoro ordinato ma arduo e vasto e cominciai con l’esame delle teorie contemporanee sugli indirizzi scientifici di una filosofia della natura. Non occorre una cultura eccessivamente estesa per accorgersi quanto a tal problema oggi si rivolga il pensiero. Le scienze acquistano per mezzo dei suoi rappresentanti stessi, del Boltzmann, del Mach, del Poincaré, del Milhaud, del Duhem e altri numerosi, una nuova coscienza dei propri diritti e doveri. Le matematiche stesse, dopo gli studi sugli spazi aneuclidei del Lobatchewski e del Riemann e le ricerche infinitiste del Cantor, richiedono che i loro fondamenti siano riesaminati, e a ciò numerosi studiosi si sono rivolti: il Peano, il Russell, il Couturat, il Poincarè per tacere dei minori. D’altra parte una nuova filosofia della Natura, l’energetismo, l’Ostwald, il celebre chimico, fonda in Germania, mentre il materialismo si ringiovanisce nell’empiriocriticismo dell’Avenarius e del Petzoldt, e il pragmatismo idealistico del Bergson sembra rilevare, con genialità meravigliosa, vie affatto insospettate. Di più in Germania risorge lo Schellinghianesimo stesso, la metafisica dell’idealismo assoluto. In mezzo a tale enorme sviluppo di pensiero il mio lavoro procedette lentamente, per divisione. Il primo frutto fu uno studio che all’imminente sessione autunnale io presenterò come tesi di filosofia all’Accademia scientifico-letteraria, sull’idea di Natura nella filosofia francese della libertà e della contingenza considerando l’empirismo del Boutroux, il neocriticismo del Renouvier, le differenziate forme idealistiche dell’Hamelin, del Secrétan, dell’Evellin, del Bergson e gli studi metodologici che a tale corrente si riattaccano. Sarebbe così venuta l’ora di occuparmi dei molteplici indirizzi sorti in Germania, ma i primi tentativi mi hanno persuaso che, a non voler essere vanamente sommario, rimanendo in Italia, tale opera è impossibile. […] Ho nominato le mie condizioni finanziarie: esse, come risultano dai documenti, non sono di povertà, sono tali però che mi hanno fatto concedere dall’Accademia presso cui ho studiato la dispensa totale dalle tasse, sono tali che non pure non mi consentono un soggiorno fuori d’Italia, ma non mi consentono di rimanere, finita la scuola, senza occupazione remunerativa a carico della mia famiglia. D’altronde non so se sia più triste la condizione di chi sin dal principio deve rinunciare allo studio o piuttosto quella di chi, raggiunto un diploma che gli apre dinanzi una professione in sé misera di soddisfazione e di guadagno, deve rinunciare a quell’unico desiderio, a quella sola speranza che gli hanno fatto lasciare le vie più remunerative, il desiderio e la speranza di potersi raccogliere nella serietà di uno studio cosciente dei propri fini e del proprio significato, da attingere in esso una serena onestà e indipendenza di pensiero che egli possa riflettere su quegli spiriti alla cui educazione la sua carriera lo chiama “. La Commissione dell’Istituto Franchetti non sbagliò di giudicare e, qualche mese dopo la tesi di laurea, nel marzo del 1910, Banfi con l’amico Cotti prese la via della Germania. Il 28 aprile venne immatricolato alla Facoltà di Filosofia della “Friedrich Wilhelms Universitat” di Berlino seguendo nel primo semestre, secondo quanto risulta dal suo libretto universitario, i corsi di Riehl, del Lasson, Simmel, Spranger e Harnack, e nel secondo semestre – dall’ottobre 1910 al marzo 1911 – i corsi dell’Erdmann, Simmel, Dessoir, Lasson, Munsterberg e Wilamowitz-Moellendorff. In questo anno fu vicino a Simmel, del quale frequentò familiarmente la casa, e a Dessoir. Nella primavera del 1911 Banfi ritorna in Italia e prende parte ai concorsi per le cattedre di filosofia nei Licei riuscendo sesto tra gli idonei e diciassettesimo in graduatoria. Nell’ottobre del 1911 ottiene per sei mesi la supplenza di filosofia a Lanciano, scaduta la quale viene trasferito ad Urbino dove vi resta sino alla fine dell’anno scolastico 1911-12. Nel novembre del 1912 il Ministero della Pubblica Istruzione gli comunica la vittoria della cattedra di filosofia con la possibilità di scelta tra quattro sedi. All’inizio del 1913 Banfi passa come professore straordinario al liceo di Jesi e vi rimane per tutto l’anno scolastico. In agosto gli giunge la nomina di ordinario al Liceo di Alessandria dove si reca nell’autunno del 1913 svolgendo il suo insegnamento presso il Liceo Piana e, come incaricato, alle locali scuole magistrali. Quale testimonianza particolarmente interessante per rilevare la tonalità morale che percorre questi anni di formazione e di studio del giovane Banfi vale la pena di riportare la conclusione di una relazione degli studi e della carriera didattica che egli inviava il 5 maggio 1912 da Urbino, dove insegnava, al Ministero della Pubblica Istruzione: ” Della direzione e dei risultati dei miei studi filosofici, a cui ho dedicato la mia attività spirituale non mi giova parlare in un documento burocratico. Della loro severità e intensità, fuor della coscienza, non ho altra testimonianza, se non forse il presentare – anche dopo l’esperienza dei passati concorsi – alcuna pubblicazione, il che vuol dire credere che il pensiero valga per se stesso, e debba liberamente svolgersi e maturarsi, e non ridursi all’ufficio miserabile di protettore dell’umile carriera di un pubblico insegnante “. Il 4 marzo 1916, al municipio di Bologna, si unì in matrimonio con Daria Malaguzzi Valeri, che poi per tutta la vita sarà la sua amorosa e sollecita compagna, vivamente partecipe del suo mondo intellettuale e morale. Allo scoppio della guerra, Banfi, riformato al servizio di leva, poté rimanere al suo posto di insegnante; una seconda riforma nella primavera del 1916 lo tenne ancora lontano dagli obblighi militari. In quegli anni in cui la scuola era assottigliata gravemente nel suo personale insegnante, Banfi, oltre alla sua cattedra, ricoprì più di un incarico, sempre con scrupolosa diligenza, e si guadagnò la stima dei colleghi e dei superiori. Nei primi mesi del 19′ 8 venne invece aggregato come soldato semplice all’ufficio annonario della Prefettura di Alessandria. Smobilitato all’inizio del 1919, riprese l’insegnamento al Liceo, mantenendo anche l’incarico alle scuole magistrali. Fu durante il periodo del primo dopoguerra che Banfi si avvicinò decisamente alle posizioni di sinistra Pur non militando all’interno del movimento socialista ne condivise a pieno le finalità, s’iscrisse alla Camera del Lavoro sin dal 1919, partecipò attivamente all’organizzazione della cultura popolare e divenne una delle personalità più in vista del mondo culturale democratico di Alessandria. In questi stessi anni venne nominato direttore della biblioteca comunale alessandrina, carica che mantenne fin che lo squadrismo fascista non riuscì a provocare il suo allontanamento. Di fronte alle minacce delle squadre fasciste mantenne sempre un atteggiamento di fermezza e di radicale opposizione. Nel mentre proseguiva l’attività didattica, Banfi si dedicò in quegli anni ad un intenso lavoro scientifico che ebbe il suo primo riconoscimento nel conseguimento della libera docenza il 9 dicembre 1924. Nella primavera del 1923, quando aveva già una notevole familiarità con le sue opere, conobbe personalmente Edmund Husserl durante una visita in Italia del filosofo tedesco. Da allora tenne sempre stretti rapporti con Husserl fino al 1938 quando egli si spense. Nel 1925 fu tra i firmatari della famosa risposta, redatta da Benedetto Croce, a un manifesto degli intellettuali fascisti. Nell’autunno del 1926, dopo 13 anni di insegnamento ad Alessandria, ottenne il trasferimento al R. Liceo-Ginnasio Parini di Milano dove insegnò ancora filosofia e storia. Nell’anno accademico precedente (1925-26) e in quello stesso anno (1926-27) chiese all’Università di Milano di tenere i seguenti corsi: “La filosofia neo-kantiana della religione” e “La filosofia francese della libertà”, richiesta che, peraltro, rimase senza seguito pratico. Nell’anno accademico 1929-30 tiene invece presso la stessa sede universitaria un corso libero di filosofia non pareggiato. Frattanto il primo dicembre 1929 ottiene il comando dal Liceo Parini al Regio Istituto superiore di Magistero di Firenze dove viene incaricato del corso di filosofia che inizia il 3 febbraio 1930. Nell’anno successivo gli fu rinnovato il comando e l’incarico all’Istituto di magistero venne esteso alla storia della filosofia. Il Consiglio direttivo dell’Istituto stesso in data 30 aprile 1931 dell’opera didattica svolta da Banfi dava questo giudizio: “Il Prof. Antonio Banfi qui comandato per l’insegnamento della filosofia e storia della filosofia ha rivelato doti veramente eccellenti di studioso e di insegnante, interessando vivamente la scolaresca alle sue lezioni sui classici della filosofia antica e moderna con metodo rigorosamente scientifico. – E. Codignola”. Nello stesso 1931 presentatosi al concorso a professore straordinario alla cattedra di storia della filosofia dell’Università di Genova, riuscì vincitore. La commissione giudicatrice composta da Faggi, Gentile, Aliotta, Schiaffini, Carabellese gli assegnò i1 primo posto della terna con tre voti, e, per quanto riguarda la valutazione scientifica, il giudizio era il seguente: “Il Banfi richiama a sé l’attenzione dei commissari, quale studioso seriamente preparato a salire la cattedra messa a concorso, per la vastità della cultura, la vigoria del pensiero, la molteplicità degli argomenti trattati. Si nota, specie nel suo lavoro fondamentale (Principi di una teoria della ragione), certa oscurità forse non disgiunta da immaturità di pensiero teoretico, oscurità però, che, a giudizio della maggioranza dei commissari, non toglie che il Banfi emerga sugli altri concorrenti”. La data del documento è del 13 ottobre. Negli anni tra il 1925 e il 1931 ebbe diretti rapporti con il gruppo culturale diretto da Giuseppe Gangale che faceva capo alla rivista “Conscientia” e alla Casa editrice Doxa. L’iniziativa di Gangale si ispirava ad un neo-calvinismo critico e liberale ma si valeva della collaborazione più vasta ed aperta. Il fatto che in questa sede, in pieno fascismo, (ma nel 1932 anche questa voce fu spenta) potessero essere dibattuti problemi di attualità culturale con uno spirito di libertà, e che Banfi, proprio in quel tempo, dimostrasse un vivo interesse storico per le correnti teologiche del protestantesimo, spiega, in un senso generale, l’assiduità e la positività di questa collaborazione. Dopo l’esito del concorso ricopre la cattedra di Genova per l’anno accademico 1931-1932 svolgendo un corso sul pensiero kantiano e contemporaneamente a Milano viene incaricato dell’insegnamento dell’estetica. L’anno successivo viene definitivamente chiamato a Milano per la cattedra di storia della filosofia. Dal 1932 iniziano gli anni più proficui dell’insegnamento banfiano ed è in quel periodo che si venne formando quel solido nucleo di studiosi che, nella cultura filosofica italiana, oggi vengono definiti “della scuola di Banfi”. Il suo atteggiamento, in quel periodo tragico della cultura nazionale, fu sempre improntato alla più viva libertà di pensiero e le sue lezioni, oltre che un rigoroso insegnamento filosofico, costituirono una scuola di antifascismo. E non è senza significato che tra gli arrestati dai fascisti al principio dell’aprile del 1937 (l’azione repressiva culminò con il processo dell’ottobre nel quale il Tribunale comminò una serie di durissime condanne) figurassero alcuni giovani della Facoltà milanese di Lettere e Filosofia. Nel 1940 fondò la rivista “Studi Filosofici” che divenne il centro di raccolta delle nuove energie che uscivano dalla sua stessa scuola. Sul finire del 1941 Banfi entrò in contatto con l’organizzazione clandestina del Partito comunista italiano e aderì a questo movimento. Immediatamente dopo il 25 luglio 1943 Banfi, attraverso Bruno Venturini, ucciso poi da nazi-fascisti, tiene direttamente i contatti con Giovanni Roveda allora responsabile per la zona di Milano dell’organizzazione clandestina del Partito comunista. Dello stesso 26 luglio è un manifesto in cui si chiede l’immediata abolizione nelle Università delle discriminazioni politiche e razziali. Il documento porta le firme di Banfi e dei professori Francesco Brambilla per la “Bocconi”, Pietro Bucalossi per la Facoltà di Medicina, Ezio Franceschini per l’Università Cattolica, Giorgio Peyronel della Facoltà di Scienze, Mario Rollier per il Politecnico. Nel periodo che va fino all’8 settembre 1943 Banfi partecipa a numerose riunioni di professori che avevano lo scopo di porre le basi per un sindacato libero della scuola. Dopo 1’8 settembre Banfi prende direttamente parte all’organizzazione della Resistenza. Nel 1944 fonda con Eugenio Curiel il “Fronte della Gioventù”. Nello stesso periodo fonda l'”Associazione professori e assistenti universitari”, l’organizzazione clandestina che dirige la lotta antifascista nel settore universitario. Durante tutto il periodo della Resistenza Banfi prosegue le sue lezioni accademiche che cessano solo il 17 marzo 1945, poco prima della fase insurrezionale. A riconoscimento della sua azione in questo periodo la “Commissione di riconoscimento qualifiche partigiani per la Lombardia” gli conferisce la qualifica di partigiano combattente nel III Gap per il periodo dal 9-91943 al 25-4-1945. Dopo la Liberazione Banfi si prodigò per organizzare quelle strutture culturali necessarie per il rinnovamento intellettuale e morale del Paese. Immediatamente dopo l’insurrezione fonda il “Fronte della Cultura” che vuole raccogliere tutte le energie moderne e sensibili dell’intelligenza nazionale. Lo statuto dell’associazione che è della fine del 1945 risente direttamente dell’impostazione culturale banfiana: basterà a questo proposito, citarne alcuni paragrafi: “A) dare vita ad attività che promuovano, approfondiscano ed allarghino un clima di comune interesse e di reciproca comunicazione tra gli uomini di cultura e le masse popolari; B) realizzare una concreta e libera comunione di interessi culturali di tutte le forze intellettuali, nella loro attiva partecipazione alla vita del Paese; C) promuovere un’azione volta a colmare il distacco tra il mondo universale e il mondo delle specializzazioni tecniche”. Nella stessa direzione culturale, come strumento di raccolta delle energie e di incontro delle tendenze, si muove la fondazione al termine del 1946, in collaborazione con Ferruccio Parri e con altre personalità, della Casa della Cultura di Milano. Sempre nel 1946 riprese a pubblicare “Studi Filosofici” e venne chiamato a far parte del gruppo editoriale della rivista “Philosophy and Phenomenological Research” che negli Stati Uniti riprendeva sotto l’impulso del Farber e la cura di Frau Husserl la tradizione hussediana. Sul piano più strettamente politico Banfi partecipa alla vita del Partito comunista con conferenze, dibattiti, comizi. Nel 1948, come candidato del “Fronte democratico popolare”, viene eletto senatore nel collegio di Abbiategrasso. Fa quindi parte della sesta commissione del Senato per la Pubblica Istruzione In questa sede, e nel lavoro parlamentare, partecipa vivamente all’attività legislativa e svolge un’energica azione in difesa della scuola nazionale, universitaria e secondaria. Di questi stessi anni sono una seri di viaggi politico-culturali che conducono Banfi in Belgio, Olanda, Francia, Polonia. Nel 1949, per la prima volta, Banfi si reca nell’Unione Sovietica da cui torna con una viva e positiva impressione. Tornò successivamente in Urss altre due volte nella sua qualità di commissario per l’Italia del Premio Lenin. Nel 1953, il 7 giugno, venne rieletto al Senato nel secondo collegio di Cremona. Poco prima dello svolgimento delle elezioni Banfi compì un lungo viaggio nella Cina, fino in Mongolia. In Cina ebbe occasione di celebrare il centenario leonardesco. Da questo viaggio Banfi tornò con un’impressione vivissima, e quella occasione fornì lo spunto per la sua ripresa di studi intorno alla cultura cinese. Nel 1954 si recò in Inghilterra e nella primavera del 1957 tornò per l’ultima volta in URSS. Quivi prese contatto con esponenti della cultura cinese, indiana e mussulmana nel quadro del piano che egli aveva tracciato per la ripresa di “Studi Filosofici”. Nonostante la ricca partecipazione alla vita politica, l’attività fervida dedicata all’organizzazione della cultura, gli interessi molteplici della sua personalità (oltre che professore universitario e senatore della Repubblica era consigliere comunale di Milano, membro del Comitato Centrale del PCI, membro dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, accademico dei Lincei vice-Presidente della Federazione Internazionale sindacale dell’insegnamento, Presidente della sezione sociologica del Centro di Prevenzione sociale, vice-Presidente della Società filosofica italiana, membro dell’Unione interparlamentare, nel Consiglio della Società Europea di Cultura, Presidente dell’Associazione Italia-URSS, membro del Centro studi per la Cina, membro del Comitato Thomas Mann), anche in questi anni tenne regolarmente i suoi corsi universitari, ebbe cura dei suoi nuovi scolari, indirizzandoli e aiutandoli negli studi scientifici e proseguì la ricerca teorica. Nell’estate del 1957, dopo aver regolarmente terminato i corsi all Università degli Studi, dove dirigeva la scuola di perfezionamento, e all’Università Bocconi, cadde ammalato ai primi di luglio. Dopo circa 20 giorni di malattia morì alle 15,30 del 22 luglio alla clinica Columbus di Milano circondato dalla moglie, dal figlio e dal gruppo dei suoi più affezionati scolari. Le sue ultime parole, come un estremo invito alla vita, furono: “che gioia, che gioia”.
IL PENSIERO
Durante i quasi quaranta anni (dall’inizio del secolo alla seconda guerra mondiale) dell’egemonia idealistica in campo filosofico, si delinearono peraltro in Italia anche altre posizioni di pensiero e maturarono alcune alternative teoriche legate a gruppi e scuole di diversa provenienza. Tra questi orientamenti non idealistici un posto centrale, per l’ampiezza del suo orizzonte culturale e speculativo e per la fecondità dei suoi sviluppi, è occupato dal razionalismo critico di Antonio Banfi. Nato nel 1886 a Vimercate (Milano), Banfi studiò a Milano, sotto la guida del filosofo kantiano Piero Martinetti, e nel 1910-11 frequentò in Germania i seminari di Simmel e Husserl. Insegnante per vari anni nei licei, dal 1939 alla morte (1957) fu professore nell’università di Milano. Importante per Banfi fu anche l’esperienza della Resistenza, che contribuì a promuovere una trasformazione in senso marxista del suo razionalismo critico e lo spinse nel dopoguerra sulla via di un accentuato impegno politico. Alle origini della riflessione banfiana sta un preciso rapporto col trascendentalismo di Kant e con la “filosofia della vita” di ascendenza simmeliana. Attraverso Kant, Banfi concepisce la filosofia come conoscenza antimetafisica , critica e fenomenologica, rivolta essenzialmente a fissare le condizioni strutturali che rendono possibile e organizzano le varie forme dell’esperienza. Tali condizioni, che si collegano tra loro fino a costituire un sistema, hanno una fisionomia soprattutto ideale: piuttosto schemi trascendentali e costruzioni regolative del sapere che non strutture date empiricamente e oggettivamente. L’influenza di Simmel è invece accertabile in Banfi nella sua interpretazione della realtà come universo dinamico e vitale, articolato da infinite “forme” culturali. Queste forme non sono costituite da principi o valori universali-astratti , ma agiscono nella concreta realtà umana e storica, assumendo una grande varietà di aspetti e significati. Quanto alla filosofia, essa è concepita in primo luogo come presa di coscienza razionale del complesso rapporto intercorrente tra esperienza vissuta e forme spirituali. La sua funzione fondamentale consiste nel cogliere e nell’analizzare, relativamente ai vari campi della cultura, sia i loro presupposti e le loro strutture fondative, sia la loro ricca fenomenologia. Accanto a Kant e Simmel l’altro grande maestro di Banfi fu Husserl, dal quale egli trasse un orientamento antipsicologistico nell’analisi del pensiero, una concezione accentuatamente teoretico-gnoseologica della filosofia e un programma di descrizione fenomenologia dell’esperienza. Secondo Banfi ” il problema fondamentale per l’Husserl è quello di un’universale sistemazione teoretica, in cui non solo trovi interpretazione unitaria la complessa varietà dell’esperienza, ma si raccolgano in armonico significato razionale le differenti direzioni del sapere “. Nel pensiero di Banfi sono presenti anche altre due componenti essenziali: l’hegelismo e il marxismo. Secondo la stessa testimonianza di Banfi, Hegel fu ” il primo tra i grandi maestri ” che lo guidò ” sulla via del pensiero speculativo “. Di Hegel Banfi valorizza il rapporto dialettico tra ragione e realtà, l’esigenza di una riflessione sistematico-unitaria sull’esperienza vista come compito primario della filosofia, la concezione dinamico-processuale di questa stessa esperienza. Infine l’orientamento marxista matura in Banfi non solo in rapporto a certi studi e letture, ma anche (come si è accennato) in rapporto a determinate esperienze personali e politiche. Nel periodo della crisi bellica e post-bellica, Banfi sottolineerà la validità del marxismo sia come teoria della rivoluzione sociale, sia come principio di rinnovamento etico e culturale. In effetti il marxismo potenzia, a suo avviso, ” l’atteggiamento critico del pensiero ” e diviene la forma più ricca della “ coscienza storica ” e dell’attività intellettuale. E’ tra il 1922 e il 1943 che Banfi ha organizzato in sede dottrinale la propria posizione filosofica. Essa assume, sempre più chiaramente, l’aspetto di un ” razionalismo etico ” (l’espressione è dello stesso Banfi) che integra esperienza e ragione in una prospettiva non dogmatica. Tale razionalismo critico si esprime, da un lato, in una concezione della ragione come principio fondante e unificante ma, insieme, anche intimamente articolato e pluralistico; dall’altro, in un’analisi fenomenologica della cultura, indagata nei suoi diversi piani e momenti e nelle loro condizioni di possibilità. Le opere fondamentali in cui questo razionalismo critico viene gradualmente elaborato sono La filosofia e la vita spirituale (1922) e i Princìpi di una teoria della ragione (1926), cui seguono nel 1939 l’importante Vita di Galileo Galilei e nel ’43 l’ampio articolo programmatico, intitolato non a caso Per un razionalismo critico . Contemporaneamente Banfi svolge anche un complesso discorso su figure e problemi della filosofia antica e moderna, approdato a saggi su Rimmel (1931), su Hegel (1936), su Husserl (1939) e su Socrate (1943). Nel 1940 il pensatore milanese fonda e dirige (fino al 1949) la rivista “Studi filosofici”, che accoglierà anche le voci dei suoi scolari e porterà avanti un programma di approfondimento e sistematizzazione della riflessione teoretica, oltre che di vivace apertura alle esperienze spirituali e culturali contemporanee. Nel 1959 esce l’ampia raccolta di studi La ricerca della realtà , in due volumi, che conclude insieme con i Saggi sul marxismo (1960) la ricerca filosofica di Banfi. Già a partire dagli anni ’30 Banfi operò nella cultura filosofica italiana anche attraverso una ricca serie di iniziative editoriali. Nelle sue scelte di autori e testi stranieri da introdurre in Italia, egli privilegiò – in funzione palesemente antiidealistica- la filosofia della vita (Simmel), le cosiddette filosofie della “crisi” (da Kierkegaard a Nietzsche, da Barth agli esistenzialisti), il pensiero fenomenologico. Mediante queste scelte egli proponeva una rilettura della filosofia europea che trovava i suoi momenti centrali nella riflessione sulle forme dell’esperienza e della cultura, nell’interpretazione della crisi storica della civiltà moderna e nell’esigenza di una rifondazione del pensiero secondo le prospettive di una razionalità anti-dogmatica e pluralistica. E’ sempre in questa prospettiva che vanno collocati anche i richiami di Banfi alla filosofia anglo-americana . L’impegno editoriale banfiano si concretò soprattutto nelle collana “Idee nuove”, curata per l’editore Bompiani di Milano, dove apparvero volumi di Windelband e di Simmel, di Hartmann e di Scheler, di Klages e di Jaspers, di Santayana e di altri pensatori anglo-americani. L’insegnamento universitario di Banfi produsse a poco a poco una vera e propria “scuola” che, sviluppandosi oltre le posizioni del maestro e anche in direzioni diverse rispetto al suo razionalismo critico, alimenterà il dibattito filosofico italiano fino agli anni ’70. Di questa scuola Remo Cantoni, Enzo Paci, Giulio Preti sono stai gli esponenti più significativi. Ma accanto ad essi vanno ricordati almeno Giovanni Maria Bertin, che ha proseguito le riflessioni pedagogiche di Banfi, e Dino Formaggio, che ne ha approfondito le riflessioni sull’arte e l’estetica. Come si è accennato, il razionalismo critico banfiano si muove intorno a due problemi fondamentali: il rapporto esperienza-ragione e la nozione di “idea di ragione”. Esperienza e ragione sono, per Banfi, autonome eppure organicamente intrecciate: la ragione esiste e opera solo nell’esperienza, mentre l’esperienza diviene significante dolo in rapporto con le strutture ideali della razionalità. I due princìpi dell’esperienza e della ragione vanno intesi però in senso non ontologico realistico, ma trascendentale. Essi sono infatti nozioni “formali” e “neutrali”. Scrive Banfi: ” La neutralità del concetto di esperienza è il preludio alla neutralità del concetto di ragione, che se quella pone i dati in quanto tali, indipendentemente dalla loro determinazione esistenziale, questa garantisce la loro risoluzione in un sistema di rapporti universali che non dipende, ma fonda gli della popolarità soggetto e oggetto, io e mondo. ” (La ricerca della realtà I, cap IX) L’esperienza viene valorizzata in ogni suo aspetto individuale e sociale, pratico e culturale. Di essa si indagano per un verso le concrete dinamiche storiche e fenomenologiche, per un altro quell’ordine che trova la propria unità e fondazione nell’idea di ragione. Come struttura organizzativa dell’ esperienza e del sapere, la ragione è un principio fondativo dinamico, un criterio regolativo e talora un compito: mai un dato. Essa è, più precisamente, l’orizzonte di ” universalità” che collega ” le astratte determinazioni esistenziali “; è la ” certezza universale della vita, dell’azione e della storia “; ed è ” riconoscimento della realtà e in questa di sé, riconoscimento continuo, progressivo che si accompagna all’universalizzarsi dell’azione dell’uomo “. La ragione si rende consapevole di se nella riflessione filosofica, che ne fissa le strutture teoretiche e le definisce come idea e forma trascendentale, fondante e unificante l’esperienza. Scrive Banfi: ” La ragione è la sfera in cui trovano la propria armonia e le direzioni di trascendentalità dell’esperienza, quelle in cui l’esperienza supera le sue particolari forme di antitesi soggetto-oggetto, poiché il trascendentale è appunto il momento della sintesi dei due termini, come legge dell’infinita loro relazione o della continuità dinamica dell’esperienza storica. ” (Principi di una teoria della ragione, I, 2) La ragione svolge i proprio compito attraverso tre momenti: la ” dialettica “, che si sviluppa attraverso il linguaggio gli elementi intuitivi della conoscenza e li eleva al piano della universalità razionale; l’ ” eidetica ” che fissa le varie idee come “leggi” di organizzazione e sviluppo dell’esperienza; la ” fenomenologia “, che determina il rapporto tra l’idea e le varie sfere dell’esperienza e della conoscenza. Delineata negli anni ’20 e ’30, questa concezione fu approfondita, dopo il 1945, attraverso il rapporto con marxismo. Razionalismo critico e materialismo storico convergono per Banfi nel richiamo alla storicità, nel carattere teoretico-pratico del principio di razionalità e nell’impegno ricostruttivo, anche in senso sociale, proprio della ragione. Nel pensiero banfiano tale convergenza operò soprattutto come esigenza e programma di carattere generale, nonché come criterio di impegno culturale e politico: non venne invece adeguatamente sviluppata in campo teoretico. La concezione banfiana della ragione implica il suo manifestarsi in una serie, potenzialmente infinita, di forme di sapere e di cultura. Rispetto a tali forme la filosofia tende a fissare le strutture categoriali che la caratterizzano, la dinamica del loro sviluppo interno, le connessioni col principio unitario in grado di organizzarle. Oltre che in sede teoretica, questo lavoro viene realizzato nella concreta trama delle discipline che trattano i principali ambiti dell’esperienza culturale e spirituale umana. Le discipline che vengono indagate da Banfi sono, in particolare, la pedagogia ( La problematicità della vita spirituale e il pensiero pedagogico di Gino Capponi del 1924; Sommario di una storia della pedagogia , del 1931; Scuola e società , del 1958), l’etica ( Sui princìpi di una filosofia della morale ,del 1934), la religione ( Lineamenti di una sistematica degli studi religiosi , del 1925), l’estetica ( Vita dell’arte , del 1947, e I problemi di un’estetica filosofica , del 1961), la scienza ( Cultura scientifica , in “Studi filosofici” del 1941, e L’uomo copernicano , del 1950) e la storiografia ( Problemi di storiografia filosofica , del 1951). La pedagogia si occupa del ” processo di formazione e di sviluppo della personalità spirituale, che si compie nel rapporto tra l’anima individuale e il mondo dell’esperienza e della cultura “. L’educazione si configura anzitutto come tensione tra individualità e esperienza sociale: una tensione orientata verso la ” esigenza di una sintesi vivente, organica ed attiva dei due estremi “. L’educazione, ancora, è caratterizzata da un necessario legame con la storicità, dalla valorizzazione della dialettica io-mondo nell’ambito dei processi formativi e soprattutto dell’uso regolativo della nozione di personalità, alla quale Banfi ha dedicato pagine assai fini e importanti. La pedagogia si costituisce come disciplina matura e compiuta quando passa dal piano della mera precettistica pratica a quello della riflessione teorico-normativa, per approdare infine alla ” riflessione idealizzante ” che identifica ” il fine ideale dell’educazione nella sua purezza e universalità ” e nella costituzione compiuta e armoniosa della persona umana. Nell’ambito della morale Banfi approfondisce soprattutto il rapporto tra ethos e individuo. Quando un determinato costume collettivo entra in crisi, si pone, per il soggetto umano, il problema di rinnovare l’idea di persona e l’immagine della società, ricollegandole tra loro su nuove basi. Si crea così una tensione tra valori pubblico-tradizionali e nuove esigenze assiologiche, la quale favorisce l’emergere di una moralità come responsabilità e scelta trasformatrice personale. Un nuovo sistema di principi viene contrapposto all’ethos esistente; in questa contrapposizione si viene affermando, anche attraverso profondi travagli, il fondamentale principio della libertà. Al tempo stesso, attraverso l’opera dell’individuo-persona si viene a maturare anche il piano dell’ethos. L’ etica banfiana appare legata ad una prospettiva, fortemente personalistica; mentre, sotto un diverso profilo, è caratterizzata dall’intima problematicità di tutte le possibili scelte dell’individuo. L’ esperienza religiosa si costruisce, secondo Banfi, attraverso una ricca e complessa dialettica che si stabilisce tra il momento dogmatico dell’affermazione del Dio trascendente e il momento della coscienza religiosa che vive interiormente i problemi connessi al rapporto tra uomo e Dio (peccato, salvezza, grazia). Di qui emerge la fenomenologia dell’esperienza religiosa elaborata da Banfi, che approfondisce soprattutto il momento della credenza e del misticismo (visto come momento centrale della religiosità) e la struttura delle religioni positive, a cominciare da quella del cristianesimo (concepito come ” la radicale definitiva esperienza religiosa “, ” capace di infinite variazioni e sviluppi “). Il ruolo teoretico della religione, su cui Banfi insiste particolarmente, consiste nell’affermazione dell’unità dell’esperienza in forma dogmatica e trascendente: un’esperienza che si pone, attraverso il discorso razionale della teologia, in stretto rapporto con la filosofia. La filosofia dell’arte deve valorizzare per Banfi l’esperienza estetica ” nella sua ricchezza e varietà irriducibile a un sistema chiuso di canoni e norme “. Essa deve poi fissare la ” legge della sua interna multiforme tensione e del suo movimento “. Si viene in tal modo a costituire una fenomenologia estetica che evidenzia alcuni aspetti dialettici e antinomici dell’esperienza artistica: l’autonomia e la condizionatezza dell’arte, la sua immediatezza e l’idealità, la mondanità e la sublimità, la concretezza e l’astrattezza. L’ arte non è altro che una sintesi vitale di queste prospettive antinomiche, che invece l’estetica deve fissare come elementi costitutivi intrecciantisi in forme sempre aperte a nuove configurazioni. Anche il concetto di bellezza è ” l’instabile prodotto di una dialettica ognora rinnovantesi tra regola ideale astratta e concretezza del gusto e del giudizio artistico “. L’opera d’arte, infine, non nasce tanto dalla cosiddetta ispirazione, ma è legata essenzialmente alle dimensioni della cultura e della storia. La creazione artistica è infatti impensabile fuori da un complesso rapporto con le altre forme spirituali dell’uomo. Quanto alla scienza Banfi la interpreta come un sapere critico composto di teoresi e prassi, di riflessione logico-metodologica e di sviluppo tecnico. Per dispiegarsi compiutamente in tale forma, è necessario che la scienza realizzi adeguatamente la propria “idea”, facendosi più rigorosa in senso critico-metodologico e organizzando un modello di ” ragione scientifica ” che giustifichi la complessità, la variabilità, l’ “elasticità” di queste forme di sapere e ” permetta di valutarne alla giusta stregua i risultati “. Intesa in tal senso, la scienza è indipendente dalla filosofia ma ” necessariamente vi si riconduce come alla propria garanzia, in quanto vuol fondere l’universalità delle sue leggi e dei suoi sistemi categoriali “.
GEZA RÒHEIM
A cura di Guido Marenco
“Noi parliamo di nevrosi ossessive; orbene, la nevrosi ossessiva di un individuo è naturalmente diversa da quella di un altro? Naturalmente, in certo senso, ogni caso, è sui generis, ma ciò che non riesco assolutamente a comprendere è perchè non dovrebbe esser lecito isolare e confrontare gli elementi comuni; mi sembra del tutto ovvio che qualsiasi metodo, il quale miri alla riduzione dei fenomeni a quanto in essi è sotteso, non può che operare nel senso appunto di isolare certi tratti“.
Geza Ròheim nacque a Budapest nel 1891. Il padre era un ricco commerciante. Fin dalla più tenera età mostrò un vivo interesse per lo studio dei miti e delle favole, divenendo un esperto del folklore ungherese. Dopo aver frequentato l’università di Budapest, studiò a Lipsia con Karl Weule ed a Berlino con Felix von Luschan. In Germania prese conoscenza approfondita del pensiero di Freud; tornato in patria trovò impiego nel Museo Nazionale Ungherese e sotto la guida di Sandor Ferenczi si dedicò all’attività analitica. Fu tra i primi a tentare una convergenza tra pensiero psicoanalitico ed antropologia, mostrando una vivissima sensibilità per la condizione esistenziale dei gruppi umani “visitati” più che semplicemente studiati, evitando quel tipo di approccio “coloniale” alle culture primitive tipica di tanta antropologia dell’ottocento. Nel 1938, per sfuggire alle persecuzioni razziali naziste, si trasferì negli Stati Uniti, dove morì nel 1953. Viaggiò a lungo in tutti i continenti, analizzando minuziosamente i miti, i sogni, le credenze, le cerimonie, i giochi, le feste, le abitudini sessuali ed alimentari di somali e aborigeni australiani, di melanesiani ed amerindi. I suoi lavori sono una preziosa fonte di informazione e costituiscono una documentazione unica. Molte notizie sugli usi, i costumi e le credenze di popoli e tribù sarebbero altrimenti andati perse in quanto ormai obsolete e comunque colpevolmente trascurati dalle alte scuole antropologiche.
Nei riferimenti bibliografici di Antropologia culturale di Ember & Ember – Il Mulino – testo destinato all’università, il nome di Ròheim non compare nemmeno nell’indice degli autori. Si tratta di una dimenticanza che da molto da pensare.
Fu autore di numerose opere tra le quali Psicoanalisi e antropologia, considerato il suo capolavoro, Gli eterni del sogno, Origine e funzione della cultura, Le porte del sogno, Il ventre materno, Magia e schizofrenia. Come egli stesso scrisse nell’introduzione a Psicoanalisi ed antropologia Ròheim fu subito in netta contrapposizione con le teorie culturaliste, specie quelle propugnate da Ruth Benedict e da Bronislav Malinowski. Per queste teorie ogni cultura si pone obiettivi diversi e ciò che conta, specie per Malinowski, è l’interrelazione dei tratti caratteristici. Per questa ragione: “tutte le interpretazioni possono avere un significato soltanto nel loro proprio contesto culturale.
A mio giudizio – continua Ròheim – questa tesi non è logicamente accettabile, anche se lo fosse dal punto di vista funzionale“.
A supporto di questa sua posizione Ròheim cita tre diversi casi di nevrosi in tre diversi suoi pazienti e si chiede se, ad esempio, il complesso di castrazione sia un fenomeno affatto diverso da individuo a individuo. “Noi parliamo di nevrosi ossessive; orbene, la nevrosi ossessiva di un individuo è naturalmente diversa da quella di un altro? Naturalmente, in certo senso, ogni caso, è sui generis, ma ciò che non riesco assolutamente a comprendere è perchè non dovrebbe esser lecito isolare e confrontare gli elementi comuni; mi sembra del tutto ovvio che qualsiasi metodo, il quale miri alla riduzione dei fenomeni a quanto in essi è sotteso, non può che operare nel senso appunto di isolare certi tratti“. Ma a queste premesse in buona parte condivisibili, Ròheim fa seguire delle analisi quntomeno discutibili. Ad esempio, egli scrive giustamente che la scoperta fondamentale di Freud consiste nel fatto che il bambino non è un semplice agente passivo riflettente l’ambiente circostante, ma un distorsore dell’ambiente stesso. Ma qui aggiunge: “in una mia precedente opera ho finalmente dimostrato come nella fiaba australiana gli orchi cannibali rappresentino i genitori del bambino, e ciò nonostante, che i genitori australiani siano madri e padri oltremodo indulgenti e comprensivi…
Qualunque cosa la madre faccia o non faccia, a causa delle proprie aggressioni orali, (Melanie Klein, Bergler, ecc.) il bambino proietterà la madre (e più tardi il padre) in figura di demone cannibale.
Non c’è una cultura in cui non si incontrino orchi, i quali nulla hanno a che fare con istituzioni strutturali o sovrastrutturali. La strega che vuole mangiarsi Haensel e Gretel nella fiaba dei fratelli Grimm, non è che la fantasia di distruzione corporea del bambino in forma fiabesca. Nella foresta, i fratellini affamati si imbattono in una casa fatta di marzapane e coperta di cioccolato; ne esce una vecchia strega e li invita a entrare. Nella casa, Haensel e Gretel trovano latte, dolci, zucchero, mele e lettini comodi, sicchè credono di aver toccato il cielo con un dito.
Poi, però, il bambino si ritrova chiuso in una stia e messo all’ingrasso, mentre la sorellina è malnutrita e costretta ai più umili lavori.
Proviamo a considerare i due bambini come un’unica persona – continua Ròheim – : ci accorgeremo allora che la frustrazione orale (rappresentata dalla persona della sorella) trasforma la madre in strega cannibale, decisa a infilare la sorella nel forno come una “pagnotta”; ma Gretel chiede alla vecchiaccia di mostrare come si fa, e così a essere infilata nel forno è la cattiva strega. Uccisa la quale, i due fratellini trovano gioielli e perle, che prendono e portano con sè“.
L’interpretazione di Ròheim, a questo punto, consiste nel condensare la fiaba come se fosse un sogno. In sè il procedimento è corretto. Casa di marzapane e corpo della strega sono tutt’uno. Però la conclusione è distorta e contorta. Dal momento che a finire nel forno è la casa-strega – dice Ròheim – è chiaro che la madre-strega finisce mangia i bambini (proiezione) perchè il bambino-bambina voleva divorare la madre-strega. “Stando a Melanie Klein e alla scuola psicoanalitica inglese, tutti i bambini hanno fantasie di distruzione corporea, vale a dire fantasie di aggressione orale in cui divorano il corpo della madre o penetrano in esso e distruggono o incorporano “oggetti buoni” supposti dentro la madre. Nella fiaba di Haensel e Gretel, quando i fratellini, uccisa la strega, fan ritorno a casa, scoprono che la loro madre è morta, così confermando al di là di ogni dubbio, l’identità di strega e madre“. Questa interpretazione di Ròheim, come egli stesso ammette, di origine kleiniana e non freudiana, pare trascurare diversi elementi.
In primo luogo è evidente che la condensazione onirica tra casa e strega potrebbe avere questo significato: i due fratellini sono andati alla ricerca di qualcosa in più, cioè qualcosa che la vera madre non poteva dare per diverse ragioni (povertà, malattia, vecchiaia eccetera). Lo hanno trovato. Questo qualcosa in più rappresenta in un certo senso la stessa società civile, la quale a prima vista, offre come un qualsiasi paese dei balocchi (per rimanere alle fiabe) un fiume di prelibatezze, ma poi si rivela ingannevole. Essa da per avere, e quando è ingiusta come una vecchia strega, essa da nulla o assai poco, ma pretende la tua stessa vita. Cioè pretende di mangiarti. La casa di marzapane è dunque la seduzione delle mille attrattive di una società opulenta; la strega è la sua vera essenza. I gioielli e le perle sono il simbolo stesso di questa ingiustizia, frutto di rapine e di ogni sorta di misfatti. Haensel e Gretel tornano a casa e trovano la loro madre morta, ma questa morte non ha una vera attinenza con l’impresa di Haensel e Gretel e l’uccisione della strega. La madre è morta o di crepacuore, o di malattia. I fratellini sono solo colpevoli di averla trascurata. Ho ritenuto opportuno inserire questa mia interpretazione ( che potrebbe anche non essere originale) perchè mi pareva giusto evidenziare come le esasperazioni della voracità infantile di Melanie Klein, assai poco freudiane peraltro, non portano ad una vera comprensione del contenuto dei miti e delle fiabe, le quali hanno sempre un referente storico sociale e non familiare.
Le figure degli orchi e delle streghe hanno senso, assumono significato in quanto espressioni di ingiustizia, di oppressione magica, di costante pericolo per gli innocenti appena venuti al mondo e già esposti al rischio di essere divorati o usati.
Ciò non esclude che vi siano madri cattive e padri orchi. Ma questa generalizzazione del padre-orco e della madre-strega non porta lontano, a mio avviso, nè in psicoanalisi, nè in antropologia. Tutto questo non esclude, ovviamente, che alcuni bambini possano distorcere a loro modo il rapporto con la casa-strega-madre esattamente nel modo ipotizzato da Melanie Klein e sviluppato antropologicamente da Ròheim. Ma questo modo sarebbe il contenuto stesso di una malattia che non esiterei a definire psicosi infantile, nemmeno nevrosi.
Ritornando a Ròheim, la sua impostazione anticulturalista fu sicuramente stimolante. Concordo sul presupposto che in antropologia sia necessaria la psicoanalisi in quanto è vero che molti comportamenti primitivi sono il risultato di fobie, dunque di nevrosi primitive, non di culture “particolari”, cioè superstizioni e subculture portate ad enfatizzare. Freud vide quindi giusto nel considerare i primitivi come “nevrotici”, naturalmente in senso un po’ diverso da quello medico e psicologico con il quale lo intendiamo oggi. Molte paure sono infatti fobie, e risultato di spostamenti, anche se non tutte le paure sono inconsce e presentano la caratteristica dello spostamento. Più si retrocede nel tempo e più incontriamo il terrore, dovuto ad ignoranza, per ogni manifestazione di potenza naturale. Pertanto la nevrosi, in particolare la nevrosi d’angoscia ha molto a che fare con la primitiva paura originaria per l’irruzione improvvisa di eventi terrificanti quali la comparsa degli orchi cannibali, o se vogliamo, dei cannibali veri e propri. Recentemente ho visto un film, il Tredicesimo guerriero, nel quale viene descritto, in un modo ovviamente hollywoodiano e quindi un po’ grossolano, un aspetto molto credibile di questa antichissima ed ancestrale vicenda. Ròheim scrive ancora che l’orco o la strega non sono il riflesso di uno specifico condizionamento sociale, bensì il riflesso di un io infantile nei primi stadi di sviluppo. Sarebbe come a dire che i cannibali non esistono o sono esistiti realmente, ma sono il frutto di una nostra invenzione fantastica. Poi, allo scopo di chiarire quali categorie concettuali utilizza nel corso del suo lavoro d’indagine, viene a chiarire il significato di super-io, ideale dell’io e preconscio, che sono tre concetti forti della metapsicologia freudiana. Trattiamo qui solo il significato di super-io per motivi di spazio. Per Ròheim il concetto di censura, strettamente connesso a quello di super-io, fu ricavato da Freud dalla politica: “lo scrittore politico il quale abbia da comunicare spiacevoli verità a coloro che detengono il potere, si trova in una posizione simile. Qualora si dica tutto quanto senza riserve, il governo cancellerà le verità in questione: retrospettivamente nel caso di espressione verbale delle opinioni, preventivamente qualora siano destinate alla stampa. Lo scrittore politico vive nel timore della censura, e di conseguenza eccolo moderare o mascherare l’espressione delle proprie opinioni“. Fin qui il testo di Freud, chiaramente collocato in un diverso momento storico. Ma Ròheim utilizza questo passo per parlare di censura onirica e polemizzare con gli antropologhi culturalisti, assai poco disposti ad accettare l’esistenza di una censura onirica. “Fittissime sono le nebbie e la confusione che avvolgono il concetto di Super-io – scrive Ròheim-. Frequentissima è, in bocca agli antropologhi, l’affermazione che mentre noi, vale a dire coloro che sono cresciuti nella cultura giudaico-cristiana, possediamo un Super-io, altri gruppi umani sarebbero governati soltanto dalla nozione di vergogna. Mi sia concesso, a tale proposito, di ricordare i primi esploratori europei, i quali riferirono che gli Ottentotti non avevano una religione: oggigiorno, la religione e la mitologia degli Ottentotti ci sono ben note. Poichè morale e Super-io sono in rapporto tra loro, benchè l’esatto nesso sia lungi dall’essere chiarito anche per quanto attiene alla nostra cultura, accade di frequente di udire antropologhi affermare che “questi gruppi umani non hanno Super-io, in altre parole il loro codice etico non è esattamente corrispondente al nostro.” Ruth Benedict, partecipando a un simposio, ha scritto che “il Super-io presenta componenti di tipo così diverso nelle due culture, la giapponese e la nostra, da indurmi a rinunciare a servirmi dell’espressione Super-io. Come mostrerò i Giapponesi non si preoccupano del problema del peccato ma invece e moltissimo, di quello del possibile ridicolo, in altre parole della vergogna. E’ per questo che ho rinunciato, oltre che all’espressione Super-io, anche a quella di complesso di inferiorità e ciò perchè un complesso di inferiorità giapponese è così diverso dai nostri che conviene, per meglio descriverlo, ricorrere ad altre espressioni. Allo stesso scopo, ho evitato nuemrosi altri vocaboli che ricorrono nelle nostre lingue, in quanto dotati di di connotazioni proprie della cultura occidentale.
Ritengo pertanto preferibile parlare, nel caso dei Giapponesi di alto livello di aspirazione anzichè di complesso di inferiorità nella nostra accezione. Sarà opportuno chiarire anche perchè ho fatto ricorso alla parola conscienceless (privo di coscienza), come pure all’espressione responsabilità per tradurre il giapponese makoto. Sono traduzioni che i giapponesi universalmente accettano: sono state usate nelle loro indagini, le hanno riportate nei loro giornali. Come già ebbi occasione di notare ne Il cristantemo e la spada è della massima importanza, per il pubblico anglo americano, afferrare i numerosi e diversi significati che possono assumere le parole coscienza e responsabilità””. Ròheim ha riportato questa lunga citazione di Ruth Benedict, tratta da Culture e Personality, Proceeedings of on Interdisciplinary Conference held under Auspices of the Viking Fund, New York 1949, per contrappore chiaramente ad essa la sua teoria antropologica.
Dice espressamente che questo passo è rivelatorio. In primo luogo questo tipo di antropologo ha interesse solo a evidenziare differenze e poi rifiuta l’esistenza dell’inconscio, anche quando lo ammette. Per i culturalisti l’inconscio è una sorta di ignoranza, non il luogo del rimosso. Però Ròheim evita di entrare nel merito dei problemi sollevati da Ruth Benedict, come se non fosse vero che la vergogna per la propria pochezza ed incapacità ha per i giapponesi un’importanza assai maggiore che il senso di colpa per un eventuale peccato. Ma questo è proprio il punto chiave. Non è che i giapponesi non hanno un super-io, hanno un super-io e quindi un concetto di morale diverso dal nostro. La frequenza dei suicidi per disonore, e non per peccato, è la dimostrazione che esiste una morale e che questa morale, quella del samurai e del guerriero, non consente di sopravvivere ad una codardia, ad una fuga dalle responsabilità. Per un giapponese il fallimento come imprenditore non è un peccato contro i lavoratori, nemici di classe, ma il fallimento come uomo capo e responsabile di quei lavoratori. Non c’è nulla di più disonorante che fallire in questo. E non c’è altra via di fuga che il suicidio. Ma che differenza fa chiamarlo senso di responsabilità, o altrimenti super-io? Per un giapponese avere un amante, essere omosessuale, o persino pedofilo, almeno fino a quando l’imperialismo culturale statunitense non è penetrato a fondo nei modelli culturali del dopoguerra, non era peccato e non era disonorevole. Era disonorevole non saper svolgere la propria funzione sociale, economica e politica. Il problema, allora, è che non ci sono solo culture, ma anche individui che anche in occidente provano lo stesso senso di vergogna dei giapponesi. E questo ha proprio a che fare con il tipo di super-io che è stato introiettato, un tipo di super-io che non è stato brevettato dai giapponesi, ma appartiene anche all’etica protestante, ad esempio, ed in genere ai popoli d’oltralpe. E’ più forte e diffuso in Svizzera, o anche nella Francia celtica, latina e cattolica, meno in Italia. La differenza con il Giappone sta nel fatto che da noi non ci si suicida. Si pagano le colpe, si finisce in galera per debiti, si chiede e si ottiene facilmente perdono. Spesso si fugge all’estero. Si conta sul fatto che siccome la macchina della giustizia è una lumaca, molti reati cadranno in prescrizione. E se ci si vergogna, non è che ci si vergogna per avere rubato, ci si vergogna per essere stati scoperti. Un po’ come Caino dopo aver ucciso Abele.
La via di fuga preferita è lo scaricabarile. Se la mia azienda è fallita è perchè gli operai sono dei fannulloni, non perchè io sono un incapace. Se le ferrovie fanno schifo la colpa è dei manovratori ubriaconi o dei macchinisti del Cobas, non dei dirigenti. Ma ciò non dovrebbe farci dimenticare, ad esempio, che il super-io di uno svizzero educato al calvinismo più bieco e radicale considera ricchezza e prosperità come il segno del favore divino e la disgrazia economica come segno di una sfiducia divina. Ciò non è esattamente la stessa cosa che accade nei giapponesi, ma si presta a diverse uguali considerazioni. Nei giapponesi il metro di misura sono i meriti degli antenati, la loro gloria ed il loro onore; negli svizzeri calvinisti il metro di misura è il favore divino. Un’antropologia veramente psicoanalitica dovrebbe quindi andare ben oltre le interpretazioni culturaliste, che come scrisse giustamente Ròheim, nel sommario conclusivo di Psicoanalisi e antropologia, vedono solo nazioni, culture nazionali, e non quanto c’è di comune ad ogni cultura, cioè nella razza umana nel suo insieme. Il problema, tuttavia, è che quanto c’è di comune ad ogni esperienza umana, è di difficile individuazione. In sostanza non è possibile pensare che tutta la teoria psiconalitica valga per tutto il genere umano, mentre ha senso considerare tutte le fobie che si manifestano in forma di nevrosi d’angoscia come paura derivante dall’ignoranza, cioè dal fatto che alcuni pericoli che avvertiamo sono ignoti, e che qualcosa ci impedisce di metterne a fuoco la vera natura. Vedremo in prossimi interventi di approfondire altri aspetti del pensiero di Geza Ròheim che, al di là di alcune esagerazioni, ha comunque un grandissimo valore documentario ed analitico sia per l’antropologia, sia per la psicoanalisi.
HEINZ VON FOERSTER
A cura di Jacopo Agnesina e Diego Fusaro
“Appena ho conosciuto una cosa, incomincio di nuovo a conoscerla. “
VITA, OPERE E PENSIERO
Heinz von Foerster è nato a Vienna nel 1911. Laureatosi in fisica presso l’Istituto di tecnologia dell’Università di Vienna, ebbe modo di conoscere e frequentare gli esponenti del Circolo di Vienna. Nel 1949 si trasferì negli Stati Uniti, dove divenne curatore delle famose Macy Conferences, una serie di seminari che si rivelarono una delle avventure interdisciplinari più feconde del nostro secolo. Risalgono a quegli anni i suoi interrogativi e i suoi tentativi di risposta sulla natura della vita e su quella della cognizione, che sfociarono in indagini sulla percezione, sulla memoria e sull’apprendimento, in un’ottica che andava talvolta a incontrarsi con alcuni concetti mutuati dalla cibernetica. Nel 1957 fondò il BLC (Biological Computer Laboratory), che divenne luogo di discussione interdisciplinare tra personaggi del calibro di Norbert Wiener, Johann von Neumann, Ross Ashby, Gregory Bateson, Margaret Mead, Claude Shannon e altri. Come egli stesso asserì, “non ho idea di quale sia la mia specializzazione. La mia specialità, forse, è proprio non avere una disciplina”. Nel 1976 si ritirò in pensione a Pescadero, in California. E’ morto nel 2002. Nonno” dei costruttivisti radicali e fondatore della disciplina da lui stesso battezzata “cibernetica del secondo ordine”, Heinz von aveva frequentato i rappresentanti del Circolo di Vienna, ma non focalizzò mai la propria attività intellettuale su un singolo settore della fisica o della logica, preferendo il fecondo vagabondare epistemologico che lo avrebbe portato nel corso degli anni a toccare settori della biologia e della teoria dei sistemi complessi, della neuropsicologia e della filosofia del linguaggio. Ma lo scienziato austriaco non era tipo da camminare nel solco degli altri. La cibernetica classica, nata negli anni Quaranta dagli sforzi di Wiener, McCulloch, Pitts, von Neumann e molti altri, era “la cibernetica dei sistemi osservati”, una disciplina che studiava le analogie tra i sistemi di controllo e di comunicazione (kybernès, in greco antico, è il timoniere) nelle macchine e nei sistemi viventi. La cibernetica del secondo ordine, inventata da von Foerster e altri scienziati e ricercatori negli anni Settanta, doveva essere la “cibernetica dei sistemi osservanti”, cioè dei sistemi viventi capaci di guardare se stessi, di osservare le proprie osservazioni. Heinz von Foerster prese a prestito concetti e paradigmi che si stavano sviluppando in biologia, in matematica, in fisica come quello di auto-poiesi, ideato da Humberto Maturana e Francisco Varela per distinguere i viventi dai non viventi, o quello di auto-organizzazione, tipica di sistemi complessi nei quali alcuni fenomeni “emergenti” non possono essere previsti, in maniera riduzionistica, partendo soltanto dalla conoscenza degli elementi di base del sistema. Von Foerster usò le novità epistemologiche sul mercato per costruire una teoria che tentasse di rendere conto dell’auto-referenza, (la caratteristica di alcuni sistemi biologici, per esempio noi umani, di contenere informazioni e conoscenza su se stessi), o l’auto-regolazione, ovvero la capacità che hanno alcuni sistemi (per esempio le società) di organizzarsi in base a principi dal basso verso l’alto anziché soltanto a causa di una pianificazione gerarchica, top-down. È più facile cambiare la società rendendo i singoli individui competenti e capaci di decidere – sembrava concludere lo scienziato austriaco – che non imponendo dall’alto, come in una repubblica dei saggi, le norme sociali “migliori”. Uno dei contributi importanti di Heinz von Foerster è il paradossale “principio dell’ordine dal rumore”: in un sistema complesso, il rumore non è sempre fonte di disordine, ma può invece portare a una crescita di organizzazione. Ma sul portato reale del pensiero dello scienziato austriaco, le opinioni si dividono: considerato da alcuni figura leggendaria e geniale (“il grande Heinz”), von Foerster fu invece ignorato e in alcuni casi duramente criticato da altri scienziati cognitivi, per la posizione epistemologica, che lui stesso, con un certo compiacimento, definiva eretica. Insieme a Ernst von Glaserfeld aveva scritto, infatti, Come ci si inventa, dedicato al racconto di “storie, buone ragioni ed entusiasmi di due responsabili dell’eresia costruttivista” (un libro tradotto e pubblicato in Italia quest’anno dall’editore Odradek). Costruttivista radicale, von Foerster sosteneva che gli oggetti che vediamo e gli eventi che viviamo non sono in realtà esperienze primarie, fatti oggettivi, ma mere rappresentazioni di relazioni: “Il mondo come le percepiamo” – scrisse – “è una nostra invenzione”. Uno dei suoi libri più noti si intitola infatti, provocatorio, La verità è l’invenzione di un bugiardo. Posizioni che piacquero molto ai costruttivisti, ad alcuni sociologi e filosofi della scienza, a certi cognitivisti, ma che altri psicologi e neurologi, più inclini al realismo epistemologico, considerarono ciarpame fumoso, sofismi di scarsa utilità scientifica. La realtà viene dal pensatore austriaco intesa come costruzione del soggetto. Il pensiero di Heinz von Foerster si muove – come abbiamo già accennato – all’interno del costruttivismo, anche se l’autore rifiuta tale etichetta. Il punto di partenza della sua riflessione è come sia possibile la conoscenza del mondo che ci circonda, da cui deriva il problema se la nostra conoscenza ci mostri una realtà già esistente, indipendente da noi; oppure se tale realtà sia una nostra costruzione. O, detto con le parole di von Foerster, “è il mondo la causa primaria e la mia esperienza ne è la conseguenza, o è la mia esperienza a essere causa primaria e il mondo la conseguenza?” (Attraverso gli occhi dell’altro). Inutile dire che von Foerster sostiene saldamente la seconda alternativa. Riallacciandosi al pensiero di Piaget, egli osserva infatti che gli oggetti del mondo vengono costruiti attraverso la nostra attività nel mondo, essendo il sistema nervoso e quello motorio strettamente dipendenti. In tale prospettiva non si può neppure affermare che il mondo abbia degli oggetti poiché, nel momento in cui si utilizza il termine “mondo, si sta già compiendo un’inferenza riguardo alla nostra esperienza. Anche le caratteristiche e le proprietà che si crede risiedano nelle cose si rivelano, in ultima analisi, essere proprietà dell’osservatore. Von Foerster ci propone come esempio due concetti molto usati nella scienza, il caso e la necessità. Da un punto di vista costruttivista, il concetto di necessità deriva dalla capacità di effettuare deduzioni infallibili (come quelle legate all’uso delle leggi scientifiche), mentre il caso deriva dall’incapacità di effettuare tale tipo di deduzioni (come accade, ad esempio, in tutti i fenomeni in cui è coinvolta una qualche forma di creatività). Ciò significa che caso e necessità riflettono nostre capacità o incapacità, e che esse non appartengono alla natura (Sistemi che osservano, pag. 200) L’osservatore è quindi colui che ordina e organizza un mondo costruito dalla sua esperienza: egli è al tempo stesso il costruttore e l’ordinatore della realtà, colui che stabilisce un ordine tra i tanti possibili; non un ordine qualsiasi, bensì quello a lui più utile e funzionale alle proprie attività. Il passaggio dalla cibernetica di primo ordine a quella di secondo ordine Come muta il rapporto terapeuta-paziente all’interno di una concezione che considera il soggetto come creatore della realtà. Le ricadute nel campo della cibernetica e della psicoterapia. La reintroduzione dell’osservatore, con conseguente perdita di neutralità e di oggettività, è il requisito fondamentale per l’epistemologia dei sistemi viventi. Questo mutamento di prospettive provoca conseguenze immediate nel campo dei sistemi cibernetici, con il passaggio da una cibernetica di 1° ordine, che studia le modalità di funzionamento dei sistemi, considerati separati dall’osservatore, alla cibernetica di 2° ordine, dive viene reintrodotto il ruolo dell’osservatore nella costruzione della realtà osservata. Le macchine cibernetiche di quest’ultimo tipo non agiscono nel mondo esterno in base ad algoritmi prefissati, dedotti da una realtà che si presume già data, bensì costruendo progressivamente una rappresentazione che dipende dall’esito delle precedenti interazioni con il mondo stesso. Le conseguenze dell’applicazione delle idee di Heinz von foerster in ambito psicoterapeutico sono il passaggio da una visione statica e passiva del paziente a una concezione dinamica che concede il massimo spazio a un dialogo bidirezionale, dove ognuno presta grande attenzione alle parole dell’altro, cercando per quanto possibile di porsi nella prospettiva da cui questi muove. Il terapeuta deve far domande a cui il paziente non aveva mai pensato prima. Più ambigue sono le domande, più esse sono aperte, e meglio è, poiché costringono il paziente a uno sforzo creativo a immaginarsi realtà e contesti del tutto nuovi, a confrontarsi con essi, uscendo dalla situazione attuale.
LA VERITA’ E’ L’INVENZIONE DI UN BUGIARDO
Questo libro riproduce una conversazione tenutasi nel 1997 tra un giovane giornalista, Bernhard Pörksen dell’ “Hamburger Sonntagsblatt” e il famoso fisico e cibernetico Heinz von Foerster. Personaggio, quest’ultimo, dalla vita e dagli interessi scientifici e teorici molteplici e stratificati: austriaco, nato e cresciuto ai primi del novecento in un ambiente familiare culturalmente ricco e sollecitante, ma poi venuto a contatto con le imprese e i progetti scientifici più creativi e avveniristici ideati, dopo la seconda guerra mondiale, nei fervidi laboratori di ricerca degli Stati Uniti, dove ha insegnato e vive tuttora; fisico e cibernetico, ma anche epistemologo, prestigiatore, pedagogo, filosofo morale. Di questa varietà di interessi il libro che presentiamo è testimonianza fedele: si discutono i problemi cardinali della gnoseologia, ma anche le domande più angoscianti sulla responsabilità etica dell’uomo, le modalità più produttive di apprendimento umano così come le lezioni epistemologiche che è possibile trarre dalla cibernetica. Le riflessioni di Foerster, ottimamente stimolate, è necessario osservarlo subito, dalle domande di Pörksen, ci restituiscono un’immagine del mondo cui noi non siamo forse più avvezzi: in essa gnoseologia, ontologia ed etica sono strettamente legate e tenute insieme. Non c’è problema gnoseologico che non abbia il suo risvolto etico o pedagogico e, viceversa, non c’è problema etico che non abbia il suo aspetto gnoseologico. Il cuore delle riflessioni del fisico austriaco è, tuttavia, la sua tesi gnoseologica, la cui descrizione occupa la prima parte del libro. Egli professa una posizione di radicale soggettivismo conoscitivo, un idealismo della percezione che potrebbe essere avvicinato a Berkeley. A suo giudizio esse est percipi, la realtà non esiste, né c’è qualcosa che possa dirsi oggettivo, giacché tutto ciò che è, è prodotto solo dalla percezione sensibile. Conoscere vuol dire allora “che all’interno del sistema nervoso vengono prodotte connessioni fra differenti sensazioni” (p. 16). Nella nostra vita possiamo essere certi solo del fatto che il nostro organismo percepisce e decodifica stimoli sensibili e non che a provocare questi stimoli sia stato un tale o un tal’altro oggetto esterno. E poiché le sensazioni cambiano non è possibile neanche parlare degli oggetti da esse rivelati come se fossero degli enti stabili ed immutabili. Gli oggetti sono in continuo divenire. È chiaro, quindi, che una volta che si supponga che il segreto della conoscenza sia la percezione di ogni singolo soggetto, ci si trova in difficoltà nel poter dimostrare in che modo allora gli uomini riescono ad avere, e a comunicarsele a vicenda, opinioni e concezioni comuni sul mondo. Il solipsismo è l’abisso che sempre si apre ogni volta che si assumono posizioni radicalmente antirealiste. Foerster ne è consapevole, tant’è vero che si ingegna a dimostrare che la realtà è sì costruzione, ma costruzione collettiva effettuata attraverso il medium del dialogo. Dialogo che, tuttavia, non gli serve a costruire un livello di realtà condiviso fra i diversi soggetti senzienti, ma solo a consentire ad ogni soggetto di costruire il suo referente esterno. Dunque, secondo lui, il soggetto non è solo. Queste indicazioni non ci sembra però che siano risolutive del problema cui facevamo precedentemente cenno: se ogni soggetto dispone, infatti, di una verità irriducibile a quella di ogni altro soggetto impossibile risulta di fatto l’atto dell’intendersi reciproco, per non parlare del destino che toccherebbe ai concetti, ai significati, etc. La distruzione della verità ha per lo scienziato austriaco, tuttavia, un immediato e salutare effetto etico: impone ad ogni individuo il rispetto di tutte le visioni e l’assunzione di una forte responsabilità rispetto a quanto si dice e si fa. Se, inoltre, la realtà è costruzione, allora è valido quello che Foerster chiama imperativo etico: “agisci sempre in maniera che il numero delle possibilità cresca” (p. 33). Si deve agire, cioè in modo da produrre nuove possibilità percettive. Possibilità percettive che possono ampliarsi solo a patto che si amplino la libertà degli altri individui e delle comunità umane. Da un princìpio di questo tipo sorgono innumerevoli conseguenze per ciò che riguarda la vita pratica degli uomini. Le prime conseguenze esaminate sono quelle educative: poiché non esiste una verità, ma tante verità quanti sono gli uomini, allora anche il bambino, l’allievo ha una verità da insegnare e non solo l’insegnante. Ciò che va quindi abbandonato è l’idea dell’educazione a senso unico, dall’insegnante all’allievo, che considera l’allievo come puro ricettore di una verità esistente già al di fuori di lui. Conseguentemente, anche il ruolo dell’insegnante va riconfigurato: esso deve sempre più identificarsi con quello del ricercatore che stimola gli allievi a elaborare il sapere e a collaborare in un clima di reciproca fiducia. Analogamente, è da riconfigurare il rapporto fra psicoterapeuta e paziente con problemi psichici. Foerster dimostra convincentemente che alcune malattie psichiche sono tali solo in alcuni ambienti culturali e terapeutici. Ma se molte delle patologie psichiche sono costrutti culturali, allora si devono modificare il significato di malattia e il corrispondente atteggiamento del terapeuta. Il terapeuta deve solo fare in modo che il sofferente sostituisca da sé le rappresentazioni della realtà che provocano dolore con quelle che producono sensazioni più piacevoli. Non meno profonde sono le correzioni che dovrebbero apportarsi alla scienza del management, al modo di organizzazione delle imprese, se esse si conformassero al criterio della verità come costruzione: il manager si trasformerebbe da possessore dell’unica verità ritenuta idonea per la strutturazione dell’impresa a puro collettore delle verità possedute da tutti i dipendenti dell’impresa stessa. Ma la verità come costruzione impone notevoli cambiamenti anche alla scienza dell’informazione; ciò che va rovesciato in questa scienza è il suo schema principale: il rapporto fra emittente e destinatario concepito in modo tale che il destinatario appare come il puro immagazzinatore dei messaggi lanciati dal ricevente. I concetti decisivi all’opera in tutto questo insieme di applicazioni pratiche del princìpio della verità come costruzione sono per Foerster quelli di autoriflessività, autorganizzazione, circolarità. Ciò che infatti manifesta ciascuna di queste applicazioni pratiche è la causalità reciproca e circolare dei vari fattori in essa implicati: l’allievo retroagisce sull’insegnante, il dipendente sul manager, il destinatario sull’emittente etc. E sul concetto di autorganizzazione circolare si fonda anche la cibernetica, di cui egli, lo abbiamo detto, è stato uno dei più brillanti esponenti. Le riflessioni che Foerster dedica alla cibernetica sono fra le parti più interessanti del libro. Colpisce, soprattutto, il rimando che egli fa, per spiegare i concetti fondamentali della cibernetica, alle categorie aristoteliche di causa finalis e di teleologia interna. Riaffiorano anche, nelle riflessioni del fisico austriaco su questo tema, benché egli non ne abbia consapevolezza, motivi kantiani ed hegeliani che pareva fossero stati definitivamente espulsi dal seno della scienza moderna. È, quindi, soprattutto da queste pagine e da quelle dedicate alle prospettive della vita pratica che provengono gli stimoli migliori e più intelligenti della riflessione di Foerster. Non così si può dire, invece, a proposito della sua gnoseologia, davvero ingenua, irriflessa e priva del necessario rigore filosofico.
LUDWIG KLAGES
A cura di Luca Leonello Rimbotti
VITA E OPERE
Nato a Hannover nel 1872, filosofo, psicologo e grafologo, Ludwig Klages visse e insegnò a Monaco, dove conobbe Stefan George – il maggior poeta tedesco dell’epoca – entrando nel George-Kreis, il famoso sodalizio di cui facevano parte molti intellettuali di valore (tra gli altri, Bertram, Wolfskehl, Kantorowicz, Gundolf). Collaborò alla prestigiosa rivista di George “Blätter für die Kunst“, alla cui ideologia romantico/estetizzante si formarono intere generazioni di giovani tedeschi. Nel 1899 formò un suo gruppo culturale, i Kosmiker, vicino alle idee dell’antichista Johann Jakob Bachofen e di Alfred Schuler, il visionario studioso di Nietzsche e di Roma antica. Distaccatosi nel 1904 da George, Klages fondò il “Seminario di Psicodiagnostica”, che gli dette la notorietà. Il senso ideologico di questo ambiente consisteva nel recupero dei valori “dionisiaci” e tellurici, con una rivalutazione dell’irrazionalismo e degli aspetti esoterici della vita e della persona umana. Autore prolifico e originale, durante il Terzo Reich fu nominato Senatore dell’Accademia Tedesca di Monaco ma, a partire dal 1938, rimase appartato per l’inimicizia che gli portarono Alfred Rosenberg e i seguaci dell’ideologia volontarista e virilmente eroica, egemone all’interno della cultura nazionalsocialista. Epurato nel 1945, morì nei pressi di Zurigo nel 1956. Tra le sue opere tradotte in italiano: L’anima e lo spirito (Bompiani, Milano 1940); Dell’Eros cosmogonico (Multhipla, Milano 1979); Perizie grafologiche su casi illustri (Adelphi, Milano 1994); Stefan George, in S.George-L.Klages, L’anima e la forma (Fazi, Lucca 1995); L’uomo e la terra (Mimesis, Milano 1998). Di prossima pubblicazione è la riedizione de I Pelasgi presso le Edizioni Herrenhaus di Seregno. Si tratta di un capitolo dell’opera principale di Klages, Der Geist als Wiedersacher der Seele (Lo spirito come avversario dell’anima), mai tradotta in italiano.
IL PENSIERO
Klages credeva che l’Amore, forza cosmica ancestrale, fosse impersonale e assoluto. Che vagasse nell’etere, come un’energia che proveniva dai mondi della creazione. Klages non era un visionario. O almeno, non solo. Era un filosofo-poeta contro l’epoca moderna. Nella società della tecnica vedeva la negazione della vera identità dell’uomo, che secondo lui proveniva dalle leggi primitive dell’esistenza, da ciò che lui chiamava anima. Anima è l’origine, è il segreto della vita, è il sigillo che ogni uomo e ogni popolo si porta dietro come un simbolo. Anima è la fusione con la natura, è la voce silenziosa degli avi, che non sappiamo più percepire. Tipico dell’epoca moderna è il voler andare contro l’anima, il voler costruire ideali artificiali, rapporti sociali falsi, utopie ingannatrici. Contro la purezza originaria della vita e contro l’armonia primordiale degli uomini e delle cose è sorto un giorno quel vizio assurdo che è lo spirito, cioè la ragione, l’intelletto razionalista. Energia distruttrice delle radici cosmiche dell’uomo, lo spirito ha in ogni epoca edificato imposture: tra queste, la coscienza repressiva invece dell’anima libera, la volontà tirannica invece della libertà senza limiti di spazio, la storia invece del tempo senza tempo. Si capisce subito che in Klages rintoccano alcune eco di Nietzsche: la celebrazione delle origini e delle radici, la nostalgia di un’epoca mitica – quella dei “Pelasgi” – in cui gli uomini erano potenze dell’universo prive di angosce e paure, padroni di se stessi e dei propri istinti sovrani. Nostalgia per l’epoca in cui sorsero i miti delle antiche civiltà, quando l’intuito, l’inconscio e le percezioni sensitive non erano ancora stati repressi dalle armi di distruzione della perversa intelligenza: il concetto, il giudizio, il criticismo. Quella era la vera vita: liberazione degli istinti e delle sensazioni, senza complessi, senza colpe, senza nessuna idea del “peccato”. Questo dell’uomo razionalista è invece il trionfo dell’anti-vita artificiale, che crea i mostri della tecnica e del progresso materiale. La vita come estasi. Se l’uomo fosse in grado di tornare alla magia dell’origine, potrebbe sbarazzarsi di tutti i fardelli angosciosi che impone la schiavitù della modernità, che ha robotizzato i cervelli e isterilito le anime. La libera psiche è Eros, amore cosmico, distacco romantico dai vuoti interessi terreni. Nel suo libro famoso Dell’Eros cosmogonico, risalente al 1922, Klages celebrò l’Amore totale, il magnete che attrae magicamente due poli anche lontani tra loro, al di là della semplice sessualità, come un moto unitario di natura e un legame di sangue: “Il compimento consiste nel destarsi dell’anima, ed il destarsi dell’anima è contemplazione, ma essa contempla la realtà delle immagini originarie; le immagini originarie sono anime del passato che appaiono; per apparire esse hanno bisogno del legame con il sangue di chi è ancora vivo ed ha ancora un corpo”. In questo “mistico sposalizio” tra anima e “demone generatore” si compie, alla maniera platonica, secondo Klages, la trasformazione del semplice uomo in uomo assoluto, cosmico. Klages amava la cultura romantica, che pensava per simboli, e che assegnava ai sentimenti il primo posto nella scala dei valori. Ma amava anche Goethe, la sua ricerca dei fenomeni originari come manifestazione del divino. Goethe era poeta, romanziere, scienziato. Ma uno scienziato che credeva ai fenomeni intuitivi, alla magia che è in natura. Ad esempio, il suo romanzo sulle Affinità elettive – in cui rappresentò il caso di una gravidanza condizionata dalla forza psichica del pensiero d’amore, al di là delle normali leggi biologiche – piacque moltissimo a Klages, che giunse a considerare Goethe come un maestro di sapienza inconscia, un poeta delle possibilità magnetiche della psiche umana. Non dunque il solare, l’olimpico genio che siamo abituati a conoscere, ma una sorta di mago indagatore dei segreti dell’anima e dei poteri occulti racchiusi nelle energie di Madre Natura. Ritroviamo questi temi nella recente traduzione italiana di un piccolo libro di Klages del 1932, Goethe come esploratore dell’anima (editore Mimesis), in cui Goethe diventa quasi un sacerdote neo-pagano. Egli, studiando ad esempio la metamorfosi delle piante, in realtà aveva penetrato il mondo delle segrete potenze primordiali: i mutamenti, le polarità, i magnetismi. Klages, con mentalità irrazionale e religiosa, vede dunque nel genio di Goethe non semplicemente un grande poeta o un grande romanziere, ma un uomo capace di avvicinarsi al cuore divino della vita. Scienziato mistico e non razionalista, Goethe diventa agli occhi di Klages il massimo profeta di un ritorno alla natura e alle sue leggi di attrazione tra simili e di differenziazione universale. Klages amò la natura, fu un “ecologista” ante-litteram. Nel suo capolavoro del 1929, Lo spirito come avversario dell’anima – un tomo di oltre mille pagine che fece epoca – Klages scrisse che “chi distrugge il volto della terra, uccide il cuore della terra e priva della loro ‘sede’ le potenze che ora si sono dileguate nell’etere”. Gli dèi sono fuggiti dal mondo perché l’uomo ha profanato la terra e desacralizzato la natura. Ma attenzione: tutto questo non era soltanto letteratura. Era molto di più. Nella rivalutazione dell’irrazionale e dell’inconscio c’era una guerra dichiarata al mondo razionalista, indifferenziato, democratico, ateo, materialista. Giampiero Moretti ha scritto che nell’idea di Klages di coniugare Goethe con Nietzsche c’era inciso il destino dell’Europa, “forse fin dai suoi primi albori, ad esempio, fin dal momento in cui le figure del guerriero e del sacerdote-poeta presero due strade diverse, spesso in lotta tra loro”. Ora tutto è più chiaro. Molto oltre la mediocrità della new-age attuale, e con tanta profondità culturale in più, Klages fece parte di quella ribellione tradizionalista al mondo moderno che fu pensata in Europa come un’arma di difesa della terra, del sangue, dell’istinto, dell’origine mitica, del simbolo ancestrale, dell’identità mistica di popoli e gruppi umani. Una cultura politicamente vinta e dispersa. Ma non abbastanza da non lasciarci immaginare che possa presto o tardi riemergere, proprio come una di quelle occulte leggi della vita studiate da Goethe.
GYÖRGY LUKÀCS
VITA E OPERE
Sotto il profilo teorico la figura più rilevante del “marxismo occidentale” è certo György Lukàcs (1885-1971). Nato a Budapest studiò a fondo filosofia, estetica e letteratura, che anche dopo la conversione al marxismo resteranno gli amori forse più profondi della sua vita. Formatosi prevalentemente in Germania, si legò in vario modo a personalità come Rickert, Rimmel e Weber. Poté così familiarizzarsi con le idee del neokantismo, dello storicismo, della “filosofia della vita”, e in genere con la grande tradizione filosofica tedesca. Questo apprendistato lo aiutò a prendere le distanze dal pensiero positivistica e a prepararlo a quella riflessione sulla storia e sull’agire umano ‘secondo fini’ che lo occuperà nell’immediato dopoguerra. Nei primi anni del secolo invece, Lukàcs pare prediligere altri ambiti di studio e di ricerca. Assai legate ad ambienti intellettuali tutt’altro che di ‘sinistra’, ed anzi ispirati a principi ed idealità aristocratico-decadenti (a cominciare dal celebre circolo raccolto intorno al poeta Stefan Gorge), è lì che Lukàcs acquisisce una vasta conoscenza della letteratura antica e moderna, ed è lì che accosta il pensiero di Kierkgaard e di Dostoevskij, di Shopenhauer e di Nietzsche, allo studio delle opere di Marx ed Engels si dedicherà, dietro sollecitazione di Ernst Bloch, solo più tardi, negli anni della guerra mondiale. Iscrittosi nel 1919 al partito comunista, partecipa all’esperienza “consiliare” ungherese realizzata da Bela Kuhn. Il suo fallimento lo obbliga a riparare a Vienna, dove scrive Storia e coscienza di classe (1923), il suo libro forse più celebre e originale. Dopo la nuova definitiva instaurazione del socialismo in Ungheria tornò in patria dove ebbe in certi periodi incarichi di alta responsabilità politica – anche se i suoi rapporti col regime comunista conobbero alterne vicende. Assai in auge nel secondo dopoguerra, dopo la rivoluzione del 1956 fu costretto invece a un sostanziale isolamento, mentre all’estero la sua opera incontrava un crescente successo.
LA FASE PRE-MARXISTA
Nelle opere giovanili ( Il dramma moderno , 1908; L’anima e le forme , 1911; Teoria del romanzo , 1916) Lukàcs esprime, in modi assai intensi e stimolanti interessi e interrogativi a metà strada tra l’estetica e una filosofia di tipo storico-esistenziale: il problema e la funzione dell’arte, la natura dell’uomo e il suo destino, il senso e il ‘telos’ della cultura d’occidente orfana dei princìpi di armonia e totalità che l’avevano caratterizzata ai suoi esordi classici. Nell’ Anima e le forme , forse il saggio più compiuto e significativo di quest’epoca, Lukàcs manifesta i propri debiti sia nei confronti della tradizione storicistico-neokantiana, sia nei confronti della problematica filosofica della vita e dei valori. Da un lato il proposito è di approfondire le specificità della dimensione artistica, dall’altro è quello di rapportare tale dimensione a una riflessione estico-esistenziale. Di particolare rilievo è la netta contrapposizione istituita tra arte e scienza : Lukàcs sottolinea che ” nella scienza ci impressionano i contenuti, nell’arte le forme; la scienza ci offre i fatti e le loro connessioni, l’arte invece ci offre anime e destini “. Lukàcs individua la differenza essenziale tra l’opera artistica e l’opera scientifica nel fatto che l’una è infinita, l’altra finita; l’una è aperta , l’altra chiusa; l’una è fine, l’altra è mezzo; l’una è qualcosa di primo e di ultimo, l’altra è superata ogni qualvolta si produce una prestazione migliore. Nell’ambito di questa impostazione di assoluta opposizione fra mondo della natura (scienza) e mondo dello spirito (arte, filosofia) Lukàcs concentra la propria attenzione non già sulle realtà empiriche quotidiane, bensì sulla realtà più vera dell’anima e delle idee. ” Non mi riferisco – scriveva – alla verità comune, alla verità del naturalismo, che meglio sarebbe chiamare quotidianità e trivialità, ma alla verità del mito, il cui vigore riesce a tenere in vita per millenni antichissime saghe e leggende “. In questo quadro di svalutazione della naturalità e della quotidianità dell’esistenza umana in valore centrale viene ad assumere il problema delle condizioni nella quali la vita può essere autentica. Lukàcs individua tali condizioni nella ” forma tragica “. Mentre l’esistenza naturale e quotidiana concepisce la morte soltanto come qualcosa di minaccioso e di assurdo, per il punto di vista tragico, invece, la morte è una realtà immanente, indissolubilmente connessa con ogni evento esistenziale. Un’adeguata acquisizione di ciò consente, se non l’elaborazione di orientamenti e valori positivi , almeno un atteggiamento di lucida ed ‘eroica’ consapevolezza , che in qualche modo riscatta la vita dalla sua dimensione banale e in autentica. Lukàcs abbozzava così in L’anima e le forme una problematica che è stata giustamente definita “proto-esistenzialistica”: quasi una sorta di “pre-heideggerismo”, incentrato però su una tensione dialettica fra l’aspirazione dell’uomo all’Assoluto delle “forme” e delle “idee” e la sua condizione limitata e compromessa dal mondo della finitezza e della determinatezza.
IL MARXISMO: COSCIENZA, DIALETTICA, TOTALITA’
Fra L’anima e le forme e Storia e coscienza di classe non intercorre soltanto un lungo periodo di tempo (dieci anni circa), ma le due opere sono divise da un avvenimento fondamentale: l’adesione di Lukàcs al marxismo . Tuttavia fra esse v’è un filo di continuità, perché nella seconda ritornano più o meno esplicitamente alcuni motivi del saggio precedente (soprattutto l’opposizione fra scienza della natura e conoscenza della storia). La prima caratteristica di Storia e coscienza di classe è il contenuto filosofico. Differenziandosi dagli interessi prevalentemente economico-politici degli esponenti della Seconda Internazionale, Lukàcs intende ripensare il marxismo come (anche) filosofia. Nel caratterizzare poi la filosofia del marxismo, il pensatore ungherese rompe con le simpatie positivistiche o magari kantiane del marxismo secondinternazionalistico, e rivendica con grande vigore la necessità di un ritorno a Hegel . Egli sottolinea infatti l’importanza decisiva della dialettica per il marxismo (” Studi sulla dialettica marxista ” è, non a caso, il sottotitolo del suo libro). Precisa però, in polemica con le concezioni di Engels, che il metodo dialettico deve essere limitato alla realtà sociale, e non esteso alla natura. In sede più specifica, Lukàcs pone al centro del proprio lavoro un concetto di origine hegeliano-feuerbachiana, che era stato ampiamente sviluppato da Marx nelle sue opere: l’ alienazione , o reificazione. La società capitalistica è una società rovesciata o, appunto, “alienata” (il capitale è prodotto dal lavoro, ma domina il lavoro: ciò che è primo diventa secondo e viceversa); essa è una società “deificata”, perché i rapporti fra gli uomini non vi sono sostituiti e regolati dagli uomini stessi, bensì si realizzano indipendentemente da essi, e spesso contro di essi: cioè si realizzano attraverso lo scambio delle merci sul mercato, ovvero attraverso un movimento di cose, dotato di leggi proprie, che gli individui non controllano, bensì solo subiscono. Una società siffatta non può semplicemente essere conosciuta in modo oggettivo e ‘scientifico’, né può essere solo parzialmente modificata con riforme o ritocchi: deve essere invece rivoluzionata. Come si vede, è la stessa impostazione teorica di Lukàcs a fare di lui un fiero avversario di qualunque forma di socialismo riformista. La polemica contro la conoscenza ‘scientifica’ applicata alla realtà sociale è una caratteristica essenziale di Storia e coscienza di classe . Le scienze – dice Lukàcs (che ha in mente soprattutto il sapere positivistica) – assumono i fatti come si presentano immediatamente, nella loro forma oggettiva, come premessa della formazione scientifica del concetto; ma in questo modo esse accolgono acriticamente la realtà empirica, quale è stata configurata dalla società capitalistica. E’ la società capitalistica, infatti, che ha prodotto quei fatti con quelle caratteristiche e secondo quella forma. Inoltre, il metodo delle scienze empiriche è “astraente” e “parcellizzante”, cioè ritaglia singoli fenomeni e aspetti della realtà e li esamina indipendentemente da tutti gli altri. Ne deriva una conoscenza atomistica, statica (e per questo mistificante) dei fenomeni reali. Infine si tratta di una conoscenza che ” trascura il carattere storico dei fatti che si trovano alla sua base “, universalizzandoli sotto forme di essenze invarianti e assolute. A tale conoscenza Lukàcs contrappone il metodo dialettico di Hegel e di Marx, fondato sul principio del contrasto tra l’ “apparenza” immediata dei fenomeni e la loro “essenza” profonda (rispetto al quale contrasto occorre ” liberare i fenomeni da questa forma immediata di datità e trovare le mediazioni mediante le quali essi possono essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza “) e sulle categorie di connessione e di totalità, di processo e di storicità. Molto importante, in questo contesto, è poi la vigorosa sottolineatura di Lukàcs (anch’essa di matrice hegeliana e, ancor più, marxiana) dell’esistenza oggettiva e irriducibile, della ” contraddizione ” nel tessuto della realtà sociale. Di essa occorre tener conto, senza pretendere di dissolverla a livello meramente concettuale. Proprio questo, invece, è l’atteggiamento proprio sia della scienza ispirata da princìpi di tipo naturalistico, sia di quella ispirata da principi idealistici: per entrambe le conoscenze che evidenziano contraddizioni debbono ” essere sussunte, dopo aver subito opportune trasformazioni, all’interno di teorie più generali dalle quali le contraddizioni sono definitivamente scomparse “. Secondo Lukàcs, invece, una scienza sociale filosoficamente consapevole deve interpretare le contraddizioni in modo ben diverso. In Storia e coscienza di classe Lukàcs tenta anche di utilizzare il concetto di alienazione per spiegare certi sviluppi del pensiero moderno. La distinzione fra soggetto e oggetto, fra io e mondo operata dalle filosofie empiristiche e materialistiche viene da lui assimilata alla separazione tra lavoro salariato e capitale : la prima distinzione sarebbe in qualche modo la proiezione ideologica della seconda. Il risultato di questa impostazione è che la filosofia critica di Kant, la quale separa le funzioni dell’intelletto, è interpretata da Lukàcs come espressione dell’alienazione (cioè della scissione fra l’uomo e il mondo sociale da esso prodotto) che caratterizza il mondo moderno. Il filosofo borghese che tenta di superare il pensiero deificato è invece Hegel, che col suo idealismo oggettivo e dialettico sopprime la separazione fra soggetto e oggetto. Infine Marx ha portato fino in fondo la svolta iniziata da Hegel.
COSCIENZA DI CLASSE E RIVOLUZIONE
Anche in ambito teorico-politico le posizioni espresse da Storia e coscienza di classe si differenziano sensibilmente da quelle del marxismo ufficiale. In effetti al centro del discorso lukàcsiano sta non tanto l’analisi della realtà economica quanto quella della “coscienza” di una determinata classe sociale: il proletariato. Ad essa Lukàcs attribuisce caratteristiche e funzioni desunte da certe promesse filosofiche che non da una concreta analisi empirica. Per un verso il proletariato si configura nelle sue pagine come l’erede ideale della grande tradizione politico-intellettuale borghese: quella tradizione il cui messaggio di fondo si esprime per Lukàcs nel principio-valore dell’emancipazione dell’umanità dell’asservimento nei confronti della natura e dall’ingiustizia sociale. Per un altro verso il proletariato è il punto d’approdo della più alta contraddizione tra l’evoluzione tecnologico-produttiva del mondo e la disuguaglianza economica. Dato tutto ciò, il proletariato appare oggettivamente e immediatamente il soggetto sociale in grado di trasformare in direzione socialista il mondo. ‘oggettivamente e immediatamente’ significa che il destino e l’iniziativa rivoluzionaria della classe operaia appartengono esclusivamente ad essa in quanto tale, senza bisogno di guide dall’esterno. La sola precondizione e sorgente della rivoluzione è poi individuata non tanto in una determinata situazione oggettivo-infrastrutturale quanto in un certo livello di consapevolezza e di volontà ideale: in quella ” coscienza di classe ” evocata, certo non casualmente, nello stesso titolo dell’opera lukàcsiana. Per molti aspetti tale coscienza ricorda da vicino lo spirito e l’Idea di hegeliana memoria. In effetti, parlando di questa ch’è la vera protagonista del proprio discorso, Lukàcs rivela chiaramente l’entità dei propri debiti nei confronti di una ben determinata eredità filosofica. La coscienza di classe è una forza, meta-individuale e meta-empirica che cresce, storicisticamente, col crescere delle esperienze intellettuali e pratiche nel tempo. Tale crescita coincide coll’acquisizione di una coscienza sempre più estesa della realtà sociale e delle sue contraddizioni: una conoscenza capace poi di agire a sua volta in modo sempre più efficace sulla realtà. La coscienza di classe è come un grande fiume che durante il suo corso assorbe tutti i corsi d’acqua minori convogliandoli in una direzione ben precisa e costituendosi così come la fonte di vita della regione attraversata – o fuor di metafora, come la fonte del progresso sociale. In termini più speculativi, la coscienza di classe è una grande possibilità teorica che prende gradualmente consapevolezza di sé finché, giunta in un certo grado di maturazione, quella teoria si può trasformare in una pratica e quella possibilità si compie in una realtà. Solo il proletariato sarà per Lukàcs in grado di acquisire tale coscienza liberandone tutte le energie dinamiche e trasformatrici. Mentre infatti la borghesia appare chiusa entro il circuito di interessi particolari che non sa trascendere (per cui può acquisire solo una ” falsa coscienza ” della realtà e, soprattutto, non può e non vuole modificare quest’ultima), il proletariato sa elaborare una versione tendenzialmente universale del mondo e una prospettiva autenticamente trasformatrice di questo. Solo esso è in grado di pensare, di volere la negazione di sé come classe sociale e dunque, più in generale di pensare e volere una società senza classi. E solo esso è in grado per ragioni storiche di mediare conoscenza e azione in vista di un grande disegno sovvertitore ed emancipatore: ” Il proletariato è […] al tempo stesso il prodotto della crisi permanente del capitalismo e colui che porta a compimento quelle tendenze che spingono il capitalismo verso la fine […]. Esso agisce in quanto conosce la propria situazione. E conosce la propria situazione nella società in quanto lotta contro il capitalismo “. Convinto della stretta correlazione esistente fra livello di consapevolezza ed esperienza dell’azione, Lukàcs afferma che nella sua fase finale la coscienza di classe si forgia durante l’agire stesso del movimento rivoluzionario. Egli attribuisce anzi all’azione rivoluzionaria una tale efficacia maturante e disciplinatrice da ridurre sensibilmente, nel suo saggio, il rilievo del momento organizzativo di questa stessa azione. Quando la classe operaia giunge a un’adeguata consapevolezza e si impegna in una determinata linea di condotta ” la conoscenza si trasforma in azione, la teoria in parola d’ordine, e la massa che agisce in conformità con la parola d’ordine si raccoglie sempre più saldamente, coscientemente e risolutamente intorno alle avanguardie della lotta “. Ciò non significa che una forma di organizzazione non sia necessaria. Ad essa, e più precisamente al partito, spetta anzi ” l’alta funzione di essere portatore della coscienza di classe del proletariato, coscienza della sua missione storica “. È tuttavia evidente che, a differenza di quanto avveniva in Lenin, l’accento di Lukàcs cade non tanto sul partito quanto sulla classe, non tanto sull’organizzazione quanto sulla spontaneità e l’immediatezza dell’azione rivoluzionaria. È il proletariato, maturato e risvegliato non dai “professionisti della rivoluzione” cari a Lenin ma dalla sua propria forza autonoma (correlata all’evoluzione della storia), a restare il vero soggetto sociale della lotta anti-capitalistica e della trasformazione del mondo.
L’IRRAZIONALISMO MODERNO
Storia e coscienza di classe fu aspramente condannato dai massimi dirigenti del marxismo internazionale (e Lukàcs ritirò il proprio libro dalla circolazione). Esso dispiacque sia per la critica in esso svolta contro Engels (che metteva in pericolo l’ortodossia marxista), sia per la sua ispirazione marcatamente antimaterialistica. In campo filosofico, l’opera allora considerata come modello in area marxista era Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, che sviluppava una teoria della conoscenza come mero ‘riflesso’ o ‘rispecchiamento’ del mondo esterno nel cervello dell’uomo. Il realismo materialistico di Lenin, oltre ad apparire de facto respinto radicalmente dal marxismo hegelianeggiante di Lukàcs, venne criticato in modo assai diretto ed esplicito da un altro pensatore marxista ungherese, Karl Korsh (1886-1961). Nel libro Marxismo e filosofia , uscito nello stesso anno di Storia e coscienza di classe , anche Korsh rifiutava l’impostazione leniniana del problema gnoseologico perché se è vero che la coscienza umana ‘riflette’ l’oggettività storico-empirica, è anche vero che quell’oggettività è a sua volta un prodotto dell’attività pratica (sensibile e intellettuale) dell’uomo. Non esiste quindi un mondo ‘in sé’, indipendente dagli uomini, e il nesso individuo-società, come quello di natura-storia, costituiscono delle totalità dialettiche. In una seconda (o meglio, tenendo conto della stagione premarxista, in una terza) fase della sua attività Lukàcs allineerà maggiormente alle posizioni del marxismo ufficiale del tempo, criticando esplicitamente certe tesi ‘coscienzialistiche’ ed anti-materialistiche di Storia e coscienza di classe : non rinuncerà peraltro alla sua tesi prediletta della sostanziale continuità teorica tra la tradizione speculativa tedesca (Kant, Hegel, Feuerbach) e il pensiero marxista. Vari scritti della maturità e della vecchiaia sono anzi dedicati proprio a tale tematica. Pur senza raggiungere la tensione teorica di Storia e coscienza di classe , alcuni di questi saggi hanno avuto una vasta risonanza intellettuale e ideologica. Di particolare rilievo – anche per la complessità dell’analisi e la notevole novità delle tesi interpretative – è il volume Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948). Si tratta di un’opera monumentale volta a sottrarre il pensiero primo-hegeliano alla tradizionale interpretazione metafisico-speculativa: una chiave del tutto inadatta a valorizzare quegli interessi storico-politici ed economico-sociali che viceversa Lukàcs lumeggia in modo assai suggestivo. Tra le implicazioni teoriche che emergono dalla ricerca lukacsiana v’è la tesi che all’acquisizione della dialettica quale principio organizzatore dell’essere e della conoscenza Hegel è arrivato soprattutto attraverso una rigorosa anatomia, laica e razionale, della contraddittoria realtà del suo tempo. Più incisiva nel dibattito ideologico contemporaneo, nonostante risenta innegabilmente del clima settario instaurato dallo stalinismo anche in sede culturale, è però la celebre Distruzione della ragione (1954). L’opera, formalmente dedicata alla storia del cosiddetto “irrazionalismo” quale componente della “filosofia reazionaria” otto e novecentesca, si configura in verità come un appassionato e tendenzioso pamphlet di oltre 800 pagine contro buona parte del pensiero tedesco (e non solo tedesco) moderno. La tesi di fondo di Lukàcs è che questo pensiero si è identificato come un percorso inarrestabile e necessario “da Schelling a Hitler” . I filosofi e le filosofie più diverse – da Schopenhauer a Weber, da Kierkegaard e Nietzsche, da un certo storicismo al neoidealismo, dal pragmatismo all’esistenzialismo – costituirebbero altrettante tappe di questo percorso. Un percorso rispetto al quale resta indenne ed estraneo solo l’indirizzo – minoritario ma omogeneo, e destinato ad ispirare sia la rivoluzione già compiuta nell’Unione sovietica che quella da compiere nel mondo occidentale – costituito dalla linea Kant-Hegel-Feuerbach-Marx, alla quale ora viene aggiunto anche Lenin. Che cos’è questo “irrazionalismo” il quale, oltre a bloccare il progresso del sapere e dell’emancipazione umana, avrebbe preparato e favorito la “reazione” sociale e politica? Esso è presentato da Lukàcs come una figura metastorica, senza un suo sviluppo autonomo. La sua principale vocazione è stata ed è quella di combattere il materialismo e il metodo dialettico. Tra le sue componenti primarie figurano ” la svalutazione della ragione, l’esaltazione acritica dell’intuizione, l’aristocratica gnoseologica, il ripudio del processo sociale, la creazione di miti “. Il suo carattere teorico più consistente è probabilmente il suo ‘intellettualismo’, ossia (hegelianamente) la sua tendenza a rifiutare la dialettica quale metodo di soluzione dei problemi e ad astrarre/irrigidire i termini dei problemi medesimi, involgendosi così nei limiti e contraddizioni tipici appunto del pensiero intellettivo.
” L’imbattersi in questi limiti può diventare per il pensiero umano il punto di partenza di un ulteriore sviluppo del pensiero stesso, cioè della dialettica, se si vede in essi un problema da risolvere, e, come Hegel dice molto a proposito, ‘un cominciamento e un barlume della razionalità’, vale a dire di una più alta conoscenza. L’irrazionalismo invece […] si ferma proprio a questo punto, rende assoluto il problema, irrigidisce i limiti della conoscenza intellettiva facendone i limiti della conoscenza in genere, anzi falsa il problema, reso così insolubile, in una risposta ‘sovrarazionale’. Equiparare intelletto e conoscenza, i limiti dell’intelletto coi limiti della conoscenza in generale, far intervenire la ‘sovrarazionalità’ (dell’intuizione, ecc), dove è possibile e necessario procedere oltre una conoscenza razionale: ecco le caratteristiche più generali dell’irrazionalismo filosofico. ” (“La distruzione della ragione”, 93-94)
Alla luce di queste premesse Lukàcs giudica irrazionalisti tutti quei pensatori che, in contrasto con la tradizione romantica e con le concezioni hegeliane, non hanno colto la superiore razionalità operante nella realtà e nella storia, o negando l’esistenza di un disegno dialettico nel processo storico, o mettendo in rilievo le antinomie e la tragicità della condizione umana, o evidenziando i pericoli e le contraddizioni della società industriale moderna. Su questa base, come si è accennato, Lukàcs etichetta come ‘irrazionalisti’ alcuni dei filoni più vivi e interessanti del pensiero filosofico e sociologico contemporaneo. Un’ispirazione più pacata ha invece l’ Ontologia dell’essere sociale , l’opera sistematica cui Lukàcs attese negli ultimi anni della sua vita e che non poté peraltro concludere (i frutti, comunque cospicui dell’impresa sono comparsi postumi tra il 1971 e il 1973). Ritornano in quest’amplissima riflessione gli orientamenti speculativi e le categorie filosofico-sociali (la mediazione, la dialettica, la totalità; l’individuo e la società; il lavoro e l’alienazione; la struttura e la sovrastruttura) che sono sempre stati al centro della riflessione lukàcsiana. L’ambizione di fondo del pensatore ungherese è quella di delineare, come dice lo stesso titolo dell’opera, un’ “ontologia”, ossia un’indagine sulle strutture costitutive della realtà: un’indagine in grado, tra l’altro, di fungere da supporto teorico e quel sistema di etica ch’è stato uno degli obiettivi di fondo dell’ultimo Lukàcs. Per un verso tale indagine ‘ontologica’ appare a Lukàcs carente nel pensiero dei classici del marxismo, impegnati in altre imprese intellettuali; per un altro verso egli ritiene che una riflessione di questo genere sia necessaria e possibile in rapporto alla situazione speculativa del nostro presente. Necessaria: per reagire al formalismo dissolutore del reale (il neopositivismo), all’individualismo astorico (l’esistenzialismo), al relativismo tendenzialmente nichilistico (un certo storicismo), alla sottovalutazione dell’uomo e della sua attività creatrice (il materialismo meccanicistico) operanti nella cultura contemporanea. Possibile: giacché a Lukàcs sembra che la critica moderna (da Nietzsche, a Heidegger, a Wittgenstein) non abbia dimostrato validamente l’impossibilità di un’analisi delle strutture dell’essere. In qual modo Lukàcs intendesse mediare, secondo il proprio desiderio, la sua ricerca ontologica con una prospettiva storica (relativa sia all’oggetto che alle categorie dell’analisi) non è dato cogliere appieno in un’opera rimasta, come si è detto, incompiuta.
IL PENSIERO ESTETICO
Oltre ad aver dato contributi di grande rilievo alla filosofia marxista e alla storia del pensiero moderno, Lukàcs si è impegnato a lungo e assai fruttuosamente nell’ambito della riflessione estetica e della critica letteraria. La sua opera in questo campo di studi è tanto più significativa in quanto assai pochi e non sistematici (né molto fortunati) erano stati, prima di quello lukàcsiana, i tentativi di saggiare le idee marxiste nella problematica dell’arte e dell’attività critica. Tra i numerosi saggi estetico-letterari di Lukàcs (le espressioni artistiche diverse dalla letteratura hanno suscitato, coll’eccezione del teatro, un’interesse minore nel pensatore ungherese) spiccano, dopo la giovanile e suggestiva Teoria del romanzo (1916), i Saggi sul realismo (1948 e 1955), Thomas Mann (1949), Realisti tedeschi del XIX secolo (1951), Il romanzo storico (1955), Sulla categoria della particolarità (1957) e la vastissima Estetica (1963). Il contributo filosofico più rilevante offerto da questa ricca produzione è probabilmente l’elaborazione di un’interpretazione dell’arte e di una metodologia critica fondata sul concetto di realismo. La categoria centrale del realismo viene individuata da Lukàcs nel ” tipico “, che non è da confondere né con la semplice media statistica di una serie di casi particolari, né con la mera riproduzione fotografica della realtà. Cogliere il tipico significa infatti cogliere il significato profondo della realtà storica, i suoi nodi centrali e decisivi, le sue tendenze di sviluppo, ed esprimere tutto ciò che attraverso situazioni e personaggi, appunto, ‘tipici’. Scrive Lukàcs a questo proposito:
” Il tipo viene caratterizzato dal fatto che in esso convengono, si intrecciano in vivente, contraddittoria unità tutti i tratti salienti di quella unità dinamica in cui la vera letteratura rispecchia la vita, tutte le contraddizioni più importanti, sociali e morali e psicologiche di un’epoca. Invece la rappresentazione della media fa sì che tali contraddizioni, che non sono sempre il riflesso dei grandi problemi di un’epoca, appaiono necessariamente indebolite e smussate nell’animo e nelle vicende di un uomo mediocre , e perdano così proprio i loro tratti essenziali. Nella raffigurazione del tipo, nell’arte tipica, si fondano la concretezza e la norma, l’elemento umano eterno e quello storicamente determinato, l’individualità e l’universalità sociale. Perciò nella creazione di tipi, nella presentazione di caratteri e di situazioni tipiche le più importanti tendenze dell’evoluzione sociale ricevono un’adeguata espressione artistica. ” (“Il marxismo e la critica letteraria”).
Questa distinzione lukacsiana fra tipo e media ha un grande significato teorico, perché, per un verso, costituisce la discriminante fra realismo (l’arte realistica è fondata sul tipo) e naturalismo (l’arte naturalistica è fondata sull’astratta media); e per un altro verso permette al pensatore ungherese di distinguere fra le opinioni storico-politiche di uno scrittore e il significato ‘oggettivo’ della sua opera letteraria. In effetti, uno scrittore può essere soggettivamente (cioè per quanto riguarda le proprie convinzioni etico-politiche) un ‘reazionario’ (caso esemplare: Balzac) e, al tempo stesso, può essere oggettivamente uno scrittore ‘realistico’ e dunque ‘progressivo’, in quanto nella propria opera letteraria sa cogliere le tendenze fondamentali e più significative della realtà storica del suo tempo. Al centro di vivaci dibattiti soprattutto nel corso degli anni ’50 e dei primi anni ’60, la concezione lukacsiana è parsa alla critica più accreditata ricca di innegabili meriti e di altrettanto innegabili inconvenienti. In effetti, da un lato essa sollecita assai validamente a interpretare e giudicare l’opera letteraria solo sulla base della sua struttura e delle sue caratteristiche interne, prescindendo del tutto da aspetti ad essa estrincesi (a cominciare dalla opinioni personali del suo autore). Dall’altro, però, incoraggia sovente ad adoperare criteri di valutazione troppo immediatamente ideologici e contenutistici (come si vede nella svalutazione operata dal pensatore ungherese di scrittori come Flaubert, o Proust, o Kafka, in quanto non ‘realistici’), e scarsamente sensibili agli aspetti formali (stilistici, linguistici, ecc.), dell’opera letteraria.
NIKLAS LUHMANN
Niklas Luhmann, nato nel 1927, è uno dei rappresentanti più autorevoli e originali del pensiero sociologico tedesco contemporaneo: egli è il più grande “teorico dei sistemi”. La sua produzione scientifica è imponente: si è occupato di sociologia generale, di sociologia del diritto, di teoria politica, di sociologia della religione, di semantica storica, di etica e di ecologia. Ricco di una profonda preparazione filosofica, ha sempre prestato una particolare attenzione ai problemi teorico-epistemologici della sua disciplina: un’attenzione che emerge, si può dire, in tutte le sue opere (tra le quali, per restare a quelle tradotte in italiano, segnaliamo almeno Stato di diritto e sistema sociale , 1971; Sociologia del diritto , 1972; Potere e complessità sociale , 1975; Illuminismo sociologico , 1975; Struttura della società e semantica , 1960). Nella seconda metà del Novecento, lo studioso tedesco ha cercato di organizzare i propri princìpi e proposte generali in un’ambiziosa concezione d’assieme della società e della sua scienza, consegnata al vasto trattato Sistemi sociali.Lineamenti di una teoria generale (1984). È stato Luhmann stesso ad attribuire alla propria concezione la denominazione di “funzionalismo strutturale” per sottolinearne la differenza rispetto allo “strutturalismo funzionale” del filosofo Talcott Parsons. In realtà l’opera luhmanniana può essere considerata in larga misura uno sviluppo di quella di Parsons, soprattutto se si tiene presente che anche per Luhmann il compito centrale della sociologia è quello di elaborare una teoria generale della società, in grado di pensare quest’ultima in rapporto a precisi fondamenti unitari. Non diversamente da Parsons, Luhmann respinge tutti gli indirizzi sociologici che si appagano di una mera rilevazione empirico-particolare di singoli eventi e processi. A suo avviso, ciò che manca alle scienze sociali moderne è anzitutto la comprensione del fenomeno sociale nelle sue determinazioni più generali. Per questa ragione Luhmann si è impegnato nell’elaborazione di nuovi concetti sociologici e si è sforzato di aprire prospettive metodologiche sempre nuove, nel tentativo di far corrispondere alla crescente complessità e variabilità delle società moderne teorie altrettanto complesse e sofisticate. Uno dei limiti principali della sociologia di Parsons sta per Luhmann nell’aver privilegiato il concetto di ‘struttura’ rispetto a quello di ‘funzione’. Invertendo l’ordine dei concetti parsoniani, Luhmann pensa che il problema centrale della ricerca sociologica non è di cogliere le condizioni di sussistenza delle strutture sociali, ma di capire quali sono le funzioni svolte da determinate strutture (o sistemi) nel tentativo di mantenersi in equilibrio con l’ambiente. Quest’ultimo non è poi qualcosa di totalmente esterno o neutrale rispetto alle strutture: a causa della sua elevata e crescente complessità esso rappresenta una costante minaccia per la sopravvivenza dei sistemi sociali e va pensato in una prospettiva che lo collega organicamente ad essi. Mutuando nozioni elaborate dalla “teoria generale dei sistemi” (Bertalanffy), Luhmann sostiene che i sistemi sociali sono tanto più in grado di stabilizzarsi quanto più sono capaci di replicare in modo pertinente alla sfide provenienti dall’ambiente. Inoltre un sistema è in grado di resistere alla pressione dell’ambiente in stretto rapporto all’indice della sua complessità interna: quanto più la propria organizzazione interna è complessa, tanto più essa è in grado di tener testa alla crescente complessità e mobilità ambientale. Secondo Luhmann, l’agire umano si struttura secondo sistemi, i quali sorgono ogni qual volta si hanno azioni concertate: queste ultime si verificano sempre attraverso codici simbolici (il linguaggio, i gesti, ecc). Tutti i sistemi sociali si situano in un “ambiente” (Umwelt) complesso e multidimensionale, con quale devono fare i conti per poter sopravvivere. Infatti, l’ambiente è decisamente più complesso del sistema, ha più variabili, è imprevedibile: in definitiva, è ambiente tutto ciò che non fa parte del sistema. Quest’ultimo, per poter sopravvivere, deve sviluppare complessità sue al fine di ridurre quelle dell’ambiente. In concreto, come avviene tale riduzione delle complessità ambientali? Secondo Luhmann, l’ambiente impone esigenze e il sistema deve sviluppare strategie per far fronte ad esse: ad esempio, pensiamo alla famiglia in cui i due coniugi non si amano più, ma continuano a stare insieme per poter dare un’educazione completa ai propri figli. Le tre dimensioni che caratterizzano l’ambiente sono, secondo Luhmann, quella “temporale”, quella “materiale” (sachlichen) e quella “simbolica”. Pertanto, il sistema deve elaborare strategie per ridurre la complessità ambientale sotto questi tre profili. Ogni sistema, inoltre, funziona con un codice binario: così, il sistema giuridico funziona con la dicotomia giusto/ingiusto, il sistema scientifico con la dicotomia vero/falso, quello politico con la dicotomia potere/non-potere, e così via. Non devono verificarsi interferenze o ingerenze di sistemi, pena l’estinzione di alcuni sistemi. Nella fase matura del suo pensiero, Luhmann si spinge a sostenere che ciascuno di noi è un sistema autopoietico, cioè chiuso in se stesso, autoproducentesi. Ma se ognuno è un sistema chiuso in se stesso, com’è possibile la comunicazione? Come ci si può intendere con gli altri? Secondo Luhmann, perché ciò sia possibile è sufficiente che ci sia un “collegamento” tra sistemi, come nel caso in cui io parlo, tu annuisci, e allora, capendo che il messaggio è giunto a destinazione, io proseguo nel mio discorso. Manca tuttavia la garanzia che l’altro capisca effettivamente le cose come io le intendo: perfino tra i partners, dice Luhmann, non c’è mai una totale comprensione, c’è piuttosto una routine, un’abitudine consolidata.
In concreto, quali sono i sistemi sociali? Un sistema sociale nasce quando azioni umane vengono connesse tra loro in un insieme dotato di significato: a tal proposito, Luhmann distingue tre diversi tipi di sistemi sociali, ciascuno dei quali – come ogni sistema – mira a ridurre la complessità ambientale nei suoi tre aspetti (materiale, temporale e simbolico). 1) Si ha l’interazione quando, ad esempio, due sconosciuti si incrociano per strada o in un ascensore e poi, dopo pochi minuti, procedono ognuno per la propria via. 2) Si ha l’organizzazione quando si forma un sistema sociale più stabile, regolato dalla legge dell’entrata e dell’uscita nel gruppo, e avente come obiettivo la stabilizzazione nel tempo di comportamenti artificiali (pensiamo alla scuola o all’esercito). Anche l’organizzazione cerca di ridurre le complessità ambientali temporalmente (quando si entra nell’organizzazione? Quando se ne esce?), materialmente (con la divisione del lavoro) e simbolicamente (tramite la definizione di regole e di tipi comunicativi). In opposizione a Parsons, Luhmann non crede che i sistemi organizzativi richiedano consenso su valori o norme: la loro funzione può venire assicurata dall’uso di media simbolici generalizzati (denaro, potere, verità, ecc). 3) Si hanno sistemi di società quando ci si muove sul piano societario: e Luhmann ha soprattutto in mente la società globalizzata, che comprende tutti i sistemi di comunicazione e di organizzazione. Egli parla espressamente di “società mondiale” (Weltgesellschaft).
Come abbiamo visto, in Luhmann è centrale la tensione fra sistema e ambiente: essa è il nucleo generativo della sociologia funzional-strutturalista che Luhmann ha elaborato nel corso degli anni ’70. Oltre al già notato particolarismo empiristico, un altro limite teorico di una parte della sociologia tradizionale era il determinismo, o almeno il suo uso meccanico e riduttivo della nozione di causa: un limite rispetto al quale la negazione indeterministica di tale nozione non rappresentava una risposta soddisfacente. Orbene Luhmann, lavorando sul concetto di funzione, si sforza di ridefinirlo in modo che risulti indipendente dal vecchio concetto di cause, nello stesso tempo, comprensivo di essa. A questo fine egli elabora la categoria della “equivalenza funzionale”, con la quale intende denotare la facoltà di fenomeni diversi di realizzare funzioni relativamente simili. Assunta come problema di riferimento una determinata causa, l’analisi delle equivalenze funzionali ordina un certo campo di effetti funzionalmente equivalenti rispetto a quella causa. L’attenzione scientifica risulta così rivolta alla descrizione di fenomeni la cui caratteristica è quella di poter produrre l’uno indipendentemente dall’altro il medesimo effetto. L’analisi dei fenomeni viventi (fenomeni sociali inclusi) offre un vasto campo di applicazione ad una ricerca così impostata; da Bertalanffy in poi, una delle proprietà fondamentali dei cosiddetti “sistemi aperti” era considerata infatti la capacità di comportamento “equifinale”: la capacità, cioè, di raggiungere il medesimo stadio finale muovendo da punti di partenza diversi. Ora, per Luhmann, come l’individuo adulto di numerose specie biologiche può svilupparsi a partire da strutture embrionali diverse, lo stesso avviene per i fenomeni sociali: essi non dipendono da processi monocasuali o da precondizioni necessarie, ma da una pluralità di circostanze funzionalmente orientate verso una certa gamma di esiti possibili. Uno dei principi ispiratori di fondo della sociologia di Luhmann è l’anti-umanismo e l’anti-storicismo: egli concepisce infatti la realtà sociale come un intreccio di mere correlazioni sistema-ambiente, il cui gioco progressivamente sempre più complesso resta aperto a possibilità infinite. Nessuna “mano invisibile” guida segretamente la storia, selezionando provvidenzialmente i fatti e riducendo la contingenza dei fenomeni sociali (come invece credevano Hegel e Adam Smith). L’evoluzione dei sistemi, la loro crescente complessità è affidata contro ogni filosofia della storia di tipo organicistico o finalistico, all’intervento di fattori non solo casualmente indeterminati, ma in larga misura sottratti alla possibilità di controllo dei soggetti umani. Anche sotto questo profilo l’opera luhmanniana costituisce una sfida molto aggressiva nei confronti di una ben precisa concezione del mondo sociale. Più in generale, ben precise analisi impongono per Luhmann l’abbandono di una parte del patrimonio intellettuale del vecchio continente. La tradizione “vetero-europea”, sostiene lo studioso tedesco è intrisa di elementi di filosofia sociale organicistica e finalistica. Essa si riferisce all’individuo concreto come a una “parte vivente” e relativamente autonoma della società, e (soprattutto) vede nel soggetto il pernio e l’ “attore” principale degli eventi e dei processi sociali. Contro questi assunti Luhmann sostiene che nelle moderne società differenziali e complesse i veri protagonisti di tali eventi e processi non sono più gli uomini o i gruppi con i loro bisogni materiali e i loro ‘valori’, ma i ruoli e le funzioni, i sistemi e gli ambienti: tutto un mondo di ‘datità’ e relazioni in qualche modo oggettive, nel quale gli individui operano come meri elementi interscambiabili e perfettamente fungibili. Considerati costitutivamente ‘umanistici’, illuminismo classico, materialismo marxista e storicismo sociologico appaiono a Luhmann altrettanto varianti moderne di una filosofia e di un’etica sociale arcaica. Il pensiero luhmanniano ha avuto particolare successo presso i giuristi e i sociologi della politica. Tale successo è dovuto all’eversiva concezione ch’esso delinea dello stato di diritto o della democrazia. Per Luhmann lo stato di diritto (e con esso il sistema democratico) non è il complesso delle procedure e delle istituzioni capace di ripartire e bilanciare il potere in funzione della garanzia dei diritti soggettivi, secondo l’ingenua pretesa ideologica della tradizione socialdemocratica: esso è invece la forma più sviluppata dell’autonomia, anzi dell’assolutezza¸ nel senso etimologico di ‘sciolto da ogni legame’ (esterno) del sistema politico moderno. In effetti, attraverso la positivizzazione del diritto lo stato moderno si è liberato da ogni vincolo proveniente da altri sottosistemi ideologico-sociali come la morale, la religione, il denaro-proprietà, i vincoli dinastici, ecc. A questo punto esso appare in grado di autolegittimarsi da sé solo, senza più alcuna necessità di far passare il riconoscimento del proprio essere attraverso l’effettivo consenso dei cittadini. Per Luhmann lo stato moderno può anzi operare presupponendo a priori il passivo consenso di questi ultimi, i quali si dispongono ad ubbidire senza particolari motivazioni. Del resto l’imponente aumento della complessità sociale, dei flussi di informazione e dunque delle competenze che sarebbero indispensabili per sorvegliare la gestione della cosa pubblica pone il cittadino nell’impossibilità di seguire attivamente tale gestione. Data questa situazione, considerata più o meno implicitamente immodificabile, non sorprende la presa di distanza critica di Luhmann dalla concezione classica della democrazia, intesa come responsabile partecipazione (diretta o indiretta) dell’individuo alla vita della società. Nei suoi saggi sociologici più recenti Luhmann ha insistito nel denunciare la distanza che separa la tradizione dell’umanesimo “vetero europeo” dalla realtà sociale dei passi industrializzati: una realtà sociale che la rivoluzione informatica contribuisce oggi a rendere sempre più complessa, dinamica e differenziata. In alcuni scritti lo studioso arriva a sostenere che la differenziazione dei sottosistema primari delle società complesse è così avanzata che ciascun sottosistema interpreta ogni altro, e interagisce con esso, esclusivamente dal suo specifico punto di vista. Ciò che viene a mancare è uno ‘sguardo’, una prospettiva in qualche modo unificante: anche la politica (che dovrebbe in certa misura essere questa prospettiva) si configura oggi semplicemente come un certo sottosistema, il quale opera senza sapere esattamente con che tipo di società ha a che fare. Con il già ricordato trattato Sistema sociale , Luhmann ha ulteriormente dilatato le ambizioni teoriche della propria sociologia. Già nel corso della sua precedente produzione egli aveva polemizzato sia contro lo speculativismo delle sociologie teoriche-novecentesche (dal nazionalismo critico alla sociologia di ispirazione fenomenologica, dal marxismo ortodosso al neo-marxismo della scuola francofortese) sia contro la pretesa delle sociologie di ispirazione più empirico-scientifica di potersi avvalere di criteri epistemologici certi. Nel suo lavoro egli pare voler accentuare ancora più la distanza della propria riflessione da qualsiasi precedente teorico: il rifiuto dei presupposti fondazionali della ‘vecchia’ sociologia si fa radicale non meno forte quello delle procedure argomentative canoniche del pensiero sociologico. Una sociologia davvero seria deve, a suo avviso, costruire un linguaggio concettuale rigorosamente nuovo ed autonomo, capace di tematizzare in modo adeguato l’irriducibile “complessità” dell’universo sociale e di analizzare, l’oggettivo funzionamento di quella serie di sistemi e sottosistemi “autoreferenziali” (cioè fondati autonomamente su se medesimi, e indipendenti da soggetti, fini e valori esterni ai sistemi stessi) in cui consiste ciò che solitamente chiamiamo la società.
Per Parsone i sistemi non sono chiusi come per Luhmann: anzi, sono aperti e gerarchizzati (il sistema normativo sta al vertice); Luhmann fa invece valere l’idea che vi sia un “centro” e afferma esplicitamente che i sistemi “non hanno né centro né periferia”. Jürgen Habermas ha criticato Luhmann accusandolo di non aver tenuto conto, nella sua teoria dei sistemi, dei gruppi di protesta che si oppongono ai sistemi stessi: a quest’accusa, Luhmann ha risposto monotematicamente sostenendo che anche i gruppi di protesta rientrano nei sistemi.
NELSON GOODMAN
Nelson Goodman, nato nel 1906, fu uno dei più eminenti epistemologi e filosofi americani del Novecento. Amico e collega di Quine (entrambi hanno insegnato a lungo nell’università di Harvard a Boston), egli condivide alcuni principi ed esigenze di fondo dell’autore di Parola e oggetto : il proposito di restare all’interno di una prospettiva fondamentale empiristica, emancipandola però dalle sue ristrettezze e dai “dogmi” (Quine) che la impoveriscono e la irrigidiscono: l’esigenza di valorizzare in più modi, la dimensione teorico-costruttiva dell’attività conoscitiva rispetto alla sua dimensione osservativo-fattuale; l’obiettivo di “liberalizzare” e di pluralizzare gli schemi concettuali coi quali l’uomo conosce e “dice” il mondo: il rifiuto, in ambito di filosofia del linguaggio e della logica, di ogni concezione di tipo platonico-essenzialistico. A quest’ultimo proposito, in un famoso saggio-manifesto scritto congiuntamente con Quine ( Passi verso un nominalismo costruttivo , 1947) Goodman respinge radicalmente la credenza nell’esistenza di quelle che chiama “entità astratte” (le classi, gli universali): il mondo è composto solo di ” oggetti fisici o eventi o di unità di esperienza sensoriale “; i predicati ” che non siano predicati di individui concreti, o che non siano spiegati in termini di predicati di individui concreti ” vanno “respinti”. Quanto alla matematica, considerata da molti (a cominciare da Russell) l’espressione e insieme la prova del darsi di verità autonome e universali, viene interpretata come un mero “apparato” strumentale: le sue formule sono solo ” comodi mezzi per rendere più facili i calcoli “, ma ” non comportano questioni di verità “. Già nell’ampia e complessa opera La struttura dell’apparenza (del 1951, ma risalente in gran parte agli anni ’30) e nelle successive Ipotesi e previsioni (1953-54) Goodman si distanzia su alcuni punti cruciali dal neopositivismo. Così, in particolare, egli respinge quello che altri chiamerà il ” mito del dato “: non esistono “dati” dal significato univoco-oggettivo, in grado per ciò stesso di costruire un fondamento empirico certo per la conoscenza. Così, ancora, egli critica nella stessa prospettiva la distinzione neopositivistica tra “osservazionale” e “teorico”: ogni atto cognitivo è atto teorico in quanto si muove all’interno di un sistema di assunti non empirico-fattuali ma simbolico-concettuali. Così, infine, egli esprime riserve radicali sull’ulteriore distinzione cara ai neopositivisti tra analitico e sintetico, e poi sul grado di validità del metodo induttivo, sulla strategia riduzionistica, su determinati criteri di verifica delle procedure della conoscenza, ecc. Sarà tuttavia soprattutto la riflessione degli anni seguenti, affidata ai due volumi I linguaggi dell’arte (1968) e Modi di fare il mondo ( Ways of Worldmaking , 1978; il titolo della traduzione italiana è Vedere e costruire il mondo , 1988), a produrre i risultati che hanno creato il maggior interesse odierno nei confronti di Goodman. In tali opere il filosofo americano ha sviluppato infatti in modo stimolante e radicale alcuni princìpi largamente circolanti nella riflessione contemporanea di orientamento anti-neopositivistico. Per Goodman il pensiero è un’assai complessa e differenziata attività conferitrice di senso. Esso è anzi, più precisamente, una “costruzione” simbolico-concettuale di forme e di significati (donde la denominazione di ” costruttivismo radicale ” data a questa posizione teorica): una concezione priva non solo di fondamento prestabilito, ma anche di un metodo univoco e a priori. In effetti, ben lungi dall’osservare i rigidi binari euristico-procedurali e gli altrettanto rigidi criteri di verificazione stabiliti dal neopositivismo, il pensiero opera in modo estremamente libero e “pluralistico”. Esso infatti costruisce i propri concetti (le proprie ” versioni del mondo “, come le chiama Goodman) da un lato in rapporto ai propri fini e interessi, dall’altro in rapporto ai propri contesti e riferimenti categoriali-normativi: anche perché il suo obiettivo è non tanto (o non necessariamente) la “costruzione” della verità quanto quella del senso. Non sorprende, dati questi presupposti, che Goodman abbia fortemente riabilitato il ruolo e la funzione dell’ ” arte : ben lungi dall’adempiere ad un ufficio puramente espressivo di sentimenti e di emozioni, l’arte ha per il filosofo americano la capacità costitutivo-costruttiva di elaborare versioni e interpretazioni dei fenomeni dotate di una loro irriducibile significazione razionale. In sede gnoseologico-epistemologica le tesi più significative di Goodman sono forse le seguenti: a) l’inseparabilità del mondo dalle modalità simboliche con cui noi lo descriviamo e ne rendiamo conto; b) l’esistenza di un’irriducibile pluralità di queste modalità – o meglio, per riprendere la già ricordata locuzione goodmaniana, di queste “versioni del mondo”; c) l’inesistenza di ” versioni del mondo” oggettivamente più vere o più fondamentali di altre. La prima tesi muove dal rifiuto della credenza di alcuni neopositivisti nella possibilità di acquisire dati o esperienze reali indipendentemente da strutture o modelli teorici. Qualunque oggetto del mondo, spiega Goodman, ” non è mai propriamente l’oggetto-a-una-certa-distanza-e-angolazione-e-sotto-una-certa-luce; ma è l’oggetto così come noi lo consideriamo e concepiamo, una versione o un’interpretazione dell’oggetto “. Qualsiasi cosa entri nel nostro campo di esperienza è insomma già organizzata all’interno di un determinato ” schema concettuale “. Una prima conseguenza di questa tesi è che non si può cogliere un mondo reale in sé, e che dunque le questioni puramente e strettamente ontologiche sono mal poste e irrilevanti. ” Se chiedessi qualcosa intorno al mondo, ciò che mi si può rispondere è come esso compare sotto uno o più quadri di riferimento; ma se insistessi nel chiedere come esso è indipendentemente da tutti i quadri di riferimento, che cosa mi si può dire? Noi siamo vincolati ai modi di descrizione delle cose descritte. In nostro universo – per così dire – consiste in questi modi, piuttosto che di un mondo o di mondi. ” Una seconda conseguenza della tesi di qui sopra è l’assunzione di una prospettica nettamente anti-realistica e costruttivistica nell’interpretazione del mondo e delle forme o dei sensi che a noi pare di cogliere in esso (non a caso due capitoli dei libri citati sopra si intitolano ” Rifare la realtà ” e ” La costruzione dei fatti “). E’ del tutto a torto, esemplifica Goodman a questo proposito, che noi crediamo che qualcosa come ” le costellazioni celesti ” si diano oggettivamente nel firmamento. In verità, ciò che esiste è solo l’insieme infinito degli astri. Siamo poi noi, coi nostri modelli e schemi concettuali, a “costellare” in un certo modo il cielo, costruendo dei confini intorno a certi punti piuttosto che intorno a certi altri. E’ bene precisare che oltre a sostenere un radicale antirealimo (ogni mondo è un mondo costruito) Goodman professa un non meno radicale anti-idealismo ; egli respinge cioè la posizione secondo cui la realtà sarebbe null’altro che una versione concettuale. La seconda tesi di Goodman (quella relativa alla pluralità delle versioni del mondo) consiste nell’assunto che, essendoci tanti modi di costruire la realtà, si danno tante realtà quante sono le nostre versioni. Si prenda, ad esempio, un uomo. Egli non ha (o non è) una realtà univoca di sé, che un giorno o l’altro una Scienza potrà cogliere in modo oggettivo e definitivo. Al contrario, in sede cognitiva l’essere umano può essere considerato – a seconda delle versioni o degli schemi concettuali in base ai quali noi lo consideriamo – di volta in volta un fascio di atomi, un complesso di cellule, un animale bipede implume, un soggetto socialmente costituito, un amico per il quale provo sentimenti di amicizia e molte altre cose ancora. Inoltre lo stesso mio riferirmi all’oggetto uomo ha molteplici modalità: lo posso denotare, lo posso descrivere, lo posso interpretare, lo posso metaforizzare – e posso fare tutto ciò utilizzando vari sistemi o veicoli simbolici (verbali e anche non verbali, come suoni, figure, modelli, ecc.). Evidentemente l’idea di un unico mondo (e di un’unica conoscenza) reale è incapace di dar conto della ricchezza e della varietà delle nostre “versioni” di esso, e se a volte non notiamo questa pluralità, ciò accade (spiega Goodman) perché ci muoviamo all’interno di versioni talmente familiari che ci sembrano naturali piuttosto che costruite, uniche/assolute piuttosto che relative. La terza tesi di Goodman sviluppa idealmente quella di cui si è appena parlato. Se quest’ultima affermava l’irriducibile pluralità delle versioni del mondo, la nuova tesi sostiene l’ inesistenza di una versione oggettivamente più vera , o più “fondamentale” delle altre. E in effetti, per riprendere l’esempio precedente dell’essere umano, quale delle varie versioni sopracitate di uomo ci dice che cosa l’oggetto uomo è veramente? Ci troviamo palesemente di fronte alla difficoltà di individuare una versione che sia più vicina delle altre alla “realtà”. Il problema è ulteriormente complicato dalla circostanza che le varie versioni sono spesso eterogenee e in conflitto tra di loro. Possono esistere dei modi per conciliarle? Possono esistere, per utilizzare nuovamente l’esempio dell’uomo, delle regole per unificare un animale bipede implume a un amico, o un aggregato di molecole a un soggetto sociale? Per Goodman la risposta a questo interrogativo è del tutto negativa. Anzi, a ben guardare, alcune delle questioni sopra poste sono addirittura improponibili: non si può chiedere quale versione del mondo sia in assoluto più vera in rapporto alla “realtà” perché, come già sappiamo, non esiste alcuna realtà in sé che noi possiamo cogliere oggettivamente, così da farla funzionare come criterio di verifica “pura” delle nostre varie versioni (il che non significa che sia a priori impossibile valutare quale sia la versione più vera non già in assoluto, bensì relativamente a un determinato contesto, a un determinato fine e a un determinato insieme di più regole). C’è da aggiungere che, recuperando e sviluppando precisi motivi pragmatistici (come Quine, ma in modo assai più radicale di lui), Goodman sottolinea più volte che il criterio di valutazione delle versioni del mondo non può né deve essere necessariamente essere solo quello vero/falso: oltre a tale criterio ve ne sono, anche in sede cognitiva, altri spesso di importanza non minore (i criteri di rilevanza, di efficacia, di semplicità, ecc.). Alla luce di quanto precede, non meraviglia che Goodman respinga un altro caposaldo della gnoseologia sostenuta da una parte del neopositivismo e dalla filosofia “scientifica” da Russell a Popper: la teoria delle verità come “corrispondenza” del linguaggio al mondo. In effetti l’obiettivo suggerito da tale teoria è irrealizzabile e fuorviante, non essendo il mondo qualcosa di definibile in mondo oggettivo-univoco ed extra-linguistico. Per questo e per altri motivi Goodman abbandona la concezione “corrispondentistica” della verità e introduce altri criteri di valutazione delle versioni del mondo, a cominciare da quello (nuovamente di ascendenza pragmatistica) di “appropriatezza” o ” congruenza “. Tale congruenza può essere a sua volta “interna” o “esterna”. E’ interna quando riguarda il rapporto tra una versione del mondo e ciò a cui essa si riferisce: da questo punto di vista la celebre proposizione di Tarsky ” ‘La neve è bianca’ è vera solo se la neve è bianca” andrebbe per Goodman riespressa così: ” ‘La neve è bianca’ è un enunciato vero stando a una certa versione, se e solo se la neve è bianca secondo quella versione” (ossia se è congruente con quella versione). La “congruenza” è invece “esterna” quando riguarda il rapporto tra diverse versioni del mondo. Su questo Goodman ha cura di sottolineare che non ogni versione del mondo è compatibile con qualsiasi altra: la questione della compatibilità, formale e sostanziale, tra le varie versioni del mondo costituisce anzi un ambito di indagine di grande rilievo.
KARL LÖWITH
A cura di ALDO TRUCCHIO
Karl Löwith nacque a Monaco di Baviera nel 1897. Fu allievo di Edmund Husserl e di Martin Heidegger all’Università di Friburgo, ma nel 1936 – in quanto ebreo – fu costretto a lasciare la Germania a causa delle persecuzioni razziali. Visse alcuni anni in Giappone, dove rimase affascinato dalla filosofia zen; questa filosofia prospettava all’uomo un rapporto col nulla non improntato al nichilismo, e lo sollecitava ad abbandonarsi alla natura, pensata né in termini vitalistici né irrazionalistici, ossia in maniera del tutto estranea al soggettivismo ed allo storicismo dell’Europa. Fu inoltre un acuto e critico osservatore del processo di appropriazione della scienza occidentale da parte dei paesi orientali. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti e lavorò, tra l’altro, presso l’Università di Chicago. Fece ritorno in Germania nel 1952 e da allora si dedicò all’insegnamento presso l’Università di Heidelberg, città nella quale ha abitato fino alla morte, avvenuta nel 1973. Karl Löwith considera lo svolgimento del pensiero europeo come un processo di secolarizzazione della visione teologico-biblica della storia, caratterizzata a sua volta dal profetismo, dall’attesa di un “futuro escatologico”, e quindi dalla possibilità che ogni evento possa essere giustificato sulla base di uno scopo finale. Tale prospettiva prometteva una impossibile conciliazione tra il logos — la razionalità — cristianizzato, e l’imprevedibile mutevolezza dell’agire umano e degli eventi naturali; la riflessione degli stessi filosofi della storia ha finito per mostrarne il fallimento, con la caduta in un relativismo storicistico e nel conseguente decisionismo politico che riempie pericolosamente il vuoto lasciato dalla perdita degli antichi valori condivisi. La vecchia Europa era stata caratterizzata da uno Spirito unitario, da una idea di umanità e di finalità legata intimamente con quella di divinità. Questa idea di fatto la opponeva al resto del mondo. A partire dalla metà del XIX secolo tale unità “civile” dell’Europa è però andata in crisi sia per fattori esterni, quali l’emergere di potenze politiche extraeuropee come Russia, Stati Uniti e Giappone; e sia per le vicende interne, cioè l’affermazione del proletariato e del nichilismo pessimista ed irrazionalista. La crisi arrivò a compimento con Hegel. In effetti egli era l’ultimo pensatore in grado di tentare ancora una neutralizzazione del contrasto tra soggetto ed oggetto, o, meglio ancora, di colmare il divario tra esistenza dell’uomo ed essere del mondo. Egli era ormai il solo in grado di fermare la fine dell’epoca cristiana della filosofia occidentale, di porre rimedio alla moderna separazione tra uomo e mondo che aveva avuto inizio con la filosofia di Cartesio. Tuttavia neppure “la forza spirituale di Hegel non ha potuto arrestare la storia di questa separazione” (Nietzsche e l’eterno ritorno). Non che egli non l’avesse tentato. Egli fece questo tentativo mostrando chiaramente l’intrinseca contraddittorietà di quei concetti e proponendone, allo stesso tempo, la conciliazione attraverso una mediazione dialettica razionale. In tal modo questa scissione — che caratterizza tutta la modernità — raggiunge il suo apice. Di fatto, uomo e mondo erano stati intellettualmente divisi. Tutto del mondo e della storia è stato frantumato e rielaborato dalla potenza negativa dell’intelletto. Tale negatività non porta ancora al nichilismo, poiché rimane in qualche modo ingabbiata all’interno del sistema grazie al concetto di Spirito, cioè alla coincidenza di razionalità e divinità cui si è accennato sopra, che tiene ancora legati filosofia e mondo, ragione e storia. Ciò nonostante, “proprio mediante la sua conciliazione Hegel ha chiarito per tutte le epoche future che l’uomo e il mondo sono separati da quando nessun dio li tiene più uniti” (Nietzsche e l’eterno ritorno). Così, quando la fede condivisa in un Dio, in dei valori, nella razionalità viene a mancare, allora il nichilismo esplode e porta alla disintegrazione di questo sistema. Sicché Löwith, in Da Hegel a Nietzsche (1941), il suo testo considerato più importante, ricostruisce il percorso che dal compimento hegeliano del pensiero occidentale, mediante l’autoassoluzione dello Spirito e la sua conciliazione con il reale, porta alla definitiva dissoluzione del mondo cristiano-borghese officiata da Marx e Kierkegaard, e poi all’esperimento nietzscheano, attraverso la trasformazione della conciliazione in critica operata dai giovani hegeliani. Questi tentarono di dilatare la portata del sistema giunto a compimento applicandolo alla realtà socio-politica:
“Riconoscendo l’insostenibilità della situazione del momento, essi rifiutarono l’universale e il passato, allo scopo di anticipare il futuro, di premere verso il determinato ed il singolo e di negare il presente”. (Da Hegel a Nietzsche)
È impossibile delineare in questa sede i complessi percorsi intellettuali – ricostruiti da Löwith – dei pensatori della sinistra hegeliana e le loro riflessioni sui problemi della società borghese, del lavoro, della cultura, dell’umanità e del cristianesimo. Ma da Ludwig Feuerbach ad Arnold Ruge, da Bruno Bauer a Max Stirner, essi sono caratterizzati, non solo da “comuni atteggiamenti di opposizione” e dal loro sottrarsi “all’ordinamento borghese”, ma anche dal “predominio dell’elemento storico” pur nel distacco dalla filosofia rivolta al passato, e dall’interesse per i concetti di “bisogni”, “umanità” e “finitezza”. Tuttavia è solo dopo Marx e Kierkegaard che verrà definitivamente meno la possibilità della mediazione razionale e spirituale, e la filosofia tedesca, ben oltre la sua fase critica, viene interamente negata: la ragione cessa di essere fondamento dell’esistenza umana e la storia ed il mondo devono essere pensati al di fuori e contro di essa.
“Il principio di Hegel, proclamante l’unità di ragione e realtà, e la realtà stessa in quanto unità di essenza ed esistenza, è infatti anche il principio di Marx. Questi si trova costretto a volgersi anzitutto in due direzioni: contro il mondo reale e contro la filosofia costituita, proprio per il fatto che vuole riunire entrambi in una comprensiva totalità di teoria e prassi. La sua teoria può divenir pratica solo come critica della situazione sussistente, come distinzione critica di realtà e idea, di essenza ed esistenza. La teoria, presentandosi sotto l’aspetto di questa critica, prepara la strada alla trasformazione pratica”. (Da Hegel a Nietzsche)
Solo la prassi rivoluzionaria può porre termine all’autoalienazione dell’uomo – quale essere sociale generico –, nel mondo del lavoro e nella religione, determinata dalla proprietà privata e dall’insieme dei rapporti di produzione dominanti nella società borghese e capitalista.Al contrario
“Kierkegaard ha protestato contro quest’idea dell’esistenza sociale, poiché “nella nostra epoca” ogni specie di concatenazione – nel “sistema”, nell’ “umanità” e nella “cristianità” – gli appariva come una forza livellatrice”. (Da Hegel a Nietzsche)
Il filosofo danese critica aspramente Hegel poiché
“Ciò che egli intendeva dell’essere, era soltanto il suo concetto, non la sua realtà, che è ogni volta qualcosa di singolo. (…) Questa universalità dell’essere uomo, cioè l’universalmente-umano, non è stata negata da Kierkegaard, ma è da lui stata rinvenuta come realizzabile soltanto dal singolo, mentre la universalità dello spirito (Hegel) o dell’umanità (Marx) è a lui sembrata esistenzialmente nulla”. (Da Hegel a Nietzsche)
All’apice della modernità, tragicamente in bilico tra due inconciliabili concezioni del tempo e del mondo, si situa il pensiero di Friedrich Nietzsche:
“(…) una caduta ed una ascesa (…) un décadent del secolo che finiva ed un “iniziatore” del secolo a venire, insomma un uomo di confine (…) un senza patria in senso eminente”. (Il nichilismo europeo)
La figura di Nietzsche è importante innanzitutto perché
“Guardando indietro, egli vide in anticipo l’avvento del “nichilismo europeo”, il quale proclama che dopo la caduta della fede cristiana in Dio e quindi anche della morale “nulla è più vero” ma “tutto è permesso”. (Da Hegel a Nietzsche)
E quindi assunse il compito di “portar su di sé il sacrificio di delineare spiritualmente il destino dell’Europa”; ma nel pensiero di Nietzsche è possibile anche scorgere la “duplicità di significato del nichilismo, cioè dell’origine della modernità”. Difatti
“Il nichilismo come tale può significare due cose, costituendo tanto un sintomo di definitiva decadenza e di disgusto verso l’esistenza, quanto per altro un primo sintomo di rafforzamento e di una nuova volontà di esistere; può quindi esserci un nichilismo della debolezza ed uno della forza”. (Da Hegel a Nietzsche)
Partendo “dalla considerazione sostanziale che ci troviamo più o meno alla fine del pensiero storico moderno”, Löwith si confrontò più volte con il tentativo di una “riduzione analitica di quel composto moderno che è la filosofia della storia ai suoi elementi originari”. Le riflessioni su “Sapere e fede”, “Creazione ed esistenza”, “Il senso della storia” etc. attraversano tutto il periodo dell’insegnamento ad Heidelberg, ma già in “Significato e fine della storia” (1949) Löwith si era dedicato a dimostrare che “la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico”, (Significato e fine della storia ) cioè con la sostituzione della fede nel progresso al posto di quella nella provvidenza; Löwith ritenne opportuno procedere a ritroso, da Burckhardt – che vide ormai nella storia solo la continuità di un processo e nulla di più –, attraverso Marx, il Positivismo, l’Idealismo tedesco, l’Illuminismo, fino ai testi biblici, “perché la storia continuamente avanza lasciando dietro di sé i presupposti storici delle elaborazioni più recenti”. Anche stavolta è impossibile qui rendere conto dell’acume e della limpidezza che caratterizzano la ricostruzione löwithiana. La conclusione è che
“Gli avvenimenti storici in quanto tali non contengono il minimo riferimento ad un senso ultimo e comprensivo. La storia non ha un risultato ultimo. (…) La moderna sopravvalutazione della storia, cioè del mondo come storia, è il risultato della nostra alienazione dalla teologia naturale degli antichi e dalla teologia soprannaturale del cristianesimo. (…) Per la concezione cristiana la storia assume una importanza decisiva solo in quanto Dio stesso si è rivelato in un individuo storico”. (Significato e fine della storia)
La salvezza per i cristiani è sempre individuale ed indipendente da qualsiasi contesto storico, nell’attesa del Giudizio divino: eppure questa verità della fede è stata dimenticata già con le molteplici “trasfigurazioni della teoria di Gioacchino” da Fiore, per poi essere recuperata solamente con Kierkegaard. Piuttosto:
“Il mondo dopo Cristo si è appropriato dell’aspettativa cristiana di un fine e di un compimento, e nello stesso tempo ha rifiutato la fede in un imminente éschaton”. (Significato e fine della storia)
Finché è risultato evidente che
“L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo sulla base della fede, ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione”. (Significato e fine della storia)
Questa situazione è precisamente ciò che precedentemente abbiamo chiamato nichilismo. Né la considerazione finale che solo “la natura umana persiste attraverso ogni mutamento storico” può essere d’aiuto nella difficoltà nella quale ci si è venuti a trovare. Piuttosto è da sottolineare la radicale critica – raramente esplicita, che è però accennata in molti scritti di Löwith – verso l’irrimediabile coappartenenza di logos e violenza che è il segreto, il peccato originale dell’Occidente, poiché l’applicazione di “principi cristiani alle cose del mondo” e “la fede di essere stati creati ad immagine di un Dio creatore, la speranza in un futuro regno di Dio” hanno portato ad una “disposizione spirituale” interamente rivolta al futuro, con la conseguenza di una esaltata volontà creatrice e conquistatrice, guidata dalla certezza di conoscere il fine ed il senso ultimo della storia, tanto che bisogna porsi “il problema se un tal genere di vita imperniata sull’aspettativa si accordi con una spregiudicata considerazione del mondo e della condizione umana in esso” e non sia piuttosto un’ “illusione” ed un rimedio alla “disperazione”. Ma l’oggetto delle più aspre critiche di Löwith è lo storicismo, che giunge alle sue estreme conseguenze, e si assolutizza, nel pensiero di Martin Heidegger, il suo vecchio insegnante, del quale afferma che “è certamente di altissimo livello filosofico”, ma anche che proprio “dal punto di vista filosofico è invece assolutamente ambiguo”. Difatti, per Heidegger
“l’Esserci umano non ha solamente una storia, ma è essenzialmente storia (…) esso è costitutivamente finito, o temporale”. (Il nichilismo europeo)
Ciò comporta non solo una limitazione all’attimo presente, alla “fatticità” – “ossia ciò che resta della vita quando sia stata privata di tutti i suoi contenuti”–, con la rinuncia a considerare la continuità storica, ma anche alla riduzione ai minimi termini dell’esistenza, alla soppressione di ogni responsabilità soggettiva, alla distruzione di ogni tradizione preesistente; addirittura
“Coerentemente con questa negazione di principio di tutto lo stato di cose esistente e anche di qualsiasi programma per riformarlo, Heidegger ci metteva in guardia anche contro l’erronea interpretazione e la sopravvalutazione della sua stessa opera”. (Il nichilismo europeo)
Da ciò deriva l’attivismo “vuoto di contenuti” presente in molte opere heideggeriane. Quel “decidersi per se stessi” in contrasto con la vita “inautentica” ha un carattere puramente “appellativo”, tanto da risultare, pericolosamente, “pura risolutezza senza scopo”. Così
“non è un caso che a una filosofia esistenziale di Heidegger corrisponda in C. Schmitt un “decisionismo” politico, che trasferisce il “poter-essere-un-tutto” della esistenza propria di ciascuno alla “totalità” dello Stato proprio di ciascuno”. (Il nichilismo europeo)
La “teologia senza Dio” di Heidegger (Dio del quale Heidegger non cesserà mai di auspicare il ritorno, dalla conferenza su Hölderlin del 1936 fino all’intervista con lo Spiegel del 1966), è quindi disponibile ad accettare la “durezza del destino e il rigore del lavoro” che ci si può autoimporre; e Heidegger risulta moralmente ed intellettualmente colpevole perché accettò il destino del proprio popolo così come era stato voluto dalla “decisione” di Hitler, ed addirittura lo volle legare alle sorti dell’Università, come testimoniano i discorsi e le lettere scritti durante il breve rettorato di Friburgo. Löwith concentra molto la propria attenzione su Nietzsche: scrisse il suo “Nietzsche e la teoria dell’eterno ritorno” nel 1936 e lo rielaborò ampiamente per la seconda edizione di vent’anni dopo. All’inizio degli anni quaranta, contemporanee alla stesura di “Da Hegel a Nietzsche”, risalgono invece le sue note su “Il Nichilismo europeo” pubblicate postume; e in “Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche” del 1966, l’ultimo scritto importante, vengono ripresi alcuni dei temi centrali del testo del ’36. Egli accetta esplicitamente la tesi nietzscheana del nichilismo come “malattia mortale dello spirito europeo”, ma il suo interesse si rivolge piuttosto alla “dottrina dell’eterno ritorno”, considerata un “progetto di un nuovo modo di vivere” e “ripristino dell’antichità (…) al culmine della modernità“. Dopo l’evento della “morte di Dio”, cioè la fine della pretesa di assolutezza dei valori, ciò che Nietzsche
“vide davanti a sé (…), era il mondo divenuto senza cultura di un’esistenza divenuta senza scopo, inserita senza vincoli in un mondo di forze extra-umano”
e provò a superare tale situazione tentando di
“ritrovare (…) il mondo che è già sempre esistito e che continuamente ancora diviene”. (Nietzsche e l’eterno ritorno)
cioè nient’altro che l’antica visione circolare del divenire del mondo e del tempo dei Greci, così come ci è stata tramandata nel pensiero misterico di Eraclito, in contrasto con la visione lineare e finita del tempo della tradizione biblica e cristiana. In tal modo qualsiasi pretesa di valore della vita lascia il posto al volere la vita come destino, ed in tal modo risulta conciliata, o meglio, elusa, la contraddizione tra soggetto e mondo, tra
la volontà libera creatrice della storia e il fato universale e la necessità di tutto l’essere. (Significato e fine della storia)
Ciò può avvenire solo in un “momento decisivo (…) né breve né lungo, bensì un nunc stans senza tempo, cioè eterno”, in un “istante supremo del compimento” nel quale “la visione dell’eternità erompe una volta per sempre”.In tal modo la vita può tornare alla sua ” duplice pienezza di creazione e distruzione, di gioia e di dolore, di bene e di male”, poiché le comprende tutte; e “la filosofia totale di Nietzsche” è assieme “volontà di annientamento e di eternità”. Qui stanno la grandezza e il fallimento della filosofia di Nietzsche. Egli ha reso esplicita l’ambiguità e la doppiezza della situazione dell’uomo moderno, ma non è riuscito a superarla (del resto, per Löwith ciò è assolutamente impossibile). Ed allora il suo stesso tentativo in tal senso indica il suo stare ancora pienamente nella tradizione teologica: difatti egli ha dovuto comunque scegliere tra mondo e soggetto, ed ha scelto per quest’ultimo, poiché la “transvalutazione di tutti i valori” ed il conseguente prospettivismo sono ancora una volta la ripetizione della potenza fondante valori del soggetto; inoltre, nonostante la ripresa di una concezione circolare del tempo atta a dissolvere l’intera visione del mondo biblico-cristiana, l’interesse primario di Nietzsche è sempre stimolato “dalla brama di futuro e la volontà di crearlo“, ed in ciò rispecchia appunto la tracotanza creatrice e conquistatrice dell’Occidente cristiano:
“Tutto questo volere, creare e volere retrospettivamente è assolutamente anti-greco, anti-classico e anti-pagano; esso deriva dalla tradizione ebraico-cristiana, dalla fede che il mondo e l’uomo siano stati creati dalla volontà di Dio. Nella filosofia di Nietzsche nulla è tanto evidente quanto l’esaltazione della nostra esistenza creatrice e volitiva, creatrice attraverso un atto di volontà, come il dio dell’Antico Testamento. Per i greci la creatività dell’uomo era un’ “imitazione della natura”. (Significato e fine della storia)
Martin Heidegger non rispose mai alle accuse del suo antico allievo, e sappiamo che non gradiva ribattere su questioni di natura politica o inerenti il suo passato nazista; ma la più aspra critica che sia mai stata rivolta a Karl Löwith si trova proprio in una sua lettera del 1954: “non sa pensare, ma sa solo illustrare il pensiero altrui”. Ebbene, questa osservazione, apparentemente comprovata dall’assenza di un testo nel quale un Löwith maturo illustri il suo pensiero originale (escludendo, quindi, l’esordio di “L’individuo nel ruolo del prossimo” del 1928), non coglie affatto l’esigenza centrale della riflessione löwithiana, che è quella di filosofare da europeo, da occidentale e da tedesco, senza quindi rinnegare niente della continuità della tradizione del pensiero che lo precede, ma senza neanche aderire a nessun radicalismo, senza essere marxista né sionista, rifiutando l’irrazionalismo e voltando le spalle al destino nichilistico dell’Occidente, non accettando che la sua ricerca intellettuale debba limitarsi ad accompagnare il tramonto dell’Europa. Per tenersi lontano, quindi, dalla violenza del logos occidentale, Löwith si rivolse piuttosto alla natura, ad un concetto di natura ben più radicalmente antimoderno di quello nietzscheano, poiché sottratta al soggetto, alla storia ed alla comprensione della ragione, ma non per questo portatrice di istanze irrazionalistiche o vitalistiche. Piuttosto una natura non interpretata come storia, destino, creazione, e della quale la morte è una componente, ma non ciò di fronte alla quale il soggetto trova la sua autenticità: una natura, insomma, come quella dell’Ecclesiaste, ripetitiva ed ordinata, di fronte alla quale bisogna con l’atteggiamento del saggio piuttosto che con quello dell’interprete.
ALFRED ADLER
CENNI BIOGRAFICI
Figlio di un piccolo commerciante israelita, Alfred Adler nacque a Rudolfsheim (Austria) il 7 febbraio 1870. Il suo aspetto fisico e la salute precaria sembrano avere influito sul suo pensiero: di bassa statura, egli soffrì di rachitismo. La condizione di isolamento e di immobilità imposta per motivi terapeutici gli propose precocemente i problemi dell’inferiorità e della socializzazione. Nell’adolescenza coltivò la passione per la musica e fu affascinato dai caffè viennesi, luogo d’incontro e di conversazione. La frequentazione dei caffè fu all’origine della sua abitudine a diffondere la propria dottrina al di fuori degli ambienti accademici. La scelta della carriera medica fu precoce e probabilmente legata alle esperienze infantili; come studente non fu brillante. Compì a Vienna tutti gli studi, laureandosi in medicina nel 1895. Dapprima si specializzò in oftalmologia, ma poi, considerando troppo ristretta questa specializzazione, optò per la medicina interna. Nel periodo dei suoi studi universitari iniziò a manifestare interesse per il marxismo e il socialismo. Nel 1897 sposò Raissa Epstein, figlia di un ricco commerciante ebreo di origine russa. Il carattere della moglie, donna intelligente, combattiva, capace di sostenere idee anticonformiste, inesperta dei lavori domestici, poco curata nel vestire e di piccola statura, influenzò la visione adleriana del femminile. Ebbe da lei 4 figli, due dei quali, Alexandra e Kurt, si dedicarono alla Psicologia Individuale, fornendo, anche dopo la morte del padre, interessanti contributi. Nel 1898 scrisse un lavoro in cui esaminava le condizioni igienico sanitarie dei sarti, rilevando le relazioni esistenti tra lavoro e comparsa di alcune malattie. Per combattere mortalità e malattie (estremamente elevate fra i lavoratori in quel periodo) Adler proponeva di migliorare le condizioni di lavoro, abolire il cottimo, costruire case decenti. Nel 1902 si verificò il primo incontro con Freud, che Adler difese appassionatamente all’interno dell’associazione dei medici viennesi. Lo stesso anno, su pressione di Freud, entrò a far parte del “gruppo del mercoledì”, così detto perché si riuniva ogni mercoledì a casa di Freud per discutere i risultati di studi ed indagini. Inizialmente costituito da pochi studiosi e, in seguito, fattosi più nutrito, il gruppo avrebbe dato origine alla “Società viennese di psicologia”. Nonostante il suo incontro con Freud, nel 1902 e l’adesione al movimento psicoanalitico, Adler, si differenziò dagli altri membri del gruppo: aveva già una sua visione autonoma della psicologia. I suoi primi scritti sono anteriori alla data dell’incontro. Alla luce delle vicende successive e dell’evoluzione del pensiero adleriano riesce difficile comprendere oggi che cosa abbia spinto Adler e Freud ad incontrarsi e a percorrere una parte del loro cammino di ricerca in comune. Il contesto culturale del tempo, che vedeva con diffidenza quanto non dimostrabile, giustifica questa contraddizione. Ma se, all’inizio, l’obiettivo comune di sostenere linee di pensiero anticonformiste e osteggiate dalla scienza ufficiale costituì l’elemento di coesione, è verosimile che nelle fasi successive queste differenze siano ritornate in primo piano, contribuendo alla scissione. Nel 1904 si convertì al protestantesimo. Adler iniziò la professione, dopo un periodo di frequenza presso gli ospedali, in uno studio privato nel quartiere del Prater, abitato dal ceto piccolo-borghese. Sin dall’inizio della sua professione, Adler prestò particolare attenzione alla comunicazione e al rapporto con i pazienti. Nel 1907 conseguì la specializzazione in malattie nervose. Del 1907 è anche lo studio sulla “inferiorità degli organi” e dell’anno successivo quella del saggio sull'”istinto di aggressione”. All’interno del gruppo psicoanalitico la sua posizione di consolidò sino alla nomina, nel 1910, a Presidente. Dopo una serie di contrasti, culminati nella drammatica riunione della società tenutasi il 22 febbraio 1911, Adler presentò le dimissioni. Il motivo apparente di questa frattura fu la critica di Adler alla teoria freudiana della sessualità con l’affermazione del concetto di “protesta virile”. Ma, osservando la successiva evoluzione e lo sviluppo della teoria adleriana, non è difficile capire che le vere cause della scissione siano da ricercarsi nelle profonde differenze tra le due scuole di pensiero e nello spostamento dell’attenzione di Adler sulla visione teleologica della meta per comprendere l’essere umano. Nella scissione Adler fu seguito da sei membri della società psicoanalitica e con essi fondò una nuova società che prese il nome di “Società per la libera Psicoanalisi”, successivamente modificata in “Società per la Psicologia Individuale”. L’orientamento sociale e la concezione plastica della mente suggerirono infine l’adozione della denominazione definitiva di “Psicologia Individuale Comparata”. Nel 1912 Adler presentò domanda per la libera docenza universitaria; la domanda venne respinta sulla base di futili motivazioni. Richiamato alle armi come ufficiale medico all’età di 44 anni, a seguito dell’esplosione della prima guerra mondiale, ebbe modo di osservare sul campo le reazioni psicopatologiche agli eventi bellici. La sconfitta dell’Austria determinò un impoverimento del paese e aggravò le tensioni sociali. Le idee politiche socialiste di Adler trovarono terreno fertile in questo contesto, consentendogli, nel 1920, di avviare in Austria le prime strutture psicopedagogiche che troveranno, ma solo molti anni dopo, numerosi seguaci in tutto il mondo. L’ampia disponibilità con la quale negli Stati Uniti venne accolto il suo vasto programma di conferenze finalizzate a diffondere la sua dottrina, portò Adler a contatti sempre più frequenti con il Nuovo Mondo. L’avanzata del nazismo in Europa e l’apertura da parte degli ambienti universitari statunitensi influenzarono la decisione del suo trasferimento definitivo in America; nel 1930, venne incaricato dell’insegnamento della psicologia alla Columbia University e nel 1932 gli fu conferito il titolo di professore anziano al Medical College di Long Island. Gli ultimi anni della sua breve vita lo videro impegnato nel lavoro di diffusione delle sue idee, che propagandava direttamente con conferenze, spaziando dai temi della psicoterapia alla criminologia e alla pedagogia. “La conoscenza dell’uomo” (del 1927) costituisce l’espressione più completa dei suoi principi teorici. Il 28 maggio del 1937 fu stroncato da un infarto, mentre si apprestava a tenere una conferenza ad Aberdeen in Scozia. La sua morte, avvenuta all’età di soli 67 anni, pose fine all’evoluzione del suo pensiero di cui si trova l’ultima significativa testimonianza ne “Il senso della vita” del 1933. Adler ha introdotto il concetto di complesso d’inferiorità . Sempre attento verso i problemi sociali, ha sviluppato un approccio olistico ed umanistico verso di essi. L’aspirazione alla superiorità coesiste con un altro innato impulso: cooperare e lavorare con altre persone per il raggiungimento del bene comune, un impulso che Adler ha definito interesse sociale . Lo stato di salute mentale è caratterizzato da ragione, interesse sociale e auto-trascendenza; quello di disordine mentale invece da senso di inferiorità, egocentrismo, senso di superiorità o bisogno di esercitare potere su altre persone. Gli psicoterapeuti adleriani dirigono l’attenzione del paziente sul fallimentare e nevrotico carattere delle proprie aspirazioni allo scopo di fargli superare il senso d’inferiorità. Quando il paziente è divenuto conscio di questo viene aiutato ad acquisire una maggiore auto-stima, ad adottare obiettivi più realistici e comportamenti più utili e socialmente orientati. Adler è il fondatore della psicologia individuale che oppone alla concezione libidica di Freud una concezione basata sulle nozioni di carattere, di complesso d’inferiorità, di conflitto tra la posizione reale dell’individuo e le sue aspirazioni. OPERE FONDAMENTALI : I primi scritti di Adler sono costituiti da alcuni lavori su temi di medicina sociale tra i quali la monografia su “Le malattie dei sarti”. Ricordiamo le opere principali: 1907, “Studio sull’inferiorità degli organi”; 1908, “L’aggressività istintuale nella vita e nella nevrosi”; 1912, “Il temperamento nervoso” ; 1917, “Psicologia dell’omosessualità”; 1920, “La psicologia individuale”; 1927, “La conoscenza dell’ uomo” ; 1931, “Cosa la vita dovrebbe significare per voi”; 1931, “Il Caso della Signora A. (La diagnosi di uno stile di vita)”, Rivista di Psicologia Individuale, n.42, pp. 9-41, Luglio-Dicembre 1997; 1932, “La struttura delle nevrosi”; 1933, “Il senso della vita”; 1936, “Prefazione al Diario di Vaslav Nijinsky”, in Adler A., Ansbacher H.L., Parenti F., Pagani P.L., ” Adler e Nijinsky “, Quaderni della Rivista di Psicologia Individuale, N. 6, 1982; 1933, “Religione e psicologia individuale”; 1935, “I principi fondamentali della psicologia individuale”. Opere pedagogiche: 1929, “La psicologia individuale nella scuola”; 1930, “Psicologia dell’educazione”; 1930, “Il bambino difficile”.
LA TEORIA DI ADLER
Adler è il primo geniale eretico della psicoanalisi, è il teorico della psicologia individuale , dove si affrontano gli stessi problemi di Freud con un sistema teorico che offre per essi una soluzione differente: Freud vede la vita dell’uomo in funzione del passato, Adler la legge in funzione del suo avvenire e questo perché l’individuo è guidato dal desiderio di superiorità, dalla ricerca di somiglianza divina, dalla fede nel suo potere psichico. La volontà di potenza, il sentimento sociale e la finzione sono le tappe principali del percorso. Le tappe sono secondarie rispetto alla capacità che egli ebbe di superare le antinomie freudiane spostando la sua attenzione dalle cause alle mète. Sintetizzare l’evoluzione della Psicologia Individuale Comparata è di certo un’operazione riduttiva e non semplice da compiersi. E’ più utile forse sintetizzare alcuni dei concetti chiave che caratterizzano la dottrina adleriana. Se le azioni sono la guida per capire la personalità, lo stile di vita costituisce la modalità dell’azione. Il termine, coniato da Adler, anche se passato ormai a far parte del linguaggio corrente, definisce la modalità con la quale l’individuo si muove verso la meta servendosi dei mezzi che ritiene di avere a sua disposizione e cioè della percezione soggettiva che ha di Sé. Lo stile di vita si forma nella primissima infanzia, è definito nelle sue linee fondamentali già all’età di cinque anni. È la risposta che l’individuo fornisce per muoversi nel suo contesto ambientale originario che, in genere, è costituito dalla famiglia. Per questo motivo Adler dedicò molta attenzione allo studio della “Costellazione Familiare”, cioè della posizione di nascita del bambino rispetto ai fratelli e della relazione e delle caratteristiche degli altri membri della famiglia. Inoltre Adler, con lo studio dei “Primi Ricordi Infantili”, per primo mise l’accento sul valore proiettivo dei ricordi che restituiscono l’impronta dell’attuale personalità. I primi ricordi sono l’impronta, non la causa. Né è importante stabilire se sono reali o frutto di elaborazione di fantasia: importa sapere che dalla loro interpretazione si ottengono informazioni essenziali per comprendere lo stile di vita dell’individuo e per riconoscere le sue mete. L’analisi dello stile di vita costituisce il fulcro dell’analisi adleriana. Nell’uomo ci sono due istanze innate esprimibili come: volontà di potenza intesa come bisogno innato di sopravvivere e di affermarsi e come sentimento sociale da intendersi sia come sentimento di cooperare con la comunità, sia di compartecipare emotivamente con gli altri individui.La coesistenza di queste due istanze rappresenta la salute mentale, mentre il loro conflitto porta alla nevrosi . Adler, che era un acuto osservatore e che costruì tutta la sua teoria partendo dall’attenta osservazione, constatò che ogni individuo tende verso l’alto, cioè si muove da una posizione vissuta come inferiore, ad una meta di superiorità. Nasce il termine volontà di potenza , di matrice nietzcheana, che spiega il motivo per cui l’individuo tende a reagire alla propria inferiorità spostandosi verso l’alto, usando gli artifici nevrotici nel suo cammino. Per Adler l’uomo è un essere sociale e la tendenza verso il sociale è innata. Questa concezione spiega perché Adler aggiunse al nome della “Società di Psicologia Individuale” il termine “Comparata”. Egli sosteneva che l’uomo non può essere compreso se non viene osservato all’interno del contesto sociale con il quale interagisce. Il sentimento sociale lo avvicina alla dottrina di Erich Fromm per il quale l’uomo diviene sociale per sfuggire alla solitudine. L’innatismo del sentimento sociale è forse l’unico aspetto dogmatico della teoria adleriana ma si deve riconoscere che l’esistenza di un buon rapporto con gli altri, che mantenga inalterata la propria individualità ma che faccia sentire l’individuo partecipe del suo contesto umano, è elemento essenziale di un buon equilibrio psichico. Il sentimento di inferiorità caratterizza il bambino alla sua nascita ed è fisiologico nell’infanzia. Si trasforma in complesso di inferiorità nell’adulto quando vengono a mancare le condizioni educativo-ambientali che consentono al bambino di liberarsene nel corso della crescita. Ad accentuare il complesso di inferiorità possono concorrere quella che Adler chiama inferiorità d’organo , intesa come insufficienza fisica o estetica e la costellazione familiare intesa come rivalità fra i fratelli a cui Adler attribuisce un’importanza maggiore che ai genitori. La compensazione è una delle modalità che la volontà di potenza usa per superare il sentimento di inferiorità. La compensazione non deve essere vista solo come artificio nevrotico ma anche come elemento di superamento dell’inferiorità. Adler distingue tra compensazioni e supercompensazioni e tra compensazioni positive e negative: quelle negative e la supercompensazione interferiscono con il sentimento sociale. La progettazione di piani di vita può comportare una valutazione di sé e del mondo che si distacca dall’oggettività, producendo quelle finzioni che restano nell’ambito della normalità psichica finché non distanziano troppo l’individuo dai suoi simili e non alterano la coerenza del pensiero. La finzione è un’idea che aiuta a trattare la realtà più agilmente. Esasperando il concetto, tutto è finzione, o quanto meno tutto è infarcito di finzioni. La finzione è la sommatoria della costruzione soggettiva, alla quale si sovrappongono i codici ambientali di cui fanno parte la cultura, l’etica, il costume, la religione. Ogni individuo nel suo agire è guidato da una meta e orientato verso la meta. Questo scopo prevalente viene definito fine ultimo e assume carattere fittizio quando è inquinato da elementi patologici ed è compensatorio di complessi. La meta è composta da una parte consapevole e da una parte di cui l’individuo non è consapevole. Scoprire la parte inconsapevole della meta aiuta a capire l’origine e il senso delle nevrosi e spiega fenomeni dei quali i soggetti nevrotici non sanno darsi pace. Il Sé creativo è senza dubbio il concetto più elevato della teoria e costituisce il punto di arrivo del pensiero dello studioso austriaco. Definire il Sé creativo è difficile anche se il concetto è intuibile implicitamente: l’individuo ha in sè una serie di potenzialità creative che sono l’essenza stessa del suo essere. Tali potenzialità esigono che l’individuo trovi la possibilità di esprimerle attraverso l’azione. Ma la capacità di esprimere la creatività personale richiede un adeguato livello di autostima. Se il processo di crescita e di maturazione ha consentito di acquisire sicurezza, l’individuo può esprimere il proprio Sé creativo. Se invece il processo di maturazione è stato incompleto, il complesso d’inferiorità impedisce l’espressione della creatività e l’individuo è costretto ad adottare artifici nevrotici per mantenere il proprio livello di autostima. In questo caso però il Sé creativo non accetta la condizione di compromesso che gli impedisce di esprimersi e genera la spinta verso la ricerca delle vie d’uscita assieme agli artifici nevrotici di compenso a salvaguardia dell’autostima. Un opportuno processo di incoraggiamento fornito in un contesto relazionale adeguato può consentire il superamento del complesso e portare all’espressione della propria potenzialità creativa. L’incoraggiamento diventa lo strumento per il cambiamento. Se all’origine della nevrosi c’è il sentimento di inferiorità, solo mediante un adeguato ed efficace incoraggiamento è possibile ottenere la guarigione. Incoraggiare significa scoprire le potenzialità creative dell’individuo, aiutarlo a vederle e sostenerlo nel mettere in campo tali potenzialità, facendogli capire che dispone degli strumenti per realizzare le sue mete. Si configura quindi un ambiente analitico morbido e non angosciante ove si mira a superare i problemi guardando alle mete e rimuovendo gli ostacoli al cambiamento, invece di entrare nei vissuti angoscianti legati al passato, all’inseguimento di regressioni non sempre liberatorie. Questo non significa che Adler non guardi al passato e non attribuisca importanza alla ricostruzione della storia della vita dell’individuo. A differenza di Freud, per Adler i sogni e le fantasie non sono l’espressione dei desideri repressi ma un messaggio che l’individuo si dà, sperimentandosi con i propri vissuti in una situazione che è fittizia (il sogno stesso) ma che viene vissuta come se fosse reale. L’analista adleriano dedica ampio spazio allo studio e all’interpretazione dei sogni e delle fantasie che sono la porta di accesso ai recessi più profondi della mente e contribuiscono alla comprensione delle distorsioni della percezione del Sé e delle mete inconsce. Adler non condivide l’idea che il mancato appagamento sessuale sia alla base delle nevrosi anche se attribuisce importanza alla vita sessuale. La sessualità è una particolare espressione della vita di relazione e l’individuo si esprime nella propria vita sessuale secondo le linee fondamentali del proprio stile di vita. Abbandonato il determinismo pulsionale della psicoanalisi, Adler è costretto a rivisitare le pulsioni sessuali e aggressive, intendendo le prime come espressioni della compartecipazione emotiva e le seconde come espressioni dell’istinto di sopravvivenza, contro l’ipotesi di Freud che le leggeva come figure della pulsione di morte. Adler propone che il riferimento psicanalitico alla sessualità sia inteso esclusivamente in senso metaforico: quindi l’invidia del pene, attribuita da Freud alle donne come fattore nevrogeno, non sarebbe altro che l’invidia della preminenza maschile nella civiltà occidentale; parimenti, la nevrosi maschile rappresenterebbe una protesta virile , una sovracompensazione nei confronti di un sentimento di inadeguatezza. Gli individui si sentono inadeguati ed imperfetti, e per compensazione si autoingannano creandosi uno stile di vita che costituisce essenzialmente una modalità esistenziale tesa al raggiungimento di una superiorità nei confronti degli altri. Anche la relazione affettiva ha una notevole importanza sullo sviluppo del bambino. Adler pone l’accento sulla correlazione tra l’insorgenza di disturbi nevrotici nell’età adulta e la condizione di bambino viziato o trascurato. Viziare e maltrattare sono le condizioni opposte della distorsione della relazione col bambino e coinvolgono la sfera dell’affettività. In sintesi la psicologia individuale di Adler, diversamente dalla psicanalisi ortodossa di Freud, sottolinea soprattutto l’importanza del fattore sociale nella comparsa della nevrosi. Lo sforzo dell’individuo per emergere, per imporsi, rappresenta il tentativo di superare il complesso di inferiorità che prova, da bambino, nei confronti del mondo degli adulti, inferiorità che può essere acutizzata da fattori economici e organici. Nel tentativo di superare questo senso di inferiorità, il bambino si prefigge obiettivi fittizi che hanno lo scopo di tranquillizzarlo. Nel soggetto normale questa contraddizione fra visione fittizia della vita e realtà viene mediata, consentendogli di stabilire soddisfacenti rapporti sociali. Nel nevrotico questa mediazione fallisce, vanificando la possibilità di una relazione sociale positiva. La terapia mira a determinare come si è formato questo autoinganno, attraverso i ricordi e i sogni, non ricorre alle libere associazioni, considera il transfert come elemento facilitante e presuppone una partecipazione attiva da parte del terapeuta tesa a smascherare i falsi obiettivi a cui il paziente tende e a fornire mete esistenziali più idonee e stimolanti. Di qui l’influenza di Adler sul pensiero pedagogico contemporaneo.
PSICOLOGIA DELL’OMOSESSUALITA’
Molti studiosi hanno trattato l’omosessualità, confutando il fatto che le sue radici siano da ricercare nel vizio e nella smodatezza. Secondo i sostenitori della causa biologica, ormonale o genetica, essa é congenita, mentre gli psicanalisti si sono rifatti all’educazione dell’individuo ed all’ambiente familiare in cui egli é cresciuto. Per quanto riguarda la definizione attuale dell’omosessualità, si afferma che un individuo omosessuale, il quale accetta in pieno e con serenità la propria condizione (libero quindi da restrizioni morali) non è considerato un caso patologico tanto è vero che la psichiatria ha cancellato l’omosessualità dall’elenco dei disturbi psicosomatici. Oggi ci si limita a considerare patologica quella forma di omosessualità vissuta con incertezza ed angoscia. Adler ritenne che l’omosessualità fosse un fattore legato alla nevrosi individuale , non congenito. Pubblicò nel 1917 “Il problema dell’omosessualità” e nel 1930 “Psicologia dell’omosessualità”. L’opera di Alfred Adler per prima cosa fa il punto della situazione: nonostante le disposizioni giuridiche e penali, nonché il rigore morale dell’epoca, il fenomeno omosessuale andava sempre più diffondendosi. L’autore inoltre rileva che gli studiosi del periodo non avevano trattato l’argomento in modo completo e che i loro trattati avevano inciso poco o niente sull’opinione pubblica. Secondo lo psicologo viennese, la psicologia individuale ha chiarito che i fenomeni di perversione (masturbazione, feticismo, omosessualità, masochismo) hanno alcune peculiarità in comune. Innanzitutto, sono espressione di un incremento della distanza fra uomo e donna. Infatti rappresentano una rivolta contro il normale adattamento sessuale e indicano il disprezzo verso il partner; sono compensatori per ridurre il presunto senso di superiorità della donna; sono in relazione con una forte sensibilità, con un eccesso di orgoglio e di caparbietà, con carenza di spirito cameratesco, con poco sentimento sociale, diffidenza e smania di comando. L’individuo predisposto alla nevrosi é più sensibile ai cambiamenti della vita, ed é quindi confrontandosi con i problemi della coppia e con il matrimonio che egli reagisce in forme anomale come l’omosessualità che, come la psiconevrosi, fa quindi parte dell’anormale. Nella fase dello sviluppo, il bambino affronta problemi e situazioni creando stratagemmi che ricava dalla propria esperienza e dal confronto con quelle degli altri, soluzioni che adotta come schemi del suo comportamento, ai quali si conformeranno da allora le sue risposte. Le ricerche della psicologia individuale hanno inoltre dimostrato che un bambino sarà tanto più perverso quanto più sarà accresciuto in lui il senso di inferiorità. Naturalmente sotto questa chiave anche l’educazione assume un senso di primaria importanza: un padre-tiranno, che offusca la personalità espressiva del figlio, può essere causa dell’insicurezza dello stesso, creando un grave senso di inferiorità, ed egli si oppone all’autorità del padre in modo nascosto, acquisendo le doti tipiche del perverso. Stessa cosa accade se la madre é forte e possessiva: il bambino avrà, un domani, un forte senso di scoraggiamento e quindi di repulsione verso la donna. La fuoriuscita dallo schema tradizionale fa sì che l’omosessuale sia scarsamente adattabile alla vita sociale, dove infatti egli è condannato ad essere considerato immorale. E’ molto complicato curare l’individuo omosessuale perché si tratta di una nevrosi individuale costituita in età giovanile: é necessario estirparne l’omosessualità acquisita nell’infanzia, quindi rilevare in modo preciso la distanza dal partner sessuale, evidenziare l’aspetto dell’antisocialità ed infine sciogliere il senso di superiorità adottato per compensazione. L’omosessualità, come si diceva, é un fattore di educazione dell’infanzia. La vasta diffusione di questo fenomeno, normale nei tempi antichi come tutt’oggi in ogni classe sociale, fa ad Adler dedurre che l’omosessualità sia una perversione non curabile.
BIBLIOGRAFIA
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PETER FREDERICK STRAWSON
A cura di Marcello di Bello
Biografia intellettuale
I primi anni di studio e la guerra
Peter Frederick Strawson nacque ad Ealing, un sobborgo di Londra, nel 1919, da una famiglia di insegnanti. Le materie predilette durante i suoi studi superori furono inglese, francese, latino e storia. In particolare, il suo insegnante di inglese, J. H. Taylor, gli comunicò una devozione per la poesia e la prosa. All’età di 17 anni, grazie ad una borsa di studio, entrò al John College di Oxford, per seguire corsi di argomento storico e letterario.
All’ultimo momento, però, cambiò idea, e preferì dedicarsi alla politica, all’economia e alla filosofia. Le ragioni di questa improvvisa decisione furono molteplici. Strawson sentiva minacciato il futuro della civiltà europea, e scegliere di studiare economia e politica gli sembrò utile per chiarirsi le idee. Nello stesso tempo iniziava a farsi strada in lui una “spinta” alla filosofia, maturata con la lettura di Du Contract Social (1762) di J. J. Rousseau.
Durante gli anni universitari, la sua passione per le lettere non venne però meno: lesse molta poesia moderna e contemporanea, in particolare T. S. Eliot, e contribuì con alcuni suoi componimenti ad una antologia di giovani poeti, pubblicata nel 1930, col titolo The Thresold, “La soglia”. Dopo il primo semestre universitario dovette convincersi che l’economia non lo interessava, la politica solo nella sua parte storica, e che invece la filosofia gli era davvero congeniale.
In particolare, nei tre anni come undergraduate student, scelse di dedicarsi alla logica, che allora comprendeva la filosofia del linguaggio, l’epistemologia e la metafisica, e alla filosofia di Kant. Suoi tutor furono il cortese J. D. Mabbott e H. P. Grice, che Strawson definì “uno dei più intelligenti e dotati pensatori dei nostri tempi” (“Intellectual Autobiography”, in The Philosophy of P. F. Strawson, a cura di L. E. Hahn, Open Court, 1998, p. 5). Rispetto all’attività di tutoraggio, Strawson mantenne sempre un giudizio altamente positivo durante tutta la sua vita: “penso¾egli scrive¾che non ci sia metodo migliore e mutuamente vantaggioso per imparare la filosofia che lo scambio faccia-a-faccia nell’attività di tutoraggio” (ibi, pp. 7-8).
Al termine dei tre undergraduate years, Strawson conosceva già il suo desiderio più grande: insegnare filosofia all’università. Purtroppo, il risultato dell’esame finale non fu lusinghiero, con grande meraviglia dei suoi tutor. Così lasciò l’università: era l’estate del 1940, in piena seconda guerra mondiale. Strawson fu chiamato nell’esercito e mandato nel Sussex per alcuni corsi di preparazione. Nel 1942 entrò nel Royal Electrical and Mechanical Engineers. Come militare non fu particolarmente brillante, ma raggiunse il grado di capitano: quel che preferiva fare era difendere e alleggerire le pene che la corte marziale intendeva infliggere ai soldati. Nel 1945 fu mandato in Italia e poi in Austria, e nello stesso anno chiese alla sua fidanzata, Grace Hall Martin, di sposarlo: “probabilmente l’azione più giudiziosa della mia vita”, commentò molti anni dopo (ibi, p. 5).
I primi anni dell’insegnamento: logica e linguaggio
Nel 1946, di nuovo libero dagli obblighi militari, poté tornare alla carriera accademica. Non fu tuttavia possibile ritornare ad Oxford per proseguire gli studi, come avrebbe voluto. Allora, su consiglio del suo precedente tutor, John Mabbott, Strawson fece domanda per un posto di Assistant Lecturer in Philosophy all’University College of N. Wales. La sua domanda venne accolta ed ottenne il posto. Dovette preparare le sue prime lezioni, per le quali lesse freneticamente Russell, Moore, Ramsey, C. I. Lewis, Kant e Leibniz. Inoltre, in quell’anno scrisse i suoi due primi paper. Il primo tentava di risolvere i paradossi dell’implicazione, ed apparse in seguito su Mind (1948) col titolo “Necessary Propositions and Entailment Statements”. Il secondo era un attacco all’intuizionismo etico, ed apparse in seguito su Philosophy (1949) col titolo “Ethical Intuitionism”.
Al 1949 risale un altro importante articolo, “Truth”, in cui Strawson pretende di fornire una nuova definizione di verità, di tipo pragmatico e performativo. A questo articolo ne seguiranno molti altri, come “Truth: a Reconsideration of Austins’s View” (1965), fino a confluire tutti nel volume Logico-Linguistic Paperes (1971).
L’anno successivo fece domanda per la Jonh Locke Sholarship e risultò vincitore. L’articolo che scrisse impressionò la giuria, composta, tra gli altri, da Gilbert Ryle, il quale lo raccomandò come tutor presso i College di Oxford. Fu così che nel 1947, all’età di 28 anni, Strawson fece ritorno ad Oxford con la carica di College Lecturer.
Nei primi anni di insegnamento oxoniense, Strawson si concentrò sui temi della filosofia della logica e del linguaggio: in particolare, lo interessavano i problemi sollevati dal riferimento singolare, dalla predicazione e dai loro oggetti. Nel 1948 tenne un corso dal titolo “Names and Description”, nel quale i lavori di Russell, Moore, Kneale, e di pochi altri, venivano discussi e criticati. Su invito di Gilbert Ryle, raccolse le sue idee in un celeberrimo articolo, “On Referring”, subito apparso su Mind (1950). L’obbiettivo polemico dell’articolo era la teoria delle descrizioni definite di Russell, esposta in “On Denoting” (Mind, 1908): l’errore di Russell consisterebbe nel trascurare gli aspetti pragmatico, contestuale e comunicativo, coinvolti nell’uso di espressioni con riferimento singolare.
Nel frattempo, Strawson venne invitato a tenere lezioni di logica per undergraduate students. Su questi temi uscirà, nel 1952, il volume Introduction to Logical Theory, accolto con una lunga recensione su Mind a firma di W. O. Quine. L’intento del libro era duplice: primo, fornire una introduzione elementare alla logica formale; secondo, mostrare che la moderna logica formale non è uno strumento completo per la spiegazione dell’uso del linguaggio.
Nasce l’interesse per la metafisica: la pubblicazione di Individuals
Subito dopo questa pubblicazione, l’interesse del pensiero di Strawson prese una nuova direzione: da logico-linguistico divenne metafisico, vale a dire passò dal ‘riferimento’ al ‘riferito’. Nelle sue lezioni, Strawson iniziò a leggere l’operazione del riferimento in chiave metafisica e ontologica. Questo nuovo interesse porterà alla pubblicazione di Individuals (1959), un’opera dalla genesi spezzata e complessa, che non è qui possibile ricostruire.
Negli anni ’50 Strawson si recò per la prima volta negli Stati Uniti, alla Duke University in North Carolina e in altre università americane. Negli stessi anni, partecipò ad una assemblea di filosofi francesi ed anglofoni il cui intento era di far incontrare studiosi di orientamento analitico e continentale. A questo periodo risalgono alcuni paper che conviene ricordare: “Analysis, Science and Metaphysics” (poi pubblicato nel 1967), “Carnap’s View on Constructed Systems versus Natural Languages in Analytical Philosophy” (poi pubblicato nel 1963) e “Propositions, Concepts and Logical Truth” (1957).
A questi anni di intesa attività accademica e ricchi di numerosi contatti, risale la stesura di Individuals, che si divide in due parti. Nella prima, si mostra che la condizione di possibilità del riferimento è l’esistenza di particolari di base, collocati spazio-temporalmente e detti sostanze. Questi particolari sono distinti in corpi materiali e persone. Nella stessa parte sono analizzate alcune ipotesi filosofiche, come l’esistenza di un mondo puramente uditivo, il solipsismo cartesiano e l’ontologia leibniziana delle monadi, per concludere con la loro generale insensatezza e impossibilità.
Nella seconda parte, invece, è dimostrato il nesso tra la nozione di oggetto di riferimento o soggetto logico (lato linguistico-referenziale) e quella di particolare in generale (lato ontologico). Più precisamente, è analizzata, da una parte, la distinzione grammaticale soggetto e predicato¾distinzione che ha come corrispettivo, nella teoria del riferimento, l’atto del riferire e quello del predicare¾e, dall’altra, la distinzione ontologica tra particolare e universale. I particolari non possono essere predicati, mentre gli universali possono essere sia termini di predicazione sia oggetti di riferimento: se si accetta l’assunto per cui essere un oggetto di riferimento implica essere un’entità, allora sarebbe auspicabile abbandonare qualsiasi ansia nominalistica ed accogliere gli universali nell’ontologia.
Inoltre, in Individuals venne introdotta la celebre distinzione tra metafisica descrittiva e correttiva. La prima si occupa di “descrivere l’effettiva struttura del nostro pensare sul mondo” (Individuals, Introduction); la seconda “di produrre una struttura migliore” (ibidem). Il sottotitolo dell’opera dichiara l’orientamento della trattazione di Strawson (An Essay in Descriptive Metaphysics), che si ispira esplicitamente ad Aristotele e Kant, in opposizione ai metafisici correttivi, quali Descartes, Leibniz e Berkeley.
Quando Individuals venne pubblicato, nel 1959, A. J. Ayer successe ad Austin sulla cattedra di Logica ad Oxford, posto per il quale si era candidato anche Strawson, che non se la prese troppo per l’esclusione, anzi preferì continuare più liberamente il suo lavoro di tutor e di undergraduate teacher.
Gli anni ’60: la cattedra di Metafisica
Gli anni ’60 furono ricchi di svolte e novità. Nel 1960 Strawson, appena eletto membro nella British Academy, presentò un paper dal titolo “Freedom and Resentment” (1960), che rappresenta la sua prima incursione in temi di filosofia morale. Nel 1961 venne invitato all’università di Princeton dove tenne lezioni sulla filosofia della logica e del linguaggio, il riferimento e la predicazione, le forme e le costanti logiche; le sue lezioni vennero seguite da personalità di primo piano come Hempel, Benacerraf e Vlastos.
Negli anni immediatamente successivi, accanto alle lezioni di filosofia del linguaggio e di metafisica, Strawson iniziò ad occuparsi della Kritik der Reinen Vernuft di Immanuel Kant. Queste lezioni sulla prima critica kantiana confluiranno nel volume The Bounds of Sense (1966). L’interesse di Strawson per Kant da allora non si è mai spento. Basti ricordare alcuni articoli apparsi negli anni successivi: “Kant’s new Foundation of Metaphysics” (1988), “Sensibility, Understanding and the Doctrine of Synthesis” (1989) e “The Problem of Realism and the A Priori in Kant” (1994).
Finalmente, nel 1968, Strawson successe a Ryle sulla cattedra di Metafisica ad Oxford. Il nuovo impegno accademico lo obbligò a pensare un corso di lezioni che illustrasse la sua visione complessiva della filosofia. Nacque allora una serie di lezioni, “Analysis and Metaphysics: an Introduction to Philosophy”, che Strawson userà, con qualche aggiunta e variazione, dal 1968 al 1987, anno del suo ritiro dall’insegnamento per limiti di età. Queste lezioni faranno il giro del mondo: nel 1985 Strawson le proporrà al College de France; l’estate dello stesso anno a Monaco; nel 1987 alla Catholic University of America; infine, nel 1988, alla Sino-British Summer School in Philosophy presso Beijing. Il testo sarà pubblicato prima in francese, col titolo Analyse et metaphysique (1985), e poi in inglese col titolo Analysis and Metaphysics (1992).
Ma ritorniamo al 1968, quando Strawson ottenne la cattedra di Metafisica. Nella sua lezione inaugurale, “Meaning and Truth” (1969), due sono gli aspetti di attenzione: primo, raccogliere l’eredità del suo predecessore, Gilber Ryle, che possiamo definire un “geografo dei concetti”, in linea con l’idea di metafisica descrittiva di Strawson; secondo, ritornare sulla necessità di considerare gli aspetti pragmatici nella teoria del significato, tesi già esposta in “On Referring” (1950).
Nel 1969 nacque per Strawson un nuovo interesse e una nuova direzione di ricerca, già latente nei suoi studi: la grammatica del linguaggio. Dopo la lettura di Chomsky, Aspects of the Theory of Syntacs (1957), scrisse “Grammar and Philosophy” (1969), letto come intervento presidenziale alla Aristotelian Society, nel quale sostenne che non è possibile alcuna teoria generale della grammatica che non leghi intimamente considerazioni sintattiche e semantiche. Sui temi legati alla grammatica del linguaggio, Strawson tornerà nell’articolo “The asymmetry of Subject and Predicate” (1970), sino alla pubblicazione del volume Subject and Predicate in Logic and Grammar (1974).
Gli anni ’70: in giro per il mondo
Gli anni ’70 sono da ricordare per i numerosi articoli in dialogo con i più importanti filosofi contemporanei di area analitica e per i viaggi in Spagna, India, Israele e Iugoslavia. Nell’articolo “Categories” (1970), la distinzione di Ryle tra errori categoriali e non categoriali è discussa e criticata. In “Austin and ‘Locutory’ Meaning” (1973) è discussa la teoria di Austin degli atti ‘illocutori’, esposta in How to Do Things with Words (1962). La posizione si Strawson nei confronti di Quine è invece ambigua: inizialmente, in “Positions for Quantifiers” (1974), Strawson sostenne che le variabili per la quantificazione fossero in numero maggiore di quelle ammesse da Quine, tali cioè da includere anche i predicati; in seguito sembrò, invece, avvicinarsi a Quine, benché rimanga la differenza del nominalismo dell’uno e del realismo in tema di universali dell’altro.
Accanto alle discussioni con i colleghi filosofi, si trovano molti articoli che fanno incursione in temi non familiari a Strawson. In due articoli, “Causation in Perception” (1975) e “Perception and its Objects” (1979) si occupò del sempre stimolante tema della percezione. Al suo viaggio in Spagna, nel 1973, risale “Does Knowledge Have Foundation?” (1974), nel quale criticò le teorie fondazionali della conoscenza.
Nel 1975-76 fece due viaggi a Gersulamme: al primo, risale “May Bes and Might Have Beens” (poi pubblicato nel 1979) nel quale sono trattati la possibilità epistemica e problematiche di logica modale; al secondo viaggio, in occasione del trecentenario della morte di Spinosa, risale “ Liberty and Necessity” (poi pubblicato nel 1983) nel quale Strawson addusse un robusto argomento per provare che il determinismo è compatibile con la responsabilità e il giudizio morali. Sempre nel 1975-76, Strawson compì la sua prima visita in India, dove tenne lezioni e seminari a Calcutta e Nuova Deli. Ecco un ricordo di viaggio: “In generale fui incantato da questo paese vario e grandioso, dalla bellezza che là si può trovare, e dal calore e dalla vivacità dei miei ospiti” (“Intellectual Autobiograhy”, op. cit., p. 15).
Al 1977 risale il suo viaggio nella non ancora divisa Iugoslavia, dove tenne lezioni a Belgrado, Sarajevo e Zagabria. “Ho notato una certa differenza di atmosfera in questi tre posti”, commentò (ibi, p. 16). A Belgrado e Sarajevo gli intellettuali gli sembrarono sufficientemente liberi e senza ostacoli. A Sarajevo, invece, successe un fatto curioso e indicativo. Un uomo nel pubblico disse a Strawon che i suoi discorsi rivelano una impronta borghese; Strawson rispose di essere un borghese, un “élitist liberal bourgeois” (ibidem); l’uomo replicò che allora “essi lo avrebbero invidiato”.
Gli anni ’80: il ritiro dall’insegnamento
Gli anni ’80 videro la pubblicazione delle prime due raccolte di saggi su Strawson e furono ancora ricchi di viaggi. Nel 1980 e nel 1981 uscirono due collezioni di saggi critici: il volume Philosophical Subjects (1980) e il numero monografico della rivista Philosophia (1981). Nel 1982 Strawson pubblicò “If and É” (1982), che è una risposta al tentativo di Grice di dimostrare che il significato dell’implicazione nel linguaggio ordinario (if) e in quello formale (É) si equivalgono.
Tra i numerosi viaggi compiuti, in Francia, Germania, Cina, Spagna, India è da ricordare quello negli Stati Uniti, dove tenne le Woodebridge Lectures alla Columbia University nel 1983. Gli argomenti di quelle lezioni confluiranno nel volume Skepticism and Naturalism: Some Varietis (1985). Il libro si compone di quattro capitoli: nel primo, si mostra, sulla scia di Wittgenstein e Hume, che il tentativo di combattere con argomenti razionali il dubbio scettico circa l’esistenza del mondo esterno è inutile e insensato; negli altri capitoli la nozione di naturalismo è sottoposta ad analisi serrata, con conclusione che esistono più forme di naturalismo (quello scientifico e quello umanistico o ‘liberal’, ad esempio), le quali sono, da differenti punti di vista, framework inoltrepassabili.
Il 1987 segnò una data storica per la vita di Strawon: la fine del suo insegnamento all’università di Oxford. Tuttavia, egli racconta con serenità che “la pensione in nessun modo portò con sé la fine dei viaggi accademici e delle discussioni” (“Intellectual Autobiography”, op. cit. p. 18). Ancora oggi Strawson è protagonista della discussione filosofica nel mondo anglosassone e analitico.
(Fonte: Strawson P. F (1998), “Intellectual Autobiography”, in The Philosophy of P. F. Strawson, a cura di L. E. Hahn, Open Court.)
Capisaldi del pensiero
Strawson è uno dei maestri della filosofia del Novecento. Si è formato ad Oxford prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, in un ambiente filosofico in cui le figure dominanti erano J. L. Austin (1911-1960) e G. Ryle (1900-1976). Da Austin ha ereditato l’attenzione per gli aspetti pragmatici e contestuali del linguaggio; da Ryle, l’interesse per il chiarimento delle strutture concettuali del nostro pensiero, oltre la superficie del linguaggio. Attenzione all’aspetto pragmatico e descrizione delle strutture concettuali del pensiero, possono essere considerate le direttrici costanti della filosofia di Strawson.
Nell’esporre i capisaldi del suo pensiero seguiremo un percorso tematico, che in parte coincide con quello storico. Passeremo in rassegna le posizioni in teoria della verità, teoria del riferimento, in filosofia della logica, in metafisica e in filosofia morale.
La verità performativa
Uno dei primi articoli di Strawson, “Truth” (Analysis, 1949), si propone di fornire una nuova definizione di verità. Quando pronunciamo frasi che contengono un comando, come “Alzati, Marco!”, non stiamo asserendo stati di cose, ma esprimendo il nostro desiderio che alcuni stati di cose siano in accordo con quel che diciamo: dicendo “Alzati, Marco!” esprimiamo accordo con lo stato di cose desiderato per cui Marco è alzato. In maniera analoga, quando pronunciamo frasi come “È vero che Marco è alzato”, non facciamo altro che esprimere accordo con la proposizione “Marco è alzato”. Il predicato di verità implica perciò un “fare”, un assumere un atteggiamento pragmatico di accordo o di appoggio.
Questa concezione della verità può essere definita performativa, concordemente con la distinzione di Austin constativo/performativo (cfr. How to Things with Words, 1960). La concezione performativa della verità si oppone a quella corrispondentista, secondo cui un enunciato è vero se corrisponde ai fatti: Strawson, invece, ritiene che i fatti non siano qualcosa a cui gli enunciati si riferiscono ma, al contrario, che i fatti siano ciò che gli enunciati (quando sono veri) affermano.
La teoria del riferimento
Nel 1950 appare su Mind uno degli scritti più celebri di Strawson, “On Referring”, che intende rispondere alla domanda canonica di ogni teoria del riferimento: in che modo le parole si riferiscono alle cose?
La filosofia analitica, fin dai suoi esordi con Frege e Russell, ha tentato di rispondere a questa elementare domanda. L’articolo di Strawson ha la pretesa di fornire anch’esso una risposta, ed ha come obiettivo polemico una celebre teoria del riferimento, quella delle descrizioni definite di Bertrand Russell (cfr. “On Denoting”, Mind, 1905).
I punti di polemica possono essere ridotti a due.
Il primo è il seguente. Il presupposto della teoria di Russell è che le espressioni referenziali (nomi o descrizioni definite) si riferiscono alle cose in virtù del loro significato. Un enunciato perciò è vero o falso in funzione del significato delle espressioni che lo compongono. Si tratta di una posizione ovvia e quasi ingenua.
Strawson attacca questa posizione con un argomento semplice ed efficace, ormai diventato quasi un luogo comune, distinguendo tra livello enunciativo e livello assertivo. Il primo livello si limita a porre il contenuto semantico, il secondo livello è pragmatico e contestuale, facendo riferimento a chi parla, in quali condizioni, in quale contesto spazio-temporale. Questa distinzione vale sia per le espressioni che per le frasi.
Consideriamo il caso di una espressione, come ‘il re di Francia’: a livello enunciativo essa esprime un significato determinato; a livello assertivo, cioè considerando il suo uso in una cornice o in contesto differenti, essa assumerà un riferimento diverso (ad esempio, ‘Luigi XVI’ se siamo alla vigilia della Rivoluzione Francese, oppure ‘Francesco I’ se siamo nel ‘500). Analogo discorso vale per una frase, come il ‘Il presidente del consiglio è un ladro’: a livello solo enunciativo ha un significato determinato e costante; invece, a livello assertivo, è vera o falsa a seconda del contesto spazio-temporale in cui viene usata.
Strawson quindi distingue tra due livelli espressivi (enunciativo/assertivo) e, ad un tempo, tra due funzioni di un’espressione e di un frase: quella di significare, e quella di riferirsi (per un’espressione) o di essere vera o falsa (per una frase). Nelle parole di Strawson: “Il significato è una funzione dell’espressione o della frase; la denotazione o il riferimento, e la verità o falsità, sono funzioni dell’uso di una frase o espressione” (“On Referring”, Mind, 1950). La ridsposta alla domanda iniziale è dunque questa: le parole, espressioni o frasi, si riferiscono alla cose in funzione del contesto del loro uso.
Il secondo aspetto di polemica riguarda l’asserzione di esistenza che, secondo Russell, sarebbe implicita in una descrizione definita. Russell analizza la frase “Il re di Francia è calvo” nella forma “esiste x, che è unico, che è re di Francia e che è calvo”: la frase, così analizzata, può essere o vera o falsa, ed in questo momento è falsa, perché non esiste nessun re di Francia. Per Strawson, invece, la descrizione definita non asserisce l’esistenza di una x, ma la presuppone: solo nel caso in cui la presupposizione sia soddisfatta, allora la frase potrà essere essere o vera o falsa, altrimenti il suo valore di verità rimarrà indeterminato.
Dal punto di vista storico è interessante notare la perfetta concordanza tra la posizione di Strawson e quella di Frege, il quale distingue tra asserzione ed enunciato, ed ammette casi in cui una frase possa aver un valore di verità indeterminato (cfr. Über Sinn und Bedeutung, 1892).
La filosofia della logica
È del 1952 la pubblicazione di Introduction to Logical Theory, in cui Strawson si confronta direttamente con la logica formale. Come recita il titolo del libro, si tratta di una introduzione alla logica ma, nello stesso tempo, di una critica ad essa. È di questo secondo aspetto, cui è dedicato l’intero capitolo VIII, che ci occuperemo qui.
La logica formale tratta di quegli enunciati passibili di essere veri o falsi, che Strawson definisce enunciati da asserzione. Esistono, tuttavia, tanti altri tipi di enunciati, come quelli che contengono giuramenti, ordini, saluti, scuse, ecc., che non sono compatibili con una verifica della verità o falsità. Pensare che esistano solo enunciati del primo tipo, perché di essi si occupa la logica, e non considerare gli altri, sarebbe una riduzione ingiustificata: Strawson propone perciò di affiancare alla logica formale la logica del linguaggio ordinario, impareggiabile per ricchezza e complessità.
La differenza fondamentale tra logica formale e linguaggio ordinario consiste nel fatto che la prima ignora l’aspetto referenziale presente nel secondo. Per essere più precisi, la logica non è attenta agli elementi referenziali. Come già sottolineato in “On Referring”, l’aspetto referenziale è funzione dell’uso della frase, è cioè dipendente da variabili temporali o relative alla deissi del soggetto logico. Ora, la logica formale, per togliere ogni ambiguità, non considera le variabili temporali e deittiche, eliminando così ogni attenzione per la fluidità pragmatica della referenzialità.
Per esempio, la proposizione logicamente vera “A implica B” significa che se A è vera in ogni circostanza e tempo allora B è vera in ogni circostanza e tempo. Come si nota, l’aspetto dell’uso è totalmente assente, cosa che non accade in molte frasi pronunciate nel linguaggio ordinario, senza che per questo possano dirsi prive di logica. Secondo Strawson, trascurare l’aspetto referenziale ha portato a dimenticare in logica formale la distinzione tra livello enunciativo ed assertivo, perché gli enunciati logici si collocano in un contesto d’uso idealizzato, e quindi in un non-contesto. Nel momento in cui questa distinzione è dimenticata e si pretende, con i soli strumenti della logica formale, di spiegare l’uso del linguaggio ordinario si incorre in riduzioni e semplificazioni inaccettabili.
La metafisica
Il testo fondamentale per conoscere la metafisica di Strawson è Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics (1959). Subito nell’Introduzione Strawson chiarisce la sua idea di metafisica, distinguendo tra metafisica correttiva e descrittiva: la prima ha la pretesa di produrre una struttura migliore delle cose o di interpretare in senso “revisionista” alcuni dati di senso comune; la seconda, invece, si limita a descrivere l’effettiva struttura concettuale con cui gli esseri umani pensanti intenzionano il mondo. La metafisica descrittiva potrebbe essere assimilata ad una analisi del linguaggio ordinario. Non basta: la metafisica descrittiva deve cercare di andare oltre il linguaggio, rintracciando quel nucleo di idee e concetti che rimangono più o meno immutati, quell’equipaggiamento concettuale proprio di tutti gli esseri umani.
In questo senso, aggiunge Strawson, la metafisica descrittiva non dice nulla di nuovo, se non svelare ciò che sta nell’implicito di ogni attività umana. La metafisica cerca ed enuncia certe relazioni e categorie fondamentali e immutabili, in un linguaggio invece sempre mutevole. Questa idea non è molto distante dall’idea di philosophia perennis, per la quale alcune verità fondamentali sono già state trovate ed esposte dai classici del pensiero: ai moderni e ai contemporanei spetta di ridirle sempre e nuovamente.
Vediamo ora in che cosa consiste questo equipaggiamento concettuale minimale. Di questo si occupa la prima parte di Individuals. Il punto di partenza consiste nella constatazione che siamo in gradi di identificare le cose particolari, cioè di riferirci ad esse tramite un’espressione linguistica. Secondo un modo di argomentare trascendentale, che ricerca quindi le condizioni di possibilità di un dato iniziale, Strawson si interroga su come l’atto del riferire sia possibile. L’unica spiegazione plausibile sembrerebbe assumere l’esistenza di unp schema concettuale spazio-temporale: i particolari a cui ci riferiamo sono collocati su di esso e ad essi sono assegnate delle coordinate univoche, grazie alle quali l’identificazione è resa possibile. Tuttavia, continua Strawson, noi siamo in grado, non solo di identificare, ma anche di re-identificare in successivi momenti il medesimo particolare: ciò impone che, primo, lo schema di riferimento sia unico e permanente, e che, secondo, si diano dei particolari tra gli altri aventi una funzione di riferimento.
Questi ultimi sono detti particolari di base. I particolari di base sono assimilabili alla nozione aristotelica di sostanza come sostrato. Nel mutare dei particolari, alcuni permangono relativamente, benché non assolutamente, rispetto agli altri: questa loro relativa permanenza permette le reidentificazione di alcuni particolari, tramite il riferimento ai particolari di base. Un esempio portato da Strawson è quello degli eventi: essi sono particolari, ma non di base; infatti, la loro reidentificazione nel tempo è resa possibile dai particolari di base di cui essi sono composti.
I particolari di base sono distinti da Strawson in due categorie: corpi materiali e persone. Ai primi compete la proprietà delle bruta permanenza materiale, alle seconde la congiunzione di proprietà mentali e fisiche. La concezione della persona di Strawson è stata molto dibattuta e conviene qui tracciarne l’idea generale.
La definizione di persona secondo Strawson può essere così formulata: soggetto di attribuzione di predicati mentali o di coscienza e di predicati fisici, che si dà contestualmente nel rapporto con altre persone. Gli elementi in gioco sono dunque due: non dualismo della persona, e sua immediata relazione con altre persone. Vediamo all’opera questi aspetti.
Il punto di partenza è ancora un dato innegabile: ci sono particolari, corrispondenti a noi e agli altri, a cui attribuiamo indistintamente stati mentali e fisici. Come spiegare questo comportamento linguistico apparentemente paradossale? Strawson considera l’ipotesi dualista cartesiana e quella dello “spossessamento” [no-ownership], secondo cui gli stati mentali si riducono a quelli fisici, ma conclude con l’autocontraddittorietà di entrambe. Rimane l’ipotesi dell’esistenza di particolari dotati della capacità di essere termini di attribuzione per entrambi i tipi di predicati: si tratta delle persone. In realtà, la spiegazione di Strawson non è una vera spiegazione: si limita a postulare entità primitive che rendano ragione di una evidenza nella pratica linguistica. Ciò è del resto coerente con l’indirizzo descrittivo della sua metafisica.
La nozione di persona permette di discutere alcuni problemi relativi al rapporto anima/corpo. Strawson ritiene che i problemi nascono dal tenere troppo separate la dimensione privata e pubblica del riferimento. Quando mi attribuisco uno stato mentale, posso farlo se ne attribuisco uno analogo ad un altro soggetto, diverso da me. Ma come faccio ad attribuire uno stato mentale ad un altro soggetto se non interpretando gli stati fisici del suo corpo? Ora, la possibilità di interpretare questi stati fisici come segni di quelli mentali, mi è possibile solo confrontandoli con il mio vissuto. Si crea così un intreccio, tra pubblico e privato, tra me e gli altri, tra mentale e fisico, che sarebbe fuorviante separare con inutili ipostatizzazioni.
La filosofia morale
Trattando della metafisica di Strawson ci siamo avvicinati a temi di antropologia filosofica. Il passo verso la filosofia morale è breve. Occorre notare che il contributo del nostro filosofo a questo campo è assai limitato: è perciò giusto parlare di semplici “incursioni” o ipotesi di lavoro. Nell’articolo “Freeedom and Resentment” (1960), Strawson si inserisce nel vivace dibattito tra compatibilisti e incompatibilisti. I primi sostengono che la tesi del determinismo è compatibile con quella della libertà umana; i secondi che se la tesi del determinismo è vera, allora l’uomo non è libero. Entrambe le tesi (determinismo e libertà umana) sono importanti: la prima perché consegue dai risultati delle scienze, la seconda perché prima facie l’uomo si esperisce libero.
La posizione di Strawon è in parte compatibilista. Egli ritiene che il punto importante riguardi la possibilità di giudizi morali e di attribuzioni di colpa, merito e responsabilità agli agenti. Gli incompatibilisti o pessimisti sosterrebbero che se il determinismo è vero allora i giudizi morali non hanno fondamento, attaccando alla radice tutti gli ordinamenti giuridici delle nostre società che si basano sulla nozione di agente libero e responsabile.
Strawson per tentare di risolvere il grave problema distingue tra attitudini reattive ed oggettive. Ad esempio, se un altro mi colpisce facendomi cadere io posso reagire in due modi: o incolpandolo o perdonandolo per il gesto compiuto, a seconda che lo abbia fatto intenzionalmente o meno, oppure trattando l’accaduto come un puro dato “oggettivo” nel caso ritenga questa persona un soggetto anormale o con seri problemi. Le attitudini oggettive sembrano le più adeguate alla situazione in cui il determinismo sia vero, e rappresentano anche l’atteggiamento più scientifico nella valutazione morale.
Il problema allora diventa: sapere che il determinismo è vero mi porterebbe a smettere atteggiamento reattivi nei confronti delle azioni delle altre persone? La risposta è no. Ciò significa che, anche dato per vero il determinismo, rimane una distinzione tra i due atteggiamenti di valutazione morale. Pur ammettendo la verità della tesi del determinismo, gli atteggiamenti rettivi, che attribuiscono meriti e colpe, avrebbero ancora senso e legittimità, perché risulta inconcepibile a livello pragmatico un essere umano privo di atteggiamenti reattivi. Strawson precisa che questa inconcepibilità è pragmatica e non teorica, non è una autocontraddizione: del resto, essendo in ambito morale, l’uso di una siffatta inconcepibilità è del tutto legittimo.
Bibliografia
Volumi
Introduction to Logical Theory (1952), Methuen, London (trad. it di A. Visalberghi, Introduzione alla teoria logica, Einaudi, Torino, 1961).
Individuals: An Essay in Descriptive Metaphysics (1959), Methuen, London (trad. it. di E. Bencivenga, Individui: un saggio di metafisica descrittiva, Feltrinelli, Milano, 1978).
The Bounds of Sense: An Essay on Kant’s Critique of Pure Reason (1966), Methuen, London (trad. it di M. Palumbo, Saggio sulla Critica della ragion pura di Kant, Laterza, Roma-Bari, 1985).
Logico-Linguistic Papers (1971), Methuen, London.
Freedom and Resentment and Other Essays (1974), Methuen, London.
Subject and Predicate in Logic and Grammar (1974), Methuen, London.
Skepticism and Naturalism: Some Varieties (1985), Columbia UP and Methuen, New York and London.
Analyse et métaphysique (1985), J. Vrin, Paris.
Analysis and Metaphysics: An Introduction to Philosophy (1992), Oxford UP, Oxford.
Entity and Identity (1997), Oxford UP, Oxford.
Articoli scelti
“Necessary Propositions and Entailment Statements” (1948), Mind.
“Ethical Intuitionism” (1949), Philosophy.
“Truth” (1949), Analysis.
“On Referring” (1950), Mind.
“Propositions, Concepts and Logical Truth” (1957), Philosophical Quarterly, 7.
“Freedom and Resentment” (1960), in Proceeding of Britisth Academy, 48.
“Carnap’s View on Constructed Systems versus Natural Languages in Analytical Philosophy” (1963), in The Philosophy of Rudolf Carnap, a cura di P. A. Schlipp, Open Court.
“Truth: a Reconsideration of Austin’s View” (1965), Philosophical Quartely, 15.
“Analysis, Science and Metaphysics” (1967), in The Linguistic Turn, a cura di R. Rorty, Chicago UP.
“Meaning and Truth” (1969), Proceeding of the Brititish Academy.
“Grammar and Philosophy” (1969), Proceeding of the Aristotelian Society, 70.
“The asymmetry of Subject and Predicate” (1970), in Language, Belief and Metaphysics, a cura di H. E. Kiefer and M. K. Munitz, New York UP.
“Categories” (1970), in Ryle: A Collection of Critical Essays, a cura di O. P. Wood and G. Pitcher, Doubleday.
“Austin and ‘Locutory’ Meaning” (1973), in Essays on J. L. Austin, a cura di I. Berlin, Clarendon Press.
“Positions for Quantifiers” (1974), in Semantics and Philosophy, a cura di M. K. Munitz e P. K. Nunger, New York UP.
“Does Knowledge Have Foundation?” (1974), in Conociemento y Creencia.
“Causation in Perception” (1975), in Fact, Value and Perception.
“May Bes and Might Have Beens” (1979), in Meaning and Use, a cura di A. Margalit, Reidel.
“Perception and its Objects” (1979), in Perception and Identity: Essays Presented to A. J. Ayer, a cura di G. F. Macdonald, Macmillan.
“If and É” (1982), in Philosophical Grounds of Rationality, Intention, Categories, Ends, a cura di R. E. Grand e Richard Warner.
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“Kant’s new Foundation of Metaphysics” (1988), in Metphysik nach Kant, a cura di Dietere Henrich e R. P. Horstmann, Klett-Cotta.
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“The Problem of Realism and the A Priori in Kant” (1994), in Kant and Contemporary Epistemology, a cura di Paolo Parrini, Kluwer Academy Publishers.
Pubblicazioni su Strawson
Riverso E. (1977), Riferimento e struttura. Il problema logico-analitico e l’opera di Strawson, Armando.
Corvi R. (1979), La filosofia di P. F. Strawson, Vita e Pensiero.
Philosophical Subjects: Essays Presented to P. F. Strawson (1980), a cura di Zak Van Staaten, Clarendon Press.
Numero monografico di Philosophia (1981), 10.
The Philosophy of P. F. Strawson (1995), a cura di P. K. Sen e R. R. Verma, Indian Council of Philosophical Research.
The Philosophy of P. F. Strawson (1998), a cura di L. E. Hahn, Open Court.
Urbani Ulivi L. (2003), “La metafisica descrittiva di P. F. Strawson: osservazioni in margine a Individuals”, in Rivista di filosofia neoscolastica.
ERNST BLOCH
La ragione non può fiorire senza speranza, la speranza non può parlare senza ragione: l’una e l’altra in unità marxista- altra scienza non ha futuro, altro futuro non ha scienza. (Il principio speranza, V cap.55)
Ernst Bloch nacque a Ludwigshafen (Germania) nel 1885 da famiglia ebrea, studiò in svariate città tedesche, fu a Berlino e a Heidelberg, dove strinse amicizia con Lukàcs. Pacifista, durante la guerra si rifugiò in Svizzera, dove si avvicinò al marxismo. Nel 1918 pubblicò Spirito dell’utopia (poi rielaborato nel 1923), a cui fecero seguito Thomas Münzer come teologo della rivoluzione (1921) e la raccolta di aforismi e parabole Tracce (1930). Nel 1933, per sfuggire alle persecuzioni naziste abbattutesi sugli ebrei, Bloch emigrò a Zurigo, poi a Vienna e a Parigi e, infine, negli USA, dove rimase fino al 1949, quando tornò in Germania per insegnare all’università di Lipsia. Qui fu tra i fondatori della ‘Deutsche Zeitschrift für Philosophie’ (Rivista tedesca di Filosofia) e pubblicò un’ampia opera su Hegel, intitolata Soggetto-oggetto (1949), nonchè il suo scritto più famoso ed importante, intitolato Il principio speranza (1954-1959). Nel 1957, accusato di idealismo irrazionalistico, antimaterialistico e antidialettico, Bloch fu posto a riposo forzato e alcuni suoi allievi furono perfino arrestati, cosicchè nel 1961 egli, che si trovava in Baviera, in coincidenza con la costruzione del muro di Berlino, decise di non far rientro in Germania orientale e assunse l’incarico di docente all’università di Tubinga, dove morì nel 1977. L’assunto iniziale da cui muove Bloch é che la realtà data non appaga mai pienamente il soggetto e sotto questo profilo non è ‘vera’: la verità cui tende il soggetto, immaginando e bramando quel che gli manca, non è data, ma è utopia , che trascende il presente in direzione del futuro. Bloch rifiuta dunque ogni forma di pensiero contemplativo, concepito come rispecchiamento meramente passivo di quel che è già stato, irrigidito in un eterno presente. Bloch si pronuncia contro il mito dell’imparzialità di un presunto sapere oggettivo: in realtà, il pensiero è sempre di parte e la contemplazione equivale, essenzialmente, all’accettazione della realtà esistente. Il pensiero utopico, invece, può scoprire tracce del futuro nel passato e oltrepassa sempre il dato per mirare al futuro, che assurge a posizione di primato. Esso, però, si distingue dalla pura e semplice fantasticheria in quanto media con quel che intende oltrepassare, cioè con le tendenze reali operanti nel presente, come aveva insegnato il maestro Marx: sotto questo profilo, esso é utopia concreta , possibilità reale. Anche al centro del pensiero utopico c’è, dunque, la nozione di dialettica , indispensabile per inserirsi in maniera efficace all’interno delle contraddizioni che presenta la realtà e collegarsi al movimento reale della storia per realizzare la verità utopica. Bloch sente, però, che esistono due tipi diversi di dialettica: la prima dialettica é statica e chiusa, prigioniera da Platone ad Hegel di quella che Bloch definisce ‘ malia dell’anamnesi ‘, consistente nella semplice rimemorazione di quel che è già stato, cristallizato in essenza; la seconda dialettica, viceversa, è dinamica e aperta al nuovo, mantiene costantemente la possibilità che il reale non sia ancora razionale e scava sottoterra come una talpa per pervenire alla luce. Alla base di questa impostazione, Bloch costruisce una vera e propria antropologia : l’uomo è un essere caratterizzato da bisogni e pulsioni; di esse quella fondamentale è l’autoconservazione, che si manifesta sensibilmente come fame . Nell’uomo essa si affina e si eleva sopra l’immediatezza, arricchendosi e tramutandosi in affetti , soprattutto in quelli non subito appagabili, che si rimandano al futuro: in questo panorama, la speranza , come attesa trepidante del nuovo apportatore di salvezza, occupa una posizione di primato tra gli affetti. Il nuovo non ha mai tratti del tutto definiti, è sempre avviluppato dall’oscurità: per questo motivo è costitutiva dell’uomo una dimensione inconscia, che si avverte come non ancora cosciente, illuminabile solamente in un futuro sperato e che si traduce nella tensione e nella ricerca di esso ( Sehnsucht in tedesco) . Qui affiora, ad avviso di Bloch, il limite della psicoanalisi, che riduce la sfera dell’inconscio al passato, a quel che è rimosso e dimenticato, non più conscio. In realtà, vi sono anche sogni ad occhi aperti, correlati a quel che non è ancora avvenuto, anticipatori del futuro. Nella terza parte della sua corposa opera, Il principio speranza , Bloch costruisce una specie di enciclopedia dei desideri e delle speranze, delle quali cerca tracce nelle fiabe, nei romanzi popolari, polizieschi e avventurosi, nella pubblicità, negli spettacoli del circo e via discorrendo. A questo si ricollegano, da un lato, il gusto di Bloch per il particolare e il banale della vita di ogni giorno e della civiltà di massa, in cui traspare sempre qualcosa della verità, e, dall’altro lato, il suo stile carico di metafore, immagini e parabole, capaci di esprimere queste tensioni verso il futuro. Bloch è del parere che questa tendenza costante nell’uomo di trascendere quel che di volta in volta è dato abbia una base reale nella materia stessa. Egli rifiuta il concetto di materia proprio del positivismo e attivo anche nel materialismo dialettico, per cui la materia sarebbe solo passività, caratterizzata da movimenti meramente meccanici, ai quali sarebbe estraneo qualsiasi fine. La materia é invece potenzialità , pervasa da u impulso ( Trieb in tedesco) immanente verso la propria realizzazione in forme sempre nuove, cioè verso una meta ancora latente, mai raggiunta prima, ma non preclusa: la materia è dunque caratterizzata da una dimensione teologica . Bloch è convinto che questa concezione, già presente nella filosofia di Aristotele ma accanto alla teoria della materia come passività, sarebbe stata sviluppata dalla cosiddetta ‘sinistra aristotelica’ e dagli arabi e, in seguito, da Giordano Bruno, Schelling ed Hegel. Sotto questo profilo, la teoria è stata da Habermas definita ‘ materialismo speculativo ‘: per essa la natura stessa non è qualcosa di interamente dato e compiuto, una volta per tutte, ma è natura naturans , aperta a sempre nuove possibilità, cosicchè il mondo viene a configurarsi come un laboratorio di incessanti sperimentazioni e anticipazioni del nuovo: il principio speranza attraversa così la stessa cosmologia. A fondamento dell’antropologia e della concezione della materia di Bloch c’è una ontologia del non-essere-ancora , per la quale è costitutivo dell’essere in generale il non essere ancora, l’anticipare il futuro e il mirare ad esso: la sua realtà è realtà di qualcosa che è nel futuro e il futuro è già reale come possibilità oggettiva. L’esistere originario nella sua fattualità è, al tempo stesso, impulso, bisogno, fame e, dunque, inizio del movimento verso qualcosa: il non del non essere ancora genera il divenire e, in questo modo, si trasforma in ‘non ancora’, allontanamento dal punto di partenza, ritenuto inferiore e negativo rispetto alla meta verso cui si tende. La negatività esige di essere superata e questo superamento avviene attraverso l’anticipazione del futuro, mediante la speranza, e attraverso la rivoluzione, come attuazione di essa. Il non ancora indica, se non altro per via indicativa, il contenuto utopico finale, ancora latente e non ancora definibile nei suoi precisi contenuti. Esso, infatti, è una totalità non ancora data nè ancora sperimentata, ma è appunto una meta ultima, un’ èschaton . Per questo aspetto, il marxismo di Bloch si riporta alle dottrine religiose della salvezza e alle tradizioni del messianismo giudaico e cristiano, quale ad esempio aveva trovato espressione nel 1500 in Thomas Münzer, teologo della rivoluzione predicata tra i contadini in Germania e dell’abolizione del feudalesimo. In questo senso, il marxismo di Bloch può apparire come un’escatologia, che condivide il carattere ottimistico e militante di questa tradizione nell’attesa e nella lotta per un futuro migliore, ma con la differenza che l’ èschaton non è per Bloch il ricongiungimento con una situazione originaria, antecedente al peccato, ma consiste nel radicalmente nuovo, imprevedibile ed inimmaginabile. Anzi, senza ateismo , cioè senza l’eliminazione di Dio assunto come un’entità data, non è possibile trascendere utopicamente verso un futuro aperto: il regno della libertà non è il regno di Dio, ma il regno dell’uomo nuovo su una terra nuova, cioè il regno della fine dello sfruttamento dell’uomo e della natura, in cui natura e uomo possano trovare il proprio compimento in un’alleanza pacifica tra di loro.
KARL MANNHEIM
Grandissima risonanza internazionale ha avuto l’opera del filosofo e sociologo ungherese Karl Mannheim (1893-1947). Formatosi intellettualmente in Germania, Mannheim ha tratto i princìpi fondamentali della sua riflessione dalla tradizione storicistica tedesca. Ad essa egli deve soprattutto il distanziamento della concezione fattualistica e oggettivistica del sapere elaborata dai positivisti, l’attenzione per la specificità dei fenomeni umani e sociali, e ancor più una forte sensibilità per la storicità dei criteri e valori che guidano l’agire dell’uomo. E’ per esaminare i motori e le condizioni di tale dinamismo storico che egli si è consacrato a quella che ha chiamato la ” sociologia del sapere “, (o “sociologia della conoscenza”); un’espressione che oggi designa una branca assai importante della scienza sociologica, ma che per lo studioso ungherese esprimeva qualcosa di molto di più vasto e coinvolgente. In effetti dietro l’elaborazione della sociologia del sapere pulsa una problematica estremamente complessa: Mannheim avverte acutamente di vivere in un’età di profonda crisi spirituale, sociale e politica. In sede teorica, tale crisi si esprime tra l’altro nel definitivo superamento delle grandi concezioni idealistiche della realtà prodotte dalla filosofia ottocentesca. Il pensiero più aggiornato ha mostrato che credenze e valori si formano e trasformano non per effetto di un Logos astratto ma ad opera di uomini concreti, situati in un concreto contesto storico-sociale. Se questo è vero, solo una “sociologia del sapere” è in grado di analizzare efficacemente tali credenze e valori: solo essa, infatti, è in grado di cogliere cause e ragioni pratico-sociali della genesi, dello sviluppo e dell’eventuale scomparsa delle elaborazioni intellettuali e dei principi guida dell’agire umano. Non a caso tale sociologia ha cominciato a dimostrare sul terreno empirico che le concezioni anche più astratte si rapportano regolarmente a interessi e bisogni socialmente determinati. Sul piano teorico, ciò porta ad affermare che il compito primario di un’analisi scientifica dell’universo umano è quello di accertare le relazioni intercorrenti tra le ‘idee’ e ‘fatti’, tra ‘conoscenze’ e ‘interessi’. Fin dall’inizio Mannheim fu accusato di relativismo . Sembrava in effetti difficile interpretare diversamente la sua teorizzazione non tanto della non-assolutezza dei princìpi intellettuali e morali, quanto della loro irriducibile molteplicità, della loro coincidenza con prospettive, in senso lato, soggettive (di individui e/o di gruppi sociali) e della loro dipendenza da mutevoli e controversi interessi pratici. La prima risposta di Mannheim è che si può e si deve operare una netta distinzione tra relativismo e “relazionismo” . Se col primo termine si intende l’assenza di criteri controllabili di verifica in sede cognitiva ed etica, allora la sociologia del sapere non è relativistica. Essa afferma infatti non già l’inesistenza dei criteri di cui sopra abbiamo detto, bensì che essi non sono assoluti in quanto si danno solo (ecco il “relazionismo”) in rapporto a determinati indici:
” Come il fatto che ogni misura nello spazio dipende dalla natura della luce non significa che le nostre misure siano arbitrarie, quanto piuttosto che sono valide in relazione alla luce, così è il relazionismo, e non giù il relativismo e l’arbitrarietà in esso implicita, che si applica alle nostre discussioni. Il relazionismo non significa che manchino criteri di unità nella discussione. Secondo esso, tuttavia, è proprio della natura di certe affermazioni il non poter venir formulate in assoluto, ma solo in termini della prospettiva posta da una determinata situazione. “
La seconda risposta mannheimiana al problema del relativismo si connette alla natura e alle possibilità della stessa sociologia del sapere. Per lo studioso ungherese, mentre è innegabile che le varie concezioni e dottrine umane sono ancorate a “prospettive” parziali, la sociologia del sapere ha la capacità di trascendere gradualmente, cogliendo connessioni e realizzando integrazioni sempre più ampie e oggettive. Essa si avvale infatti di un livello di consapevolezza interpretativa e di un apparato analitico e di controllo i quale le consentono di raggiungere un orizzonte non più definibile e in termini relativistici. Il compito di elaborare questa crescente integrazione in qualche modo anti-relativista è affidato da Mannheim agli intellettuali . Per quanto situati anch’essi entro un orizzonte storico-sociale determinato, gli intellettuali appaiono al nostro autore più autonomi degli altri uomini da “punti di vista” di parte. E’ insomma all’ intellighentsia e alla sua consapevolezza filosofico-sociologica che Mannheim affida la possibilità del pensiero e della stessa società di sfuggire alle insidie del relativismo. Idealmente congiunta a tale prospettiva è anche la riflessione sociologico-politica dell’ultimo Mannheim, consegnata soprattutto ai volumi Uomo e società in un’età di ricostruzione (1940) e Diagnosi del nostro tempo (1944). Essa è centrata sull’importante concetto di ” pianificazione “, ossia sulla possibilità/necessità dello stato di organizzare in modo meta-individuale e coordinato tutte le strategie indispensabili per fronteggiare le spinte disgregatrici operanti nella società contemporanea. Se nella pianificazione Mannheim vedeva la valorizzazione delle più diverse competenze scientifico-razionali (quasi l’azione del superiore “punto di vista” della Ragione), d’altro lato non se ne nascondeva certe possibili implicazioni autoritarie. E’ anche per questo che nelle opere citate sopra egli insisterà sull’assoluta centralità della prospettiva e dei valori democratici nel processo di “ricostruzione” del sistema socio-politico. Nel corso della sua riflessione Mannheim ha molto approfondito alcuni concetti destinati ad assumere un particolare rilievo nella sociologia contemporanea. Quello più significativo è il concetto di ideologia , esaminato nel celebre volume Ideologia e utopia (1929). Nell’analizzarlo, lo studioso ungherese riattualizza e sviluppa una precisa tradizione intellettuale: il pensiero baconiano e la teoria degli “idola” della coscienza (ossia degli errori che ostacolano il retto sapere), il pensiero illuministico e il suo proposito di denunciare i pregiudizi che velano la comprensione della realtà, e soprattutto il pensiero marxiano e il suo assunto che la visione borghese del mondo è “mistificata” per effetto di precisi interessi di classe. La differenza tra questa tradizione e Mannheim è che mentre per Bacone, per gli illuministi e per Marx certe idee e certe credenze sono oggettivamente false (e c’è un punto di vista in qualche modo assoluto dal quale emettere tal e giudizio), per Mannheim la questione è più complessa. Da un lato, determinate elaborazioni ideali sono effettivamente erronee – e sono tali perché prodotte da fattori (spesso inconsci) i quali “nascondono” lo “stato reale” delle cose; dall’altro, l’erroneità di cui sopra è il prodotto non banalmente irrazionale e superficiale dei giudizi formulati da certi uomini e/o gruppi sociali. Correlativamente l’ambizione di Mannheim è di studiare tali giudizi (ossia le “ideologie”), con una particolare attenzione per la dimensione, in senso lato, mentale-soggettiva della loro genesi e della loro azione. A questo proposito egli offre alcuni preziosi contributi teorici per realizzare tale indagine. Assai nota è in particolare, la sua distinzione tra “ideologia particolare” e “ideologia generale” . La prima si riferisce alle idee e alle credenze di un singolo individuo. In questo caso, quando parliamo di ideologia intendiamo sottolineare soprattutto la natura menzognera e fuorviante di certe concezioni soggettive, nonché le deformazioni che una certa persona produce della realtà effettiva. Le idee di tale persona ” sono allora considerate come delle contraffazioni più o meno deliberate di una situazione reale […]. Queste deformazioni si manifestano sotto forma di menzogne consapevoli o semicoscienti, di inganni calcolati verso gli altri, o di autoillusioni “. L’analisi di tali idee implica il coglimento di certe falsità essenzialmente nella sfera psicologica, interiore, talvolta perfino inconscia. Coloro che si arrestano a tale livello compiono però un errore: un errore, spiega Mannheim, connesso alla mancata percezione che la produzione delle idee non è mai un fatto esclusivamente individuale: c’è sempre una componente o matrice sociale. Orbene, il concetto di “ideologia generale” allude appunto a questa nuova e più ampia dimensione. Essa si configura come l’insieme delle idee e delle credenze elaborate non da un singolo individuo ma da un intero gruppo (o ceto, o classe), e/o una determinata era. E’ così che si usa (non a torto) parlare di un’ideologia dei proprietari terrieri, o della borghesia, o dell’illuminismo. Anche se l’esame dell’ “ideologia particolare” non è privo di una sua specificità, è chiaro che Mannheim privilegia quello della “ideologia generale”: lo studio in grado di pervenire alle radici più profonde e rilevanti di determinate idee e credenze è quello che ne coglie le scaturigini sociali e storiche. Si inserisce idealmente qui la caratterizzazione di vari altri concetti, a cominciare da quello di ” falsa coscienza “: un’espressione destinata a una grande fortuna in seno a una certa sociologia novecentesca, “deformazione” della realtà (sia oggettiva che soggettiva) prodotto da un determinato insieme di condizioni e di interessi sociali introiettato nella mentalità individuale o collettiva. Molta attenzione Mannheim ha prestato anche, nel volume ricordato sopra, al concetto di utopia . Coniato nel secolo XVI da Tommaso Moro, sia nell’età rinascimentale che in quella illuministica questo termine/concetto aveva in genere serbato un significato positivo: indicava, in sostanza, una situazione o un insieme di valori non esistenti nella realtà presente ed effettuale ma considerati validi e realizzabili in un ‘altro’ spazio o luogo. Nel secolo XIX, mentre Fourier e un Saint-Simon avevano in qualche misura ripreso questa accezione dell’utopia, le componenti egemoni del pensiero europeo avevano in genere connotato in modo assai negativo tale ‘figura’ teorica. Ora, invece, Mannheim assume nei confronti del pensiero utopico un atteggiamento per molti versi nuovo. Da un lato egli riconosce che gli utopisti sono individui e gruppi scarsamente ‘concreti’, poco rispettosi della realtà effettuale e in genere incapaci di “diagnosi corrette” relativamente al mondo in cui vivono. Dall’altro, però, sottolinea che il loro proiettarsi verso situazioni o idealità nuove ha una considerevole valenza positiva. In effetti, mentre il pensiero ‘ideologico’ è essenzialmente quello dei “gruppi dominanti”, che tendono a nascondere lo stato reale della società allo scopo di mantenerlo così com’è (e pertanto ” esercitano su di esso una funzione conservatrice “), il pensiero “utopico” assume un atteggiamento risolutamente critico nei confronti di tale società e tende a elaborare una nuova “direttiva” per un’azione trasformatrice della realtà. L’utopia si configura così come una realtà che non c’è ma che può essere realizzata: una verità forse prematura ma ricca di un suo irriducibile valore, alla quale mette conto tendere fin d’ora. Delle principali utopie della storia d’occidente Mannheim esamina alcuni esempi concreti: la prospettiva chiliastica degli anabbattisti, il liberalismo/umanitarismo settecentesco, il socialismo/comunismo del secolo successivo. Di maggiore rilievo è però la vigorosa difesa finale dello spirito utopico nel mondo contemporaneo. Mannheim conosce bene le cause, anche assai fondate, che hanno condotto la moderna civiltà d’Occidente a diffidare dei movimenti utopici, così spesso emotivi e ‘irrazionali’, ma è anche convinto che la passionalità e la fede degli utopisti sono dei valori da non perdere: soprattutto in un’epoca caratterizzata dal crescente successo di una mentalità “prosaica”, razionalistica nel senso più ristretto del termine, privilegiante il mero funzionamento meccanico dell’esistente. Di qui il vivo elogio mannheimiano della dimensione intellettuale dell’utopia: la sola in grado di rilanciare quella tensione spirituale (trasformatrice ed emancipatrice della realtà) che appare oggi più che mai indispensabile:
” La completa sparizione dell’elemento utopico del pensiero e della prassi dell’individuo verrebbe a dare alla natura e allo sviluppo dell’uomo un carattere radicalmente nuovo. La scomparsa dell’utopia porta a una condizione statica in cui l’uomo non è più che una cosa. Ci troveremmo allora dinanzi al più grande paradosso immaginabile: al paradosso, cioè, che l’individuo proprio in quanto ha conseguito il massimo livello di razionalità nel controllo della realtà, resta senza ideali e diviene una pura creatura impulsiva. “
LUDOVICO GEYMONAT
LA VITA E IL PENSIERO
Ludovico Geymonat è nato a Torino l’11 maggio 1908; si è laureato in quella università in filosofia nel 1930 e in matematica nel 1932; fu per alcuni anni assistente presso la scuola di analisi algebrica di Torino. Ha rifiutato di iscriversi al partito fascista per cui gli fu preclusa ogni possibilità di carriera accademica; scelse così di insegnare in scuole private. Nel 1943 partecipò alla lotta di Liberazione nazionale e nel dopoguerra entrò nell’insegnamento universitario. Dal 1956 al 1978 tenne all’università di Milano la prima cattedra di filosofia della scienza istituita in Italia. Nel 1934 c’è stato il decisivo incontro di Geymonat con il Circolo di Vienna; ha seguito i corsi del leader del neopositivismo Moritz Schlick, un orientamento che dominerà per alcuni decenni la scena filosofica europea. Gli scritti del decennio 1935-1945 si concludono con l’importante opera Studi per un nuovo razionalismo (1945) con cui Geymonat si pone esplicitamente il compito di aggiornare la cultura italiana sui più importanti problemi metodologici connessi con la conoscenza scientifica, e di approfondire alcuni temi filosofici allora affrontati in termini antiquati dalla cultura italiana. In quest’opera c’è una tesi di fondo: la riflessione filosofica deve essere strettamente collegata con i risultati più avanzati della ricerca scientifica. Questo è stato il motivo di fondo di tutta la sua attività di filosofo, e in una cultura come quella italiana, dove i maggiori orientamenti culturali espressi dalla cultura laica idealistica, cattolica e marxista, hanno sottovalutato, o emarginato, o espunto dall’autentica cultura la scienza, avere difeso e approfondito la razionalità scientifica costituisce un indubbio suo merito. Rispetto a un razionalismo tradizionale di stampo dogmatico, egli rivendica ” un razionalismo metodologico, in quanto si propone espressamente di rivelarci un metodo razionale rigoroso, per discutere con lucida chiarezza antichi problemi rimasti finora oscuri e confusi, discernendo in tutte le questioni ciò che è fornito di senso da ciò che non lo è, e separando il campo del discorso logico da quello del discorso sentimentale e fantastico “. Negli anni successivi Geymonat ha portato avanti il suo programma di ricerca approfondendo ulteriormente il suo razionalismo, sia attraverso un esame critico dello stesso Circolo di Vienna, sia con una serie di ricerche epistemologiche, matematiche e di storia del pensiero filosofico e scientifico, inserendosi con una posizione autonoma nella filosofia italiana. Uno degli aspetti più innovativi della ricerca geymonatiana è costituito dal suo lavoro storiografico, volto a rivalutare la nostra tradizione filosofico-scientifica, trascurata nel periodo di dominio idealistico, cioè nei primi trent’anni di questo secolo. In una monografia su Galileo del 1957 Geymonat ha proposto un’originale interpretazione del fondatore della scienza moderna, di cui ha sottolineato la grande capacità di sperimentatore e ideatore di teorie. Il punto d’approdo più rilevante di questa attività storiografica è rappresentato dai sette volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico pubblicati nel corso degli anni Settanta e realizzata con il contributo di alcuni collaboratori: essa costituisce, secondo giudizio unanime, una pietra miliare nella storiografia filosofica italiana, perché la tradizione filosofica e quella scientifica sono strettamente intrecciate, e ciò ha consentito una lettura nuova della tradizione culturale dell’Occidente. Negli ultimi anni Geymonat si è interessato di problemi etico-politici, La libertà del 1988 e I sentimenti del 1989 costituiscono il risultato di questa riflessione su fondamentali problemi di ordine politico e etico. Non va infine dimenticato, accanto a questa attività, l’azione di organizzatore culturale svolta da Gaymonat per rinnovare profondamente la cultura italiana. Nel primo dopoguerra fonda a Torino con altri studiosi (scienziati e filosofi) il “Centro di studi metodologici”, che promuove incontri e organizza convegni di metodologia, logica, storia della scienza; nel 1960 dirige il primo gruppo di logica matematica del CNR italiano; nello stesso anno inizia a dirigere la collana di Filosofia della scienza presso l’editore Feltrinelli. Nel 1963 dirige la collezione di classici della scienza della Utet di Torino, che ha fornito il corpus fondamentale della tradizione scientifica europea. Inoltre ha diretto per parecchi anni, insieme ad altri, la rivista “Scientia”, ed è stato nel Comitato direttivo della Grande enciclopedia della scienza e della tecnica (EST Mondadori), della giunta esecutiva della “Domus galilaeana” di Pisa. Infine va ricordata quella che è stata la sua attività maggiore: il lavoro svolto con grande scrupolo all’università di Milano, ove ha posto all’attenzione e alla riflessione di alcune generazioni di giovani i temi più vivi della cultura contemporanea. Ne sono usciti studiosi che pur seguendo autonomamente i propri orientamenti, hanno compreso la centralità della scienza nella vita e nella cultura. Laureato sia in matematica sia in filosofia, Ludovico Geymonat è giustamente considerato uno dei massimi promotori dello studio epistemologico in Italia. Dopo un periodo di studio in Germania, ha pubblicato due saggi ( Il problema della conoscenza nel positivismo , 1931, e La nuova filosofia della natura in Germania , 1934) coi quali, ancora giovanissimo, ha fatto conoscere in Italia alcuni aspetti salienti del pensiero neopositivistico. Del 1945 sono gli Studi per un nuovo razionalismo e del 1953 i Saggi di filosofia neorazionalistica : due libri attraverso i quali lo studioso delineava una sorta di manifesto teorico in favore di una prospettiva appunto razionalistica, privilegiante in più modi l’esperienza e le prerogative del sapere scientifico, ma insieme sensibile anche ad istanze pratico-politiche di emancipazione e trasformazione sociale. L’opera più organica di Geymonat resta ad ogni modo Filosofia e filosofia della scienza (1960) che segue una monografia su Galileo (1957). Minor rilievo ha avuto il pur ambizioso saggio Scienza e realismo (1977), in cui Geymonat riafferma una prospettiva realistico-oggettivistica della verità e del sapere. Un notevole successo ha riscosso, invece, l’ampia Storia del pensiero scientifico e filosofico (1970-76): un’opera indubbiamente un pò sorda nei confronti di importanti indirizzi filosofici (l’idealismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo) e di ampi campi di riflessione (l’estetica, la riflessione teologica, le scienze umane), e purtuttavia ricca di nuove aperture storico-teoriche soprattutto nel settore delle scienze fisiche e logico-matematiche. Il primo punto di approdo filosoficamente significativo di Geymonat è costituito dal volume del ’45 Studi per un nuovo razionalismo : in esso il filosofo torinese manifesta una matura volontà di rottura nei confronti della tradizione speculativa nazionale (soprattutto di quella storicistico-idealistica) e propone con molta energia un ideale di filosofia come indagine chiarificatrice dei princìpi e dei concetti impiegati dal pensiero conoscente: ” il compito fondamentale delle ricerche filosofiche consiste proprio nel liberare, con un’esatta analisi logica, i nostri concetti dall’oscurità e imprecisione che li avvolge (esempio classico l’analisi della causalità compiuta da Husserl), mentre il compito caratteristico delle ricerche scientifiche consiste nella scoperta di nuove proposizioni (leggi o teoremi) da aggiungersi a quelle già note. In altre parole: la ricerca scientifica si propone di decidere della verità o falsità di un asserto: la ricerca filosofica è diretta invece a qualcosa di molto più fondamentale, e cioè il decidere, colla precisione dell’esatto significato dei termini di un problema, se esso ha senso o non ha senso ” ( Studi per un nuovo razionalismo , cap. I). Come si può evincere, il programma di una ” filosofia scientifica ” promosso dalla tradizione neopositivistico-analitica è qui tenuto fortemente presente. Nello stesso tempo, però, gli Studi di Geymonat esprimono anche interrogativi di tipo e di respiro diverso: ad esempio egli si chiedeva con insistenza ” è lecito limitare a una pura e semplice analisi logica, escludendo per principio ogni analisi di altro tipo? Esaurisce essa, davvero, tutti i punti di vista, dai quali possono venir studiati i sistemi di conoscenza? Non ci accadrà mai di trovare dei campi che sfuggono al rigoroso formalismo empirico? ” Erano quesiti che conducevano oltre l’orizzonte logico-linguistico del neopositivismo, pur nel riconoscimento della validità critica e della capacità costruttiva del suo programma. Geymonat guardava ormai in direzione di quel neorazionalismo che verrà ulteriormente definito nei Saggi di filosofia neorazionalistica . In essi il filosofo torinese prende un’ancor più sensibile distanza dal primato della sintesi logica teorizzato dai neopositivisti e dal loro richiamo a protocolli universali, per appellarsi invece al concreto lavoro scientifico e alla concreta ragione storica quali matrici profonde delle teorie: ” La storia del pensiero è assai più complicata di quanto non ci lasciano immaginare questi schemi [del neopositivismo]: è una storia che si attua per le vie più diverse facendo ricorso a tecniche sempre nuove, che escono fuori da qualsiasi barriera preconcetta, unificate tra loro da un solo fatto: dall’essere, tutte, attuazioni del medesimo appello alla ragione “ (Saggi di filosofia neo-razionalistica). Questa consapevolezza della complessità della ratio conoscitiva è ben presente anche in Filosofia e filosofia della scienza . Le due discipline o i due ambiti di indagine evocati dal titolo stesso dell’opera sono differenziati anzitutto per il fatto che viene avvertita la non-coincidenza tra filosofia e scienza: ciò nel senso non che la prima abbia un contenuto tematicamente diverso da quello della seconda, bensì nel senso che il sapere scientifico e la sua filosofia hanno bisogno di una riflessione teorica che ne accerti i caratteri e i presupposti generali. Nel corso del proprio lavoro tale riflessione perviene, in particolare, a due conclusioni: a respingere un’interpretazione di tipo formalistico-convenzionalistico del sapere (il quale può e deve riguardare fatti e verità reali), e a valorizzare un’analisi non statica e astratta ma dinamica e pratica delle conoscenze; un’analisi che deve prendere tra l’altro in serio esame “ la complessa dialettica, teorica e tecnico-sperimentale, che spinge lo scienziato a generalizzazioni sempre più ardite dei suoi risultati “. A tale fine per Geymonat è opportuno ricongiungere più intimamente la filosofia della scienza al concreto modus operandi della ricerca scientifica e riconoscere la costitutiva storicità del sapere (in modo tale da giungere, tra l’altro, ad una concezione fondata e attendibile del progresso scientifico). Anche lo statuto delle teorie viene, entro questo orizzonte, a mutare: esse non risultano costruite da soli asserti logico empirici accertabili in abstracto una volta per tutte, poiché la loro verità si rivela al contrario “ come un atto essenzialmente storico, legato in modo indissolubile a un livello della civiltà umana e quindi a un livello dei nostri strumenti di conoscenza e di azione “. Come si vede, l’epistemologia matura di Geymonat si è allontanata non poco da certi assunti del neopositivismo canonico. Tale distanza è stata poi accentuata dall’insistenza con cui il filosofo torinese ha cercato di inserire la propria concezione del sapere entro un orizzonte filosofico di tipo realistico-materialistico. In questa prospettiva, egli ha voluto riabilitare non solo le note tesi espresse da Lenin in Materialismo e empiriocentrismo ma anche il materialismo dialettico di Engels. E’ però un fatto che questo tentato rilancio del materialismo marxista ha suscitato non poche perplessità. Indubbiamente di maggiore consistenza sono le considerazioni epistemologiche contenute in Scienza e realismo . La tesi di fondo sostenuta qui da Geymonat (anche attraverso un complesso confronto con Karl Popper e la sua scuola) è che il sapere procede in maniera sostanzialmente continuistica, attraverso il graduale approfondimento delle conoscenze e il connesso avvicinamento a una verità sempre più oggettiva perché sempre meglio rispecchiante l’oggettiva articolazione del reale. Alla luce di ciò viene anche fermamente difesa dell’esistenza di un oggettivo progresso storico delle conoscenze. E la scienza gioca in questo un ruolo fondamentale: occorre, dice Geymonat, che il valore culturale della scienza venga finalmente riconosciuto. Perché l’impresa scientifica costituisce il prodotto più caratteristico dell’era moderna. Perchè nessun’altra impresa umana, in questi ultimi quattro secoli, ha contribuito di più a modificare la percezione che l’uomo ha di se stesso e del mondo che lo circonda. E nessun’altra impresa umana, in questi ultimi quattro secoli, ha contribuito di più a modificare la nostra vita quotidiana. La scienza è da almeno quattrocento anni il fattore culturale più dinamico della società, in un’era, il Novecento, che è la più dinamica nella storia dell’uomo e delle sue relazioni sociali. Non riconoscere l’intrinseco valore culturale della scienza significa, semplicemente, non capire la modernità. L’ammonimento di Geymonat era rivolto, certo, all’accademia. O meglio, a quella cultura idealista di impronta gentiliana e crociana di cui era intrisa l’accademia e, più in generale, la classe dirigente italiana. Ma l’ammonimento era rivolto, anche, alla sinistra italiana. Alla sinistra cui Geymonat faceva riferimento, la sinistra comunista. “ Da noi il marxismo non ha mai avuto interesse per i problemi scientifici “, sosteneva. Ed era un’analisi spietata, perché significava che da noi il marxismo non aveva gli strumenti essenziali per capire la modernità. Questa analisi fu causa di polemica tra l’ex comandante partigiano Ludovico Geymonat e il partito cui fu, per un certo tempo, iscritto: il partito Comunista. Forse era un pò ingenerosa, perché se c’è stato un partito in Italia sensibile ai problemi scientifici almeno nella loro prassi, questo è stato il PCI. Ma Geymonat era un analista severo, e richiedeva un interesse teoretico prima e oltre che pratico. Nell’accademia, nel corpo della società e nella sinistra italiana, Ludovico Geymonat non si limitava a indicare il problema. Ma proponeva le sue soluzioni. Ed erano soluzioni lucide e, appunto, severe. Per far riconoscere l’intrinseco valore culturale della scienza ruppe con il neopositivismo logico e con la sua pretesa di espungere ogni elemento metafisico dalla scienza. Geymonat credeva nell’alleanza tra scienza e filosofia. Credeva nella necessità di interpretare con un nuovo razionalismo, un razionalismo critico, le nuove conoscenze prodotte dalla ricerca scientifica. Questa nuova filosofia, razionale e critica, della scienza doveva tuttavia basarsi su un grande rigore. Il razionalista critico doveva avere le competenze e del filosofo e dello scienziato. E al più alto livello possibile. Lui stesso se le era date queste competenze e le aveva pretese, con successo, dai suoi collaboratori. Geymonat ha contribuito a fondare non solo la filosofia della scienza in Italia, ma ha contribuito a riscoprire anche la logica. Credeva nella scienza nel suo contenuto di verità, sia pure provvisorie. Ma non credeva nella neutralità della scienza. La scienza è uno strumento potente, il più potente che si è dato l’uomo. E non è indifferente quale gruppo sociale la possegga: se la scienza è appannaggio di quelle che una volta si chiamavano “le classi dominanti” diventa un potente strumento di coercizione. Se la scienza diventa appannaggio anche delle classi subalterne, allora diventa il più potente strumento di liberazione e di progresso civile. Questa visione, di classe, della politica e della scienza aveva, nel lucido e coerente discorso di Geymonat, due precise conseguenze. La socializzazione del discorso scientifico, con conseguente attenzione alla comunicazione della scienza al grande pubblico. E l’ impegno sociale dello scienziato. In un articolo scritto il 2 aprile del 1963 sull’Unità a commento della prima della Vita di Galileo di Bertolt Brecht al Piccolo Teatro di Milano, richiama le parole dello scienziato fiorentino e la necessità che anche le grandi masse e soprattutto i giovani scoprano la potenza della ragione. Io ho scritto in volgare, sostiene Galileo, per farmi capire da tutti, soprattutto dai giovani. Perché Dio ha dato anche ai giovani del popolo, come a quelli dei ricchi, non solo gli occhi per vedere la natura e le opere sue, ma anche il cervello “ da poterle intendere e capire “. Ludovico Geymonat non la pensa diversamente sul valore strategico della comunicazione della scienza “a tutti” : e si impegna dunque a scrivere in volgare, che non è esattamente la stessa cosa di divulgare. Il suo impegno editoriale nel campo della comunicazione al grande pubblico è vasto, ma sempre di grande livello. Basti citare il coordinamento dell’”Enciclopedia della Scienza e della Tecnica” e la “Storia del pensiero filosofico-scientifico”: sono proposte scomode per il lettore, perché richiedono serietà e impegno. In cambio sono proposte che entrano nel vivo dei problemi scientifici aperti, che non possono essere appannaggio dei soli esperti. Ma Geymonat non è scomodo solo per gli accademici e i politici. E neppure per i suoi allievi e i suoi lettori. E’ scomodo anche e, forse, soprattutto per gli scienziati. Perché è proprio a loro agli scienziati, che Geymonat chiede l’impegno più stringente: riconoscere che la loro scienza non è neutrale. Che le conoscenze che essi producono hanno enormi effetti sulla società. E, pertanto, gli scienziati non possono pensare di “ dedicare tutte le proprie attività alla ricerca pura senza venir distratti” da altre preoccupazioni. Gli scienziati hanno il dovere morale e politico di “ puntare il telescopio sugli aguzzini della società “ per svelare la verità sociale, proprio come Galileo aveva puntato il telescopio verso il cielo per svelarne la verità fisica. Gli scienziati devono impegnarsi “ ad affrontare con la massima serietà il problema urgentissimo di dare un senso umano, filosofico, etico-politico alla scienza “. Perché se la scienza “ non riuscirà ad allargare e approfondire i propri compiti, se non riuscirà ad assumere la posizione di altissima responsabilità che le compete nel mondo odierno, se non saprà diffondere ovunque lo spirito critico, finirà per tradire la propria missione. In tal caso diventerà ben presto un fattore non di progresso, ma di autentica rovina: di sempre più pericolosa disumanizzazione della società “. La scienza è sottoposta a grandi pressioni: i tentativi di asservirla a interessi particolari restano fortissimi. Geymonat indica con grande chiarezza qual’è il compito degli scienziati: evitare che la scienza da fattore di progresso diventi fattore di rovina. Da strumento di emancipazione dell’intera società, diventi strumento di potere per piccole oligarchie. Il compito è immane e oltremodo scomodo. Ma Geymonat non è davvero tenero verso quegli scienziati qualunquisti che si sottraggono allo scomodo impegno, perché ritengono di “ potersi disinteressare delle sorti dell’umanità “: li chiama, semplicemente, traditori. “ Volevo una filosofia capace di ripensare i modi con cui scienziati e artigiani, teorici e tecnici hanno concettualizzato il mondo, la natura, la storia costruendo visioni in cui le acquisizioni specialistiche acquistano via via il loro senso “, così dichiarava nel 1979 Geymonat. Ed è anche per questo che egli si fece difensore di un nuovo razionalismo. ” Il razionalismo, cui aspira la cultura moderna deve esser ben più agguerrito e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati; esso deve contemporaneamente essere: critico, ossia capace di tener nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione delle filosofie mistiche e decadenti, fiorite negli ultimi anni; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ricostruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto; cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi alla spirito umano “: così egli scriveva nel 1945. E il suo materialismo dialettico lo respingere fino alla fine l’epistemologia di Popper. Nel 1983 apparve sulla rivista sovietica Voprosi Filosofi un suo articolo nel quale criticava le tesi epistemologiche popperiane. Tra la filosofia di Popper e il marxismo vi era, egli dichiara, la ” più manifesta e totale incompatibilità “. Non è un caso allora che in occasione del convegno in onore di Geymonat, tenutosi a Milano nell’estate dell’85, il filosofo della “società aperta” inviò un messaggio piuttosto polemico: ” i nostri intellettuali cercano di persuadere se stessi e gli altri, specialmente la generazione più giovane, che viviamo in un mondo terribilmente ingiusto, in una specie di inferno. Gli intellettuali hanno causato danni terribili… E ora dicono ai giovani che vivono in un inferno, mentre di fatto questo mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti (è questo, credo, l’unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore della nostra) “, disse Popper in merito. Pur non mancando di apprezzare l’epistemologia popperiana ed il suo anti-idealismo, Geymonat accusò Popper di essere il ” filosofo ufficiale dell’anticomunismo ” per la sua ostinata difesa del regime liberale; un ” filosofo dei regimi socialdemocratici “, oramai campioni del ” moderatismo se non del conservatorismo “.
LA LIBERTA’
CONCETTO DI LIBERTA’ : Caduti tutti i miti delle verità assolute, anche nel campo dei valori etico politici, nell’impossibilità di stabilire, ad esempio: “ad azione giusta corrisponde conseguenza giusta” per i valori che richiedono tempi a volte vicini, a volte lontani, vedi i soggiorni coatti durante la repressione fascista (comportamenti divenuti dopo vent’anni azioni giuste ed eroiche), diviene indispensabile il ricorso ad un valore accettato universalmente, col quale commisurare la validità delle nostre azioni, le quali, tanto più saranno compatibili con esso, tanto più saranno giuste. Non esiste al mondo persona, popolo, oppure Stato, che alla domanda: -vuoi la libertà? Ami la libertà? Operi per la libertà? – non risponda affermativamente. Ecco perché, oggi, il valore universalmente accettato, porta il nome di Libertà. Ma dietro questo nome, soprattutto in campo politico-sociale,si nasconde, assai spesso, un grande vuoto teorico. Con questi pensieri, da noi appena accennati, Geymonat esprime, appunto, il suo concetto di Libertà. E per una seria e corretta analisi di questo concetto, l’autore sviscera i molteplici aspetti della vita dell’individuo, sia singolarmente, sia come entità sociale.
LIBERTA’ COME INDIPENDENZA : Dimostrando come non sia possibile parlare d’indipendenza assoluta, in relazione allo Stato, pur avendo confini e leggi proprie, ma di come sia di per sé arduo parlare di Libertà relativa sia per la emulazione od al contrario, per la eccessiva differenziazione, che si instaura nei popoli, oltre che tra differenti Governi, considerando, inoltre, l’adesione data d questi ad organismi internazionali, per le rappresentanze diplomatiche, eccetera, Geymonat afferma che, in ogni caso, l’analisi del livello di Libertà di un popolo, non sia possibile, senza tener conto di tutta la sua storia.
LA LIBERTA’ DEGLI INDIVIDUI : In questa analisi, Geymonat considera tre elementi fondamentali:
a) lo stato delle cose (da dove prendere le mosse)
b) l’insieme delle iniziative (o linee di condotta)
c) l’atto di volontà con cui si decide di prendere l’iniziativa. E’ impossibile, quindi, fare dei confronti fra Paesi diversi, ed epoche diverse, anche in seno ad uno stesso Paese. Affrontando, poi, il tema della scelta autonoma, anche in un Paese cosiddetto “democratico”, Geymonat scrive: ” la scelta autonoma è paragonabile al nodo di una rete, nodo in cui pervengono parecchi fili della rete stessa, i quali si fanno equilibrio gli uni con gli altri, senza che l’uno sia prevalente sui restanti “. E’ quindi impossibile ridurre la Libertà individuale ad un processo soggettivo. E’ necessario pertanto, porsi la domanda: – Libertà per chi? – Ed ancora: – Libertà per cosa? Per lo sfruttamento? Oppure, per imporre il proprio predominio? – Se noi sapremo inserire queste risposte in un quadro di valori morali, noi sapremo anche individuare quali siano le forze che ci avversano o che ci ostacolano in questa ricerca. Il tentativo interrotto di superare tali ostacoli, e la lotta contro di essi, è l’espressione più piena della Libertà. Se ne deduce, perciò, come sia insostenibile che: Libertà significhi fine della lotta, fine dello spirito combattivo. Su questo concetto Geymonat scrive: ” La tesi contraria per cui la Libertà non sarebbe lotta, è sostenuta di fatto da coloro che, avendo lottato e vinto in un passato più o meno lontano, hanno tutto l’interesse che non si lotti più, onde vengano conservati i loro privilegi .”
LIBERTA’ DI PENSIERO : In relazione a questo aspetto, Ludovico Geymonat, mettendo in evidenza l’analisi del pensiero espresso, quindi attraversa la parola, che, a sua volta richiama la libertà di stampa, afferma come sia impossibile parlare di reale Libertà lo scrivere ciò che viene suggerito ed imposto dal Potere. E, per questo concetto, Geymonat scrive: ” in realtà, chi esalta la Libertà di stampa senza riflettere sul diverso significato che questo termine assume nelle condizioni concrete in cui viviamo, e senza riflettere sui limiti che esso incontra nelle cosiddette “società borghesi libere”, presta il fianco alle più gravi e perniciose confusioni “. Geymonat continua mettendo sotto accusa la “moda culturale” secondo cui il Marxismo non avrebbe più nulla da insegnarci. Asserisce quindi che Libertà di pensiero significa: Lotta contro i pregiudizi, lotta contro le superstizioni (con riferimento preciso anche alle religioni), lotta contro le “mode culturali”. Lo storicismo scientifico, continua Geymonat, afferma la necessità di lottare contro il passato, ma nel contempo, l’esigenza di mantenere un legame effettivo con esso, sia per le azioni del presente, quanto per le giuste basi del futuro.
LIBERTA’ DEI SENTIMENTI : In questa analisi, Geymonat mette in evidenza i due tipi fondamentali di sentimento che possono essere sentimenti individuali (molto importanti perché determinano i nostri comportamenti) e sentimenti collettivi, i quali, a loro volta, possono essere spontanei o condizionati. Ciò che oggi condiziona e trasforma i nostri sentimenti è la Propaganda, senza la quale la nostra società non potrebbe mantenere il suo Status. Geymonat fa poi cenno alle epoche di propaganda della religione cattolica, con le prediche continue, le rappresentazioni terrificanti della vita ultraterrena ed i racconti dei miracoli, più o meno credibili, e comunque martellanti. Geymonat ribadisce la necessità di lotta nei sentimenti affinché prevalga, di volta in volta, il sentimento migliore ma, nel contempo, ribadisce la necessità di lottare contro la cristallizzazione del sentimento stesso. Per una puntuale identificazione del sentimento migliore è necessario ricorrere alla “morale”, con le sue leggi oggettive, anche se, ovviamente, non sono le stesse in tutti i Paesi. Per questo delicato aspetto dell’analisi Geymonat scrive: ” il sentimento morale contribuisce alla nostra Libertà perché vivacizza la dinamica di tutti i nostri sentimenti acutizzando la lotta fra sentimenti diversi e rendendola via- via più radicale “.
LIBERTA’ NELLA FANTASIA Su questo tema Geymonat spiega la differenza tra il sogno e la fantasia, asserendo che nella fantasia vi è una “logica” Ed è proprio nella logica che subentra il criterio di “lotta”. Continua poi, asserendo come sia possibile sostituire il termine “fantasia”, col termine creatività. Noi pensiamo che senza la sublime dote della fantasia, non esisterebbero discipline artistiche.
LIBERTA’ E VIOLENZA Abbiamo visto nei due capitoli precedenti che il concetto di libertà (sia dei popoli sia degli individui) rinvia a quello di lotta, e quindi, direttamente o indirettamente, a quello di violenza. E’ su quest’ultimo quindi che dobbiamo ora dirigere la nostra analisi, nel modo più spregiudicato possibile, superando quel falso pudore per cui si preferisce fingere che la violenza sia un aspetto marginale della nostra società, agevolmente cancellabile. Già sappiamo che il problema della Libertà dei popoli coinvolge quello della guerra (di conquista o di liberazione) e la guerra non è neanche concepibile senza violenza, esercitata con mezzi primitivi o con sofisticatissime armi moderne. Ma la via migliore per analizzare in tutti i suoi aspetti il concetto di violenza non sembra quella che parte dall’esame del concetto di guerra fra popoli, bensì quella che prende le mosse dall’esame del concetto di guerra civile, ammettendo che oggi si possa fare una netta distinzione fra i due tipi di guerra (cosa assai difficile in quanto la guerra civile fra due fazioni di un popolo rinvia sempre alla guerra, aperta o mascherata, fra gli Stati che proteggono l’una o l’altra fazione, come già si è accennato nel primo capitolo). Fin dalla preistoria dell’umanità, noi troviamo numerosi esempi di guerra civile, quasi sempre molto feroci. Va osservato però che il concetto di guerra civile va oggi notevolmente ampliato. Mentre, fino a qualche tempo addietro si parlava di guerra civile solo se le due fazioni in lotta si combattevano con squadre di uomini armati, formanti battaglioni abbastanza regolari, oggi si può parlare di guerra civile anche a prescindere da tale convinzione. Esistono infatti anche altri modi di lottare, e aspramente, non con le armi ma con altri mezzi (per esempio, con lo sfruttamento economico, con il sabotaggio, con la propaganda, con l’embargo, eccetera). Se usiamo il concetto di guerra civile in questo senso ampliato – e tutto ci suggerisce di farlo – allora anche le lotte di classe, di cui Marx aveva giustamente sottolineato l’importanza decisiva nello sviluppo dell’umanità, diventano guerre civili. E non si tratta solo di un cambiamento di nome, perché questo cambiamento comporta anche molte conseguenze pratiche: per esempio, comporta il dovere di trattare gli arrestati come prigionieri di guerra e non come volgari delinquenti, e comporta il diritto di rifiutare certi mezzi di forzata persuasione in uso contro i partecipanti alle lotte di classe. Da questo punto di vista, il dilemma che talvolta viene sollevato di fronte a certi eventi di storia, e che consiste nell’essere ” o si tratta di mera lotta di classe o invece si tratta di autentica guerra civile”, non è più sostenibile, in quanto i due corni del dilemma non si escludono a vicenda o perlomeno si escludono soltanto in astratto se definiamo le due espressioni “lotta di classe” e “guerra civile” come le si definiva nel secolo scorso. Basta però guardare gli avvenimenti che giorno per giorno si susseguono nei Paesi del cosiddetto “terzo mondo” per accorgersi che in tali Paesi non si può fare una netta distinzione tra lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori e la guerra dei popoli per raggiungere la propria indipendenza. In parecchi di questi casi si direbbe che il risultato di tale groviglio di lotte e di violenze non sia, a rigore, un incremento della Libertà degli individui che vi partecipano, ma ciò accade solo perché si giudicano simili eventi dall’esterno, in base a criteri validi per noi e non per loro. Il giudizio sarebbe invece diverso se si tenesse conto delle esigenze di quei popoli, della loro storia, delle loro condizioni di Libertà, dei loro costumi, delle loro religioni. Il fatto è che i Paesi cosiddetti civili, essendo nettamente più forti dal punto di vista economico e da quello bellico, possono pretendere di imporre che sia universalmente accettato come lecito il tipo di violenza da essi praticato e regolamentato dalle loro leggi nazionali ed internazionali. Secondo loro, questo tipo di violenza sarebbe perfettamente compatibile con la Libertà, mentre non lo sarebbe il tipo di violenza praticato dai popoli detti incivili. Ma su quale base possiamo distinguere i “popoli civili”? Nessuno può mettere in dubbio il carattere relativo del concetto di civiltà che, ad un esame oggettivo un po’ accurato, si rivela profondamente diverso da un’epoca ad un’altra e da un popolo all’altro. Se noi, malgrado la nostra consapevolezza critica, continuiamo a ritenere che la nostra sia la “vera” civiltà, e che perciò unicamente la violenza consentita in nome di questa civiltà sia compatibile con la Libertà, è chiaro che ci rendiamo colpevoli di gretto immobilismo. La nostra fede nel carattere civile delle nostre istituzioni e del nostro modo di vivere non è meno dogmatica della fede che avevano i nostri avi nella verità assoluta della loro religione. Esso ci ricorda il famoso detto del re di Prussia “Got mit uns” (Dio è con noi). Oggi noi possiamo ridere di questo detto, ma dovremmo ridere con pari sicurezza della tesi, per tanto diffusa, secondo cui “la civiltà e la Libertà sono con noi”. Quanto ora esposto ci permette a questo punto di affrontare il delicatissimo problema del terrorismo. In genere il ricorso ad esso viene considerato un fatto estremamente incivile; il terrorismo infatti è un’arma che colpisce l’avversario in forma insidiosa, senza rispettare alcun confine, senza il ben che minimo tentativo di distinguere tra colpevoli ed innocenti. Così almeno viene descritto (o, più recentemente, demonizzato) da coloro che ne sono il bersaglio. Inoltre esso viene accusato di richiedere una forte dose di fanatismo, perché in molti casi il terrorista sa che anche la sua stessa persona potrà venire travolta dal disastro che egli si accinge a provocare. Non per nulla, quando il terrorismo viene usato in modo sistematico da uno Stato in guerra contro un altro Stato, si parla non tanto di terroristi quanto di “battaglioni suicidi”. Senza dubbio il fanatismo è riprovevole, ma a ben riflettere, non è facile stabilire una netta differenza tra il fanatismo del battaglione suicida ed il cosiddetto eroe, da tutti ammirato ed esaltato. Basti ricordare alcune delle azioni che fin da ragazzi siamo abituati a chiamare “eroiche”: per esempio, il famoso sacrificio di Pietro Micca. Se ci chiediamo che cosa distingue tali azioni da quelle compiute dai cosiddetti battaglioni suicidi (siano essi vietnamiti o giapponesi o iraniani) ci troviamo in grave difficoltà per dare una risposta soddisfacente. Né si ha il diritto di rispondere che l’azione eroica è dettata da motivi razionali, mentre l’altra è dettata da motivi irrazionali. Con quale criterio infatti si può giudicare la razionalità di un’azione? Solo esaminando se l’azione, di cui intendiamo parlare, rientra o no in un piano espressamente delineato al fine di raggiungere un certo scopo. Ma l’esito di tale esame dipende in modo essenziale dal punto di vista in cui si pone colui che si accinge a compierlo. Potrà pertanto accadere che la medesima azione sia giudicata razionale o no, frutto di eroismo o di mero fanatismo, a seconda del punto di vista dal quale ci collochiamo. Né va dimenticato che in tutti i conflitti è sempre ritenuto valido il giudizio pronunciato da chi sta dalla parte del vincitore. Parlare di razionalità o irrazionalità di un’azione è semplicemente un segno di ignoranza o di grave superficialità. Non ha quindi senso la pretesa di fare riferimento a tale presunta razionalità per decidere se un atto di violenza sia o no espressione di Libertà. 3°) La parola fanatismo è un termine spregevole col quale noi “civili” miriamo a gettare discredito sulle persone che ci combattono. Secondo il linguaggio comune, il fanatico è colui che non riflette criticamente sui motivi delle proprie azioni, cioè agisce per istinto, lasciandosi guidare da un’infatuazione cieca o da un odio altrettanto cieco. Ma a ben considerare le cose, il comportamento (per lo meno in guerra) delle persone non fanatiche non pare differenziarsi molto dal comportamento delle persone fanatiche. Per esempio, il comandante militare che decide freddamente di bombardare una città, senza preoccuparsi se le sue bombe andranno a colpire soltanto i soldati nemici o anche degli innocenti, può non agire per odio (può anche agire per il trionfo della Libertà) ma chi subisce gli effetti della sua azione non farà differenza a seconda delle intenzioni che hanno ispirato il bombardamento stesso. La differenza tra il freddo e cinico generale che ordina il bombardamento a tappeto di una città ed il fanatico capobanda che guida i suoi uomini al saccheggio del Paese nemico, è soprattutto una differenza di eleganza, non di contento civile. A rigore, ciò che fa ritenere più civile il comportamento del generale è soltanto la superiorità dell’esito al quale conduce. Apparentemente l’azione bellica razionalmente organizzata è meno violenta dell’azione mossa dal fanatismo, anche se produce un maggior numero di morti (si pensi agli effetti dell’uso dei gas tossici nella prima guerra mondiale); proprio perciò l’attacco di soldati fanatici che si scatenano in un corpo a corpo crudele viene guardato con una certa aria di superiorità da chi è in grado di combattere con armi automatiche che non insanguinano le mani. Ma si tratta di varianti della violenza, che non ne mutano il carattere di fondo. L’aspetto più o meno cruento di uno scontro armato non è qualcosa che possa interessarci. La cosa che ci interessa è l’abbinamento tra violenza e Libertà, che si intrecciano l’una con l’altra così strettamente da non poter venire prese in esame separatamente, per lo meno nel concreto della storia. Diversamente si cade nella “utopia”. Tutti conoscono il significato del termine utopia: Ma non si riflette a sufficienza sui nessi tra utopia e Libertà. Questi nessi consistono nel fatto che, se vogliamo parlare della Libertà senza riferimento alla violenza, ci troviamo nel mondo dell’utopia. Qualcuno potrebbe obiettarci che ciò non è necessario, bastando a tale scopo riferirci ad una società ben ordinata, in cui la vita sia regolata da leggi precise, approvate da tutti. Rispondiamo che una società siffatta non esiste in realtà. Senza dubbio possiamo sognare una società che si approssimi ad essa, ma un esame spregiudicato delle società effettive ci dimostra che la realtà è ben diversa. Chi afferma il contrario, lo fa intenzionalmente, perché vuole nascondere a se stesso e agli altri gli aspetti violenti della società in cui vive; lo fa perché, sentendosi a proprio agio in essa, e nutrendo un’infinità di pregiudizi contro la violenza, vuole sostenere che è una società libera, in cui non alberga alcuna violenza. Ma si tratta di una illusione, di un inganno preparato contro la ragione. Si tratta di un’illusione particolarmente pericolosa perché ci distoglie dall’esaminare i caratteri concreti dell’autentica Libertà, di quella Libertà per cui si sono compiuti tanti sacrifici nel corso dei secoli, per cui si è tanto combattuto, si è versato tanto sangue, spesso in buona fede. Senza dubbio l’utopia ha espletato funzioni assai importanti nello sviluppo delle idee, mostrando di volta in volta quali erano i punti più difettosi delle società vigenti nelle varie epoche storiche, ma ha pure avuto non di rado una funzione negativa, in quanto ha distratto gli studiosi dal prendere atto della realtà in cui viviamo. Nel presente caso essa ha il merito di mostrare che la Libertà senza violenza è realizzabile solo in una società perfetta, ben diversa da quella in cui ci tocca vivere. Come in geometria non si può parlare di punti senza parlare anche di rette e piani, trattandosi di concetti che non si possono definire se non tutti insieme, così accade nei problemi di cui ci stiamo occupando, nei quali non si può parlare di Libertà senza parlare nel contempo della società perfetta nella quale essa si esplicherebbe. L’esame dello sviluppo del concetto di Libertà ci insegna che non solo filosofi ma anche uomini d’azione hanno parlato di Libertà in termini astratti, come se si trattasse di un concetto definibile isolatamente, senza riferirlo all’ambiente storico in cui tale Libertà dovrebbe esercitarsi. Ma così facendo, essi non hanno dato alcun contributo serio all’analisi del concetto in questione. Altrettanto può ripetersi del concetto di violenza, che a rigore non può venire analizzato e valutato (con una soluzione o con una condanna) se non in stretto collegamento con il concetto di società. E’ sulla base di questa situazione parallela che qui abbiamo sostenuto l’inscindibile rapporto fra Libertà e violenza. Molte esaltazioni, per lo più retoriche, della non violenza intesa come bene indiscutibile, sono un segno di ignoranza più che un frutto di raffinata sensibilità e di alta civiltà.
LIBERTA’ E POTERE : Risulta che l’Ordine Vigente, obbedisca ad un principio d’inerzia fino a che forze esterne non vengano a mutare il suo equilibrio. Noi riteniamo che se tutto è “dinamica”, tutto è “movimento”, questo “ordine delle cose”, non potendo progredire, in alcun modo, proprio per la dialettica delle cose, vada progressivamente a ritroso, rendendo chiari, in tal modo, i motivi di tutte le perdite subite dal nostro popolo, anche rispetto alle conquiste più significative, costate aspre e tenaci lotte. La forza delle armi, le leggi, la propaganda secondo cui, questo, sarebbe il migliore degli Stati possibili: sono i mezzi di difesa dell’ “Ordine delle cose” e si chiama: il potere. Geymonat scrive: ” se noi chiediamo ad un rivoluzionario quali cose vorrebbe cambiare in quest’Ordine egli risponderà: voglio cambiare tutto. Se invece ci rivolgiamo ad un conservatore, più o meno dichiarato, egli dirà: voglio apporre qualche modifica, applicare qualche riforma. Il che è semplicemente impossibile e quindi è come voler dire: io non voglio cambiare nulla . Geymonat scrive ancora: ” un semplice esame di quanto è accaduto e continuamente accade nello sviluppo della società, ci dimostra che le iniziative di riformare l’ordine vigente o investono la totalità di tale ordine o falliscono “. Geymonat sostiene di schierarsi dalla parte dei rivoluzionari, proprio perché i loro aneliti, sono scientificamente giusti. Geymonat afferma, inoltre, quando la lotta per la totale trasformazione della società, è vittoriosa, le conseguenze sono effettive e concrete. Anche in base a quanto sopraddetto possiamo affermare, quindi, che la Libertà non è uno status da difendere, ma, al contrario, essa è il frutto di una conquista quotidiana. Geymonat scrive ancora: ” i progetti di destabilizzazione vanno difesi, quando mirino alla conquista della Libertà “. Noi possiamo agire in questo senso, anche introducendo i principi della filosofia materialista dialettica che comporta la valorizzazione del movimento e della sua antitesi. Possiamo inoltre, partecipare con la persona fisica a quei movimenti che contestano ordine vigente. Geymonat scrive ancora: ” la destabilizzazione dell’ordine vigente, non costituisce soltanto un’espressione di autentica Libertà ma è anche una porta aperta verso un’avventura di cui non si può prevedere l’esito “. Ed è proprio per questo ignoto che fa leva il potere, per esercitare il “Terrore” nei cambiamenti e conservare il proprio status. Da parte di molti, pur riconoscendo i difetti di “questo potere”, viene l’affermazione di preferirlo al “salto al buio”, vecchio slogan, tuttora utilizzato. Geymonat, si esprime con estrema chiarezza quando afferma: ” ciò che noi cerchiamo di combattere non è l’esistenza di un potere, bensì la sua trasformazione in qualcosa di intoccabile, cioè della sua entità metafisica… – ed ancora – difendere la Libertà significa difendere il cambiamento o almeno, la possibilità di cambiamento “. La Libertà, in qualunque modo la si voglia intendere, ha una sua dinamicità, che ha il carattere di lotta. Libertà significa il perenne ampliamento, approfondimento, analisi critica, discussione, potenziamento della creatività… Noi ci auguriamo che queste importanti tesi, al di là delle diverse maniere d’intendere e di accettarle, siano uno spunto efficace per un serio dibattito, soprattutto tra coloro che intendano collocarsi fuori dal pernicioso individualismo oscurantista, per fornire alla società “moderna e scientifica”, elementi utili al civile progresso politico, culturale e quindi sociale, di tutta l’umanità.
CORNELIUS CASTORIADIS
A cura di Francesca Esposito
1. L’itinerario di Cornelius Castoriadis
Sarebbe certamente un errore definire Cornelius Castoriadis un intellettuale, etichetta che egli stesso giudica qualcosa da evitare. Infatti, egli considera intellettuali filosofi come Sartre e Heidegger, in quanto giustificatori e razionalizzatori dell’ordine stabilito e, rispettivamente, dei regimi stalinisti e del nazismo.
Per Castoriadis il compito del pensatore è quello della critica del già istituito, del pre-stabilito, di ciò che si presuma dato una volta per tutte e, di conseguenza, di ogni ideologia e totalitarismo che minaccino l’autonomia individuale e collettiva. Egli senza dubbio ha incarnato nel corso della sua vita l’ideale di
di pensatore solitario che adotta una posizione impopolare e vi resta aggrappato malgrado lo scherno pubblico e le difficoltà private [1].
Il lavoro critico di Castoriadis ha assunto il significato di una ricerca mai paga, mai definitiva di un pensiero rivoluzionario, di un pensiero altro da quello ereditato, tradizionale, sia nell’ambito della teoria politica che in quello della teoria filosofica, di un pensiero rivolto al progetto di autonomia individuale e collettiva.
Nel proponimento di delucidare i limiti e le aporie di quella che egli ha definito la logica-ontologia ereditata, con cui ha inteso l’intero quadro del pensiero filosofico ereditato, Castoriadis ha sviluppato la categoria di psiche e ha operato, tra il 1965 e il 1968, la rielaborazione della psicoanalisi. Frutto maturo di questo percorso è l’opera intitolata L’istituzione immaginaria della società (1975).
La rielaborazione della psicoanalisi non ha avuto, per Castoriadis, come obiettivo principale un nuovo apporto teorico a questa disciplina specifica, ma il rinnovamento in toto della filosofia tradizionale.
Gli anni dedicati al riesame della teoria psicoanalitica subentrano agli anni di un fervido impegno militante, prima nel PC greco (1941), poi nelle file del partito trotzkista francese, all’indomani del suo trasferimento in Francia nel 1945, e infine, a partire dal 1948, nel gruppo Socialisme ou Barbarie, fondato con Claude Lefort ed esprimentesi nella rivista omonima dal 1949 al 1966.
Gli anni che precedettero la stesura de L’istituzione immaginaria della società, furono per Castoriadis molto fervidi. In una prima fase egli è stato impegnato nella elaborazione del concetto di sociale-storico, contenuta nella prima parte de L’istituzione immaginaria della società, intitolata “Marxismo e teoria rivoluzionaria” (1964-1965); tale elaborazione ha avuto luogo attraverso un’attenta rilettura critica dell’economia e della teoria marxiste. In una seconda fase egli ha compiuto prima, tra il 1968 e il 1971, un’ampia riflessione sul linguaggio, e poi, tra il 1971 e il 1974, un vasto ripensamento della filosofia tradizionale.
Già nella delucidazione della questione del “sociale-storico” – che non è altrimenti se non la questione della società e quella della storia –, come pure nelle osservazioni che vertono sul linguaggio, si fa sempre più prepotente il convincimento, da parte di Castoriadis, di quanto il pensiero ereditato sia adeguato al mondo che l’ha prodotto e, cioè, di quanto esso sia dovuto ad uno determinato modo di intendere l’essere, di un modo consustanziale ad una determinata civiltà: quella greco-occidentale. L’influenza che la società greco-occidentale ha esercitato sugli schemi cognitivi dell’umanità ha fatto sì che venisse disconosciuto, innanzitutto, il ruolo primario che rivestono l’immaginario, nella società, e l’immaginazione, nella psiche individuale. Infatti ciascuno di essi è stato ridotto a mera immagine speculare del reale. In verità, come scrive Castoriadis,
l’immaginario di cui parlo non è immagine di. È creazione incessante ed essenzialmente indeterminata (sociale-storica e psichica) di figure/forme/immagini, a partire da cui soltanto si può parlare di “qualche cosa”. [2]
Elaborare la nozione di immaginario radicale, significa, per Castoriadis, riconoscere come fondamento ultimo di individuo e società la “creatività”, intesa come capacità di creare forme e figure che non esistevano precedentemente e riconoscere, altresì, nelle istituzioni sociali e in tutti i prodotti del soggetto psichico come dell’individuo sociale, delle creazioni immaginarie.
La nozione di immaginario radicale ritorna in tutta la riflessione filosofica di Castoriadis come un’idea quasi ossessiva, funzionale alla necessità di sottrarla al disconoscimento/occultamento che di essa ha operato la filosofia occidentale nell’affrontare le tematiche che vertono sulla società, sul mutamento o divenire storico, sul linguaggio, sulla psiche, inconscia e conscia.
2. Filosofia e società
Riconoscere il ruolo centrale dell’immaginario sociale nella questione che verte sul sociale-storico, significa per Castoriadis, prendere le distanze dal cosìdetto paradigma funzionalista, che – come egli stesso chiarisce nel capitolo terzo della prima parte de L’istituzione immaginaria della società, apparso per la prima volta in Socialisme ou Barbarie nel 1965 e risalente al periodo di già definitiva rottura con il marxismo – non rende ragione né della reale natura della società e né di quella della storia.
Il paradigma funzionalista parte dalla fissità dei bisogni umani e spiega le più diverse organizzazioni culturali e sociali come l’insieme delle funzioni volte a soddisfarli. In tal modo il funzionalismo chiude gli occhi sul fatto essenziale che tutto ciò che è avvertito come mancanza o bisogno è istituzione sociale, creazione dell’immaginario sociale, anonimo e collettivo, al quale solo si deve l’incarnazione entro i singoli individui sociali delle sue produzioni/istituzioni/creazioni.
Ciò che Marx ha disconosciuto, in ragione della sua adesione al funzionalismo, è proprio il ruolo dell’immaginario sociale, che egli ha ridotto a
elemento ‘non economico’ nella catena ‘economica’. Questo deriva dal fatto che Marx pensava di poterlo ridurre a una deficienza provvisoria della storia, deficienza di tipo economico, connessa alla non-maturità tecnica dell’umanità [3]
Lungi dall’essere mera copertura di una deficienza o di una mancanza propria dell’umanità, l’immaginario radicale ne è l’elemento originariamente “poietico”, cui si deve ogni creazione sociale-storica e, quindi, la creazione delle istituzioni sociali in cui si materializzano i significati immaginari posti in essere da una data società.
Ma neppure il paradigma strutturalista rende conto dell’esser-proprio del sociale-storico. Tale paradigma ha ridotto, a detta di Castoriadis, le istituzioni sociali a meri reticoli simbolici, alle possibili combinazioni di un numero finito degli stessi elementi discreti. In tal modo esso ha eluso il problema dell’insorgenza delle differenze e dell’origine del simbolismo istituzionale, che è la società stessa, la società istituente.
Interpretare le istituzioni in termini di simboli, significa dimenticare che il simbolismo istituzionale è creazione della società istituente e che i simboli veicolano significati relativamente indipendenti dai significanti che li sostengono, nonché che tali significati svolgono un ruolo non marginale nella scelta e nell’organizzazione di questi significanti.
L’istituzione della società ha sempre il valore di una creazione immaginaria, il valore, cioè, di autodispiegamento dell’immaginario radicale come società e storia, come il sociale-storico per l’appunto. Sebbene ogni istituzione e creazione sociali si appoggino all’esser-così del mondo o a quello che Castoriadis denomina primo strato naturale – e che corrisponde allo strato effettivamente formalizzabile dell’essere, a quello strato, cioè, che si presta ad una conoscenza logico-scientifica, basata sui principi di non contraddizione e di identità –, esse ne trasfigurano/alterano/deformano le proprietà costitutive e, soprattutto, le dotano di senso attraverso la posizione di punti di vista arbitrari e immotivati solo a partire dai quali è possibile sapere ciò che per una data società è razionale o reale.
In ultima istanza, quindi, del sociale–storico non è possibile alcuna teorizzazione, nell’accezione ereditata del termine, bensì solo una delucidazione.
Ciò che chiamo delucidazione è il lavoro con cui gli uomini tentano di pensare quel che fanno e di sapere quel che pensano. Anch’essa è una creazione sociale-storica.[4]
In altre parole, non esiste alcun punto di vista esterno a società e storia, ad esse logicamente anteriore, che ne possa render conto, ma solo un sapere che già appartiene alla società e alla storia che l’hanno prodotto.
Riconoscere alle origini delle istituzioni sociali o della società istituita la stessa società istituente, significa, per Castoriadis, riconoscere che ogni società è autonoma, all’origine delle proprie istituzioni. Se è essa stessa che crea le proprie istituzioni, allora queste ultime non possono mai essere considerate come date una volta e per tutte, immodificabili, imperiture: anzi, esse si prestano alla loro perpetua riconsiderazione e alterazione.
Ne segue, per Castoriadis, che il contenuto del progetto rivoluzionario:
palesemente non può essere né l’assurdità di una società senza istituzioni, né l’idea di istituzioni buone date una volta e per tutte, giacché qualsiasi insieme di istituzioni, una volta costituito, tende necessariamente ad autonomizzarsi e ad asservire nuovamente la società ai significati immaginari che lo sottendono. Il contenuto del progetto rivoluzionario non può esser che l’idea di una società divenuta capace di una perpetua riconsiderazione delle sue istituzioni. [5]
A che possa realizzarsi il progetto rivoluzionario – che altro non è se non il progetto di autonomia individuale e collettiva – è necessario, sul piano individuale, che si realizzi l’avvento del “soggetto” umano, inteso come istanza riflessiva e deliberante, mentre sul piano della collettività, che si realizzi una fondamentale auto-alterazione dell’istituzione tale da permettere la sua messa in discussione da parte degli individui che vi appartengono e che entrambe si realizzino simultaneamente.
Infatti, nulla è più estraneo al pensiero di Castoriadis che l’opposizione o l’antagonismo tra individuo e società. L’individuo è sempre individuo sociale, fabbricato dalla società istituita: proprio per questo, l’individuo da solo non è in grado di mettere in discussione l’orizzonte sociale di riferimento, né è capace di mettere in discussione se stesso, se non virtualmente come soggetto autonomo.
È necessario, quindi, a che gli individui fabbricati dalla società “investano” affettivamente il valore dell’autonomia, che essa sia già comparsa come significato immaginario sociale, come valore sancito ufficialmente, creato, posto in essere dall’immaginario sociale operante nella società in questione.
Per caricare affettivamente o ‘investire’ la libertà e la verità, occorre che esse siano apparse come significati immaginari sociali. Perché possano emergere individui che tendono all’autonomia, è necessario che il campo sociale-storico si sia già auto-alterato in modo da aprire uno spazio di interrogazione senza limiti (…). [6]
Ma ciò può avvenire solo in una società autenticamente democratica, in cui tutto il corpus sociale è chiamato, di fatto, alla partecipazione alla res publica.
L’effettiva autonomia collettiva e individuale può, dunque realizzarsi solo ove sia vigente un’autentica democrazia o Kratos del demos, autogoverno effettivo di una collettività generalizzata. Le odierne democrazie, in quanto rappresentative, appaiono a Castoriadis, piuttosto delle oligarchie liberali, in cui la partecipazione dei più alla gestione della cosa pubblica, lungi dall’essere incoraggiata, è di fatto espressamente ostacolata.
3. La riflessione sul linguaggio
Anche nella riflessione sul linguaggio ritorna instancabilmente la nozione di immaginario sociale: anche il linguaggio, infatti, è creazione immaginaria, posizione inaugurale di immagini/figure/forme ad opera dell’immaginario istituente, attraverso cui tutto ciò che la società percepisce come reale o razionale, si mostra nel suo esser-proprio istituzione/creazione dal nulla [ex nihilo], non mero riflesso o immagine speculare dell’esser-così del mondo, del primo strato naturale.
Tuttavia, l’istituzione del dire, come anche del fare sociale, comporta sempre due dimensioni: una “identitaria” ed una “immaginaria”. La dimensione identitaria del fare sociale è rappresentata dal teuchein, quella del dire sociale dal legein.
Legein e teuchein sono necessariamente implicati nell’istituire sociale-storico, nella misura in cui
il fare/rappresentare sociale sempre presuppone e si riferisce ad oggetti distinti e definiti che possono esser raccolti a formare delle totalità componibili o scomponibili, definibili da proprietà determinate e tali che servano da supporto alle definizioni di esse. [7]
Teuchein e legein sono, cioè, le condizioni strumentali a che vi siano un fare e un dire comuni, medesimi per tutti i membri di una data società. L’istituirsi sociale, sebbene non possa dispiegarsi senza un fare e un dire comuni alla collettività, non ne è esaurito/ricoperto del tutto.
Il sociale-storico è, innanzitutto, il luogo in cui si materializzano i significati immaginari sociali, il cui ambito, costituendo un magma, non è riducibile all’insieme dei significati identitario-insiemistici, all’insieme, cioè, dei significati del linguaggio che soggiacciono ai principi logici di non contraddizione e di identità.
Un magma è ciò da cui si possono estrarre (o in cui si possono costruire) delle organizzazioni insiemistiche di numero indefinito, ma esso non può mai essere ricostituito idealmente per composizione insiemistica (finita o infinita) di queste organizzazioni. [8]
Accanto alla dimensione identitaria del linguaggio come codice o legein, insieme di regole e strutture grammaticali, vi è, quindi, la dimensione del linguaggio come lingua, magma inesauribile di significati, al cui interno è possibile ritagliare l’ambito che pertiene al codice, ma che non è possibile ridurre a quest’ultimo.
L’origine delle significazioni – comprese quelle riferite al reale e al razionale, come, ad es. cane e cerchio, così come all’origine della stessa designazione simbolica, in virtù della quale è messo il segno al posto dell’oggetto – è da rinvenire nell’immaginario radicale, come posizione inaugurale di immagini/figure/phantasmata sociali-storici a partire dai quali ogni relazione segnitiva, ogni legame, di per se stesso già istituito, tra significante e significato, acquistano un senso per la società che li ha posti in essere.
Non sono tanto e non sono solo, questo o quel segno, né ogni segno particolare, ad essere arbitrari, […] ma la relazione segnitiva come tale, il legein come tale e considerato nella sua totalità. [9]
Riconoscere il carattere arbitrario, perché istituito, del legein, presuppone l’abolizione della determinatezza come norma suprema. Infatti, all’istituzione del legein, che per Castoriadis è istituzione specifica di una certa società, quella greco-occidentale, è consustanziale a un certo modo di intendere l’essere in virtù del quale esso è omogeneo alla struttura del pensiero come logos.
Da venticinque secoli il pensiero greco-occidentale si costituisce, si elabora, si amplifica e si affina basandosi su queste tesi: essere significa essere qualcosa di determinato (einai ti); dire significa dire qualcosa di determinato (ti legein); e, beninteso, dire il vero significa determinare il dire e quanto si dice attraverso le determinazioni dell’essere o determinare l’essere attraverso le determinazioni del dire e, infine, constatare che le une e le altre sono la stessa cosa. [10]
Il pensiero filosofico ereditato, il pensiero greco-occidentale, per l’appunto, ha ignorato il significato di creazione umana o ontologica come creazione ex nihilo e come autocreazione, in quanto ha sostenuto l’impossibilità della generazione se non a partire da un che di antecedente. Infatti, osserva Castoriadis che, nel Timeo di Platone,
La creazione del mondo da parte del Demiurgo non è creazione, non è passaggio dal non essere all’essere, ma è regolata su un paradigma pre-esistente, predeterminato dall’eidos, che essa imita, ripete, riproduce. [11]
Il misconoscimento – da parte della logica-ontologia ereditata – del fatto che Caos, Abisso, Senza-Fondo costituiscono l’articolazione interna all’essere stesso, ha determinato l’impossibilità di comprendere l’ambito dell’Alterità e della novità non banale, se non avventurandosi al di là del pensiero ereditato e del suo linguaggio.
Questo ambito è rappresentato proprio dall’immaginario radicale, con cui va intesa la capacità originariamente formante e creatrice, all’opera nella società come immaginario anonimo e collettivo, e nell’individuo come immaginazione radicale.
La centralità dell’immaginario e dell’immagine si spiega in base all’indeterminatezza dell’essere: l’essere, referente ultimo del nostro linguaggio, delle nostre espressioni e finanche dei nostri desideri, è costitutivamente magmatico, stratificato in modo irregolare, e, in quanto tale, incapace di fornire un senso ultimo e definitivo alla nostra esistenza. L’immagine diviene, allora, il medium essenziale attraverso cui rapportarci al non-senso del reale.
Se l’essere è magma, si sottrae ad ogni pretesa di fornirne una comprensione ed una interpretazione esaustive ed implica la necessità di far ricorso ad una rete di significati, sistematicamente e coerentemente connessi tra loro da una determinata società. L’origine dell’ordine simbolico dei significati è, dunque, da rinvenire in una mancanza originaria e primordiale: quella di un accesso immediato e diretto all’essere, che rende vitale l’accesso mediato all’ambito delle significazioni immaginarie sociali per comunicare, agire, vivere in concerto con gli altri individui sociali.
4. La psiche come immaginazione radicale
Al bienno 1964-65 risale non solo l’elaborazione delle idee relative alla storia come creazione ex nihilo, alla società istituente e istituita, all’immaginario sociale, al sociale-storico come modo d’essere misconosciuto dal pensiero ereditato, bensì anche
la constatazione che lo psichismo umano non possa essere spiegato attraverso fattori biologici, né considerato come un automa logico. [12]
Psiche e società rivelano la specificità del loro essere nel fatto stesso di coesistere, pur essendo poli irriducibili l’uno all’altro. Contributo essenziale alla delucidazione critica del rapporto tra psiche e società, in vista del progetto d’autonomia, è apportato dalla rielaborazione dei postulati fondamentali della psicoanalisi ad opera di Castoriadis, all’indomani della decisione di interrompere la pubblicazione di Socialisme ou Barbarie e di dedicarsi ad una ricostruzione teorica che andasse ben al di là del marxismo e che chiamasse in causa tutto il pensiero ereditato.
Peso non secondario, nel passaggio di testimone dalla politica alla filosofia, ha avuto il riconoscimento che psicoanalisi e politica confluiscono sul terreno comune dell’autonomia dell’uomo. Infatti l’avvento del soggetto umano, in quanto soggetto autonomo, è ciò che caratterizza l’obiettivo del progetto psicoanalitico.
Freud proponeva come massima della psicoanalisi: “Dove c’era l’Es, l’Io deve divenire” […]. L’Io è qui, in prima approssimazione, il conscio in generale. L’Es, rigorosamente inteso come origine e luogo delle pulsioni (“istinti”), dev’essere preso in questo contesto come rappresentante dell’inconscio nel senso più ampio. Io, coscienza e volontà devono prendere il posto delle forze oscure che, “in me”, dominano e agiscono per me – mi agiscono […]. [13]
Il postulato freudiano indica, quale obiettivo psicoanalitico, l’instaurarsi di un “altro” rapporto del soggetto alle sue istanze psichiche; di un rapporto “diverso” tra coscienza e inconscio, che non veda né il dominio dell’inconscio sulla cosienza né della coscienza sull’inconscio; di un rapporto diverso tra lucidità e funzione immaginaria: in altri termini, l’avvento del soggetto umano, come caratterizzato da riflessività e capacità deliberativa.
Per riflessività Castoriadis intende
la possibilità di rappresentare se stesso come attività rappresentativa e di mettersi come tale in discussione; [14]
per capacità deliberativa di un soggetto umano
la possibilità di far entrare nei circuiti che condizionano i suoi atti i risultati del suo processo di riflessione. [15]
Se, quindi il soggetto umano e il suo avvento costituiscono ciò a cui mira il progetto psicoanalitico, quest’ultimo non è riconducibile al mero adattamento sociale degli individui, alla fabbricazione di individui automaticamente adeguati alla società e alle sue esigenze. Il soggetto umano è altro da un robot e da uno zombie incapace di mettere in discussione se stesso e l’istituzione sociale: piuttosto, esso va considerato come capacità emergente di accogliere il senso dell’interpretazione psicoanalitica, fornitagli dall’analista, e di farne qualcosa per sé riflettendoci.
È proprio nell’accoglienza (o nel rigetto) dell’interpretazione il soggetto si manifesta fonte non determinabile di senso, come capacità (virtuale) di riflessione e (re)azione. [16]
L’obiettivo della “riflessività” e della “capacità deliberativa” non è perseguibile attraverso una sterile teorizzazione dell’oggetto specifico della psicoanalisi, di cui l’attività analitica sarebbe mero riflesso. L’analisi è per Castoriadis attività che fa parlare direttamente l’analizzando, attività che egli definisce pratico-poietica: attività che non deriva da alcun sapere preliminare e che implica l’immissione di analista e di analizzando in un circolo, in cui non sono distinguibili un soggetto che opera l’analisi ed un oggetto che la subisce.
Alla luce di ciò, solo in un’accezione errata potremmo considerare da un lato, la psicoanalisi come scienza del suo oggetto e, dall’altro, il suo oggetto come oggetto.
Tuttavia è accaduto che l’attività psicoanalitica procedesse di pari passo con una volontà di delucidare il suo oggetto in termini universali, finendo nella rete delle aporie che derivano dalla pretesa di formalizzare oggetti-non oggetti, tra i quali la psiche ribelle alle determinazioni della logica dell’identità e dell’insieme, a quelle del pensiero logico-formale.
La psicoanalisi si trova così a dover fare i conti con una sorta di sdoppiamento di sé su due piani: quello dell’analisi, dove l’individuo, il paziente rimane irriducibile e non formalizzabile, e quello della teoria dove non viene riconosciuta questa irriducibilità.
Nonostante queste aporie proprie del modello d’interpretazione psicoanalitica, Castoriadis se ne è servito come di un modello teorico di critica dell’intero quadro del pensiero ereditato, oltre che di “esplorazione” dell’individuo, per quanto riguarda il suo nucleo fondamentale: la monade psichica.
Merito di Freud e della psicoanalisi, in genere, è stato quello di aver riconosciuto il ruolo primario dell’immaginazione, sebbene quest’ultima sia stata colta all’opera solo nel fantasma.
Per fantasma della psiche si intende
lo scenario cui è presente il soggetto e che raffigura, in modo più o meno deformato dai processi difensivi, l’appagamento di un desiderio e in ultima istanza di un desiderio inconscio. [17]
Freud scorge, quindi, tra fantasma e fantasia, da un lato, e desiderio, dall’altro, un rapporto sui generis, in virtù del quale il desiderio drammatizza, mette in scena nel fantasma un vissuto di soddisfacimento, che è stato interrotto dall’insorgenza di un bisogno. Proprio in quanto Freud e i suoi seguaci hanno colto l’immaginazione all’opera unicamente nel fantasma, che è un prodotto derivato, si sono come fissati ad uno stadio precedente dell’elaborazione della questione dell’immaginazione.
Così Freud scriverà che il fantasmare si riduce agli eventi successivi all’instaurazione del principio di realtà, e che precedentemente vi è sempre stata realizzazione “in guisa allucinatoria del pensato (desiderato)”, cioè del rappresentato. [18]
In altre parole, Freud ha pensato il problema dell’immaginazione e del fantasma, sul modello del prodotto dell’immaginazione, che pressato dalla pulsione o anche dal bisogno, giunge ad occultare una mancanza col riprodurre la rappresentazione di una scena di soddisfacimento, fornita di un antecedente in una percezione reale.
In questo modo è stata occultata la creatività della psiche, il suo essere capacità originariamente formante a partire da nessun dato naturale. Il carattere originariamente “poietico” dell’immaginazione della psiche è stato appiattito sul modello di un evento di soddisfacimento accaduto realmente, appartenente, quindi, al passato effettivo della storia del soggetto psichico in questione.
Se lo stato di tranquillità psichica – cui Freud fa riferimento e nel quale ciò che era desiderato (rappresentato) era ipso facto realizzato in guisa allucinatoria – è stato psichico, allora esso esiste necessariamente come rappresentazione e la sua interruzione da parte di un bisogno interno o dall’urgenza vitale viene messo in discussione da questa stessa rappresentazione. In altre parole, se la psiche è in primis immaginazione, essa crea immagini/figure/forme che non ripetono il già vissuto e che, di più, disconoscono l’urgenza vitale dei bisogni.
Quindi, più che mettere in scena un vissuto di soddisfacimento già effettivamente accaduto (in tal caso l’immaginazione della psiche sarebbe mero riflesso del reale), la psiche cerca di far ritorno ad uno stato di quiete psichica, di beatidudine, che è, a ben vedere, solo un’immagine elaborata in modo differito e retrospettivo dal desiderio della psiche medesima.
Questo stato primigenio, in quanto stato psichico, esiste necessariamente come rappresentazione, dove rappresentazione non significa ri-presentazione di uno stato effettivamente accaduto e precedente, bensì posizione inaugurale di una immagine, di una rappresentazione a partire da una fondamentale inexistentia del “percetto”, di una fondamentale assenza di ciò che è percepito.
Quando Freud scrive, nella Metapsicologia, che solo in quanto la pulsione è ancorata ad una rappresentazione possiamo apprendere qualcosa di essa, egli si riferisce ad una rappresentazione di cui la pulsione necessita come delegato presso la psiche e che quest’ultima attinge dal fondo di una riserva di rappresentazioni originaria, primordiale.
In definitiva, è la psiche, come formazione e immaginazione, a presiedere ad ogni organizzazione della pulsione, anche della più primitiva.
La psiche è certo “ricettività di impressioni”, capacità d’essere affetta da…; ma, inoltre, dal momento che questa ricettività delle impressioni da sola non produrrà mai nessun risultato, la psiche è soprattutto insorgenza della rappresentazione come modo d’essere irriducibile e unico, nonché come organizzazione di qualcosa entro e attraverso la sua raffigurazione, la sua “messa in immagine”. [19]
Ciò che del desiderio della psiche resta irrealizzabile al di là di ogni fantasmatizzazione, allucinazione, rappresentazione e capacità immaginativa radicale, è il recupero dell’irrapresentabile di uno stato primigenio, in cui il desiderio ancora non si articolava come tale e in cui la ricerca di senso era assoluta e totalizzante, il prima non raffigurabile in un’immagine, seppur originaria, della separazione/rottura della monade psichica.
Una volta che la psiche ha subito la rottura del suo “stato monadico”, impostale dall’”oggetto”, dall’altro, dal corpo proprio, è per sempre decentrata rispetto a se stessa […]; La psiche è il proprio oggetto perduto. [20]
Il ritorno a sé sarà ciò a cui mirerà la psiche a partire dalla rottura del suo essere monade, sottraendosi ad una totale alterazione/deformazione ad opera della società e attraverso ciò che essa istituisce. Ciò, ancora una volta, pone l’accento sulla polarità non componibile, non di individuo e società, bensì di psiche e società. Unico contraltare dell’istituzione sociale è la psiche, in virtù della radicalità della sua immaginazione.
5. Psiche e società
L’immagine di un’originaria pienezza mitica, da cui il desiderio della psiche presume di provenire e che il desiderio assume come proprio paradigma, modello a cui conformarsi, impedisce al desiderio stesso di aprirsi del tutto al tessuto dei valori istituiti, mettendo a repentaglio la sua stessa sopravvivenza.
Radicalmente inadatta alla vita, la specie umana sopravvive creando la società e l’istituzione. È quest’ultima che permette alla psiche di sopravvivere imponendole un’altra fonte e un’altra modalità del senso: la significazione immaginaria sociale, l’identificazione mediata ad essa (e alle sue articolazioni), la possibilità di ricondurre tutto a tale significazione. [21]
Dal punto di vista psichico, la socializzazione della psiche, la sua trasformazione in individuo sociale, ha una sua peculiare modalità nel processo di sublimazione, che consiste
in una ripresa da parte della psiche delle forme, eide, socialmente istituite e dei significati che esse implicano, cioè nell’appropriazione del sociale da parte della psiche, mediante la costituzione di un’interfaccia di contatto tra mondo privato e quello pubblico o comune. [22]
Ciò implica, da un lato, la psiche come immaginazione, possibilità di porre/vedere questo al posto di quello, di vedere al posto del proto-senso del suo essere monade, il senso offerto dalle significazioni immaginarie sociali; dall’altro lato, il sociale-storico come immaginario sociale, cioè come posizione di forme e significati che la psiche non può far essere.
Ciò che la psicoanalisi, a cominciare da Freud, ha ignorato, secondo Castoriadis, è stato il contenuto sociale-storico della sublimazione. Un unico e sempre uguale processo non può rendere ragione di istituzioni tanto diverse tra loro, quali il lavoro e l’ordine, il danaro e la pittura. È la società a rendere obbligatori per gli individui sociali quelli che divengono oggetti di sublimazione, con esclusione di altri. Non può esservi fabbricazione dell’individuo sociale, se non in quanto gli oggetti di sublimazione sono già stati istituiti dalla società istituente.
Nonostante il fatto che la socializzazione della psiche sia necessaria a che possa sopravvivere il suo supporto vivente e la psiche medesima, psiche e società rimangono irriducibili l’una all’altra.
L’istituzione non può assorbire la psiche come immaginazione radicale, e d’altra parte ciò fornisce una condizione positiva dell’esistenza e del funzionamento della società. [23]
La rappresentazione e, in generale, l’immaginazione radicale, che è a fondamento dello psichico, escludono di per sé la possibilità del medesimo, del comune, nella misura in cui sono, nel loro esser-proprio, insorgenza dell’Alterità, insorgenza, cioè, di figure, immagini, significati altri da quelli socialmente riconosciuti.
La società, dal canto suo, si auto-istituisce sempre entro una chiusura, ovvero ogni società è questa e non un’altra istituzione, che fa essere questo e non un altro magma di significati immaginari, in questo e non in un altro modo.
Ciò non toglie che psiche e società siano in un rapporto di interdipendenza dell’una all’altra: infatti, da un lato, la creazione di un mondo di cose esiste perché c’è follia/creatività della psiche, dall’altro, è in virtù del fatto che siamo del tutto immersi nel sociale-storico, che possiamo mirare al di là di ogni istituzione, ad una verità altra da quella sancita ufficialmente.
All’interrogativo che verte sulla possibilità di rinvenire una valida alternativa all’opposizione tra creatività della psiche ed esigenze imperiose della realtà, tra attività psichica e passivo adeguamento della psiche alla realtà sociale, tra mondo privato e pubblico, tra patologia e normalità, Castoriadis risponde:
I due percorsi […] sono essenziali, ineliminabili, irriducibili, indissociabili. Il primo, partendo dall’ideogenesi e dalla koinogenesi, mostra il radicamento della cosa, della percezione, del mondo, della logica, del pensiero, al tempo stesso nel magma rappresentativo della psiche e nell’istituzione sociale-storico […]. E l’altro percorso ritorna instancabilmente su tutti questi punti per interrogarli in un altro modo […]; entro e attraverso le differenze e le alterità dei mondi privati e dei mondi sociali-storici, esso tenta di mirare a un significato ‘mondo’ e a un mondo, tenta di mettere alla prova la sua istituzione e ogni istituzione data […].[24]
In altri termini, se da un lato – ripercorrendo l’itinerario che dalla monade psichica ha condotto alla fabbricazione dell’individuo sociale, e quello che vede l’istituirsi del sociale come orizzonte comune, collettivo di riferimento – possiamo scorgere l’immaginario come radice ultima di ciò che per noi, come soggetti psichici o come individui sociali, e per la società in cui siamo immersi, è indubitabile, vitale, irrinunciabile, perché dotato di senso; dall’altro lato, proprio il riconoscimento del radicamento di ciò che è presunto essere indubitabile nell’immaginario radicale apre uno spazio di possibilità di una sua riconsiderazione, di una sua interrogazione e di una sua messa in discussione perpetue.
6. L’eredità di Cornelius Castoriadis
Il contributo fondamentale che la lezione propria di Castoriadis ha apportato all’intero quadro del pensiero filosofico occidentale verte, in ultima istanza, sulla necessità di guardare alla filosofia come a un fare pensante o a un pensiero storico, come a una teoresi mai scissa dalla prassi, che si commisuri all’istituzione sociale e che, allo stesso tempo, ne sia l’interrogazione permanente, mai paga di uno sguardo che si presuma fisso e definitivo sulle cose., sul mondo, sul significato di ciò che ha valore, di ciò che è vitale e irrinunciabile.
Certamente vitale e irrinunciabile è, altresì, avere certezze e verità come appigli sicuri che evitino il naufragio nel mare dell’a-sensato, di ciò che è avvertito come rischio e pericolo. Ma altrettanto vitale e irrinunciabile ha da essere la possibilità di sempre nuove aperture, di sempre nuovi investimenti affettivo-cognitivi su valori, verità, immagini altre, rinnovate o innovative rispetto a quelle oramai consolidatesi. E ciò vale anche per l’ambito del pensiero filosofico.
Se fosse possibile determinare in modo esaustivo l’essere del mondo e l’essere che noi siamo, la passione del conoscere si esaurirebbe nel pieno possesso dell’oggetto o della cosa, sottratta ad ogni possibilità di auto-alterazione e trasfigurazione di sé.
Perché ci sia conoscenza è necessario che almeno qualcosa dell’essere sia conoscibile, poiché palesemente un soggetto, quale che sia, non potrebbe mai conoscere nulla di un mondo assolutamente caotico. Ma è necessario anche che l’essere non sia “trasparente” e neppure conoscibile in modo esaustivo. [25]
Oggetto d’investimento affettivo del campo della conoscenza, deve essere, in ultima istanza, un’idea di verità altra da quella impostaci fino ad ora dalla filosofia tradizionale, un’idea di verità non come oggetto bensì come oggetto/non-oggetto, fonte inesauribile del vero, linfa vitale della passione del conoscere o del pensiero come Eros.
L’unico valore, che per Castoriadis deve rimanere immutato e deve essere salvaguardato e investito come imperituro, è il confronto con l’Alterità, sia essa rappresentata da società altre dalla propria, da individui sociali o da soggetti psichici altri da quelli che noi siamo.
È in rapporto a questo valore che uomini e società sono chiamati a trasfigurarsi in vista di un altrove migliore e ciò è realizzabile grazie alla potenzialità immaginativa che ciascuno di essi serba in sé.
Presentificazione più evidente dell’insorgenza dell’Alterità, l’immaginario sociale e l’immaginazione individuale costituiscono un possesso che non può esaurirsi in se stesso, ma che si impone anche come un compito e una promessa di mutamento e trasformazione.
Note
[1]Paul Berman, Cornelius e l’eresia permanente, MicroMega, 4/1999, p. 256.
[2] Prefazione all’edizione originale ne L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995, Traduzione di Fabio Ciaramelli e Fabrizio Nicolini, Introduzione di Pietro Barcellona, pp. XXXVII-XXXVIII.
[3] L’istituzione e l’immaginario [1965] ne L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, trad. it. di Currado, a cura di Fabio Ciaramelli, con postfazione di F. Ciaramelli, Dedalo, Bari 1998, pp. 53-54. Questo saggio costituisce il capitolo terzo della prima parte, non compresa nell’edizione italiana, de L’istituzione immaginaria della società.
[4] Prefazione dell’autore all’edizione originale, cit., p. XXXVIII.
[5] L’istituzione e l’immaginario [1965], cit., pag. 272.
[6] Potere, politica, autonomia, trad. di F. Ciaramelli, MicroMega, n.5/1989, pp. 145-146.
[7] L’istituzione immaginaria della società, cit., p. 81.
[8] Ibidem, p. 235.
[9] Ibidem, p. 106.
[10] Ibidem, p. 73.
[11] Ibidem, p. 43.
[12] La logica del magma in Volontà, 1/1992, p. 58.
[13] Il progetto dell’Autonomia ne L’enigma del soggetto, cit., p. 165.
[14] Ibidem, p. 119.
[15] Ibidem, p. 121.
[16] Ibidem, p. 100.
[17] Laplanche e Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, a cura di L. Mecacci e C. Puca, con prefazione di D. Lagache, Laterza, voll.2, Bari 1998, vol.I, p. 180.
[18] L’istituzione immaginaria della società, cit., p. 156.
[19] Ibidem, p. 155.
[20] Ibidem, p. 173.
[21] Istituzione della società e religione (1982) ne L’enigma del soggetto,cit., p. 9.
[22] L’istituzione immaginaria della società, cit., p. 193.
[23] Ibidem, p. 205.
[24] Ibidem, pp. 228-229.
[25] Passione e conoscenza, ne La passione del conoscere, ed. a cura di Lorena Preta, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 110.
KARL OTTO APEL
VITA
Nato a Düsseldorf nel 1922, Karl Otto Apel si laurea nel 1950 a Bonn. Nel 1960 consegue il dottorato in filosofia all’Università di Mainz. Come professore ordinario insegna nelle Università di Kiel (1962-69), Saarbrücken (1969-72) e presso la Goethe-Universität di Francoforte (1972-90), di cui è professore emerito. Ha tenuto lezioni al Collège International de Philosophie di Parigi, di cui è membro titolare dal 1972, al Centro de Investigationes Eticas di Buenos Aires, negli Stati Uniti (Center for the Humanities, Wesleyan University; Purdue University, West Lafayette; New School for Social Research, New York; Yale University, New York) e in Italia (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli; Università di Roma). Ha ricevuto il Premio Internazionale Galileo Galilei del Rotary Club Italiano (1988) e il Premio Internazionale di Filosofia Federico Nietzsche (1989).
OPERE
Transformation der Philosophie, Bd. 1. Sprachanalytik, Semiotik, Hermeneutik, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1973, Bd. 2. Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft, ibid. 1976, trad. it. parz., Comunità e comunicazione, Torino, 1977; Der Denkweg von Charles Sanders Peirce. Eine Einführung in den amerikanischen Pragmatismus, Frankfurt /M., 1975; traduzione e introduzione a Ch. S. Peirce, Zur Entstehung des Pragmatismus, Frankfurt /M., 1967 e ID. Vom Pragmatismus zum Pragmatizismus, ibidem, 1970; Sprachpragmatik und Philosophie, Frankfurt /M., 1976; Neue Versuche über Erklären und Verstehen, Frankfurt /M., 1978; Die Erklären-Verstehen Kontroverse in transzendental-pragmatischer Sicht, Suhrkamp, Frankfurt /M., 1979; Praktische Philosophie-Ethik I. Reader zum Funk-Kolleg, Frankfurt /M., 1980; Funk-kolleg Praktische Philosophie-Ethik: Dialoge, 2 voll., Frankfurt /M., 1984; Funk-Kolleg Praktische Philosophie-Ethik: Studientexte, 3 voll., Basel, 1984; Diskurs und Verantwortung. Das Problem des Übergangs zur postkonventionellen Moral, Suhrkamp, Frankfurt /M., 1988; Il logos distintivo della lingua umana, Napoli,1989; Zur Rekonstruktion der praktischen Philosophie, Gedenkschrift für Karl-Heinz Ilting, Frommann-Holzboog, Stuttgart, 1990; Penser avec Habermas contre Habermas, Paris, 1990; Verità e comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 1992; Per una ermeneutica critica, Torino, 1992; Zur Anwendung der Diskursethik in Politik, Recht und Wissenschaft, Suhrkamp, Frankfurt /M., 1992.
PENSIERO
Al centro della riflessione di Apel c’è la “trasformazione semiotica del kantismo“: l’a priori kantiano, quale orizzonte trascendentale di senso e luogo di costituzione dell’esperienza, non va inteso come struttura della mente, ma come linguaggio. Questo, però, non si esaurisce nelle varie lingue storiche, ma può funzionare perché sottende un a priori che è la comunità dialogica dei soggetti parlanti. Esso si mostra nel fatto che nessuno può usare un linguaggio e fare esperienza senza sottostare alle regole sociali della comunicazione. La proposta di Apel, però, assume una precisa connotazione etica: poiché la comunicazione è spesso impedita da fatti psicologici, ideologici e sociali, si tratta di ampliarla il più possibile con strumenti politici, con la critica dell’ideologia sviluppata dalla Scuola di Francoforte e da Habermas o con la psicoanalisi. Autore di saggi raccolti in Trasformazioni della filosofia (1973) e in Discorso di responsabilità (1988). Secondo Apel, si tratta di pervenire ad una fondazione universale e razionale dell’agire partendo dall’analisi del linguaggio. In questo senso, egli tenta di coniugare la prospettiva trascendentale, propria della tradizione kantiana, con la cosiddetta svolta linguistica. Secondo Apel, chi parla avanza sempre di fatto pretese di comprensibilità (sulla base della correttezza grammaticale), di verità (in base ad un corretto rapporto semantico tra ciò che si dice e la realtà), di veridicità (come espressione linguistica non distorta di quello che è lo stato interno del parlante) e di giustezza (ossia di adeguamento alle norme della comunità dei parlanti). Queste pretese non possono non essere avanzate, se non altro, implicitamente, in qualunque atto linguistico: infatti, se non fossero avanzate, il parlante cadrebbe in quella che Apel chiama un’autocontraddizione pragmatica o performativa. Tale è, per esempio, il caso di uno che affermi: “dico che io non esisto”, questo enunciato produce una contraddizione pragmatica, in quanto il contenuto proposizionale di esso (“io non esisto”) contraddice l’atto stesso del dire. Infatti come sarebbe possibile che qualcuno parli senza esistere? L’insieme delle pretese, avanzate in ogni atto linguistico, forniscono dunque, secondo Apel, le condizioni formali minime per garantire, da punto di vista procedurale la comunicazione ideale. Tale comunicazione non è realizzata di fatto, ma funziona da principio regolativo delle comunicazioni che avvengono realmente: il rispetto di esso garantisce l’imparzialità della discussione e il raggiungimento di un’intesa e un consenso universali. Infatti, sono validi i princìpi e le norme dell’agire che vengono riconosciuti da chi argomenta in modo imparziale, ossia libero da interessi particolari. L’etica fondata su questi princìpi è pertanto valida per tutti gli esseri razionali, ma ha un carattere meramente formale, in quanto non descrive quali siano i contenuti della felicità, ma individua soltanto le condizioni formali per realizzare di comune intesa, in modo pacifico, i contenuti di una vita felice.
DANTE E VICO
Karl Otto Apel si è accostato alla storia del pensiero italiano per ragioni non puramente erudite o storiografiche, ricostruendo la linea di sviluppo della “idea” di lingua da Dante a Vico. Si tratta, come sottolinea Apel stesso, di una prospettiva che comporta l’abbandono o, almeno, la fuoriuscita da quadri storiografici lungamente invalsi e che hanno incentrato l’interesse sulle grandi problematiche ontologiche e gnoseologiche, relegando il linguaggio in una posizione settoriale – come del resto è accaduto anche nella filosofia classica tedesca. Ma così non può e non deve più essere dopo l’imponente “svolta linguistica” del nostro secolo che risulta sempre più determinante nel quadro complessivo della discussione filosofica, dal neopositivismo alla filosofia analitica, allo strutturalismo, su su fino all’ontologia e filosofia ermeneutica. Quella che viene messa in questione è la grande tradizione moderna tanto nel suo versante nominalistico, quanto in quello razionalistico e secondo il quale il linguaggio si riduce a un sistema di segni operativi sia pur nella molteplicità di varianti e di motivazioni di questa impostazione. Né d’altra parte, rispetto a questa concezione, si può considerare come alternativa adeguata e convincente la filosofia del linguaggio di carattere mistico-rivelativo che risale a Eckhart e a Böhme e che pure ha fatto sentire la sua presenza negli sviluppi della filosofia del linguaggio tra Sette ed Ottocento specialmente in Germania. L’unica ed autentica mediazione è invece rappresentata dalla tradizione umanistica del pensiero italiano che ha saputo raccogliere e sviluppare il nucleo centrale e vitale della filosofia del linguaggio classica o, se si preferisce, dell’accentuazione ciceroniana del momento dell’invenzione rispetto a quello del giudizio, sciogliendolo però dall’universalismo del latino a cui per secoli è apparso inscindibilmente collegato. Di qui la rilevanza dell’opera di Dante nel De vulgari eloquentia come scoperta ed affermazione della lingua nazionale o lingua materna; ma una scoperta che, a differenza di quanto è avvenuto nella grecità, non è più sincronica al formarsi del sapere filosofico, alla scoperta del logos, bensì si realizza in tensione rispetto a una cultura derivata e consolidatasi nell’orizzonte delle lingue classiche. Nella complessa traiettoria storica e teorica dell’idea di lingua che da Dante, attraverso umanesimo, rinascimento e barocco, giunge a Vico, spetta un posto centrale e cruciale proprio all’opera che, per un lato mette in luce retrospettivamente le potenzialità innovatrici di tale traiettoria e, per l’altro, come Apel sottolinea ripetutamente, presenta motivi di attualità rispetto al nostro tempo. Più esattamente, la posizione di Vico rappresenta la consapevolezza e la valorizzazione di momenti insopprimibili, fondamentali, ed in questo senso “trascendentali” della originaria inventività della lingua che per troppo tempo sono stati soffocati o emarginati da una concezione puramente “operativa” del linguaggio, le cui propaggini del resto non mancano di operare anche nella filosofia del Novecento. L’importante è comunque che Vico non deve essere appiattito o risolto in una generica rivalutazione di elementi antiilluministici o preromantici; al contrario, si tratta di cogliere la peculiarità (ed attualità) della sua concezione della lingua distinguendola nettamente dalle concezioni lirico-idilliache della lingua originaria come da qualsiasi riduzione del concetto umanistico di lingua al piano puramente estetico-pedagogico. La peculiarità di Vico è di aver dischiuso, con la scoperta dell’universale fantastico, quell’orizzonte di comprensione dell’originario mondo mitico del logos arcaico che è intrinsecamente comunicativo e socializzante poiché si incardina sulla simpatia dell’uomo con l’ambiente e realizza così un tessuto ermeneutico anteriore alla distanza segnata e richiesta dai processi intellettivi e matematizzanti; un tessuto costituito non soltanto da suoni, ma da gesti, da comportamenti rituali e formalizzanti, come si può constatare in molti casi del rituale giuridico religioso. Volendo cercare affinità storiche non è a Herder che si deve guardare, quanto piuttosto a Hölderlin con la sua sensibilità per il carattere mitopoietico della lingua, così come va sottolineato che Vico nella sua concezione della originarietà della lingua attinge a dimensioni anteriori e diverse da quelle rappresentate dalla tradizione biblica; in questo senso, anzi, per la sua stessa concezione delle età della lingua e dell’uomo è essenziale la consapevolezza della distinzione tra storia salvifica e storia profana, pur nel quadro di una visione provvidenzialistica complessiva. Vico dunque non si limita a riprendere, ma radicalizza e porta ad una svolta la tradizione umanistica del primato della topica, la concezione della metafora come chiave della comprensione poetica originaria del mondo, e questo non tanto negli scritti precedenti quanto nella Scienza Nuova dove si ha il superamento della concezione umanistica, in quanto la sapienza poetica originaria viene del tutto sciolta da qualsiasi connessione con le concezioni tradizionali di un semplice adombramento o ornamento di un sapere presupposto e dalla commistione con elementi mistici platonici o cristiani
Per questo si può considerare “trascendentale” ed attuale la concezione vichiana che condivide con il soggettivismo moderno l’affrancamento dallo stampo del latino medievale, ma non si chiude nel soggettivismo delle correnti predominanti nel pensiero moderno, bensì risale alle dimensioni intersoggettive della comunicazione linguistica e della sua istituzionalizzazione letteraria. Un trascendentale pertanto che non si contrappone affatto alla storicità interna del pensiero e del linguaggio, ma, al contrario, la rivendica ed evidenzia con la dottrina della circolarità tra filosofia e filologia e con la concreta lettura della tipologia ideale della storia dello spirito attraverso l’interpretazione della storia del linguaggio nella sua funzione non settoriale, ma fondativa rispetto al profilarsi delle diverse fasi e figure non solo della comunicazione, ma dell’intero costume e pensiero dell’uomo.
LA CONCEZIONE DELLA VERITA’ NELLA METAFISICA
Poiché quello della verità é uno dei problemi centrali della riflessione filosofica, Karl Otto Apel ritiene che si possano individuare nella storia del pensiero tre epoche diverse, in relazione a tre diversi paradigmi di verità: la verità come corrispondenza o adeguazione di conoscenza e mondo, la verità come certezza soggettiva della coscienza e, infine, la verità come corrispondenza di ordine semantico . Della dottrina della verità come “adaequatio” Apel rintraccia la fondazione in Aristotele e lo sviluppo consapevole in Tommaso d’Aquino . Due sono le difficoltà che ne hanno reso necessario l’abbandono: l’impossibilità di individuare come qualcosa di osservabile la differenza tra vero e falso e l’impossibilità da parte del soggetto conoscente di porsi in un terzo luogo, diverso dal soggetto e dall’oggetto, per coglierne la relazione di corrispondenza. Il secondo paradigma, prospettando la verità come certezza soggettiva, rappresenta, per Apel, la dissoluzione dell’ontologia tradizionale a vantaggio di una indagine gnoseologica . Se Platone rappresenta lo stadio preliminare del primo paradigma di verità ed elabora la prima dottrina consapevole del giudizio , Aristotele evidenzia una concezione ontologica forte della verità come corrispondenza . Il secondo modello di verità è l’espressione della moderna filosofia della coscienza da Cartesio ad Husserl. Al suo interno Apel distingue una teoria dell’evidenza, una teoria della coerenza e una teoria del verum-factum che da Vico giunge fino a Kant.
LA VERITA’ DA CARTESIO A HUSSERL
Nella teoria dell’evidenza – spiega Apel – ciò che conta è la presenza nella coscienza di dati soggettivi, senza che si possa verificare la loro corrispondenza con dati esterni : vero, in tal senso, è ciò che, cartesianamente, risulta chiaro e distinto all’io. Il terzo modello di verità, invece, ritiene che non tutto ciò che è presente alla consapevolezza dell’io risulta vero, ma solo ciò che costruiamo a priori. Secondo Apel, le scienze della natura intrattengono un rapporto privilegiato con la teoria della verità come corrispondenza, ma ignorano il concetto di verità che è in gioco nelle cosiddette “scienze umane” . Secondo Apel, Kant oscilla tra evidenza, coerenza e verità fattuale, perché non è né un filosofo razionalista, né un semplice empirista. Per Hegel, invece, la verità è la coerenza delle determinazioni all’interno della totalità dell’Idea. Con la crisi della filosofia teoretica determinata da Nietzsche, dal pragmatismo americano e dai filosofi postmoderni, tra cui Rorty e Feyerabend, entra in crisi anche l’idea di verità, ridotta, tra l’altro, a volontà di potenza. Husserl, per Apel, è stato l’ultimo rappresentante classico della filosofia della coscienza ed ha cercato di conciliare nell’idea di intenzionalità quale certificazione soggettiva di un dato oggettivo la teoria classica della corrispondenza e la teoria moderna dell’evidenza . Eppure, secondo Apel, la constatazione apparentemente pacifica di un dato di fatto presuppone sempre una interpretazione linguistica del mondo.
LA VERITA’ NELLA SEMIOTICA TRASCENDENTALE
Apel analizza il terzo paradigma delle teorie della verità, quello che prende atto della svolta linguistica operata dalla filosofia analitica. Per illustrare questo nuovo paradigma di verità, Apel istituisce un confronto tra Husserl, l’ultimo esponente della teoria dell’evidenza, e Tarski, il primo e più importante teorico della verità come coerenza semantica. Per conciliare queste due opposte esigenze e fondare una teoria trascendental-semantica della verità, secondo Apel, si tratta di prendere le mosse da Peirce . Questi, respingendo tutti gli esiti soggettivistici della teoria pragmatistica della verità, ha cercato di rintracciare un contesto a cui sia assicurata una validità pubblica non di tipo utilitaristico, ma accettata dalla comunità degli scienziati.Illustrando la teoria della verità come consenso quale si trova in Peirce e che anticipa la sua teoria trascendental-semeiotica o trascendental-pragmatica, Karl Otto Apel ne rintraccia delle anticipazioni in Aristotele, negli stoici e in Kant . Questo nuovo modello trascendental-semeiotico di verità, per Apel, deve costituire una sintesi tra la teoria della verità come evidenza soggettiva e la teoria della verità come coerenza e, soprattutto, deve difendersi dall’accusa di relativismo o da quella di ridurre il vero al consenso fattuale: essa, infatti, secondo Apel, concilia la coerenza dei concetti e l’evidenza dell’esperienza, all’interno di un processo di ricerca che regolativamente si approssima al consenso dei parlanti. Per replicare all’accusa di soggettivismo e relativismo formulata da Hoesle, secondo cui in questo paradigma la verità verrebbe ridotta ad un accordo, mentre dovrebbe accadere il contrario, Apel fa notare che la verità non è un possesso metafisico stabile o definitivo, ma un termine a cui la ricerca tende .Sulla linea di Peirce si colloca l’ “etica del discorso” di Habermas, con la differenza che Apel concepisce le precedenti teorie della verità come integrabili all’interno del paradigma consensuale. Infatti l’idea kantiana di una sintesi unificatrice della conoscenza può valere solo per il singolo individuo mentre tutto ciò che aspira ad essere vero in termini di coerenza, evidenza od esperimento deve attingere il consenso della comunità dei ricercatori . La teoria consensuale della verità, secondo Apel, trova applicabilità in tutte le forme del sapere filosofico e scientifico, anche in quelle conoscenze a priori che, come tali, non dovrebbero aver bisogno del consenso fattuale. Così la stessa teoria filosofica della verità come consenso deve poter essere vera a priori, prima e indipendentemente da ogni consenso, eppure deve essere sottoposta alla verifica del discorso e della critica. Essa non ha nulla di relativistico, in quanto ammette alcuni principi incontrovertibili, la cui negazione porterebbe ad una contraddizione.
ETICA DELLA COMUNICAZIONE
Apel illustra la problematica all’interno della quale ha elaborato un'”etica della comunicazione”, di cui è considerato il fondatore; egli nota come la scienza, da un lato, con le sue applicazioni tecniche, mette in campo questioni morali circa la valutazione delle conseguenze di azioni collettive, dall’altro lato, in quanto sapere avalutativo, esclude una fondazione razionale dell’etica. Nella situazione attuale, secondo Apel, di fronte alle sfide della crisi ecologica ed economica una macroetica che sappia fondare la responsabilità delle azioni si rende ancora più auspicabile. Se il singolo, oggi, è impotente di fronte ai problemi dell’umanità e si impone un’etica del discorso che sappia rendere consapevole la corresponsabilità degli uomini; se è necessario organizzare in discorsi le divergenze di opinione, per approssimarsi all’interesse generale e mettere a frutto il sapere degli esperti, diventa decisivo il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, che sottopongono all’attenzione dell’opinione pubblica soluzioni e idee, sviluppando in essa una coscienza critica mondiale. Apel non ignora l’uso distorto e strumentale dei mezzi di informazione, che, tra l’altro, esercitano un’influenza negativa sui paesi del Terzo mondo esaltando la violenza o il consumismo. Oggi la fondazione razionale di una “macroetica” universale è respinta non dal positivismo e dall’esistenzialismo ma da pensatori che si sono fatti fautori di un’etica particolare e storica, secondo la quale le norme sono sempre criteri storicamente determinati, che si inscrivono in tradizioni e culture particolari.
BRANI ANTOLOGICI E INTERVISTE
L’ETICA NELL’EPOCA DELLA SCIENZA
Negli anni sessanta scrissi per la prima volta un saggio sull’etica pubblicato più tardi con il titolo “Trasformazione della filosofia”. Il tema era quello della fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza. Il problema per me era che da un lato l’epoca della scienza e della tecnica aveva accresciuto smisuratamente la responsabilità degli uomini e reso per così dire a portata di mano la necessità di una nuova etica. Dall’altro, però, la scienza stessa faceva sembrare impossibile una fondazione razionale dell’etica, in primo luogo la scienza viene considerata come avalutativa; in secondo luogo la razionalità è determinata dalla scienza, la scienza ha per così dire colonizzato il concetto di razionalità. E dunque, poichè la razionalità stessa deve essere avalutativa, diventava impossibile dare una fondazione razionale della scienza e delle sue conseguenze. Ne risultava un paradosso: mentre da un lato la scienza con la sua applicazione tecnica aveva messo al mondo nuovi problemi enormi e in particolare quello di una etica delle conseguenze delle azioni collettive, dall’altro una fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza non sembrava più possibile. Questa è stata per me la sfida paradossale che mi ha spinto a fondare una etica della comunicazione. Il concetto decisivo per me allora è stato il seguente: certamente è corretto affermare che la scienza in rapporto al suo oggetto, sia necessariamente avalutativa – in questo senso almeno le scienze della natura sono necessariamente avalutative . Ma è falso pensare che gli scienziati nei rapporti tra loro – soggetti della scienza in rapporto ad altri soggetti della conoscenza scientifica- abbiano anch’essi necessariamente un atteggiamento avalutativo. Questo è del tutto sbagliato; al contrario, una condizione della possibilità della scienza è che vi sia almeno per la comunità degli scienziati una etica minima, fondamentale. Con questo non è naturalmente ancora data la base per una etica della comunicazione umana, però è possibile generalizzare questa impostazione, che muove dal modello della comunità della comunicazione tra gli scienziati, riflettendo sul fatto che la cosa ultima , ciò che nella filosofia non possiamo eludere, è il pensiero o l’argomentare. Ora se si considera il pensiero non come pensiero solitario , ma come argomentare – e questa mi sembra che sia la concezione che se ne ha nel nostro secolo – si vedrà che chiunque pensi seriamente fa già parte di una comunità della argomentazione ; più in particolare, fa parte sia di una comunità di comunicazione , reale, sia di una comunità ideale, anticipata in modo controfattuale: se egli argomenta seriamente, deve rivolgersi per così dire continuamente ad una comunità ideale della comunicazione in grado di controllare la validità dei suoi argomenti e in grado di fornire il consenso alle sue pretese di validità. Sotto questo profilo, sul piano di questa comunità della argomentazione, dobbiamo già sempre avere riconosciuto una etica: l’esistenza di determinate norme fondamentali della parità e della corresponsabilità di tutti i membri di questa comunità dell’argomentazione. Questo fu il modo in cui io allora trovai nel concetto della comunicazione o della comunità della comunicazione la via per uscire dal paradosso, dall’apparente impossibilità di fondare razionalmente l’etica nell’epoca della scienza. [Tratto dall’intervista “Etica della Comunicazione” , 24 aprile 1991, Napoli Vivarium]
TRADIZIONE E CONOSCENZA
In Essere e Tempo non si parla così tanto di linguaggio come nel secondo Heidegger, diciamo ad esempio nella Lettera sull’umanismo , dove Heidegger dice che il linguaggio è la casa dell’Essere e la dimora dell’essenza umana e dove egli si richiama anche a Humboldt. Però mi sembra che Heidegger già in Essere e tempo ha parlato della esplicazione pubblica della nostra comprensione del mondo ed abbia con questo inteso l’esplicazione linguistica e che in questo modo abbia già superato la fenomenologia eidetica del suo maestro Husserl che era orientata prelinguisticamente. Direi perciò che la fenomenologia in Essere e Tempo subisce una svolta ermeneutico-linguistica. Con questa svolta Heidegger per così dire si incontra per così dire con la svolta pragmatica della filosofia analitica del linguaggio e quindi con il secondo Wittgenstein, come ho già avuto modo di accennare. Lo si vede da alcuni passi che io ho già richiamato, quelli in cui Heidegger in riferimento al problema del mondo esterno perviene agli stessi risultati di Wittgenstein, quelli in cui egli rigetta il problema se c’è effettivamente un mondo esterno e la necessità di una prova del mondo esterno, perché la stessa domanda è mal posta, da cui risulta che egli si lascia guidare dalla esplicazione linguistica della nostra comprensione del mondo, proprio come il secondo Wittgenstein. Lo stesso si vede quando Heidegger dice che non è adeguato dire che noi percepiamo dei rumori, piuttosto noi percepiamo la motocicletta che passa o il picchio che batte. Egli ci vuole dire che tematizzare qualcosa nella nostra coscienza, poniamo rumori, dati di senso oppure rappresentazioni, è cosa che richide uno sforzo particolare, perché in questo caso dobbiamo oggettivare un oggetto particolare che è diverso dall’oggetto che noi oggettiviamo normalmente. Questo oggetto che noi oggettiviamo normalmente non è una semplice presenza nel mondo, ma, come dice Heidegger, qualcosa che è alla portata di mano, cioé che si incontra in un contesto pratico del mondo della vita, in una significatività e in una determinata appagatività. Qui Heidegger si incontra àncora una volta con l’analisi dei giochi linguistici di Wittgenstein. Ciò lo si può mostrare in concreto, direi però che tendenzialmente tra l’analisi linguistica di Wittgenstein e l’ermeneutica del linguaggio di Heidegger si rileva una certa differenza. Wittgenstein è sempre sulle tracce della mancanza di senso, delle insensatezze della filosofia tradizionale. A lui interessa sempre in primo luogo smascherare le questioni insensate della filosofia, per mostrare alla mosca la via per uscire dalla bottiglia. In Heidegger piuttosto l’accento è posto sul mostrare che si vive già sempre in un mondo interpretato, che c’è un mondo che è già determinato dalla tradizione e, come poi dirà, dalla storia dell’Essere. Su questo punto Heidegger compie una trasformazione del suo concetto di verità. In Essere e Tempo egli ha detto che noi ci troviamo già sempre in un mondo della vita che è aperto dall’essere-nel-mondo. In seguito egli può dire che il fatto di questa apertura del mondo proviene da una illuminazione, da uno svelamento del senso che è sempre al contempo anche nascondimento di senso e che lo svelamento è un evento nella storia dell’essere. Quindi ora per Heidegger l’accesso al mondo viene a dipendere dalla storia dell’Essere e questa accesso, questa illuminazione del senso dell’Essere nella storia dell’Essere si articola poi per Heidegger nei linguaggi concreti della nostra storia. L’accento giace per lui nel fatto che noi da questo punto di vista siamo dipendenti dalla tradizione e dal linguaggio alto, i quali hanno reso possibile la nostra comprensione del mondo.
LA RIFONDAZIONE DELLA MORALE
Partendo dalla constatazione che qualsiasi contestazione razionale presuppone “l’inaggirabilità della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso”, Apel arriva a concludere che la fondazione ultima in filosofia è possibile tutte le volte che altrimenti “il gioco linguistico dell’argomentazione” risulterebbe impossibile.
E questo è il caso della fondazione riflessivo-trascendentale a cui Apel fa riferimento come modello specifico della filosofia:
Su questo riconoscimento riflessivo dell’inaggirabilità del punto di vista della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso, poggia la possibilità di rispondere non solo alla domanda iniziale “perché mai essere razionali?”, ma anche alla nostra domanda iniziale “perché mai essere morali?”. Se si condivide un concetto di fondazione orientato in senso logico-formale, risulta, come noto, impossibile offrire a questi due interrogativi una valida risposta – interrogativi affatto cruciali per la questione relativa alla possibilità di una morale post-convenzionale nella moderna crisi adolescenziale (Dostoevskij e Nietzsche). Come si afferma a ragione, presupponendo la logica apodittica obiettivabile e formalizzabile, ogni risposta dovrebbe già presupporre ciò che deve venir fondato (il riconoscimento delle norme di ragione) e finirebbe cosí in una petitio principii. Perché, al contrario, in ogni fondazione intesa in senso logico-apodittico, si deve già presupporre proprio la ragione sotto forma di norme del discorso? A questa domanda la fondazione ultima pragmatico-trascendentale risponde tramite stretta riflessione sulle condizioni inaggirabili di possibilità della validità dell’argomentare (del pensiero!).
Per questa ragione, confrontandomi con il “razionalismo critico”, che dichiara impossibile in linea di principio ogni “fondazione ultima” in filosofia, formulai il criterio per una fondazione ultima nel modo seguente: “Se non posso contestare qualcosa senza cadere in una auto-contraddizione attuale [= performativa] ed insieme non posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-formale, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali dell’argomentazione, che devono esser state già sempre riconosciute, affinché il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso” (Apel 1975a; v. anche Kuhlmann 1985). La mia formulazione dimostra chiaramente che il metodo riflessivo-trascendentale della fondazione ultima, specifico a mio parere della filosofia, tiene conto fin dall’inizio dell’aporia in cui si incorre muovendo dal concetto, improntato sulla logica formale, dell’argomentazione come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (deduzione, induzione o abduzione). Non le incombe quindi obbligo alcuno di confutare il cosiddetto “trilemma di Münchhausen” (o regresso all’infinito o petitio principii o dogmatizzazione di una premessa assiomatica), in cui cadrebbe ad avviso di Hans Albert (Albert 1968, pp. 11 ss.) ogni tentativo di fondazione ultima. Inoltre, andrebbe sottolineato che il metodo riflessivo-trascendentale, in quanto linguistico-pragmatico, non fa neppure ricorso, nel senso della classica filosofia trascendentale, ad una evidenza, esente da interpretazione, della coscienza dell’io. Essa risale piuttosto all’evidenza paradigmatica del gioco linguistico, nel quale può venir costruita l’auto-contraddizione performativa insita nella contestazione dei presupposti in questione; come ad esempio quella seguente: “io asserisco con ciò come intersoggettivamente valido (ovvero, come liberamente accettabile da ogni partner del discorso) il fatto che io non debba riconoscere la norma della libera accettabilità delle asserzioni”. […] È chiaro quindi che anche noi intendiamo questa forma della fondazione ultima come alternativa alla derivazione delle norme fondamentali dell’etica da qualsivoglia fatti. Non si tratta qui di esibire un fatto nel mondo, per derivare da esso qualcos’altro – una norma fondamentale – tramite obiettivabili operazioni logiche; si tratta bensí di un ricorso riflessivo al riconoscimento già sempre avvenuto di norme fondamentali in quanto tali (quindi in quanto dover-essere!). Detto altrimenti, nella fondazione ultima pragmatico-trascendentale (della filosofia tanto teoretica quanto pratica) non ha luogo nessun ricorso fondativo a fatti fondamentali né ontologici né antropologici (come spesso viene ipotizzato), tali fitti vengono bensí introdotti in modo euristico, quali candidati per il test riflessivo della fondazione ultima. Il test consiste tuttavia in un esperimento di pensiero, con cui viene dimostrata – in modo strettamente riflessivo – l’incontestabilità senza auto-contraddizione performativa. [Etica della comunicazione]
L’ETICA DEL DISCORSO E LE SUE NORME
Apel contrappone al relativismo la convinzione che per poter esprimere qualsiasi tesi, compresa quella relativista, sia necessario riconoscere e accettare le norme del discorso. Su di esse poi è possibile fondare un’etica razionale. Ma alla fine egli deve ammettere che fondare una scelta per il bene sulla sola forza della ragione rimane una tesi problematica e difficile da sostenere:
L’idea stessa di una decisione fra le due alternative di fondo […] risulta in vero intelligibile solo presupponendo che già si possa argomentare (pensare!). Ma ciò presuppone a sua volta il già avvenuto riconoscimento delle norme del discorso (Apel 1973, pp. 31l ss.). Su questo riconoscimento riflessivo dell’inaggirabilità del punto di vista della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso, poggia la possibilità di rispondere non solo alla domanda iniziale “perché mai essere razionali?”, ma anche alla nostra domanda iniziale “perché mai essere morali?”. Se si condivide un concetto di fondazione orientato in senso logico-formale, risulta, come noto, impossibile offrire a questi due interrogativi una valida risposta – interrogativi affatto cruciali per la questione relativa alla possibilità di una morale post-convenzionale nella moderna crisi adolescenziale (Dostoevskij e Nietzsche). Come si afferma a ragione, presupponendo la logica apodittica obiettivabile e formalizzabile, ogni risposta dovrebbe già presupporre ciò che deve venir fondato (il riconoscimento delle norme di ragione) e finirebbe cosí in una petitio principii. Perché, al contrario, in ogni fondazione intesa in senso logico-apodittico, si deve già presupporre proprio la ragione sotto forma di norme del discorso? A questa domanda la fondazione ultima pragmatico-trascendentale risponde tramite stretta riflessione sulle condizioni inaggirabili di possibilità della validità dell’argomentare (del pensiero!).
Per questa ragione, confrontandomi con il “razionalismo critico”, che dichiara impossibile in linea di principio ogni “fondazione ultima” in filosofia, formulai il criterio per una fondazione ultima nel modo seguente: “Se non posso contestare qualcosa senza cadere in una auto-contraddizione attuale [= performativa] ed insieme non posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-formale, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali dell’argomentazione, che devono esser state già sempre riconosciute, affinché il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso” (Apel 1975a; v. anche Kuhlmann 1985). La mia formulazione dimostra chiaramente che il metodo riflessivo-trascendentale della fondazione ultima, specifico a mio parere della filosofia, tiene conto fin dall’inizio dell’aporia in cui si incorre muovendo dal concetto, improntato sulla logica formale, dell’argomentazione come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (deduzione, induzione o abduzione). Non le incombe quindi obbligo alcuno di confutare il cosiddetto “trilemma di Münchhausen” (o regresso all’infinito o petitio principii o dogmatizzazione di una premessa assiomatica), in cui cadrebbe, ad avviso di Hans Albert (Albert 1968, pp. 11 ss.) ogni tentativo di fondazione ultima. Inoltre, andrebbe sottolineato che il metodo riflessivo-trascendentale, in quanto linguistico-pragmatico, non fa neppure ricorso, nel senso della classica filosofia trascendentale, ad una evidenza, esente da interpretazione, della coscienza dell’io. Essa risale piuttosto all’evidenza paradigmatica del gioco linguistico, nel quale può venir costruita l’auto-contraddizione performativa insita nella contestazione dei presupposti in questione; come ad esempio quella seguente: “io asserisco con ciò come intersoggettivamente valido (ovvero, come liberamente accettabile da ogni partner del discorso) il fatto che io non debba riconoscere la norma della libera accettabilità delle asserzioni”. La struttura riflessiva della fondazione, ora schizzata, in quanto relativa all’inaggirabile riconoscimento già sempre avvenuto delle presupposizioni dell’argomentazione, offre anche la possibilità di decifrare il richiamo di Kant all’”evidenza” del “fatto [non empirico] della ragione [pratica]”, con cui Kant, nella sua seconda Critica, suggella l’impossibilità, precedentemente ammessa, di una deduzione trascendentale della validità dell’imperativo categorico. Se infatti fosse possibile interpretare nel senso di un perfetto apriorico la struttura profonda della grammatica del discorso kantiano a riguardo di un “fatto” non empirico, allora non vi leggeremmo – come invece da altri affermato (Ilting 1972) – una variante della “fallacia naturalistica”, bensí un rinvio alla possibilità della fondazione ultima riflessivo-trascendentale. È chiaro quindi che anche noi intendiamo questa forma della fondazione ultima come alternativa alla derivazione delle norme fondamentali dell’etica da qualsivoglia fatti. Non si tratta qui di esibire un fatto nel mondo, per derivare da esso qualcos’altro – una norma fondamentale – tramite obiettivabili operazioni logiche; si tratta bensí di un ricorso riflessivo al riconoscimento già sempre avvenuto di norme fondamentali in quanto tali (quindi in quanto dover-essere!). Detto altrimenti, nella fondazione ultima pragmatico-trascendentale (della filosofia tanto teoretica quanto pratica) non ha luogo nessun ricorso fondativo a fatti fondamentali né ontologici né antropologici (come spesso viene ipotizzato), tali fatti vengono bensí introdotti in modo euristico, quali candidati per il test riflessivo della fondazione ultima. Il test consiste tuttavia in un esperimento di pensiero, con cui viene dimostrata – in modo strettamente riflessivo – l’incontestabilità senza auto-contraddizione performativa.
Pur avendo risolto la questione filosofica della fondazione ultima in forza di un atto di conoscenza riflessivo, non si è ancora risposto alla domanda seguente: chi ha raggiunto tale cognizione (il che non vale per tutti, dato che è indispensabile aprirsi a tale riflessione trascendentale), come ad esempio la cognizione che egli ha l’obbligo di agire moralmente, cioè che egli ha già sempre riconosciuto come moralmente vincolanti le norme fondamentali della giustizia, della solidarietà e della co-responsabilità in quanto norme fondamentali del discorso – questa persona filosoficamente avveduta tradurrà anche, in forza di una volontà buona, la conoscenza da lui cosí conseguita in decisioni pratiche (sia a livello di discorso argomentativo, sia anche a livello della prassi di vita)? A me sembra che solo con questo interrogativo si sia toccato il problema davvero inteso da Popper, quando egli parla della necessità di una decisione “irrazionale”, ma “morale”, a favore della ragione in forza di un “atto di fede” (Popper 1958, vol. 2, pp. 284 ss); e che qui l’etica del discorso giunga a toccare il limite del cognitivismo (Apel 1986b).
È in effetti difficile guadagnare in etica un aspetto razionale alla questione della motivazione, almeno nel caso in cui, diversamente dal Socrate dell’antichità classica e piuttosto nel senso del cristianesimo e di un Kant, si muova dalla convinzione che qualcuno possa compiere volontariamente e consapevolmente ciò che egli stesso è in grado di riconoscere come male. Qui, come parrebbe, rimane soltanto la possibilità di domandarsi, in termini di psicologia empirica, quale forza motivazionale abbiano davvero gli atti cognitivi etico-filosofici per la prassi comportamentale. Osserverei tra parentesi che il noto psicologo evolutivo e filosofo morale Lawrence Kohlberg è giunto a tal riguardo ad un risultato degno di nota. In base ai risultati dell’esperimento Milgram (in cui alcuni vennero invitati, in nome della scienza e della sua autorità, a somministrare ad altre persone scosse elettriche e, su comando, ad aumentarne vieppiú l’intensità, nonostante le simulate urla di dolore delle “vittime”), coloro i quali possedevano una competenza di giudizio morale di livello post-convenzionale si sarebbero dimostrati, secondo Kohlberg, piú pronti degli altri ad opporsi all’ordine impartito in base a ragioni di ordine morale. Anche da un punto di vista filosofico, comunque, sembra intuitivamente poco plausibile supporre che chi, ad esempio durante la crisi adolescenziale, si ponga seriamente la questione di una possibile giustificazione del dovere morale, comprenda ed accetti in termini cognitivi la risposta da noi sopra schizzata, non debba risultarne motivato anche nelle sue decisioni di rilievo pratico – sebbene ciò non garantisca una volontaria messa in atto di queste sue cognizioni. [Etica della comunicazione]
RAPPORTO FRA PRIMO E TERZO MONDO
Da una parte il primo mondo deve addossarsi la responsabilità anche degli altri, dall’altra esso deve evitare ogni forma di paternalismo e valorizzare le altre culture all’interno di norme di convivenza accettate da tutti e della necessità di cooperazione:
Nei tentativi volti a superare le barriere comunicative, che soprattutto i privilegiati sarebbero tenuti a compiere, si dovrebbe evitare di assumere un atteggiamento di tutela paternalistica. Sebbene l’etica del discorso consideri moralmente doveroso per i partecipanti alla comunicazione che essi difendano in modo avvocatorio anche gli interessi di coloro che ne sono esclusi, tuttavia gli interessi di questi ultimi andrebbero dapprima ermeneuticamente compresi; ed in tale sforzo ermeneutico i membri adulti di un altro mondo culturale non possono venir considerati come individui in stato di minore età e neppure come i futuri nati delle prossime generazioni.Né la pretesa di validità universale avanzata dall’etica del discorso esige in qualche modo che le varie forme di valutazione del mondo quotidiano, connesse con ideali di realizzazione della vita buona diversi da cultura a cultura, vengano livellate in un’unica gerarchia di valori valida per tutti gli uomini e teleologicamente orientata. Si tratta piuttosto, tramite regolazione discorsiva anche dei conflitti di valutazione a livello inter-culturale, di proteggere la specificità e pluralità delle forme di vita socio-culturali: di dare a tale pluralità tanto spazio quanto (e non piú di quanto) sia conciliabile con le norme di convivenza capaci di consenso e, al presente, anche con la cooperazione co-responsabile nella soluzione dei problemi dell’umanità. [Etica della comunicazione]
SUL FALLIBILISMO
Confrontandosi con le posizioni di altri filosofi tedeschi contemporanei, Apel si impegna in una forte confutazione del relativismo assoluto. Egli imposta il rapporto certezza-dubbio alla maniera di Agostino e insiste sulla possibilità di una “fondazione pragmatico-trascendentale” della morale (influenza di Kant), che parte dal diritto di tutti alla dignità dialogica, fondato sulla ragione. [Rorty è un filosofo americano di orientamento postmoderno, noto esponente di un relativismo molto accentuato, legato all’ermeneutica]:
Dagli anni 70 ho sostenuto che una fondazione ultima – una fondazione pragmatico-trascendentale della filosofia pratica e teorica – è possibile. Habermas è molto distante da tutto questo. Negli ultimi anni egli sostiene un principio senza restrizioni secondo cui “tutto è fallibile”. Da qui la nostra principale divergenza. Anch’io sono un fallibilista. Ma ad Habermas dico: il significato profondo del fallibilismo non può essere compreso se non si presume che almeno qualcosa non sia fallibile. Tra i giochi linguistici immaginati da Wittgenstein ve n’è anche uno in cui parliamo dei giochi linguistici in generale. Questo è il gioco linguistico trascendentale. Chi dice “Tutto è fallibile” rientra in questo gioco. Ma che cosa significa l’espressione “Tutto è fallibile”? Se non ci sono verità a cui si possano contrapporre delle falsità, non sarà possibile nessun discorso, nessun’affermazione, compresa quella secondo cui “tutto è fallibile”. Non posso dubitare se non presuppongo qualche certezza, qualche cosa che non può essere messo in dubbio. Tutti i giochi linguistici poggiano su paradigmi di certezza. Anzi, direi che è soprattutto il gioco del dubbio a presupporre certezze. Altrimenti il dubbio stesso diventa impossibile. Tra i presupposti dei giochi linguistici ce ne sono alcuni molto importanti che non possono essere negati senza cadere in gravi auto-contraddizioni performative. Per esempio, non posso dire, come fa Rorty, “non ho pretese di verità”, perché anche la sua è una pretesa di verità. Rorty risponde che non è vero, che la sua è solo conversazione. Mi spiace per Rorty, perché in questo modo sarà impossibile parlare e argomentare con lui. Visto che non ha nessuna pretesa di verità, sarà impossibile criticarlo. E sottrarsi alla critica è sleale. Cosí come è scorretto, invece di parlare con frasi compiute, rivolgersi a qualcuno con un “lalalà”: che senso ha parlare e discutere con lui? Se io chiedo a Rorty: “Di che cosa mi vuoi convincere? quale è la tua pretesa?” e lui risponde: “Non ho nessuna pretesa”, non vedo perché dovrei discutere con lui. Popper ha detto giustamente che la piú grande colpa di un filosofo è quella di non essere criticabile. Rorty è assolutamente impossibile da criticare. Per lui tutto è conversazione, non ci sono criteri, ragioni, pretese di verità. […] Tra le cose che non si possono negare, pena il cadere in una autocontraddizione performativa come quella appena descritta, ci sono alcune norme etiche fondamentali. Una di queste è quella secondo cui esiste un eguale diritto per tutti a poter comunicare e argomentare. Non ci devono essere restrizioni a questa norma: tutti abbiamo un identico diritto di parlare su ogni singolo problema. Un’altra norma è quella della eguale corresponsabilità nell’affrontare e risolvere i problemi. Io credo che esista una fondazione pragmatico-trascendentale che renda possibile l’etica. Questa è sempre stata la principale differenza tra Habermas e me. Nel suo ultimo grande lavoro Fatti e norme emergono però nuovi problemi e nuove divergenze. Io non posso essere d’accordo con la sua strategia di differenziazione dei discorsi (morale, giuridico e democratico), né con l’idea secondo cui il principio del discorso è moralmente neutrale: in questo modo egli distrugge l’”etica del discorso” che avevamo condiviso. Io continuo ad essere convinto – e non vedo buone ragioni per negarlo – che l’etica del discorso sia quella che informa le norme etiche fondamentali: chiunque sia impegnato in un’argomentazione deve avere dei principi e conoscere certe norme fondamentali, basate sugli eguali diritti e responsabilità di cui dicevo. In Fatti e norme, inoltre, Habermas pone il diritto allo stesso livello della morale. Non ci sarebbe un fondamento morale del diritto, perché entrambi starebbero allo stesso livello originario. Ancora. Per Habermas il principio del diritto sarebbe identico al principio della democrazia. Non sono d’accordo. Anch’io sono favorevolissimo alla democrazia, ovviamente. Ma non credo che la si possa porre allo stesso livello di originarietà e di universalità del diritto e della morale. Alcuni principi di fondo su cui si basa la democrazia possono essere criticati: per esempio, il principio maggioritario. È vero che ciò che oggi abbiamo di meglio è la democrazia. Ma che il principio maggioritario sia sempre giustificato è una questione aperta. Quanto all’etica, bisogna dire che ci sono due prospettive che non possono essere separate completamente, ma che comunque vanno distinte. Da una parte vi è la domanda relativa al come e al perché possiamo avere una vita buona o una vita felice. Dall’altra invece abbiamo un’etica della giustizia, il cui principio fondamentale afferma che tutti gli individui hanno lo stesso diritto di scegliere il proprio ideale di vita. È questo il livello dei diritti umani universali, che ci evita di cadere nello storicismo e nel relativismo: si tratta di accettare l’ineliminabile pluralità e differenza delle visioni morali garantendo a tutti il diritto alla libera scelta. [Il paradosso del fallibilista]
SAUL KRIPKE
A cura di Alberto Manicone
Saul Kripke nasce ad Omaha in Nebraska nel 1941.
Ha insegnato all’università di Princeton. Fin da piccolo, mostra uno straordinario talento e diventa celebre a soli 17 anni, dimostrando la completezza della logica modale qualificata (in particolare del sistema S5 di C.I. Lewis) applicando un metodo modellistico molto innovativo. Questo metodo prenderà poi il nome di “semantica dei mondi possibili”.
Negli anni successivi, Kripke utilizzò questo metodo espandendolo alla logica modale e alla logica intuizionistica e da tutto ciò, avendo nel frattempo influenzato la ricerca sul significato nelle lingue naturali, seguirono dibattiti filosofici sulle due nozioni di “possibile” e “necessario” e alla loro interpretazione nella semantica dei mondi possibili.
Nell’opera più importante di Kripke, Nome e necessità, l’autore si assume tutte le conseguenze filosofiche della sua semantica. Questo libro è il testo di tre conferenze tenute dall’autore a Princeton e messe poi su carta, come altri scritti kripkiani.
In questo libro, Kripke considera i nomi propri e nota come, a partire da Frege, abbia dominato quella che lui chiama la “teoria descrittivista”. Nella sua versione semplice, la teoria descrittivista afferma che ogni nome proprio è sinonimo di una descrizione definita: questa sarebbe stata l’opinione di Frege e Russell. Una delle tesi fondamentali di Kripke è che invece i nomi sono “designatori rigidi”. Un designatore rigido è un termine che si riferisce alla medesima entità in tutti i mondi possibili.
Ciò che si vuole dire, dicendo che il nome “Aristotele” si riferisce allo stesso individuo in tutti i mondi possibili, è che si riferisce allo stesso individuo in tutti i mondi possibili così come lo usiamo noi. L’idea di Kripke è che quando noi ci serviamo del nome “Aristotele” parlando di altri nomi, ci riferiamo sempre allo stesso individuo.
Se i nomi sono designatori rigidi non si può più sostenere che i nomi sono sinonimi di descrizioni definite perchè, salvo casi particolari, le descrizioni definite non sono designatori rigidi.
Ad esempio la descrizione definita “il maestro di Alessandro Magno” si riferisce, in ciascun mondo possibile all’individuo (se esiste) che ha la proprietà in quel mondo di essere stato unico maestro di Alessandro Magno; ma ovviamente l’individuo in questione non è lo stesso in tutti i mondi (di fatto il maestro di Alessandro Magno è stato Aristotele, ma avrebbe potuto benissimo essere qualcun altro).
Inoltre Kripke si scaglia anche contro il problema dell’identificazione attraverso i mondi possibili.
Questo problema dice: dato un individuo x appartenente ad un mondo M e dato un individuo y appartenente ad un mondo N, come facciamo a sapere se x e y sono lo stesso individuo? Quali sono le condizioni che x ed y devono soddisfare affinchè si sia autorizzati a dire che x è identico a y?
Per Kripke, questo è un falso problema in quanto condizioni non circolari per riconoscere uno stesso individuo in mondi diversi probabilmente non siamo in grado di formularle, ma non sono neppure richieste. L’idea che un individuo possa esistere in vari mondi possibili non ha bisogno di giustificazioni complicate perchè si fonda sulle nostre intuizioni preteoriche: per il senso comune è ovvio che le cose e gli individui avrebbero potuto avere proprietà in parte diverse da quelle che hanno di fatto.
Venedo alla ragione fondamentale per cui Kripke critica la teoria descrittivista (il cosidetto “argomento modale”) è che essa, in tutte le sue versioni, ci obbliga a considerare analitici, ossia necessari, enunciati che non lo sono.
Supponendo infatti che “Aristotele” sia sinonimo della descrizione definita “il maestro di Alessandro Magno”, allora i due enunciati seguenti sono sinonimi.
A) Aristotele, se è esistito, fu maestro di Alessandro Magno.
B) Il maestro di Alessandro Magno, se è esistito, fu maestro di Alessandro Magno.
B) E’ un enunciato vero in tutti i mondi possibili, ed esprime una verità necessaria. Se A) fosse effetivamente sinonimo di B), anche A) dovrebbe essere vero in tutti i mondi possibili ed esprimere una verità necessaria; ma l’intuizione ci dice che non è cosi: ci sono mondi in cui Aristotele è esistito ma non è stato maestro di Alessandro Magno.
Visto il fallimento della teoria descrittiva, Kripke per tentare di sfuggire alle difficoltà a cui dà luogo, propone di modificarla presentandola come una teoria della fissazione del riferimento. Cioè, invece di dire che un nome è sinonimo di una descrizione definita, si può sostenere che il contenuto descrittivo associato ad un nome N serve solo ad identificare, tra le entità del mondo reale, l’entità x cui N si riferisce; N poi continua a riferirsi a x anche quando è usato per parlare di altri mondi possibili.
Ma Kripke abbandona anche questa possibilità: infatti spesso noi usiamo un nome senza associare ad esso nessun contenuto descrittivo abbastanza specifico per poter identificare una singola entità.
Inoltre anche quando non è così, può accadere che l’entità in questione non sia quella cui il nome si riferisce.
Stabilito che la teoria descrittiva è errata anche per la fissazione del riferimento, allora che cosa fissa il riferimento? Secondo Kripke il fatto che un nome N, come io lo uso, si riferisca ad una certa entità x, dipende dal modo in cui il nome N mi è stato trasmesso. C’è stato all’inizio un atto di battesimo tramite il quale qualcuno ha conferito a x il nome N. Poi il nome N ha cominciato a diffondersi all’interno della comunità linguistica; in questo modo si sono formate varie catene di trasmissione del nome irradiantesi dall’atto di battesimo iniziale.
Se il nome N mi è arrivato attraverso una di queste catene che hanno come punto di partenza l’atto di battesimo, allora N, come io lo uso, si riferisce ad x, indipendentemente dal fatto che io sia o non sia in condizione di identificare descrittivamente x.
Kripke inoltre estende la sua analisi dei nomi propri ai termini di specie (“tigre”) e di sostanza(“oro”). Neanche in questi casi il riferimento è fissato dal contenuto descrittivo associato eventualmente dai parlanti ai termini in questione. Anche in questo caso, il riferimento è fissato piuttosto dall’esistenza di catene causali appropriate.
Oltre ad un breve saggio, Identità e necessità, del 1971, Kripke ha fornito in Wittgenstein su regole e linguaggio privato (1982) anche una nuova interpretazione dell’argomento contro il linguaggio privato di Wittgenstein che ha concepito come un’applicazione delle riflessioni sul “seguire una regola” delle Ricerche Filosofiche.
L’opinione generale è che questo libro abbia un rilievo teoretico più che di fedeltà al testo wittgensteiniano, anche perchè è lo stesso Kripke che ammette che “probabilmente Wittgenstein stesso non approverebbe”.
Secondo l’autore, la tesi di Wittgenstein è che la conformità di un tipo di comportamento a una regola non si può fondare sulla medesima regola ma deriva dal fatto che una determinata comunità denota quel comportamento come un’applicazione della regola.
GUSTAVO BONTADINI
Gustavo Bontadini (Milano 1903-1990) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica di Milano dove ha insegnato filosofia teoretica dal 1951 al 1973. Fra le sue opere principali va ricordato anzitutto il Saggio di una metafisica dell’esperienza (1935) dove già emerge una personale riflessione sulla struttura del reale e sugli ideali di vita che riguardano l’essere e l’agire dell’uomo. Seguirono una serie di studi volti che riguardano l’essere e l’agire dell’uomo. Seguirono una serie di studi volti ad analizzare il problema gnoseologico della filosofia moderna: Studi sull’idealismo (1942), Studi sulla filosofia dell’età cartesiana (1947), Indagini si struttura sul gnoseologismo moderno (1952) ed infine gli Studi di filosofia moderna (1966). Accanto a queste indagini essenzialmente storiografiche bisogna ricordare i testi scritti con un intento più dichiaratamente teoretico, o che presentano un’analisi della situazione filosofica contemporanea a Bontadini: Dall’attualismo al problematicismo (1946), Dal problematicismo alla metafisica (1952). Gli ultimi libri ( Conversazioni di metafisica , in due volumi, 1971 e Metafisica e deellenizzazione , 1975) intendono svolgere una funzione fondativa e rigorizzatrice del discorso metafisico, riconducendone le enunciazioni all’evidenza del principio di non contraddizione. In particolare, Metafisica e deellenizzazione è molto interessante perché in tale scritto Bontadini si oppone radicalmente al “pensiero debole” di Vattimo, il quale aveva salutato positivamente l’età ellenistica come il crollo delle verità metafisiche e dei pensieri “forti”; è facile capire – a partire dal titolo dello scritto – come Bontadini si spinga in tutt’altra direzione, verso una radicale “deellenizzazione” e un ritorno alla metafisica o, per usare una terminologia vattimiana, al “pensiero forte”. Bontadini è uno dei rappresentanti più significativi della neoscolastica italiana, e in particolare di quel suo indirizzo milanese che trovò all’Università Cattolica il proprio centro più importante. Bontadini amava definirsi come ” un metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno ” ed è proprio l’attenta lettura di molte opere di impostazione idealistica che lo porta ad affermare quella che egli considera la ” verità metodologica ” dell’idealismo: il primato metodologico della coscienza quale orizzonte per poter parlare dell’essere costituisce il guadagno speculativo dell’età cartesiana, ma proprio all’interno di tale guadagno si insinua l’affermazione aporetica che considera l’essere come “altro” dalla coscienza, ciò di cui si dovrebbe “provare” la corrispondenza con quanto è dato nella conoscenza sensibile o intellettiva; l’idealismo sopprime questa aporia (il dilemma del “ponte” per passare dalla coscienza all’essere), rimanendo però nell’orizzonte del “cogito”, riaffermando l’originaria identità del pensiero con l’essere (in una sorta di ritorno a Parmenide). La prospettiva di Bontadini cerca a sua volta di cogliere la “verità profonda” del superamento idealistico dell’aporia cartesiana, recuperando una prospettiva metafisica che egli chiama “neoclassica”: ” la metafisica neoclassica conserva la verità dell’idealismo (l’intrascendibilità del pensiero come organo dell’interno, come orizzonte assoluto…) e la perfezione inserendovi l’impianto problematico, la struttura della mediazione dell’esperienza: in una parola l’esatta – rigorosa! – metodica e non generica posizione dell’antinomia di trascendenza e immanenza, per cui si parlerà di trascendere – se mai sia possibile – l’esperienza nell’orbita del pensiero! ” (“Conversazioni di metafisica”). Il principio o “cominciamento” della filosofia è, secondo quanto affermava lo stesso Tommaso, l’ente (ciò che per primo l’intelletto concepisce) a cui Bontadini applica quello che egli stesso chiama ” Principio di Parmenide “, riformulato in termini non-monisti: ” la constatazione del divenire, da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà, dall’altro. Due protocolli che fanno capo rispettivamente, ai due piloni del fondamento: l’esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del titolo di verità … sono verità, però, che in quanto prese nell’antinomia (antinomia dell’esperienza e del logo) si trovano a dover lottare contro un’imputazione di falsità. Giacché l’esperienza oppugna la verità del logo e il logo quella dell’esperienza” (“Metafisica e de-ellenizzazione”). La neoscolastica riproponeva di riattualizzare il pensiero aristotelico-tomistico (e talvolta, più in generale, la tradizione metafisica classica) e di intrecciare un attivo dialogo tra esso e il pensiero moderno. Uno dei fondatori della scuola fu Francesco Oliati, accanto al quale vanno ricordati almeno Amato Masnovo, Umberto Antonio Padovani e Sofia Vanni Rovighi. All’inizio Bontadini studiò a fondo la filosofia di Giovanni Gentile accettando il suo superamento del “dualismo gnoseologico”, ossia di quella concezione (che va da Descartes a Kant) secondo la quale l’essere è al di la del pensiero. Per quanto la sua formazione sia avvenuta all’interno dell’orizzonte culturale indicato sopra, Bontadini ha sempre rivendicato una propria autonomia, definendosi un filosofo “neoclassico” . Questa espressione non significa ch’egli abbia inteso pensare secondo un determinato sistema, ma solo che si è riferito alla metafisica classica perché ispirato dal concetto classico dell’essere. Per Bontadini il significato di tale concetto va precisato appropriatamente, e ciò anzitutto sottolineandone la sua costitutiva opposizione al negativo. In secondo luogo occorre mostrare come l’essere esprima l’insopprimibile istanza fondazionale accertabile in sede ontologico-gnoseologica. Uno dei meriti principali di Bontadini è quello di aver precisato con rigore come si costituisce strutturalmente il sapere, e il fatto che il suo punto di partenza è l’esperienza. Se quest’ultima è il “cominciamento” del sapere, ciò vuol dire ch’essa possiede una posizione metodologica essenziale (dove per merito si intende non tanto uno strumento o una regola, ma il “processo effettivo” attraverso il quale il sapere va costituendosi). L’esperienza non è dunque intesa né come costruzione né come recezione (secondo i modelli classici del razionalismo e dell’empirismo confluiti in Kant). L’unico suo concetto adeguato, perché fondato, è quello di “presenza”, come l’idealismo ha in certa misura compreso. Il gnoseologismo moderno ha invece concepito l’esperienza secondo una prospettiva dualistica, più precisamente nel ” quadro del presupposto della dualità dell’essere e del conoscere “. Ma in tal modo il problema metafisico risulta condizionato dal problema gnoseologico e quest’ultimo appare di assai ardua soluzione. La filosofia moderna ipotizza infatti, due ordini diversi, quello del pensiero e quello della realtà, e poi si chiede come sia possibile passare da una sfera all’altra. Solo la filosofia moderna ha contribuito a sopprimere questo dualismo, mostrando che l’ “al di là” del pensiero, appena lo si consideri, fa già parte del pensiero. Se l’essere si configura come fondamento dell’esperienza (dell’esperienza come “presenza”), ne viene che questa è “assoluta”, ” in quanto non subordinata ad un particolare processo empirico di costituzione “, ed è ” totale perché le molteplici insorgenti presenze sono comprese in essa “. D’altra parte, poiché la molteplicità delle esperienze è esperibile solo all’interno di un orizzonte universale, l’esperienza si pone come “unità dell’esperienza”. Ma questa unità dell’esperienza è la totalità dell’essere? O esiste qualcosa di diverso dall’esperienza? A questa seconda domanda occorre rispondere anzitutto che qualcosa di diverso o altro, dall’esperienza non può essere “dato”: in effetti, in quanto dato, sarebbe comunque dentro l’esperienza. Tuttavia l’ ‘altro’ dall’esperienza può venire pensato. Sorge così la distinzione tra esperienza e tra ragione, cioè l’esistenza di idee che appartengono all’esperienza e di idee che invece la trascendono. Ora per Bontadini il concetto di unità dell’esperienza (come punto di partenza del sapere) appartiene non all’orizzonte dell’esperienza ma all’ordine “teoretico”, e tale ordine è governato dal principio di non-contraddizione. Si può dunque affermare che la condizione formale affinché ci sia l’esperienza è che il pensiero non sia contraddittorio; ” ogni assunto a tesi, in cui la teoreticità si traduca, si può considerare fondato, allorché il suo contraddittorio è stato escluso e si deve considerare fondato, solo se il contraddittorio è stato escluso “. Il principio di non contraddizione è quindi un principio logico il quale però si riferisce a un contenuto che è l’esperienza. La circolarità tra esperienza e pensiero costituisce ” la struttura originaria del sapere “. Senonché il contenuto dell’esperienza è il divenire, il quale implica ” il non essere dell’essere (di un certo essere) “. Ciò significa che il divenire è contraddittorio. Esso è tal in rapporto appunto al principio di contraddizione, cui Bontadini conferisce un rilievo cruciale: non solo logico-gnoseologico ma metafisico-ontologico. Il principio di non contraddizione, infatti prescrive alla realtà la necessità di essere e l’essere esige di esistere in quanto opposto al non essere (non a caso Bontadini chiama tale principio “principio di Parmenide”). Ma se l’essere deve darsi e si dà in quanto esclusivo del non essere, d’altra parte sussiste un ente che invece è in divenire (dunque non è essere) e che deve avere una ragione. A questo punto la struttura del sapere si trova divaricata in un’esperienza, che fa constatare il divenire, è nel principio di possibile risolvere l’opposizione e giungere a una sintesi? Il ” teorema di creazione ” è la figura che, secondo Bontadini, permette di mediare l’esperienza e il principio di non contraddizione. Ciò equivale a dimostrare l’esistenza di Dio e la sua trascendenza rispetto al mondo (ma non rispetto alla “presenza”). Dio è infatti l’Essere assolutamente necessario ed assolutamente autofondato, coincidente con la ” Verità prima e totale ” e coll'”Assoluto”. Quanto al divenire, esso è possibile trovandone la ragione, il fondamento, vale a dire rimuovendo la sua contraddizione attraverso il riferimento a Dio come Essere creatore: ” La contraddizione del divenire è superata con la dottrina della creazione, in quanto quella identificazione dell’essere e del non essere, che riscontriamo nell’esperienza, è ora vista come il risultato dell’azione dell’Essere “. L’unico modo per far fronte al divenire incessante a cui è soggetto il mondo sta nell’ammettere l’esistenza di un ente trascendente immutabile ed eterno, esulante dal divenire: tale ente è Dio; la posizione di Bontadini verrà rovesciata dal suo allievo Emanuele Severino (anch’egli attentissimo alla filosofia di Parmenide), il quale – riducendo all’osso il suo pensiero – dirà che il divenire non esiste e che, pertanto, non c’è alcun bisogno di trovar rifugio presso un ente eterno trascendente. Bontadini arriva a postulare l’esistenza di Dio facendo ricorso al “principio di non contraddizione” di Parmenide, ossia sostiene che l’esperienza del “divenire” cozza contro il principio parmenideo secondo cui l’essere, proprio in quanto tale, non può non essere (non può diventare nulla) e, quindi, deve essere immutabile. Da una parte, cioè, per Bontadini vi è il dato certo dell’esperienza del divenire (è un fatto che le cose divengono), dall’altra vi è il “logos” (la ragione) che dice che è logicamente possibile che l’essere nasca dal non essere e ricada nel nulla. Ora il divenire sarebbe contraddittorio se si concepisse come “originario” perché nel divenire “qualcosa” (cioè “essere”) andrebbe distrutto, cioè diventerebbe nulla (“non essere”), in altre parole dell’essere verrebbe distrutto dal “nulla”. In questa ottica si attribuirebbe al “nulla” un potere positivo di annullamento, il che è assurdo. Da qui la tesi di Bontadini: la contraddizione è eliminata sostenendo un Dio creatore. In quanto creato da Dio come diverso da sé, il mondo è sì diverso, ma insieme identico perché il suo essere consiste in questa medesima creazione. Inoltre, affinché il divenire sia incluso in Dio senza che Dio stesso sia in divenire, esso vi deve essere incluso come “posto”, cioè come qualcosa che non aggiunge niente all’Immobile. Ora, se il divenire non viola l’immutabilità di Dio, vuol dire che da Dio esso è creato come partecipato. Ma se Dio sottrae in tal modo il mondo diveniente all’annientamento ciò significa che tutto è eterno, o che tutto è Dio. Nel filosofo milanese è molto forte la percezione che il problema della filosofia fosse il problema della vita: non dunque una questione puramente accademica, non un’ arida applicazione intellettualistica, ma qualcosa che coinvolgeva il soggetto integrale, qualcosa di esistenzialmente rilevantissimo. ” La filosofia […] nasce dalla vita e nata dalla vita la filosofia torna alla vita, perché la luce che la vita chiede non la chiede ad altri che a sé ” (“Saggio di una metafisica dell’esperienza”). Possiamo poi notare come a livello metodologico anche in Bontadini, come in de Lubac, sia viva la preoccupazione di coniugare antico e nuovo, senza che vada perso nulla di valido nell’uno e nell’altro. Da un lato lo vediamo fedele alle linee portanti della metafisica classica (apertura del pensiero all’essere e conseguente dimostrabilità razionale dell’esistenza di Dio), utilizzando d’altro lato proprio a tal fine temi e concetti, stimoli e strumenti tipici della cultura filosofica “moderna”. Intelligente apertura al moderno, senza essere perciò modernisti: tale è il comune atteggiamento di Bontadini e de Lubac. Merita di essere analizzata la polemica che ha contrapposto Bontadini e il suo allievo Severino (con l’espulsione di quest’ultimo come “eretico” dalla Cattolica di Milano, nel 1969): Severino, nel 1964, esce con un saggio apparso su “Rivista di filosofia neo-scolastica”, fasc, II dal titolo “Ritornare a Parmenide”, in cui distrugge ogni distinzione tra la sfera immutabile del divino ed il mondo diveniente affermando l’eternità e l’immutabilità di ogni cosa: ogni cosa – anche il battere delle ciglia in questo istante – è eterno. Bontadini risponde, sempre sulla stessa rivista, con un articolo dal titolo “Sozein ta fainomena” (cioè “salvare i fenomeni”). Un articolo duro, anche ironico (“Tu dici che il “senso dell’essere” lampeggiato in Parmenide, fu poi subito smarrito [già con lo stesso Eleate!], e non fu poi più ritrovato, se non con te, Emanuele Severino. Tutti fuori della Verità, pertanto, eccetto voi due, l’antichissimo italico e Tu, vivo e gagliardo rampollo di questa terra” (fasc. V, pag. 441). L’ironia continua: “… se N. S. Gesù Cristo è, secondo la nostra Fede, il Verbo fatto carne, Tu, a ben guardare, risulti inevitabilmente essere […] la Carne fatta Verbo, quella Carne, cioè, che, finalmente, è assurta al possesso del Vero” (ib. pag. 440). E continua: “… io mi chiesi […] con quale barba si trovi, nel mondo dell’essere, il mio alter ego immutabile. Giacché, da quando ero matricola venendo fino ad oggi, di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte sono immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio corpo – quello fissato per l’eternità – per fare posto a tutte” (ib. pag. 444). La tesi di fondo è la difesa del suo “principio di creazione”: la contraddittorietà del divenire è superata dalla contraddizione “in quanto quella identificazione dell’essere e del non-essere, che riscontriamo nell’esperienza, è ora visto come il ‘risultato’ dell’azione dell’Essere (azione indiveniente dell’Essere indiveniente)” (ib. pag. 448). E nella “Postilla” al nuovo intervento di Severino sulla stessa rivista (Ritornare a Parmenide, Poscritto), fasc. V, Bontadini tira fuori un argomento sicuramente forte: quand’anche tutto fosse eterno, non si potrebbe, comunque, negare il divenire di quell’essere che è l’”apparire”: “Se anche si ammettesse […] che quella carta, che la comune degli uomini dice non esistere più, in quanto si è vista bruciare, esiste invece ancora, ed eternamente, fuori dell’esperienza […] è però ineliminabile quel ‘residuo’ di divenire contro cui Severino si arrovella col suo ampio argomentare: ossia il divenire – epperò il non-essere – dell”apparire’ della carta” (pag. 619). Un argomento che riproporrà anche in altri interventi. Sempre sulla stessa rivista, nel 1983, in “Per continuare un dialogo”: “Il logo pretende – non può non pretendere! – che non solo l’ente che scompare continui ad essere, ma che continui ad essere anche il suo apparire. E’ contro quest’ultima, d’altronde legittima! pretesa che l’esperienza si pronuncia. Si tratta dell’esperienza – che si fa del continuo – dello scomparire. Se ciò che scompare continua non solo ad essere, ma anche ad apparire, però codesto perdurante apparire, preteso dal logo, non è quello stesso che nell’esperienza – nell’Unità dell’Esperienza – è venuto meno, e che è significato dallo stesso termine ‘s-comparire’. Se fosse lo stesso, allora, come è permanente – eterno – l’apparire affermato dal logo, così dovrebbe essere permanente anche l’apparire dentro l’U. d. E. [unità dell’esperienza], e, perciò, non potrebbe aver luogo l’esperienza dello scomparire, ossia la constatazione che qualcosa non appare più” (pagg. 112-113).
SIMONE WEIL
A cura di Antonino Magnanimo
“ Questo mondo è una porta chiusa, è una barriera ma nello stesso tempo è il passaggio. “
Simone Weil nacque a Parigi nel 1909 da una famiglia ebrea. Fu studentessa all’Ecole Normale e insegnante di filosofia in vari licei. Militante dell’estrema sinistra rivoluzionaria, nel 1934, spinta dall’inderogabile esigenza interiore di conoscere direttamente le peggiori condizioni di vita dei lavoratori, troncò la professione e gli studi puramente teorici per lavorare come operaia alla Renault di Parigi: fu un duro ma per lei entusiasmante inserimento nella vita. Ammalatasi di pleurite, fu costretta a lasciare l’officina, iniziando un periodo cruciale di intimo ripensamento. Nel 1936 partecipò come volontaria repubblicana alla guerra civile spagnola arruolandosi nelle file anarchiche della famosa Colonna Durruti, accettando anche i servizi della cucina; ma in seguito ad una grave ustione a un piede dovette rientrare in Francia. Al 1937 risale la svolta mistica, che si traduce in una fede vissuta con grandissima intensità. Esclusa dall’insegnamento in seguito alle leggi razziali durante il regime di Vichy, fece la contadina fino al 1942, quando si rifugiò con la famiglia negli Stati Uniti dove fu molto vicina ai poveri di Harlem. Poco dopo, però, richiamata dall’impegno contro il totalitarismo, tornò in Europa ma nel 1943 morì a soli 34 anni nel sanatorio di Ashford in Inghilterra. La vicenda umana e intellettuale di Simone Weil appare profondamente segnata dalla vicende dei totalitarismi della seconda guerra mondiale. Il suo pensiero è caratterizzato da un forte principio di realtà, nonché dall’ esigenza di ancorarlo al contesto sociale e politico di appartenenza (del quale sperimentava, spesso in prima persona, le condizioni). Weil prende parte in più occasioni alla vita politica degli anni tra le due guerre, intrattenendo vari contatti: ora con i gruppi della resistenza repubblicana, durante la breve e sfortunata partecipazione alla guerra civile spagnola, ora ospitando per un breve periodo il leader antistalinista Trotzkij, nonché organizzando manifestazioni antifasciste di vario genere che le costeranno la segnalazione alle autorità scolastiche e relativi trasferimenti. L’ analisi filosofica di Simone Weil, asistematica e originale, difficilmente collocabile all’ interno di correnti tradizionali, ha finito per passare in secondo piano rispetto al vissuto dell’ autrice. Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Fra gli ultimi libri pubblicati in Italia ricordiamo: Oppressione e libertà 1956; Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale 1997; La prima radice 1996; Primi scritti filosofici 1999; Piccola cara, lettere alle allieve 1996; Lezioni di filosofia 1999; Attesa di Dio 1998; L’ombra e la grazia 1996; Pensieri disordinati sull’amore di Dio 1984; Quaderni I, II, III, IV . In Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale , un saggio del 1934 ma pubblicato in Italia solo nel 1997, Weil descrive la condizione operaia e fa una critica radicale del capitalismo industriale. All’autrice non sembra possibile cancellare l’oppressione e l’ingiustizia nella società umana. Anche le stesse rivoluzioni tendono a tradire le promesse. Alla base dell’ingiustizia, prima ancora della proprietà privata e dei mezzi di produzione, vi è la separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra funzioni direttive e funzioni esecutive . Con lo sviluppo dell’economia e conseguentemente della divisione del lavoro, aumenta la dipendenza dell’individuo. Tale dipendenza diviene soggezione al potere. Dopo l’esperienza storica dell’oppressione attuata con la forza delle armi e di quella prodotta dalla ricchezza concentrata nel capitale privato, l’umanità comincia a sperimentare una forma nuova di oppressione determinata dalla divisione del lavoro che costringe l’uomo a forme estreme di specializzazione. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo, dove tutto è squilibrio e la società è collettività cieca, trasformata in una macchina per comprimere cuore e spirito e per fabbricare l’incoscienza. Separando il lavoro dalla conoscenza, la società moderna e soprattutto la società industriale, che ha aumentato enormemente la complessità della sua organizzazione, hanno posto le condizioni per un potere sempre più forte che tende a riprodursi anche là dove è stata fatta la rivoluzione. Da qui derivano alcune indicazioni: la società deve essere centrata sul riconoscimento del lavoro, ma di un lavoro nel quale sempre più si compenetrino l’ideazione e la progettualità da un lato e l’esecuzione e la realizzazione, dall’altro. Per Simone Weil la libertà perfetta è un ideale irraggiungibile, noi possiamo tendere solo ad una libertà imperfetta e bisogna tener conto che l’individuo è condizionato dalla necessità. Lo sforzo di affermare la libertà di pensiero si compie all’interno di una macchina sociale in cui sembra perdersi il senso del vivere. La libertà viene concepita come un ideale regolativo , cioè un obiettivo a cui aspiriamo senza poterlo mai raggiungere: proprio come le “idee” kantiane. Ciò non vuol dire che sia inefficace, perché, a differenza dei sogni, gli ideali orientano e muovono uomini e donne, li impegnano a cambiare lo stato delle cose, rendendo meno imperfetta la società. Dopo la bellezza, il tema principale che la Weil sviluppa nelle sue opere è l’ oppressione , vista come schiavitù dell’uomo. In Opposizione e libertà Weil scrive che mai come in questo momento l’individuo è stato così completamente abbandonato ad una collettività cieca, mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai propri pensieri, ma persino di pensare. Alla Weil, in pratica, sembra che l’uomo abbia perso la sua umanità e la causa di questo ” doloroso stato ” è per lei molto evidente. Noi viviamo in mondo dove nulla è a misura dell’uomo, dove vi è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell’uomo, il suo spirito e le cose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umanitaria, dove, in una parola, tutto è disequilibrio. E all’interno di questa società, l’uomo sperimenta l’impotenza e l’angoscia. La Weil, così, vede la storia umana come asservimento degli uomini . ” La società è diventata una macchina per comprimere il cuore ” e per fabbricare l’incoscienza, la stupidità, la corruzione, la disonestà e soprattutto la vertigine del caos. Nella storia umana due sono state e sono le principali forme di oppressione:
a) la schiavitù esercitata in nome della forza
b) l’asservimento in nome della ricchezza trasformata in capitale.
Sta per cadere sugli uomini un’altra e nuova forma di oppressione: l’oppressione esercitata in nome della funzione , frutto maturo del lavoro frantumato tipico del Capitalismo. ” La rivoluzione è un ideale, un giudizio di valore, una volontà “. Di fronte a tutte le forme di oppressione, di fronte a questo stato doloroso, Simone Weil fa appello ad un obbligo eterno: quello verso l’essere umano in quanto tale. L’uomo non può essere oggetto. L’individuo è il valore supremo, un valore calpestato anche dai movimenti che si richiamano a Marx. Ed è proprio perché vuole raggiungere queste alte finalità che non basta Marx con la sua ” idea di materia sociale “concepita come ” una macchina atta a fabbricare del Bene “. Simone Weil aggiunge, inoltre, che la materia sociale lasciata a se stessa produce altre schiavitù. I movimenti sociali ispirati da Marx sono tutti falliti, soprattutto perché hanno ignorato la sola idea preziosa che si trovi nella sua opera, vale a dire il metodo materialista , lo strumento d’analisi dei fatti sociali tramite il ricorso alle cause economiche. La Weil non critica solo il marxismo, ma anche quei movimenti che assumono una sorta di fatalismo e di disinteresse nei confronti di chi al momento soffre, aspettando che una felice catastrofe porti un capovolgimento della società in cui ” gli ultimi saranno i primi “. Da questo si capisce perché per la Weil essere rivoluzionari significa invocare coi propri desideri e aiutare con le proprie azioni tutto ciò che può, direttamente o indirettamente, alleggerire o sollevare il peso che schiaccia la massa degli uomini. Intesa così, ” la rivoluzione viene ad essere un ideale, un giudizio di valore, una volontà e non un’interpretazione della storia e del meccanismo sociale “. Nel saggio L’Iliade o il poema della forza (1939), Weil esalta il modo in cui l’uomo greco viveva la guerra e il suo terribile gioco accordando eguale rispetto al vinto e al vincitore, provando sgomento per la distruzione di una città. Quando gli uomini entravano nel gioco della guerra, diventavano pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il ” giogo della Forza “. Alla fine vince solo la Guerra . La Guerra è una prova della miseria umana, dei limiti dell’essere umano, è l’emergere di una Forza che domina l’anima dell’uomo e la incatena al suo destino immodificabile. Omero è un protagonista senza volto degli avvenimenti narrati ed è obiettivo nei confronti dei vincitori e dei vinti. Ma alla fine tra chi è in grado di infliggere la morte credendosi con ciò libero, e chi invece subisce la morte non vi è differenza. Achille che sgozza dodici adolescenti troiani sulla pira di Patroclo, tanto naturalmente come si recidono i fiori per una tomba, non sfuggirà al destino comune della morte, unica e inesorabile vincitrice. ” Anche se ci illudiamo di maneggiarla, la forza si può soltanto subire. Il destino di chi uccide è di essere ucciso a sua volta “. La visione greca dell’uomo si prolunga, per la Weil, fino al Vangelo. Ciò che unisce Omero agli Evangelisti è il senso del valore della miseria umana, una miseria vissuta dallo stesso Cristo sulla croce. Una miseria a cui i Greci opponevano la virtù e i Vangeli la Grazia. La liberazione dall’oppressione sociale, pur equivalendo ad una rivoluzione che fa dell’uomo il valore supremo, non è la salvezza o la redenzione dell’uomo. L’infelice è chi prova l’assenza di Dio e che cammina sul crinale di un baratro, motivo per cui o cade o imbocca la via della salvezza. Per la Weil, l’infelicità è un ingegnoso dispositivo della tecnica divina escogitata per far entrare nell’anima dell’uomo ” l’immensità della forza cieca, brutale e fredda “. Inoltre, l’infelice è chi non vede alcuna luce nella sua vita, nessun senso della sofferenza, nessuno scopo nell’affaccendarsi dell’umanità. L’infelice è distante da Dio, il quale già al momento della creazione si è distanziato dal creato affinché questo potesse esistere. Perciò, per sconfiggere l’infelicità l’uomo deve eliminare questa distanza da Dio, compiendo il cammino opposto a quella della creazione: deve attuare una decreazione, deve annullare il sue essere, deve distruggere il proprio io. L’annullamento dell’io si ha nella sofferenza, nell’umiliazione, nella sopraffazione subita, nell’abbrutimento dei campi di concentramento. La visione della Weil è pessimistica. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo, in una società che è stata trasformata in una macchina possente, nella quale l’individuo avverte di essere solo un ingranaggio e che arriva a comprimere il cuore e a fabbricare l’incoscienza. Complessità sociale, gerarchie sociali sempre più chiuse, macchine di potere sempre più sofisticate e oppressive: il crescente pessimismo delle Weil, da lei vissuto come una ferita sempre più dolorosa, non si tradurrà mai in senso di impotenza. Da un lato glielo impedisce la prospettiva religiosa, a cui si aprirà con la conversione al Cristianesimo; dall’altro, l’ansia e la febbre di agire a favore dei ceti subalterni la porteranno, fino all’ultimo, a impegnarsi e a lottare ovunque, con i repubblicani in Spagna o nei quartieri di Harlem a New York, o nella Londra bombardata della Seconda Guerra Mondiale. Simone Weil è pessimista. Vede la società andare nella direzione in cui aumenta lo sfruttamento del lavoro operaio e gli individui vengono sradicati dal loro passato, gettati in una condizione di solitudine e di assenza di valori, mentre si rafforzano le gerarchie e i poteri burocratici, le strutture di comando e le pratiche violente e ci si avvia verso la guerra. Da questa profonda tensione interiore nasce la svolta della fede, che non è, in lei, mai rinuncia alle sue posizioni sociali, ma convinzione che di fronte alla miseria umana occorre intravedere anche una prospettiva ultraterrena di salvezza. La ricostruzione sociale e politica della società deve, quindi, poggiare su basi etico-religiose, su una rigenerazione spirituale di individui e collettività, in cui a una nuova democrazia si accompagni un nuovo radicamento nel proprio passato, nella tradizione, in una società giusta e rispettosa delle persone. Fede, tensione morale e impegno politico non l’abbandoneranno mai, fino alla morte. ” La croce è la nostra patria “, diceva più volte. Anche la riflessione politica , le varie esperienze di militanza sindacale e politica e l’adesione a posizioni sindacaliste rivoluzionarie, trotzskiste più che marxiste, esprimono una fortissima tensione spirituale, uno slancio ed una ispirazione etico-religiosa, l’intenzione di una scelta esistenziale, quella di stare sempre dalla parte degli oppressi. E’ proprio la centralità della scelta etica, nel determinare gli orientamenti dell’esistenza degli individui, la porta a rifiutare, del marxismo, il materialismo e il determinismo economicistico. Simone Weil subisce dapprima il fascino del marxismo di cui tuttavia rifiuta la configurazione teorica dello Stato per il suo autoritarismo. Si occupa di politica fin dagli anni del liceo ma non si iscrive mai ad alcun partito. La sua stessa militanza sindacale e politica iniziale, più anarchica che marxista, trova le sue ragioni in un’ispirazione etica che la porterà a mettersi sempre dalla parte degli oppressi. Diceva spesso che occorreva essere sempre disposti a cambiare per seguire la giustizia, questa eterna fuggiasca. Filosoficamente aderisce inizialmente al pensiero dei suoi docenti e nella sua esperienza di insegnamento ne proseguirà il metodo invitando gli allievi a leggere direttamente i testi dei filosofi anziché i manuali. Successivamente Simone Weil andrà sviluppando il suo pensiero che sarà sempre più caratterizzato dalle esperienze interiori. Gli anni di lavoro in fabbrica danno l’avvio ad una profonda e sofferta riflessione sul senso della propria esistenza, mentre vive l’esperienza operaia come occasione di esperienza interiore. Sono anche gli anni in cui si intensificano quei dolori di testa che la indurranno ad esperire che cosa significa assaporare la morte da viva. L’ idea della morte , così presente in Simone Weil, è qualcosa di più del frutto di momentanei scoramenti: attraverserà tutta la sua vita costituendone il vettore di ricerca della verità. Abbandona gradualmente l’interesse più propriamente politico e sospinge sempre più la sua riflessione in direzione del senso dell’esistere, colto nei suoi risvolti religiosi e mistici, senza con ciò rinunciare al tentativo di tradurre il tutto in Pensiero, compito che non delegò mai ad alcuna istituzione politica né ecclesiastica: questo fu uno dei punti fermi che le garantì la coerenza con se stessa. La Weil è un personaggio estremamente significativo per la pregnanza e la radicalità con cui ha vissuto e concretizzato la sua weltanschauung , la sua visione del mondo. Come filosofa certamente non fu capita. Ci fu sempre un maggior interesse per il suo carattere, da molti ritenuto eccentrico ed esemplare e per le sue esperienze personali, piuttosto che per il suo pensiero.
EMANUELE SEVERINO
“La filosofia deve essere liberata il più possibile dalla calca. Per chi vuole cominciare a capire qualcosa, meglio la radura che il sovraffollamento. “
VITA E OPERE
Emanuele Severino nasce nel 1929 a Brescia, si laurea a Pavia nel 1950 con una tesi straordinaria su ” Heidegger e la metafisica “. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica nel 1951. Dopo un periodo di insegnamento come incaricato all’Università Cattolica di Milano, nel 1962 diventa ordinario di Filosofia morale presso la stessa Università. Nel 1964 sconvolge il dibattito teoretico con il saggio ” Ritornare a Parmenide “. Dal 1970 è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Venezia dove è stato direttore del Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze fino al 1989. E’ accademico dei Lincei. Tra le sue numerose opere ricordiamo: ” Note sul problematicismo italiano “, Brescia, 1950; ” La struttura originaria ” (1957), Milano, 1981; ” Studi di filosofia della prassi ” (1962), Milano, 1984; ” Essenza del nichilismo “, Milano, 1972; ” Gli abitatori del tempo “, Roma , 1978; ” Legge e caso “, Milano, 1979; ” Le radici della violenza “, Milano, 1979; ” Destino della necessità “, Milano, 1980; ” A Cesare e a Dio “, Milano, 1983; ” La strada “, Milano, 1983; ” La filosofia antica “, Milano, 1985; ” La filosofia moderna “, Milano, 1985; ” Il parricidio mancato “, Milano, 1985; ” La filosofia contemporanea “, Milano, 1988; ” Il giogo “, Milano, 1989; ” La filosofia futura “, Milano, 1989; ” Alle origini della ragione “, Milano, 1989; ” Antologia filosofica “, Milano, 1989; ” Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica “, Milano, 1990; ” La guerra “, Milano, 1992; ” Oltre il linguaggio “, Milano, 1992; ” Tautotes “, Milano, l995; ” La gloria “, Milano, 2001. Ha pubblicato, inoltre, una storia divulgativa della filosofia (Filosofia antica, moderna, contemporanea, futura), ed un manuale scolastico (Filosofia, 3 volumi). Ci troviamo di fronte ad un lavoro sterminato e, per lo più, scritto con un linguaggio da addetti ai lavori. Massimo Cacciari lo definisce un gigante, l’unico filosofo che nel Novecento si possa contrapporre a Heidegger.
IL PENSIERO
Severino, come egli stesso ricorda in un’intervista, rammenta quando formulò le sue idee per la prima volta, quelle idee destinate a suscitare così tanto stupore. Aveva ventitrè anni, era già libero docente all’Università, e un giorno stava lavorando attorno al primo libro della “Fisica” di Aristotele, su nello studiolo, quando fu travolto da un’ondata d i pensieri nuovi: ” fu come trovarsi in un vortice, in un maelström, e in basso apparve la terra. L’essere eterno mi si presentò in questo modo, aveva il carattere di questo fondo marino “. Da lì ebbe inizio la sua avventura filosofica. La filosofia di Emanuele Severino si innesta nel dibattito ontologico avviato da Heidegger e, tuttavia (a differenza di Heidegger), si propone un ritorno all’antico pensiero di Parmenide di Elea. Per Severino la questione principale da affrontare risale alla metafisica classica e riguarda la contraddizione o meno tra l’essere e il non essere o divenire . Il filosofo affronta il problema tenendo presenti autori contemporanei quali Nietzsche e Heidegger. La tesi generale è che il peccato e l’errore dell’Occidente e del cristianesimo compreso consistono nell’essersi allontanato dal precetto parmenideo secondo il quale tra solo l’essere è e può essere pensato e definito . Scegliendo di non rispettare l’insegnamento di Parmenide e introducendo il divenire nel pensiero e nella storia, l’Occidente si è trovato in una situazione senza uscita che ha portato all’attuale dominio della ragione e della tecnica. Quindi bisogna ritornare a Parmenide . Il peccato originale dell’Occidente è avvenuto dopo Parmenide, quando il pensiero greco, invece di considerare soltanto l’essere, ha evocato il divenire inteso come la dimensione visibile dove le cose provengono dal niente e ritornano nel niente, dopo essersi trattenute provvisoriamente nell’essere. Il divenire diventa l’oscillazione delle cose tra l’essere e il niente: ma Severino, sull’onda dell’insegnamento parmenideo, nega l’esistenza stessa del divenire. L’impianto filosofico di Severino può essere così sinteticamente riassunto:
a) L’abbandono dell’essere parmenideo e la scelta del divenire provocano nell’umanità occidentale un sentimento di angoscia di fronte al niente, di nostalgia, di bisogno dell’essere.
b) L’Occidente con la logica del rimedio innalza gli immutabili per difendersi dal divenire che esso ha evocato, cioè costruisce le entità (Dio) e i valori (etici, naturali, ecc.) trascendenti e permanenti.
c) Al di sopra degli immutabili l’epistéme, cioè l’essenza originaria della filosofia, la volontà di conoscere stabilmente la verità del mondo. L’epistéme è la dimensione stabile del sapere, all’interno della quale vengono innalzati tutti gli immutabili dell’Occidente. La fede cristiana eredita i caratteri di stabilità dell’epistéme e si rivolge alle masse.
Severino prende le mosse dal pensiero del suo maestro Bontadini – fondatore della Neoscolastica milanese – ma presto se ne allontana: se per Bontadini nel mondo domina il divenire (come ci attestano i sensi stessi), l’unica via per ammettere qualcosa di eterno è Dio, inteso come ente immutabile ed imperituro. Ora Severino stravolge il discorso del suo maestro: giacchè nel mondo non vi è il divenire – esso è solo una doxa degli uomini, secondo l’insegnamento parmenideo -, non è necessario far riferimento ad un ente eterno e trascendente; il mondo stesso che ci appare dinanzi è eterno. Ben si capisce come in virtù di queste sue posizioni Severino fu allontanato dalla cattolica di Milano. Accrescere il proprio potere sulle cose e sugli dèi: questo è sempre stato il desiderio più profondo degli uomini, i quali pensano che la potenza li renda capaci di vincere il dolore e la morte. Nel paradiso terrestre il serpente assicura che non si morirà mangiando il frutto proibito; anzi si diventerà come dèi, si avrà cioè la loro potenza. Tecniche, religioni, filosofia, arti, sono i grandi espedienti escogitati dall’uomo per diventare sempre più potente . La tecnica fondata sulla scienza moderna è ormai il più potente strumento di trasformazione del mondo. Ma il Luogo che contiene tutti i luoghi è la totalità dell’essere. La filosofia ha inteso indicarne il volto. Dapprima ha affermato l’esistenza di Dio, ossia dell’Essere immutabile che nessuna potenza umana può dominare. Poi la filosofia del nostro tempo ha mostrato che nessun Dio immutabile ed eterno può esistere. Cosicché, dapprima, ha avuto la strada sbarrata da Dio e dalle sue leggi; poi la filosofia ha liberato la strada da ogni ostacolo. Il cristianesimo, quindi, va incontro allo stesso destino della filosofia, con l’aggravante di mettere da parte lo spirito critico con cui la filosofia cerca di argomentare le ragioni della necessità degli immutabili che servono come difesa e riparo rispetto al divenire, e sono paragonabili alle creazioni della volontà di potenza di cui parla Nietzsche. Gli immutabili, prevedendo e controllando il divenire soffocano e minacciano la volontà di esistere, in modo più insopportabile della stessa minaccia del divenire. L’uomo ricorre allora, come ad un’ancora di salvezza, alla scienza e alla tecnica, affinché lo liberino da questa minaccia. La filosofia contemporanea tende a tramontare nel sapere scientifico, proprio perché essa è negazione e distruzione degli immutabili. A questo proposito, asserisce Severino: ” La filosofia va necessariamente verso il proprio tramonto, cioè verso la scienza, che tuttavia è il modo in cui oggi la filosofia vive. […] Tutti possono vedere che la filosofia, su scala mondiale, declina nel sapere scientifico ” ( ” Che cosa fanno oggi i filosofi? “, Milano 1982). Del resto, lo stesso Heidegger, cui Severino si ispira costantemente (pur auspicando un ritorno a Parmenide), aveva affermato, in ” Ormai solo un dio ci può salvare “: ” La filosofia è alla fine. […]Quella che è stata la funzione della filosofia fino ad oggi è stata ereditata dalle scienze. […] La filosofia si dissolve in singole scienze: la psicologia, la logica, la politologia “. Aristotele, così aperto verso le posizioni dei suoi predecessori, pur confutandole, di fronte alla filosofia di Parmenide si spazientisce e la bolla come una follia ( mania ). L’esempio più caro a Severino, nell’argomentare la sua posizione parmenidea, è quello della legna che per l’azione del fuoco “diventa” cenere: nella tradizione occidentale, siamo soliti pensare che la legna si trasformi in cenere; quando scorgiamo la cenere, del resto, la associamo subito alla legna, convinti che da essa derivi. Siamo così portati a dire che è cenere da parte della legna; similmente, quando Socrate cresce in altezza, diciamo che è alto da parte di Socrate. Ma ciò non toglie che diciamo anche “Socrate è alto”: similmente, si dovrà per Severino affermare che la legna è cenere. E’ questa una follia per la tradizione occidentale: Platone stesso, nel “Teeteto”, spiegava come neanche nei sogni o nella follia fosse possibile predicare il contrario di una cosa, dicendo ad esempio che il cavallo è il toro, è il bue, ecc. Ugualmente, è assurdo, folle, predicare che la legna è la cenere: ma questo per una tradizione che è essa stessa folle e si è separata da Parmenide e che mescola indebitamente essere e non essere (la legna che finisce nel nulla, la cenere che dal nulla nasce). Ma, secondo Severino, l’abbandono dell’essere parmenideo e la scelta del divenire è la follia dell’Occidente , il sentiero della notte, lo spazio originario in cui sono venuti a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma anche le sue istituzioni sociali e politiche. Di fronte all’ è angoscia del divenire , l’Occidente, rispondendo alla logica del rimedio, ha evocato è gli immutabili (Dio, le leggi della natura, la dialettica, il libero mercato, le leggi etiche o politiche, ecc.). La civiltà della tecnica domina il mondo. All’inizio della nostra civiltà Dio, il Primo Tecnico, crea il mondo dal nulla e può sospingerlo nel nulla. Oggi, la tecnica, ultimo dio, ricrea il mondo e ha la possibilità di annientarlo. Nella sua opera Severino intende mettere in questione la fede nel divenire entro cui l’Occidente si muove, nella convinzione che l’uomo vada alla ricerca del rimedio contro l’angoscia che esso provoca. Il divenire è una follia. Riecheggiando Nietzsche, si tratta di comprendere che non solo non può esistere alcun Dio immutabile ed eterno, ma che il divenire non è un percorso rettilineo e irreversibile ma un circolo che eternamente ritorna su di sé (immaginiamo una pellicola cinematografica su cui le stesse immagini girano in eterno). Chi è capace di scorgere la necessità di questo circolo è il “superuomo”, il quale possiede la volontà più potente di ogni altra. Sapendo che la strada è circolare si è infatti essenzialmente più potenti, nel procedere e nell’agire, di chi, ignorandolo, e credendo che il percorso sia rettilineo, va continuamente fuori strada. E allora, chiediamoci, la tecnica guidata dalla scienza moderna, proprio la tecnica, che oggi si presenta come produttrice della potenza suprema dell’uomo, può permettersi di ignorare che il corso degli eventi del mondo ha un carattere circolare? Può ignorare il tratto fondamentale del mondo? Una tecnica che lo ignori non è forse impotente rispetto alla tecnica che lo conosce e pone questa conoscenza al proprio fondamento? E in tal modo non ci si deve forse preparare ad ammettere quella che ci sembrava l’affermazione più paradossale, cioè che la dottrina dell’eterno ritorno solleva la tecnica al culmine delle proprie possibilità? Severino può apparire paradossale, anche assurdo, inconcepibile, perché sostiene che tutto è eterno, non solo ogni uomo e ogni cosa, ma anche ogni momento di vita, ogni sentimento, ogni aspetto della realtà, e quindi niente scompare, niente muore: l’eternità è la sua passione, la sua vocazione. Tutti da millenni credono che le cose e gli uomini nascono dal nulla e nel nulla ritornano: Severino stesso dice che ” nascere vuole dire […] uscire dal niente; morire vuol dire tornare nel niente: il vivente è ciò che esce dal niente e torna nel niente ” ( ” Che cosa fanno oggi i filosofi? “, Milano 1982). Tuttavia per Severino tutto è eterno. Non basta: solo in superficie si crede che le cose vengano dal nulla e che nel nulla alla fine precipitino, perché nel profondo siamo convinti che quel breve segmento di luce che è la vita è esso stesso nulla. E’ il nichilismo. E’ l’ omicidio primario , l’uccisione dell’essere. Ma è una contraddizione: ciò che è non può non essere, né può essere stato o potrà mai essere nulla. Una contraddizione che è la follia dell’Occidente, e ormai di tutta la terra. Una ferita che necessita di numerosi conforti, dalla religione all’arte, tutti affreschi sul buio, tentativi di nascondere, medicare il nulla che ci fa orrore. Per fortuna ci attende la Non Follia , l’apparire dell’eternità di tutte le cose. Noi siamo eterni e mortali perché l’eterno entra ed esce dall’apparire. La morte è l’assentarsi dell’eterno . Abbiamo tutti nel sangue il nichilismo. Ci crediamo mendicanti quando invece siamo re. Come dice Orazio, ” pulvis et umbra sumus ” (“siamo polvere e ombra”): l’uomo diventa polvere, ma anche la polvere è eterna. Si può forse esorcizzare la morte aiutandosi con le religioni o con le filosofie, si può anche credere che tutto finisca in un grande silenzio, simile a quello che precede la nascita. La scienza riesce a prolungare la vecchiaia, i piaceri che ricerchiamo avidamente stordiscono le preoccupazioni accumulate dai giorni, la bellezza ci aiuta a disprezzare gli insopportabili ragionamenti dei mediocri. Un frammento di Eraclito recita: ” attendono gli uomini, quando sono morti, cose che essi non sperano né suppongono “. Quali spettacoli si mostrano, se si mostrano, dopo la morte? La morte ha un significato che sta al di là di ciò che si intende comunemente con questo termine. Sta al di là della stessa contrapposizione tra morte e immortalità. L’Occidente, la cui preistoria è l’Oriente, la intende invece come annientamento, salvando in alcuni casi l’anima o la coscienza che continuerebbero ad avere una loro vita. Severino cerca di dimostrare che la persuasione che una qualsiasi cosa o evento (uomo, pianta, stella, situazione, istante) possa annientarsi, e annientato sia niente, è Follia essenziale. È la Follia più profonda che possa manifestarsi non soltanto nel mondo umano, ma nel Tutto. In diverse forme la Follia domina la storia della Terra; al di fuori della Follia appare l’eternità di ogni cosa e di ogni evento. La morte appartiene alla manifestazione degli eterni, è un evento interno a tale manifestazione. Essa non ci travolge, ma è una parte del nostro esistere. È una condizione necessaria della felicità. Noi siamo destinati alla felicità che è l’oltrepassamento di tutte le contraddizioni e non un premio concesso. È necessità. È inevitabile che dopo il tramonto della vita e della morte, della volontà e dell’abulia l’uomo sia felice. In tale prospettiva, Dio non è il demiurgo ma l’apparire infinito degli eterni, è essenzialmente diverso da quello della tradizione religiosa e filosofica. Dio non sta in un altro mondo: nel profondo noi siamo l’oltrepassamento della totalità delle contraddizioni. Non è facile cogliere il suo messaggio, il suo linguaggio inusuale. Il mondo è troppo concreto per permettersi il lusso di strapparsi dalla pelle gli accidenti della giornata, che stanno addosso agli uomini come dei fastidiosi pidocchi, che ci tormentano come questi parassiti e che divorano le nostre vite succhiandoci il tempo e il sangue. In virtù di queste sue idee (e, più in generale, dell’intero suo impianto filosofico), Severino fu allontanato dall’università Cattolica nel 1969: ” mi resi conto che il mio discorso conteneva il no più radicale alla tradizione metafisica dell’Occidente e dell’Oriente. Non era rivolto specificamente contro la religione cristiana “. Ma l’educazione cattolica ricevuta da Severino non è mai completamente svanita, anche dopo l’elaborazione della sua filosofia: certo, egli mette da parte la nozione di Dio, ma non quella di Verità, cardinale nella tradizione cristiana. ” La Verità prende il posto di Dio, che è rimedio dell’angoscia contro il nulla. Dio è all’interno della follia, del nichilismo, del credere che le cose muoiono “. Per Severino la tecnica non è ancella delle forze che governano il mondo, ma è essa stessa a governare i destini dell’umanità. La tecnica prosegue il proprio cammino sapendo che non incontrerà alcuno ostacolo e alcun limite invalicabile. La filosofia contemporanea l’ ha resa completamente libera, l’ ha sollevata al culmine delle sue possibilità. Ascoltando la voce della filosofia del nostro tempo, la tecnica può assumere ora un’andatura del tutto diversa ed essenzialmente più incisiva. Il mezzo (la tecnica, le nuove tecnologie, le reti telematico-informatiche) sta diventando lo scopo, il fine della comunicazione. Così la celebre frase di Mac Luhan, ” il medium è il messaggio “, alla luce di questa riflessione diviene immediatamente comprensibile: il mezzo della comunicazione forma e trasforma i messaggi che veicola, e sovente, nell’ epoca postmoderna, diventa il fine del comunicare stesso, lasciando sullo sfondo concetti e idee. Il concetto stesso di etica sta cambiando drasticamente, l’etica sta diventando tecnica, ossia la potenza e la capacità di trasmettere e diffondere informazioni. L’etica così come è stata pensata da Aristotele e da altri illustri filosofi, sta lasciando il posto al dominio della tecnica. Il pensiero postmoderno è figlio di un processo lungo due secoli durante i quali il concetto di verità è stato smontato, specie nel suo legame col divino. Dio è morto e con lui la verità, lasciando il posto, si potrebbe aggiungere, a relativismi, possibilismi e revisionismi di ogni sorta. In questa prospettiva storico-cosmica, Severino colloca la situazione italiana, meno liberata rispetto ad altre. In Italia il tramonto della filosofia nella scienza avviene più lentamente che altrove, soprattutto perché nel nostro paese esistono il centro del cattolicesimo mondiale e il più forte partito comunista del mondo occidentale, due istituzioni che, in modi specifici, contribuiscono a tenere in vita il senso tradizionale della filosofia, cioè la filosofia come epistéme, luogo dell’evocazione degli immutabili. E’ molto rilevante il titolo di un’opera di Severino, composta nel 1985: ” Il parricidio mancato “; il parricidio in questione sarebbe quello commesso da Platone (come il filosofo ateniese stesso afferma) ai danni di Parmenide, padre della filosofia dell’essere. Ora Severino, che si riaggancia al pensiero dell’antico ontologo, vuol mettere in luce come, in realtà, si sia trattato di un “parricidio mancato”: la filosofia di Parmenide è ancora viva e vegeta ed è ad essa che Severino intende riallacciarsi. Parmenide infatti, secondo Severino, mette in luce per la prima volta il senso radicale della contrapposizione tra l’essere e il niente e chiarisce quindi il senso assoluto di questi due enti, comprendendo filosoficamente ciò che prima non era stato possibile chiarire dal mito. I primi pensatori iniziarono a capire che l’essere poteva essere visto come il Tutto al di là del quale non vi era nulla: infatti il niente non è qualcosa che possa venire conosciuto o del quale si possa parlare. Parmenide è importante perché approfondisce ed interpreta il concetto di essere. Infatti se il non essere non è, non può inframmezzarsi all’essere e dividerlo in parti; né può essere qualcosa da cui l’essere sorga o in cui si dissolva. In questa argomentazione di Parmenide, viene utilizzato il fondamentale principio logico detto di “non-contraddizione”, secondo il quale non vengono accettati contemporaneamente di una stessa realtà un carattere ed il suo contrario. Infatti, Parmenide fa notare che è logicamente contraddittorio affermare che il non essere ci sia, che il nulla esista, perché il non essere è il contrario dell’essere e affermare della stessa realtà un carattere e il carattere contrario è un errore logico: un nonsenso. Il divenire dell’essere è quindi un’opinione senza verità, un’apparenza illusoria di cui si convincono i mortali, che seguono il percorso della non-verità , ovvero di ciò che è apparenza. Con il medesimo ragionamento Parmenide ammette che l’essere non è mai nato, né mai morirà, cioè è eterno. Per affermare infatti che sia nato, bisognerebbe ammettere che ci fosse stato qualcosa da cui è stato generato, ma siccome l’essere è unico, ciò è logicamente contraddittorio. Per la stessa ragione non possiamo accettare il fatto che l’essere si muova, perché per farlo dovrebbe passare da un luogo ad un altro e muoversi in un elemento, lo spazio vuoto, il non essere, che permetta lo spostamento e ciò è logicamente contraddittorio. Severino riflettendo su Parmenide e sulla storia della filosofia occidentale, che ha posto al suo centro il divenire, la follia che domina il mondo, giunge ad affermare che tutto è eterno . Tutto è eterno significa che ogni momento della realtà è , ossia non esce e non ritorna nel nulla, significa che anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si è soliti riservare a Dio. Eterni sono ogni nostro sentimento e pensiero, ogni forma e sfumatura del mondo, ogni gesto degli uomini. E anche tutto ciò che appare in ogni giorno e in ogni istante: il primo fuoco acceso dall’uomo, il pianto di Gesù appena nato, l’oscillare della lampada davanti agli occhi di Galileo, Hiroshima viva ed il suo cadavere. Eterni ogni speranza ed ogni istante del mondo, con tutti i contenuti che stanno nell’istante, eterna la coscienza che vede le cose e la loro eternità e vede la follia della persuasione che le cose escano dal niente e vi ritornino. Ma dissertare di filosofia non è produttivo, dice Severino: infatti, ” parlare di filosofia uccide la filosofia, perché non si vede la profonda vena d’oro e vien fuori uno spettro, un mito nel migliore dei casi, un discorso strano di un intellettuale un po’ squilibrato “.
RIASSUNTO DI ALCUNE OPERE
In ” Tautotes ” Severino mette in questione la definizione aristotelica dell’identità (tautótés) intesa come dimensione in cui si mantiene ogni tentativo dell’Occidente di pensare l’identità, superando in modo originale l’aporia di fondo: come dire le differenze fra una cosa e un’altra senza per ciò stesso dire che questo non è quello e cadere quindi nella contraddizione di dire di un ente che non è. In “ Essenza del nichilismo Severino conduce un’audace analisi, che ci guida ai confini di quell’Occidente che è “la Repubblica fondata da Platone” per aprirsi su ciò che, al di fuori di quella Repubblica, perennemente è; la tesi portante è che “ più si parla di nichilismo, più diventa indispensabile pensare l’essenza del nichilismo. Essa continua a rimanere al di là di tutto ciò che la nostra cultura crede di sapere intorno al nichilismo e alla sua essenza ”. “ Heidegger e la metafisica ” costituisce il tentativo di mostrare come “la filosofia di Heidegger, nella sua essenza, renda possibile il sapere metafisico” e come “il problema fondamentale di Heidegger sia quello di una radicale costruzione del sapere metafisico”. Note sul problematicismo italiano, steso già nel 1948 sullo sfondo del dibattito su attualismo e problematicismo, forma invece il terreno in cui era maturato il saggio heideggeriano. Impliciti in entrambi gli scritti sono da un lato il riconoscimento di Gentile e Heidegger come punti di riferimento essenziali del pensiero nel nostro secolo, dall’altro l’individuazione dei tratti che li accomunano, certo non meno importanti delle radicali divergenze. Infine, in una lunga Avvertenza, Severino ha voluto chiarire il senso di vari passaggi del suo iter, visti con gli occhi di oggi. Completano il volume un gruppo di scritti teorici, fra i quali Lineamenti di una fenomenologia dell’atto, La struttura dell’essere. Metafisica, fenomenologia, sociologia, e uno studio sulla riflessione rosminiana sull’essere e sulle affinità di quella riflessione con il pensiero di Heidegger. “ La tendenza fondamentale del nostro tempo ”: in questo libro – analisi straordinariamente lucida del movimento, segreto e palese, che governa il nostro tempo – Emanuele Severino mette il suo pensiero alla prova dei fatti che ci circondano. Fatti enormi, secondo la convinzione di tutti, mutamenti epocali. Ma in quale dirczione? Che cosa significa, per esempio, la decadenza dell’Europa? Non va forse insieme, questo fenomeno, al diventare planetario del dominio della tecnica, che è il frutto specifico del pensiero europeo? E qual è il rapporto della tecnica con la scienza? Che cosa significa la preoccupazione, oggi sempre più insistente, di porre limiti alla ricerca? E si può parlare di un’etica della scienza? Sono questi solo alcuni dei temi che qui vengono affrontati. Temi gravissimi, ma troppo spesso abbandonati agli opinionisti dei quotidiani, i quali offrono, appunto, opinioni. Qui invece questi temi trovano il loro luogo strategico all’interno di una costruzione speculativa rigorosa. Non tutti saranno inclini a seguire Severino fino alle sue estreme conseguenze, che sono audacissime. Ma per tutti sarà prezioso seguire in ogni passo le sue analisi, perché toccano ogni volta il nervo delle questioni. E le questioni trattate in questo libro sono quelle che ci vengono incontro inevitabilmente ogni giorno. “ Destino della necessità ”: quest’opera si presenta come la più compiuta di Severino, come una summa del suo pensiero, che qui riprende, in un linguaggio molto diverso ma con puntuali corrispondenze, il vasto disegno della Struttura originaria (1958) e di Essenza del nichilismo (1972). L’indagine di Severino ha come primo oggetto il nichilismo. Con questa parola, da Nietzsche a Heidegger, si è spesso inteso designare quella peculiare macchina di concetti e opposizioni – macchina distruttrice e autodistruttrice, e al tempo stesso produttrice di potenza -, all’interno della quale si è mosso tutto il pensiero occidentale. Severino non solo sottrae questo termine a ogni vaghezza e allusività, ma gli conferisce un senso radicalmente diverso mostrando come la persuasione che l’ente sia niente sia necessariamente legata alla fede nel divenire e nella storicità del mondo. Caratteristico del nichilismo è di presentarsi, infatti, sempre di nuovo sotto altre forme, celando il suo fondamento: così, se davvero, come Severino afferma, il nichilismo è il “contenuto essenziale della storia dell’Occidente”, e insieme “l’inconscio della preistoria dell’Occidente”, per seguirne le metamorfosi occorrerà analizzare tutta la vicenda dell’Occidente, in cui noi stessi siamo immersi, sino a rendere evidente, nei suoi vari passaggi, la trama celata. Una tale analisi non può fermarsi all’articolazione dei testi classici della filosofia. Prima ancora, è nell’articolarsi del lessico stesso del pensiero greco che si può osservare la genesi del processo nichilistico: ad essa Severino dedica una lunga, audace sezione di quest’opera, individuando un primo scindersi del lessico, nelle lingue indoeuropee, fra “timbro della flessione” e “timbro dell’inflessibile”. E, d’altra parte, il processo nichilistico si prolunga in tutta la “struttura dell’azione” in quanto “struttura del dominio”, quale è stata “formulata una volta per tutte da Aristotele”, per essere poi ripresa in varianti innumerevoli nel corso dei secoli. Il quadro, dunque, che Severino qui ci offre è una grandiosa immagine globale di ciò che è stato, e di ciò che è, quell’oscuro fenomeno designato come pensiero occidentale, pensiero alla cui base c’è una decisione di separarsi dal Tutto per meglio dominare il mondo. Severino però non intende solo ricostruire ciò che l’Occidente ha pensato, ma altrettanto ciò che ha dovuto espungere dal suo pensiero e dalle sue opere e che rimane ancora di fronte a noi nella sua enigmatica estraneità. “L’Occidente … è uno dei due corsieri che guidano e trascinano in direzioni contrastanti l’accadimento della terra: è il corsiero “visibile”, cioè testimoniato, e “visibile” è il sentiero che esso percorre”, guidato da una “volontà di potenza” che si svela alla fine “essenzialmente impotente”, l’altro corsiero-invisibile – è guidato da una “volontà del destino” che in queste pagine è testimoniata. “ Legge e caso ” Scienza e dominio si intrecciano ormai in modo inestricabile. Ma “perché il dominio non deve essere esercitato? Ed esercitato senza limiti? Forse perché finisce col violare i diritti dell’uomo? Ma quale conoscenza è ormai in grado di mostrare i veri diritti e di stabilire il vero limite che divide il diritto dalla stortura dell’uomo?”. Con queste domande felicemente provocatorie, Severino avvia un’indagine stringente e acutissima, che vuole isolare il senso specifico in cui oggi la scienza parla di legge e di caso – e insieme risalire alla sua lontana origine, che è nella nascita del pensiero greco. Perché lì si forma la tensione che attanaglia tutto il pensiero dell’Occidente: da una parte l’affermazione inaudita del divenire in quanto ” irruzione dell’imprevisto”, in quanto caso che dal niente passa all’essere – e non solo è imprevisto ma imprevedibile, perché “è impossibile una previsione del niente”; dall’altra la radicale “volontà di salvarsi dalla minaccia di divenire”, che si esprime nell’epistéme, in quanto esorcismo conoscitivo che si fonda sull'”incantesimo degli immutabili”. Ma quest’ultima forma della conoscenza si è rivelata inadeguata di fronte all’avida volontà di dominio della scienza: anche le ultime larve di “immutabili”, segnali di una verità incontrovertibile, sono state dissolte da una speculazione e da una pratica tecnica con cui la scienza raggiunge oggi “là forma più radicale di dominio proprio perché si espone al caso, cioè distrugge gli immutabili che lo rendono impensabile”. Ma così si afferma anche “l’alienazione più abissale”; “la persuasione e insieme la volontà che le cose della terra, in quanto cose, siano niente”. “ Studi di filosofia della prassi ” : l’espressione “filosofia della prassi” nomina qualcosa di più originario di quanto con essa viene usualmente indicato: nomina il legame originario che unisce verità e prassi. “Prassi” è la parola con la quale il pensiero greco indica in generale, e una volta per tutte nella storia dell’Occidente, Fazione in quanto forza consapevole che conduce le cose nell’essere e nel niente (“le cose” nel senso più ampio di questa espressione: stati “esterni” e “interni”, forme, situazioni, rapporti, processi – ogni non-niente). La “prassi” appartiene all’essenza del nichilismo: è una delle categorie fondamentali secondo cui il nichilismo pensa le cose. E quindi una delle categorie fondamentali dell’errore”. Così scrive Severino nella “Prefazione” a questa edizione ampliata degli Studi di filosofia della prassi, che ripropone il testo del 1962, ma con l’aggiunta di un vasto apparato di “Postille” inedite e di una “Appendice” che contiene, sotto forma di una sequenza di domande e risposte, l’elucidazione di una tesi inglobante ogni filosofia della prassi: “L’Occidente è la Repubblica di Platone”. Nelle “Postille” il pensiero di Severino si abbandona a un affascinante contrappunto con se stesso, che mira a stabilire la necessità delle tesi di questi Studi e insieme a rilevare in quale misura esse sono ancora irretite nella “implicazione fra nichilismo e prassi”. Sono così compresenti in quest’opera le due facce, e anche i due linguaggi, del pensiero di Severino: da una parte quello serratamente analitico, che era apparso con La struttura originaria, dall’altra quello che si rivela a partire dagli scritti di Essenza del nichilismo. “ Oltre il linguaggio ” : può la tecnica offrire il rimedio contro i danni che essa produce? O è proprio questa l’estrema illusione che ci abbaglia? Si possono porre dei limiti alla violenza? Ma chi ha il potere di imporre che un limite non sia oltrepassato? Qual è il nesso fra essere e linguaggio? E’ vero, come vuole molta della filosofia moderna, che “l’essere che può venire compreso è il linguaggio”? Temi insidiosi, ardui: in questo libro sono l’occasione per un’indagine che, partendo dalla più recente fra le opere maggiori di Severino, Destino della necessità, e richiamandosi ai fondamenti del suo pensiero, esposti nella Struttura originaria, si inoltra in nuovi territori. Come sempre in Severino, l’estrema chiarezza e il vigore delle argomentazioni fanno sì che questi saggi siano preziosi per risolvere questioni di alta precisione speculativa, ma sappiano anche svelare, a un pubblico più vasto, l’urgenza dei problemi trattati. “ Se la violenza è la volontà che vuole l’impossibile, e se la volontà è essenzialmente un volere che qualcosa divenga altro da sé, allora – poiché il diventare altro da sé è qualcosa di impossibile (giacché l’impossibile è innanzitutto l’essere altro da sé) – la volontà è, in quanto tale, il volere l’impossibile, e cioè la volontà è, in quanto tale, violenza. La devastazione dell’uomo e della terra è la forma visibile della violenza; la carità, l’amore, la tolleranza sono forme nascoste della violenza. Anche ogni volontà salvifica è dunque una forma nascosta di violenza – come ogni volontà “creatrice”. Nessun creatore e nessun salvatore ci può salvare. Ma non perché la salvezza debba essere cercata altrove, ma perché il concetto stesso di salvezza – così come esso si presenta lungo la storia dell’Occidente – è nella sua essenza violenza, cioè volontà di trasformare il mondo, e quindi volontà che vuole l’impossibile ”. “ L’anello del ritorno ”: “Corpo estraneo” o “problema insoluto della filosofia nietzscheana, la dottrina “dell’eterno ritorno dell’uguale” è tanto citata quanto misconosciuta. Anche nella trattazione di Heidegger, non è difficile riconoscere elementi funzionari al pensiero dell’interprete. La complessa lettura di Severino – che fra l’altro discute a fondo l’esegesi di Heidegger – scende nella dimensione più inaccessibile del pensiero di Nietzsche, e ha perciò, anzitutto, il merito di restituire l’eterno ritorno al lettore che voglia avvicinar la nuda, ipnotica vertigine, ontologica. Applicando il suo sguardo analitico a tutta la costellazione filosofica disposta da Nietzsche intorno al movimento circolare dell’anello, Severino giunge a scorgere nell’ eterno ritorno la conseguenza inevitabile della fede nel divenire e cioè della fede nella morte di Dio; d’altra parte questa inevitabilità è anche la forma estrema assunta dal nichilismo quale Severino lo concepisce. Con la dottrina dell’ eterno ritorno Nietzsche porta al suo,“culmine” il carattere costitutivo non solo della filosofia contemporanea, ma della stessa civiltà della tecnica cioè “la distruzione inevitabile della tradizione, filosofica e dell’intera tradizione dell’Occidente”. L’eterno ritorno, come “estrema approssimazione del mondo del di venire al mondo dell’essere”, ha fatto emergere “la punta della montagna di ghiaccio” che vaga nelle acque profonde del pensiero contemporaneo. La montagna è la follia del divenire come convinzione che le cose vengano dal nulla per ritornarvi- l’abnorme “follia dell’Occìdente” da cui tutto il pensiero di Severino, il pensiero della Gioia, ovvero del destino della verità immutabile dell’essere – ha cercato e cerca di “svegliarci” e “disincantarci”. Già da queste osservazioni si può arguire che l’ anello del ritorno è destinato ad assumere una posizione centrale fra le opere teoretiche del suo autore. “Non ci si è mai resi conto che anche la dottrina dell’ eterno ritorno di tutte le cose ha lo stesso intento della dottrina della morte di Dio: escludere in nome dell’ evidenza della creatività dell’ uomo e del divenire, ogni Essere immutabile che, con la sua esistenza, smentirebbe e ridurrebbe a semplice apparenza tale evidenza. Una dottrina dell’ eterno ritorno che, lungi dall’ essere un corpo estraneo nel pensiero di Nietzsche, appartiene alla voce essenziale dell’ Occidente e anzi le aggiunge un timbro di straordinaria potenza. Riguarda il tempo; e propriamente il passato”. “ La gloria ”: è il pensiero di Severino condotto alle sue ultime conseguenze. Destino della necessità, sino a oggi l’opera di Severino su cui convergono tutte le altre, si chiudeva con la promessa di una Parte seconda che avrebbe fornito risposta alle domande più gravi e più sorprendenti che il testo aveva evocato. Alla pars destruens condotta con rigore sulle tesi fondamentali del pensiero occidentale doveva seguire una pars construens che mostrasse come è possibile e che cosa implica un pensiero non fondato sul presupposto che ogni essente sorga dal nulla e al nulla ritorni. Quella promessa viene mantenuta, a distanza di ventun anni, con questo libro. Dove alla Gioia, termine già presente in Destino della necessità e inusuale nel discorso filosofico, si appaia la Gloria, termine che ha un lungo passato, ma teologico più che filosofico. E di conseguenza l’uomo stesso – ovvero il soggetto che legge – scoprirà di essere, da sempre, qualcosa di radicalmente diverso da ciò che suppone di essere. Che è appunto la più alta ambizione del pensiero in genere. “ Il disvelamento della Gioia, nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra, è la Gloria. […] E a maggior ragione è la Gloria, se si tiene presente che la risposta ora fattasi innanzi dice che l’eterna e finita manifestazione dell’eterno e del destino è un dispiegamento infinito che non si arresta in alcuna configurazione definitiva della terra, non ha la strada sbarrata da alcuno spettacolo conclusivo; e portando alla luce regioni sempre diverse della totalità dell’eterno non lascia cadere nell’oblio nemmeno la più piccola e irrilevante di tutte quelle che esso ha già portato alla luce ”.
LA GLORIA
” La Gloria “, il cui titolo completo include il frammento eracliteo “Assa ouk èlpontai ” (cose che essi non sperano), è un libro che, come lo stesso autore dichiara, rappresenta un debito nei confronti di chi, estimatori del suo pensiero, da anni, attendono risposte a domande lasciate in sospeso in quello che è certamente una delle sue opere più indicative e importanti, cioè il ” Destino della necessità ” (1980), da cui si traevano le inevitabili conclusioni di un discorso che impegnava il filosofo sin dal 1964. Ma come accade spesso, in ogni autentico filosofare, le conclusioni non sono mai definitive, molte sono le sorprese che s’incontrano lungo il cammino a volte estenuante. E quello che l’autore ci offre in questo libro è una chiarificazione che nulla concede al lettore ma tutto alla tesi in questione. Nel consueto modo di argomentare, Severino, ci conduce verso le asperità del suo pensiero prendendo in considerazione, sotto una luce diversa, temi oggi al centro del dibattito filosofico quali, il dolore, l’intersoggettività e il problema connesso dell’alterità. Il tutto attraverso una prosa di non sempre facile lettura, che non mancherà, soprattutto su alcune importanti questioni, di regalare momenti di gioia, ma anche di pena, a tutti i cultori di un pensiero argomentato con rigore. Il 1964 segna un’importante svolta nella filosofia di Severino. È l’anno della pubblicazione del suo celebre articolo ” Ritornare a Parmenide ” (1964), che farà molto discutere, nel quale si stabiliva la necessità di rimeditare il senso delle parole: l’essere è e il non essere non è. Sono gli anni in cui Heidegger interveniva in una serie di seminari, dedicati a Parmenide, in cui sosteneva che, per allontanarsi definitivamente dal giogo della soggettività moderna, era auspicabile un ritorno all’inizio, precisando, però, che tale ritorno non sarebbe dovuto consistere in un ritorno a Parmenide. Severino stesso ci riferisce, in ” La legna e la cenere ” (2000), l’opinione di Gennaro Sasso secondo cui le parole di Heidegger sarebbero forse un’allusione alla tesi contenuta nel suo articolo. Ma cosa si deve intendere con ritornare a Parmenide? Come Severino preciserà in più di un’occasione, si trattava di porre l’attenzione su queste semplici e pur inquietanti parole al fine di ripetere il parricidio platonico, che è il maggior responsabile del nichilismo d’occidente, ormai penetrato sin nelle più intime fibre della nostra cultura, che si è posto alla guida di tutto il mondo. L’età della tecnica, nella quale noi viviamo, esprime, più di ogni altra epoca del passato, la volontà di potenza, la volontà di poter produrre ogni cosa, persino l’uomo. Il nichilismo è pensare che ogni cosa proviene dal niente ed è destinata al niente. La cosa, priva d’ogni legame necessario con l’essere, può essere modificata a piacimento. Ma si tratta di comprendere che ciò è un’illusione: perché è impossibile che l’essere possa non essere. Tutto il passato e il futuro sono, nulla proviene da nulla, essi non sono né il semplice ricordo né la palpitante attesa. Il passato, così come il futuro, sono eternamente in salvo dal niente anche se di questo non abbiamo coscienza. Ogni cosa, compresi noi stessi, siamo e non potremo mai morire veramente, poiché, al pari degli dèi, siamo eterni. Questo pensiero, qui semplificato, costituisce il tema cardine che, come in un poema sinfonico, ricorre nelle sue variazioni fino alla sua più autentica celebrazione espressa in questo libro. Da qui il frammento eracliteo, l’eternità è ciò che noi non speriamo. La Gloria è lo splendore incontrovertibile dell’eternità.
“DIALOGO SU DIRITTO E TECNICA”
Inconsueto, ma di notevole interesse, è il dialogo tra il giurista e il filosofo, rispettivamente Natalino Irti – professore di Diritto civile – e Emanuele Severino. Interessante il tema, ossia il rapporto tra diritto e tecnica, e la forma, realmente dialogica ossia costruita sul contraddittorio, sulla “schermaglia” argomentativa, che si accende anche grazie alla, pur da lui stesso negata, confidenza con le “cose” filosofiche del giurista Irti. È questi ad esordire – il dialogo si articola in due “atti” – profilando la sua concezione del diritto, consolidata nella contemporaneità: il diritto, dopo la crisi del giusnaturalismo, non può che essere “positivo”: “posto [nel senso del participio passato di ponere]: e posto dagli uomini nella storicità del loro vivere”. A costituire il diritto, quindi, sono norme aventi esclusivamente validità procedurale, e non verità di contenuto. È all’interno di tali norme che le proposizioni ideologico-politiche o economiche -i molteplici lógoi- devono tradursi per riuscire ad ottenere efficacia (il che, ovviamente, significa prevalere sulle altre, antagoniste). Con una digressione sulla differenza che intercorre tra diritto e politica da una parte, legati al “territorio”, e economia e tecnica dall’altra, delocalizzate e destoricizzate, Irti giunge alla perentoria tesi che, nonostante l’indebolimento della politica e la normatività giuridica -tralasciamo alcune considerazioni sulla natura della democrazia- permane “la differenza logica tra la regola e il regolato: ossia, tra diritto, da un lato, e capitalismo e tecnica, dall’altro”. Irti affronta quindi la definizione che Severino dà della tecnica (si veda “Il destino della tecnica”) come “incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, che è incremento indefinito della capacità di soddisfare bisogni”. La sua critica si concentra su questo punto: siffatta capacità della tecnica non comprende, per sua costitutiva essenza, la capacità di scegliere “uno”, un “determinato”, scopo; la tecnica sarebbe segnata dall’astrattezza – o se si vuole dall’indeterminatezza – e perciò non in grado di rispondere alle domande fondamentali del diritto: che cosa prescrivere? Come comportarsi? In base quale criterio decidere, cioè separare la ragione e il torto? Alla fine dell’atto primo, Irti riassume la differenza tra la sua concezione e quella di Severino – sostenitore a suo giudizio di un “giustecnicismo” -in questi termini: se quello del diritto positivo è il mondo della decisione e della scelta in circostanze determinate, esso si presenta come capacità di realizzare determinati scopi: la tecnica, così come pensata da Severino, rischia di essere invece un “apparato che risuscita gli antichi dèi”. Evidenziato l’accordo relativo al tramonto della verità immutabile e incontrovertibile, la risposta di Severino affonda nel cuore dell’intera questione: se la norma riesca in qualche modo a controllare la tecnica (o sia la tecnica a subordinare a sé il diritto, le norme). Se l’atteggiamento politico-giuridico continua a volere regolare la tecnica (così come l’economia), ciò non implica il successo di tale volontà. Al contrario, è la tecnica che per Severino è “destinata a diventare il principio regolatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà”. A partire da qui egli sviluppa la sua argomentazione: caratteristica di forme di volontà di potenza, nelle vesti di norme religiose, morali, giuridiche, politiche, economiche è la volontà di realizzare scopi escludenti, ossia “la cui realizzazione mira insieme all’esclusione della realizzazione di altri scopi”. La tecnica per sua essenza non mira a scopi escludenti, bensì ha come scopo la crescita infinita nella propria potenza. Qual è lo scenario epocale aperto dalla contemporaneità? “La tecnica tende all’onnipotenza”. La tecnica rivela però una sua concretezza, poiché è la forma della produzione reale degli scopi, produzione che concorre all’aumento indefinito dell’apparato scientifico-tecnologico: la tecnica è non trascendente, come in fondo pensa Irti, bensì, si noti, trascendentale. Severino sottolinea che la dominazione della tecnica, che è “processo tuttora in atto”, non elimina la norma, ma la subordina a sé. Un esempio concreto di ciò è offerto dalla manipolazione genetica, dalla sua capacità di trasformare la normatività tradizionale a vantaggio della potenza della tecnica. Questa “distrugge” e sostituisce l’onnipotenza di Dio instaurando una dominazione che si presenta coma la forma rigorosa della Follia estrema dell’Occidente: solo rispetto al divenir altro delle cose del mondo, degli enti, infatti, può costituirsi una qualsiasi forma di volontà di realizzare scopi. Alla luce della tesi dell’intrascendibilità del diritto, Irti riprende il filo del suo discorso insistendo sul fatto che il capitalismo, come la tecnica, ha un costitutivo bisogno di diritto. A suo giudizio la tecnica in Severino assume, con “inattesa movenza kelseniana”, i caratteri della Grundnorm, norma suprema da cui ogni ad alta norma deriva. Egli ritiene però che anche la stessa tecnica, la normatività tecnologica, non possa non presentare un carattere escludente e contenutistico. Il rapporto tra il diritto e il capitalismo, o la tecnica, che dev’essere pensato sul piano del “prevalere storico”, sarebbe stravolto da Severino sulla base di un “rovesciamento logico” e dell’eliminazione della differenza tra principio regolatore (diritto) e regolato (tecnica): si assisterebbe così ad una derivazione di norme politico-ideologiche dalla Grundnorm tecnologica. Essa, in quanto “forma di volontà mirante per raggiungere scopi non escludenti, escluderebbe tutti gli scopi contrastanti con la propria infinita capacità di raggiungere scopi”. Irti intende sostenere, con acutezza, che la tecnica ha pur sempre uno scopo, ossia proprio quello di realizzare scopi, e quindi deve negare il suo opposto, che possiamo chiamare “anti-tecnica”? Non si procede oltre. Sottolineiamo en passant che nella sua prospettiva il diritto finisce per condividere alcuni connotati propri della tecnica: il diritto infatti si potrebbe definire come “infinita capacità di rendere efficaci (ed escludenti) volontà o proposizioni, ideologiche (politiche, economiche eccetera)”. Ritornando all’argomentazione di Irti, il presunto giustecnicismo severiniano si dovrebbe ridurre a ipotesi politico-ideologica in conflitto con le altre, costretta, se vuole imporsi, a “scorrere” nei nomodotti, nei canali procedurali del diritto. Anche la tecnica, con linguaggio forense, sarebbe una parte in causa agli occhi del giurista e non, come pensa invece il “filosofo”, super partes. In conclusione, la tecnica o è teologicamente astratta oppure è un’ipotesi contendente, tra le altre. Severino replica svolgendo le sue argomentazioni ad un livello più profondo. Egli nega che il contenuto delle norme sia ricavabile dalla volontà della tecnica di incrementare la propria potenza: piuttosto il diritto, il capitalismo o quant’altro, sono destinati a sottostare alla regola imposta dalla tecnica: il diritto diviene “mezzo” della tecnica. Nella filosofia di Severino la tecnica si sviluppa sull’impossibilità dell’esistenza di limiti assoluti dell’agire: questa è la prospettiva decisiva dischiusa dal pensiero contemporaneo. È sì possibile dire che la tecnica “prevale storicamente”, ma in ciò avviene anche quel fondamentale “rovesciamento”, che Irti considera a torto puramente logico, per cui la tecnica stessa diviene scopo, regola, secondo necessità o destino (in ogni caso è mantenuta la differenza regola/regolato). E si configura come tale perché l'”esclusione” che essa implica non concerne l’opposto (antitecnica) ma, su un piano diverso, – è un punto chiave della replica severiniana -, il carattere escludente degli scopi-volontà di potenza. Riguardo al contenuto delle norme (= mezzi), questo non è annullato, cambia semplicemente: il loro contenuto inoltre non è deducibile dalla “legge” della tecnica, con la quale invece è possibile una sintesi (tra l’altro neanche in Kelsen dalla Grundnorm è deducibile il contenuto delle altre norme). Nell’ultima, pregnante parte dell’analisi di Severino si delinea l’orizzonte peculiare della sua filosofia. Nel rivendicare l’esistenza di un conflitto tra le varie forme di volontà di potenza, Irti viene ad esprimere la tesi di fondo del pensiero contemporaneo: ma questa stessa tesi si rivela in fondo essere un’interpretazione. In che senso? Il pensiero contemporaneo non è scetticismo ingenuo, ma consiste nella negazione della verità metafisico-epistemica (immutabile, che è anche “morte di Dio”), sul fondamento-verità assoluta del divenire. Ma è proprio quest’ultima che Severino ha da sempre messo in questione. Nel finale egli illustra una delle molteplici ragioni che sostengono l’inevitabilità del dominio della tecnica, la quale è però condizionata dall'”evidenza” che il divenire, e il conflitto, il “gioco” (delle volontà di potenza) che ne è espressione, sia innegabile: il dominio della tecnica, peraltro, se ha una sua inesorabile logica, è però esso stesso casuale e destinato a tramontare. L’altra strada che si può percorrere è allora quella tracciata dallo stesso Severino, impervia ed estrema, che confuta la verità del divenire e che, in particolare, non offre nella tecnica, come pensa Irti, la figura di un “nuovo Dio “, poiché proprio il Dio metafisico ha definitivamente soppiantato la tecnica (la filosofia di Severino proprio negli ultimi tempi ha conosciuto, forse, una sua “risoluzione” nel libro “La Gloria”).
“L’ANELLO DEL RITORNO”
A CURA DI DANIELE DIDERO
“ Come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno? Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, Eternità! ”; “Così parlò Zarathustra, “I sette sigilli (ovvero il canto del sì e dell’amen)”. Con queste parole, Nietzsche esprime il senso del rapporto tra il divenire e l’eternità dell’eterno ritorno – dell’anello del ritorno: la volontà di creare (di “avere figli”), ossia il divenire stesso come continua creazione, è possibile solo se non è bloccata, resa impotente, dagli immutabili metafisico-morali e da quell’immutabile che è il passato (che si costituisce come la dimensione dell’immodificabile per eccellenza, come il macigno del “così fu”: nel linguaggio dello Zarathustra, ciò è rappresentato dallo “spirito di gravità”); quindi, il divenire – l’evidenza innegabile dell’Occidente – sarà possibile solo sul fondamento dell’eterno ritorno, della potenza della volontà sullo stesso passato. “ L’anello del ritorno ” è dedicato all’analisi di queste tematiche e di queste implicazioni: attraverso un costante confronto con l’interpretazione heideggeriana di Nietzsche, il volume di Severino esamina i testi in cui viene fondata la dottrina dell’eterno ritorno, prendendo in considerazione i cardini concettuali del pensiero nietzscheano e la sua potenza speculativa, che segna un punto di massimo rigore nello sviluppo del pensiero dell’Occidente e della fede nel divenire. Assieme a Leopardi (e – per quanto riguarda l’indagine sulla concreta struttura del divenire – a Gentile), Nietzsche rappresenta – per Severino – uno dei massimi punti di autoconsapevolezza del pensiero occidentale, uno dei momenti in cui l’essenza dell’Occidente – l’essenza del nichilismo – raggiunge la maggior chiarezza consentita a chi rimanga nell’orizzonte del nichilismo stesso: essi si spingono “ fino al limite estremo della coscienza che l’Occidente, rimanendo se stesso, può avere della propria autentica essenza […] Leopardi e Nietzsche si portano a ridosso di quel limite, perché scorgono ciò che per l’Occidente è l’assolutamente impensabile, ossia che il divenire dell’essere è contraddizione (autocontraddittorietà, impossibilità) ” . Il pensiero di Nietzsche va quindi preso sul serio: ma prendere sul serio il pensiero di Nietzsche significa innanzitutto, per Severino, evitare di ridurlo ad una riformulazione dello scetticismo ingenuo: significa, cioè, evitare di attribuire – come invece fa Heidegger – un carattere trascendentale alla negazione nietzscheana della verità, il quale riporterebbe il pensiero del nostro filosofo ad una posizione che, ben lungi dal costituire qualcosa di “abissale”, era già stata formulata e confutata fin dai tempi della Sofistica. Ora, Severino rileva invece che “ affermazioni come: ‘ogni conoscenza è sempre falsa, ma vi è, in tal modo, un rappresentare’ non hanno nulla a che vedere con lo scetticismo assoluto, ma dicono che, proprio perché la conoscenza è sempre falsa (‘in tal modo’), la conoscenza rappresenta qualcosa, ossia c’è un rappresentare, e questo esserci è la nostra unica certezza ”. La “certezza fondamentale” è la “constatazione” di un “fatto”; anzi, del “fatto”, il “fatto” del divenire dell’essere – dell'”essere che ha rappresentazioni”: “ che l’essere abbia rappresentazioni non è un problema, è il fatto: se in generale vi sia un essere diverso da quello che ha rappresentazioni, se il rappresentare sia una qualità dell’essere […], questo è un problema ”. Allo stesso modo, non va intesa in senso trascendentale neppure la negazione nietzscheana del principio di non contraddizione: quello che Nietzsche nega, infatti, non è l’opposizione di essere e nulla, di positivo e negativo (essenziale perché si possa parlare di divenire: se il qualcosa fosse immediatamente identico al proprio altro, non potrebbe infatti diventare questo altro, proprio perché lo sarebbe già), bensì è la valenza “logica” del principio di non contraddizione, quella fondata sul concetto di “cosa”; concetto che – sottolinea Nietzsche – è di per sé falsificante, in quanto interpreta il flusso caotico del divenire introducendo in esso (per un’esigenza di conservazione vitale: per rendere prevedibile il divenire, rendendo uguale ciò che è diverso) la stabilità. Ma – appunto – questa valenza “logica” del principio di non contraddizione viene rifiutata da Nietzsche proprio in quanto essa è falsificante e, in ultima analisi, contraddittoria (in quanto in essa vengono identificati i contraddittori, viene considerato uguale – sulla base del principio di assimilazione – ciò che è diverso): viene rifiutata, quindi, in forza dello stesso principio di non contraddizione, che esclude l’identità dei diversi (A non è non-A). E, d’altro lato, la stessa dottrina dell’eterno ritorno richiede che ciò che eternamente ritorna, ritorni “ così come esso è stato ed è ” (Al di là del bene e del male, aforisma 56), cioè nel suo essere identico a ciò che esso è stato, e nel suo non essere l’altro da ciò che esso è stato. Se il pensiero di Nietzsche non è riducibile ad una forma di scetticismo ingenuo, la negazione in esso operata delle “verità” appartenenti all’ordine metafisico-morale non può essere fine a se stessa, ma deve essere sviluppata a partire da un’altra verità, considerata come la verità originaria, evidente e innegabile: e qual è, per Nietzsche, questa verità innegabile? È (come sottolineato dal filosofo tedesco in una annotazione della primavera-autunno 1881, dal titolo “Certezza fondamentale”) la verità del divenire, che è immediatamente presente come flusso di rappresentazioni: “ l’annotazione sulla ‘certezza fondamentale’ rileva infatti che […] è di per sé chiaro che il rappresentare non è nulla di immobile, di uguale a se stesso, di immutabile: l’essere, dunque, che unicamente ci è garantito, è in mutamento, non è identico a se stesso… [non ha, cioè, la fissità che il principio di assimilazione, con il concetto di “cosa”, vorrebbe imporgli, falsificando ciò che esso in realtà è] – Questa è la certezza fondamentale dell’essere ”. È indubitabile l’essere delle rappresentazioni (è indubitabile l’attività del rappresentare, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno l’attività di un soggetto), e questo essere si manifesta in continuo divenire: questa dimensione originaria ed innegabile del divenire verrà indicata da Nietzsche come “volontà di potenza”, e sarà da lui posta come l’essenza stessa dell’essere. Il divenire come volontà di potenza è quindi per Nietzsche la verità prima e indubitabile. L’impegno centrale del testo di Severino sta nel mostrare come la dottrina dell’eterno ritorno, ben lungi dal rappresentare un corpo estraneo nel pensiero nietzscheano o, comunque, un “postulato pratico”, non teoreticamente fondato, sia invece la necessaria conseguenza di questa affermazione del divenire, e come questa necessità sia rigorosamente fondata negli scritti di Nietzsche. In particolare, Severino prende in esame lo sviluppo logico che intercorre fra tre capitoli di “Così parlò Zarathustra” : “Sulle isole beate”, “Della redenzione” e “La visione e l’enigma”. La distruzione – operata da Nietzsche – della tradizione occidentale è la distruzione degli immutabili via via eretti da questa tradizione: in primo luogo, dell’immutabile costituito da Dio, inteso come l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro, qualcosa cioè che si sottrae alla volontà. Di fronte a questo Dio, alla volontà umana “ non resterebbe più nulla da creare ”. Il creare è infatti innovazione, e l’innovazione presuppone che ci sia un ambito aperto alla novità: ora, la posizione di questo Dio immutabile che, come omnitudo realitatis , contiene già tutto in sé (è “Pieno” e “Satollo”), esclude proprio la possibilità dell’esistenza di questo ambito di novità, necessario perché il creare non sia ridotto a semplice apparenza, illusione. Ma che il creare umano non sia semplice illusione, è per Nietzsche – così come per la tradizione che egli critica – l’evidenza fondamentale, la verità prima e indubitabile: è evidente – per l’Occidente – che le cose divengono, passano dall’essere al nulla, esistono ora ma non esistevano prima e non esisteranno dopo. In quanto il divenire è inteso come passaggio dall’essere al nulla (e viceversa), esso è creazione: la creazione non è quindi soltanto l’opera di Dio (che è un determinato tipo di creazione, in cui viene posta in essere anche la materia, il sostrato delle cose), ma è ciò che è proprio di ogni tipo di divenire (perché almeno qualcosa, qualche aspetto di ciò che diviene, passa dall’essere al nulla). Quindi, poiché il divenire è l’evidenza fondamentale (ciò che per l’Occidente non può esser negato), poiché il divenire è creazione, e poiché la creazione richiede l’apertura di un ambito di novità, Nietzsche conclude che l’esistenza di Dio (che, includendo già tutto in sé, esclude la possibilità dell’esistenza di questo ambito di novità) vada negata: l’evidenza del divenire implica necessariamente la morte di Dio. Ora, Severino sottolinea come la forza della distruzione nietzscheana stia nel fatto che essa si basa sulla stessa fede nell’esistenza e nell’evidenza del divenire, che è condivisa anche dalla tradizione criticata: la critica nietzscheana non è dunque, per questa tradizione, qualcosa di puramente estrinseco, ma è qualcosa di estremamente intrinseco, è il necessario sviluppo di ciò che da quella tradizione è affermato. Ma la critica nietzscheana non si ferma qui, bensì si estende (necessariamente) ad ogni immutabile epistemico che, posto al di sopra del divenire, finisce per vanificarlo, renderlo illusorio: l’uomo “metafisico-morale” della tradizione occidentale ha eretto questa serie di immutabili (metafisici, logici, etici…) per dominare il divenire, per porre un rimedio all’angoscia che esso – in quanto imprevedibile – genera, ma questo rimedio si è mostrato essere peggiore del male (perché viene a ridurre ad illusione ciò che l’Occidente pone come l’evidenza prima, come la dimensione della vita stessa dell’uomo); l’uomo “dionisiaco”, il “superuomo”, si rende conto di questo ed affermando il divenire in tutti i suoi aspetti, pronunciando gioiosamente il proprio “sì” alla vita (anche nei suoi aspetti dolorosi e tragici), distrugge quella serie di immutabili che la tradizione ha edificato. Ma – e l’osservazione è di centrale importanza – il “superuomo” non è semplicemente altro rispetto all’uomo “metafisico-morale”: esso è invece il necessario sviluppo di quest’ultimo, che si ha quando egli (in quella che Nietzsche indica come “l’ora del meriggio”) si rende conto che, con la posizione degli immutabili, ha tradito la propria più profonda essenza, il proprio essere volontà di potenza, divenire creatore. Ogni immutabile, ogni dimensione che si sottragga al divenire creatore, è una forma di negazione dell’evidenza del divenire stesso (si badi: della fede nel divenire, che per l’Occidente è la suprema evidenza); ogni immutabile, infatti, costituendo una dimensione alla quale ciò che nel divenire viene ad essere deve adeguarsi, dà un senso al divenire, lo rende in qualche modo prevedibile (se, ad esempio, la legge della gravitazione universale viene considerata come immutabile, allora si deve ritenere che ciò che viene ad essere debba adattarsi a questa legge, ed in ciò esso è reso prevedibile). Ma l’essenza del divenire richiede che il divenire non abbia un senso, proprio perché questo senso costituirebbe qualcosa al quale il divenire dovrebbe adattarsi, configurarsi, sì che esso non potrebbe più avere quella imprevedibilità che gli viene dal fatto che ciò che viene ad essere, viene (almeno in parte) dal nulla, ossia dall’assolutamente imprevedibile: dire che ciò che viene ad essere sia in qualche modo prevedibile – abbia quindi un senso che vada oltre al suo puro esserci di fatto -, significa dire che il nulla dal quale le cose provengono non sia realmente il nulla, e che quindi il divenire delle cose – come passaggio dall’essere al nulla – sia soltanto illusorio. Ora, l’ultima dimensione dell’immutabile destinata a cadere è, per Nietzsche (Così parlò Zarathustra, “Della redenzione” e – quindi – “La visione e l’enigma”), quella del passato: il macigno del “così fu”, nel suo ormai definitivo sfuggire alla volontà. La redenzione del passato consiste appunto nel ricondurlo all’ambito di ciò che non è sottratto alla volontà, ossia di ciò che non è definitivamente sottratto al divenire stesso, perché la volontà di potenza non è – per Nietzsche – qualcosa di soltanto umano, ma è l’essenza stessa dell’essere (in quanto esso è divenire, continuo tendere ad un di più di potenza): “ tale volontà [la volontà umana] appartiene essa stessa alla molteplicità del divenire e del caos, ossia appartiene alla “olontà di potenza che include la volontà dell’uomo (e del superuomo, e di tutto ciò che non è né uomo né superuomo) e che è lo stesso orizzonte trascendentale dell’essere: l’essenza più intima dell’essere è volontà di potenza ”. Ma ciò non può significare che la volontà venga a modificare il passato: quand’anche così fosse, infatti, non si farebbe altro che aggiungere un secondo “esser stato” al primo, non si farebbe altro che allargare la dimensione dell’immutabile esser stato (ad esempio, quand’anche fosse possibile mutare il risultato della battaglia di Stalingrado, non si cancellerebbe con ciò l’esser stato della vittoria russa: avremmo invece un esser stato della vittoria russa prima della modificazione del passato, ed un esser stato della vittoria tedesca dopo la modificazione del passato – l’unico risultato sarebbe quindi quello di aggiungere un altro esser stato, a sua volta immodificabile, al primo). La via della redenzione del passato è perciò un’altra: il “pensiero abissale” dell’eterno ritorno. Di fronte allo spirito di gravità (il macigno del “così fu”), mezzo nano e mezza talpa (“La visione e l’enigma”), Zarathustra espone così la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale: essa è necessariamente implicata dalla fede nell’evidenza del divenire, come condizione di possibilità del divenire stesso. Il passato deve essere redento, deve essere riportato nell’ambito della volontà di potenza, perché altrimenti esso – come immutabile – vanificherebbe il divenire, lo renderebbe qualcosa di illusorio; ma la redenzione del passato non può essere la sua modificazione, con il costituirsi di un altro passato, perché ciò amplierebbe solo la dimensione dell’immutabile; dunque, lo stesso passato, in tutte le sue sfumature di contenuti, deve eternamente ritornare così come esso è stato. Il tempo, quindi, non ha uno sviluppo semplicemente lineare, bensì circolare: l’andare in avanti è, insieme, un tornare indietro, perché andando avanti ci si muove – restando in un circolo – verso il punto di partenza. Quindi, ciò che stato non è qualcosa di immodificabile, di eternamente sottratto alla volontà, ma è – all’opposto – qualcosa che ritornerà infinite volte, eternamente, ossia sarà eternamente voluto (perché, torniamo a sottolinearlo, la volontà di potenza non è qualcosa di semplicemente umano, ma è la stessa dimensione universale del divenire, del dionisiaco) così come esso è stato. Ritornando eternamente su se stesso, il divenire del mondo – e quindi il mondo stesso – non ha principio né fine, non ha alcuno scopo né alcun senso il cui essere prestabilito ed immutabile vanificherebbe il divenire stesso. Il superuomo, conoscendo la dottrina dell’eterno ritorno e volendo l’eterno ritorno, si identifica allora con la dimensione universale della volontà di potenza, essendone la piena consapevolezza: “Il superuomo non è un “individuo” – che per definizione è qualcosa rispetto a cui il mondo è esterno e indipendente -; non è un “io” o una coscienza individuale, ma è “il pensiero più potente”, che è insieme la volontà più potente; “il dire sì alla vita” che, come eterno “piacere del divenire”, è “anche il piacere dell’annientamento” di ogni individualità: la dimensione del “dionisiaco” che dice di sì a se stessa” . In quest’ottica, Nietzsche può parlare di un amor fati (che è, a sua volta, fatalis): il superuomo vuole ed ama la necessità dell’accadere di ogni cosa, che si ripete all’infinito. Ma occorre tenere distinta questa forma dell’amor fati da quella sostenuta, ad esempio, dagli Stoici; mentre per questi ultimi, infatti, la necessità di ogni cosa è una necessità razionale, epistemica (frutto della provvidenza divina del Logos, che guida lo sviluppo di ogni cosa come principio immanente dell’universo), la necessità di cui parla Nietzsche è una necessità cieca, irrazionale: gli enti, infatti, non hanno alcun legame intrinseco fra di loro, perché questo legame sarebbe – di nuovo – un immutabile che vanificherebbe il divenire. La necessità nietzscheana è allora la necessità dello stesso ripetersi eterno del caos: “ il caos implica la necessità del ritorno eterno del caos, della mancanza di senso del tutto. Appunto per questo Nietzsche scrive che ‘il carattere complessivo del mondo è … caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine’ metafisico-epistemico ” . Sono così in errore, secondo Severino, gli interpreti che credono di scorgere immediatamente nella dottrina dell’eterno ritorno un’incoerenza nel pensiero nietzscheano rispetto all’affermazione del divenire e della libertà creativa. L’incoerenza c’è, ma non è nel modo in cui Nietzsche porta in luce l’implicazione necessaria tra divenire ed eternità, tra libertà e necessità; l’incoerenza è molto più radicale, e sta nel concetto stesso di divenire, il quale – e nel portare questo in luce sta la forza della filosofia di Nietzsche, che pure non si spinge fino a riconoscerlo esplicitamente – è tale da implicare necessariamente la propria negazione. Forse proprio presentendo questa catastrofe del proprio pensiero (e, con esso, del pensiero occidentale), lo stesso Nietzsche – come racconta Andreas-Salomé – avrebbe provato “quell'”indicibile tristezza” per l’avverarsi del pensiero dell’eterno ritorno, e ne avrebbe parlato solo con quella “ voce sommessa e mostrando tutti i segni del più profondo raccapriccio ”. Così, se il canto della leopardiana ginestra è l’espressione della vita passeggera che l’anima riceve dalla stessa forza con cui sente la morte propria e di tutte le cose (e il suo canto non toglie questa morte universale), la gioia del superuomo per il proprio eterno ritornare nell’essere “è la maschera inevitabilmente indossata dall’angoscia a cui l’Occidente è destinato. Al di là della follia del divenire e cioè dell’eternità dell’Occidente, la Gioia del destino della verità non maschera alcuna angoscia”. Il merito principale del lavoro di Severino sta nell’affrontare il nucleo teoretico del pensiero nietzscheano, che, al di là delle contraddizioni che spesso gli vengono imputate, va invece preso sul serio, in tutta la sua potenza speculativa. Resta comunque necessario soffermarci un istante per un rilievo critico, dovuto proprio al fatto che, almeno in un punto, Severino finisce poi col prendere il pensiero di Nietzsche un po’ troppo sul serio… Il punto è quello delle annotazioni sull’eterno ritorno scritte da Nietzsche nel 1881-1882, prese in esame da Severino nel capitolo IX de “L’anello del ritorno”. Si tratta delle prime formulazioni nietzscheane della dottrina dell’eterno ritorno: in esse, il filosofo tedesco cerca di fondare questa dottrina a partire dalla considerazione sulla finitezza delle forze dell’universo le quali, proprio in quanto finite (e necessariamente finite, perché altrimenti si dovrebbe ammettere una miracoloso forza infinita, una sorta di Dio immanente), in un tempo infinito dovrebbero esaurire infinite volte tutte le possibili loro combinazioni. Ora, nonostante tutti gli sforzi di Severino per difendere la coerenza e la rigorosità del pensiero di Nietzsche su questo punto, mi sembra che queste annotazioni – prescindendo dalle considerazioni sviluppate in seguito nello Zarathustra circa la redenzione del passato – non riescano ancora ad arrivare alla fondazione dell’eterno ritorno. Infatti, anche se si arriva a dimostrare la finitezza delle forze nell’universo (e quindi la finitezza delle loro possibili combinazioni), e anche se si arriva a dimostrare l’infinità del tempo (perché dare una fine al tempo significherebbe dare un qualcosa da raggiungere, uno scopo, al divenire), non ne segue però ancora la necessità della circolarità del tempo, dell’eterno ritorno: anche se tutte le possibili combinazioni delle forze devono realizzarsi, in un tempo infinito, infinite volte, non ne segue che esse debbano realizzarsi nello stesso ordine di successione (che si debba formare, quindi, un circolo, un ritorno); anzi, prescindendo dalla dottrina sulla redenzione esposta nello Zarathustra, si sarebbe più portati a credere che, proprio in forza del caos e dell’imprevedibilità del divenire, queste combinazioni vengano a succedersi in un ordine sempre nuovo ed imprevedibile. È certamente possibile supporre che, negli anni 1881-1882, Nietzsche avesse già raggiunto l’autentica fondazione dell’eterno ritorno (che poi esporrà nello Zarathustra), e che in queste annotazioni si limiti a cercare un’altra strada per giungere allo stesso risultato; in ogni caso, mi sembra però che quest’altra strada non conduca Nietzsche dov’egli voleva arrivare.
“LA BUONA FEDE”
A CURA DI DANIELE DIDERO
La “buona fede”, la rettitudine della coscienza, è la convinzione di fare ciò che si è convinti che debba essere fatto. In questo senso, essa è il fondamento dell’agire morale, sia che questo venga inteso nell’ambito di un’etica dell’intenzione (dove ciò che conta per la moralità dell’azione è l’intenzione del soggetto che la compie, ossia proprio il suo essere in buona fede, il suo credere di agire nel modo dovuto), sia che ci si muova nel quadro di un’etica della responsabilità (perché, anche in questo caso, ciò che conta per valutare la moralità dell’azione è la consapevolezza – la convinzione motivata, dunque nuovamente una forma di fede – da parte del soggetto che ciò che viene fatto sia effettivamente un bene. In questo secondo caso, cioè, non basta più che il soggetto abbia l’intenzione di fare il bene, ma occorre anche che egli si preoccupi – responsabilmente, appunto – di valutare che ciò che egli compie sia effettivamente, in quella situazione, un bene: ma anche questo valutare rientra, ultimamente, nell’ambito del credere, quindi ancora nella “buona fede” – non possiamo infatti mai sapere con certezza assoluta quali saranno i risultati di una nostra azione e quale insieme di conseguenze essa implicherà, possiamo solo limitarci a crederlo). Mettendo in discussione il senso ed il valore della buona fede, Severino può così arrivare a scuotere dalle fondamenta l’edificio che l’etica dell’Occidente (nelle diverse forme che via via essa è venuta ad assumere) ha costruito. E il discorso severiniano viene ad investire la fede (che, occorre notare, non va qui intesa come la sola fede cristiana, ma come ogni possibile forma di fede, come la fede in quanto tale) sia dal punto di vista della sua struttura formale, sia dal punto di vista del suo contenuto essenziale (cioè di ciò che, dal lato del contenuto, accomuna le differenti forme storiche che la fede ha assunto nell’Occidente: la posizione del divenire come evidenza originaria, indiscutibile). Guardando alla sua struttura formale, la buona fede è – si diceva – la convinzione di fare ciò che si è convinti che debba esser fatto: in quanto convinzione, essa è fede, e in quanto si rapporta a ciò che dovrebbe esser fatto, essa è buona; l’uomo moralmente buono sarebbe pertanto colui che agisce con la convinzione di compiere il bene. Ora, nota Severino, un tale uomo non esiste e non può esistere, perché non esiste una forma di convinzione (ossia di fede) che riesca, in quanto tale, a liberarsi dal dubbio: non può cioè esistere una fede che sia esente dal dubbio, perché il dubbio è il fondamento della fede. Va subito sottolineato che il discorso di Severino non si limita ad affermare che, di fatto, ogni uomo storico è conteso tra la fede e il dubbio: se questa semplice osservazione fosse infatti la vetta della sua critica alla fede, egli non correrebbe certo il rischio di farsi venire le vertigini… Le sue riflessioni sono invece molto più profonde, e negano la possibilità stessa che si venga a costituire – di diritto, e non solo di fatto – una fede che sia libera dal dubbio e che abbia quindi un valore assoluto. Nella stessa definizione data da S. Paolo, la fede è infatti intesa – osserva Severino – come “prova delle cose che non si vedono” (“pragmáton élenchos ou blepoménon”; Eb 11,1): ciò in cui si ha fede è pertanto qualcosa che non si vede (non solo, ovviamente, in senso fisico), che non appare. Ora, il credente afferma di essere convinto di ciò in cui crede, ma – allo stesso tempo – ciò in cui crede, non apparendogli, non gli è e non gli può essere evidente: e questo non essergli evidente è lo stesso dubbio, che dunque è coessenziale alla fede. La fede è, strutturalmente, una certezza accompagnata dal dubbio, mentre la verità è una certezza accompagnata dal superamento del dubbio: in quest’ultimo caso il dubbio è sì presente, ma soltanto come tolto, superato; nel primo caso, invece, il dubbio è presente in tutta la sua forza, come non tolto (sarebbe tolto soltanto dall’apparire di ciò che – invece – non appare). Quando il credente – di qualunque fede si tratti – dice di essere convinto di ciò in cui crede, egli isola quindi il momento della fede da quello del dubbio: egli dice di esser convinto rispetto a ciò di cui non può, strutturalmente, esser convinto, perché in cuor suo continua a dubitare; il suo credere è soltanto un credere (un illudersi) di credere con quella certezza assoluta – priva di esitazioni – che la fede pretenderebbe di avere. La buona fede, proprio in quanto fede, è così una forma di malafede originaria: se nel senso comune del termine “essere in malafede” significa infatti agire in contraddizione con ciò che si ritiene di dover fare, la buona fede ha già in se una forma più originaria (quindi ad un livello di consapevolezza ed intenzionalità più basso rispetto alle forme più comuni e più elaborate) di malafede, proprio perché in essa ci si convince che debba esser fatto ciò rispetto a cui si dubita se debba esser fatto o meno (questo convincersi è cioè l’azione che l’uomo in buona fede compie in contraddizione col dubbio che egli, in cuor suo, nutre). Ogni morale dell’Occidente, essendo fondata sulla buona fede, ha così in realtà per proprio fondamento una malafede originaria. Il discorso di Severino – sebbene egli non si soffermi su questo aspetto – è anche formalizzabile nei termini di un calcolo epistemico. Indichiamo con «C» il credere qualcosa, con «A» l’apparire di questo qualcosa e con «¬», «>» e «^» rispettivamente i segni logici di negazione, implicazione e congiunzione; sia infine «p» una qualunque proposizione oggetto di fede. Poiché la fede è argomento (prova) delle cose che non appaiono, se noi crediamo al contenuto di una proposizione p, allora questo contenuto non ci può apparire (se ci apparisse, infatti, dovremmo dire che noi sappiamo p, e non semplicemente che lo crediamo): formalmente, avremo che Cp > ¬Ap (cioè: credere p implica il non apparire di p). Ma allora, in forza del senso stesso dell’implicazione, la posizione di «Cp» sarà già in se stessa – concretamente intesa – posizione di ¬Ap (se è vera la prima espressione, sarà vera anche la seconda): sì che ciò che viene effettivamente posto, nell’atto di credere in qualcosa, è la sintesi tra il credere questo qualcosa e il non apparire del qualcosa stesso (ossia, ciò che viene effettivamente posto sarà, nel nostro caso, «Cp ^ ¬Ap»). Poiché, ora, l’espressione «¬Ap» indica lo stesso dubitare intorno a p (di cui, infatti, non ci appaiono ragioni per cui affermarlo), ne risulterà che l’espressione «Cp ^ ¬Ap» indicherà proprio l’inscindibile unione tra la fede e il dubbio: il credente può dire di credere senza dubitare, ma così non fa altro che isolare astrattamente la sua fede dal momento del dubbio, che le è coessenziale; e a queste conclusioni si arriva partendo proprio dalla definizione paolina di fede. Il discorso severiniano, anche dal punto di vista strettamente formale, è quindi ineccepibile. Se già dal punto di vista della sua struttura formale la buona fede dell’Occidente non può esistere nella sua presunta purezza e si mostra essere piuttosto una malafede, dal punto di vista del suo contenuto essenziale essa appare poi come l’errore fondamentale: il nichilismo. Ciò di cui ogni forma di fede dell’Occidente è primariamente convinta (o meglio, per quanto visto sopra, crede di essere convinta), ciò che essa pone come l’evidenza originaria ed indiscutibile, è infatti l’esistenza del divenire come oscillare degli enti tra l’essere e il nulla: su questa convinzione – proprio perché essa riguarda l’ente in quanto tale, ossia ciò che vi è di più universale – si fondano ormai ogni pensiero ed ogni azione dell’Occidente. Il senso stesso dell’azione (e quindi anche di quell’azione che è l’azione morale), rileva Severino, è già di per sé alienato, perché agire significa – innanzitutto – credere nella possibilità che il nostro operare faccia passare le cose dal non-essere all’essere (ad es., bruciando la legna siamo convinti che essa diventi cenere, e che pertanto si annulli – passi nel non-essere – in quanto legna), e che dunque le cose siano disponibili a questo passaggio. Ma credere che le cose possano diventare nulla significa credere che le cose siano nulla, che l’ente (ciò che è, il non-nulla) sia nulla: e questa è la follia estrema (diciamo infatti, ad es., che la legna che è stata bruciata non c’è più, ossia che essa è, ormai, nulla. E anche se ci limitassimo a dire che la legna che è stata bruciata non è nulla, ma è ormai cenere, identificheremmo pur sempre la legna con ciò – la cenere, appunto – che non è la legna, A con non-A). Credendo nell’esistenza del divenire così inteso, l’Occidente viene a credere ciò che è assurdo dal punto di vista logico e che non appare (né può apparire) dal punto di vista fenomenologico (dove ciò che si mostra è soltanto l’apparire e scomparire degli enti). Se (e poiché) la buona fede si mostra da un lato come malafede originaria, dall’altro come ciò che ha per contenuto essenziale la follia estrema, e se (e poiché) essa è il fondamento di ogni etica dell’Occidente, ben si può capire quale possa essere il giudizio di Severino su queste forme di moralità. Sulla base di queste riflessioni teoretiche, egli viene così ad affrontare (anche se propriamente nel testo severiniano – come si può vedere dall’indice del volume – la parte speculativa, di cui noi ci siamo occupati per prima, è posta al termine, negli ultimi tre capitoli) diversi aspetti della vita morale. Siamo così portati – attraverso ad un’analisi serrata dei testi della tradizione filosofica da Eraclito a Kant (passando per Platone, Aristotele, gli Stoici ecc.) – a prendere coscienza del rapporto esistente, nell’etica occidentale, tra verità e ragione pratica. La ragione pura, insegna Kant, è di per sé sola pratica, ossia è in grado di determinare autonomamente la volontà dell’uomo spingendolo ad agire secondo quell’ordinamento i cui caratteri distintivi sono i caratteri stessi della ragione, cioè l’universalità e la necessità (la legge fondamentale della ragion pura pratica dice infatti :”Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”; cfr. Kant I. [1989], Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, 4a ed., Laterza, Bari, p. 39); ma nello stesso senso si muoveva già Eraclito, affermando la necessità di seguire il logos, ciò che è comune (necessità, questa, che può essere tale solo in quanto è il logos stesso a dettarla). Per l’etica della tradizione occidentale, dunque, l’uomo deve uniformarsi all’Ordinamento immutabile che la ragione (l’epistéme) porta alla luce: ma per far questo, egli dovrà in primo luogo raggiungere l’epistéme stessa, dovrà volere la verità. La volontà di verità è quindi la prima forma etica che emerge nella tradizione occidentale e che resta sullo sfondo di ogni etica storicamente determinata appartenente a questa tradizione medesima. La verità, poi, va ricercata per se stessa, e non in vista di qualcosa d’altro – neppure della stessa felicità, alla quale la conoscenza della verità porta (o della quale – comunque – essa rende degni): se fosse cercata in vista di qualcos’altro, infatti, essa sarebbe ridotta a mezzo e non riuscirebbe più ad essere se stessa (proprio nella misura in cui la non-verità – ciò che è altro dalla verità – è assunta come guida della verità, quest’ultima viene ad essere snaturata dalla prima, venendo a perdere i propri caratteri distintivi di necessità ed universalità: non è infatti né universale né necessario che si assuma un certo scopo anziché un altro, a meno che non sia la stessa verità ad imporlo – ma, in questo caso, la ricerca della verità ed il suo raggiungimento dovrebbero già aver preceduto e determinato la posizione del fine in questione); e, non riuscendo ad essere se stessa, non potrebbe neppure garantire la felicità eventualmente raggiunta. Queste basi dell’etica della tradizione – che di per sé sembrerebbero piuttosto solide – sono però minate da quegli aspetti che consideravamo poc’anzi: esse presuppongono infatti – osserva Severino – quella concezione dell’azione (in primo luogo, dell’azione di convincimento da parte della ragione stessa sulla volontà – facoltà che pure viene ritenuta essere a-razionale, sì che la possibilità di un suo ascolto della ragione è già qualcosa di molto problematico) che porta in sé la fede nichilista del divenire; muovendosi nell’ambito del nichilismo, di ciò che non ha né può avere verità, esse restano confinate nella dimensione della buona fede, con tutti i limiti che relativamente a questa abbiamo evidenziato. Il discorso severiniano viene quindi a prendere in esame anche dei problemi specifici appartenenti all’ambito della moralità: la concezione della virtù (che porta in sé – già a livello etimologico – il richiamo al concetto di forza, sì che il passaggio dalla virtù dell’etica tradizionale a quella dell’età della tecnica – alla visione della tecnica come di ciò che maggiormente è in grado di dominare il divenire e quindi di garantire la vita dell’uomo – sarà soltanto uno sviluppo necessario di ciò che nel primo momento era già implicito), il problema della comunicazione (dove emerge la centralità del nesso tra potenza e riconoscimento della potenza stessa: la potenza è tale solo nella misura in cui viene universalmente creduta tale), il problema del controllo delle nascite e del matrimonio cattolico (a proposito del quale Severino afferma che la Chiesa cattolica, coerentemente con i principi ontologici nichilisti per i quali essa ammette la possibilità che l’ente non sia stato e venga a non essere, dovrebbe condannare non soltanto l’aborto e la contraccezione, ma anche – se non in misura maggiore – l’astinenza sessuale dei coniugi finalizzata ad una paternità e maternità responsabili: impedendo infatti la nascita di una vita che avrebbe potuto svilupparsi dalla loro unione, i coniugi condannerebbero a rimanere eternamente nel nulla quell’essere umano che sarebbe potuto giungere all’esistenza; e, così facendo, essi si renderebbero complici di quel crimine che riguarderebbe Dio stesso, il quale non crea tutto ciò che avrebbe potuto creare). Estremamente affascinante è poi il quarto capitolo, dedicato al senso della preghiera. Secondo Severino, la preghiera cristiana non dovrebbe essere l’assurdo tentativo di piegare la volontà di Dio ai propri scopi, bensì la serena accettazione della volontà di Dio, accompagnata dalla certezza che la preghiera – così strutturata – viene sempre accolta (proprio perché la volontà di Dio, che è ciò di cui si chiede la realizzazione, non può – secondo il cristianesimo – non realizzarsi): la volontà del credente si è fatta identica a quella di Dio e in questo senso essa può – dal punto di vista cristiano – “smuovere le montagne” (sempre ammesso che la volontà di Dio, con cui ci si identifica, sia che le montagne si smuovano: il credente non può infatti sapere a priori quale sarà concretamente la volontà divina, ma la accetta come essa si manifesta, via via che si manifesta). Allontanandoci per un momento dal testo severiniano, possiamo prendere in considerazione un passo della virgiliana Eneide che risulta di particolare interesse rispetto a questa tematica e che ci può aiutare a comprenderla meglio. Nel libro VI, l’ombra del defunto Palinuro formula la preghiera di poter attraversare la palude stigia – senza che il suo corpo sia ancora stato sepolto – per trovare pace nell’Ade; a questa richiesta, la Sibilla cumana risponderà implacabile “Desine fata Deum [Deorum] flecti sperare precando” (Eneide, VI, 376), sottolineando come sia illusoria la speranza di poter piegare la volontà del Fato tramite le umane preghiere. Ritornando su questo argomento, Dante farà dire al suo Virgilio – quasi giustificandosi – che “… là dov’io fermai cotesto punto [ossia al verso citato], / non s’ammendava, per pregar, difetto, / perché ‘l priego da Dio era disgiunto” (Purgatorio, VI, 40-42): dunque la preghiera – secondo il cristiano Dante – è “efficace” solo in quanto è unita a Dio. Ma quando – andando ora oltre il testo dantesco – la preghiera è unita a Dio? Ovviamente, quando esprime la comunione di volontà del pregante con Dio stesso: quando cioè il pregante è in amicizia con Dio e vuole quindi ciò che Dio vuole. Ma, di nuovo, che cos’è che Dio vuole? Ciò che di fatto accade, perché nulla può realizzarsi contro la volontà di Dio! (Questo anche se l’apparire finito – la coscienza umana -, non cogliendo ogni singola cosa nel suo essere avvolta dal Tutto, in cui ogni contraddizione è risolta, può non cogliere immediatamente – e, anzi, normalmente ciò non avviene – la bontà di ogni ente, di ogni accadimento). Dunque, anche – e soprattutto – quando il “priego” è sommamente congiunto a Dio, esso non può cambiare la volontà di Dio, semplicemente perché non la vuole cambiare (bensì vuole che essa “sia fatta”)! Andando oltre al testo di Dante, si ritorna così a quello di Virgilio: la volontà del Fato non è comunque cambiata dalle preghiere degli uomini… Le osservazioni di Severino sulla preghiera cristiana sono quindi, a mio avviso, pienamente accettabili dallo stesso punto di vista cristiano: si potrebbe – al massimo – soltanto aggiungere che, proprio perché il credente – l’apparire finito – non sa quale sia la volontà di Dio prima che questa si realizzi (dev’essere disposto ad accettarla qualunque essa sia), egli può sempre esprimere anche desideri particolari relativamente a ciò che ancora non ci appare, ferma restando l’intenzione di fondo che comunque si compia la volontà divina (“Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”; Mt 26,39). Le riflessioni severiniane sul senso e sul valore della “buona fede” sono difficilmente eludibili. Il voler far valere come verità ciò che non si presenta con i caratteri formali della verità (ossia l’evidenza e la non-smentibilità come superamento del dubbio) è soltanto hybris, tracotanza: e la hybris – ci insegna poi Prometeo – non è mai cosa gradita agli dei… Al credente (di qualunque fede si tratti) non resterebbe quindi che ammettere la problematicità di ciò in cui crede, problematicità il cui campo si estende a tutto ciò che la coscienza umana – apparire finito e non infinito del Tutto – non è attualmente in grado di affermare o di negare con verità. Ma sarebbe questo un tradimento della fede, o non piuttosto un riportarla a quella dimensione che le è propria? Se Tommaso afferma che la giustizia è la “perpetua et constans voluntas ius suum unicuique tribuere” (Summa Theologiae, II-II, 58,1; cfr. anche Catechismo della Chiesa Cattolica [1992], n. 1807), riconoscere alla fede – sapere non evidente, secondo la stessa espressione paolina – la sua problematicità non significa forse attribuirle ciò che le spetta secondo giustizia (lo “ius suum”)?
“LA LEGNA E LA CENERE”
A CURA DI DANIELE DIDERO
“La legna non è cenere, è impossibile un tempo in cui la legna sia cenere, in cui cioè qualcosa sia il proprio altro; e quindi la legna non può nemmeno mai diventare cenere […] Al di fuori del nichilismo dell’Occidente il pensiero non pensa che la legna rimanga eternamente legna anche quando è cenere, ma pensa ciò che appare. Nella struttura originaria del destino, quando la legna brucia appare la legna e poi appare ciò che viene chiamato la “sua” cenere. La “sua” cenere è essenzialmente diversa dalla cenere di altre cose e da ogni altra cenere; ma, nella struttura originaria del destino, questa diversità non è costituita dal fatto che sia la legna ad esser diventata questa cenere, ma dal modo specifico in cui ciò che diciamo “la cenere della legna” appare unito alla legna”. Il volume La legna e la cenere raccoglie una serie di scritti composti da Severino negli ultimi anni, in svariate occasioni: risposte a delle critiche (il titolo di questo libro è preso da uno dei temi sviluppato nella replica ad un articolo di Marco De Paoli), discussioni con diversi studiosi, interventi a convegni, lettere. Anche da un semplice sguardo all’indice, si può subito capire l’ampiezza e la varietà dei temi affrontati: il dialogo di Severino spazia dall’ontologia greca alla scienza moderna, dalla teologia alla logica, dai problemi esistenziali allo studio del linguaggio, coinvolgendo sia pensatori affermati, sia giovani studiosi. Proprio a causa di questa vastità di argomenti, sarebbe inutile cercare di dare una presentazione globale del libro, che verrebbe ad essere un’esposizione – anche se non al livello fondativo – dell’intero pensiero severiniano: ci soffermeremo pertanto solo su alcuni punti particolarmente significativi. Complessivamente, il quadro migliore della visione severiniana dell’uomo è quello che emerge dal dialogo con i giovani studiosi della rivista “Palomar”, riportato nell’ultimo capitolo del testo. Le domande sono molto intelligenti e mirate, e consentono a Severino di sviluppare una chiara riflessione su alcuni punti cardine del proprio pensiero. Il titolo con cui questa intervista era stata originariamente pubblicata su “Palomar”, Al di là di ogni umanesimo, introduce già molto bene l’argomento affrontato: la critica severiniana alla concezione dell’uomo come soggetto di azione, concezione sottesa alle differenti antropologie sviluppatesi in Occidente. In questo senso, l’uomo occidentale nasce quando si pone la terra – ossia la totalità di ciò che sopraggiunge nel cerchio dell’apparire – come la regione sicura, l’insieme di ciò che è disponibile all’azione della volontà: “Quindi stabilisco un’equazione tra persuasione che la terra sia la regione sicura – insomma la dimensione “seria” con cui avremmo a che fare (senza, poniamo, le chiacchiere di Severino, tanto per intenderci) – e la volontà di potenza […] L’uomo è il risultato dell’atto con cui la volontà di potenza è cosciente di sé, l’atto che dice: io sono qui, con una certa potenza sulle cose, io sono “uomo”” (pp. 223-224). La nascita dell’uomo, nel senso occidentale del termine, consiste cioè nel manifestarsi della persuasione che ciò che appare sia disponibile al dominio, della persuasione per cui la terra è dominabile: in quest’ottica – ossia, all’interno di questa persuasione -, l’uomo è visto come una cosa in mezzo alle altre (come, innanzitutto, il “soggetto” di questa persuasione), che ha dominio sulle altre cose (o almeno su alcune di esse). Al di fuori di questa persuasione, al di fuori cioè del nichilismo (che, nella sua essenza, consiste proprio nella persuasione che l’ente divenga, oscilli – nella sua disponibilità al dominio – tra l’essere e il nulla, e che – quindi – non si opponga al nulla), l’uomo rivela la propria autentica essenza come l’eterno apparire dell’essere, l’orizzonte in cui gli enti – anche quell’ente in cui consiste l’errore della persuasione nichilista, dell’uomo occidentale – fanno la loro comparsa; al di là di ogni umanesimo, quindi, se si tiene presente ciò che con “umanesimo” e “uomo” la tradizione occidentale intende significare. Tutto ciò, però, non significa – né può significare – che ciò che Severino afferma si riduca ad una esortazione al non fare nulla, all’incrociare le braccia: anche una tale esortazione, infatti, sarebbe del tutto interna a quella logica della volontà di potenza, che si sta criticando; sarebbe, nuovamente, un ulteriore invito rivolto all’uomo occidentale. Si tratta invece di comprendere, innanzitutto, la distinzione di piani tra l’autentica essenza dell’uomo – eterno apparire dell’essere – e l’uomo nella sua dimensione occidentale (come errore, persuasione nichilista): su questa base, si potrà allora rilevare – come Severino scrive in una lettera al prof. A. Di Caro, riportata alle pp. 182-183 – che “La non-potenza della verità [“non-potenza” in quanto la verità non è riducibile alla struttura della volontà di potenza] può “affermarsi” nella “storia” solo se incomincia ad apparire la testimonianza della verità – ossia di ciò che già da sempre appare, qui, ora […] La testimonianza è innanzitutto un linguaggio, che a sua volta è un eterno. Ma, insieme, è il “tramonto” della potenza e delle sue opere […] Rimane ancora un problema (che da tempo vorrei aver risolto) se quel linguaggio e quel tramonto siano destinati ad apparire nei “popoli””. Sempre all’interno dell’intervista per “Palomar”, Severino sviluppa poi degli interessanti rilievi metodologici (riprendendo un tema che aveva discusso approfonditamente soprattutto in Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano 19842), che consentono di porre nella giusta luce molte delle obiezioni che spesso sono rivolte al pensiero severiniano (e parecchie di queste obiezioni sono riportate anche all’interno di questo stesso volume). Severino sostiene infatti che “Se qualcosa è affermato in base a un fondamento, se non si discute il fondamento non si possono mettere in questione le conseguenze “paradossali” che scaturiscono da ciò che si è affermato. Non è vero che l’albero si giudica dai suoi frutti: lo si giudica dalle sue radici. Se uno dice che i frutti sono cattivi, ma le radici sono buone, allora vuol dire che chi assaggia ha il gusto malato. Non si può dire, in relazione al pensare, che, quando conduce a conclusioni paradossali, esso è errato; bensì che, se conduce a qualcosa che è ritenuto paradossale, ciò significa che i criteri in base ai quali si qualifica qualcosa come paradossale sono inadeguati” (p. 225). Si tratta di una radicale riaffermazione del primato dell’indagine filosofica rispetto a tutte quelle forme di sapere – senso comune, scienza, fede – che pretenderebbero di giudicarne il valore, condannandone ab extrinseco le conclusioni senza considerare i motivi in base ai quali esse vengono sostenute. E si capisce anche come Severino sia portato a ribadire questo principio, tenendo presente che molte delle critiche che gli vengono mosse (si veda, a titolo di esempio, la polemica con M. Mugnai, riportata in questo testo alle pp. 195-208) si limitano a rilevare l’incongruenza di alcune tesi severiniane con altre tesi del senso comune (o della scienza, o della fede), senza toccare il livello fondativo: un po’ come se, per riprendere le parole del nostro autore (pp. 205-6), a Galileo i suoi avversari tolemaici avessero obiettato: “O che tu dici! Non vedi al mattino che il sole spunta a oriente, e poi sale su nel cielo, e a sera va giù dall’altra parte? O che incompetentissimo tu sei! Suvvia, alzati di buon ora, e mettiti a guardare verso il chiaro che vedrai, e, zuccone, vedrai montar su il sole e muoversi sotto i tuoi occhi e attraversare il cielo in tutta la sua lunghezza! Ignorante! Tu non sai nemmeno che il sole va su e va giù! Ma chi mai ti ha fatto professore?”… Non ci soffermiamo sulle altre discussioni, che – come sopra accennato – affrontano i temi più disparati: ci basti sottolineare come da esse emerge la fitta rete di dialogo che lega Severino ai diversi settori del pensiero contemporaneo. Anche soltanto per cogliere quest’ultimo aspetto, questo intrecciarsi di dialoghi, la lettura de La legna e la cenere resta consigliabile.
GEORGES BATAILLE
A cura di Aldo Trucchio
Je pense comme une fille enlève sa robe.
L’expérience intérieure
1. Il basso materialismo all’inizio della scrittura.
Georges Bataille nasce a Billon, nel Puy-de-Dôme in Francia, il 10 settembre 1897.
I suoi primi ricordi sono legati alle sofferenze del padre, reso cieco e semiparalizzato dalla sifilide, che strabuzza gli occhi quando il dolore gli strappa un urlo: l’uomo — quando la famiglia sarà costretta a evacuare a causa della guerra, nel 1914 — sarà abbandonato a Reims, con una cameriera, e lì morirà solo.
L’adolescente Bataille si converte al cattolicesimo (non aveva ricevuto alcuna educazione religiosa), si fa battezzare e si avvia al seminario per diventare sacerdote; ma dopo pochi anni ci ripensa e addirittura interrompe ogni rapporto con la Chiesa. Viene anche chiamato alle armi, ma è subito riformato per la malattia polmonare della quale soffrirà per tutta la vita.
Nel 1922 discute all’École des Chartres una brillante tesi su di un racconto cavalleresco in versi del secolo XIII; quindi viene assunto alla Bibliothèque Nationale e continua ad occuparsi di antiquaria e numismatica. Ma i suoi interessi sono molto più ampli: si appassiona a Proust, agli studi di etnologia del suo amico Alfred Métraux, resta fulminato da Nietzsche, del quale discute appassionatamente con Léon Chestov, e, per il tramite di Michel Leiris, entra in contatto con i surrealisti ed i dadaisti; inoltre studia Hegel, segue i corsi di Marcel Mauss, legge Freud e Sade, entra in analisi col dottor Adrien Borel.
Se si esclude un giovanile opuscoletto su Notre-Dame de Rheims (1918), l’inizio della scrittura batailleana risale proprio alla fine degli anni venti. L’esempio più significativo della sua attività di questo periodo è la Storia dell’occhio (1928) [ 1 ] , un romanzo breve nel quale sono narrate le avventure erotiche di una giovane coppia, che, attraverso una serie di esperienze anche tragiche e grottesche, giunge fino alla violenza e l’omicidio. In realtà questo racconto osceno nasconde un raffinato gioco retorico nel quale due ardite serie di metafore, una riferita all’occhio e l’altra agli organi sessuali, si intrecciano e si confondono secondo la regola delle immagini surrealiste enunciata da Reverdy e ripresa da Breton (più i rapporti tra due immagini saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà “forte”), fino al loro disvelamento e riunificazione nell’ultima pagina.
Bataille aveva scritto ne L’ano solare (1927):
Gli occhi umani non sopportano né il sole, né il coito, né il cadavere, né l’oscurità, ma con reazioni differenti. [ 2 ]
Ciò significa che alcuni eventi fondamentali della vita, tra cui quelli del binomio amore-morte, sono comunque destinati a restare ai margini della consapevolezza umana, essendo estromessi con angoscia o disgusto dalla vita quotidiana: ecco perché l’occhio è viene sempre rappresentato da Bataille cieco o enucleato quando accede all’erotismo più osceno.
Pur con una certa contiguità di suggestioni con il surrealismo, le indagini di Bataille procedono dal basso con un intento apertamente provocatorio:
Così i grandi monumenti si alzano come dighe, opponendo la logica della maestà e dell’autorità a tutti gli elementi torbidi: è sotto la forma delle cattedrali e dei palazzi che la Chiesa e lo Stato si rivolgono e impongono silenzio alle moltitudini. [ 3 ]
Pertanto, inaugurando nel 1929 la sua rubrica Dictionnaire Critique sulla neonata rivista «Documents» con la voce Architettura, Bataille rinviene negli «elementi torbidi» gli strumenti capaci di fornire un punto di partenza per la critica radicale di ogni conformismo e di ogni autorità, i quali sono dimentichi del basso da dove sono sorti e dove poggiano le loro basi. L’immagine del piede ne è un ottimo esempio:
Così la funzione del piede umano consiste nel dare una base ferma a questa erezione di cui l’uomo è tanto fiero (…).
Ma qualunque sia il ruolo svolto nell’erezione dal piede, l’uomo, che ha la testa leggera, cioè elevata verso il cielo e le cose del cielo, lo guarda come uno sputo col pretesto che egli ha questo piede nel fango. [ 4 ]
Viene così ironicamente tratteggiata la contrapposizione tra l’idea verticale, cioè morale, che l’uomo ha di sé, e la sua reale posizione tra gli altri enti, orizzontale.
Queste posizioni provocatorie meritarono a Bataille la rottura di ogni rapporto con i surrealisti ed un attacco personale di Breton nel Secondo manifesto del surrealismo : questi prese le distanze dalla sua «compiacenza» verso il «lordo, senile, rancido, sordido, licenzioso» e lo accusa addirittura di essere affetto da psicastenia, cioè da una grave nevrosi ossessiva.
2. Il fallimento dei progetti comunitari.
Nel 1931 Bataille aderisce attivamente al Cercle Communiste Démocratique assieme ad altri comunisti dissidenti (tra gli altri Raymond Queneau e Simone Weil), ma la sua concezione di rivoluzione come scatenamento e catastrofe viene duramente contestata. Negli anni successivi si interessa sempre più alla filosofia hegeliana e nel 1934 segue il celebre seminario di Alexandre Kojève sulla Fenomenologia dello spirito assieme, tra gli altri, a Lacan, Callois, Merleau-Ponty, Klossowski.
Inizia la sua collaborazione con la rivista «La Critique sociale» per la quale scrive saggi importanti sulla dialettica hegeliana e sull’origine del fascismo. Quello più indicativo dei principali interessi di Bataille è il saggio su La nozione di dispendio (1933) [ 5 ], nel quale si affaccia la convinzione dell’«insufficienza del principio classico dell’utilità» e — accogliendo la suggestione del Saggio sul dono di Marcel Mauss e dei suoi studi sulla distruzione rituale di beni da parte degli indiani nordamericani (potlàc) —, si fanno numerosi esempi di situazioni nelle quali viene privilegiato un consumo rapido e violento delle risorse a scapito dell’accumulazione e della conservazione:
L’attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione, e il consumo deve essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario, agli individui di una data società (…). La seconda parte è rappresentata dalle spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in se stesse. [ 6 ]
In questi anni, che sono anni anche di impegno politico, ha luogo una breve pacificazione con Breton in occasione della pubblicazione, tra il 1935 ed il 1936, dei «Cahiers de Contre-Attaque» da parte di una Unione di Lotta degli Intellettuali Rivoluzionari.
Lo stesso Bataille riunisce ben tre gruppi di studiosi, all’incirca tra il 1936 e il 1940. Fonda una società segreta, della quale non si sa molto, le cui riunioni avvengono in un luogo considerato sacro, addirittura allo scopo di restituire al mondo moderno un afflato «ferocemente religioso». A tale gruppo è legata una rivista, «Acéphale» [ 7 ], che si avvale soprattutto della collaborazione di Callois e Klossowski: il secondo numero di tale rivista è interamente dedicato a Nietzsche, nel tentativo di sottrarlo alle interpretazioni fasciste.
La figura dell’Acefalo è tratta da una pietra intagliata di origine gnostico-manichea ritrovata da Bataille alla Bibliothèque Nationale e vuole indicare che
La vita umana non ne può più di servire da testa e da ragione all’universo. Nella misura in cui diventa questa testa e questa ragione, nella misura in cui diventa necessaria all’universo, essa accetta un asservimento. (…) la fascinazione della libertà si è offuscata quando la terra ha prodotto un essere che impone la necessità come una legge al di sopra dell’universo. Ciò nonostante, l’uomo è rimasto libero di non rispondere più ad alcuna necessità: è libero di somigliare a tutto ciò che non è lui nell’universo. [ 8 ]
Bataille, con Callois e Leiris, costituisce anche un Collège de Sociologie, nelle cui conferenze settimanali si analizza il sacro, definendo con questa parola ciò che, attraendo e insieme angosciando gli esseri umani (il primo esempio è proprio il sacrificio cruento), costituisce la base di ogni aggregazione sociale, che nasce intorno ad esso, ma al solo scopo di espellerlo (la violenza rituale serve a tenere lontana quella istintuale). Inoltre Bataille fonda una Société de Psichologie Collective assieme al dottor Borel; ma tutte e tre le esperienze naufragano ben presto per lo scontro di forti personalità intellettuali: queste «comunità elettive» si trasformano in «comunità della perdita» e, del resto, l’approccio di Bataille ai problemi che più gli stavano a cuore andava cambiando in maniera radicale.
3. Gli anni della guerra: L’esperienza interiore.
Lo scoppio della guerra, la morte dell’amata Colette Peignot, l’aggravarsi della malattia polmonare manifestatasi come tubercolosi, le letture di mistica cristiana e buddista e l’incontro decisivo con Maurice Blanchot, segnano il periodo successivo della scrittura batailleana, portandola ad un intimismo a tratti poetico e diaristico, ma ben più spesso lucido e distaccato, che si attirerà le violente critiche di Sartre.
Per Bataille l’esperienza interiore, titolo anche di una delle sue opere più significative (1942), si situa al limite estremo di un percorso intellettuale volto alla conoscenza:
Dapprima raggiungo l’estremo del sapere (ad esempio mimo il sapere assoluto, poco importa come, ma ciò suppone uno sforzo infinito dello spirito che vuole il sapere). So allora che non so nulla. Ipse ha voluto essere tutto (tramite il sapere) e cado nell’angoscia: l’occasione dell’angoscia è il mio non-sapere, il non-senso senza rimedio (il non-sapere non sopprime qui le conoscenze particolari, ma il loro senso, toglie ogni senso) (…).
Finchè l’ipse persevera nella sua volontà di sapere e di essere ipse dura l’angoscia, ma se l’ipse si abbandona e con se stesso il sapere, se si dà al non-sapere in tale abbandono ha inizio il rapimento. [ 9 ]
Non si tratta, insomma, di mettere da parte gli strumenti intellettuali a favore della conoscenza mistica, bensì di capire di cosa la ragione possa effettivamente rendere conto e cosa invece sia al di fuori della sua portata, allo scopo di tracciare i limiti del pensiero discorsivo che, per Bataille, è giunto al suo compimento nel sistema hegeliano. A torto considerate oscurantiste e misticheggianti (celebre l’articolo di Sartre intitolato: Un nouveau mistique), le riflessioni batailleane di questi anni aspirano piuttosto ad un illuminismo spinto fino alle sue estreme conseguenze.
La differenza tra esperienza interiore e filosofia risiede principalmente nel fatto che, nell’esperienza, l’enunciato non è nulla, se non un mezzo e anche, in quanto mezzo, un ostacolo (…). [ 10 ]
Poiché
Benché le parole si approprino in noi di quasi tutta la vita (…) sussiste in noi una parte muta, nascosta, inafferrabile. [ 11 ]
La verità si dà proprio in ciò che eccede il sistema, in un flusso emotivo che può passare da un uomo all’altro connettendoli in una «comunicazione intensa», come ad esempio fanno l’ilarità, l’angoscia, l’eccitazione erotica.
Spingendosi ancora oltre Bataille dichiara il valore sovversivo delle sue riflessioni:
Chiamo esperienza un viaggio ai limiti dell’umano possibile. Ciascuno è libero di non fare tale viaggio, ma, se lo fa, ciò suppone la negazione delle autorità, dei valori esistenti che limitano il possibile. Perché nega altri valori, altre autorità, l’esperienza avente esistenza positiva diventa essa stessa positivamente il valore e l’autorità. [ 12 ]
Una tale ricerca estrema deve insomma partire dal dato nietzscheano della «morte di Dio». Nel suo Su Nietzsche (1945), Bataille non si pone come uno dei tanti «glossatori» del filosofo tedesco, ma come «identico a lui» e scrive:
Le difficoltà che incontrò Nietzsche – abbandonando Dio e il bene eppure continuando a bruciare del fuoco di coloro che per Dio e per il bene si fecero uccidere – le incontrai anch’io a mia volta. La solitudine scuorante ch’egli ha descritto mi toglie ora le forze. Ma la liberazione dalle entità morali dà all’aria che respiro una verità così grande che preferirei vivere da paralizzato o morire piuttosto che ricadere nella schiavitù. [ 13 ]
Così Bataille chiederà all’editore Gallimard di raccogliere le sue opere di questo periodo col titolo di Somma Ateologica.
Una blasfema rappresentazione della divinità si trova nel racconto Madame Edwarda (1941) [ 14 ] nel quale il protagonista è sconvolto fino al delirio dalle oscenità di una prostituta che gli si presenta come Dio in persona: ancora una volta è la contiguità di eros e thanatos, della perdita di sé nel piacere e nel dolore, ad essere al centro delle riflessioni di Bataille, che attua un doppio capovolgimento, parlando prima di «pratica della gioia dinanzi alla morte» e poi affermando che
l’erotismo considerato gravemente, tragicamente, rappresenta un capovolgimento totale. [ 15 ]
Finalmente l’erotismo si impone al centro delle riflessioni di Bataille.
4. I grandi saggi del dopoguerra: il concetto di sovranità.
In La parte maledetta (1949) [ 16 ] Bataille riprende ed approfondisce il tema de La nozione di dispendio moltiplicando gli esempi storici sulle «società di consumo» ed elaborando una vera e propria teoria dell’ «economia generale»: il «sovrano» (opposto alla Signoria di Hegel) è colui che spreca ogni sua risorsa godendone nell’istante e precipitando verso una fine certa, come in quei riti che accomunano le più svariate società arcaiche nei quali il re, vissuto nel lusso e nell’eccesso, viene infine messo a morte.
Uno spreco ed una trasgressione è, come dimostrano i numerosi articoli scritti da Bataille per la sua rivista «Critique» (fondata nel 1946), anche la letteratura, la quale è rimasta l’ultimo luogo dove si possano ritrovare figure sovrane, che pongono la violenza delle proprie passioni davanti ai limiti imposti dal consorzio umano: gli esempi migliori sono nelle poesie e nei «proverbi infernali» di William Blake, in Cime tempestose di Emily Brönte e, soprattutto, nei crudeli libertini dei romanzi di Sade; ma l’uomo nel quale il pensiero sovrano ha trovato la sua ultima, gioiosa affermazione è Friedrich Nietzsche.
Il concetto di sovranità (al quale doveva essere dedicata la terza sezione de La parte maledetta, iniziata a scrivere solo nel 1953) emerge chiaramente quando Bataille si occupa di Kafka:
Non vi è sovranità che ad una condizione: non avere l’efficacia del potere, che è azione, supremazia dell’avvenire sul momento presente, supremazia della terra promessa. Certamente, è tremendo non lottare per distruggere un avversario crudele, significa offrirsi alla morte. (…)
È senza dubbio questa la fatalità di tutto ciò che è umanamente sovrano; ciò che è sovrano non può dare se non nella negazione di se stesso (basta il minimo calcolo, e tutto crolla, non vi è altro che la servitù, la supremazia dello scopo e del calcolo sul tempo presente), o nell’istante durevole della morte. La morte è il solo mezzo per evitare alla sovranità l’abdicazione. Non c’è schiavitù nella morte: nella morte non vi è più nulla. [ 17 ]
La sovranità ci appare, in ultima analisi, come qualcosa di impossibile:
L’essenziale è sempre lo stesso: la sovranità non è NIENTE. [ 18 ]
5. I tentativi falliti di realizzare una storia universale dal punto di vista dell’erotismo.
L’Erotismo di Bataille doveva essere, nel 1951, una Storia dell’erotismo da aggiungere a La parte maledetta, e in effetti non mancano innumerevoli riferimenti alla storia dell’uomo (l’uomo di Neanderthal, il Cristianesimo, la stregoneria medievale, le messe nere); ma questo libro, sei anni dopo, prese forma di indagine sulle origini dell’umanità, nella quale erotismo, religione ed il loro opposto, il lavoro, sono considerati parallelamente:
(…) è il mondo umano che, formato nella negazione dell’animalità, o della natura [più esattamente formato dal lavoro], [ 19 ] nega se stesso e, in questa seconda negazione, si supera senza tuttavia tornare a ciò che aveva un primo tempo negato. [ 20 ]
Ciò significa che (e si può notare uno schema di chiara matrice dialettica), l’uomo nasce dalla separazione dalla totalità della natura, poiché inizia a lavorare ed a creare oggetti isolati che fungono da modello per la sua propria individuazione. Ma solo la trasgressione della vita votata al lavoro, all’utile, all’accumulazione, rende l’uomo realmente tale, gli restituisce in qualche modo la completezza perduta:
(…) la totalità divina è legata alla trasgressione della legge che fonda l’ordine degli esseri frammentari. Gli esseri frammentari che sono gli uomini si sforzano di perseverare nella frammentarietà. Ma la morte, o almeno la contemplazione di essa, li riconduce all’esperienza della totalità. [ 21 ]
L’essere nella sua interezza è quindi accessibile all’uomo solo nella trasgressione dei suoi limiti, nell’eccessivo piacere e dolore, oppure nella rappresentazione drammatica di quegli eccessi, cioè nella letteratura, nel sacrificio cruento, nelle immagini dotate del potere di sconvolgere: nel concetto di erotismo tragico questi stati emozionali così intensi trovano la loro unificazione.
L’ultima opera di Bataille, Le Lacrime di Eros[ 22 ] è un tentativo, mai portato a termine, di realizzare una storia universale tramite le immagini più cariche di erotismo tragico, dai graffiti preistorici passando per le pitture greche e romane, i medievali, i fiamminghi, Goya, i manieristi, fino ai surrealisti ed alla fotografia: alla fine di quest’opera, commentando dei clichées fotografici, donatigli da Borel ai tempi dell’analisi, che rappresentano un uomo torturato a morte (il celebre suppliziato cinese sottoposto alla pena detta dei cento pezzi), afferma:
Questa è secondo me l’inevitabile conclusione di una storia dell’erotismo. (…) l’istante in cui evidentemente gli opposti sembrano legati, in cui l’orrore religioso, dato, come sapevamo, nel sacrificio, si lega all’abisso dell’erotismo, agli ultimi singulti che l’erotismo illumina. [ 23 ]
1. Histoire de l’œil (traduzione italiana in Tutti i romanzi, a cura di Guido Neri, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 101-150).
2. L’anus solaire (tr. it. in L’ano solare, a cura di Sergio Finzi, SE, Milano 1998, p.16).
3. Architecture, in «Documents», n. 2, maggio 1929 (tr. it. in Documents, a cura di Sergio Finzi, Dedalo, Bari 1974, p. 157).
4. Le gros orteil, in “Documents”, n.6, novembre 1929 (tr. it. in Documents, cit., p.75).
5. La notion de dépense, in «La Critique sociale», n. 7, gennaio 1933 (tr. it. in La parte maledetta, a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 1-22).
6. Ibidem, (tr. it. cit., p. 6).
7. I cinque numeri di «Acéphale» sono tradotti in Italia in La congiura sacra a cura di Fabrizio di Stefano e Riccardo Garbetta, Bollati Boringhiei, Torino 1997.
8. La conjuration sacrée, in “Acéphale”, n. 1, 24 giugno 1936 (tr. it. in La congiura sacra, cit., p. 6).
9. L’expérience intérieure (tr. it. in L’esperienza interiore, a cura di Clara Morena, Dedalo, Bari 1994, p.97).
10. Ibidem (tr. it. cit., p. 43).
11. Ibidem (tr. it. cit., p. 44).
12. Ibidem (tr. it. cit., p. 34).
13. Sur Nietzsche, (tr. it. in Nietzsche, il culmine e il possibile, a cura di Andrea Zanzotto, p. 23).
14. Madame Edwarda (tr. it. in Tutti i romanzi, cit., pp. 151-173).
15. Préface a Madame Edwarda (tr. it. cit., p. 153).
16. La part maudite (tr. it. in La parte maledetta, cit.).
17. La littérature et le mal (tr. it. cit., p. 145).
18. La souveraineté (tr. it. a cura di P. Gabellone, il Mulino, Bologna 1990, p. 267).
19. Nota di Bataille.
20. L’Érotisme (tr. it. a cura di Andrea Dell’Orto, ES, Milano 1991, p.82).
21. Ibidem (tr. it. cit., p. 80).
22. Les Larmes d’Eros (tr. it. a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1995).
23. Ibidem (tr. it. cit., p. 223).
HANS REICHENBACH
Illustre esponente del neo-positivismo, Hans Reichenbach nacque ad Amburgo nel 1891 e, dal 1926 fino al 1933, fu docente di filosofia presso l’università di Berlino: con l’avvento del nazismo egli emigrò in un primo tempo a Istanbul, dove insegnò fino al 1938, e poi negli Stati Uniti d’America, dove fino alla morte (sopraggiunta nel 1953) rimase professore presso l’università di Los Angeles. Secondo Reichenbach alla filosofia spetta collegare le scoperte scientifiche all’esperienza comune: anche quest’ultima, infatti, scorge l’elemento probante del possesso di una conoscenza nella sua capacità di formulare una previsione: sotto questo profilo, la conoscenza scientifica rappresenta solamente un grado superiore rispetto a quello della conoscenza ordinaria. Per Reichenbach, infatti, l’unico fondamento della conoscenza è costituito dall’esperienza, che dalla collezione di osservazioni particolari procede induttivamente all’enunciazione di leggi generali, le quali spiegano col minimo dispendio di presupposti il massimo di fatti possibili e la cui validità dipende dalla capacità di effettuare previsioni, cioè inferenze relative a situazioni future. Lo scienziato tende a conoscere il mondo più esattamente di come avviene nella conoscenza comune, Dal canto suo, la filosofia tradizionale, incapace di comprendere e di interpretare la conoscenza scientifica, si è limitata ad assolutizzare in categorie a priori, necessarie e non modificabili, gli strumenti gnoseologici scarsamente perfezionati dell’esperienza quotidiana. L’autentico ufficio dell’investigazione filosofica risiede allora – dice Reichenbach – nella chiarificazione dei concetti cardinali della scienza fisica: tali concetti sono, ad esempio, quello di spazio, quello di tempo, quello di causalità, e così via. Avvalendosi del supporto degli strumenti dell’analisi logico/linguistica, Reichenbach procede in più opere, come ad esempio Filosofia della dottrina dello spazio-tempo (1928) e Fondamenti filosofici nella meccanica quantistica (1944), ad analizzare in questa prospettiva la teoria della relatività e la teoria dei quanti. Egli è convinto che la rivoluzione scientifica del Novecento consista nella scoperta che i vecchi concetti della scienza naturale possono essere applicati solamente a grandezze di ordine medio, cosicché per quel che riguarda l’universo dell’astronomia risultano modificati i concetti tradizionali di spazio e di tempo e per quel che riguarda il mondo atomico quelli di sostanza e di causa. In modo particolare, Reichenbach interpreta il principio di indeterminazione di Heisenberg non già come un sintomo della crisi e dei limiti della conoscenza del mondo fisico, bensì come la lampante conferma del carattere costitutivamente probabilistico di essa. La grande regolarità delle leggi dei fenomeni che avvengono sul piano macroscopico è solamente l’effetto di moltissimi processi subatomici, i quali hanno carattere probabilistico; ne segue che la nozione di causalità è soltanto un’idea astratta della fisica macroscopica e non è affatto necessaria né giustificabile in ambiti microfisici. In forza di ciò, Reichenbach dedica parecchie indagini alla nozione di probabilità, a partire dallo scritto sulla Dottrina della probabilità, risalente al 1935. Egli condivide con Richard von Mises la teoria frequentista, stando alla quale la probabilità consiste nella frequenza relativa di eventi all’interno di corrispondenti classi di riferimento: tale teoria, pertanto, non riguarda eventi singolarmente considerati, ma classi di eventi. L’unico criterio realmente valido per decidere della probabilità e, quindi, per discriminare costruzioni arbitrarie da teorie valide è dato, secondo Reichenbach, dall’induzione: l’alternativa tra vero e falso vale nella logica deduttiva, ma non è il criterio che domina nelle scienze empiriche; a tali valori di verità è opportuno aggiungere anche il peso, cioè il grado di probabilità di un enunciato, il quale può essere misurato entro una scala continua, nella quale vero e falso costituiscono solamente i limiti estremi. Su questa base, Reichenbach procede a costruire una logica della probabilità a più valori, lungo una direttrice di ricerca proseguita, in quello stesso torno di anni, anche da logici della scuola polacca.
BRANI ANTOLOGICI
Sull’induzione
Per Reichenbach “l’induzione è lo strumento di un metodo scientifico che voglia scoprire qualcosa di nuovo“; esso è “lo strumento della previsione“. La logica ha il compito di giustificare la scoperta, la quale in sé esula dai suoi compiti:
“La logica simbolica di cui si è parlato nel capitolo precedente è una logica deduttiva; essa tratta soltanto di quelle operazioni di pensiero che sono caratterizzate da necessità logica. Ma la scienza empirica, oltre a fare largo uso di operazioni deduttive, richiede anche una seconda forma di logica, che, avendo a che fare con operazioni induttive, viene detta, appunto logica induttiva. Ciò che distingue l’inferenza induttiva da quella deduttiva è il fatto che la prima non è vuota, bensí contraddistinta da conclusioni non contenute nelle premesse. La conclusione che tutti i corvi sono neri non è contenuta logicamente nella premessa che tutti i corvi osservati finora risultano essere neri; tale conclusione potrebbe essere falsa nonostante la verità della premessa. L’induzione è lo strumento di un metodo scientifico che vuole scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa di piú che la sintesi delle osservazioni già fatte; l’inferenza induttiva è lo strumento della previsione. Fu Bacone, a vedere con chiarezza l’indispensabilità delle inferenze induttive per il metodo scientifico, e il suo posto nella storia della filosofia è quello di un profeta dell’induzione […]. Ma Bacone vide anche i limiti di questo genere d’inferenza, la sua mancanza di necessità, la possibilità insita in essa di arrivare a conclusioni false. I suoi sforzi per migliorare l’induzione non ebbero molto successo; le inferenze induttive formulate nell’ambito del metodo ipotetico-deduttivo della scienza […] sono di gran lunga superiori alla semplice induzione baconiana. Tuttavia, neppure tale metodo è in grado di assicurare la necessità logica; le sue conclusioni possono risultare false, né la conoscenza induttiva riuscirà mai a raggiungere l’attendibilità della deduzione […]. L’interpretazione mistica del metodo ipotetico-deduttivo come irrazionale ricerca congetturale trae origine dalla confusione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione. L’atto della scoperta sfugge all’analisi logica; non vi sono regole logiche in termini delle quali si possa costruire una “macchina scopritrice” che assolva la funzione creativa del genio. D’altra parte, non tocca al logico chiarire la genesi delle scoperte scientifiche; tutto quello che egli può fare è analizzare la connessione tra i dati di fatto e le teorie avanzate per spiegare i medesimi. In altre parole, la logica si occupa soltanto del contesto della giustificazione. E la giustificazione di una teoria in termini di dati di osservazione è l’oggetto della dottrina dell’induzione”.
[H. Reichenbach, The rise of scientific philosophy, trad. it. La nascita della filosofia scientifica]
NIKOLAJ BERDJAEV
A cura di Alessandro Sangalli
“Il problema dell’uomo e del suo destino è prima di tutto il problema della libertà“.
Introduzione
Confrontati con quelli di molti altri filosofi, i pensieri e gli scritti di Berdjaev sono vibranti, freschi, vivi: dal modo in cui scrive si ha la sensazione che egli stesse quasi combattendo con le proprie idee. Sebbene la sua patria fosse piuttosto il mondo dello Spirito che quello delle Idee, egli conosceva bene anche quest’ultimo territorio ed entrò in esso con passione. Vedeva il mondo delle Idee come un’arena dove si stava disputando una vera e propria lotta tra libertà e determinismo, creatività e passività, noumeni e fenomeni. La filosofia era per lui una materia di vitale importanza. Come vivere la propria vita, su quali basi fondarla, in che modo conciliare Dio col mondo o l’individuo con la società, cosa significhi essere un uomo, come scendere a patti con l’angoscia e l’alienazione che accompagnano la libertà umana, il senso della Storia e il destino dell’umanità, l’importanza della creatività: Berdjaev ha riflettuto e scritto su tutti questi argomenti ed ha dato un contributo significativo al loro approfondimento filosofico. Per tutte queste ragioni egli può aiutarci anche a far luce sulla situazione contemporanea, non soltanto illuminandone gli errori e i mali, ma anche insegnandoci ad uscire da essi e ad imboccare la difficile strada della libertà e della creatività.
Nikolaj Berdjaev nasce a Kijev nel 1874 da una famiglia di antica nobiltà e di tradizioni militari. Fin da giovane si appassiona allo studio di Marx, nel pensiero del quale crede di individuare l’esito compiuto del messianismo giudaico-cristiano. Nel 1900 invia il suo scritto Soggettivismo e individualismo nei filosofi della società a P. Struve, per ricevere commenti e consigli. Questo lavoro – inizialmente concepito come un attacco al populista N. K. Michajlovskij – introduce fattori inediti nel dibattito sul marxismo: riferendosi al positivismo come ad un “suicidio intellettuale”, Berdjaev sostiene che il devastante dominio del pensiero materialista in filosofia mostri la «necessità di un pensiero metafisico ed etico». Egli deriva le sue idee principali da Vladimir Solov´ëv, ma le completa con elementi di teorie socialiste e psicologiste.
Secondo Berdjaev la Storia progredisce su due livelli: per mezzo del capitalismo essa si sviluppa verso la Giustizia Assoluta, mentre attraverso la ricerca di mondi diversi e di valori eterni, l’umanità si sta avvicinando alla Verità Assoluta. Egli suggerisce perciò che nell’interpretare l’evoluzione storica non ci si dovrebbe concentrare soltanto su leggi materialistiche e scientifiche, ma considerare in primo luogo quelle etiche e religiose. L’avvento di una nuova società di giustizia e verità sarà il risultato di cambiamenti da portare non già al rapporto distributivo dei mezzi di produzione, bensì alla mente e alla coscienza dell’uomo, nello sforzo di perfezionarsi e di avvicinarsi ad un modello ideale di verità e moralità assoluta. L’atmosfera religiosa di Soggettivismo e individualismo colpisce profondamente Struve, il quale, nonostante qualche osservazione critica ai salti filosofici di Berdjaev tra libertà e necessità, considera il lavoro come il primo segno di uno sguardo completamente nuovo sull’uomo e sul suo mondo. Nella sua lunga prefazione a quest’opera, Struve si unisce all’autore nella lotta contro il positivismo: «Il materialismo storico è soltanto una scadente sovrastruttura metafisica della struttura positivistico-scientifica del nostro tempo, una sovrastruttura completamente priva di elementi idealistici». Sostiene inoltre che, se esiste una componente idealistica negli ambienti marxisti, essa è costituita proprio dall’idealizzazione del concetto di “classe”: gli intellettuali rivoluzionari marxisti proiettano perciò fatti ed eventi sociali su un terreno etico-morale, mostrando così come l’uomo non possa evitare pensieri metafisici. «La teoria positivista della conoscenza rivela tutti i limiti del pensiero di cui fa parte e al tempo stesso la necessità della metafisica». “Necessità della metafisica” è un’espressione usata anche da Solov´ëv nel suo libro Una giustificazione del Bene (1897), un lavoro che, tempo addietro, fu oggetto di critica da parte dello stesso Struve. Nella raccolta di scritti intitolata Vari temi (1901), Struve confessa la sua evoluzione da un pensiero positivista e marxista ad una visione filosofica del mondo “considerevolmente più vicina a Solov´ëv” e ammette come molte delle sue accuse polemiche contro Solov´ëv abbiano ormai perso validità. Nell’articolo Cos’è il vero nazionalismo? (1901) vediamo confermata questa svolta dalla ferma adesione di Struve all’idea cristiana della personalità come valore eterno e come prerequisito necessario per ogni attività politica e sociale.
Per aver aderito a circoli socialdemocratici e al programma di Struve, Berdjaev viene deportato nel nord della Russia, prima a Vologda (1901) e successivamente a Žitomir (1903). Dopo la Rivoluzione del 1917 e l’instaurazione del nuovo assetto politico, Berdjaev è chiamato a ricoprire la cattedra di Filosofia all’Università di Mosca. Nell’inverno 1920-1921 decide di tenere una serie di seminari su Dostoevskij presso la “Libera accademia di cultura spirituale”: in queste lezioni egli dimostra – nell’universo del romanzo dostoevskiano – il tragico e necessario fallimento dell’utopia marxista, contrapponendole una concezione del mondo fondata sulla libertà invece che sulla necessità storica. Questi interventi non sono apprezzati dalle autorità bolsceviche, e così nel 1923 (in contemporanea con la pubblicazione di La concezione di Dostoevskij) Berdjaev è costretto all’esilio. Si reca prima a Berlino e poi a Parigi, città dove usciranno i suoi scritti più importanti: da Il destino dell’uomo nel mondo contemporaneo (1934) fino a Saggio di una metafisica escatologica (1946) e Schiavitù e libertà dell’uomo (1947). Muore nel 1948. Sono disponibili in edizione italiana, fra l’altro, Il senso della storia (Milano 1977) e Il senso della creazione (Milano 1994).
1. La libertà
La filosofia di Berdjaev ha inizio con la libertà, che egli considera essere la base di tutto le altre cose: libertà è quell’ambito della nostra esistenza che non può essere influenzato né determinato da altro.
La libertà è la cosa ultima: non si può derivare da nulla né può essere equiparata ad altro. La libertà è il fondamento incausato dell’essere: è più profonda dell’essere stesso.
Ciononostante la libertà deve comunque essere conquistata.
Sarebbe un errore pensare che l’uomo comune ami la libertà. Sarebbe un errore ancora più grande supporre che la libertà sia una facile conquista. La libertà è difficile da ottenere, è più facile rimanere schiavi.
2. L’ “oggettivazione”
La libertà non può essere compresa né tollerata dalla mente oggettiva, ossia da quella parte di noi che cerca di controllare la realtà e che ci fornisce certezze riguardo al mondo. La mente oggettiva scinde infatti il mondo in Soggetto e Oggetto, io e altri, Spirito e Natura, e così via. Questa attività, che Berdjaev chiama “oggettivazione”, comporta sia vantaggi che inconvenienti.
La libertà è prima rispetto all’essere: non può essere determinata dal nostro essere. È senza fondamento, senza causa. Quando cerchiamo di determinarla, di razionalizzarla, di oggettivarla, la libertà scompare.
3. La verità
La nostra nozione di verità subisce l’influenza dell’oggettivazione: solo ciò che può essere oggettivamente verificato viene considerato vero, genuino, degno della nostra fiducia. Il dominio del pensiero oggettivo, che si manifesta materialmente nella scienza e nella tecnologia, soffoca – alienandola – la vita dello spirito e quella dell’individuo.
Verità ha due significati: verità come conoscenza della realtà, e verità come realtà stessa.
Dove dobbiamo cercare i criteri di verità? Troppo spesso gli uomini cercano questi criteri in ciò che sta più in basso della verità stessa, nel mondo oggettivo che porta con sé le sue costrizioni: si cercano criteri per il mondo dello spirito in un mondo che è materiale, infilandosi perciò in un vicolo cieco. La verità contingente e provvisoria non può fornire nessun criterio per la verità ultima: essa sta infatti a metà strada e non conosce né l’inizio né la fine. Ogni dimostrazione poggia sopra un che di indimostrato, di postulato, di assunto a priori. C’è un’alta dose di rischio e nessuna garanzia: la libertà dello spirito non conosce garanzie.
L’unico criterio della verità è la verità stessa e la luce che da essa si espande.
La verità non ha niente a che vedere con il mondo oggettivo, è piuttosto in relazione con quello spirituale. La verità è qualcosa di presente ed immediato.
La verità è il ridestarsi dello spirito nell’uomo, la sua comunione con lo spirito.
La verità non è del mondo, ma dello spirito: essa si conosce soltanto trascendendo il mondo oggettivo. La verità è la terminazione del mondo oggettivo.
4. Lo spirito
Come accadeva per la verità, nemmeno alla dimensione spirituale si arriva partendo dal mondo naturale. Questa dimensione, infatti, esiste per un suo proprio diritto, senza necessità di essere dimostrata e provata. Cercare di farlo è come mettere il carro davanti ai buoi.
L’esperienza spirituale è la realtà più alta nella vita dell’uomo: in essa il divino non è dimostrato, ma si mostra di per sé.
La realtà dello spirito è testimoniata dall’intera esperienza dell’umanità: rifiutarla significa essere ciechi e sordi di fronte alla realtà, significa essere incapaci di distinguere le qualità dell’essere o di descrivere ciò che si distingue. Il mondo spirituale è tanto reale quanto quello delle cose naturali. Questa realtà non si può dimostrare, ma è percepita da coloro che riescono a distinguerne le qualità. Lo spirito, perciò, mira quasi a sopraffare il mondo oggettivo: la sua battaglia contro il potere dell’oggettivazione è una sorta di “rivoluzione spirituale”.
5. La personalità umana
Mentre l’oggettivazione annulla il singolo in favore dell’universale e del generale, lo spirito ristabilisce ed afferma il valore dell’individuo nei confronti di ciò che è immobile, inerte, materiale, determinato, oggettivo.
L’anima dell’uomo ha più valore di tutti i regni del mondo: il destino dell’individuo viene prima di qualunque altra cosa.
Secondo Berdjaev la personalità umana rappresenta qualcosa di più che il nostro modo di essere nel mondo: essa è l’inestimabile ed irripetibile valore dell’individuo.
Il segreto dell’esistenza della personalità sta nella sua assoluta non-rimpiazzabilità, nella sua unicità, nella sua incomparabilità.
La personalità è qualcosa di unico al mondo, non c’è niente cui si possa paragonare, niente che possa essere messo al suo stesso livello.
Sebbene la personalità individuale sembri essere inferiore alla società, al mondo e all’universo, essa in realtà li contiene, li ha al suo interno, ed è un valore molto più grande.
La personalità non è parte dell’universo, ma è l’universo che è una parte della personalità: esso è una sua qualità. Tale è il paradosso del personalismo.
La personalità contiene in sé l’universo, ma questa inclusione ha luogo non nella sfera del mondo oggettivo, bensì in quella del mondo soggettivo, cioè nella dimensione esistenziale.
La personalità è il centro dell’esistenza, è capacità di soffrire e gioire. Nient’altro al mondo – nazione, Stato, società, istituzione sociale, Chiesa – ha questa capacità.
L’esaltazione del valore dell’individuo nei confronti della collettività non implica però l’affermazione di un individualismo radicale né la necessità di un’opposizione alla comunità. L’affermazione del supremo valore della personalità non ha solamente a che fare con la salvezza personale, ma piuttosto con l’espressione della suprema vocazione creativa della persona nel mondo in cui vive.
La personalità è di per se stessa relazionale: essa presuppone una comunità e una comunione con gli altri uomini. La profonda contraddizione e la difficoltà della vita umana è dovuta proprio a questa dimensione relazionale della personalità.
6. La creatività
L’abbandono dell’oggettivazione porta al riconoscimento della creatività come la più alta dimensione realizzativa dell’individuo, poiché «solo colui che è libero, crea».
La creatività è qualcosa che proviene dall’interno, da incommensurabili ed inesplicabili profondità, non dal di fuori, non dalla necessità del mondo. Il tentativo di rendere comprensibile e di porre un fondamento all’atto creativo è destinato a fallire. Comprendere l’atto creativo significa ammettere la sua inesplicabilità e la sua non-fondazione. La creatività comporta una partecipazione al mistero dell’esistenza, essa vive infatti nelle profondità della libertà.
La creatività è il più alto mistero della vita, il mistero dell’apparizione di qualcosa di nuovo, finora sconosciuto, non nato o derivato da qualcos’altro.
La vera vita consiste nella creatività, non nello sviluppo: nella libertà dell’azione creativa e del fuoco creativo, piuttosto che nella necessità e nella pesantezza del cristallizzarsi in un autoperfezionamento.
Con “creatività” Berdjaev non intende soltanto la produzione di opere d’arte, ma ogni processo di trasformazione dell’io e del mondo.
In ogni attività artistica viene creato un nuovo mondo: un mondo libero ed illuminato.
L’essenza della creatività artistica è costituita dalla liberazione dal fardello della necessità. Nell’arte l’uomo vive fuori da se stesso, libero dai pesi della vita: ogni atto artistico-creativo è una sorta di trasfigurazione dell’esistenza. Nel pensiero artistico l’uomo si libera dalle costrizioni del mondo. Nell’atteggiamento artistico-creativo verso questo mondo troviamo un aggancio per un mondo diverso.
7. La Terza Epoca o “l’ottavo giorno della Creazione”
Berdjaev vede l’avvento di un tempo in cui il nostro potenziale creativo sarà molto più sviluppato rispetto ad ora. Noi saremo allora in grado di collaborare con Dio per ri-creare il mondo.
Nella religione dello spirito, la religione della libertà, tutto sarà fondato, non sul giudizio o sulla ricompensa, ma sullo sviluppo creativo e sulla trasfigurazione, a immagine di Dio.
Ci troviamo sulla soglia di un’era di creatività religiosa, su uno spartiacque cosmico. Questo rovescerà gli effetti della “caduta”, del “peccato originale”, ci porterà verso una nuova era (la Terza Epoca) e verso la religione dello spirito.
Il mondo non ha ancora visto un’epoca religiosa della creatività. Il mondo conosce soltanto l’epoca della Legge dell’Antico Testamento e l’epoca della Redenzione del Nuovo Testamento.
Le tre epoche della rivelazione divina nel mondo non sono altro che le tre epoche della rivelazione dell’uomo. Nella prima epoca è portato alla luce il peccato e viene rivelata una naturale forza divina; nella seconda l’uomo si fa figlio di Dio ed appare così la redenzione; nella terza, infine, si rivela la divinità della natura creativa dell’uomo ed il potere divino diventa potere umano. La visione berdjaeviana dell’umanità supera la distanza tra uomo e Dio attraverso l’atto creativo, visto come un processo di divinizzazione.
La terza rivelazione dello spirito non avrà nessun testo sacro, non ci sarà nessuna voce dall’alto; sarà compiuta nell’uomo e nell’umanità – sarà una rivelazione antropologica, uno svelamento della “cristità” dell’uomo.
L’alba dell’epoca religiosa della creatività sarà anticipata da una profonda crisi della creatività stessa. L’atto creativo produrrà nuovo essere e nuove realtà piuttosto che valori o culture differenti; nella creazione la vita non verrà soffocata. La creatività umana continuerà la Creazione, rivelerà l’unione della natura umana col Creatore. Si arriverà così al passaggio del Soggetto nell’Oggetto e sarà ristabilita la loro identità. Tutti i grandi artisti possono presentire questa svolta.
8. Berdjaev e Dostoevskij
«L’idea della libertà è stata sempre fondamentale per la mia intuizione e concezione religiosa del mondo, e in tale intuizione iniziale della libertà ho trovato in Dostoevskij la mia patria spirituale» (La concezione di Dostoevskij, Prefazione)
In La concezione di Dostoevskij, Berdjaev ci fornisce una delle letture più suggestive e profonde dell’opera del grande romanziere russo, una lettura filosofica tutta incentrata sull’idea di libertà. Secondo l’autore, Dostoevskij non concepisce la libertà semplicemente come la facoltà di scegliere tra il bene e il male, ma piuttosto come qualcosa di più fondamentale ed essenziale, qualcosa che va colto a livello metafisico prima ancora che etico o psicologico. «Il pensiero metafisico russo più sottile e complesso scorre tutto nell’alveo scavato da Dostoevskij e da lui deriva»: una metafisica senza il fondamento stabile e non contraddittorio dell’essere, principio che è qui sostituito dall’idea di libertà. Secondo Berdjaev, Dostoevskij rappresenta per la filosofia un punto di rottura e un nuovo inizio. Non appena il pensiero dell’intelligencija radicale entra in crisi, da più parti si levano voci (Solov´ëv, Rozanov, Merežkovskij, Ivanov) a sostenere che il materialismo e il positivismo hanno fatto il loro tempo, ma non in base alla normale dialettica delle idee, bensì per l’irruzione di Dostoevskij nella scena culturale.
È solo nell’inverno 1920-21 che il nostro decide di raccogliere le riflessioni sparse e disordinate maturate nel corso degli anni sull’opera dostoevskiana. In realtà è almeno dal 1904 che – dopo l’incontro con Sergej Bulgakov e Lev Šestov – nasce in Berdjaev l’idea di prendere le distanze dalla “fede laica” del marxismo e metterla sotto accusa in nome di Dostoevskij. Accanto a ciò, il nostro vuole sviluppare un sistema di pensiero che in qualche modo si rifaccia a quello del noto romanziere e intende portare alla luce il contenuto filosofico della sua opera: in questa analisi si dedica ai nuclei concettuali più importanti rintracciabili nel romanzo dostoevskiano, l’uomo, la libertà, il male, l’amore, la rivoluzione, il socialismo.
«Non mi accingo a una ricerca storico-letteraria su Dostoevskij, non mi propongo di scriverne la biografia né di ritrarne la personalità […] Altro è il mio compito. Il mio studio deve essere posto nel campo pneumatologico […] Vorrei svelare lo spirito di Dostoevskij, chiarirne la profondissima intuizione del mondo e, per via intuitiva, ricostruire la sua concezione» (La concezione di Dostoevskij, cap. I)
Berdjaev è impressionato particolarmente dal tema della Leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov, in quanto la considera come “la vetta dell’opera di Dostoevskij”, “il coronamento della sua dialettica”, ma – soprattutto – un enigma. Non è del tutto chiaro, infatti, da che parte stia l’autore stesso; molto è lasciato alla libera interpretazione, il che non è un evento isolato. Spesso nel romanzo dostoevskiano le idee e le opinioni dell’autore o sono messe in bocca a personaggi minori, appena tratteggiati – talvolta negativamente – o scaturiscono dalle parole di qualcuno che mai potrebbe sostenere quelle idee: Berdjaev stesso nota come sia quantomeno singolare che «la Leggenda, che è una lode di Cristo di un’efficacia incomparabile, sia attribuita all’ateo Ivan Karamazov».
Naturalmente il grande romanziere russo ha avuto grande peso anche nella formazione del giovane Berdjaev, ed è lui stesso a confessarcelo:
«Dostoevskij ha avuto un’importanza decisiva nella mia vita spirituale. Ancora ragazzo ne risentii l’influsso. Egli ha scosso la mia anima più di ogni altro scrittore e pensatore» (La concezione di Dostoevskij, Prefazione).
In un’epoca in cui l’Europa segue il ritmo di un processo catastrofico, Berdjaev si rivolge al suo grande compatriota – a quel “genio russo e universale” – che per primo ha saputo comprendere la profondità spirituale dell’uomo e prevedere il fatale disastro del mondo: «Dostoevskij è il valore immenso col quale il popolo russo giustifica la sua esistenza nel mondo: ciò a cui potrà richiamarsi nel Giudizio universale dei popoli» (La concezione di Dostoevskij, cap. IX).
GIANNI VATTIMO
Ora che Dio è morto, vogliamo che vivano molti dèi. Vogliamo poterci muovere liberamente, ma senza alcuna rotondità classica, tra molti canoni, tra molti stili – di abbigliamento, di vita, di arte, di etica – vivendo come un autentico dovere etico e religioso la ‘thlipsis’, il tormento della molteplicità.
L’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica. (La fine della modernità, 1985)
VITA E OPERE
Studioso di Nietzsche e di Heidegger, allievo di Pareyson e successivamente di Gadamer, Gianni Vattimo è nato a Torino nel 1936 dove ha studiato e si è laureato in filosofia. Ha conseguito la specializzazione all’Università di Heidelberg. Dal 1964 insegna filosofia teoretica all’Università di Torino, dove è stato anche Preside della Facoltà di Lettere. Ha insegnato come visiting professor in varie università degli Stati Uniti. E’ direttore della Rivista di estetica ed è membro di comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere. E’ socio dell’Accademia delle Scienze di Torino. Ha insegnato per alcuni semestri in alcune università americane (Yale, California, Los Angeles, New York University, State University of New York) e ha tenuto seminari e conferenze nelle grandi università di tutto il mondo. Negli anni Cinquanta è stato dirigente degli studenti cattolici e ha partecipato attivamente al dibattito sull’ “apertura a sinistra” che lo ha portato ad abbandonare l’Azione Cattolica per fondare un gruppo intitolato a Emmanuel Mounier. Negli stessi anni ha lavorato, anche come presentatore, ai programmi culturali della Rai. Le sue idee sulla religione e sulla politica hanno prodotto una filosofia attenta ai problemi della società. Il suo è un “pensiero debole” che concepisce la storia dell’emancipazione umana come una progressiva riduzione della violenza e dei dogmatismi e che favorisce il superamento di quelle stratificazioni sociali che da questi derivano. Con la volontà di battersi contro questi aspetti della realtà si è impegnato in politica, dapprima nel Partito Radicale, poi in Alleanza per Torino e nella vittoriosa campagna elettorale dell’Ulivo, del quale è un convinto sostenitore, riconoscendo oggi nei Democratici di sinistra il luogo in cui condurre le sue battaglie. Attualmente, inoltre, partecipa in qualità di Invitato permanente al direttivo nazionale del Coordinamento Omosessuale DS (CODS). Le posizioni di Vattimo sono molto diffuse, con sfumature e differenze, nella cultura filosofica italiana (e mondiale) ma hanno suscitato le reazioni polemiche di alcuni dei più noti esponenti del filone laico e neoilluministico: in particolare di Viano, suo collega a Torino, e di Paolo Rossi, il noto storico della filosofia di Firenze. Particolarmente discussa è stata la sua “apologia” del maestro Heidegger accusato di Nazismo: ” il problema non è quello di stabilire fino a che punto Heidegger sia stato nazista, ma di dimostrare, cosa che invece finora nessuno ha potuto fare in modo convincente, la sua scelta politica come conseguenza del suo pensiero. Penso cioe’ che proprio essendo filosoficamente heideggeriano non si puo’ essere nazisti “. Le principali opere di Vattimo sono: Il concetto di fare in Aristotele 1961; Essere, storia e linguaggio in Heidegger 1963; Ipotesi su Nietzsche 1967; Poesia e ontologia 1968; Schleiermacher, filosofo dell’interpretazione 1968; Introduzione ad Heidegger 1971; Il soggetto e la maschera 1974; Le avventure della differenza 1980; Al di là del soggetto 1981; Il pensiero debole 1983 (a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti); La fine della modernità 1985; Introduzione a Nietzsche 1985; La società trasparente 1989; Etica dell’ interpretazione 1989; Filosofia al presente 1990; Oltre l’interpretazione 1994; Credere di credere l996. Pubblica presso Laterza un annuario filosofico a carattere monografico (Filosofia ’86 e sgg).
A cura di Antonino Magnanimo
“Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” – minoranze etniche, sessuali religiose, culturali o estetiche- che prendono la parola, fìnalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti. ” (“La società trasparente”)
IL PENSIERO DI VATTIMO
Vattimo, in sintonia con Lyotard, è convinto che la modernità abbia ormai fatto il suo tempo e che, se i il postmoderno è l’esperienza di una fine, lo sia, in primo luogo, in quanto esperienza della ” fine della storia “, cioè della concezione moderna della storia come corso unitario e progressivo di eventi, alla luce dell’equazione secondo cui nuovo è sinonimo di migliore: ” la modernità, nella ipotesi che propongo, finisce quando – per molteplici ragioni – non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario ” (“La società trasparente”). Ragioni che non sono soltanto di tipo intellettuale o fìlosofico, ma anche di tipo storico-sociale, poiché vanno dal tramonto del colonialismo e dell’imperialismo sino all’avvento della società complessa . Infatti, se il riscatto dei popoli sottomessi ha reso problematica l’idea di una storia centralizzata e mossa dall’ideale europeo di umanità, l’affermarsi del pluralismo e della società dei media ha minato alla base la possibilità stessa di una storia unitaria. Come dimostra il fatto che, se è vero che solo con il mondo moderno, cioè con “l’età di Gutenberg” di cui parla McLuhan, si sono create le condizioni per costruire e trasmettere un’immagine unitaria e globale della storia umana, è altrettanto vero che con la diffusione delle tecnologie multimediali si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti: ” la storia non è più un filo unitario conduttore, è invece una quantità di informazioni, di cronache, di televisori che abbiamo in casa, molti televisori in una casa ” (“Filosofia al presente”). Vattimo è persuaso che i “grandi racconti” legittimanti della modernità facciano parte di uniforma mentis “metafìsica” e “fondazionalista” ormai superata. Di fatto, egli ritiene che il passaggio dal moderno al postmoderno si configuri come un passaggio da un pensiero “forte, ad un pensiero “debole”. Per pensiero forte (o metafisico) Vattimo intende un pensiero che parla in nome della verità, dell’unità e della totalità, (o ovvero un tipo di pensiero illusoriamente proteso a fornire “fondazioni” assolute del conoscere e dell’agire. Per pensiero debole (o postmetafisico) intende un tipo di pensiero che rifiuta le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive, ossia un tipo di ragione che, insieme alla ragione-dominio della tradizione, ha rinunciato a una ” fondazione unica, ultima, normativa ” (“Il pensiero debole”). Vattimo dice di aver mutuato l’espressione “pensiero debole” dallo storico della filosofia Carlo Augusto Viano, il quale aveva parlato di “ragione debole” in senso negativo. Il pensiero debole si presenta esplicitamente come una forma di nichilismo , vocabolo che il filosofo torinese considera ” una parola chiave della nostra cultura, una sorta di destino del quale non possiamo liberarci senza privarci di aspetti fondamentali della nostra spiritualità ” (“Le mezze verità”). Con questo termine, che Vattimo non usa in maniera spregiativa (” come se fosse un insulto “) bensì in maniera positiva e propositiva, egli intende la circostanza in cui, come aveva profetizzato Nietzsche, ” l’uomo rotola via dal centro verso la X “, ossia quella specifica condizione di assenza di fondamenti in cui viene a trovarsi l’uomo postmoderno in seguito alla caduta delle certezze ultime e delle verità stabili. Di conseguenza, egli ritiene che il nichilismo non vada combattuto come un nemico, bensì assunto come nostra unica chance. Infatti, agli uomini del XX secolo non rimane che abituarsi a ” convivere con il niente “, ovvero a ” esistere senza nevrosi in una situazione dove non ci sono garanzie e certezze assolute “. Da ciò la tesi-programma secondo cui ” oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere sino in fondo l’esperienza della dissoluzione dell’essere ” (“Filosofia al presente”), ossia perché siamo ancora affetti da una qualche forma di nostalgia per le totalità perdute. Infatti, il nichilismo compiuto di cui parla Vattimo non è un nichihsmo risentito o nostalgico, ovvero un nichilismo tragico, ossessionato dal crollo degli assoluti e dal pathos del non senso. Esso non è neppure un nichilismo forte, proteso a edificare, sulle macerie della metafisica, dei nuovi assoluti, ovvero un nichilismo che al posto della volontà creatrice di Dio colloca la volontà creatrice dell’uomo. Vattimo è piuttosto un nichilismo debole o della leggerezza, ovvero un tipo di nichilismo che, avendo vissuto sino infondo l’esperienza della dissoluzione dell’ essere, non ha nè rimpianti per le antiche certezze nè smanie per nuove totalità. Da ciò il suo carattere costitutivamente postmoderno e la sua consonanza con l’uomo di buon temperamento di cui parlava Nietzsche nella filosofia del mattino descrivendolo come un individuo libero dal risentimento, privo ” del tono ringhioso e dell’accanimento: le note fastidiose caratteristiche dei cani e degli uomini invecchiati a una catena “. Ad avviso di Vattimo, gli ispiratori del postmoderno sono Nietzsche e Heidegger: ” l’accesso alle chances positive che […] si trovano nelle condizioni di esistenza postmoderne è possibile solo se si prendono sul serio gli esiti della ‘distruzione dell’ ontologia operata da Heidegger e, prima, da Nietzsche. Finché l’uomo e l’essere sono pensati, metafisicamente, platonicamente, in termini di strutture stabili che impongono al pensiero e all’esistenza il compito di ‘fondarsi’, di stabilirsi (con la logica, con l’etica) nel dominio del non diveniente, riflettendosi in tutta una mitizzazione delle strutture forti in ogni campo dell’esperienza, non sarà possibile al pensiero vivere positivamente quella vera e propria età postmetafisica che è la post-modernità “. (“La fine della modernità”). Da Nietzsche Vattimo desume innanzitutto l’annuncio della ” morte di Dio ” cioè la teoria del venir meno dei vari assoluti metafisici (compresa l’idea di soggetto). Da Heidegger mutua la concezione epocale dell’essere, cioè la tesi secondo cui l’essere non è, ma accade, e la connessa persuasione secondo cui l’accadere dell’essere non è altro che l’aprirsi linguistico delle varie aperture storico-destinali, ossia dei vari orizzonti concreti entro cui gli enti diventano accessibili all’uomo e l’uomo a se stesso Questa ontologia epocale comporta una radicale temporalizzazione dell’ essere, cioè, per Vattimo, un suo strutturale indebolimento: ” alla fine, il pensiero di Heidegger sembra potersi riassumere nel fatto di aver sostituito all’idea di essere come eternità, stabilità, forza, quella di essere come vita, maturazione, nascita e morte: non è ciò che permane, ma è, in modo eminente […] ciò che diviene, che nasce e muore. L’assunzione di questo peculiare nichilismo è la vera attuazione del programma indicato dal titolo ‘Essere e tempo’ ” (“Al di là del soggetto”). Il processo di indebolimento dell’essere , la fine della metafisica e il trionfo del nichilismo sono dunque fenomeni intercollegati. Tuttavia, Vattimo è convinto che la metafisica (come il passato in generale) non sia una sorta di ” abito smesso “, ossia qualcosa che si trovi completamente alle nostre spalle e con cui non abbiamo più alcun rapporto “destinale”. Tant’è vero che per mettere a fuoco l’atteggiamento del pensiero postmetafisico nei confronti del passato egli si rifà alla nozione heideggeriana di Verwindung. Termine che, in virtù della famiglia di significati cui rimanda (guarigione, accettazione, rassegnazione, svuotamento, distorsione, alleggerimento ecc.), allude al rimettersi da una malattia (in questo caso: la metafisica o il passato) nella rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque destinati a portare le tracce. Tracce che si manifestano nel fatto che non possiamo esimerci dall’usare le categorie della metafisica e del passato, sia pure distorcendole in senso debole e postmetafisico, ossia nichilistico (il nesso di accettazione/distorsione che è proprio della Verwindung trova un caso emblematico nella secolarizzazione, la quale, come ha mostrato Weber, è sempre un processo di conservazione/connessa). All’idea di Verwindung è legata un’altra nozione che Vattimo desume da Heidegger: quella di Andenken (rimemorazione). L’atteggiamento rimemorante nei confronti della metafisica non scaturisce da un sentimento nostalgico o reattivo, ma dalla pietas nei riguardi del passato, cioè dall’ ” amore per il vivente e le sue tracce “. Verwindung, Andenken e pietas significano dunque che noi siamo legati al passato da una sorta di cordone ombelicale ermeneutico. Cordone che possiamo attenuare o distorcere, ma non annullare A questo punto, dovrebbe risultare chiara la fisionomia dell’uomo post-moderno cosi come la concepisce Vattimo. L individuo post-istorico e post-moderno è colui che dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e attraverso la dissoluzione del pensiero metafisico tradizionale riesce a vivere “senza nevrosi” in un mondo in cui Dio è nietzscheanamente morto, ossia in un mondo in cui non ci sono più strutture fisse e garantite capaci di fornire una fondazione “unica, ultima, normativa” alla nostra conoscenza e alla nostra azione. In altri termini, l’individuo postmoderno è colui che non avendo più bisogno “della rassicurazione ‘estrema’, di tipo magico, che era fornita dall’idea di Dio” ha accettato il nichilismo come chance destinale ed ha imparato a vivere senza ansie nel mondo relativo delle “mezze verità”, con la raggiunta consapevolezza che l’ideale di una certezza assoluta, di un sapere totalmente fondato e di un mondo come sistema razionale compiuto è solo un mito ‘rassicurativo’ proprio di un’umanità ancora primitiva e barbara. Un mito che non è affatto qualcosa di “naturale” bensì di culturale, ovvero di storicamente acquisito e tramandato. In sintesi, l’individuo post- moderno è colui che avendo assunto fino in fondo la condizione “debole” dell’essere e dell’esistenza ha imparato a convivere con se stesso e con la propria finitudine (cioè infondatezza), al di là di ogni residua nostalgia per gli assoluti trascendenti o immanenti della metafìsica. Negli ultimi anni, Vattimo è andato sempre più accentuando le valenze etiche del pensiero debole, adoperandosi per un ” oltrepassamento della filosofia nell’etica “, e mostrando come siano soprattutto connotazioni morali quelle che distinguono l’uomo postmoderno dall’uomo moderno. In particolare, egli è tornato a insistere sulla natura assolutistica e violenta del pensiero forte e sui caratteri tolleranti e non-violenti del pensiero debole. Caratteri che ne fanno una sorta di secolarizzazione dell’etica cristiana della carità. Tant’è che in ” Credere di credere ” Vattimo si è proposto di focalizzare la stretta connessione tra eredità cristiana, ontologia debole ed etica della non-violenza: ” l’eredità cristiana che ritorna nel pensiero debole è anche e soprattutto eredità del precetto cristiano della carità e del suo rifiuto della violenza. Sempre di nuovo ‘circoli’: dall’ontologia debole […] ‘deriva’ un’etica della non violenza; ma dall’ontologia debole fin dalle sue origini nel discorso heideggeriano sui rischi della metafìsica dell’oggettività siamo condotti perché agisce in noi l’eredità cristiana del rifiuto della violenza… “. Inoltre, contrariamente a Lyotard, Vattimo ha continuato a difendere la validità del concetto di postmoderno, mettendolo in stretto rapporto con la società dei mass-media e della comunicazione generalizzata. A questo proposito, la concezione di Vattimo è diametralmente opposta a quella sostenuta a suo tempo da Adorno e dai francofortesi. Non soltanto i media non producono una generale omologazione ma al contrario, ” radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo ” (“La società trasparente”). Ne segue che proprio l’apparente caos della società postmoderna – la quale, lungi dall’essere una società “trasparente”, cioè monoliticamente consapevole di se stessa, è piuttosto un ” mondo di culture plurali “, ovvero una società ” babelica ” e ” spaesata ” m cui si incrociano linguaggi, razze, modi di vita diversi – costituisce la miglior premessa a una forma di emancipazione basata sugli ideali del pluralismo e della tolleranza ossia a un modello di umanità più aperto al dialogo e alla differenza: a tal proposito, in un articolo comparso nel 2002, Vattimo ha scritto, in modo molto significativo: ” ora che Dio è morto, vogliamo che vivano molti dèi. Vogliamo poterci muovere liberamente, ma senza alcuna rotondità classica, tra molti canoni, tra molti stili – di abbigliamento, di vita, di arte, di etica – vivendo come un autentico dovere etico e religioso la ‘thlipsis’, il tormento della molteplicità “. Vattimo, da un iniziale atteggiamento crìtico, mutuato da Heidegger e dalla Scuola di ‘Francoforte, verso la “tecnicizzazione del mondo”, è andato assumendo (soprattutto in “La società trasparente”) un atteggiamento sempre più “amichevole” nei confronti della società avanzata e dei suoi apparati tecnologici e informatici, al punto da identificare la società postmoderna con la società dei media. I media, precisa Vattimo, non sono lo strumento diabolico di un’ inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera del Grande Fratello di Orwell), ma il presupposto in atto del possibile avvento di un’umanità spaesata capace di vivere in un ” mondo di culture plurali “. In altri termini, rifiutando l’equazione adorniana “media = società omologata” e insistendo sul nesso fra i media e l’assetto pluralistico della società “complessa”, Vattimo ha finito per sostenere, non senza qualche enfasi ottimistica (poi ritrattata), che grazie al ” mondo fantasmagorico ” dei media si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti, al punto che la realtà, per i postmoderni, coincide ormai con le ” immagini ” che tali mezzi distribuiscono. La perdita di centro e l’erosione del principio di realtà (che attuano, sul piano tecnologico, ciò che Nietzsche e Heidegger avevano preconizzato sul piano fìlosofico), implicando la distruzione degli orizzonti chiusi, pongono le premesse sia per un tipo di uomo che non ha più bisogno di recuperare nevroticamente le figure rassicuranti dell’infanzia, sia per quella liberazione delle differenze che è propria del post-moderno. Soprattutto nella raccolta di saggi “Nichilismo ed emancipazione” (2003), Vattimo mette in luce come, nella società postmoderna, l’emancipazione sia resa possibile dal nichilismo: nella misura in cui il mondo vero diviene favola e gli assoluti vengono meno, si dà la possibilità di quella reale emancipazione che nè il marxismo nè il cristianesimo, in forza del loro dogmatismo, sono stati in grado di realizzare.
“In base all’idea che […] le grandi fedi dogmatiche, i grandi orizzonti metafisici siano destinati a dissolversi, possiamo compiere delle scelte, prendere delle decisioni… “
IL PENSIERO DEBOLE
Da tempo si parla di ” pensiero debole “, cioè di un tipo particolare di sapere caratterizzato dal profondo ripensamento di tutte le nozioni che erano servite da fondamento alla civiltà occidentale in ogni campo della cultura. Secondo questa prospettiva i valori tradizionali sarebbero diventati tali solo a causa di precise condizioni storiche che oggi non sussistono più; per questo motivo deve essere messa in crisi la loro pretesa di verità. A fondamento del pensiero debole c’è l’idea che il pensiero non è in grado di conoscere l’essere e quindi non può neppure individuare valori oggettivi e validi per tutti gli uomini. Il maggiore interprete di questa problematica in Italia è Vattimo. Secondo il pensatore torinese, il compito attuale della filosofia non è d’interrogarsi sulla verità, ma di portare alle estreme conseguenze la crisi epocale che si è espressa attraverso il processo di secolarizzazione. Vattimo porta a fondo l’attacco alle filosofie che presuppongono un “fondamento”, all’illuminismo, al logocentrismo, al marxismo e insomma al “pensiero forte” e totalitario del moderno; e teorizza l’avvento di un’età nuova, regolata da un “pensiero debole”, non dimostrativo e aggressivo, ma volto alla “pietas” nei confronti dei valori storici tramandatici e alla realizzazione di un soggetto non unitario né subordinato all’autocoscienza logica, ma molteplice e poliedrico. Come si può facilmente arguire, Vattimo sostiene una posizione nichilistica e tuttavia informata ad un nichilismo non radicale come quello dei decostruttivisti, ma “morbido” e disposto anche alla comprensione delle tracce dei vecchi valori. Ovviamente viene invalidata l’idea della storia come rinnovamento continuo e percorso dotato di senso; anzi, la dissoluzione postmodernistica della categoria del nuovo viene salutata come “fine della storia”. Il modello di “pensiero debole” si riscontra soprattutto nell’arte che offre un modello di “verità” mobile e suscettibile di infinite interpretazioni; anzi, asserisce Vattimo in La fine della modernità (1985), ” l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica “. Per Vattimo il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. Ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità : le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo . Con Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale in quanto:
1) il mondo del sapere si è fatto così complesso che non è pensabile l’esistenza di una scienza che regga tutte le altre in maniera unitaria, fondante;
2) c’è una forte specializzazione delle sfere dell’esistenza ;
3) i mezzi di comunicazione di massa ci mettono continuamente a contatto con altre culture ed è sempre più difficile ridurre tutto ad un’ unica matrice;
4) l’evidenza non deve essere considerata come segno della verità , perché essa è prodotta da abitudini, pressioni sociali, convenzioni, trucchi della lingua.
Il filosofo torinese è convinto che la filosofia contemporanea, sulla scia di Nietzsche e del nichilismo, si presenti come pensiero senza fondamenti , come riflessione non più ancorata alle solide basi della metafisica e della certezza cartesiana. Il periodo dei sistemi, delle ideologie forti è tramontato: quella attuale è l’epoca delle strutture deboli . La ragione non è più centrale, è come depotenziata, è entrata in una zona d’ombra ed ha preso, quindi, contorni incerti, quasi come se si fosse eclissata. Il pilastro del pensiero debole è costituito dall’idea che l’uomo legge il mondo entro orizzonti linguistici non fissi ma storici. Alla luce di questi presupposti, si dissolvono:
1) i fondamenti certi;
2) l’idea di una conoscenza totale del mondo;
3) l’idea di una verità certa di cui noi saremmo capaci.
Pensiero debole in poche parole significa che si è consumata la concezione fondazionale della filosofia, si sono dissolti i fondamenti ultimi, i princìpi incontrovertibili, le idee chiare e distinte, i valori assoluti, le evidenze originarie e le leggi ineluttabili della storia. In conclusione con il pensiero debole muta l’immagine della razionalità, la quale deve depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso cartesiano, unico e stabile. In questo modo si inizia con una perdita ed una rinuncia: rinuncia a fondamenti certi e destini ultimi. Ma tale rinuncia è anche l’allontanamento da un obbligo, la rimozione di un ostacolo. In questo modo al passato il pensiero debole si avvicina con la pietas ; al presente pone attenzione a quei settori dell’esperienza umana calpestati da uno sguardo totalizzante; al futuro il contenimento del pensiero forte serve a contrastare la violenza e a costruire uno spazio sempre più aperto alla libertà, alla tolleranza, ai rapporti con le altre culture. Il pensiero debole è anche la fine della modernità , di quel periodo che va da Cartesio a Nietzsche e che è dominato dall’ idea-forza del progresso umano. Infatti la modernità concepisce la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo appare capace di una sempre più perfetta realizzazione della propria natura, di un esercizio sempre più ricco delle proprie facoltà. L’uomo moderno è contrassegnato dalla fiducia in se stesso come creatore e protagonista di una civiltà nuova più avanzata e più democratica di ogni epoca precedente, e in costante movimento verso ulteriori traguardi. L’idea forza della modernità è dunque il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Vattimo ha definito per qualche tempo con l’espressione pensiero debole le sue posizioni filosofiche, anche se negli ultimi anni preferisce designarle col termine ermeneutica , intendendo in tal modo collocarle in quella che più volte ha definito la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredità di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida. Esponente di rilievo dell’ermeneutica contemporanea, fortemente influenzato dal pensiero di Martin Heidegger e di Friedrich Nietzsche, Vattimo ritiene che l’ oltrepassamento della metafisica sfoci in un’ etica dell’interpretazione . La filosofia diventa pensiero debole in quanto abbandona il suo ruolo fondativo e la verità cessa di essere adeguamento del pensiero alla realtà, ma è giocata come continua interpretazione. Esistono, dunque, diverse ragioni che contrastano le pretese della filosofia fondazionale, ma il motivo di maggior peso è dato proprio dall’ermeneutica, arte e tecnica dell’interpretazione che riguarda il rapporto tra linguaggio ed essere. Esistere significa vivere in relazione ad un mondo e questo rapporto è reso possibile dal fatto che si dispone di un linguaggio. Le cose vengono all’essere solo entro orizzonti linguistici non eterni ma storicamente qualificati. Anche il linguaggio non è una struttura eterna. L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici, legge ed interpreta l’essere e si rapporta ad essi. Ma, trattandosi di orizzonti temporalizzati, vale a dire non eterni, è chiaro che sparisce ogni pretesa di discorsi o teorie eterne e assolute su Dio, sull’uomo, sul senso della storia o sul destino dell’umanità. L’avventura del pensiero metafisico è giunta al suo tramonto. L’uomo si trova già da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L’uomo si apre al mondo tramite il linguaggio che parla. Risalire a queste aperture linguistiche che permettono la visione del mondo significa pensare e prendere consapevolezza della molteplicità delle prospettive e degli universi culturali. Il pensiero debole è la fine della struttura stabile dell’essere, dunque anche di ogni possibilità di enunciare che Dio esiste o non esiste. Il grido di Nietzsche “Dio è morto” va inteso da Vattimo nel senso della fine di ogni discorso metafisico che pretende darci verità ultime e definitive. La verità diventa la trasmissione di un patrimonio linguistico e storico, che rende possibile e orienta la comprensione del mondo . La modernità, in breve, vede la storia come progresso guidato da leggi di superamento. Ma se per la modernità la storia è progresso, processo di continuo superamento, allora il pensiero debole è il postmoderno, la fine della storia . La postmodernità per Lyotard, infatti, è l’epoca di fine millennio ed è caratterizzata dal venir meno delle grandi ideologie (illuminismo, idealismo, marxismo) che costituivano la base della coesione sociale e delle utopie rivoluzionarie ( La condizione postmoderna , 1979). Compito del filosofo, di fronte a una condizione umana profondamente mutata, è quello di individuare criteri di giudizio che abbiano un valore locale, circoscritto, e non pretese globali o totalizzanti. Per Vattimo nella nascita di una società post-moderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media ( La società trasparente 1989). L’incremento dei mezzi di comunicazione non rende però la società più trasparente , più consapevole di sé, più illuminata: i mass media tendono a riprodurre gli accadimenti in tempo reale, moltiplicando la complessità della realtà invece di ridurla. Il filosofo torinese vede nella metafora della trasparenza l’indebolimento dell’essere, l’ontologia del declino, lo sfondamento della realtà e di ogni aggancio che pretenda di andare oltre l’apparenza. La simulazione, la finzione, l’artificialità, la superficialità dell’apparire si mostrano spudoratamente al posto del fondo vero, del fondamento La tesi di Vattimo è che proprio in questo relativo caos risiedono le nostre speranze di emancipazione . La mancanza di trasparenza non è dunque un fenomeno da combattere; al contrario, è il sintomo di un grande rivolgimento, che coinvolge l’intero ambito dell’esistenza: la liberazione delle minoranze (punk, donne, omosessuali, neri…) e la creazione di un nuovo stato d’animo: un’esperienza quotidiana dai caratteri più fluidi, che acquisisce i caratteri dell’oscillazione, dello spaesamento, del gioco. Nelle arti figurative, nell’architettura, nella letteratura, si parla correntemente di post-moderno per indicare uno stile che si allontana ormai dalle idee dominanti della modernità. Questa, forse per la prima volta, appare come un fenomeno unitario, che non solo ha avuto un inizio, ma che è anche sulla via di concludersi. Vattimo ne La fine della modernità (1991) dichiara che oggi si prendono le distanze dalla modernità soprattutto in riferimento a uno dei suoi ideali dominanti: quello di progresso, di superamento critico e, nelle arti, di avanguardia. Ma il fenomeno della fine dell’epoca moderna, se è una fine, ha anche conseguenze sociali ed economiche (si parla da tempo di un’era post-industriale), religiose (siamo una cultura post-cristiana?) e filosofiche. Con la modernità viene dichiarata chiusa un’epoca ancorata alla fiducia nel progresso continuo dell’umanità, che aveva, a sua volta, ripreso laicizzandola, l’idea cristiana della salvezza. E’ la fine di ogni filosofia della storia, cioè di ogni visione unitaria e compatta della storia, come se fosse dotata di senso. Ma la fine della modernità apre una fase nuova, una fase di ascolto, di attenzione a ciò che, nella luce forte della ragione e della storia, era non avvertito, o, comunque risultava inintelligibile. E’ una fase di apertura e di comunicazione alle “culture altre” , caratterizzata da una visione più tollerante e pacifica della convivenza umana.
“La debolezza del pensiero nei confronti del mondo, e dunque anche della società, è probabilmente solo un aspetto della impasse in cui il pensiero si è venuto a trovare alla fine della sua avventura metafisica. Ciò che conta adesso è ripensare il senso di quella avventura ed esplorare le vie per andare oltre: appunto, attraverso la negazione – non anzitutto a livello di rapporti sociali, ma a livello di contenuti e modi del pensare stesso – dei tratti metafisici del pensiero, prima fra tutti la “forza” che esso ha sempre creduto di doversi attribuire in nome del suo accesso privilegiato all’essere come fondamento. ” (“Il pensiero debole”)
DIZIONARIO VATTIMIANO
Postmoderno e fine della storia. Secondo Vattimo il postmoderno è, in primo luogo, l’esperienza di una “fine della storia”, ossia della concezione moderna della storia come corso unitario e progressivo di eventi, alla luce dell’equazione nuovo = migliore. Concezione che è venuta meno non solo per ragioni intellettuali o filosofiche, ma anche per motivi d’ ordine storico-sociale, che vanno dal tramonto del colonialismo e dell’imperialismo sino all’avvento della società “complessa”.
Pensiero “forte” e pensiero “debole” . In Vattimo il passaggio dal moderno al post-moderno si configura come un passaggio da un pensiero forte ad un pensiero debole. Per pensiero forte (o metafisico) Vattimo intende un pensiero che parla in nome della verità, dell’unità e della totalità, ossia un tipo di pensiero illusoriamente proteso a fornire “fondazioni” assolute del conoscere e dell’agire. Per pensiero debole (o post-metafisico) intende un tipo di pensiero che rifiuta le categorie forti e le fondazioni ultime: ” la debolezza del pensiero nei confronti del mondo, e dunque anche della società è probabilmente solo un aspetto della impasse in cui il pensiero si è venuto a trovare alla fine della sua avventura metafisica. Ciò che conta adesso è ripensare il senso di quella avventura ed esplorare le vie per andare oltre: appunto, attraverso la negazione […] dei tratti metafisici del pensiero, prima fra tutti la “forza” che esso ha sempre creduto di doversi attribuire in nome del suo accesso privilegiato all’essere come fondamento ” (“Il pensiero debole”).
Nichilismo . Con questo termine, che Vattimo non usa in maniera spregiativa, bensì in maniera positiva, egli intende la specifica condizione di assenza di fondamenti in cui viene a trovarsi l’uomo postmoderno in seguito alla caduta delle certezze ultime e delle verità stabili. Pertanto, egli ritiene che il nichilismo non vada combattuto come un nemico, ma assunto come nostra unica possibilità. Da ciò la tesi secondo cui ” oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti ” (“Filosofia al presente”). Il nichilismo di Vattimo non è nè un nichilismo risentito o nostalgico nè un nichilismo “forte”, ma un nichilismo “debole” o “della leggerezza”. Da ciò il suo carattere costitutivamente “postmoderno”.
Verwindung . Termine heideggeriano impiegato da Vattimo per alludere allo specifico rapporto che l’uomo postmoderno conserva con la metafisica (e con il passato in generale). Termine che in virtù della famiglia di significati cui rimanda (guarigione, accettazione, rassegnazione, svuotamento, distorsione, alleggerimento ecc.) allude al rimettersi da una malattia (in questo caso: la metafisica o il passato) nella rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque destinati a portare le tracce. Tracce che si manifestano nel fatto che non possiamo esimerci dall’adoperare le categorie della metafisica e del passato, sia pure distorcendole in senso debole e postmetafisico (cioè nichilistico).
“Oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti ” (“Filosofia al presente”).
DIALOGO CON NIETZSCHE
Gianni Vattimo intende ripercorrere con questo saggio il personale itinerario di avvicinamento all’opera del pensatore tedesco. Il cui punto centrale consiste nell’opposizione critica ad ogni Weltanschauung. Richard Rorty ha definito Gianni Vattimo “un filosofo ironico”. Il “pensiero debole” dell’intellettuale torinese rappresenta infatti, non soltanto una serena accettazione del tramonto della metafisica occidentale, compiutosi con l’opera di Friedrich Nietzsche, ma anche una consapevole presa di posizione per una deresponsabilizzazione della filosofia post – moderna. Dialogare con Nietzsche significa, innanzitutto, rendersi conto di quale sia stata la portata critica del suo pensiero, e quanto profondamente esso abbia influito sul dibattito filosofico dell’ultimo secolo. Vattimo intende ripercorrere con questo saggio il suo itinerario di avvicinamento all’opera nietzscheana negli ultimi quarant’anni, e contemporaneamente presentare la propria interpretazione di una filosofia troppo spesso manipolata e mitizzata. Un’adeguata decifrazione del pensiero nietzscheano non può che avere inizio dal concetto di temporalità. L’umanismo anarchico del filosofo tedesco prende origine dalla consapevolezza della rigida struttura all’interno della quale si svolge l’esistenza. L’uomo è prigioniero del passato, e del dogmatismo di una storia che incombe continuamente sulla vita, limitando od impedendo l’accesso all’unica forma di libertà: la creazione dell’istante. Il finalismo paralizza l’uomo nel timore, nell’insicurezza, svilisce l’intenzione nell’omogeneità del divenire. Non vi è alcuna epoca storica che non sia stata nichilista. La storia della metafisica occidentale non è altro che un continuo tentativo di vendetta della volontà nei confronti dell’impossibilità del passato. La conoscenza che l’uomo ha creato e ricercato è l’arroganza dello sconfitto. In Nietzsche, sottolinea Vattimo, nichilismo estremo e superamento dello stesso sono momenti così vicini da coincidere quasi. Il primo consiste nell’annullamento di tutti i valori mendaci che formano il mondo, il secondo nella compiuta consapevolezza che l’uomo assume di fronte alla vacuità del divenire inteso come processo storico. La temporalità, dunque, per Nietzsche non può avere un andamento rettilineo. Il passato schiaccerebbe il futuro, e la volontà frustrata continuerebbe la vana ricerca di sé nella conoscenza acquisita; religiosa, morale o gnoseologica. Soltanto la concezione del tempo come circolarità può annullare lo spirito di vendetta. Passato e futuro si fondono continuamente nell’attimo, il momento infinito della creazione che definisce il fluire dell’eternità. Ma il punto centrale, ricorda Vattimo, della filosofia nietzscheana consiste nella sua opposizione critica ad ogni Weltanschauung; essa non deve limitarsi ad osservare il mondo e a ricercare la verità, ma essere in grado di oltrepassare le convenzioni euritmiche che, partendo dal linguaggio, conducono l’indagine verso l’omogeneità dell’apparire, indebolendo la stessa forza del dubbio in una gnoseologia logica necessariamente fuorviante. Se la filosofia è diventata favola, allora anche Nietzsche si presenta come un incantatore. A differenza dello storicismo, però, egli non chiude l’esistenza nella gabbia della determinazione. Al termine del proprio mito Nietzsche intende porre una domanda all’uomo sull’uomo, e soltanto chi è in grado di fornire la risposta può affermare una volontà concreta di conoscenza. La realtà è frutto del linguaggio, e delle “metafore poetanti” attraverso cui esso riesce ad illudere sul procedimento euristico della verità. Lo studio del Nietzsche filologo permette un più chiaro approccio allo sviluppo critico delle opere più mature. Dalla messa in discussione del criterio rigidamente deterministico dello storicismo, il filosofo tedesco deduce la necessità di una verità non più adeguata al dato, ma inclusa in quell’orizzonte aperto che comprende il continuo fluire dell’esistenza. Vattimo quindi sostiene la centralità dell’aspetto ermeneutico di Nietzsche . Se per Heidegger, infatti, l’opera nietzscheana rappresenta la compiuta conclusione della metafisica tradizionale, è più che lecito, continua Vattimo, mettere in risalto gli aspetti postmoderni del pensiero del filosofo tedesco, ed in primo luogo considerare l’agire interpretativo come il momento più evidente di quel nichilismo che l’ermeneutica contemporanea consciamente o meno, porta con sé. Vattimo, richiamandosi ad un suo saggio del 1974 ( Il soggetto e la maschera. Nietzsche ed il problema della trasformazione ), prende quindi in esame i concetti dell’ estetica nietzscheana . Inquadrata nella stessa ottica della “alienazione di sé” platonica, essa pone il proprio principio nel fondamentale impulso alla negazione dell’identità. Lacerato il velo di Maya, l’apollineo ed il dionisiaco non sono soltanto più visti come i poli dicotomici dell’apparenza e dell’esistenza, ma come reali momenti storici attraverso cui l’uomo, tramite una simbologia fondante, ha percorso il proprio sentiero esistenziale definito dalla menzogna e dall’eccesso. Sopravvivere alla falsificazione significa, quindi, aprirsi ad una realtà sostanzialmente ermeneutica, per la quale, sottolinea Vattimo, occorre scoprire il lato debole del superuomo, quella estetizzazione dell’esistenza di cui l’artista è simbolo, e che probabilmente rappresenta l’unico mezzo rimasto per oltrepassare il nichilismo e la fine della filosofia.
LA SOCIETA’ TRASPARENTE
Vattimo è un pensatore attento al problema della comunicazione, della multimedialità e, in sostanza, della tecnica, anche se – stando a quanto egli stesso ha più volte detto – più che di tecnica sarebbe bene parlare di “tecniche”. A differenza di Heidegger – che nella tecnica scorgeva un’insidia temibile – e di Lyotard (con il quale si trova però in sintonia per quel che concerne la nozione di “post-moderno”), il filosofo torinese guarda con simpatia all’esplodere della comunicazione che ha travolto il mondo dal dopo-guerra in poi: ed è a questa tematica decisiva che è dedicato il suo scritto “La società trasparente”, apparso per la prima volta nel 1989, per poi riuscire, edito da Garzanti, nel 2000. Le ragioni di questa seconda “uscita” sono esposte da Vattimo stesso nella prefazione, in cui spiega che si sono verificate talmente tante e rapide innovazioni in campo tecnologico e politico da richiedere una rivisitazione di alcuni parti dello scritto, pur rimanendo invariato il cuore del problema, ossia il fatto che “la ‘mediatizzazione’ della nostra esistenza ci metta di fronte a (possibilità di) trasformazioni molto radicali del modo di vivere la soggettività, a eventi che rappresentano anche vere e proprie svolte nel ‘senso dell’essere’”.
Fin dalle prime pagine, viene stretto un forte legame tra post-modernità e società dei mass-media e della comunicazione generalizzata: si tratta pertanto di chiarire, in via preliminare, che cosa sia la “post-modernità” per poter così, in seguito, addentrarsi nel problema dei mass-media senza rischi di fraintendimenti. La constatazione di Vattimo, in apertura del libro, è che oggigiorno la parola “post-modernità” è sulla bocca di tutti, a tal punto che è quasi divenuto un obbligo evitarla, per non scivolare nel banale e in quella che pare ormai essere una “moda”. Ma se è vero che tutti impiegano tale termine, è altrettanto vero che si sappia con precisione quali significati siano in esso racchiusi? Con queste riflessioni sullo sfondo, Vattimo avvia la propria indagine, convinto che “il termine postmoderno abbia un senso” e che “questo senso sia legato al fatto che la società in cui viviamo è una società della comunicazione generalizzata, la società dei mass media”. Ma se parliamo di “postmoderno”, lo facciamo – ovviamente – in riferimento al “moderno”, di cui appunto il “postmoderno” rappresenta uno stadio successivo: ma che cos’è, allora, la modernità? Tra le molteplici definizioni possibili, Vattimo ne trova una particolarmente calzante, sulla quale è possibile trovarsi d’accordo: “la modernità è l’epoca in cui diventa un valore determinante il fatto di essere moderno”. In quest’accezione, l’essere moderno diventa un valore e, di conseguenza, l’essere non-moderno si colora di significati negativi, e termini come “reazionario” o “antiquato” diventano spregiativi, poiché deridono chi resta legato al passato senza riconoscere il valore del moderno. Questo atteggiamento è presente nella civiltà occidentale fin dalla nascita della modernità – avvenuta nel Quattrocento -, anche se in origine era latente e solo embrionale: un tipico esempio di questa nuova “cultura” può essere rintracciato nella figura del genio, ossia di colui che crea cose assolutamente nuove, sganciate dal passato. Nell’età illuministica, poi, l’atteggiamento “modernista” ha raggiunto l’apice, considerando il passato come mera serie di errori umani e la storia come “un progressivo processo di emancipazione”. Ora, nell’epoca in cui stiamo vivendo, non è più possibile parlare della storia come un qualcosa di unitario, come “un centro intorno a cui si raccolgono e si ordinano gli eventi”, è tramontata l’idea – o, meglio, l’ideologia – di una storia che scorre unitariamente e ciò è emerso in maniera nettissima soprattutto a partire dall’Ottocento, per trascinarsi fin nel Novecento e raggiungere probabilmente l’apice con lo scritto di Walter Benjamin “Tesi sulla filosofia della storia” (1938), in cui si dice, in sostanza, che la storia come corso unitario è “una rappresentazione del passato costruita dai gruppi e dalle classi sociali dominanti”. In effetti – nota Vattimo – se ci domandiamo “che cosa si tramanda del passato? Che cosa ci riferisce la storia di quel che è accaduto?”, ci troviamo inevitabilmente costretti a riconoscere che essa si fa portavoce non di tutto ciò che è accaduto, bensì di ciò che appare “rilevante”, con la conseguenza, ovviamente, che la storia non può che essere di parte. Sviluppando queste tesi benjaminiane (ma già prospettate da Marx e da Nietzsche), si perviene alla conclusione che “non c’è una storia unica, ci sono immagini del passato proposte da punti di vista diversi, ed è illusorio pensare che ci sia un punto di vista supremo”. E se crolla l’idea di una storia come corso unitario, crolla anche l’idea di progresso (che accomuna gli Illuministi, Hegel, Marx, i Positivisti e gli Storicisti), giacchè quest’ultimo implica che la storia stessa proceda verso un fine, verso il meglio. Infatti, così come noi possiamo concepire la storia in maniera unitaria solo se guardiamo ad essa da un determinato punto di vista che si pone al centro, così il progresso viene necessariamente inteso “assumendo come criterio un certo ideale dell’uomo”. Con la fine della modernità e il trapasso nella post-modernità, tutto ciò si è sgretolato, e non solo grazie alla fine del colonialismo e dell’imperialismo: anche l’avvento della società della comunicazione ha giocato, in tal senso, un ruolo assolutamente fondamentale. Ed è a questo punto che Vattimo introduce la nozione di “società trasparente”, un’espressione che è “introdotta con un punto interrogativo” perché più problematica del previsto.
“Ciò che intendo sostenere è: a) che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; b) che essi caratterizzano questa società non come una società più ‘trasparente’, più consapevole di sé, più ‘illuminata’, ma come una società più complessa, persino caotica; e infine c) che proprio in questo relativo ‘caos’ risiedono le nostre speranze di emancipazione”.
L’inizio della fine della modernità è segnato – come abbiamo visto – dallo spegnersi dell’unitarietà della storia e del suo monopolico punto di vista: nel passaggio al post-moderno, non c’è più un unico punto di vista universalmente valido e accettato, ma, al contrario, vi è un’autentica esplosione di prospettive, di concezioni e di idee che rendono impossibile pensare la storia come un lineare corso di eventi che scorre unitariamente. Questo proliferare di visioni del mondo trae origine dal ruolo dei mass media e della comunicazione generalizzata, cui Vattimo riconosce il grande merito di aver reso la società non più trasparente e cristallina, ma, viceversa, incommensurabilmente più caotica e irriconducibile ad un centro, ad un punto di vista unico. L’asserto di Nietzsche – in “Così parlò Zarathustra” –: “ora che Dio è morto vogliamo che vivano molti dei”, si concretizza nella società postmoderna, in cui “radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo”: non più una sola visione del mondo, ma un’esplosione di immagini. Sono stati i mass media a permettere la dissoluzione dei punti di vista centrali, ossia di quelli che – prendendo in prestito le parole di Lyotard – potremmo definire “i grandi racconti”: ne segue che proprio l’apparente caos della società postmoderna – la quale, lungi dall’essere una società “trasparente”, cioè monoliticamente consapevole di se stessa, è piuttosto un “mondo di culture plurali”, ovvero una società “babelica” e “spaesata” in cui si incrociano linguaggi, razze, modi di vita diversi – costituisce la miglior premessa a una forma di emancipazione basata sugli ideali del pluralismo e della tolleranza ossia a un modello di umanità più aperto al dialogo e alla differenza. Si attua una presa di parola da parte di un numero crescente di sub-culture che, prima d’oggi, erano sempre state messe a tacere e condannate come “diverse” e quindi “non-vere”. In tale prospettiva, risulta inaccettabile la posizione di Adorno e degli altri membri della Scuola di Francoforte, che nei mass media tendevano a leggere un terribile strumento di appiattimento e di imposizione di un dominio unitario; il proliferare di “immagini del mondo” porta con sé la paradossale conseguenza che diventa sempre meno concepibile l’idea di un mondo, di una realtà data unitariamente, cosicchè pare avverarsi la profezia nietzscheana del mondo vero che alla fine diventa favola: non c’è più una realtà data, ma vi sono una miriade di realtà o, meglio, di punti di vista diversi, di diverse interpretazioni che rendono incredibilmente babelica la società, generando un diffuso effetto di spaesamento e confusione: “si fa strada un ideale di emancipazione che ha alla propria base, piuttosto, l’oscillazione, la pluralità, e in definitiva l’erosione dello stesso ‘principio di realtà’”. Fluttuando in questo mare di interpretazioni che rendono impossibile gettare una luce unitaria sulla realtà, si possono trovare vie emancipative, soprattutto partendo dal presupposto che, venendo a mancare un’interpretazione unica, ciò significa che la realtà post-moderna, segnata da un indebolimento dell’essere, non è interpretabile univocamente, ma si fan strada più punti di vista, tutti ugualmente validi. In questo modo, “l’importanza dell’insegnamento filosofico di autori come Nietzsche e Heidegger sta tutta qui, nel fatto che essi ci offrono gli strumenti per capire il senso emancipativo della fine della modernità e della sua idea di storia”. La società postmoderna può dunque essere fatta coincidere con la società dei media, i quali non sono lo strumento diabolico di un’inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera del Grande Fratello di Orwell), ma il presupposto in atto del possibile avvento di un’umanità spaesata capace di vivere in un “mondo di culture plurali” che – poiché non depositarie della “Verità” in nome della quale dichiarar guerra alle altre – possono avvicinarsi e collaborare pacificamente. In altri termini, rifiutando l’equazione adorniana “media = società omologata” e insistendo sul nesso fra i media e l’assetto pluralistico della società “complessa”, Vattimo ha finito per sostenere che grazie al “mondo fantasmagorico” dei media si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti, al punto che la realtà, per i postmoderni, coincide ormai con le “immagini” che tali mezzi distribuiscono. La perdita di centro e l’erosione del principio di realtà (che attuano, sul piano tecnologico, ciò che Nietzsche e Heidegger avevano profetizzato sul piano fìlosofico), implicando la distruzione degli orizzonti chiusi, pongono le premesse sia per un tipo di uomo che non ha più bisogno di recuperare nevroticamente le figure rassicuranti dell’infanzia, sia per quella liberazione delle differenze che è propria del post-moderno. E così, “se con la moltiplicazione delle immagini del mondo perdiamo il ‘senso della realtà’, come si dice, forse non è poi una gran perdita”: mettendo sulla bilancia ciò ch’è perso e ciò ch’è guadagnato, pare proprio che essa penda a favore del guadagnato, poiché è sì vero che ci troviamo di fronte ad un dilagante nichilismo che non è più “alle porte”, ma che è tra noi, ad un’impossibilità di afferrare in maniera decisiva il significato dell’essere, ma da ciò deriva la fine dei “pensieri forti”, convinti di avere in pugno la Verità, pronti ad esser chiusi alle “culture altre” perché prive di tale Verità, nasce un “pensiero debole” che – consapevole dei propri limiti e dell’indebolimento dell’essere – si apre a tali “culture altre”. L’emancipazione che deriva dalla moltiplicazione all’infinito delle immagini del mondo finisce così per coincidere con lo spaesamento babelico in cui ci troviam gettati nel mondo pluralizzato: assistiamo ad un’autentica liberazione delle differenze, il che è particolarmente apprezzabile se prendiamo in esame il caso dei dialetti, ossia delle lingue locali che sfuggono ad ogni determinazione univoca e dettata dall’alto e riportano immagini del mondo ognuna diversa dalle altre. Certo, anche i dialetti sottostanno a regole grammaticali e sintattiche – è evidente -, ma il potenziale liberativo in essi presente riposa sul fatto che possono dar parola a “culture altre”, diverse e plurali, che si fanno araldi di prospettive e di visuali sul mondo.
“Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non è la sola ‘lingua’, ma è appunto un dialetto fra altri. Se professo il mio sistema di valori – religiosi, estetici, politici, etnici – in questo mondo di culture plurali, avrò anche un’acuta coscienza della storicità, contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mio”.
Questo atteggiamento, coincidente con quello nietzscheano del “continuare a sognare sapendo di sognare”, è quello proprio dell’Oltreuomo zarathustriano, che – morto Dio – crea nuovi dei, in un caleidoscopio infinito di immagini del mondo e di valori sempre rinnovantesi. Il potenziale emancipativo che scaturisce dai dialetti è rintracciabile, pur con le dovute differenze, anche nell’esperienza estetica, dove – come nota Dilthey – ci troviamo catapultati a vivere in altri mondi possibili, capendo come, in definitiva, il mondo reale in cui siam chiusi è contingente, relativo, non definitivo. Vivendo l’esperienza estetica, fluttuiamo spaesati tra appartenenza e spaesamento, cogliendo il vero senso della libertà e della pluralità. Scrive Vattimo:
“Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” – minoranze etniche, sessuali religiose, culturali o estetiche- che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti”.
Ma la libertà derivante dall’esplodere della comunicazione generalizzata è dunamiV non enteleceia può passare in atto, ma può anche degenerare nella voce del “Grande Fratello” e della “banalità stereotipata”, del “vuoto di significato”; sta a noi far sì che proceda in una direzione anziché nell’altra, a noi che siamo ancora legati agli orizzonti chiusi e unitari e che non siamo forse ancora pronti ad una cultura “plurale”, a noi che “oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti” (“Filosofia al presente”). In quest’ottica, i nostri punti di riferimento devono essere Nietzsche e Heidegger soprattutto, ma anche pragmatisti come Dewey o Wittgenstein, i quali ci hanno mostrato che “l’essere non coincide necessariamente con ciò che è stabile, fisso, permanente, ma ha da fare piuttosto con l’evento, il consenso, il dialogo, l’interpretazione” e che ci hanno resi “capaci di cogliere questa esperienza di oscillazione del mondo postmoderno come chance di un nuovo modo di essere (forse: finalmente) umani”. Il secondo capitolo dello scritto si intitola “Scienze umane e società della comunicazione”, avente come tesi portante lo stretto rapporto che intercorre fra scienze umane e società della comunicazione: il tratto comune sta nel fatto che sia le scienze tecniche e sperimentali sia le scienze umane “costituiscono il loro oggetto più che non esplorino un ‘reale’ già costituito e ordinato”, il che si inquadra perfettamente con il discorso condotto da Vattimo nel capitolo precedente, in cui si insisteva, appunto, su come nella società postmoderna il mondo “vero” tenda nietzscheanamente a diventare una “favola”, a cedere il passo ai tanti mondi fatti venire a galla dai mass media. Vattimo sostiene che le cosiddette “scienze umane” – dalla sociologia all’antropologia, anche se il termine oscilla nel vago – sono rese possibili, anche se in un rapporto di reciproca determinazione, dal “costituirsi della società moderna come società della comunicazione”: esse sono, al contempo, l’effetto della nascita della società postmoderna e l’elemento che contribuisce al suo incessante sviluppo. Il risultato è che – per dirla con l’Heidegger dei “Sentieri interrotti” – ci muoviamo in un’ “epoca delle immagini del mondo”, ossia in un’epoca in cui, grazie ai supporti tecnici e ai mass media, il mondo si riduce ad immagini, viene svuotato nella sua realtà, non è più consistente come in passato. La tecnica stessa (o, meglio, le tecniche) si esplicitano pertanto soprattutto nel mondo dell’informazione, riducendo il mondo stesso ad immagini, più che nel dominio della natura (secondo quel che invece credeva una tradizione che da Bacone giungeva fino a Marx), cosicchè la società tecnica che oggi impera è essenzialmente la società delle scienze umane, quella che è conosciuta e studiata da esse e che in esse si esprime. Ciò, se non può essere dimostrato, può tuttavia essere avvalorato da esempi: primo fra tutti, la centralità assunta dalle tecnologie informatiche, che – come la mano secondo Aristotele – sono organon twn organwn “strumento degli strumenti”. In secondo luogo, possiamo soffermare la nostra attenzione sulla nozione di “contemporaneità”, con la quale dobbiamo soprattutto intendere “la tendenza alla riduzione della storia sul piano della simultaneità” (la telecronaca diretta, le informazioni via internet in tempo reale, e così via), una tendenza orientata a raggiungere quella che Vattimo chiama “utopia della assoluta autotrasparenza”. Questo atteggiamento programmatico è venuto chiaramente alla luce nell’età illuministica, quando l’uomo ha sentito l’esigenza più che mai di conoscere ogni cosa, riconducendola alla scienza; ma non lo troviamo solo nell’età dei Lumi: ancora Hegel, quando parla di “Spirito assoluto”, o quando i Positivisti parlano di “progresso”, si muovono fermamente lungo questa direttiva; anche Habermas e Apel, se letti attentamente, non sfuggono a questa prospettiva. Se le scienze umane muovessero verso una rigorosa scientificità tale da abolire ogni motivo di parte, ideologico, di interesse, e se la comunicazione ad esse si adeguasse, allora probabilmente la società sarebbe trasparente, come auspicavano gli Illuministi: ma, al contrario, “lo sviluppo intenso delle scienze umane e l’intensificarsi della comunicazione sociale non sembrano produrre un accrescimento della autotrasparenza della società, ma anzi paiono funzionare in senso opposto”; prova ne è l’esplosione di visioni del mondo, di punti di vista diversissimi, che ha colorato lo sviluppo della comunicazione generalizzata, spingendo in direzione di una società meno trasparente e più caotica, sì, ma proprio per questo più propensa da essere un terreno fertile per lo scaturire di un’emancipazione e di una libertà per tutti. Così, se la radio, se la televisione, se internet divulgassero informazioni univoche, appiattite, tutte simili fra loro perché provenienti da un unico punto di vista, la società sarebbe trasparente, ma refrattaria ad ogni forma di emancipazione e di libertà, sarebbe cioè dominata da un gruppo che pretenderebbe di imporre a tutti il proprio punto di vista, fatto passare per “Verità”; così in passato – quando non c’erano i mass media – si sono potute affermare “Verità” quali l’inferiorità della donna e dei neri, l’esser contro natura degli omosessuali, e così via. E il mondo attuale – nota Vattimo – sembra oggi procedere in direzione diametralmente opposta all’autotrasparenza: sembra essersi avviato verso la “fabulazione del mondo”, ossia al fatto che il mondo reale venga sostituito da un caotico pulviscolo di immagini del mondo, tutte diverse tra loro, per cui – nietzscheanamente – il mondo vero diventa favola e ad esistere non sono più i fatti, ma le interpretazioni. Con ciò Vattimo non intende certo abbandonarsi a nostalgici rimpianti idealistici, per cui il mondo reale non esisterebbe, ma sarebbe una mera produzione del soggetto: al contrario, vuol semplicemente mettere in luce come “ciò che chiamiamo la ‘realtà del mondo’ è qualcosa che si costituisce come ‘contesto’ delle molteplici fabulazioni”. Respingendo l’idealismo, Vattimo si discosta anche, in qualche misura, dallo scetticismo e dal relativismo, avvicinandosi invece ad “una disponibilità meno ideologica all’esperienza del mondo, il quale, più che l’oggetto di saperi tendenzialmente (ma sempre solo tendenzialmente) ‘oggettivi’, è il luogo della produzione di sistemi simbolici, che si distinguono dai miti proprio in quanto sono ‘storici’ – e cioè narrazioni che prendono criticamente le distanze, si sanno collocate in sistemi di coordinate, si sanno e si presentano esplicitamente come ‘divenute’, non pretendono mai di essere ‘natura’”. Naturalmente, in questo groviglio inestricabile di “visioni del mondo”, o – per riesumare un’antica espressione leibniziana – di “punti di vista”, le scienze umane non possono fare affidamento sul metodo scientifico, ma devono trovar rifugio in quello ermeneutico, mirante ad una verità reperibile nel dialogo, nel confronto, nella corrispondenza, e non nella fantasmatica corrispondenza ad un presunto stato di cose. E, poiché tale via ermeneutica sa bene che i punti di vista, in quanto tali, sono vessilliferi di porzioni di verità, mai di una Verità data una volta per tutte, ma, ciononostante, guarda al brulicare di tali punti di vista come ad un forte potenziale emancipativo, essa può essere accostata ad un altro concetto nietzscheano (ripreso dallo stesso Ricoeur): quello di “scuola del sospetto”; è vero che non possiamo far strage di ideologie e visioni di parte, sgombrando definitivamente il campo, ma ciò ci permette di capire come la realtà non abbia una sola chiave di lettura, ma, al contrario, si presti a mille, a duemila, a infinite possibili letture, senza che nessuna di esse sia “Vera” e possa arrogarsi il diritto di combattere le altre in nome della propria “Verità”. Ecco perché “il sistema dei media-scienze umane funziona, quando funziona al meglio, come emancipazione solo in quanto ci colloca in un mondo meno unitario, meno certo, dunque anche assai meno rassicurante di quello del mito”. Il capitolo successivo è appunto dedicato al mito, nella convinzione che sia necessario definire in che rapporti si trovi con esso l’uomo postmoderno. E Vattimo nota, in prima analisi, come propriamente non sussista nell’epoca contemporanea una soddisfacente teoria del mito, seppure esso rappresenti uno di quei concetti più ricorrenti: secondo Sorel, il mito era quel complesso di immagini spontanee ed istintive che, a differenza dell’utopia (che è una rappresentazione intellettuale razionalmente esaminabile), ha un effetto pratico dirompente, è l’espressione immediata per immagini della volontà che attende di tradursi in azione. Secondo Lévi-Strauss, invece, il mito è l’espressione dell’attività inconscia dello spirito umano e si struttura come un linguaggio. Proprio muovendo dall’analisi condotta da Lévi-Strauss, Vattimo interpreta il mito come una forma di pensiero anti-scientifico, che non fa ricorso alla dimostrazione e al rigore, ma, piuttosto, alla fantasia, alla narrazione e al coinvolgimento, con minore (se non addirittura nulle) pretese di obiettività. La scienza stessa, nel suo costituirsi, si pone come demitizzazione, ossia come disincanto del mondo: ma ciò significa che il mito viene cronologicamente prima della scienza, poiché quest’ultima nasce appunto come superamento del mito stesso. Su questo punto si trovano d’accordo anche Lévi-Strauss, Cassirer e Weber: ma di fronte a quest’attenzione per il mito non può non destarsi in noi un senso di “disagio” per il fatto che la sua sopravvivenza è legata a filo doppio all’esistenza di una concezione metafisica che oggi pare scomparsa. Come può esistere il mito se manca la metafisica? Da questa insanabile contraddizione risulta evidente come il mito appaia qualcosa di arcaico e inattuale, che non ha cittadinanza nella società attuale e che risulta collocabile solo in un lontano passato dai contorni indefiniti. Proprio sulla nozione di “arcaismo” Vattimo si sofferma diffusamente, spiegando come l’atteggiamento “arcaico” che guarda con sospetto al mondo scientifico possa in qualche misura anche essere detto “apocalittico”: leggendo il mito alla luce della categoria dell’arcaismo, se ne evince che esso non è un qualcosa di ormai superato, ma è anzi una forma di sapere più genuino e autentico rispetto a quello proprio della scienza, e che anzi può permettere un distanziamento dalla scientificità imperante. Non è un caso che la critica della scienza in nome dell’arcaismo e il conseguente recupero del mito e della sua funzione liberatrice stiano alla base della posizione di Nietzsche e di Heidegger, anche se, ad onor del vero, non è possibile far riferimento ad una corrente filosofica dai confini adeguatamente delineati che si proponga di porre al centro il mito: è sì un’alternativa, ma che tende a schizzar via, a non trovare i giusti limiti che la contengano e la regolino, cosicchè non può portare a nulla di certo, e anzi può capovolgersi in un nostalgico e reazionario attaccamento per il passato (sfociando così verso posizioni di estrema “destra”). Accanto all’arcaismo come elemento qualificante il mito, Vattimo prende in esame il relativismo culturale di cui è intrisa la nostra cultura e a cui, in fondo, il “pensiero debole” non riesce completamente a sottrarsi: alla base del relativismo sta la convinzione che “i principi e gli assiomi fondamentali che definiscono la razionalità, i criteri di verità, l’etica e in genere che rendono possibile l’esperienza di una determinata umanità storica, di una cultura, non sono oggetto di sapere razionale, di dimostrazione, giacchè da essi dipende ogni possibilità di dimostrare alcunchè”. Di questo tipo sono, ad esempio, la teoria dei paradigmi nella formulazione di Thomas Kuhn o l’ermeneutica che si richiama a Heidegger. La connessione tra il mito e il relativismo risiede nel fatto che quest’ultimo tende a considerare tutti i princìpi primi – generalmente riconosciuti come razionali – come mitici, ossia oggetto di un sapere sotto forma di mito, esulante dai dettami della ragione. La stessa razionalità scientifica, in definitiva, finisce per assumere la veste del mito. Infine, ancora altra cosa rispetto all’arcaismo e al relativismo è quello che Vattimo definisce come “irrazionalismo temperato” (o anche “razionalità limitata”): secondo la prospettiva dell’irrazionalismo limitato, il mito non si distingue dal sapere scientifico perché ormai sorpassato (“arcaismo”) o perché fa del sapere scientifico stesso un mito (“relativismo”), ma piuttosto perché intende come peculiarità del mito il suo carattere narrativo, del tutto assente nel procedere della scienza. Questa prerogativa – peraltro già perfettamente individuata a suo tempo da Platone – fa sì che al procedere argomentativo e serrato, per dimostrazioni e formule, della scienza si opponga il periodare fluente e narrante del mito, che – nota Vattimo – investe soprattutto tre ambiti del sapere: la psicoanalisi, la storiografia e la sociologia dei mass media. Ciò non toglie che, nella loro specificità, queste tre forme di intendere il mito (arcaismo, relativismo, irrazionalismo temperato) condividano un importantissimo aspetto: nascono dalla dissoluzione delle filosofie metafisiche della storia e, al contempo, non riescono a porre rimedio a tale dissoluzione, configurandosi in tal modo inadeguati e, spesso, contraddittori. Se il pensiero metafisico, che Vattimo altrove designa anche come “pensiero forte”, proponeva come rimedio a tutto ciò una concezione della storia come Aufklärung e emancipazione della ragione, ora questo è divenuto assolutamente impossibile nel momento stesso in cui si è verificata quell’esplosione – provocata dai mass media e su cui ci siamo ampiamente soffermati in precedenza – in virtù della quale hanno preso la parola una miriade di gruppi da sempre ritenuti marginali e, perciò, tacitati, cosicchè ora la storia ha cessato di configurarsi come un corso unitario mirante ad un teloV e si è invece trasformata in un caotico, babelico e spaesante guazzabuglio di immagini portate alla luce da ciascun gruppo. Se prima d’oggi essa era come uno specchio nella sua unitarietà, ora tale specchio è caduto, si è spezzato in un’infinita molteplicità di frantumi che rispecchiano realtà diverse e contrastanti: il progetto portante dell’Illuminismo, del Positivismo e dello stesso Idealismo si è dunque arenato, poiché “la realizzazione dell’universalità della storia ha reso impossibile la storia universale” e la “demitizzazione è stata riconosciuta essa stessa come un mito”. Da ciò deriva una nuova, inquietante domanda: mostrata la miticità della demitizzazione, sono legittimati i tre atteggiamenti – poc’anzi tratteggiati – verso il mito? Dopo aver compreso che l’idea di sbarazzarsi dei miti era essa stessa mitologica, siamo autorizzati a riprendere il mito come prima? Vattimo risponde – quasi giocando la carta dell’Aufhebung hegeliano – che “una volta svelata la demitizzazione come un mito, il nostro rapporto con il mito non ritorna ingenuo, ma rimane segnato da questa esperienza”: ritorniamo al mito come colui che sogna sapendo di sognare, e tale atteggiamento può essere etichettato come “secolarizzazione”. Sul versante religioso, questo si esprime come scoperta degli errori e delle mistificazioni della religione ma, al contempo, come sopravvivenza di tali errori: si è scoperta la loro natura di erramenti, ma non si ha il coraggio di lasciarli alle spalle, quasi come se il progresso rimanesse magicamente vincolato ad essi da un rapporto di nostalgia. Allo stesso modo, – leggendo Max Weber – il capitalismo non è abbandono, ma trasformazione del cristianesimo. Da ciò deriva che “quando anche la demitizzazione è svelata come mito, il mito ricupera legittimità, ma solo nel quadro di una generale esperienza ‘indebolita’ della verità”: nell’eredità del pensiero debole, dunque, accanto al precetto cristiano della non-violenza, c’è anche posto per il mito, il quale però ha carattere indebolito perché passato sotto il giogo della demitizzazione demolitrice, la quale, a sua volta, si è rivelata come mera mitologia. Proprio in ciò, nella demitizzazione della demitizzazione, – oltrechè, naturalmente, nella fine dell’unitarietà della storia – si può leggere il passaggio dal moderno al postmoderno: un passaggio inaugurato da Nietzsche che porta alla conclusione che la verità cessa di essere un fundamentum absolutum et inconcussum, per cui l’uomo moderno che ispeziona il proprio animo non rinviene la certezza irremovibile del cogito cartesiano, ma, piuttosto, “le intermittenze del cuore proustiane, i racconti dei media, le mitologie evidenziate dalla psicoanalisi”. Nell’età post-moderna, dunque, il mito torna a fiorire, ma profondamente mutato nella sua essenza: non è più un qualcosa fortemente contrapposto alla razionalizzazione, ma quasi un superamento tra la scissione apertasi tra razionalismo e irrazionalismo, una sorta di punto di sutura tra i due tale da riaprire “il problema di una rinnovata considerazione filosofica della storia”. Continuando il nostro percorso tra i sentieri de “La società trasparente”, ci troviamo improvvisamente di fronte al problema estetico, cui Vattimo più volte aveva alluso (pensiamo a quando, riprendendo Dilthey, scorgeva nelle opere d’arte possibili “mondi altri”): tratto che accomuna il moderno al postmoderno è appunto l’esperienza estetica come annunciatrice dei “tratti salienti dell’esistenza” (il “senso dell’essere” heideggeriano). A tal proposito, Vattimo prende in esame lo scritto di Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936), mostrando come – al di là dei clamorosi fraintendimenti a cui è stato soggetto – esso ci abbia aperto gli occhi, mettendo in chiaro la sostanziale modificazione a cui è andata in contro l’arte nel suo incontrarsi coi mass media e, più in generale, con la società di massa. Un tempo, l’opera d’arte era avviluppata da un’“aura”, ovvero da un alone di unicità, originalità, irripetibilità e sacralità che è stato spazzato via dall’avvento dei mass media: questi, infatti, introducendo la “riproducibilità tecnica” (pensiamo al grammofono, alla TV, alla radio), hanno fatto sì che l’opera d’arte cessasse di essere un unicum, un qualcosa di irripetibilmente sacro, facendo di essa un “sempre uguale” , un qualcosa di fruibile in ogni istante e in ogni luogo. Questa grande intuizione benjaminiana – alla quale Adorno, Horkheimer e l’intera “Scuola di Francoforte” non ha aggiunto nulla di veramente innovativo – deve essere sviluppata in maniera tale da fornire un’interpretazione dell’arte nell’età postmoderna: ed è quel che Vattimo si propone di fare, imboccando una strada radicalmente nuova, improntata sul confronto tra il saggio di Benjamin e quello – coevo – di Heidegger su “L’origine dell’opera d’arte” (in “Sentieri interrotti”). In quest’opera, Heidegger respinge l’eventualità che l’opera d’arte possa essere mera mimesiV e avvia la propria indagine muovendo dalla constatazione che, in primo luogo, l’opera d’arte è una cosa, arrivando poi – e qui sta la grandezza del genio heideggeriano – a ribaltare la prospettiva, ossia non più a leggere le opere d’arte a partire dalle cose, ma, viceversa, le cose a partire dalle opere d’arte. E’ infatti nel quadro di Van Gogh in cui vengono rappresentate le scarpe contadine che ci è dato capire realmente che cosa siano le scarpe, giacchè lì la loro “strumentalità” è sospesa in favore della loro “cosalità”. Da ciò deriva che la prerogativa essenziale dell’opera d’arte risiede nel suo “mettere in opera” la verità, o – come asserisce Heidegger stesso – nel suo aprire un Mondo sul ritirarsi della Terra. Così intesa, l’opera d’arte secondo Heidegger non può che provocare sul suo osservatore un “urto” (“Stoss” in tedesco): il che è particolarmente curioso, poiché Benjamin stesso – che ha in mente soprattutto il cinema – parla di “Shock” come caratteristica fondamentale dell’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica: questa “poetica” dello shock era stata anticipata dai Dadaisti, i quali concepivano l’arte come un proiettile sparato verso il pubblico, un proiettile che colpiva al cuore le convinzioni, le abitudini, i modi di vedere comuni. Chi, comodamente seduto su una poltrona al cinema, guarda una rappresentazione è secondo Benjamin come un pedone che, immerso nel traffico travolgente della città, deve districarsi tra le vetture senza farsi investire, salvando in tal modo la propria vita; in modo incredibilmente vicino, anche in Heidegger l’esperienza dell’arte è ai confini con la morte, in bilico tra vita e trapasso, non già nel senso benjaminiano del pedone che deve muoversi nel traffico, quanto piuttosto nell’accezione – squisitamente heideggeriana – della morte come possibilità costitutiva dell’esistenza. A provocare lo Stoss è, nella prospettiva heideggeriana, il fatto stesso che l’opera d’arte ci sia anziché non esserci: e – come ricorderà il lettore di “Essere e Tempo” – l’esserci sta alla base dell’angoscia, di quello stato emotivo che rende autentica l’esistenza dell’uomo gettato nel mondo. Certo, se soffermiamo la nostra attenzione sui singoli enti del mondo, cogliamo quella rete di infiniti rimandi intenzionali (da Husserl riconosciuta solo a livello coscienziale) che tra essi intercorrono e che ad essi conferiscono un senso: ma se guardiamo al mondo nel suo insieme? Non possiamo non provare un senso di vertigine nell’accorgerci che esso non rimanda a null’altro e che è assolutamente privo di senso, angosciante. La stessa opera d’arte, sotto questo profilo, trae origine non tanto come ente tra gli altri, correlazionato da una fitta rete di rimandi, quanto piuttosto come aprirsi di un nuovo mondo a se stante, come “messa in opera della verità”, ed è per questo che sortisce su di noi un effetto urtante, di Stoss. L’urto a cui allude Benjamin è qualcosa di più semplice e immediato, è la rapida successione delle scene di un film che ci scuote, che ci impone di stare attenti, come il pedone nel traffico urbano. Ma, al di là di queste differenze, c’è davvero un’analogia tra l’arte secondo Heidegger e l’arte secondo Benjamin? E le loro concezioni offrono qualche connessione con la società dei mass media in cui si trova l’uomo postmoderno? A questi interrogativi martellanti Vattimo dà un’unica risposta, che risolve le due questioni e, al contempo, le salda tra loro: sia in Heidegger sia in Benjamin è fortemente presente l’idea dello spaesamento – tipica della babelica società postmoderna – suscitato dall’incontro con l’opera d’arte, una sorta di estraniamento urtante che per entrambi i pensatori non va superato tentando una ricomposizione, ma, viceversa, va mantenuto in vita. Ricomporlo – nel caso di Benjamin – sarebbe possibile solo a patto di bloccare le immagini del film: ma ciò sarebbe del tutto assurdo, poiché il film cesserebbe di essere tale, si tramuterebbe in una foto. Nel caso di Heidegger, poi, ricomporre lo spaesamento equivarrebbe a fare dell’opera d’arte un ente fra i tanti, riconducendola ad una mera “cosa”, quando Heidegger stesso ha spiegato che l’opera d’arte è qualcosa di più di una cosa (altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, perché si fanno le esposizioni con le patate o con le melanzane anziché con i quadri). In rottura con l’intera tradizione occidentale – dalla kaqarsiV aristotelica al kantiano libero gioco delle facoltà, fino alla hegeliana perfetta corrispondenza di interno ed esterno – che aveva sempre concepito l’arte come momento conciliante di sicurezza e di “riappaesamento”, Heidegger e Benjamin hanno ravvisato nello “spaesamento” il suo tratto costitutivo. Ma se Benjamin è alquanto fiducioso nei confronti della tecnica e della sua riproducibilità, consapevole di come in essa si annidi un potenziale rivoluzionario, poiché apre alle masse – soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia – l’accesso all’arte e alle sue capacità di contestazione dell’ordine esistente, Heidegger ne è invece un severo critico, muovendo dall’amara constatazione di arte e tecnica, un tempo coincidenti (nella tecnh dei Greci era compresente sia il significato di “arte” sia quello di “tecnica”, per cui il tempio era frutto tanto di perizia tecnica quanto di estro artistico), sia destinate ad allontanarsi sempre più, fino a che la tecnica non schiaccerà l’arte. Vattimo però nota come sia troppo riduttivo liquidare il problema del rapporto di Heidegger con la tecnica limitandosi ad etichettare il pensatore tedesco come suo nemico: ed è per questo motivo ch’egli si propone di approfondire il discorso (addentrandosi nello scritto heideggeriano “Identità e differenza”), scavando in profondità per scoprire se – dietro alla concezione della tecnica come Ge-Stell – non si celi qualcos’altro. Ciò che affiora da questa indagine è che “la chance di oltrepassare la metafisica che offre il Ge-Stell è legata al fatto che, in esso, ‘uomo ed essere perdono le determinazioni che la metafisica ha loro attribuito’ (Identità e differenza): la natura non è più solo il luogo delle leggi necessarie delle ‘scienze positive’, mentre il mondo umano – anch’esso duramente sottoposto alle tecniche di manipolazione – non è più il complementare e simmetricamente opposto regno della libertà, campo delle ‘scienze dello spirito’. In questo rimescolio di carte, il teatro della metafisica con i suoi ruoli definitivi tramonta, e per questo può darsi una chance di nuovo avvento dell’essere”. I mass media, dal canto loro, sembrano distruggere l’arte, facendo di essa un evento superficiale e precario, ma mantengono quell’effetto di “urto” riconosciuto da Heidegger e da Benjamin, quella “mobilità e ipersensibilità dei nervi e dell’intelligenza, caratteristica dell’uomo metropolitano” (a cui Heidegger e Benjamin guardano, probabilmente, attraverso la mediazione di Simmel), un urto che si esercita anche come spaesante oscillazione tra angoscia e morte. Senza per questo voler riabilitare la società di massa e l’appiattimento da essa generato, Vattimo mette in luce come l’arte prodotta dai mass media possa sì sfociare nel perverso meccanismo di una “fabbrica della cultura” massificata, ma possa anche deviare verso nuovi orizzonti emancipativi: “l’avvento dei media, infatti, comporta anche una accentuata mobilità e superficialità dell’esperienza, che contrasta con le tendenze alla generalizzazione del dominio, in quanto dà luogo a una specie di ‘indebolimento’ della nozione stessa di realtà, con il conseguente indebolimento anche di tutta la sua cogenza”. In questo senso, l’arte dell’età dei mass media, con il suo effetto decisamente urtante e spaesante, capace di gettare confusione e ambiguità anziché ordine e trasparenza, “può configurarsi (non: ancora, ma forse: finalmente) come creatività e libertà”. Con questa constatazione si chiude il capitolo: quello successivo, intitolato “Dall’utopia all’eterotopia”, si apre con la dichiarazione che il rapporto tra arte e vita si prospetta oggi non più come utopia (come era negli anni del ’68), ma come eterotopia. A proposito di utopia in senso estetico, Vattimo fa una ricca carrellata di pensatori in qualche modo utopisti, fra i quali troviamo Marx, Dewey, Lukàcs, Adorno, Marcuse, Bloch: molti di essi (si pensi a Lukàcs, a Marcuse e ad Adorno soprattutto) essi l’hanno intesa come un riscatto dell’individuo attraverso l’arte, come un riappropriamento dell’essenza dell’uomo. In questa sua accezione, pertanto, l’utopia dev’essere intesa come congiungimento del significato estetico con quello esistenziale, come – per usare le parole di Vattimo – “una unificazione complessiva di significato estetico e significato esistenziale”, dagli esiti tendenzialmente rivoluzionari, il che è stato vero fino al ’68. Dopo tale data, l’utopia ha subito una metamorfosi radicale che le ha fatto perdere le sue caratteristiche portanti: in particolare, con Habermas e il suo costante appellarsi a Kant, pare che si sia decisamente invertita rotta, poiché l’estetico e l’esistenziale sono tornati a correre su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai. Ed è in questo senso che “Habermas esprime […] la caduta dell’utopia e il ritorno a una tranquilla accettazione della separazione dell’estetico”: il suo ritorno a Kant, poi, mette in luce una certa tendenza – non solo habermasiana – emersa dopo il ’68, una tendenza (dettata anche dal secco rifiuto del postmoderno da parte di Habermas) al distacco, alla sordità e alla cecità nei riguardi dei processi di massificazione in continuo sviluppo. L’atteggiamento di cui si fa portavoce il pensatore tedesco di ispirazione kantiana, ma che in realtà finisce per coinvolgere una nutrita schiera di pensatori, può essere definito come un volere a tutti i costi essere ciechi e sordi, un non volersi accorgere che “l’utopia estetica degli anni sessanta, in qualche modo, si sta […] realizzando, in forma distorta e trasformata, sotto i nostri occhi”. Certo, non si tratta più di un’utopia promotrice di rivoluzioni (quale invece era nel ’68), poiché pare essersi adagiata su una sorta di ordine che in passato non c’era, ma, piuttosto, di un qualcosa capace di “fare mondo” e di creare comunità. In tale prospettiva, l’interpretazione più calzante ed adeguata sarà allora quella formulata da Gadamer, che intende l’esperienza del bello come un riconoscersi in una comunità di fruitori dello stesso tipo di oggetti ‘belli’: essa, infatti, si inquadra perfettamente sullo sfondo della società di massa, nella sua esasperata ricerca dell’ “essere alla moda”, del vestire come gli altri, del trovare bello ciò che anche gli altri trovano tale, insomma: del bello come esperienza comunitaria. Sarà allora corretto affermare che, crollata l’idea di una storia come processo unitario, con essa è anche franata la possibilità di un’utopia come sistema unico in cui arte ed esistenza si intrecciano in maniera armonica: da questo cedimento, fioriscono una molteplicità di comunità, ciascuna delle quali riconosce un proprio bello, propri miti e propri modelli, tutti diversi – ma non perciò meno ‘veri’ – da quelli riconosciuti dalle altre. In ciò si realizza la continua oscillazione spaesante e babelica nella molteplicità, tipica dell’età postmoderna: non più il bello come esperienza totalizzante propria dell’intera umanità (come era per Kant), ma tante forme di bello promosse da altrettante comunità, poiché quello che chiamiamo ‘mondo’ è in realtà una indefinita serie di mondi e di culture, così come quella che siamo abituati a chiamare ‘storia’ altro non è se non l’insieme plurale di storie. “Il mondo non è uno, ma molti; ciò che chiamiamo il mondo è forse solo l’ambito ‘residuale’, e l’orizzonte regolativo (ma con quali problemi) in cui si articolano i mondi”: da ciò deriva che, più che di un’utopia, si dovrà parlare di un’eterotopia, ossia di un insieme di mondi eteroi, “altri” e differenti gli uni dagli altri, poiché “viviamo l’esperienza del bello come riconoscimento di modelli che fanno mondo e che fanno comunità solo nel momento in cui questi mondi e queste comunità si danno esplicitamente come molteplici”. Prova ne è la “mobilità” delle mode, il collezionismo di oggetti di mondi e di culture “altri”: ed è per questo che l’errore forse più grave che una comunità possa commettere è avanzare l’assurda pretesa di identificare la propria esperienza, i propri modelli di comunità con quelli dell’umanità intera, scivolando in tal modo nel dogmatismo del “pensiero forte”. Viceversa, secondo gli insegnamenti di Dilthey e di Heidegger, l’opera d’arte apre mondi diversi e possibili, che non sono solo “immaginari” ma che costituiscono l’essere stesso in quanto sono suoi accadimenti implicanti il passaggio dall’utopia all’eterotopia e, accanto a ciò e non senza connessioni, la liberazione dell’ornamento e l’alleggerimento dell’essere. Per “liberazione dell’ornamento” dobbiamo intendere la fine della pretesa dell’arte di essere verità, e, meglio, espressione di una verità metafisicamente intesa che trova spazio sensibile nei versi del poeta, nella tela del pittore o nella sinfonia del musicista: al contrario, l’arte e il bello – lungi dall’essere araldi della verità – sono ornamento, nel senso che aprono rimandi ad altri possibili mondi di vita che, nella fitta rete di collegamenti reciproci, compongono e costituiscono il cosiddetto “mondo reale”, cosicchè si dovrà definire “Kitsch” non ciò che manca di uno stile o di una sua coerenza, ma ciò che avanza la vana pretesa di essere – orazianamente – “monumentum aere perennius”. Ciò è in perfetta sintonia con quanto ci ha insegnato Heidegger, il quale ci ha messi in guardia smascherando ogni posizione che identificasse tout court – in maniera metafisica – l’essere con i singoli oggetti, facendo dell’essere non “ciò che è”, ma “ciò che accade”: in questo modo, è delegittimata ogni nostalgia per l’arte classica e i suoi canoni, l’essere si trova in una situazione di indebolimento e, di conseguenza, dà adito ad una miriade di esperienze estetiche diversificate. Il capitolo che chiude il saggio vattimiano è intitolato “I limiti della derealizzazione”, in apertura del quale il filosofo torinese constata come oramai stiamo vivendo una nuova fase, segnata da grandi innovazioni nel campo dei mass media tali da far appannare l’ottimismo mediatico, ossia l’atteggiamento sinceramente simpatizzante verso il mondo della comunicazione generalizzata: una prima forma di pessimismo, che ha decisamente fatto scricchiolare la fiducia nel mondo mediatico, è affiorato con la Scuola di Francoforte e con le sue apocalittiche concezioni dei mass media come strumenti di appiattimento della società e soggiogamento ad un potere. Ciò è anche dovuto al fatto che molti pensatori, ancora legati all’hegelismo (si pensi al marxismo di matrice hegeliana di cui sono imbevuti Marcuse e Adorno), intendono l’emancipazione derivante dalla Bildung come raggiungimento di un’autotrasparenza tale da far sì che il soggetto colga nitidamente, senza interferenze, l’oggetto: ora, i mass media, con il loro produrre un caos labirintico in cui è possibile districarsi, sembrano andare in direzione opposta e non possono che essere condannati da chi ancora si rifà ad Hegel. Così Adorno guardava con inquietudine alla propaganda nazista attraverso i mass media (soprattutto attraverso la radio), e il “Grande Fratello” di Orwell è l’estrema conseguenza di questo atteggiamento demolitore nei confronti dei media. Eppure – nota Vattimo – con l’avvento dell’elettronica si è avuto un rovescio della medaglia, poiché al modello unilaterale della radio e della TV degli anni dei totalitarismi, in cui esse erano strumenti meramente univoci, grazie ai quali i grandi dittatori entravano nelle case della gente, è andato sostituendosi un modello a rete, che ha smarrito ogni centro: così non più una sola radio o una sola TV, ma una molteplicità indefinita di radio e Tv anche locali, in grado di trasmettere un’infinità di diverse immagini del mondo. La stessa rete internet si configura come una ragnatela che ha sì i suoi gangli vitali, ma che è assolutamente priva di un centro risalendo al quale sia possibile governare il tutto. Sullo sfondo del clima pessimistico che aleggia in certi ambienti filosofici, si staglia all’orizzonte un nuovo ottimismo, poggiante sulla pluralità mediatica e provato dal recente trionfo dell’ermeneutica sulle altre branche della filosofia: l’ermeneutica è assurta a nuova koinh a nuovo linguaggio comune in territorio filosofico, e l’ermeneutica è sovrana solo laddove abbondano le interpretazioni, laddove non vi è una Verità data, una sorta di stella polare a cui fare costante riferimento; trionfa anzi l’opposizione a tutto ciò che si propone come ritorno all’uno, al singolo, a negazione del plurale ed è forse seguendo queste orme che Derrida punta tutto sulla decostruzione e sulla dispersione come abbandono di ogni privilegio del ‘proprio’. Ma Vattimo nota come l’ermeneutica, se davvero intende fare del dialogo non un puro e semplice strumento, ma l’obiettivo ultimo, deve portare fino in fondo la “deriva ‘derealizzante’ intravista da Nietzsche”, l’illuminazione del filosofo tedesco secondo cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Ma cosa significa, in definitiva, “derealizzazione”? Con tale termine Vattimo ci invita a prendere atto di come “il mondo sia un ‘gioco di interpretazioni’ e niente di più e, in virtù di ciò, come l’ermeneutica sia la forma filosofica più adeguata alla temperie culturale in cui ci muoviamo, una forma di filosofia la cui condicio sine qua non è appunto l’esistenza del mondo mediatico come fabbricatore di punti di vista sul mondo e di sue interpretazioni. La prospettiva venata di pessimismo – propria di Adorno e di parte della Scuola di Francoforte – è pertanto superata in favore di un nuovo, positivo atteggiamento che – sulla scia di Marcuse e, soprattutto, di Nietzsche vede la tecnologia come strumento di dominio non sull’uomo, ma dell’uomo: “oggi l’umanità deve innalzarsi al livello delle sue possibilità tecnologiche, immaginare un ideale di uomo che tenga conto e utilizzi fino in fondo queste possibilità”. La stessa tecnh – nota Vattimo – si spinge sempre più verso una deriva estetica, abbandonando la sua originaria terra di mera soddisfazione di bisogni e assolvendo una nuova, fondamentale mansione di marca estetica: la tecnica serve sempre più a produrre oggetti volti al soddisfacimento di piaceri e di miglioramento del benessere, dando un’impronta maggiormente estetizzante alla vita di ciascuno di noi. Non bisogna dunque piangere la derealizzazione come un lutto, ma, viceversa, vedere l’incredibile potenziale emancipativo in essa racchiuso.
“Ogni tipo di conoscenza e di esperienza della verità è ermeneutica. Tale generalizzazione, però, implica anche la generalizzazione del carattere linguistico a ogni esperienza e conoscenza. ” (“Le avventure della differenza”)
LE AVVENTURE DELLA DIFFERENZA
I saggi raccolti in questo volume hanno come filo conduttore il concetto di differenza. Il significato di tale nozione verrà esplicato in prossimità delle ultime battute del testo, come a conclusione di un lungo viaggio ove tutte le tappe precedenti acquisiscono senso in prossimità della meta. Ed è solo allora che le parole di Jaques Derrida, pronunciate durante un convegno del 1968 su La Différance “…che sembrò allora un vero e proprio manifesto del pensiero della differenza” , dice Vattimo, esprimono esplicitamente il concetto cardine che ha guidato sino alla fine il lavoro dell’autore. Vattimo esprime così la posizione di Derrida: ” per Derrida pensiero della differenza significa proprio, anzitutto, riconoscere che non c’è mai stata e non ci sarà mai una parola unica perché la differenza è prima di tutto. In principio era la traccia, potremmo dire riassumendo in una frase la posizione di Derrida. Traccia, dunque, e mai una presenza a cui la traccia si riporti; le differenze che strutturano il campo dell’esperienza umana hanno origine già da una differenza, che è insieme divergenza e differimento indefinito, nel quale si dà già sempre la traccia e mai alcun originale ” . La differenza intesa, quindi, come contrapposizione alla coincidenza; al coincidere di soggetto ed oggetto, di essere ed ente. Più semplicemente, lo scarto tra conoscenza ed effettivo essere. Le figure che dominano il cammino delle tre sezioni della raccolta sono Nietzsche ed Heidegger, qua e là brevemente affiancati da altri pensatori che ne delineano, attraverso il confronto delle teorie, la riflessione. Il sottotitolo (che recita Che cosa significa pensare dopo Nietzsche ed Heidegger ) preannuncia infatti un confronto quasi sinottico di due visioni, che si protrarrà per tutti i capitoli: la Metafisica “forte” e la Metafisica “debole”; la prima che poggia l’oggetto, l’ente, anche fisicamente inteso, sul piedistallo dell’Idea (termine che va al di là di ogni connotazione temporale o nominale), analizzandone con occhio scientifico ogni aspetto e traducendolo in categorie; la seconda, che le si oppone, rivendica il valore della differenza tra ente ed essenza. Della differenza, appunto. Nella prima sezione i due “protagonisti” vengono posti a confronto, sul campo dell’interpretazione della storia, con la concezione ermeneutica di Hans-Georg Gadamer: come si può leggere ed interpretare la storia? Lo scopo del capitolo è di fornire un parallelo tra due concezioni che rispecchino altrettanti approcci diversi (ed approdino ad altrettante diverse conclusioni) nell’interpretazione del reale in generale e del linguaggio in particolare. In primo luogo viene così chiarito il significato che Nietzsche attribuisce a malattia storica: ” Nietzsche parla di malattia storica anzitutto per sottolineare che l’eccesso di consapevolezza storiografica che egli vede come caratteristico del XIX secolo è anche, indiscutibilmente, incapacità di creare nuova storia “, dice Vattimo. Secondo Nietzsche durante il XIX secolo la storiografia tese ad appropriarsi degli strumenti della scienza e non fu più in grado da quel momento di lasciare che ne scaturisse la vita e che la vita creasse nuova storia. ” Il tipo di creatività e di produttività storica che Nietzsche tenta di descrivere è piuttosto caratterizzato da un equilibrio tra incoscienza e consapevolezza, tra puro rispondere alle esigenze della vita e riflessione obiettiva ” . Fu in grado Gadamer di restituire con l’ ontologia ermeneutica “libertà di espressione” alla storia? Tale concezione, il cui filone maestro, come ricorda Vattimo, ” parte da Heidegger, soprattutto lo Heidegger delle ultime opere, e trova sistemazione in ‘Verità e Metodo’ di Hans-Georg Gadamer (…) ” si basa sul circolo ermeneutico e cioè sulla tesi che afferma la reciproca appartenenza di soggetto ed oggetto dell’interpretazione ad un unico orizzonte (da qui la nota espressione “fusione di orizzonti”). L’ontologia ermeneutica rifiuta, come le parole di Nietzsche sopra riportate, una conoscenza storica di tipo oggettivo (inteso nella valenza datagli dalle scienze positive) allargando tale convinzione anche al pensiero metafisico che riduca l’ente ad oggetto. La teoria gadameriana ritiene che ” (…) ogni tipo di conoscenza e di esperienza della verità è ermeneutica. Tale generalizzazione, però, implica anche la generalizzazione del carattere linguistico a ogni esperienza e conoscenza ” . Ne scaturisce una conoscenza storica che, avendo come presupposto l’identità di essere e linguaggio, nel suo attuarsi incrementa l’essere stesso della storia nel momento in cui la interpreta. Ma tale “fusione di orizzonti” non riesce, secondo l’autore, a rispondere alle esigenze nietzscheane: ” questo modo di procedere, scoprendo la ‘vera’ e ‘già presente’ struttura della conoscenza storica, e poi di ogni esperienza e della stessa esistenza in quanto esistere nell’essere che è linguaggio, somiglia troppo a una nuova ‘teoria’ metafisica per corrispondere non solo alle esigenze fatte valere da Nietzsche, ma anche per corrispondere allo spirito della meditazione heideggeriana, alla quale più esplicitamente si ricollega “. Il metodo con cui verrà tracciato il percorso di questa raccolta di saggi è stata data, qui, in modo esemplificativo: i capitoli successivi ripercorreranno lo stesso andamento schematico e perseguiranno, sotto differenti strutture espositive, lo stesso obiettivo. Il concetto di differenza, trattato in ogni singolo saggio, riemerge di volta in volta con il medesimo taglio: così in “tramonto del soggetto e problema della testimonianza” il significato stesso del termine ‘testimonianza’ assume i connotati interpretativi appena trattati. La testimonianza, che per l’esistenzialismo, a partire da Kierkegaard, fu considerata come simbolo dell’ ” (…) irripetibile esistenza del singolo, il suo peculiare e individualissimo rapporto con la verità (…) “, per Nietzsche è tutt’altro: ” il sangue è il peggior testimone della verità “, come disse Zarathustra. La supremazia della coscienza individuale sul soggetto, che determina la prima concezione, viene negata da Nietszche e da lui sostituita da un insieme di strati diversi, pulsioni, passioni, che lottando fra loro determinano equilibri sempre provvisori. Un confronto, questo, che attirerà implicazioni di carattere psicoanalitico cui Vattimo accenna ma che in questa sede prenderebbero troppo spazio. ” La nozione di testimonianza ” conclude Vattimo ” e più in generale il significato dell’azione storica dell’uomo a cui essa è legata, può ritrovare un senso, dopo il tramonto del soggetto, solo nella misura in cui riesce a liberarsi da ogni residuo obiettivistico nella concezione dell’essere e, parallelamente, si rinuncia a pensare l’individuo borghese-cristiano come unico possibile soggetto della storia e centro di iniziativa “. Con Le avventure della differenza , saggio da cui proviene il titolo della raccolta, chiudiamo questa nostra sintesi. In questa sezione Vattimo vuole esprimere il senso che per Heidegger ha la nozione di differenza. ” Heidegger nel suo sforzo di pensare al differenza ontologica, è mosso dalla nostalgia di un rapporto con l’essere diverso da quello dell’oblio che caratterizza il pensiero metafisico (…) Il termine che Heidegger adopera più costantemente per indicare questo tipo di pensiero è An-denken. An- denken significa soprattutto ricordo, memoria, rimemorazione. An-denken è il pensiero che, in quanto ricorda la differenza, ricorda l’essere ” . Il soggetto, la persona è “gettata nel mondo” (servendoci di una tipica espressione heideggeriana) e quindi la finitezza del suo stato deve riverberarsi nel metodo con cui viene a costruirsi la speculazione ontologica: ” l’importanza che l’ermeneutica ha già in Sein und Zeit e che acquista sempre più nelle opere successive, indica con sufficiente chiarezza in che senso si sviluppi lo sforzo di Heidegger verso un pensiero che rammemori l’essere e la differenza: (…) è il pensiero rammemorante che può sostituirsi alla metafisica e alla sua pretesa di definire una volta per tutte le strutture dell’essere ” . Pensare l’essere ricordandolo, ma nel senso di avere sempre coscienza della sua lontananza. Per avvicinarsi all’essere è necessario assumere l’atteggiamento di chi prende le distanze per meglio osservare: di chi ascolta.
POESIA E ONTOLOGIA
1. Poesia e ontologia fu scritto nel 1967 e poi riedito nel 1985, in un clima culturale ben diverso da quello attuale e con obbiettivi polemici, quali il neo-marxismo e lo strutturalismo, che hanno ormai perso quasi totalmente la loro rilevanza. Benché la situazione – nota lo stesso Vattimo nella prefazione alla seconda edizione – dal punto di vista del dibattito dell’estetica, della critica e della poetica sia molto mutata, il libro non ha perso d’attualità nella sua tesi centrale: “la rivendicazione della portata ontologica dell’arte e della poesia”(p.5). Il libro non si limita, infatti, a proporre una teoria estetica, ma applica all’estetica una ben più ampia posizione teorica in merito a problemi capitali della filosofia, quali il senso della verità e dell’essere. Verità ed essere, e loro relative semantizzazioni, fanno da sfondo a tutto il discorso di Vattimo, rendendolo immune dallo scolorire delle mode e del tempo.
Occorre qui, in via preliminare, abbozzare la posizione di Vattimo su verità ed essere. La verità, nella tradizione metafisica, è stata sempre intesa come il rispecchiamento di un dato, l’adeguazione alla presenzialità dell’essere: da una parte l’essere nella sua già data, già completa presenza, e dall’altra il pensiero che tenta di rispecchiarlo, e che tuttavia in questo rispecchiamento non aggiunge nulla all’essere. Vattimo, raccogliendo suggestioni heideggeriane, nicciane e gadameriane, intende la verità come evento, come “l’aprirsi di orizzonti storici entro cui gli enti vengono all’essere”(p.123); e, come tale, essa deve accadere e “non è nulla al di fuori o al di sopra di tale accadere”(p.123). La verità è, in latri termini, la posizione di un mondo, di un orizzonte di significati entro cui si può dare vita, storia, cultura, sviluppo: le verità coincide, niccianamente, con le condizioni di affermazione della volontà di potenza, come dispiegamento di senso e di mondo. L’essere, anch’esso, avrà struttura eventuale, e non già presenziale: esso è il declinarsi delle sue incarnazioni, cioè delle epoche, dei mondi in cui, ad un tempo, si propone e si ritrae dando vita e alimento agli enti che popolano questi mondi; ma esso non è nulla al di fuori di questo suo declinarsi, esso non è il permanente al di sotto delle sue incarnazioni di mondo, poiché l’essere è sempre essere dell’ente, di ciò che entro un mondo viene ad essere. Chiariamo che il termine mondo non indica la totalità del dato, ma l’orizzonte, l’ordine di apertura di una prospettiva sotto la quale si raccolgono gli enti e i loro rinvii significativi. Entro un mondo gli enti hanno l’essere, e l’essere si dà, si mostra pur ritraendosi, sempre e solo nel mondo: l’essere può manifestarsi in altri mondi, ma mai al di fuori dell’accadere della mondità. E’ significativo, a questo proposito, che Vattimo giudichi il principio “nulla si crea e nulla si distrugge” come espressione della vecchia metafisica: l’essere infatti si stratifica e aumenta, nella misura in cui accade ad esso di mostrarsi in nuovi e diversi mondi, e questo suo contenuto che si mostra non era già altrove, in precedenza, ma si costituisce in assoluta novità.
Fatte queste precisazioni introduttive possiamo passare ad affrontare il corpo del testo. Il filo argomentativo del discorso di Vattimo si chiarisce se immaginiamo che esso risponda a quattro domande poste da altrettanti lettori: un filosofo, un artista, un critico e un comune fruitore d’arte. Il filosofo domanderà: in che senso la poesia ha che fare con l’ontologia? L’artista: che cos’è il fare artistico? Il critico: come devo leggere, inteprertare, spiegare un’opera d’arte? Il fruitore, infine: in che consiste la fruizione artistica? La risposta che sarà data al filosofo è quella decisiva e che deciderà della plausibilità delle risposte date agli altri. Per questa ragione ci pare conveniente rimandarla alla fine, benché essa sia operante sia all’inizio che alla fine. Per ora basti dire questo: la poesia è ontologia perché è aperta all’essere, perché il suo radicamento non è limitato alla coscienza dell’uomo ma a qualcosa che la trascende, l’essere appunto. Problema sarà definire i caratteri di questa apertura all’essere e dell’essere stesso.
2. Il fare artistico
Prima di determinare la posizione e il significato del fare artistico Vattimo analizza il fenomeno del proliferare delle poetiche nel 900: esse non sono precettistiche stilistiche, ma hanno piuttosto di mira proprio la determinazione di quel significato dell’arte che stiamo carcando; le poetiche del novecento, d’altronde, hanno uno spiccato carattere ontologico: considerano l’arte come il luogo in cui la verità è raggiunta o istituita; ed hanno anche un significato epistemologico: intendono determinare la condizione disciplinare e le pretese che l’arte può rivendicare entro lo spazio della cultura e, più ampiamente, della vita. Perché gli artisti sentono il bisogno, quasi al punto di soffocare il loro fare artistico, di munirsi di un apparato epistemologico che li protegga e li giustifichi? Una prima spiegazione potrebbe essere che l’artista, mutato il rapporto con il proprio pubblico nella società industriale e di massa, e avendo perso un contatto immediato con i committenti, tenta di recuperare una propria visibilità rivendicando il diritto alla sua esistenza; una seconda spiegazione potrebbe essere che l’artista, trovandosi di fronte all’impellenza, quasi ossessione, di produrre un‘opera originale, non veda altro mezzo che la fondazione di un linguaggio completamente nuovo che non si rifaccia a nessuna tradizione precedente, un linguaggio che per dirsi tale ha bisogno di un quadro teorico-epistemologico di natura, daccapo, giustificativa. Vattimo vuole andare al di là di queste spiegazioni che, a suo parere, non colgono l’aspetto decisivo e muove da una considerazione elementare: le opere d’arte contemporanea, per essere fruite, hanno bisogno di un cappello critico che le introduca e le spieghi: il linguaggio dell’arte necessita della mediazione del linguaggio-parola, non è più autosufficiente: le poetiche aprono proprio quell’ambito di comprensibilità che dischiude l’intelligibilità del linguaggio dell’opera d’arte e colma la sua insufficienza comunicativa. Sorge un’altra domanda: perché il linguaggio dell’arte deve essere supportato dal linguaggio-parola? La risposta a questa domanda ci porterebbe direttamente alla discussione sulla fruizione artistica; per quel che fin qui interessa occorre notare che l’artista, nel 900, è portato a farsi epistemologo di se stesso: il fare artistico sembra così legarsi alla giustificazione di se stesso.
Veniamo ora alla determinazione più diretta del fare artistico, il quale ha che fare con la novità, con il bello, con la verità e con l’essere. La trama concettuale in cui si iscrivono queste quattro parole è decisiva. Cominciamo dalla prima. In riferimento alla teoria della formatività del suo maestro Luigi Pareyson, Vattimo sostiene che l’opera d’arte è sì nuova, ma non è un fatto arbitrario: essa possiede infatti una legalità rigorosa. C’è, in altri termini, una legge che decide della struttura dell’opera e che la trascende: tale legge però non può precedere il farsi dell’opera, pena il venir meno la novità dell’opera. Ecco che fa la comparsa la categoria del formare, cioè un fare che nel suo farsi inventa la regola, la legge, del suo fare. La novità dell’opera è salvaguardata dal fatto che la legge è istituita dall’opera stessa; accanto a questa novità, che quindi ben lungi dall’arbitrarietà, sta la legalità dell’opera, carattere indispensabile per dare senso al giudizio estetico e alla categoria del bello.
L’opera sarà, infatti, giudicata proprio in riferimento alla legge che porta con sé: se è ciò che la sua legge impone che sia, essa sarà giudicata bella. La bellezza è quindi la riuscita, la conformità dell’opera alla legge.
I concetti di novità come istituzione di una nuova legge e di bellezza come riuscita, rinviano entrambi al radicamento ontologico dell’opera d’arte. L’opera d’arte, in quanto istituente una nuove legge, sarà atto fondativo di un mondo, sempre da intercedersi, non come totalità del dato, ma come orizzonte di senso entro cui gli enti sono ordinati ed hanno significato: ed è proprio la legge istituita a garantire la legalità del nuovo mondo. La novità dell’opera diventa così l’originarietà di un nuovo mondo, che non ha nulla alle sue spalle perché è a partire da esso che si costituiscono tutte le relazioni, a cominciare da quelle linguistiche tra segno e significato. Se la legge è la struttura di legalità del nuovo mondo, l’opera d’arte che è conforme alla legge, rappresenta il primo ente di questo mondo: la relazione di conformità e di bellezza non è di esaurimento, ma di avvio di una generazione di enti che prenderanno senso del mondo appena istituito.
Quanto alla relazione tra opera e verità, con Heidegger Vattimo propone che l’opera d’arte sia la messa in opera della verità, ma non nel senso che essa manifesti o rispecchi la verità: se così fosse continueremmo ad “assumere la verità come conformità ad un dato che può garantire la validità della conoscenza e delle manifestazioni della verità proprio in quanto è dato una volta per tutte, stabilito, sottratto all’eventualita”(p.123). La verità va pensata, invece, come evento: “è l’aprirsi degli orizzonti storici entro cui gli enti vengono all’essere”; essa non è nulla al di fuori del suo accadere come prospettiva di mondo. Per cui l’opera d’arte mette in opera la verità, in quanto è nel mondo da essa fondato che la verità si mostra: il rapporto tra opera e verità non è quindi estrinseco, perché la verità non è se non il suo accadere secondo prospettive di mondo aperte.
La verità potrebbe sembrare, in questa prospettiva, la semplice formalità legislativa e di mondo istituita dall’opera e la fedeltà ad essa: non bisogna però dimenticare il radicamento ontologico dell’opera d’arte, collocata, secondo una metafora heideggeriana, nel Riss(scissura) tra Welt(mondo) e Erde(terra). Il mondo è il sistema di orizzonte degli enti; la terra è “la riserva permenente di questi significati, la base ontologica del fatto che l’opera non si lascia esaurire da nessuna informazione”. (p.124). L’opera d’arte istituisce un mondo e, come tale, dà inizio alla storia delle sue inesauribili interpretazioni, delle sue abitazioni, secondo un senso che sarò chiarito tra poco: per rendere ragione di questa inesauribilità dobbiamo ammettendo che il mondo dell’opera si radichi nella terra, in uno sfondo ontologico che lo precede; ci si potrebbe a questo punto domandare: che cos’è questo sfondo ontologico, questa terra, se non quell’essere già dato, già posto, della vecchia tradizione metafisica? In realtà quello sfondo ontologico è “una riserva di significati”, la pura possibilità del loro essere esibiti in un mondo: in quello sfondo ontologico le cose non stanno, se non nella loro disposizionalità ad esser nel mondo, unico luogo in cui propriamente stanno. L’essere, conviene ribadirlo, non è la presenza posizionale del dato, visibile da diversi mondi-orizzonti, ma è solo i suoi mondi, orizzonti di illuminazione entro i quali gli enti ricevono l’essere; l’apertura di una nuova prospettiva di mondo, evento in cui consiste il fare artistico, non è un evento ontico, cioè di riprospettazione degli enti entro lo stesso mondo, ma è un evento dell’essere, segna una nuova epoca dell’essere.
3.La critica d’arte
La critica si è sempre mossa nella fedeltà alla categoria dell’Aufhebung, cioè della spiegazione-riduzione dell’opera d’arte a qualcosa che la preceda o la fondi: si può ridurre l’opera alla situazione storico-economico-sociale in cui si colloca, alla situazione psicologica dell’artista, oppure si può leggerla badando esclusivamente alle sue strutture stilistiche. In entrambi i casi, e per la critica che riduce l’opera a uno sfondo che la precede e per quella stilistica, l’opera è un punto di arrivo, una conclusione individuante di fatti economici, psicologici, storici o tecnico-linguistici. L’opera è così sistemata, demitizzata, razionalizzata, è ridotta ad un evento del passato: sia questo passato la situazione storica o l’orizzonto tecnico formale che l’opera si impegna ad esprimere al massimo grado.
Vattimo cerca invece un approccio all’oggetto, in questo caso all’opera d’arte, che non lo riduca ad un orizzonte più ampio, e così facendo, lo distrugga. E’ posto così il problema di un’ermeneutica che si metta a disposizione del suo oggetto, che lo lasci essere. Va ribaltato, secondo Vattimo e sulla scia di Heidegger, il rapporto tra opera e lettore di essa: il lettore deve stare dentro l’opera, deve provare ad abitarvi, e non viceversa l’opera abitare nella coscienza fruente del lettore. Proprio perché l’opera è istituente un mondo, in tale nuovo mondo il lettore deve provare a vivere. Esempi di questo vivere ed abitare del lettore e della critica nell’opera possiamo ritrovarli nell’atteggiamento della cultura occidentale nei confronti della Bibbia, tanto che “la storia dell’Occidente – scrive Vattimo – è la storia delle interpretazioni della Bibbia”(p110). E interpretare un’opera significa approfondire le direzioni di significato che il mondo che essa istituisce ci offre: essa crea il mondo, noi, suoi interpreti, dobbiamo viverlo, costruirlo, svilupparlo, prendercene cura, abitarlo appunto. L’opera, quindi, più che costituire un punto di arrivo, è un punto di partenza per nuove costruzioni-abitazioni: è rivolta al futuro nei suoi sviluppi, e segna, in quanto atto istitutivo di mondo, l’escaton, l’orizzonte confinale, di questi sviluppi. Solo tenendo conto di questo una ermeneutica non riduzionistica può lasciar essere l’opera.
A questo punto Vattimo si trova a dover affrontare una delicata difficoltà: come può l’opera essere intesa quale fondazione di un mondo e come si può pretendere che il compito del critico sia dar voce alla necessità del suo abitarlo? Non è questo statuto dell’opera una mitizzazione dell’opera? Certo, non tutte quelle che consideriamo opere d’arte posso essere aperture di nuovi mondi, ma ciò non toglie che la peculiarità dell’opera d’arte sia proprio questo istituire nuovi mondi: come a dire che l’istituire nuovi mondi è un carattere regolativo di ogni opera d’arte, anche se non tutte riescono a realizzarlo.
4.La fruzione artistica
Nella storia dell’estetica l’incontro con l’opera d’arte è definito in due modi: contenutistico o formalistico. Tale opzione sottende altrettanti modi di intendere la verità: quello corrispondentista del vero come conformità al dato, e quello coerentista del vero come correttezza sintattica. L’arte, nella tesi contenutistica, manifesterà il vero e l’incontro con l’opera sarà proprio questa manifestazione;nella tesi formalistica, l’opera si imporrà nella sua coerenza di struttura sintattica. In entrambi casi si pongono alcuni problemi problemi: per la tesi contenutistica l’opera è un tramite di verità e, concluso il suo compito di metterci in contatto con la verità, diviene inessenziale, laddove l’arte, per evidenza, si impone sempre come sporgente su quella verità che comunica; per la tesi formalistica la fruizione si risolverebbe nella comprensione dei meccanismi sintattico-formali che sottendono al dispiegarsi dell’opera: eppure, anche qui, la comprensione dei meccanicismi non fa cessare il nostro interesse per l’opera, il che sta ad indicare che essa non è solo i suoi meccanismi. Si deve quindi evitare, da un lato, di rendere estrinseco il rapporto opera e verità e, dall’altro, di ridurre l’opera alla pura fedeltà formale a se stessa.
Se la concezione di verità non è più quella di rispecchiamento, ma di accadimento di mondi, secondo quanto sopra detto, l’opera d’arte, proprio in quanto apertura di un nuovo mondo, intrattiene con la verità un rapporto non estrinseco: solo nel mondo dell’opera la verità si mostra ed è possibile, e non fuori ed indipendentemente da esso. D’altra parte la verità dell’opera non può essere la fedeltà alla struttura legalistica del mondo istituito: il legame con l’essere, con la terra, non deve essere dimenticato; l’opera d’arte è il punto di partenza per infinite interpretazioni, per infinite visioni del suo mondo perché è in contatto con la riserva di possibilità significative in cui l’essere, nella sua forza originante, consiste.
Fruire un’opera d’arte significherà, quindi, vivere nella sua luce, “riorganizzare la propria esistenza e la propria visione del mondo in base all’apertura dell’essere che nell’opera è accaduta”(p.127); in una parola: dialogare con essa. L’opera stimola e suggerisce percorsi di approfondimento del suo mondo e diventa così una entità dotata di personalità e di capacità di mondo, mostrando singolari parallelismo con il dasein.
E’ così anche chiarita la domanda lasciata in sospeso sul perché le opere hanno bisogno di un linguaggio-parola che fondi il loro linguaggio: ne hanno bisogno non in quanto quest’ultimo vada ricondotto ad un altro linguaggio, ma in quanto istituiscono un nuovo mondo, un nuovo plesso di significati e suscitano attorno a sé un dibattito. Il proliferare delle poetiche nel 900’ è il segno di questo dibattito e della implicita consapevolezza del carattere fondante di mondi dell’opera d’arte.
5.Poesia e ontologia
Siamo così finalmente giunti al capo di tutte le questioni: che cosa hanno che fare poesia e ontologia? Per porre ontologicamente il problema dell’arte e della poesia, sostiene Vattimo, bisogna “sviluppare un discorso che non dimentichi quella che Heidegger ha chiamato la differenza ontologica, ma anzi assuma tale differenza a proprio tema centrale” (p.9). Differenza ontologica è il rapporto che separa l’essere e gli enti: Vattimo individua due caratteri di tale differenza, l’uno negativo e l’altro positivo, sintetizzabili così: l’essere non è l’ente e l’essere è solo l’essere dell’ente.
L’essere non è l’ente, perché fornendo l’orizzonte entro cui gli enti vengono ad essere, si dà e si cela ad un tempo: è questa l’epocalità dell’essere, il suo sospendersi per lasciar essere gli enti. L’essere, ciò per cui gli enti sono, non va mai confuso con gli enti stessi, la loro somma o il massimo ente tra di essi. Tale carattere negativo del rapporto essere-ente fa sì che qualsiasi indagine determinata sulla struttura degli enti non possa dire nulla dell’essere. Ma esiste anche un lato positivo del rapporto: il celarsi o sospendersi dell’essere “non è certo concepibile come un essere-presente in qualche luogo che non sia il mondo dell’ente, come se davvero l’essere fosse qualcosa o qualcuno che c’è, in qualche luogo, ma che si nasconde”(p.21); possiamo quindi affermare che l’essere è la sua epochè, è “l’illuminazione dell’ambito entro cui gli enti appaiono”(p.23): la forza illuminante dell’essere è solo nel mondo degli enti, l’essere è solo essere dell’ente.
Dall’accentuazione dell’aspetto positivo della differenza ontologica possono venire, secondo Vattimo, numerose indicazioni per caratterizzare una estetica come ontologica. Se l’essere non è “una struttura tutta realizzata, facente da supporto, da sostanza, agli enti”(p.22), la ricerca filosofica dell’essere consisterà nell’individuazione “dei modi di accadere attualmente degli enti nell’orizzonte dell’essere”. E analogamente la ricerca estetica consisterà nel descrivere i modi di accadere attuali del fenomeno estetico. L’estetica ontologica non sarà quindi una posizione che si sostituisce a quelle delle estetiche della tradizione filosofica, e neppure che tenta, hegelianamente, di dialettizzarle nel tutto dello sviluppo storico. Non si tratta di accedere all’essenza del fenomeno artistico ed estetico al di là dei suoi modi concreti di accadere e neppure di cogliere olisticamente la totalità di questi modi di accadere. L’essenza che l’estetica di Vattimo cerca ha carattere eventuale, nel senso di una perenne rideterminazione della sua struttura: è sufficiente descrivere tutto ciò che ha che fare con l’arte, teorizzazioni estetiche, ma anche poetiche, manifesti, singole riflessioni su singole opere, come rappresentativo dell’essenza dell’arte, nella consapevolezza che essa non è nulla al di fuori delle sue incarnazioni accadute. In questo senso si può fare estetica non solo in sede di riflessione filosofica, ma anche in altri ambiti, poiché tutti illuminano l’essenza dell’arte: pretendere che l’estetica sia solo filosofica è pretendere che l’essere e il sapere abbiano una struttura gerarchizzata, definitiva, sistematica; l’essere è invece stratificazione di esperienze e di modi, tra i quali sta anche,,ma tra gli altri, la riflessione filosofica estetica.
Fin qui si è fatta valere l’esigenza di considerare l’arte come evento la cui a essenza non è restituita da una singola posizione, ma da ogni posizione, filosofica e non. Questa esigenza deve però accompagnarsi alla consapevolezza dell’apertura all’essere di ogni riflessione estetica: si tratta di mostrare che a tutti i livelli della descrizione l’essere si fa presente, e questo è il carattere eventuale ed epocale dell’essere.
6.
Non possiamo trattenerci, in sede critica e conclusiva, dal sottoporre alcune perplessità in merito alle tesi del libro. La prima riguarda il rapporto tra poetiche e opere d’arte: il proliferare delle poetiche nel 900, si è detto, è il segno del dibattito, del dialogo che sorge intorno all’opera, proprio in quanto istitutiva di un nuovo mondo; a noi sembra, invece, che il fenomeno delle poetiche fondi e disponga le circostanze nel contesto del “vecchio mondo” per creare il nuovo mondo che l’opera inaugurerà: il fenomeno delle poetiche non sarebbe tanto un modo dell’abitare e del dialogare con l’opera, ma ciò che rende possibile, oltre il mondo dell’opera, la fondazione del suo mondo. Se così è, il linguaggio-parola assume un carattere super-eventuale, sottratto alla relatività dell’ambito di mondo e diventa ciò che domina la pluralità dei mondi e li mette in comunicazione: una conclusione simile che assegna al linguaggio un valore trascendentale e meta-mondano, peraltro, non dispiacerebbe allo stesso Vattimo; si tratta di capire in che termini, però, giacché se l’essere-liguaggio è dimensione trascendentale, dovrà essere semantizzato in termini di struttura permanente, immutabile, il che è ben lontano dagli intenti di Vattimo. La seconda perplessità riguarda l’apparente contraddizione tra la risposta data al filosofo e quelle date all’artista, al critico e al fruitore: al primo si risponde che ogni fenomeno o posizione artistica è rivelativa dell’essenza cercata, in quanto eventuale e non permanente; ai secondi si risponde determinando l’essenza permanente dell’opera d’arte e del rapporto con essa: dobbiamo forse ritenere che le risposte date ad artisti, critici e fruitori, proprio in quanto date a non-filosofi, si siano limitate a determinare provvisoriamente l’essenza permanente del fenomeno, salvo poi precisare, filosoficamente, che una essenza tradizionalmente intesa non può esserci? Questo significherebbe, allora, che solo al filosofo può essere consegnata una essenza nel suo carattere autentico, cioè eventuale, mentre con i non-filosofi si deve procedere nel modo tradizionale di determinazione dell’essenza: ma questo non significa una gerarchizzazione del sapere, un imperialismo della filosofia come sapere universalmente fondante, tutti caratteri che si volevano eliminare?
La terza perplessità è stata già formulata in termini di mitologizzazione dell’opera d’arte. Vattimo, per rispondere a questa obiezione, sostiene che poche opere d’arte possono essere considerate come fondatrici di mondo, e tra queste ritroviamo, ad esempio, la Bibbia o la Commedia di Dante. Ma nemmeno queste possono essere considerate fondatrici di mondo: se proviamo ad abitare il mondo della Commedia ci rendiamo subito conto di essere circondati da un tessuto simbolico che non possiamo capire, vivere, utilizzare, se non in riferimento a qualcosa di esterno al mondo dell’opera, cioè il contesto storico. Vattimo ci taccerebbe di sociologismo spicciolo, ma si tratta allora di capire in che termini un’opera è abitabile e se essa può costituirsi anche come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario a qualsiasi tentativo di ermeneutica: non è un fatto secondario che un’opera sia più abitabile in un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare che il mondo di ogni opera sia inscritto sempre in un mondo più ampio secondo una geometria concentrica di mondi. Tuttavia, la definizione dell’opera come fondazione di mondo ci sembra calzante, in via del tutto eccezionale, a proposito di opere collettive, vere “enciclopedie tribali”, come i poemi omerici o la Bibbia: in questo caso l’opera rappresenta la genesi culturale di una civiltà e di un popolo, la struttura del suo ethos.
L’ultima perplessità riguarda la semantizzazione dell’essere che Vattimo propone. Per un verso sembra che l’essere sia solo il suo eventualizzarsi, ma per l’altro l’essere è identificato con quella riserva di significati, con la forza originante della terra. Se nel primo caso è fatta valere l’esigenza di distaccarsi dalla tradizione metafisica che intende l’essere come presenza data, nel secondo caso sembra che non ci si possa staccare da questa prospettiva presenziale, tanto che per rendere ragione del divenire delle interpretazioni entro il mondo, si deve postulare una possibilità permenante di significati oltre l’accadere dell’evento e del mondo: certo questo “oltre” non ha i caratteri della attualità presenziale, ma quelli della possibilità presenziale, il che non toglie che sia necessario ammettere un già-dato,un già-posto, pur nella sua accezione di posizione di possibilità.
Marcello Di Bello
OLTRE L’INTERPRETAZIONE
Oltre l’interpretazione uscì nel 1994, a seguito di una serie di conferenze organizzate dalla fondazione Sigma-Tau: quell’iniziativa fu per Vattimo l’occasione per fare il punto sul significato dell’ermeneutica e precisare, oltre gli equivoci e le cattive interpretazioni, il senso della sua proposta teorica di pensiero debole che, come egli stesso nota nella prefazione, è stata intesa in senso troppo ristretto e letterale, in termini di mero ‘debolismo’ relativistico. Ed in questo clima di generico relativismo l’ermeneutica ha assunto lo statuto di koinè filosofica: fatto, purtroppo, tutt’altro che positivo; scrive al proposito lo stesso Vattimo: “una tale pervasività dell’ermeneutica mi sembra essersi realizzata a prezzo di una diluizione del suo originario significato filosofico”(p.4); di conseguenza, difficilmente essa avrà delle conseguenze o enuncerà tesi filoficamente rilevanti. Nella sua forma di koinè, insomma, l’ermeneutica incarna un sentire comune al limite della banalità. Riscattarla da questa mala condizione è uno degli scopi per cui è nato il libro. In altri termini, si tratterà di mostrare che il pensiero debole, propriamente, non è così debole come si vorrebbe, tanto da saper resistere alle facili tagliole scolastiche bofonchianti “se tu dici che tutto è relativo, anche questa tua frase è relativa, quindi…”. Ma com’è, allora, questo pensiero-debole-che-non-è-debole? Vattimo lo precisa in due momenti: uno programmatico e uno applicativo. Al primo sono dedicati un breve saggio in appendice e il primo capitolo che si occupano, rispettivamente, di determinare la concezione di verità dell’ermeneutica e il significato di essa; al secondo i capitoli centrali del libro che applicano il programma generale a diversi ambiti disciplinari, quali la scienza, l’etica, la religione e l’arte.
1. La verità dell’ermeneutica
Iniziamo con il primo tema, quello della verità dell’ermeneutica che si pone in termini particolarmente gravosi poiché, una volta rifiutato – come l’ermeneutica deve fare se vuole dirsi minimamente tale – il paradigma corrispondentista, sembra difficile proteggersi dalla barbarie dello scetticismo, la quale conduce direttamente all’abdicazione del pensiero. Per rispondere al problema Vattimo non oppone al corrispondentismo il coerentismo, per la semplice ragione che il secondo porta dritto al convenzionalismo e, di qui, allo scetticismo, col il che saremmo punto e daccapo: la strada da percorrere è ben più lunga e ardua.
Rifacendosi a Heidegger, Vattimo intende la verità in termini di apertura di orizzonti di senso, entro i quali sono stabiliti i criteri di verificazione e rese possibili le forme di verità come corrispondenza, il che già fin d’ora spazza via la pretesa supremazia di quest’ultima. D’altra parte, se non ho criteri per verificare come faccio a sapere che la mia conoscenza corrisponde alla realtà? La verità come corrispondenza, insomma, appare indissolubilmente legata e dipendente rispetto ad un orizzonte di verità, per così dire, alla seconda potenza che la ospita e la rende possibile. Questo superiore orizzonte va, secondo una nota metafora, abitato, al fine di far propri i criteri di verità, così da far accadere la verità-corrispondenza. Abitare, però, non è un semplice subire, adeguarsi ai criteri che l’orizzonte impone: se così fosse l’adeguazionismo, buttato fuori dalla porta, rientrerebbe dalla finestra, e non ci si adeguerebbe più ad una presunta realtà delle cose in sé, ma ad una struttura di senso in cui si è gettati.
Due sono, quindi, gli atteggiamenti da evitare: il primo è quello che parla di una verità come apprensione adeguata del dato, il secondo è quello che santifica e idolatrizza il contesto della nostra apprensione. Entrambi ricorrono, quale criterio epistemologico di legittimità, all’esperienza dell’evidenza: l’uno la localizza nella sensazione soggettiva di certezza, l’altro nel senso di pienezza e soddisfazione raggiunti, ad esempio, nell’adeguazione ad una comunità secondo la ‘bella eticità’ hegeliana, nella quale l’orizzonte è assunto come fatto bruto, come nuovo Grund della tradizione metafisica, che fa tacere ogni domanda e ogni dialogo con l’incontrovertibilità della sua presenza.
L’autentico abitare “implica piuttosto un’appartenenza interpretativa, che comporta sia il consenso sia la possibilità di articolazione critica”(p.104). Vattimo fa uso, a questo proposito, di una metafora: ” la verità dell’abitare è la competenza del bibliotecario, che non possiede interamente, in un puntuale atto di comprensione trasparente, la totalità dei contenuti dei libri tra i quali vive, e nemmeno i principi primi da cui tali contenuti dipendono;[…]la competenza biblioteconomica […]sa dove cercare perché conosce le collocazioni dei volumi e ha, anche, una certa idea del catalogo a soggetto”.
Ma, in sostanza, i confini e i luoghi di questo abitare, che dev’essere critica, dialogo, continuo domandare e consenso consapevole, come vanno pensati? Si deve guardare non ad “uno spazio naturale pensato in fondo come spazio astratto, geometrico, ma a un paesaggio segnato da una tradizione” (p.113). Il volto di questa tradizione sarà la storia: non una storia hegeliana, strutturata, compiuta, bensì “una rete di riferimenti mai conclusa, una rete che è costituita da molteplici voci della Uber-lieferung, del tra-mandamento”(p.133). Dunque, storia come tra-mandamento, ma senza degenerare nel “confusivo sovrapporsi di prospettive”: la molteplicità non è dissoluta e astratta, ma assurge alla dignità del Ge-shick, secondo struttura ereditaria, rammemorante. Il Ge-schick – precisa Vattimo – “conserva così qualcosa del Grund metafisico, e della sua capacità di legittimazione; ma solo nella forma paradossale, nichilistica, della vocazione al dileguamento”(p116). Destino, allora, come sfondamento-sfocamento e dissoluzione dei caratteri forti, in una prospettiva “ben al di là della pura e semplice affermazione della pluralità dei paradigmi”(p.117).
La posizione di Vattimo potrebbe essere confusa con il relativismo se si dimenticasse la componente rammemorativo-storica; potrebbe essere, per altro verso, confusa con un hegelismo storicista, se si dimenticasse il carattere dileguante della storicità vattimiana, ove il dileguare, proprio come la debolezza, non va presa troppo alla lettera: tenere insieme hegelismo e relativismo potrebbe aiutare, seppur grossolanamente, a non confonderla o fraintenderla.
Dopo questo lungo giro argomentativo, viene spontaneo chiedersi, se davvero siamo salvi dallo scetticismo. Parrebbe di sì: infatti la prospettiva di Vattimo tiene insieme criticismo non dogmatico e universalità, in riferimento ai modi dell’abitare. E tale abitare è critico, perché l’evidenza e i criteri di adeguazione vengono riportati ad un orizzonte di fondazione e, ad un tempo, di sfocamento; in secondo luogo esso è universale, non perché accede all’astrattezza dell’essenza, del genere e della specie, ma alla struttura rammemorante del Ge-schik che permette di percorrere un’infinita rete di parentele, proprio come nelle ricerche etimologiche di Heidegger. Ed in più: criticità ed universalità sono salvaguardate senza ricorrere al paradigma adeguazionista della verità, poiché non si ha mai che fare con un dato definitivo a cui adeguarsi, ma solo con rinvii, trame di rapporti, sfociamenti e movimenti trasgressivi
E se questo discorso non fosse ancora sufficiente a convincere della possibilità di non-essere scettici senza affermare una verità stabile; per rispondere a chi ancora si ostini ad applicare la trappola dell’autoreferenzialità al pensiero di Vattimo si può dire che bisogna ” rifiutare la tranquilla identificazione delle strutture dell’essere con le strutture della nostra storica grammatica e del linguaggio effettivamente dato; dunque anche l’identificazione immediata dell’essere con ciò che è dicibile senza contraddizioni performative nell’ambito del linguaggio che ci troviamo a parlare”(p.97). Ulteriori perplessità forse si potranno chiarire se inserite nella prospettica globale del significato dell’ermeneutica che ora affronteremo.
2. Significato dell’ermeneutica
“Che ogni esperienza di verità – scrive Vattimo – sia esperienza di interpretazione è quasi una banalità nella cultura di oggi”(p.8). Nel pensiero novecentesco, infatti, la fenomenologia , l’esistenzialismo, il neokantismo e la filosofia analitica condividono “l’idea del legame o della identità di verità e interpretazione”(p.9). Il che comporta che ermeneutica non significa questo, o meglio non significa banalmente solo questo. E che cosa d’altro? L’ermeneutica non pretende di fornire “una descrizione finalmente vera della (permanente) struttura interpretativa dell’esistenza umana” (p.9), ma si limita ad essere una verità storica che si configura come “risposta ad un invio, a quello che Heidegger chiama Ge-Schick”(p.10). Bisogna escludere tre facili e contraddittorie versioni dell’ermeneutica, intesa come: “meta-teoria del gioco delle interpretazioni”(p.13), “scoperta del fatto che ci sono diverse prospettive sul mondo, o su l’essere”(p.12), interpretazione tra le altre interpretazioni. Tutte queste tre versioni vanno respinte perché, rispettivamente, esse implicano: un fantomatico sguardo da nessun luogo, tipico dell’illusione metafisica; l’affermazione di un fatto di cui l’ermeneutica sarebbe il rispecchiamento, anch’esso tipica della metafisica e della sua versione corrispondentista della verità; il ridurre l’ermeneutica a mera scelta di gusto, di opzione tra le altre, escludendo ogni sua propositività argomentativa.
Se, quindi, l’ermeneutica non pretende di porsi come tesi vera, nel senso corrispondentista nel termine, non rinuncia però a motivarsi e farsi cogente sul piano dell’argomentazione filosofica. In che modo? “L’ermeneutica, se vuole essere coerente con il proprio rifiuto della metafisica, non può che presentarsi come l’interpretazione filosofica più persuasiva di una situazione, di un’epoca, e dunque, necessariamente, di una provenienza”(p.15). Detto altrimenti: se l’epoca in cui ci troviamo ha determinati caratteri, l’ermeneutica è quello sguardo globale che meglio rende ragione ed esplicazione di quest’epoca come proveniente dal passato. Il valore argomentativo della tesi ermeneutica sta, quindi, nella sua “capacità di dar luogo a un quadro coerente e condivisibile, in attesa che altri propongano un quadro alternativo più accettabile”(p.16). Fa capolino, qui, la parola “coerenza”, che fa pensare ad una concezione di verità di matrice coerentista: se così fosse il discorso di Vattimo vacillerebbe; ma, evidentemente, non può essere così: bisogna infatti compiere un passo ulteriore e condursi alla vocazione nichilistica dell’ermeneutica.
Nichilismo va inteso in senso nicciano, come la “svalutazione dei valori supremi e la fabulizzazione del mondo”(p.17); esito impersonato dalla morte di Dio. La storia del nichilismo sarà la storia dell’indebolimento della verità come evidenza perentoria e oggettiva, in contrasto con la categoria metafisica della presenza e dell’atto. Questa è d’altra parte proprio la storia dell’essere, “di un lungo addio, di un indebolimento indeterminabile dell’essere”(p.18). Questa storia è una interpretazione, e lo è pure il nichilismo: la risposta esplicativa migliore a questa storia è l’ermeneutica, e di qui viene la sua vocazione nichilistica. L’unico modo che abbiamo per parlare dell’essere è la sua storia nichilistica di declino e indebolimento: ma questo è possibile perché questa storia è narrata dalla filosofia dell’interpretazione e sarebbe inenarrabile da una metafisica della presenza e della corrispondenza tra fatto e proposizione che la descrive.
3. Scienza
Come corollario applicativo, e di ulteriore conferma, alla concezione programmatica Vattimo procede visitando alcuni luoghi disciplinari. Il primo di questi è la scienza.
L’ermeneutica ha sempre privilegiato le scienze dello spirito a scapito di quelle naturali: non a caso, per Heidegger, il luogo della verità autentica, cioè delle verità come apertura, può essere l’opera d’arte, la fondazione di uno stato o l’interrogazione del pensiero, ma mai l’indagine scientifica, che è semplicemente “l’elaborazione di un dominio di verità già aperto”. Di qui la famosa affermazione per cui “la scienza non pensa”: affermazione pronunciata da Heidegger ma condivisa da Gadamer e Ricoeur; la scienza non pensa perché in essa non accade la verità originaria. Ma – nota Vattimo – si potrebbe ipotizzare che i paradigmi kuhniani siano strutture assimilabili alle aperture di verità di Heidegger: accettato questo suggestivo parallelismo ne verrebbe che anche la scienza, nella sua fase straordinaria, cioè di transizione da un paradigma all’altro, si costituirebbe come apertura di un nuovo orizzonte-paradigma e quindi come accadere di autentica verità. Affermare che nella scienza la verità autentica non accade sarebbe come dire che la scienza è solo scienza normale, cioè di approfondimento di un singolo paradigma: ma, come ha finemente mostrato Kuhn, la scienza è non solo normale, è anche straordinaria.
Queste considerazioni possono condurre ad una rivalutazione delle scienze della natura come luoghi di verità: ma perché è necessario rivalutarle, al di là del rispetto disciplinare che si dovrebbe sempre tenere? La tesi di Vattimo consiste in questo: la vocazione nichilistica dell’ermeneutica, cioè il suo carattare più autentico, viene in chiaro proprio considerando gli ultimi risultati delle scienze naturali. Di conseguenza la dimenticanza della vocazione nichilistica è strettamente legata all’atteggiamento antiscientista dell’ermeneutica. La scienza, e con essa la tecnica, configurano un mondo “ricondotto a una sistema generale di cause ed effetti, a una immagine della quale il soggetto scientifico dispone tendenzialmente in modo totale”(p.33): ed un mondo ridotto ad immagine – come, del resto, suggerisce lo stesso saggio di Heidegger L’epoca dell’immagine del mondo – è tale perché agisce la trasformazione nichilistica del senso dell’essere, secondo il principio per cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni: se si dimenticano i risultati delle scienza si dimentica la storia dell’essere come storia nichilistica. E’ chiaro, allora, che “la critica che l’eremeneutica può e deve assumere nei confronti del mondo tecnico-scientifico è diretta a far sì che esso riconosca il proprio senso nichilistico e lo assuma come filo conduttore”(p.35), senza, come invece comunemente succede, volere porre limiti al trionfo della scienza e della tecnica in nome della cultura umanistica, ipotetica Lebenswelt che ci salverebbe dall’impero della ragione calcolante.
4. Etica
Ma se la scienza sembra confermare la necessità di un esito nichilistico dell’ermeneutica, una ontologia nichilistica, assunta in etica, sembra portare a conseguenza pericolose. Il pericolo, nota Vattimo, non sta nel nichilismo, ma anzi in ciò che gli si oppone, il pensiero forte.
Una possibile declinazione del nichilismo è quella per cui il mondo è conflitto di interpretazioni: se c’è conflitto viene naturale pensare ad una situazione di violenta barbarie. Ma il conflitto c’è, e con esso la barbarie, solo se le interpretazioni non si riconoscono come tali, se intendono le altre come inganni ed errori: questa situazione è tipica del pensiero forte, fermo nella convinzione della unicità della sua verità. Al nichilismo, quindi, la violenza sarebbe estranea. La violenza piuttosto sarebbe propria della tradizione metafisica forte: “le motivazioni originali – scrive Vattimo – delle rivoluzione heideggeriana contro la metafisica […]hanno un carattere essenzialmente etico piuttosto che teoretico,[…]rifiutano la metafisica – il pensiero dell’essere come presenza e oggettività – in quanto la vedono anzitutto come pensiero violento”(p.38). La critica heideggeriana al pensiero dell’essere come presenza-oggetto sarebbe mossa anzitutto da esigenze etiche: l’essere, allorché si dà come perentoria presenza, fondamento incontrovertibile di fronte a cui si deve tacere, diventa personificazione di una violenza metafisica. Occorre però fare una importante precisazione: “che davvero il pensiero del fondamento – scrive Vattimo – sia pensiero violento non è un dato oggettivo che a sua volta si possa provare in maniera incontrovertibile (contraddicendosi, dunque). E’ ciò che risulta dalla narrazione-interpretazione della storia della metafisica”(p.41).
L’esito nichilistico dell’ermeneutica avrebbe, quindi, tutt’altro che funzione di legittimazione della violenza: ma prima di affrontarne le implicanze etiche, Vattimo si sofferma su tre proposte etiche all’interno del pensiero ermeneutico. Un’etica ermeneutica dovrà, in linea generale, proporsi come “risposta del pensiero al rapporto uomo-essere”(p.42) secondo la situazione storica di riferimento, che attualmente si configura, per la scienza e la tecnica moderne, come epoca dell’immagine del mondo.
La prima teoria etica considerata va sotto il nome di etica della comunicazione; i due autori di riferimento sono Apel e Habermas. Soffermiamoci sul primo il cui discorso riassumiamo così: (i) non è possibile esperienza del mondo se non come uso del linguaggio;(ii)l’uso del linguaggio implica una responsabilità nei confronti dell’interlocutore: per tenere ferma l’esigenza comunicativa devono essere rispettate le regole del gioco linguistico;(iii)dato il nesso tra linguaggio e responsabilità, tramite il principio delle comunità illimitata della comunicazione, cioè il dovere di garantire la possibilità di una comunicazione illimitata, si possono ricavare le norma etiche fondamentali. A fondamento di questa teoria sta la considerazione dell’orizzonte linguistico come trascendentale e la necessità di definire una situazione di totale trasparenza comunicativa; entrambi questi elementi sembrano però estranei all’ermeneutica: il primo per la sua trascendentalità, il secondo perché l’ermeneutica sottolinea proprio l’impossibilità della trasparenza comunicativa. L’etica della comunicazione non sembra, quindi, genuinamente ermeneutica.
La seconda teoria è risultante da una lettura etica delle posizioni di Rorty, il quale sostiene, a differenza di Apel, che ciò che tiene viva la comunicazione è la differenza di paradigmi tra interlocutori: perché la comunicazione continui è necessario che gli interlocutori abbiano da offrirsi nuovi orizzonti e visioni. Applicando queste considerazioni all’etica ne viene che il dovere morale consisterà nell’inventare “nuove tavole di valori, nuovi stili di vita, nuovi sistemi di metafore per parlare del mondo e della propria esperienza”(p.45): “ciò che vale – conclude Vattimo – sembra identificarsi con il nuovo, l’inedito, la proposta geniale”(p.47). Assistiamo qui ad una ripresa della filosofia del genio creatore romantica e ad una esaltazione vitalistica della creazione di nuovi mondi: questi aspetti sono contrari all’ermeneutica se con essa intendiamo “la risposta a un appello che proviene della gettatezza storico-destinale in cui l’esserci è collocato”(p.47); detto altrimenti: non si tratta di creare arbitrariamente nuovi mondi, ma di ‘servire’ attivamente quello in cui siamo gettati. Anche questa tipologia etica, che Vattimo chiama ridescrittiva, si rivela estranea all’ermeneutica.
La terza proposta, di impronta gadameriana, sembra l’unica capace di tenere fermi i propri assunti ermeneutici. La proposta di Gadamer ha due concetti cardine: continuità e dialogo. “Il compito morale è per lui – scrive Vattimo – quello di realizzare qualcosa come l’eticità hegeliana, l’inserimento delle singole esperienze di ciascuno in una continuità di esistenza individuale, che non si regge se non sulla base di una appartenenza a una comunità storica”(.p48). Tra il singolo e la comunità si dà una mediazione interpretativa che non si conclude mai, in riferimento alla mobilitaà sia del singolo che della comunità nel quale è collocato.
E’ proprio a partire dalla tesi di Gadamer che Vattimo intende condurre la propria radicalizzazione nichilistica dell’etica. Bisogna sottolineare che l’ideale della continuità è esso stesso storico: “è qui ed oggi che l’etica si esprime come imperativo della continuità”(p.50). La storia che si deve continuare, a cui si deve cor-rispondere, è la storia del progressivo indebolimento delle strutture forti dell’essere. L’istanza della continuità, unita alla consapevolezza del destino nichilistico dell’essere, si tradurrà eticamente nell’atteggiamento per cui ci si riconosce eredi di una tradizione di indebolimento dell’essere. “Eredi – continua Vattimo – e perciò parenti, figli, fratelli, amici, di coloro dai quali ci provengono gli appelli a cui vogliamo cor-rispondere”(p.52). Di qui si svilupperà “un nuovo senso della responsabilità, come disponibilità e capacità, alla lettera, di rispondere agli altri da cui, in quanto non fondato sulla eterna struttura dell’essere, si sa proveniente”(p.53). Fa così capolino la parola carità che dice della fedeltà alla propria provenienza: ma non sarà questo, daccapo, un concetto metafisico – si chiede lo stesso Vattimo? Sembra invece di ritrovare una parola interna alla stessa tradizione nichilistica che bisogna essere capaci di riscoprire: ma per farlo è necessario far i conti con la tradizione religiosa dell’occidente, che si rivelerà essa stessa nichilistica. Se il nichlismo, poi, ci ha portati alla carità, sembra ormai ben chiaro che nichilismo e violenza non potranno essere posti in equazione, come comunemente si crede.
5. Religione
Il rapporto dell’ermeneutica con la religione sembra, a prima vista, segnato da un paradosso. L’ermeneutica è legata nei suoi inizi all’esegesi biblica e può trovare spazio con il diffondersi del principio luterano della “sola scriptura”; essa all’inizio “si sviluppa su un robusto sfondo razionalistici”(p.54), proprio perché dà luogo soprattutto a interpretazioni razionalistiche, nell’intendo di emancipazione dal dogma. D’altra parte, però, l’ermeneutica nella sua critica della verità come corrisponde colpisce le pretese razionalistiche del positivismo e fornisce così “una rinnovata plausibilità alla religione, o anche al mito”(p.57). Come spiegare che, da un verso, l’ermeneutica si lega al processo di razionalizzazione e secolarizzazione della religione e, per un altro, dà man forte alla religione come fonte conoscitiva, di contro allo scientismo positivista? Questo fatto, in realtà, non presenta contraddizione, se solo pensiamo che la religione in questione è il cristianesimo: secondo Vattimo il cristianesimo esige la sua secolarizzazione, in virtù dei suoi nessi con il nichilismo, il quale poi costituisce l’autentica vocazione dell’ermeneutica.
Per cogliere il nesso tra ontologia nichilista e cristianesimo bisogna soffermarsi sul concetto di kenosis: un Dio si abbassa, si fa uomo, si incarna, e si fa crocifiggere; questa è una narrazione possibile della storia dell’indebolimento dell’essere. Ma non basta: la stessa secolarizzazione è una deriva iscritta del destino della kenosis. Conclude Vattimo: “il nichilismo somiglia troppo alla kenosis perché si possa vedere in questa somiglianza solo una coincidenza, una associazione di idee”(p.65). La kenosis è, dunque, lo stesso indebolimento delle strutture forti dell’essere. E che non si tratti si sola coincidenza risulta dal fatto che la pluralità delle interpretazioni di cui parla l’ermeneutica risulta meglio comprensibile entro il destino del kenosis. Esiste una storia di un Dio incarnato, crocifisso, e di qui secolarizzato, che ha liberato la pluralità dei miti, e tale pluralità ha senso non come strutturale carattere dell’essere, ma come esito di una storia, a cui noi apparteniamo e cui siamo chiamati a cor-rispondere. E’ chiaro, allora, che l’ermeneutica è imprescindibile dal cristianesimo: “essa può essere quello che è – scrive Vattimo – solo in quanto erede del mito cristiano dell’incarnazione di Dio”(p.68).
6. Arte
Ultimo ambito applicativo da trattare è quello estetico. Tra il precedente, quello religioso, e questo corre un legame da non rescindere, tanto che “il significato dell’esperienza estetica, una volta che lo si voglia cogliere nella sua specificità, rimanda ad un ambito che non si lascia definire se non in riferimento all’esperienza religiosa e del mito”(p.82). Questa posizione si colloca in netta antitesi con quella dell’estetica moderna che, detto molto sommariamente, intende l’arte come gioco ed emancipazione dalla solennità veritativa della religione.
Nella vulgata dell’ermeneutica contemporanea l’arte è luogo privilegiato di verità: ma una simile posizione non può che portare ad esiti generici e innocui filosoficamente; si tratta “di assumere posizioni più esplicite e impegnative circa il rapporto che scopriamo tra opera d’arte e il vero che ricerchiamo filosoficamente”(p.77). Questo rapporto può essere reso fecondo se consideriamo l’arte come momento del processo di secolarizzazione, e quindi come esito implicito del cristianesimo. La verità, quindi, che risuonerebbe nell’opera d’arte non è tanto una versione filosofica in prosa di concetti espressi poeticamente, quanto piuttosto “il significato ontologico, per la storia del senso dell’essere, che si può cogliere nel destino dell’arte e della poesia nell’epoca della metafisica”. Significato, dovrebbe essere chiaro, che consiste nel nichilismo: arte e religione sono così entrambi momenti che narrano la storia dell’indebolimento delle strutture forti dell’essere.
Che cosa ne verrà per l’estetica quando essa diverrà consapevole del suo destino nichilistico? Di fronte alle trasformazioni della produzione artistica, essa non si limiterà ad invocare un perduto senso del bello, ma si farà più attenta agli aspetti e significati ontologici dell’arte di massa, che ad una considerazione estetica tradizionalistica sembra essere mera degenerazione del bello. La discriminante nel giudizio estetico, il criterio del bello, sarà deciso dalla “maggiore o minore fedeltà al filo conduttore del nichilismo (riduzione delle violenza, indebolimento delle identità forti e aggressive, accettazione dell’altro, fino alla carità)”(p.91). E tutto questo è un esito della secolarizzazione, la quale a sua volta lo è del cristianesimo: e secolarizzazione – precisa Vattimo – “consiste palesemente nel fatto che non più un unico orizzonte condiviso, e dunque che l’esperienza dell’arte come mitologia e religione razionale è essenzialmente un’esperienza plurale”. Tenendo conto di questa pluralità, come emerge dall’interpretazione nichilistica dell’arte, si può pensare diversamente la stessa esperienza religiosa, “in termini meno dogmatici e disciplinari, più estetici”. Ma, occorre precisarlo ulteriormente, questa pluralità, quale cifra comune dell’ermeneutica, non è affermata astrattamente da un meta-orizzonte speculativo, ma è il destino, la storia dell’essere, o meglio è l’interpretazione risultante, più plausibile e cogente, di un destino dell’essere che accade e in cui siamo gettati.
Marcello Di Bello
“Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non è la sola “lingua”, ma è appunto un dialetto fra altri. Se professo il mio sistema di valori – religiosi, estetici, politici, etnici – in questo mondo di culture plurali, avrò anche un’acuta coscienza della storicità, contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mio“. (“La società trasparente”).
DOPO LA CRISTIANITA’
Attraverso la morte di Dio e la secolarizzazione del sacro si è aperto lo spazio per una nuova vitalità della religione, prospettiva che Vattimo affronta in una serie di saggi, nonché nelle Lezioni newyorkesi, ciclo di conferenze sulla religione nell’epoca post-moderna tenute dall’Autore all’Università di New York. L’introduzione, che ripropone il titolo di un precedente lavoro dell’Autore (Credere di credere, Garzanti, Milano 1996), presenta la forma che il cristianesimo assume nell’epoca del post-moderno nei termini di un “credere di credere”, laddove il primo “credere” ha il significato di “opinare”, “pensare con un certo margine di incertezza”, mentre il secondo termine sta per “convinzione”, “certezza di qualcosa”, aver fede nel senso forte del termine. E’ attraverso Nietzsche ed Heidegger e la loro critica al fondamento ultimo – il rifiuto della metafisica caratterizza gli inizi del XX secolo – che, paradossalmente, si approda a questo nuovo senso del cristianesimo. La società si ribella all'”organizzazione totale” impostale dalla razionalizzazione del lavoro e dalla tecnologia, mentre lo sviluppo delle scienze storiche e dell’antropologia culturale determinano la crisi dell’eurocentrismo e la maturazione di una coscienza pluralista, la quale non può essere ingabbiata all’interno di un unico e per di più antidemocratico criterio di verità. Nella coscienza della contingenza e della storicità del nostro essere, sul quale si incentra il messaggio di salvezza della Sacra Scrittura, il consenso può essere raggiunto solo attraverso il dialogo, indispensabile di fronte ad un annuncio della salvezza, affidato alla continua reinterpretazione della Chiesa. In Dio non si può credere più nel senso forte del termine: si tratta di un Dio del quale si è “sentito parlare”. Nella prima delle Lezioni newyorkesi (pp. 15-28) l’Autore approfondisce il tema nietzscheano della “morte di Dio”, nella convinzione che tale annuncio non significhi affatto la fine di ogni discorso sul religioso, ma abbia, al contrario, aperto la strada per una nuova vitalità religiosa vissuta all’interno di quella che l’Autore definisce la “Babele del pluralismo tardo moderno”. Quest’ultimo cancella la possibilità di distinguere il linguaggio metaforico dal linguaggio proprio, il quale nasce dall’ineguale distribuzione del potere sociale. A tale liberazione della metafora Vattimo collega il ritorno della religione. Nel passaggio dall’essere come struttura all’heideggeriano essere come evento l’Autore individua, in questa “vocazione all’indebolimento”, la condizione imprescindibile per la rinascita del sacro nel suo intimo spirito, proprio perché tale indebolimento – che si attua come secolarizzazione del sacro stesso – è paradossalmente il nerbo della storia della salvezza. Il legame tra l’indebolimento dell’essere e la secolarizzazione del sacro viene analizzato nella seconda delle Lezioni newyorkesi (pp. 29-43). La morte di Dio è per Vattimo effetto della “religiosità”: come Nietzsche egli è convinto che sono stati i fedeli stessi ad aver ucciso Dio. Tale concezione della secolarizzazione trova voce nella profezia di Gioacchino da Fiore e dei suoi discepoli spirituali quali Novalis, Schelling e Schleiermacher. Laddove la teologia contemporanea vede nella secolarizzazione, nella scomparsa di Dio dal mondo, la prova della totale alterità di Dio – che viene così a configurarsi come il vecchio Dio della metafisica – per l’abate calabrese Dio si è fatto uomo, rivelando la sua parentela con il finito e attuando la crisi e la dissoluzione della sua trascendenza. Non si è più di fronte al “Dio tappabuchi” di Bonhoffer che si staglia contro la finitezza dell’uomo, ma nell’ascolto della profezia di un’età in cui saremo amici di Dio. Con Gioacchino, per Vattimo, la Rivelazione non è qualcosa di definitivo e, dunque, di metafisico, ma la storia della salvezza è in corso. Ciò significa coinvolgere la storia del mondo, rispondendo così a quella esigenza ecumenica che caratterizza la pluralista epoca post-moderna. Come per Gioacchino anche per l’Autore la storia della salvezza passa attraverso la storia mondana, non, però, quella propugnata dall’egemonia storicista, madre dei regimi illiberali: il regno dello Spirito, per Gioacchino come per l’Autore, si realizza come “alleggerimento” e “poetizzazione” del reale, nei termini in cui Vattimo li analizza all’interno della terza lezione newyorkese (pp. 45-59). La storia del mondo va vissuta esteticamente perché essa ha perso i rigidi contorni metafisici. Questa “fruizione estetica dei significati” raccoglie il senso dell’interpretazione spirituale che l’abate calabrese applica alla Bibbia e che Vattimo estende al processo di indebolimento del senso del reale. L’Autore chiarisce ulteriormente la sua concezione della secolarizzazione nei termine di questa spiritualizzazione e, sulla scia di Weber, mostra la continuità tra storia sacra e storia profana: senza la carità non sarebbero spiegabili la democrazia, il ripudio della guerra, la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, l’ecumenismo stesso non può fare a meno di questo approccio interiore. Con la dissoluzione di ogni metafisica si fa avanti l’idea di una “produttività” ermeneutica (pp. 63-73), laddove ciò che si cerca non è più l’unica interpretazione valida, ma una “continuità di discorso” e un “ascolto della voce della comunità”: l’interpretazione, come la salvezza, hanno una storia. Questa idea di ontologia ermeneutica, che Vattimo interpreta come una ripresa del sogno di Gioacchino da Fiore, rimanda al secondo Heidegger, ma ancor più, e proprio attraverso quest’ultimo – per quanto fin qui analizzato – al messaggio biblico. Nonostante la venuta di Cristo sia fatto ermeneutico per eccellenza, egli dopo la sua resurrezione ha lasciato un compito ermeneutico infinito, il cui argine è solo l’amore inteso come possibilità di comunicare all’interno di una “comunità di interpreti”. Il secondo saggio (pp. 75-88), che compare nella seconda parte del testo, affronta il problema del rapporto tra cristianità ed “Occidente” nei termini in cui esso viene interpretato o come aut aut o come sive. La prima interpretazione viene ricondotta dall’Autore a due diverse teorie: quella dell’integralismo cattolico e quella dell’autonomia radicale della modernità rispetto alla tradizione cristiana. Nel primo caso, l'”Occidente”, sebbene in precedenza alleato contro la minaccia comunista, è stato rifiutato come sinonimo di consumismo, edonismo, pluralismo babelico. Nel secondo caso è Blumenberg a sostituire all’uomo tolemaico, la cui posizione si sosteneva sulla potenza del Creatore, l’uomo copernicano che ha perso ogni riferimento ad un centro ed è passato all’organizzazione del reale privo del sostegno di qualsiasi autorità. Il programma dell’integralismo cattolico si rivela reazionario ed inattuabile perché richiederebbe un’uscita dalla modernità per mezzo di una moralità precedente e ciò, nella sua impossibilità, spesso porta ad ignobili compromessi, come accaduto nelle recenti vicende della politica italiana. La tesi di Blumenberg ripone, invece, un’eccessiva fiducia nella creatività, nella libertà dell’uomo e nella sua possibilità di creare un nuovo assoluto e ciò sa molto di mito moderno. Contro queste due posizioni che separano irrimediabilmente mondo moderno e cristianità, Vattimo prospetta la concezione del sive: “Occidente” e cristianità si appartengono reciprocamente. E’ questa l’idea della circolarità ermeneutica in cui si trova collocata ogni esistenza: è l’ermeneutica a mostrare l’inadeguatezza dell’aut aut e a portare sulla löwitiana strada della secolarizzazione, la quale, anziché annullare, conserva gli elementi costitutivi tanto dell’Occidente quanto della modernità. Sulla scia di Weber e di Novalis, Vattimo evidenzia la continuità fra i due momenti: le vicende politiche della lotta contro il comunismo e la spinta verso l’Europa unita esigono il formarsi di una coscienza e di un’identità culturale che trova le sue radici nelle comuni origini cristiane. Lo stesso consumismo, inteso come voglia di nuovo, deriva per Vattimo, con Cambpell, dalla secolarizzazione dell’al di là religioso, in forme di mondi diversi, anche se non più ultraterreni. L'”Occidente” rappresenta oggi l’inveramento del cristianesimo. Nel saggio intitolato Morte o trasfigurazione della religione (pp. 89-97) Vattimo approfondisce il tema del ritorno della religione nell’epoca post-moderna, erroneamente considerata post-religiosa, affiancandolo a quella della crisi delle ragioni filosofiche dell’ateismo. La rinascita della religione nella cultura comune si verifica intorno a problemi legati all’ecologia, alla bioetica, rispetto ai quali il pensiero dogmatico della Chiesa sembra l’unico in grado di fornire criteri stabili. Significativo è anche il ruolo svolto dal pontefice nei confronti della caduta del comunismo dell’Est asiatico; per non parlare, poi, del bisogno d’identità che attraverso il recupero dei fondamenti religiosi sfocia spesso nei fondamentalismi e nel fanatismo. La filosofia, dal canto suo, vive, con il tramonto dei metaracconti delle filosofie sistematiche, la caduta delle ragioni forti per un ateismo filosofico. L’incontro fra queste due realtà avviene spesso per mezzo della cosiddetta “cultura di destra” dei paesi occidentali: si assiste al rifiuto dell’eredità culturale della modernità e all’alleanza con il fondamentalismo ed il comunitarismo. Ma è necessario, per Vattimo, assumere una posizione fortemente critica nei confronti di queste ideologie liberticide ed irrazionalistiche. In seguito alla crisi dell’eurocentrismo e dei metaracconti il rischio è, dunque, quello dell’intolleranza e dell’illibertà: se il cristianesimo vuole sottrarsi a tali esiti perversi della secolarizzazione è necessario che esso entri nella Babele del pluralismo post-moderno come portatore dell’idea di laicità. Vattimo affronta (pp. 99-108) il problema del rapporto tra religione e politica e tra religione e cultura. Nel primo caso egli evidenzia l’ingannevole pretesa del liberalismo di isolare il cristianesimo dalla vita politica relegandolo nell’ambito del privato – e se ciò in qualche modo è riuscito è proprio sulla base di una comune, sebbene non riconosciuta, appartenenza religiosa. Per quel che riguarda il rapporto tra religione e cultura, Vattimo evidenzia come, da elemento civilizzante e pacificante quale si presentava all’interno del colonialismo e dell’imperialismo, il cristianesimo viene oggi vissuto come uno dei termini in conflitto, con la minaccia costante di cadere nel fanatismo. L’unica alternativa possibile è quella di “viversi in uno spirito debole”, attraverso la carità, ritrovando la propria “vocazione laica” in modo da proporre spazi di libera discussione e di dialogo interreligioso ed interculturale. Laddove il cristianesimo resti legato alla tradizione metafisica – alleanza questa che nasce soprattutto a partire dalla responsabilità della Chiesa quale unico potere dopo la dissoluzione dell’Impero romano – esso si pone addirittura come violento (pp. 119-127). L’etica naturalistica, in quanto pretesa di possedere i principi primi rende necessario l’uso della forza – ciò corrisponde alle analisi di Girard sul sacro naturale come violenza – in difesa di queste stesse verità indubitabili, al punto che il giusnaturalismo diventa una forma di legittimazione dell'”uso ragionevole” della forza. L’Autore passa ad analizzare (pp. 109-118) il rapporto tra l’idea metafisica di verità – che deriva dalla linea classica del cristianesimo: “ego sum via, veritas, vita” – e la verità come interiorità – è il paradosso di Dostoevskij della scelta di Cristo anche contro la verità. Vattimo, attraverso Dilthey, dimostra come sia stato proprio il cristianesimo a sostituire al pensiero – che coglie oggettivamente l’essere, basti pensare a Platone – l’interiorità e la volontà, mettendo così in crisi il pensiero metafisico. Ed ecco che allora il cristianesimo viene riconosciuto come il principale fautore della crisi del fondamento, sulla cui scia si porranno Nietzsche ed Heidegger. Non più “amicus Plato sed magis amica veritas”, ma il ricorso all’amicizia e, dunque, al dialogo di fronte ad una verità che è diventata caritas e ad un essere che è Ereignis. Ed al rapporto tra la filosofia heideggeriana e cristianesimo è dedicato l’ultimo saggio (pp. 129-142), nel quale Vattimo individua all’interno dell’esperienza religiosa cristiana, vissuta come evento, il modello della temporalità autentica. La parusía, di cui Paolo parla, e vissuta con la tensione escatologica tra il “già” e il “non ancora” che spezzano la temporalità storicistica denunciata da Heidegger in quanto responsabile di ridurre eventi e cose al rango di oggetti – stessa accusa rivolta alla metafisica. L’esistenza del Dasein, come quella del cristiano paolino, sono caratterizzate dalla thlípsis per la mancanza di certezze oggettive ed, in ultima istanza, per la rinuncia al senso. L’os mé paolino e assai vicino alla deiezione di Heidegger al punto da poter ritenere che l’ontologia di quest’ultimo abbia le sue fonti proprio nel messaggio evangelico delle origini – ben distinto da quel pensiero rappresentativo che si è sviluppato con l’oblio dell’attesa escatologica e che Heidegger stesso definisce storia dell’Anticristo. A buon diritto l’Autore può, dunque, ipotizzare una forte connessione tra questo oblio dell’escatologia e l’oblio dell’essere, nel loro comune atteggiamento metafisico ed oggettivante. Attraverso un costante richiamo ad Heidegger e Nietzsche l’Autore delinea i tratti della religione post-moderna, la quale può essere vissuta solo nei termini di una fede senza dogmi, senza contenuti, senza senso, condizioni imprescindibili per aprirsi al nuovo senso ecumenico e pluralista che caratterizza la nostra epoca. Si tratta di accogliere l’autentico messaggio cristiano dell’incarnazione come kénosis, “umiliazione”, “indebolimento” di Dio. Il fatto, poi, che la filosofia sia arrivata a concepire l’essere come evento “è un segno che nella filosofia vive ancora l’eredità del messaggio ebraico cristiano”.
A cura di Blacensis
CREDERE DI CREDERE
Il breve libro di Gianni Vattimo intitolato Credere di credere[1] conserva tutti i motivi di interesse per i quali è stato scritto. L’opera si presenta non tanto e non solo come uno scritto di filosofia della religione o di teologia quanto e soprattutto come un testo autobiografico, in cui è anzitutto indispensabile l’uso della prima persona singolare – cosa che solleva il pudore dello stesso autore, avvezzo fino ad allora (se si escludono le discussioni, le polemiche, le lettere al direttore) allo stile impersonale e professionale dei saggi critici e filosofici[2] Infatti, nel libro il filosofo torinese si propone di ripercorrere il proprio itinerario di cristiano, nell’ambito peraltro di una solida cultura filosofica di chiara ascendenza nietzscheana e heideggeriana e di un pensiero – il così detto pensiero debole -, la cui elaborazione va attribuita principalmente allo stesso Vattimo e a Pier Aldo Rovatti e che costituisce una delle pochissime proposte originali della più recente filosofia italiana.
Parlando del proprio rinnovato interesse per la religione, Vattimo ci informa di essere stato in gioventù cattolico praticante, per poi allontanarsi dal cristianesimo soprattutto a causa dell’autoritarismo della Chiesa in fatto di morale sessuale negli anni ’60 del Novecento[3], in particolare verso l’omosessualità, a proposito della quale Vattimo non indugia a parlare anche per ciò che lo riguarda personalmente[4]. L’autore inoltre afferma che il suo ritorno al cristianesimo si situa in un contesto in cui la rinascita religiosa è segnata su due piani: epocalmente dallo scacco della ragione incapace di risolvere certi problemi per lei insormontabili, dal pontificato di Giovanni Paolo II e dalla fine del comunismo in Europa e della Democrazia cristiana in Italia[5], filosoficamente dalla crisi dell’illuminismo, del positivismo e dello storicismo[6].
Se non che, il modo con cui l’autore struttura il discorso sul ritorno (personale e collettivo) al cristianesimo non si limita a ripetere stancamente le consuete banalità massmediologiche sul ritorno di interesse alla sensibilità religiosa a causa della disillusione diffusa nei confronti della eccessiva razionalizzazione e tecnicizzazione della società attuale: non avendo dato risposta a tutte e soprattutto alla più intime necessità dell’animo umano, scienza e tecnica vengono messe in discussione e si ritorna così alla religiosità, a dire il vero non solo nelle sue forme tradizionali e istituzionali (quelle dettate dal verbo ecclesiastico e pontificale) ma anche in quelle alternative (o presunte tali): il discorso di Vattimo non è infatti condotto sui sentieri di una psicologia religiosa che spiega facilmente il ritorno alla religione per la stanchezza delle menti di fronte tanto allo strapotere della scienza e della tecnica quanto alle inadeguatezze della razionalità.
Invece, forte di un proprio pensiero – che Vattimo stesso ribattezza ontologia debole oltreché pensiero debole – l’autore inserisce la riscoperta religiosa e anzitutto la riscoperta del cristianesimo nell’ambito di un processo del pensiero che ha visto il tramonto della metafisica intesa come concezione filosofica imperniata intorno a un principio indiscutibile e inamovibile. Così, se in filosofia il tramonto della metafisica segna il venir meno della nozione di un essere assoluto e inalterabile, nella religione la secolarizzazione produce la desacralizzazione della divinità che implica la messa in crisi del volto autoritario di Dio – il Dio dell’Antico Testamento -. I due fenomeni sono correlati, secondo Vattimo. Infatti, il movimento per cui la storia della filosofia racconta il passaggio da un concetto forte dell’essere ad uno debole ha il proprio corrispettivo nella secolarizzazione tipica dell’età moderna e contemporanea. In entrambi i casi, si è assistito ad un indebolimento: ontologico in filosofia, teologico in religione.
Relativamente al campo religioso, l’indebolimento è d’altro canto inscritto nello stesso patrimonio genetico del cristianesimo, secondo il filosofo. Ed è proprio qui l’originalità dell’impianto concettuale del libro. Infatti, per l’autore la debolezza del cristianesimo in se stesso (ma anche in relazione all’ebraismo) consiste nella sua struttura essenzialmente kenotica. Kenosi – in greco kenosis, svuotamento – è termine teologico che indica la privazione della propria divinità che Cristo compie incarnandosi. Il concetto è stato proposto nella Lettera ai Filippesi, là dove Paolo dice di Gesù Cristo che “possedendo la natura divina, non pensò di valersi della sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini”[7]. La natura paolina dell’approccio di Vattimo al cristianesimo – il suo in fondo è un testo paolino – consente pertanto di riconoscere in Cristo il Dio che rinuncia alla propria onnipotenza e che accetta di ridurre intenzionalmente la propria forza sovrumana per farsi uomo, debole tra i deboli. Cristo si presenta – potremmo dire – come il Dio dal volto umano che guarda volutamente agli uomini non come servi ma come amici (citando Giovanni, Vattimo ricorda che Cristo parla ai discepoli non più come a dei servi ma a degli amici: “non vi chiamo più servi ma amici”[8]). E’ per questo che fin dal suo sorgere – geneticamente – il cristianesimo si è strutturalmente posto come una religione amichevole e intimamente umana. Amichevole e umana e, dunque, debole.
Su queste basi la riproposta vattimiana del cristianesimo prende consapevolmente le distanze dalla visione della religione naturale, nella quale Dio è visto “nelle potenze minacciose della natura, nei terremoti e negli uragani di cui abbiamo paura e da cui non sappiamo come difenderci, in una fase primitiva della civiltà, se non con credenze e pratiche magiche e superstiziose”[9].
Per rinforzare la propria tesi, Vattimo si appoggia all’antropologia filosofica di René Girard. Lo studioso francese è noto per aver esplicitato il meccanismo vittimario volto a superare i conflitti sociali derivanti dall’impulso imitativo, che spinge a impossessarsi delle cose altrui e, conseguentemente, alla guerra di tutti contro tutti (Hobbes docet). A questo punto, secondo Girard il ristabilimento della concordia sociale avviene scaricando la violenza contro una vittima designata – il capro espiatorio[10] -. Vattimo si avvale della tesi girardiana per evidenziare la natura violenta della religione naturale. Ma non si limita a ciò. Egli infatti concorda con Girard anche relativamente a un altro punto essenziale: la lettura vittimaria non può essere applicata a Gesù Cristo, è sbagliata: “Gesù non si incarna per fornire al Padre una vittima adeguata alla sua ira; ma viene al mondo proprio per svelare e perciò anche liquidare il nesso tra violenza e sacro”[11]. Gesù non è cioè venuto per essere la ‘vittima perfetta’[12], il cui sacrificio vale a soddisfare pienamente “il bisogno di giustizia di Dio per il peccato di Adamo”[13]. Non impersonando affatto il ruolo di vittima sacrificale, Cristo piuttosto si è incarnato per dissolvere il concetto della violenza del sacro[14].
Il netto rifiuto della religione naturale in quanto violenta va di pari passo alla critica che Vattimo muove alla teologia dialettica, il cui principale esponente è stato Novecento Karl Barth. Non condividendo l’atteggiamento di svalutazione verso il mondo proprio di tale indirizzo teologico, Vattimo ne rigetta anche il caposaldo della necessità del salto nella fede per accedere a Dio – il totalmente Altro rispetto all’uomo e al mondo -: per l’autore la teologia del salto è legata a “una concezione ancora metafisico-naturalistica di Dio”[15], è espressione di un cristianesimo apocalittico e tragico che, mentre individua esistenzialisticamente la precarietà della condizione umana, predica l’indispensabilità di darsi senza remore a un Dio assoluto, trascendente, imperscrutabile, lontanissimo, di cui gli uomini non sono meritevoli se non per grazia ricevuta. E’ questa, d’altro canto, una visione teologica che Vattimo vede “in profonda sintonia con gli aspetti più fondamentalisti del cattolicesimo dell’attuale pontefice”[16], Giovanni Paolo II.
Il cristianesimo amichevole a cui Vattimo aspira segna pertanto la propria differenza dalle versioni del sacro, nelle quali Dio è in ogni caso un essere superiore, autoritario, sovrastante. Il Dio a cui egli guarda è invece il Dio cristiano – kenotico e paolino -, il Dio paradossale e scandaloso che si fa uomo e con questo compie la suprema fra le rinunzie, quella alla propria divinità. Questo è il Dio amico – il Dio che non ti considera più suo servo, ma per l’appunto suo amico nell’ambito di un rapporto inter pares -. Credere nella salvezza la cui storia inizia proprio con Cristo significa allora non accettare alla lettera il Vangelo e i precetti dogmatici della Chiesa, “ma sforzarsi di capire, anzitutto, che senso hanno i testi evangelici per me, qui, adesso; in altre parole, leggere i segni dei tempi, senza alcuna riserva che non sia il comandamento dell’amore”[17].
Il cristianesimo vattimiano è amichevole, dunque, soprattutto perché non violento né dogmatico né proiettato nel totalmente Altro. E’ un cristianesimo consapevole del contesto storico, in ragione del quale la storia della salvezza non è compiuta una volta per tutte, ma esige di essere storicizzata e interpretata (“la salvezza passa attraverso l’interpretazione”[18]: i cristiani sono degli amici che costruiscono poco per volta la salvezza insieme a Cristo, affidando ai loro successori il compito di proseguire la storia salvifica). Antidogmatico e antiecclesiastico, il cristianesimo di Gianni Vattimo sostiene che ciascuno di noi ha una provenienza (“La storicità della mia esistenza è provenienza”[19]), ha cioè un’origine e uno sviluppo. Pertanto, orientare cristianamente la vita significa prima di tutto considerare la storicità dell’esistenza, il cui atteggiamento fondamentale deve essere ermeneutico, interpretativo. Non si dà una verità inconfutabile, ma diversi approcci interpretativi alla soggettività, al mondo, a Dio.
Attento ai segni dei tempi, il cristianesimo ritrovato di Vattimo non esita ad ammettere i suoi debiti nei confronti di uno degli esiti portanti della modernità (e della postmodernità): la secolarizzazione. Per questo, egli non si limita a presentare l’analogia tra l’indebolimento dell’essere e quello di Dio, ma addirittura sostiene che la secolarizzazione è la riscrittura del cristianesimo. Una tesi scandalosa per molti, ma non per chi, come Vattimo, si è formato alla scuola di Nietzsche e Heidegger e ne ha condiviso l’idea della dissoluzione dei valori forti della cultura occidentale. Se non che, alla lezione dei maestri Vattimo aggiunge la propria: riconoscendo l’avvenuta dissoluzione di una struttura forte capace di connettere pensiero ed essere – quella che induceva la scolastica a pensare la verità come adaequatio rei, corrispondenza oggettiva tra il pensiero e la realtà -, Vattimo pensa che l’ontologia debole non sia altro che “la trascrizione della dottrina cristiana della incarnazione del figlio di Dio”[20], pensabile “solo in termini di secolarizzazione”[21], ossia come indebolimento del sacro (e del sacro violento in particolar modo).
E’ qui il nesso tra la storia della rivelazione cristiana e la storia del nichilismo[22] (l’orientamento filosofico volto a indebolire e smontare le certezze metafisiche fino a renderle nulla, niente, nihil). Pertanto, “è ben possibile che la secolarizzazione […] sia […] un effetto positivo dell’insegnamento di Gesù e non un modo di allontanarsene”[23]. In altre parole, la secolarizzazione ha un suo senso positivo, in quanto la modernità laica si costituisce “anche e soprattutto come prosecuzione e interpretazione de-sacralizzante del messaggio biblico”[24]. Inoltre, la secolarizzazione non è solo un tratto distintivo dell’Occidente moderno ma anche un “fatto interno al cristianesimo”[25]. Una tesi, questa, che l’autore sostiene richiamandosi anche all’autorità di Max Weber e Norbert Elias[26]. Con ciò il pensatore torinese intende dire che l’opera di indebolimento che Cristo ha iniziato nei confronti del Padre (fino a sentirsene abbandonato sulla croce) è stata poi continuata dalla soggettività moderna che, separandosi dal Padre, ne ha secolarizzato il messaggio. Tutto ciò, secondo Vattimo, non ha però gli effetti negativi che la dogmatica ecclesiastica paventa. Anzi, la secolarizzazione ci restituisce il vero volto di Dio, quello che si mostra nella parola e nell’opera di Cristo. Se l’autoritarismo del Padre e della Chiesa sono con ciò stati revocati in dubbio, poco male. Anzi, bene. Una nuova concezione del cristianesimo può invece farsi avanti – un cristianesimo dell’amicizia -. Un cristianesimo rinnovantesi nell’interpretazione che se ne dà tanto nell’ambito individuale quanto in quello comunitario (la comunità dei fedeli è per Vattimo la vera Chiesa).
Dunque, quello di Vattimo si propone come un cristianesimo all’altezza dei tempi – i tempi della secolarizzazione dell’età postmetafisica, l’epoca in cui si è consumata per sempre l’idea di un pensiero metafisico che riconosce principi e strutture assolute a fondamento della realtà -. Un cristianesimo che deve affrontare e sapersi confrontare con la postmodernità. Un cristianesimo che pertanto accetta la logica desacralizzante della secolarizzazione, per quanto non integralmente. L’unico limite – la sola barriera – che Vattimo riconosce al processo secolarizzante è infatti la carità – l’intrinseca amorevolezza del cristianesimo -. Il “principio critico”[27] che infatti si oppone alla secolarizzazione è proprio l’atteggiamento caritatevole verso il prossimo, in quanto la kenosis non è pensabile come “indefinita negazione di Dio”[28]. Nella prospettiva paolina di Vattimo il principio della carità limita infatti “l’idea di secolarizzazione come deriva infinita”[29].
Il cristianesimo della carità tradisce qui, ancora una volta, la sua genesi paolina che induce Vattimo a sottoscrivere l’affermazione di Paolo sulla superiorità della carità sulle altre virtù teologali[30]. Perché – dice Paolo – “se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi una fede tale da trasportare le montagne, se non ho la carità, io sono un niente”[31]. La carità – aggiunge dal canto suo Vattimo – “è destinata a rimanere anche quando la fede e la speranza non saranno più necessarie, una volta realizzato completamente il regno di Dio”[32] (si osserva qui che in questi modo si conclude il libro, e cioè secondo l’insegnamento di Paolo, così come è iniziato: pertanto ribadire la natura paolina di Credere di credere non appare fuor di luogo).
Allo stesso tempo, il principio critico della carità consente di superare “l’impasse in cui si è sempre trovata la coscienza moderna posta di fronte alla rivelazione cristiana: l’impossibilità di aderire a una dottrina che appare troppo duramente in contrasto con le ‘conquiste’ della ragione illuminata, troppo impastata di miti che richiedono imperiosamente di essere smascherati”[33].
E’ questo il cristianesimo sottoscritto dall’autore: il cristianesimo kenotico in cui Cristo è lo “smascheratore”[34] dei miti che non reggono alla prova della ragione. Per tale via, infatti, Cristo inaugura lo smascheramento che “è il significato stesso della storia della salvezza”[35].
Si spiega così, d’altro canto, anche il senso del titolo del libro: Credere di credere è infatti l’atteggiamento di chi crede nonostante l’adesione alla modernità che lo spingerebbe a non credere. Chi crede di credere è dunque disposto all’ascolto e al dialogo, non ha modi da fanatico né formae mentis da fondamentalista. Egli continua a credere, senza però più credere al Dio autoritario, ma nel Dio cristiano amico di chi crede in lui. Questo credente contribuisce a costruire il regno di Dio, giorno per giorno, e giorno per giorno partecipa alla storia della salvezza e della rivelazione, che si tratta di interpretare e riverificare ancora giorno per giorno. E giorno per giorno chi crede di credere si dedica caritatevolmente agli altri e pratica un cristianesimo declinato all’insegna dell’amicizia, che implica necessariamente “un’etica del rispetto e della solidarietà”[36] – un’etica dialogica, cooperativa e contestuale all’epoca postmetafisica -.
Per questo, proprio perché il cristianesimo dell’età postmetafisica “si limita” a un’etica del dialogo e alla costruzione di una salvezza il cui esito non è garantito perché il regno di Dio non è stato ancora del tutto realizzato, credere non ha più le garanzie dogmatiche di un tempo. Per questo, in un’epoca che non ha più fondamenti assoluti e metafisici, credere di credere è anche la speranza di credere (“Credere di credere o anche: sperare di credere”[37]).
[1] G. VATTIMO, Credere di credere, Milano, Garzanti 1996, pp. 112. D’ora in poi CC.
[2] G. VATTIMO, CC, p. 7.
[3] G. VATTIMO, CC, pp. 70-71.
[4] G. VATTIMO, CC, pp. 71-75.
[5] G. VATTIMO, CC, pp. 14-17.
[6] G. VATTIMO, CC, pp. 17-19.
[7] PAOLO, Lettera ai Filippesi, 2, 7.
[8] GIOVANNI, 15, 15.
[9] G. VATTIMO, CC, p. 14.
[10] G. VATTIMO, CC, pp. 27-29.
[11] G. VATTIMO, CC, p. 29.
[12] G. VATTIMO, CC, ibidem.
[13] G. VATTIMO, CC, ibidem.
[14] G. VATTIMO, CC, p. 30.
[15] G. VATTIMO, CC, p. 50.
[16] G. VATTIMO, CC, p. 86.
[17] G. VATTIMO, CC, pp. 64-65.
[18] G. VATTIMO, CC, p. 57.
[19] G. VATTIMO, CC, p. 79.
[20] G. VATTIMO, CC. p. 27.
[21] G. VATTIMO, CC, ibidem.
[22] G. VATTIMO, CC, p. 32.
[23] G. VATTIMO, CC, pp. 33-34.
[24] G. VATTIMO, CC, p. 34.
[25] G. VATTIMO, CC, p. 33.
[26] G. VATTIMO, CC, pp. 34-35.
[27] G. VATTIMO, CC, p. 60.
[28] G. VATTIMO, CC, ibidem.
[29] G. VATTIMO, CC, p. 65.
[30] PAOLO, Prima lettera ai Corinti, 13, 13.
[31] PAOLO, op. cit., 13, 3.
[32] G. VATTIMO, CC, p. 105.
[33] G. VATTIMO, CC, p. 64.
[34] G. VATTIMO, CC, ibidem.
[35] G. VATTIMO, CC, ibidem.
[36] G. VATTIMO, CC, p. 38.
[37] G. VATTIMO, CC, p. 97.
A cura di Gianni Commessati
“‘Veritatem facientes in caritate’, il motto paolino che peraltro echeggia, e forse non tanto da lontano, lo ‘aletheuein’ dell’aristotelica ‘Etica nicomachea’, significa, tradotto nei termini della filosofia di oggi, che la verità nasce nell’accordo e dall’accordo, e non, viceversa, che ci si mette d’accordo quando tutti abbiamo scoperto la stessa oggettiva verità ” (“Nichilismo ed emancipazione”, p. 6)
NICHILISMO ED EMANCIPAZIONE
“Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto” (2003) è una raccolta di quattordici saggi, tratti da conferenze e da precedenti pubblicazioni di Vattimo, che affrontano il tema dell’emancipazione umana dal punto di vista del paradigma ermeneutico. Pertanto, se “nichilismo” è sinonimo di “ermeneutica”, così come l’Autore lascia intendere sin dall’introduzione, ciò che questo testo si prefigge è di presentare il ruolo stesso della filosofia ermeneutica nei confronti di quell’emancipazione umana che si vorrebbe perseguire nei tre campi dell’etica, della politica e del diritto. L’insegnamento di Nietzsche e Heidegger viene rielaborato da Vattimo allo scopo di una definizione della disciplina ermeneutica che si configuri come qualcosa di costruttivo all’interno di quella condizione umana, sociale e filosofica denominata “post-modernità”. Qui, infatti, dove ogni fondazionalismo sembra essere soppiantato dalla tragica situazione dell’annuncio della “morte di Dio”, il pericolo di un nuovo irrigidimento metafisico (cioè la credenza di aver raggiunto una nuova verità) è in conflitto con gli intenti più profondi dell’ermeneutica, ovvero la pluralità delle interpretazioni e il rispetto della libertà di ciascuno. Compito del filosofo sarà allora di far valere le ragioni dell’ermeneutica su quelle del “nichilismo negativo”, che si ostina a propugnare l’idea di un fondamento (una verità, un valore, un’idea) naturale: “[…] già tentare di modellare leggi, costituzioni, provvedimenti politici ordinari, sull’idea di una progressiva liberazione di norme e regole da ogni preteso limite “naturale” (e cioè ovvio solo per chi detiene il potere) può diventare un progetto politico positivo.” (p. 8). Il filo conduttore che caratterizza ognuno dei quattordici saggi è, allora, la ricerca di una condizione di equilibrio della proposta ermeneutica: da un lato, infatti, tale pensiero deve tenere ben presente la fine dei fondamenti ultimi che hanno guidato la filosofia in tutta la sua storia; dall’altro, deve essere in grado di proporre se stesso in una maniera diversa, non come verità ultima, ma come una della interpretazioni possibili della modernità e della post-modernità che renda conto di una prospettiva di emancipazione umana. Ovviamente, articolato in questi termini, il compito si fa arduo: come si può parlare di etica, di politica e di diritto se non si ha dinanzi a sé un principio regolatore o fondativo che indirizzi la riflessione? Il pensiero dell’Autore, forte di una teoresi che nel corso degli anni ha raccolto molti consensi da più parti della comunità filosofica, si dispiega nei tre campi suddetti con notevole lucidità critica, non abbandonando mai quel sostegno concettuale che dell’ermeneutica ha fatto una disciplina in grado di comprendere e sviluppare vari campi dello scibile umano. Partendo dalle considerazioni heideggeriane sulla problematicità del superamento della metafisica, ovvero sulla maniera di rapportarsi ai pensieri universalistici che hanno connotato le epoche storiche a noi precedenti, Vattimo cerca di far vedere come una radicale assunzione della propria condizione di abitanti di un Occidente al tramonto è l’unica via per affrontare la situazione post-moderna: “Il contributo della filosofia alla razionalizzazione e all’umanizzazione della nostra esistenza, nel mondo tardo-industriale, è scarsa. I filosofi che si ostinano a fare discorsi fondativi – la linea che prosegue la ricerca trascendentale di Kant – ci sembrano vivere in un mondo che non è il nostro, che ignora gli aspetti teorici e anche pratico-politici del tramonto dell’Occidente; i filosofi che celebrano la dissoluzione delle pretese universalistiche della ragione, d’altra parte, appaiono troppo tranquillamente partecipi di questa dissoluzione e li sospettiamo, in fondo, di ridurre la filosofia e la razionalità a puro gioco estetistico. E se ci facessimo guidare di più dall’idea del tramonto, ancora una volta, ripetiamolo, senza alcuna simpatia per Spengler e il suo biologismo?” (p.41). In quest’ottica, i problemi tematizzati dalla filosofia verrebbero affrontati nei termini di una secolarizzazione di ogni principio ultimo, allo scopo di mostrarne la natura “indebolita” e di collocare il fulcro di ogni ulteriore riflessione all’interno della propria condizione storica, sociale, esistenziale. “Se la fine della metafisica è un fenomeno di secolarizzazione, e non la scoperta della verità vera che smentisce le menzogne delle ideologie, il problema della razionalità si pone in modo nuovo, ma non nei termini disperati del relativismo. La storia della dissoluzione della metafisica, e in genere della riduzione del sacro a dimensioni umane, ha una sua logica, alla quale apparteniamo e che fornisce, in assenza di verità eterne, l’unico filo conduttore per argomentare razionalmente e per orientarci anche nelle scelte etiche.” (p. 44). Così, per quanto riguarda la sfera morale, il netto rifiuto di ogni trascendentalismo rende l’etica “[…] un’etica della negoziazione e del consenso invece che un’etica dei principi immutabili, o degli imperativi categorici che parlano nella ragione di ciascuno.” (p.76), che ben si confà ad un mondo multietnico e multiculturale. La fine della metafisica e delle cosiddette “strutture forti”, come i totalitarismi e i colonialismi che hanno caratterizzato il mondo moderno, trovano poi il loro parallelo nella sfera politica con l’affermarsi della democrazia. Questo modello di organizzazione della società è, secondo l’Autore, il corrispettivo istituzionale di un’etica della negoziazione: la democrazia, infatti, non ha una verità alla quale conformarsi, deve solamente lasciarsi guidare dalle negoziazioni che il gioco delle maggioranze e delle minoranze fa sorgere dal consenso democratico. Così, resa impossibile un’identificazione tra politica e verità, l’argomentare di Vattimo suggerisce un percorso della politica odierna che avvicina la tradizione della sinistra e del socialismo alle teorie ermeneutiche: “Una sinistra nichilistica non-metafisica, non potrà più fondare le proprie rivendicazioni sull’uguaglianza, ma dovrà invece porre alla base la dissoluzione della violenza. E’ chiaro perché: l’uguaglianza è sempre ancora una tesi metafisica che si espone a essere confutata come tale, in quanto pretesa di cogliere una essenza umana data una volta per tutte.” (p.104). Ovviamente, la dissoluzione della violenza non rappresenta un ulteriore presupposto metafisico, in quanto è la condizione stessa, agli occhi dell’analisi ermeneutica, in cui l’Occidente si trova e dalla quale deve partire per ripensare se stesso attraverso un’ottica di emancipazione. Il diritto infine, è il terzo campo d’indagine che l’Autore esplora attraverso la lente filosofica della sua ontologia ermeneutica: se parlare di giustizia nei termini canonici suona ancora una volta come un richiamo a qualche valore metafisico a cui ci si appella per giustificare l’origine del diritto o delle pene, va rivisitata la natura del rapporto che lega l’uomo a tale istituzione, nella direzione di un indebolimento della sua natura fondativa. Anche qui, allora, l’ermeneutica risulta un ottimo strumento per delineare una relazione più disincantata con il diritto, dove non c’è un principio regolatore se non quello dell’interpretazione, volta per volta, della legge e dell’applicazione al singolo caso in questione. L’unica giustizia possibile è perciò quella dell’interpretazione “[…] come applicazione che indebolisce la violenza dell’origine, “fa giustizia del diritto”: gli rende giustizia contro chi lo accusa di produrre solo summas iniuras, lo rende giusto da violento che era e anche lo giustizia in quanto lo consuma nelle sue pretese di perentorietà e defitività, ne smentisce la maschera sacrale.” (p.149-150). L’emancipazione a cui ci si riferisce nel titolo dell’opera, quindi, è l’emancipazione che una condizione post-moderna conferisce a chi fa del nichilismo, e quindi della teoria ermeneutica, una chiave di lettura degli eventi storici e sociali. Vattimo trova in questa raccolta di saggi una via ‘pratica’ alle proprie riflessioni e propone al lettore una vera e propria filosofia della storia che vede nella disciplina ermeneutica il suo fulcro. Ovviamente i limiti di una tale concezione risiedono nell’accettazione dei suoi fondamenti teorici: se non si condivide la visione d’insieme che l’A. dà, sulla scia di Heidegger e Nietzsche, della parabola evolutiva del mondo occidentale, ben difficile sarà accettarne le proposte etiche, politiche e di filosofia del diritto. In ogni caso, tali proposte sono un ottimo contributo ai dibattiti di varia natura che il mondo contemporaneo deve affrontare: un contributo, questo, che trova la propria forza teorica nel proporsi come interpretazione, modificabile, migliorabile, di un discorso filosofico e sociale che, per fortuna, non può trovare una conclusione stabile e definitiva.
LA FILOSOFIA E LA CRITICA DELLA TECNOLOGIA
intervista a Gianni Vattimo di Ennio Galzenati
(rilasciata il il 23/06/1993 nella sede della Vivarium di Napoli)
L’Unità, 19 maggio 1997
Professor Vattimo, parlando di filosofia e critica della tecnologia, che è naturalmente un prodotto recente della riflessione filosofica, quanto è necessario risalire all’indietro per riconsiderarne i termini?
La demonizzazione della vita razionalizzata della civiltà industriale comincia, secondo me, ad avere un’influenza sulla filosofia alla fine dell’Ottocento in una discussione che sembra molto astratta e molto lontana da questi temi: quella che si svolge, soprattutto nella cultura tedesca – con autori come Dilthey, Rickert e Windelband – sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito.
Il secondo Ottocento è l’età del Positivismo, una filosofia che rivendica, tra l’altro, il modello dei saperi positivi delle scienze come la fisica o la chimica per ogni tipo di sapere: si tratta di far passare allo stadio positivo, come dicevano i filosofi positivisti, tra cui Comte, anche il sapere sull’uomo, il sapere sociologico, psicologico e persino la morale.
Già alla fine dell’Ottocento, comunque, questo impatto della tecnologia sulla società si avverte come il tentativo di ridurre anche l’uomo ad un meccanismo calcolabile, prevedibile, totalmente organizzato, ciò che poi Adorno chiamerà “l’organizzazione totale”.
Le scienze dell’uomo, che i filosofi chiamano “scienze dello spirito”, sembrano invece essere caratterizzate dal fatto che hanno a che fare con movimenti liberi non prevedibili, non calcolabili, non riducibili sotto leggi generali di comportamento. Si rivendica perciò l’originalità delle scienze dello spirito, nei loro metodi, nei loro modi di costruirsi rispetto alle scienze della natura, perché in realtà ci si vuole ribellare al dominio della tecnologia, della razionalizzazione sociale complessiva e dell’organizzazione totale della società.
Cosa pensa dello spirito polemico nei confronti di questa “organizzazione totale” che, a partire dai primi anni del nostro secolo, filtra attraverso il mondo delle avanguardie artistiche?
L’Espressionismo e, in genere, le grandi avanguardie artistiche del primo Novecento – il cubismo, il dadaismo, il surrealismo – non sono più guidate da un proposito di analisi quasi scientifica della sensazione visiva. Al contrario il mezzo artistico serve ad esprimere la volontà di partire dall’interno per manifestare al di fuori piuttosto che subire un ordine oggettivo del mondo e riprodurlo.
Del resto questa interpretazione dell’avanguardia non è originale. La si trova già in un’opera fondamentale per lo spirito di quell’epoca, Spirito dell’utopia (Geist der Utopie; trad.it Firenze, 1980) di Ernst Bloch, scritto e pubblicato nel ’18. E’ un filo conduttore interessante perché contiene l’idea che lo spirito non può essere meccanizzato, spiegato, ridotto entro leggi generali, e afferma anche un principio di unificazione della cultura del primo novecento collegando le avanguardie, la riflessione filosofica e la rivolta contro l’organizzazione tecnologica della società.
Questi stessi temi si ritrovano nell’Esistenzialismo?
Certo. Pensiamo per esempio alla riflessione di Heidegger in Essere e Tempo (trad.it. Torino, 1994), del ’27, maturata però a partire dagli anni ’10. In una memoria autobiografica Heidegger allude allo spirito degli anni ’10, come dominato dalla ripresa di Kierkegaard, di Nietzsche e di Dostoevskij, personaggi che hanno in comune l’esistenzialismo, l’accentuazione, persino eccessivamente patetica, del dramma della libertà dell’uomo, accentuazione tanto più significativa quanto più si afferma in un mondo dove invece l’organizzazione sociale diventa sempre più razionalistica e meccanizzata.
Abbiamo moltissimi criteri per distinguere, in ogni scienza, ciò che vale in un certo campo e ciò che non vale ma, asserisce Heidegger in Essere e tempo, si è perso invece il senso complessivo di che cosa chiamiamo “è”; abbiamo dimenticato il senso di questo termine perché abbiamo ridotto l’essere all’oggettività. Ma allora, se identifichiamo l’essere con ciò che è oggettivamente dato e verificabile ne consegue, prima di tutto, che non possiamo più pensare alla nostra esistenza in termini di essere, perché non siamo mai un tutto già dato, siamo fatti di ricordi del passato, di esistenza nel presente e soprattutto di proiezioni verso il futuro, tutte cose che dal punto di vista della datità verificata non sono nulla.
E’ possibile ricollegare questo discorso heideggeriano allo spirito dell’avanguardia di cui parlavo prima . Se non possiamo più parlare dell’essere dell’uomo, perché il nostro modello di essere è quello della datità oggettiva, ciò non ha solo delle conseguenze conoscitive preoccupanti, ma ha soprattutto conseguenze morali, politiche e sociali drammatiche. Predisponiamo cioè l’essere dell’uomo a diventare oggettività manipolabile nell’organizzazione totale della società.
Parliamo adesso della scuola di Francoforte.
La scuola di Francoforte è un prodotto filosofico molto recente, con cui dobbiamo fare i conti, ma le sue motivazioni restano fondamentalmente quelle che ho raccontato, cioè la rivolta avanguardistica della “Kultur”, potremmo dire con i termini di certi filosofi primonovecenteschi, contro la “Zivilisation”, la cultura contro i meccanismi della civilizzazione che sono diventati oppressivi. La parola “totale Verwaltung”, l'”organizzazione totale” – termine diventato classico attraverso la filosofia di Adorno – esprime l’idea che la razionalizzazione tecnologica della società comporti quasi naturalmente un rischio di totalitarismo politico. Questa tematica è stata molto presente nella cultura europea degli anni Sessanta. Credo che il Sessantotto, l’anno della contestazione giovanile, avesse sviluppato una critica radicale della tecnologia, che oggi è stata ereditata da alcuni filoni dell’ambientalismo e dell’ecologismo, in cui la tecnica è considerata naturalmente orientata a produrre strutture politiche totalitarie .
Adorno pensa alla società tecnologica come a una società “motorizzata”, nel senso che la società tecnologica sembra ad Adorno un grande meccanismo mosso da un motore centrale. Questa idea di Adorno si ritrova anche in alcuni grandi romanzi come quello di Orwell 1984 e quello di Huxley Brand New World. Quando la società si organizza in modo saldamente tecnico ci troviamo di fronte ad una specie di gran sistema di ingranaggi che girano tutti mossi da un centro unitario: la propaganda del regime nazista come la radio di Goebbels che dà ordini a tutti. Secondo l’idea di “pubblicità centralizzata” di Adorno, noi viviamo in una società non tanto diversa da quella nazista. Lì c’era infatti una propaganda politica, ma noi siamo dominati totalitariamente dalla pubblicità delle merci e siamo altrettanto poco liberi.
Professore, Lei crede che ciò sia ancora valido?
Questo modello, secondo me, non è già più il modello della tecnologia avanzata in cui viviamo noi oggi; del resto già l’idea della radio poteva condurre anche Adorno ad una riflessione ulteriore; oggi, per esempio, se noi accendessimo la radio e sentissimo la voce di Goebbels potremmo, con un piccolissimo movimento, passare su un’altra modulazione di frequenza, e sentire invece delle canzoncine dialettali. Quando perciò la tecnologia diventa prevalentemente una tecnologia della comunicazione piuttosto che una tecnologia del motore, la paura nei confronti di questo mondo tecnologico sembra potersi riassorbire in una visione della società come scambio di comunicazione, piuttosto che in una visione della società come grande meccanismo mosso da un unico motore centrale. In un saggio di Sentieri interrotti intitolato “L’epoca dell’immagine del mondo” Heidegger ripercorre la storia della scienza tecnica moderna interpretandola come costruzione di un’immagine del mondo che dipende da colui che costruisce l’immagine. La tecnologia tende cioè ad essere la costruzione del mondo sulla base di progetti del soggetto in qualche modo; anche lo scienziato che fa esperimenti non guarda solo cosa succede, ma provoca degli eventi per confermare o smentire certe proposizioni; il tecnologo che produce macchine prosegue questa stessa vocazione tecnologica della scienza. Così il mondo diventa sempre più l’immagine del mondo che noi ci facciamo e che noi costruiamo attivamente con la tecnica piuttosto che una cosa data davanti a noi.
Nella nostra epoca però le cose sono andate così avanti che l’immagine del mondo non è più una e ce ne sono piuttosto molteplici. Questo accade nella società della comunicazione. Viviamo in una società di intensa comunicazione in cui ci sono tanti giornali, tante stazioni televisive e questi enti di comunicazione parlano anche di loro stessi. Se voi leggete i giornali trovate che molto spesso alcune delle notizie riguardano le loro vicende: il giornale è stato comperato dal tale gruppo che produce dentifrici e noi possiamo essere messi in guardia sul fatto che le notizie che riguardano i dentifrici su quel genere di giornali dovremmo prenderle “cum grano salis”, perché interviene l’interesse del padrone della catena di fabbriche di dentifrici, che è anche proprietaria del giornale.
La molteplicità delle agenzie di informazione nel nostro mondo, che forse è sempre esistita, ma non così largamente come oggi, è diventata così esplicita, che noi oggi sappiamo di vivere in un mondo di interpretazioni, non in un mondo di realtà date. Questo fa sì che la potenza totalizzante dell’informazione porti con sé una sorta di antidoto interno e noi non prendiamo più troppo sul serio l’informazione che ci viene fornita. Non sono solo le “élites” a sapere che la TV mente; tutti sanno benissimo che per sapere ciò che succede devono comprare almeno tre giornali di orientamento diverso, devono guardare programmi televisivi differenti, devono in qualche modo comporre la visione della realtà in una babele informativa che ha certamente delle caratteristiche preoccupanti, nel senso che ci si può sentire confusi, ma ha anche un’intrinseca componente liberante, emancipatoria. Credo che questa sia la nuova situazione con cui ha a che fare la riflessione filosofica sulla tecnologia. Lo spirito in qualche modo soffia dove vuole. La paura che i nostri filosofi e gli avanguardisti artistici del primo Novecento avevano nei confronti della tecnologia, può essere, nella società contemporanea, ampiamente ridimensionata, anche se non del tutto superata, se per esempio ci assicuriamo che il pluralismo dell’informazione sia davvero tale, che non ci siano cioè troppi canali televisivi posseduti dalla stessa impresa per esempio, o che non ci sia una sola informazione di Stato. Ma è bene cercare di spingerci nella direzione della babele, piuttosto che difenderci da essa, perché non dobbiamo eliminare la pluralità dei linguaggi, ma piuttosto moltiplicarla.
Poesia e ontologia
1 Professor Vattimo, cominciamo questa nostra conversazione, sul tema della poesia, ricordando il titolo di un libro che Lei scrisse e pubblicò nel 1968. Si intitolava Poesia e ontologia. Che cosa voleva indicare, mettendo insieme questi due concetti, quello di “poesia” e quello di “ontologia”?
Era un modo di annunciare fin dal titolo uno degli assunti teorici, anche un po’ polemici, del libro. L’idea fondamentale era che l’estetica novecentesca, o anche del tardo Ottocento – ma forse l’estetica postkantiana in generale – avesse teso ad isolare l’arte dal dominio della verità. Si può portare come esempio la teoria estetica di Croce, secondo cui nella dialettica dei distinti i predicati che si possono attribuire all’esperienza estetica, all’arte, sono bello o brutto, ma non vero o falso. Questo significa che l’esperienza estetica non ha a che fare con l’esperienza della verità. Un tale atteggiamento, che è stato dominante nell’estetica filosofica del Novecento, era già stato discusso anche prima della pubblicazione del mio libro da autori – a cui io mi rifacevo – come Gadamer o come Heidegger. Gadamer in particolare, nel suo libro del 1960, Verità e Metodo , era partito proprio da una critica di quella che lui chiamava la “coscienza estetica” – potremmo chiamarla coscienza “estetistica” – cioè muovendo dalla critica di quell’atteggiamento che appunto considera l’esperienza dell’arte e del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero. Gadamer argomentava, secondo me giustamente, che questo estetismo, riferito soprattutto alla filosofia dell’arte del Novecento, era il corrispettivo dello scientismo metodologistico del positivismo. Se si domanda perché nell’esperienza estetica non vi siano il vero e falso, si tende a rispondere che questi appartengono esclusivamente a quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo scientifico. Ecco perché, tra l’altro, Verità e Metodo si intitola così: Gadamer voleva indicare già dal titolo della sua opera che il suo problema era quello di rivendicare l’esperienza di verità che si fa al di fuori dei campi metodologicamente organizzati come quelli della scienza. Ora, uno dei campi classici, o insomma l’emblema stesso di ciò che non è metodico, è l’esperienza estetica.
Gadamer, che poi allargava il discorso anche all’esperienza delle scienze storiche, delle scienze umane – perché poi era questo il suo obiettivo più generale – muoveva dal recupero in senso veritativo dell’esperienza che sembra essere la più lontana dal vero e dal falso, vale a dire appunto l’esperienza estetica. Io procedevo in questa stessa direzione anche con riferimenti che non mi sembrava di trovare già in Gadamer, cioè sviluppando l’idea che le avanguardie artistiche del Novecento erano proprio una forma di rivolta degli artisti, dell’arte militante, contro l’estetismo dell’estetica filosofica. Così, mentre Croce oppure i neokantiani tedeschi sostenevano che l’esperienza estetica non ha nulla a che fare con il vero o il falso, gli artisti pensavano invece che l’arte dovesse uscire dal mondo asettico del museo, della galleria o della pura esperienza della poesia che si raccomandava per la sua sonorità, per la sua bellezza strutturale, per le forme, senza riferimenti esistenziali. In quel libro, l’esperienza delle avanguardie novecentesche mi pareva – e mi pare ancora oggi – interpretabile come una rivolta dell’arte contro la sterilizzazione a cui sembrava volerla condannare l’estetica filosofica della sua stessa epoca. E naturalmente, ancora una volta, il riferimento principale – per me come del resto per lo stesso Gadamer – era la filosofia di Heidegger; questo in parte perché per me essa è stata un’esperienza filosofica di fatto dominante, in parte perché mi sembra che sia oggettivamente fondamentale per il pensiero del Novecento.
È con Heidegger, in fondo, che la poesia è stata completamente ricondotta all’ambito della verità, fuori dalla prospettiva limitata in cui l’aveva collocata l’estetismo filosofico del primo Novecento. Naturalmente i riferimenti a Gadamer e a Heidegger hanno due valenze differenti, perché in Gadamer il fatto che ci sia un’esperienza di verità nella poesia, e in genere nell’arte, si giustifica dal punto di vista di una concezione della verità che risale a Hegel prima che a Heidegger. Io riassumevo la posizione di Gadamer – mi sembra utile questa formula per ricordarla – dicendo che “si fa esperienza di verità, quando si fa vera esperienza”. Se noi teniamo presente questa espressione, capiamo perché la lettura di un’opera d’arte, l’incontro con un’opera d’arte può essere esperienza di verità; basti pensare all’esperienza che facciamo quando leggiamo un romanzo: ci cambia la vita, forse non così radicalmente, ma certo cambia, modifica la nostra visione del mondo. Ora, effettivamente, questa concezione è di origine hegeliana: la verità è, come dire, l’incontro con un’alterità che noi assimiliamo, e quindi che non lasciamo stare nella sua estraneità, ma, assimilandola, diventiamo altri da quello che eravamo.
In Gadamer è molto importante questa idea dell’esperienza come Erfahrung. La parola tedesca Erfahrung ha da fare anche col viaggiare, col fahren, e implica un mutamento: possiamo fare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto, e che, quando fa ritorno a casa, non può essere esattamente lo stesso, perché ha imparato altre cose, sa altre cose, e queste cose sono diventate parte della sua conformazione mentale. Se compiamo una vera esperienza, e cioè qualche cosa che ci costringe, ci spinge a cambiare, facciamo un’esperienza di verità. In questo senso, l’incontro con l’opera d’arte, che è l’incontro con una visione del mondo “altra”, che ci scuote, o anche semplicemente che ci arricchisce, rappresenta il senso dell’esperienza del vero che si fa nell’arte e in genere in tutti quei campi, come per esempio la conoscenza filosofica, la conoscenza storica eccetera., che alla mentalità di ispirazione positivistica del tardo Ottocento sembravano escluse dal campo del metodo scientifico. Certo, la storia non sarebbe capace di verità scientifica, se la scienza fosse solo la conoscenza di leggi generali. Allora il punto è: questi saperi che non hanno da fare con principi generali, con leggi generali, ma con fatti specifici, sono saperi capaci di verità? Direi di sì, se l’esperienza che facciamo in questi saperi è una vera esperienza. L’argomento di Gadamer, che sta alla base di Verità e Metodo, si muove attorno a questa prospettiva.
2 È stato Heidegger che, nel saggio intitolato L’origine dell’opera d’arte, ha chiarito, forse più radicalmente di quanto non lo abbia fatto Gadamer, l’incontro con l’opera d’arte come un’esperienza di verità. Vuole ripercorrere i motivi principali di questo saggio?
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes ), che è del 1936, Heidegger chiama l’opera d’arte una “messa in opera della verità”. Qui effettivamente troviamo la possibilità di parlare di “poesia e ontologia” o di “poesia e filosofia” o di “poesia e verità” o di “arte” in genere. In che senso l’opera d’arte è “messa in opera della verità”? Prima di tutto è ovvio che, per parlare di opera d’arte come “messa in opera della verità”, bisogna avere una certa concezione della verità, che in Heidegger non è, e non può essere, quella della verità come corrispondenza di una proposizione a uno stato di cose. Molto spesso, naturalmente, la tradizione ha parlato di verità della poesia, ma, poiché ne ha parlato in riferimento a questa concezione della verità come enunciazione vera di stati di cose, cioè in termini di proposizioni che corrispondano a uno stato di cose, ha sempre dovuto concepire la poesia secondo il motto latino del miscere utile dulci, che esprime l’idea per cui nella poesia si possono dire delle verità, descrivendo, per esempio, come stanno le cose con l’essenza dell’uomo o le leggi morali, eccetera. Perché tali verità vengono espresse in poesia? Una ragione può essere, ad esempio, che in questo modo la gente le impara meglio; anche i proverbi, in genere, si formulano come dei versetti, espressi in termini “poetici”, con delle metafore.
Sembrerebbe dunque che vi sia una verità della poesia, che è la stessa verità che si può dire in proposizioni astratte, ma presentata con termini immaginosi, metaforici, perché piace di più o si ricorda meglio. Ora, non è questo il senso in cui Heidegger parla di “una messa in opera della verità”, perché per lui la verità, prima di essere la descrizione oggettiva di uno stato di cose, è l’apertura di un orizzonte di una possibile descrizione dello stato di cose. Non è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato di cose usando degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, i quali per noi sono alla base della possibilità di descrivere in modo veritiero quello stato di cose. Ma i paradigmi, l’”apertura”, per così dire, il sistema dei presupposti in base a cui possiamo dire la verità, nel senso di descrivere validamente lo stato di cose, tutto questo insieme precede questa verità espressa come corrispondenza nella proposizione alla cosa. E questo insieme difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera, perché per essere descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro sistema di presupposti, di un’altra apertura e e così via.
Si comprende benissimo che, procedendo in questo modo, si potrebbe risalire all’infinito. Heidegger non vuole tanto risalire all’infinito per distruggere logicamente l’idea di verità, ma richiamare la nostra attenzione su un fatto che era anche, in fondo, alla base della critica marxiana dell’ideologia ossia che quando noi enunciamo una proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta non enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in qualche modo siamo – come dice Heidegger – “gettati”, ci “apparteniamo”, “ci siamo”: è il nostro equipaggiamento. I nostri occhi noi non li descriviamo, mentre descriviamo ciò che vediamo con gli occhi; quando ci mettiamo a studiare i nostri occhi, magari li studiamo in base a un’immagine, che però guardiamo pur sempre con i nostri occhi, che, nel momento stesso in cui li usiamo per guardare, non possiamo vedere. È una cosa abbastanza ovvia, che però filosoficamente diventa importante, perché in fondo è alla base della stessa idea che la poesia sia capace di verità.
3 Professor Vattimo, in che senso dunque la poesia “dice” il vero?
La poesia non dice verità a livello della proposizione corrispondente all’oggetto, ma “dice” – esprime, rappresenta, mostra – qui è difficile qui usare un verbo adeguato – la verità dell’orizzonte a cui apparteniamo quando poi diciamo delle singole verità. Quando noi parliamo di poesia e verità, per esempio, è abbastanza facile cadere in un errore di banalizzazione. Che cosa dice una poesia, quale verità enunciabile ricaviamo da una poesia di Pascoli, di D’Annunzio, di Carducci? Quando cerchiamo di volgere la verità della poesia in singole verità proposizionali, per lo più ricaviamo delle proposizioni banali: “Gli uomini sono mortali”, “La vita è difficile”, “L’esistenza è sempre schiacciata dal problema della libertà”. Questo vuol dire che, se guardiamo alla verità della poesia, la prima cosa a cui siamo richiamati è una nozione di verità non proposizionale, non descrittiva, non misurata sul principio della conformità. Allora, se c’è una verità nella poesia, questa verità è pensabile solo come apertura originaria dentro cui siamo gettati, orizzonte all’interno del quale possiamo diventare consapevoli di noi stessi, che è dunque cosa ben diversa da una verità enunciata come proposizione descrittiva all’interno di questo stesso orizzonte.
Il rapporto con questa verità è poetico anche perché non può essere descrittivo-proposizionale o scientifico: se noi ci sforziamo di afferrare questa verità, ci accorgiamo che è impossibile renderla in termini di proposizioni dimostrabili, oggettivabili. Con esse siamo in un rapporto che si potrebbe chiamare “abitativo”, nel senso che c’è nella nostra esistenza, alla base di ogni nostro enunciato tematico, una più originaria appartenenza che noi non riusciamo a tematizzare. Noi non possiamo dire che, poiché non riusciamo a tematizzarla, dobbiamo trascurarla. Trascurarla, infatti, significherebbe lasciarsi guidare da pregiudizi che noi non sospettiamo neanche di avere – il che è abbastanza pericoloso. Sapere di appartenere ad un orizzonte che non possiamo oggettivare davanti a noi – perché ciò è contraddittorio con la nozione stessa di orizzonte -, significa già sforzarsi di fare esperienza di questo orizzonte con altri mezzi. In fondo, tutta la storia delle arti nella storia della cultura è questo.
Le arti non hanno mai detto verità utili, utilizzabili, sistemabili in un trattato, e tuttavia ci sono sempre state. Controbattere sostenendo che ciò è accaduto solo perché l’uomo ha inevitabilmente anche un aspetto di “oziosità” è una spiegazione un po’ troppo banale, soprattutto se si pensa alla vita degli artisti, all’interesse che la gente porta all’arte, anche all’importanza sociale che l’arte ha sempre avuto nella cultura. Che l’arte sia messa in opera della verità tende a spiegare meglio tutte queste cose; c’è una verità più originaria delle singole verità che possiamo enunciare e il rapporto con questa verità più originaria non si può per definizione tematizzare in proposizioni enunciabili: esso costituisce il senso dell’esperienza estetica. Nella pittura, nella musica, nella poesia noi mettiamo in opera, in qualche modo, questa apertura della verità. Heidegger naturalmente collega a questo anche tutto un altro insieme di contenuti filosofici. Uno, in modo particolare, è l’idea che la verità non sia sempre la stessa in tutte le epoche, e cioè che non è vero che tutti gli uomini sono sempre gettati in un orizzonte di verità sempre uguale, ma che ci sono delle cesure, dei cambiamenti nell’orizzonte di verità in cui noi ci troviamo. Anche questa è una cosa che si capisce, se si pensa a teorie diverse da quella heideggeriana, ma forse a questa vicine nell’intenzione. Intendo riferirmi, ad esempio, a una teoria come quella di Thomas Kuhn, ad esempio, che parla dei “paradigmi”, secondo cui le scienze provano, dimostrano proposizioni, però all’interno di un insieme di presupposti, di assiomi, che costituiscono appunto il paradigma all’interno del quale si prova o si falsifica una proposizione. A sua volta, il paradigma, anche per Kuhn, non è oggetto di prova o di falsificazione, perché altrimenti si esigerebbe un altro paradigma più ampio all’interno del quale si possa provare qualcosa o falsificare qualcosa. Quindi, anche in questo caso, i paradigmi all’interno dei quali si muovono le verità della scienza sono storicamente dei fatti complessi.
Certamente non si può dire che essi siano dei fatti irrazionali, però sono dei complessi eventi storici a cui gli scienziati appartengono e all’interno dei quali trovano o falsificano proposizioni. Ebbene, se noi pensiamo a questo, possiamo avere un’idea, ancora una volta, di che cosa Heidegger intenda quando dice che l’arte è “messa in opera della verità”. “Messa in opera” che può essere storicamente mutevole, proprio perché le epoche, i paradigmi, non sono sempre gli stessi.
È la ragione per cui l’arte è una storia e non accade una volta sola. Altrimenti basterebbe una sola opera d’arte, come ad esempio una tragedia greca, per tutte le epoche. Ma non è così, perché oltre alla tragedia greca, esiste la Divina Commedia o l’opera di Shakespeare, tra le quali noi cogliamo delle differenze: in queste diverse opere d’arte si aprono dei mondi diversi, dei mondi storici all’interno dei quali l’umanità del passato è vissuta e dentro cui ancora viviamo noi, mediandoli con il nostro mondo storico, con i nostri poeti, con le nostre opere d’arte.
4 In Heidegger l’esperienza estetica come esperienza di incontro con la verità è soprattutto un’esperienza poetica. Perché, professor Vattimo, proprio la poesia, perché i poeti, per dirla con il titolo di un saggio di Heidegger, hanno un ruolo privilegiato?
Perché nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte di Heidegger c’è anche una sorta di riconduzione di tutte le arti alla poesia come arte della parola. Ora questo è un tema naturalmente complesso, forse anche controverso tra gli interpreti di Heidegger, però Heidegger certamente ritiene che, in qualche senso, la funzione inaugurale di apertura di un mondo storico che l’opera d’arte ha, si realizza in modo speciale, in modo privilegiato nell’arte della parola. “Apertura di un mondo storico” può voler dire due cose. Svelamento di un mondo storico – e in questo caso ci troviamo in temi che sono familiari alla storia dell’estetica e della filosofia. Hegel, per esempio, sosteneva che, almeno in certe fasi dello sviluppo dello spirito, la verità dell’epoca, la verità dello spirito di un’epoca, si rivela nell’arte e non nella religione o non nella filosofia.
L’estetica hegeliana sostiene che nella storia dell’umanità, l’età in cui l’arte è il luogo supremo di rivelazione dello spirito dell’epoca è stata l’età classica greca. C’è un’epoca nella storia dello spirito in cui lo spirito si rivela a se stesso, si documenta, in qualche modo, più adeguatamente nell’arte che non nella filosofia o nella religione, mentre, ad esempio, lo spirito medievale si rivela piuttosto nella religione cristiana; il senso del gotico è il senso di un’arte la cui verità è però la religione. Bene, noi possiamo intendere in questi termini la posizione di Heidegger, per cui nell’opera d’arte si apre un mondo storico, nel senso che in essa vi si rivela. Ma l’originalità di Heidegger è nell’idea che nell’opera d’arte si “inaugura” un mondo storico: non solo si apre, nel senso che si svela più adeguatamente, ma accade prima di tutto lì.
Il linguaggio è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui noi accediamo al mondo; non accade che prima noi vediamo il mondo e poi troviamo le parole per descriverlo, perché, come mostrano le nostre esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo la parola, in un certo senso non vediamo la cosa. Secondo Heidegger, è soprattutto il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo. Noi ereditiamo un insieme di capacità per vedere il mondo, ereditando un certo linguaggio, la nostra lingua naturale, che però non è naturale in quanto eterna; è naturale nel senso che è la nostra lingua madre, la lingua che impariamo quando siamo bambini. Ebbene, questo linguaggio, che non è sempre uguale – le lingue sono mai state tutte eguali nel corso della storia – costituisce un fatto naturale e storico insieme. In quanto fatto storico ha dei momenti principali in cui ovviamente cambia. Heidegger identifica i momenti di “inaugurazione” di una lingua di un’epoca con certi grandi eventi poetici. Noi diciamo abitualmente a scuola che Dante è il padre della lingua italiana, che la traduzione della Bibbia di Lutero ha fondato il tedesco moderno, che Shakespeare è, quasi come Dante, il padre della lingua inglese, eccetera. Talvolta questo lo diciamo in maniera banalizzante, ma per Heidegger c’è una verità in tutto ciò molto profonda, e cioè che nella poesia si inaugurano svolte decisive delle lingue naturali. Quindi, anche in questo senso, l’opera d’arte “mette in opera la verità” e la mette in opera come opera d’arte linguistica, perché dal punto di vista di Heidegger, anche per interpretare storicamente delle opere d’arte non linguistiche – per esempio la pittura di Michelangelo o di Goya – noi, per esprimerne il carattere aprente, inaugurale, utilizziamo delle parole.
5 Abbiamo visto che per Heidegger c’è una certa originarietà della poesia rispetto alle altre arti: quali sono i problemi suscitati da questa tesi?
Questo è un punto su cui pochi studiosi di estetica concorderebbero pienamente, perché l’esperienza dello spazio, per esempio, che si fa con la pittura, con l’architettura, con le arti visive, si può considerare ragionevolmente ancora più originaria, o almeno altrettanto originaria, di quella delle parole. Heidegger stesso, in un’opera tarda, la breve ma intensissima prolusione degli anni Sessanta intitolata L’arte e lo spazio, potrebbe fornire elementi per andare in questa direzione, in quanto qui egli sostiene che, se dovesse riscrivere Essere e Tempo, riconoscerebbe altrettanto originario, nella nostra esperienza, lo spazio.
Heidegger, mettendo allo stesso livello spazio e tempo come forme originarie della nostra esperienza, avrebbe forse anche dovuto rivedere il rapporto tra arti del linguaggio e arti visive, spaziali. Dunque per gli studiosi heideggeriani, su questo probabilmente c’è ancora molto da lavorare. Però il senso fondamentale è: l’opera d’arte ha una funzione inaugurale rispetto ai mondi storici, soprattutto in forma di opera d’arte poetica – “dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde”, “poeticamente abita l’uomo su questa terra” è un verso di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento in un saggio sulla poesia. Ovviamente l’abitare richiama l’esperienza dell’architettura, delle arti della visione; il “poeticamente” significa, se dobbiamo prenderlo alla lettera, nell’interpretazione che dà Heidegger di questo verso di Hölderlin, che l’abitare storico dell’uomo ha a che fare con lo stare in un ambiente, ma questo stare in un ambiente è vissuto esistenzialmente anzitutto come appartenenza ad un linguaggio che è parola.
I versi di Hölderlin che Heidegger commenta con l’espressione a cui io mi sono poco fa richiamato, sono in realtà due, tra loro simili. L’altro dice: “voll Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde”, “pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo su questa terra”. Qui, secondo me, c’è un’ulteriore dimensione di questo significato aprente dell’opera d’arte, che vale la pena illustrare. Questo distico hölderliniano, “pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo”, contiene anche un altro elemento, non solo quello dell’abitare, non solo quello della poesia nel senso di arte della parola, ma anche quello di una opposizione tra “abitare poetico” e “merito”.
Ancora una volta, quella verità che si apre nella poesia e che è l’apertura dell’orizzonte all’interno del quale poi noi possiamo enunciare le verità nel senso tematico, proposizionale della parola, quella verità è anche qualcosa che ci proviene e che noi non costruiamo. Ecco perché c’è un’avversativa tra il “pieno di merito” e “tuttavia poeticamente abita l’uomo”. “Pieno di merito” vuol dire: certamente l’uomo abita sulla terra, costruendo case, producendo automobili, ascensori per facilitarsi l’esistenza, per difendersi dai pericoli della natura, e così via; tuttavia, dice Hölderlin, l’uomo “abita poeticamente”. C’è qualche cosa, alla base di tutta questa opera che è propria dell’uomo, che non è attività, ma è prima di tutto qualcosa come ricezione, passività
In fondo, anche noi, quando facciamo esperienza di poesia, parliamo quasi spontaneamente di grazia. Gli applausi che si rivolgono ai grandi interpreti hanno da fare col ringraziamento e poi, tradizionalmente il bello dell’arte è stato accostato all’idea di grazia, non tanto alla graziosità che è un’accentuazione della facilità del movimento – si dice che un balletto è grazioso, che una piccola opera d’arte è graziosa, quasi come se fosse qualcosa di meno del bello -; la grazia è, per esempio, il creare “in stato di grazia”, il che costituisce l’originalità del genio. Tutti questi modi in cui la tradizione ha enfatizzato l’esperienza estetica, hanno una loro radice nel “doch”, nell’opposizione tra l’attività utile, produttiva, volontaria, di cui noi abbiamo merito, l’uomo ha merito, e il trovarsi gettato in un mondo disponendo già, per esempio, del linguaggio e di un insieme di vie di accesso agli enti, che non ci siamo costruiti da noi e che sono alla base di tutto il nostro costruire. Questo è importante per capire qual è quel tipo di verità che si può dare nella poesia.
6 Professor Vattimo, vi sono altre dottrine estetiche che possono illustrare la concezione heideggeriana dell’arte?
Un altro grande pensatore estetico del Novecento è stato Michel Dufrenne, autore di varie opere tra cui una Fenomenologia dell’esperienza estetica, e un saggio intitolato Il poetico; egli è stato un filosofo, diciamo, di scuola fenomenologica ma molto sensibile anche alle suggestioni heideggeriane. Ebbene, Dufrenne aveva descritto l’opera d’arte come un “quasi soggetto”, il che ci serve molto per capire che cosa possiamo intendere Heidegger a proposito dell’apertura nel mondo. Un “quasi soggetto” è un “oggetto” che si incontra nel mondo e che non si lascia trattare come un puro oggetto. Un’opera d’arte è una visione sul mondo, non un pezzo di mondo.
Un romanzo, un quadro, una sinfonia, non sono cose che si aggiungono ad altre nel mondo, ma contengono sempre, in qualche modo, l’appello a reinterpretare il mondo. L’”altro” con cui mi incontro, se non è un individuo che voglio usare per un certo scopo, ma è uno che ascolto come un “altro”, mi offre un’interpretazione del mondo con cui mi debbo misurare, non è un oggetto che metto accanto agli altri tranquillamente, aggiungendo un pezzo al mio mondo.
Qualcosa di questo genere si può intendere per capire di che cosa parliamo quando diciamo che un’opera apre un mondo. È una prospettiva altra sul mondo, che può diventare un oggetto del mio mondo, ma se desidero appendere un quadro nella mia camera, lo faccio non soltanto perché sta bene lì; qualcuno può anche intenderlo solo così, in termini puramente decorativi, ma se poi cercassimo di spiegarci perché sta bene, secondo me, scopriremmo sempre che sta bene perché evoca, apre immagini di mondo alternative a quelle dentro cui sto e quindi non è semplicemente una parte, un pezzo passivo, inerte nel mio mondo, ma è un soggetto che mi parla.
7 C’è però un’altra considerazione che dobbiamo fare, sempre riguardo ad Heidegger. Lei non crede che vi sia in Heidegger una sorta di intonazione religiosa? In fondo Heidegger parla di poesia, ne parla in generale come luogo originario, però poi sceglie, di fatto, alcuni poeti in particolare, ne privilegia alcuni, Hölderlin su tutti. Ecco, che cosa significa questa scelta? Che cosa intende fare Heidegger con questa operazione?
Qui il discorso potrebbe, dovrebbe essere molto ampio. È vero che Heidegger sceglie Hölderlin tra i poeti – uno dei poeti che commenta più frequentemente, con cui ha convissuto, per così dire, per tanto tempo, fino a definirlo come “il poeta del poeta”, cioè il poeta della poesia. Questo è molto interessante perché collocherebbe Hölderlin e Heidegger nell’orizzonte di uno dei tratti caratteristici della poesia novecentesca o dell’arte novecentesca, che è intensamente caratterizzata dall’autoriflessione. C’è tutta una storia della pittura, per esempio, tra Otto e Novecento, che vede l’evoluzione della pittura come un’accentuazione della consapevolezza dei mezzi della pittura: il colore, il quadro, la tela, le linee, la prospettiva spaziale. Quindi mi sembra molto significativo che Heidegger sia così sensibile a questo. Diciamo però che il discorso di Heidegger va ancora oltre, non solo scegliendo Hölderlin in quanto “poeta del poeta”, ma anche Rilke, per esempio, o, negli scritti degli anni Cinquanta, Trakl, che è un poeta difficile perché “maledetto” in molti sensi, un poeta espressionista del tutto diverso dai poeti “vati” che ci si aspetta che Heidegger commenti; ebbene, la scelta di questi poeti non è in Heidegger slegata da una considerazione epocale.
Ancora una volta, non ci sono poeti che esprimono meglio di altri l’essenza eterna dell’arte, ci sono poeti che sono più eloquenti, più capaci di dirci che ne è dell’essere nella nostra determinata epoca.
Il destino dell’essere nella nostra determinata epoca ha probabilmente a che fare anche con il fatto che il poeta poeti sulla poesia, nel senso che l’autoriflessività della poesia hölderliniana, che parla del poeta, diventa determinante per Heidegger, perché è particolarmente in sintonia con un’epoca dell’essere che è quella che Heidegger tenta di cogliere.
Che cosa può voler dire tutto questo? Traduciamolo un po’ sommariamente nei nostri termini. Non sempre e non in ogni epoca culturale o della storia dell’essere è così chiaro che l’esperienza della verità sia esperienza dell’orizzonte piuttosto che esperienza delle proposizioni vere, come ho detto prima. È nella nostra epoca, che Heidegger chiama della “fine”, del “compimento” o del “superamento” della metafisica, che ci diventa possibile capire meglio che la verità non è soltanto o principalmente la proposizione che descrive adeguatamente lo stato di cose, ma è l’appartenenza ad un orizzonte dentro cui siamo “gettati”, che ci è donato.
In questa epoca, in cui diventa comprensibile – perché è finita la metafisica – questa esperienza della verità come appartenenza, allora è più verosimile cercare il vero nei poeti e in certi poeti che poetano sulla poesia. Ecco perché il discorso è complesso. Heidegger non avrebbe mai detto che si debba in ogni epoca cercare la verità piuttosto nella poesia; ma soltanto che nella nostra epoca diventa possibile cercare la verità nei poeti, in quei poeti che sono particolarmente consapevoli del significato della poesia in questa epoca. Quest’idea è complessa, ma non del tutto inverosimile. Non tutti i poeti sono uguali, non sempre il rapporto tra verità e poesia si svela nello stesso modo. Per Heidegger di questa epoca sono emblemi poeti come Hölderlin, Rilke, Trakl, George.
8 Professor Vattimo, lasciamo per un momento la poesia, per tornare proprio al discorso invece più globale sull’arte. Lei ha parlato dell’arte, dell’esperienza estetica come esperienza di verità. Possiamo allora radicalizzare il discorso e intenderla proprio come esperienza ermeneutica?
Possiamo sicuramente parlare di esperienza ermeneutica in rapporto a questa verità intesa come appartenenza all’apertura. L’ermeneutica è quella posizione filosofica che individua l’esperienza della verità non come descrizione oggettiva di stati di cose, o quanto meno non solo come descrizione oggettiva di stati di cose, ma prima di tutto come abitare dentro un’apertura che ci regge e ci rende possibile qualunque descrizione oggettiva. Come a Marx interessava capire l’ideologia che sta dietro le nostre descrizioni del mondo, così a Heidegger interessa cercare di risalire a questa verità come apertura alla quale apparteniamo, a questo paradigma. Ora, questo risalire è un dialogo con la poesia. Heidegger ha spesso parlato della filosofia, del pensare, come dialogo di filosofia e poesia .
Il dialogo di filosofia e poesia è sempre in corso e in esso entra in gioco il modo di vedere la verità come orizzonte a cui apparteniamo, il che non è molto lontano dalla religione. A mio parere una riflessione intensa, approfondita, sul rapporto di filosofia e poesia per il pensiero, non può che condurre anche a ritrovare una certa valenza religiosa di ciò con cui la filosofia ha a che fare. Potremmo dire che se ciò che ci si svela nella poesia è quella verità che ci è data come dono, come grazia – si potrebbe dire -, e con cui siamo in un rapporto di dialogo chiarificatore, interrogativo, non puramente contemplativo e passivo -, allora quell’altra forma della vita spirituale che Hegel, come ricorderete, metteva insieme a filosofia e arte, riguarda sicuramente la religione.
Io credo che il pensiero contemporaneo, attraverso l’esperienza dell’ermeneutica, nella misura in cui riceve di nuovo un accesso ad una ricerca della verità, ad un ascolto della verità che si dà nella poesia, sia in qualche modo richiamato anche ad un’esperienza religiosa. Ciò che caratterizza il pensiero di oggi in una larga parte della filosofia – anche se non in tutta – è dapprima un nuovo ascolto della poesia, ma sempre più anche una nuova sensibilità religiosa che non mette da parte la poesia. Probabilmente se vi sarà una nuova esperienza religiosa del pensiero, essa dovrà essere sempre più intensamente collegata con l’esperienza estetica, comportando, a partire da questo aspetto, una ridefinizione dell’esperienza religiosa stessa.
Intervista realizzata il
20 giugno 1996, Milano – RAI
EMMANUEL MOUNIER
A cura di Diego Fusaro e Paolo Emilio Biagini
“Chiamiamo democrazia, con tutti i termini qualificativi e superlativi necessari per non confonderla con le sue minuscole contraffazioni, quel regime che poggia sulla responsabilità e sull’organizzazione funzionale di tutte le persone costituenti la comunità sociale. Solo in questo caso ci troviamo senza ambagi dal lato della democrazia. Aggiungiamo che, portata fuori strada fin dall’origine dai suoi primi ideologi e poi soffocata nella culla dal mondo del denaro, questa democrazia non è mai stata attuata nei fatti, e lo è ben poco negli spiriti. Ci teniamo soprattutto ad aggiungere che noi non propendiamo verso la democrazia per motivi puramente e unicamente politici o storici, ma per motivi d’ordine spirituale e umano. ” (Rivoluzione personalista e comunitaria)
VITA E OPERE
Emmanuel Mounier nasce a Grenoble il 1° aprile 1905 da una famiglia della media borghesia. Suo padre, Paul, era farmacista. Dopo aver compiuto gli studi regolari, si iscrive alla facoltà di “Scienze”, più per volere del padre che per convinzione propria. I suoi studi in questo campo, però, non avranno seguito perché abbandonerà presto questa facoltà per iscriversi a quella di “Filosofia”. In tale facoltà insegnava Jacques Chevalier, il quale influenzerà il giovane Mounier, che da parte sua porterà sempre un grande rispetto per quest’uomo, anche al di là delle scelte che in seguito li vedranno su sponde opposte. Mounier fa parte, in questo periodo, sia dell’A.C.J.F. che della “S. Vincenzo de’ Paoli”, avendo avuto in casa, una salda educazione cattolica. In questi anni, intanto, il rapporto Chiesa-Stato non è tra i più amichevoli: fin dalla nascita della III Repubblica, il Parlamento, che contava una maggioranza di deputati del partito radicale, era sceso in lotta nei riguardi delle associazioni religiose riuscendo a varare, il 9 dicembre 1905, una legge che prevedeva una regolamentazione dei rapporti fra Stato e Chiesa, affermando altresì nell’art. 2 che la Repubblica non riconosceva né finanziava alcun culto. Sempre in questo periodo, una delle conseguenze che tale legge provocherà, sarà quella della rottura dei rapporti diplomatici tra Francia e S. Sede, rapporti che verranno auspicati e ripresi dalla Camera del Blocco Nazionale nel 1914. Non è senza motivo che, parlando di Mounier, si sia costretti a parlare anche della situazione sociale francese del periodo in cui egli visse, perché egli ne sarà sempre, consapevolmente od inconsapevolmente, influenzato. La maggioranza dei cattolici, in questo periodo, tra l’altro, è di chiara impronta monarchica e antirepubblicana, avversa in qualche modo ad un’attività che la vedesse impegnata socialmente. Appena nel 1909, padre Anizan, vincenziano, fonderà il primo sindacato di operai cattolici. Questo sindacato però non avrà molto seguito, anche probabilmente per il fatto che i tempi non erano ancora maturi. Diverranno maturi, però, dieci anni più tardi, quando tra il primo ed il 2 novembre del 1919 si terrà il congresso costitutivo della CFTC (“Confédération francaise des travailleurs chrétiens”). Questo sindacato avrà un peso considerevole nei settori – come quello dell’abbigliamento e quello tessile – dove massiccia era la presenza delle lavoratrici. La CFTC, che si voleva rigorosamente autonoma, si terrà distante sia dalle posizioni del padronato che da quelle delle altre due confederazioni la CGT e la CGTU. Tale “autonomia” farà sì che essa non prenderà parte né allo sciopero del 12 febbraio del 1934 né tantomeno al Fronte Popolare. Come si diceva più sopra, la maggioranza dei cattolici era arroccata su posizioni di destra, filo-monarchiche, filo-fasciste, filo-nazionaliste. Il loro organo di maggior rilievo era l'”Action Francaise”, voce del movimento che aveva lo stesso nome. Tale organo era diretto da Charles Maurras, al quale si aggiungevano anche Jacques Maritain e Henri Massis. Jacques Maritain, dal canto suo, uscirà dall’ “Action Francaise” alla fine del 1925, poco prima dunque, che arrivasse da Roma la scomunica del movimento e delle idee da esso propugnate, ad opera del papa Pio XI. Jacques Maritain, professore all’Istituto Cattolico di Parigi, pubblicherà nello stesso anno il suo “Primauté du spirituel” e affermerà con la moglie, di non essersi accorto che Maurras lodava la Chiesa solo come strumento politico, la lodava in quanto romana e non in quanto apostolica. Intanto nel 1927, il 23 giugno, Mounier, dopo aver completato gli studi, consegue il Diploma in Filosofia con una dissertazione dal titolo: ” Il conflitto dell’antropocentrismo e del teocentrismo nella filosofia di Descartes “. Un lavoro importante questo, non in sé, ma perché egli farà costante riferimento, trattando dei problemi a lui contemporanei, alle radici del pensiero cartesiano, come giustamente ha messo in rilievo il Melchiorre. Pochi mesi dopo parte per Parigi, ove decide di presentarsi all’ “agrégation” alla Sorbona e, superata la prova, pensa al soggetto della tesi su cui dovrà lavorare. Mounier non ha fretta però di scegliere tale soggetto, come confessa egli stesso, in una lettera del primo febbraio 1929 a J. Martinaggi:
” Il mio soggetto di tesi ? Lo lascio maturare, poiché una tesi è ai miei occhi un’opera umana più che un’opera intellettuale. Sarà qualcosa sulla frontiera del dominio morale e del dominio religioso, su delle questioni molto attuali….. ” .
Da ciò deriva che Mounier non voleva assolutamente scegliere un soggetto di tesi che non gli fosse poi servito per poter capire meglio il presente. Egli effettivamente, abbandona il progetto della tesi per dirigersi su uno studio del pensiero di Charles Péguy, autore questo, che già in una lettera del maggio 1925, indirizzata a sua sorella, aveva così definito: ” Péguy è una sorgente di consolazione e di speranza… “. Mounier in quel periodo fa parte di un circolo di studi péguysti. A questo circolo partecipavano anche, tra gli altri, Jean Danielou e Georges Izard. Tra Mounier, Marcel Péguy e Jean Danielou nasce l’idea di scrivere un libro sulla figura di Charles Péguy, diviso in tre parti. In seguito, essendo entrato Jean Danielou nei gesuiti, per seguire il noviziato, prende il suo posto Georges Izard. Il volume vede la luce nel 1931 nella collana “Roseau d’Or” presso l’editore Plon, grazie all’amichevole interessamento che J. Maritain, direttore di questa collana, aveva dato loro. Intanto però l’interesse di Mounier era prevalentemente centrato sulla costituzione di una rivista, e già da un anno ne andava parlando con G. Izard. Questa rivista doveva essere in qualche maniera diversa da quelle che già esistevano. Egli, come è stato notato già da più parti, si stava rendendo conto che il mondo occidentale si trovava ad una svolta, o meglio, era convinto che tutto un mondo stava crollando, crollo del quale il giovedì nero di Wall Street ne era solamente il volto economico. Non è infatti vero che egli sia influenzato direttamente dalla crisi del 1929, anche perché, come nota il Caredda:
” La crisi economica scoppiata nell’ottobre 1929 con il crollo della Borsa di Wall Street fa sentire i suoi effetti in Francia con qualche anno di ritardo….Gli anni 1934-1935 sono veramente gli anni della crisi francese….” .
Il pensiero di creare una rivista, di cui Mounier – ma non solo lui – sente l’impellente bisogno e la necessità, è molto forte; egli stesso infatti, afferma in una lettera a J. Chevalier dell’11 aprile 1931:
” (La rivista) grossa questione per me, sulla quale io non prenderò una decisione che dopo aver molto pregato e domandato consiglio a quelli che amo… “.
Il primo numero di questa rivista vede la luce nell’ottobre del 1932, dopo una sottoscrizione fra i vari gruppi denominati ” Amis d’Esprit ” e dopo vari incontri – veri e propri convegni – nei quali si scelse la linea di tale rivista. Già il primo numero contiene un articolo esplicativo, dal titolo ” Refaire la Renaissance “. A fianco della rivista, che doveva servire da base teorica per le nuove generazioni e che aveva molto seguito tra queste – come afferma il Dansette – Mounier aveva creato, in collaborazione con G. Izard, un movimento denominato ” Troisième force “, che doveva, negli intenti dei suoi promotori, porsi in alternativa tra il capitalismo (prima forza) ed il comunismo (seconda forza). Su questo punto non tutti sono d’accordo. Maritain chiama infatti il movimento ” deux bis “, perché vede in esso, più che un movimento distinto dagli altri due “blocchi”, un corollario della cosiddetta “seconda forza”. Già però in una lettera dell’11 aprile 1933, Mounier avvisava Izard di avere l’impressione che:
” …..il Movimento si perde in considerazioni di tattica e in un’incertezza fra le mistiche esistenti, dal neo-radicalismo di Valabrègues al neo-comunismo di Bergery, invece di lavorare al fine di approfondire la sua mistica propria… ” .
Tra l’altro, come se non bastasse, nel ” Programme pour le 1933 ” apparso sul numero di “Esprit” del dicembre 1932, si trova scritto che:
” …il compito più urgente non è sempre il più essenziale né il più amato. Ciò è di importanza capitale: la rivoluzione non è per noi il primo valore, neppure nell’ordine culturale….noi siamo del partito dello spirito prima di essere del partito della rivoluzione…” .
Sembrerebbe, a prima vista, che Mounier qui si contraddica; infatti, continua a parlare, e parlerà anche in seguito, di fare la rivoluzione, e una delle sue opere maggiori, apparsa nel 1935, porterà proprio come titolo: ” Rivoluzione personalista e comunitaria “. In effetti egli qui intende la rivoluzione nel termine più classico, ma anche più abitudinario come appunto uno sconvolgimento, violento, della società, che porta al trionfo di una classe nei confronti delle altre; mentre negli altri passi, la rivoluzione viene intesa – sempre da Mounier – non solo come presa di coscienza del disordine esistente, ma come un modo che permetta di ” arrivare ad un cambiamento di vita e non soltanto ad un mutamento del pensiero, altrimenti si sarebbe avuto un nuovo tradimento dell’uomo e della comunità “, come ha ben sottolineato il Mazzariol. Mounier intende, infatti, la rivoluzione come quel moto che spinge al fine di una sempre maggior riappropriazione del senso dell'”essere”, in un mondo che è invece sempre più teso all'”avere”, alle scelte impersonali, anonime, al mondo del “si dice”. É per questo che Mounier cerca di interpretare l’ “avvenimento”: ” l’avvenimento sarà il nostro maestro interiore… “, scriverà a Jean-Marie Domenach, in una lettera del settembre del 1949, giacché l’avvenimento non è qualcosa che provenga dall’esterno semplicemente, ma nasce dall’incontro tra il fatto storico e la sua interpretazione, e – come afferma Domenach stesso – esso ” non esiste se non provoca una risposta “, perché l’avvenimento non è la conferma delle nostre analisi, ma invece è proprio esso che può rimetterle in questione, e di questo parere è anche il Basurto, che afferma: ” la giusta ottica per capire e per parlare di Mounier è quella che mette a fuoco prima di tutto questa sua disponibilità interiore come presupposto metodologico cosciente “. Nonostante ciò, la “Troisième force” continua ad avere, grazie alla profonda amicizia tra Mounier ed Izard, molto spazio sulle pagine di “Esprit”, almeno fino al mese di luglio del 1933. Nel numero di questo mese, infatti, appare un “Avertissement” firmato sia da Mounier che da Izard, nel quale si avvisavano i lettori che la “Troisième force” non avrebbe più trovato spazio sulla rivista, pur rimanendo intatta l’amicizia tra il direttore di questa con il delegato del Movimento. Mounier vuole, in questa occasione, una volta di più, chiarire che la via che la sua rivista vuole percorrere e percorrerà, sarà quella di una chiarificazione prima di tutto intellettuale, senza per questo cadere nel mero piano della politica attiva. Questo non vuol dire che il gruppo di “Esprit” non prenderà delle posizioni politiche abbastanza nette e precise, ma quando esso lo farà, non sarà per una pura e semplice tattica politica, bensì per scendere in campo ogniqualvolta sarà convinto che in quel momento, o la sua assenza potrebbe significare delle ambigue compromissioni – che tuttavia non ci saranno mai – oppure per rivendicare i diritti inalienabili della persona. É per questo che Mounier vuole mantenere se stesso e la sua rivista al di là delle semplici rivalità politiche, non per questo evitando di attirarsi le ire di coloro ai quali una simile posizione – che egli aveva definito a Jean-Marie Domenach nella lettera citata più sopra, con queste parole: ” L’intellettuale ha come missione (come il sacerdozio) di cercare la verità e di giudicare: homo spiritualis judicat omnia ” – dava molto fastidio. Questa prospettiva di per é molto valida, egli l’aveva già in precedenza chiarita in questi termini:
” prima di lanciarsi alla ricerca del vero si impone una regola d’igiene preliminare: bisogna rinunciare a tutto quello che impedisce al nostro spirito di trovarsi in stato di pura recettività faccia a faccia col vero, sopprimere gli schemi che offuscano la luce naturale “.
Molte invece, saranno le denunce di avversari ostili i quali, non capendola sua posizione, la confonderanno – volutamente o no -con altre determinate soltanto da interessi che non avevano niente a che vedere con quelli che invece spingevano Mounier all’azione, e che giungeranno nelle mani delle più alte personalità ecclesiastiche di Parigi prima, e poi di Roma. Una di queste, la prima, arriverà nel maggio del 1933; Mounier nei suoi “Entretiens” scriverà il 21 maggio di avere forti sospetti che il denunciante fosse Coquelle-Viancé del “Comité des Forges” , irritato da un articolo apparso sul numero di “Esprit” di marzo, riguardante in particolare l’affare “Temps”; in tale articolo intitolato “Naissance d’un esprit public”, si affermava tra l’altro: ” i padroni della stampa…hanno messo la benda sui nostri occhi… “. Tale articolo, firmato da André Ulmann denunciava particolarmente la linea militarista condotta dal giornale sotto la pressione dei suoi padroni e prende lo spunto per ” precisare le nostre accuse di smascherare i potenti…Ecco i nostri nemici “. Il “Comité des Forges” è una roccaforte dell’industria pesante che – come afferma il Caredda -” condiziona gravemente la stesa vita politica francese, e che possiede, più o meno direttamente, vari giornali, come il ‘Temps’, l”Echo de Paris’, la ‘Journèe Industrielle’, ed altri minori ” . Questa denuncia non avrà il risultato che i suoi promotori avrebbero voluto, ma non per questo la rivista di Mounier, avrà – negli anni che seguiranno – una vita facile, sia per le posizioni che essa prenderà, sia anche, per le idee che in essa vi saranno dibattute. Mounier infatti, inizierà in questi anni un dialogo col marxismo che la stessa Ornella Pompeo Faracovi definisce in questi termini: ” il suo approccio col marxismo…(è) in qualche modo il più rigoroso e il più tipico, di una stagione in cui erano in pochi ad avere il coraggio del dialogo dell’apertura “. Effettivamente, i temi che Mounier veniva svolgendo nella rivista, la loro impostazione veramente nuova, la lettura che ne veniva fatta di realtà quali: “il mondo borghese”; “il comunismo”, erano per molti delle cose difficili da masticare se non addirittura da digerire; il numero di marzo, per esempio, ha per titolo: “Rupture entre l’ordre chrétien et le désordre établi”. Una delle intenzioni costanti in Mounier, fin dal’inizio, è stata infatti quella di porre in luce, il fatto di come il mondo borghese si fosse impossessato del carattere spirituale del cristianesimo. In effetti egli voleva dimostrare, andando alla radice della verità evangelica, come degli atteggiamenti, delle posizioni, delle mentalità, che si volevano prettamente cristiane, altro non fossero che prese di posizione di classe. Degli interessi che si presumeva fossero dettati dallo spirito evangelico, non erano dettati da altro che non fosse un semplice ed effimero interesse di classe. L’opera di Mounier si svolge innanzitutto verso coloro i quali, questi cosiddetti cristiani, hanno rifiutato di dialogare perché considerati indegni. In una lettera del 7 marzo 1936 a Pierre-Amé Touchard, egli afferma:
” Nostri amici non credenti (incroyants), che desiderate il Cristo più ardentemente di tanti nostri ‘fratelli’ frequentatori, voi siete i poveri, spogliati dai farisei della pienezza spirituale come gli altri lo sono dai ricchi della sicurezza materiale: voi siete il corpo di Cristo, anche voi… “.
Questo, dei rapporti fra credenti e non, sarà un problema che ritornerà incessantemente, a più riprese durante gli anni successivi. Intanto gli avvenimenti incombono. Nella giornata del 6 febbraio 1934 ci sono, a Parigi, dei violenti scontri tra dimostranti, tutti facenti parte delle cosiddette “Leghe” di matrice prettamente fascista, e la polizia. I dimostranti, radunatisi in Place de la Concorde sulla riva destra della Senna, tentavano di raggiungere attraverso il ponte, il Palazzo dell’ Assemblea Nazionale , che si trova sulla riva opposta. Dopo una giornata di aspri scontri, i dimostranti – tra i quali, numerosi erano quelli della lega denominata “Croix de feu”, capitanata dal colonnello de la Roque – cedettero nel loro tentativo, anche perché, inspiegabilmente, i dimostranti della “Croix de feu”, i quali erano appostati sulla Esplanades des Invalides e quindi si trovavano sulla sinistra dei poliziotti, non intervennero. Essendo, questi moti, di una certa ampiezza e compiuti non da un cerchio ristretto di persone, ma da migliaia, si può spiegare questo fatto come la conseguenza irrazionale alla politica deflazionistica che Poincaré aveva condotto, nel tentativo di preservare la Francia dalla bancarotta, negli anni immediatamente anteriori a questi fatti. Già però, prima che questi moti avvenissero – essendo questi solamente la cartina al tornasole della situazione sociale francese – nel numero di gennaio del 1934, Mounier aveva avuto modo di mettere in guardia i suoi lettori contro i “pseudo-valeurs spirituelles fascistes”, dove nell’articolo intitolato “Prise de position”, affermava tra l’altro: ” Noi chiameremo dunque fascismo, sul piano politico, sociale ed economico, una reazione di difesa del capitalismo… “. Il mese di febbraio, dopo questi moti, segna due avvenimenti importanti; la caduta del governo a causa delle dimissioni del radicale Daladier e la conseguente formazione di un governo di “Unione Nazionale”, presieduto da Doumergue; segna altresì l’inizio dell’avvicinamento dei partiti della sinistra, avvicinamento che porterà al Fronte Popolare del 1936. In questo periodo a parlare della “persona”, il gruppo di “Esprit” non era il solo, anche altre riviste ne parlavano, ma con accenti decisamente differenti, e Mounier lo nota parlando, per esempio, del gruppo di “Ordre Nouveau” – gruppo questo per certi versi con posizioni vicine a quelle di “Esprit”, iniziato nel 1929 esso terminerà definitivamente le proprie attività nel 1938 – affermando che:
” A noi sembra estremamente pericoloso, perché falso, definire la persona, che si richiama con noi, come un ‘atto puro’, un”aggressività creatrice’, una ‘violenza spirituale’. La confusione di queste formule nasconde (draine) un nietzschianesimo troppo sovente scolastico ed un aristocratismo diffuso del quale si vede l’inclinazione sul piano metafisico e su quello sociale “.
La posizione di Mounier è infatti quella di combattere una battaglia su due fronti. Quello della “presenza” – si è visto più sopra con la presa di posizione contro il fascismo in quel particolare momento (queste prese di posizione si avranno spesso e non solo contro questa dottrina) – e quello della “testimonianza”; egli vuol sì esser presente nel mondo, ma è cosciente che questa sua presenza può essere svilita e risultare vana in ogni momento, se non fosse sorretta dalla testimonianza della sua fede che, gli permette di raggiungere una grande chiarezza e lucidità intorno ai problemi che si trovava a dover analizzare e comprendere. Egli sa che la sua è una posizione delicata, perché esposta su due lati a pesanti critiche, che i suoi avversari – esterni e interni – non gli faranno certamente mancare. Perché se da un lato egli vuol capire i movimenti del mondo, del “sociale”, egli vi si deve immedesimare con tutto se stesso, deve rendersi co-partecipe con il mondo, con tutto ciò che di tragico ed impuro esso ha, ma anche con tutta la possibilità di “incarnazione” che esso rende possibile. Mounier ricorderà spesso – a questo proposito – che da parte dei cristiani, della frase evangelica: ” voi siete nel mondo, ma non siete del mondo “, questi ultimi abbiano tenuto a mente, o per comodo o per negligenza, solamente la seconda parte – “non siete del mondo” – trascurando del tutto la prima parte e cioè “siete nel mondo”. Dall’altro lato sarà criticato da coloro i quali avrebbero voluto da lui un più profondo impegno, che fosse maggiormente “engagée”. Egli sa che ad immergersi troppo nell’impegno, invece, può portare all’isterilimento delle idee e dei presupposti, ma dall’altro è ben convinto che a basarsi sulle proprie idee senza un confronto con il reale può risultare alla fine, dannoso; lo vediamo affermare infatti, in un articolo del novembre del 1935, intitolato: “Faisons le point” e dedicato alle attività della “Troisième force”:
” un movimento politico che non avrà guadagnato le masse operaie e contadine, o per meglio dire che non si sarà come ritrovato in esse, si lancia su una via pericolosa se pensa di maturare senza di esse “.
É la testimonianza l’aspetto a cui tiene maggiormente: ” Lasciato a me stesso, io passerò la mia vita a fare di ‘Esprit’ una pura testimonianza – afferma il 5 giugno 1934 – io darò la mia vita affinché questa testimonianza non cess.” Come abbiamo visto questo sarà un impegno prevalentemente dottrinale, più che di tattica politica, ed infatti egli condannerà duramente il fatto che la “Troisième force” abbia aderito al “Front commun” proposto da Thorez, il 10 ottobre 1934 ed affermerà in quell’occasione: “La Troisième foce est morte”. Sbaglia il Castoldi, quando afferma che il gruppo facente capo a “Esprit” assume un atteggiamento polemico nei confronti del cosiddetto ‘realismo’, portando delle riserve di carattere essenzialmente politico. Ciò che più sta a cuore a Mounier è di non confondersi con quelli che potevano essere dei meschini coinvolgimenti dovuti alla mera tattica politica, “ ma una unione organica mi sembra la più pericolosa delle chimere…credo che in ciò voi siete vittime della vecchia concezione dei partiti e dei loro giochi “. Mounier vuole ad ogni costo mantenersi al di là delle parti, al di sopra delle mere tattiche politiche, ed è questo suo atteggiamento che gli permette di smascherare senza mezzi termini gli intrighi che potevano sorgere, come la candidatura Chiappe, personaggio da lui definito ” un uomo manifestamente marcio “, o rispondere senza mezzi termini al generale Castelnau, dirigente del “Front National Catholique”, una potente formazione della destra monarchica: ” Generale, tre figli non bastano ? “, alludendo al fatto che i tre figli del generale erano morti in guerra, ed essendo esacerbato da un articolo di questi definito dallo stesso Mounier pieno di “betise” e “ignominie”. Tutto ciò, tra l’altro, non sarà senza conseguenze, che vedremo in seguito. Nel frattempo, nel luglio 1935, Mounier si sposa con Paulette Leclerq, una bibliotecaria che abitava a Bruxelles e che aveva avuto modo di conoscere grazie ai suoi numerosi viaggi fatti in Belgio, al fine di organizzare dei gruppi di “amis d’Esprit” anche in questo paese. É a Bruxelles che Mounier e sua moglie abiteranno fino al 1938, anno in cui migliorate le loro condizioni finanziarie, si stabiliranno a Parigi. Intanto, nel maggio del 1936, si profilano nuovamente all’orizzonte nubi minacciose per il destino della rivista. Questa volta le cose sembrano molto serie, infatti le inquietudini provengono direttamente da Roma. D’accordo con Maritain, egli prepara un rapporto privato su “Esprit”, da mandare all’arcivescovo di Parigi; in tale rapporto veniva precisata sia la linea ideologica della rivista, sia le posizioni che la stessa aveva assunto dalla sua fondazione fino a quel momento. Le accuse, nate grazie a una campagna sistematica e molto ben organizzata dall'”Action Francaise”, ed in genere da tutta la destra monarchica, ivi compreso il Front National Chatolique, miravano a stroncare tutte le riviste considerate espressioni del cosiddetto “chatolicisme de gauche”. Questa campagna diffamatoria raggiunge il suo scopo solamente in parte. “Esprit” potrà continuare indisturbata le sue pubblicazioni, mentre “Sept”, un settimanale redatto da domenicani, dovrà cessare le proprie dopo qualche mese. Gli avvenimenti intanto incalzano e la guerra di Spagna conduce, volenti o nolenti, a delle chiare e decise prese di posizione che provocheranno una volta di più delle profonde lacerazioni all’interno della Chiesa. Da un lato “Esprit” si trova dalla parte di coloro i quali combattono per la repubblica, minacciata dalle armate del generalissimo Franco; dall’altra, il Vaticano è fra i primi a riconoscere la dittatura franchista. La politica svolta dagli Stati democratici europei, in questo lasso di tempo, non lascia adito a dubbi. É una politica di continui cedimenti, uno più clamoroso dell’altro, cedimenti che culmineranno con l’accordo di Monaco, firmato da Hitler, Mussolini, Chamberlain e Daladier il 30 settembre 1938. Toccato da questo accordo Mounier scrive un opuscolo, pubblicato presso le edizioni du Cerf, col titolo “Pacifistes ou bellicistes?” nel 1939. Il suo interesse, una volta di più, è speso al fine di porre maggiormente in luce le contraddizioni esistenti. Egli infatti afferma che la parola pace non significa, non può significare, la semplice assenza di guerra. Non ci si può, in questo modo, fermare alle semplici apparenze, ma bisogna giudicare dalla realtà delle intenzioni. La guerra, nota ancora Mounier, non incomincia semplicemente con l’uso della violenza fisica, ma si inserisce fra la pace che si vive interiormente e l’odio che, sempre interiormente, si accetta. Egli avverte chiaramente, in questo momento, che più pericolosi non sono coloro che vogliono la guerra, ma coloro che invece ne tacciono, per paura o per calcolo, la sua mostruosa realtà e che ne ” minimizzano la giusta valutazione nella coscienza pubblica “. L’accordo di Monaco prevedeva che il primo ottobre, l’esercito tedesco poteva iniziare la sua marcia verso la Cecoslovacchia per annettersi i Sudeti entro il 10 dello stesso mese. Questo accordo non fu nient’altro che una beffa per chi credeva che così la pace, in Europa, venisse salvaguardata. In sostanza esso sarà un ulteriore passo in favore della politica di potenza che condurrà di lì ad un anno, nel baratro della seconda guerra mondiale. Il 16 settembre 1938, Mounier scrive a Emile-Albert Niklaus:
” Io non sono morto. O non ancora virtualmente, grazie al signor Chamberlain…Noi abbiamo deciso che ‘Esprit’ non scomparirà in caso di conflitto “.
Questi anni, dunque, sono pieni di avvenimenti sul piano politico; l’otto aprile 1938, Léon Blum, leader del partito socialista e primo ministro, dà definitivamente le dimissioni, seppellendo il Fronte popolare, che dal canto suo, era ormai già cadavere. A succedergli al governo, sarà Edouard Daladier, presidente del partito radicale, che abbiamo già incontrato quale firmatario dell’accordo di Monaco. Il sei marzo 1939 le truppe di Hitler invadono la Cecoslovacchia e venti giorni dopo le truppe di Franco entrano vittoriose a Madrid. In settembre, Mounier venne destinato come segretario in un ufficio amministrativo dell’esercito, in quanto a causa di un incidente, aveva perduto un occhio all’età di tredici anni. La sua vita di ausiliario dura sino all’inizio dell’estate 1940. I tedeschi, infatti, avevano aggirato la linea Maginot, e sorpreso l’impreparato esercito francese, avevano concluso vittoriosamente ed in maniera fulminea la loro guerra contro la Francia. Mounier intanto con la sua famiglia si reca a Lione, al fine di trovare qualche lavoro che permettesse loro di vivere e di riprendere le pubblicazioni della rivista. Tra le attività che egli intraprenderà in questo periodo, una in particolar modo va segnalata. Il governo collaborazionista di Vichy lancia la formula “Dieu à l’Ecole”, volendo introdurre nuovamente l’educazione religiosa in classe e combattere così l’anticlericalismo radicale portato avanti da più o meno tutti i governi della Terza Repubblica. Oltre a ciò, tale governo volle creare a Uriage una “scuola quadri”, al fine di poter formare una valida classe dominante utile allo scopo di poter perpetuare la politica vichysta. Vennero chiamati ad insegnare in tale scuola le varie personalità che più o meno avevano il vantaggio di trovarsi nelle vicinanze di essa, nella regione “grenobloise”. Fra questi, venne invitato anche Mounier, il quale ebbe modo di tenere delle lezioni che influenzeranno notevolmente i frequentatori di questa scuola. A Uriage si studia anche ” sistematicamente e il più obiettivamente possibile, il fascismo, il nazismo, il comunismo, la democrazia liberale rigettandole del resto (le prime tre nel nome della filosofia personalista, la democrazia liberale in ragione della sua inefficacia e soprattutto per via dei cattivi ricordi che aveva lasciato durante tutta la III Repubblica) “. Egli volle in questo modo, una volta di più, allargare ad altri ambienti il pensiero che veniva sviluppato nella rivista “Esprit”. Ciò però non sfuggirà al regime vichysta, che sebbene propugnasse una fantomatica “rivoluzione nazionale” capirà che aveva tutto da perdere se avesse lasciato che Mounier continuasse il suo insegnamento a Uriage. La dottrina personalista e comunitaria era in effetti in netto contrasto con la linea assunta dal governo di Vichy. Per questo motivo ” nel marzo 1941, fu dato l’ordine al suo superiore di rimuovere l’abbé de Naurois e di sospendere (ecarter) Emmanuel Mounier “. La traccia che l’insegnamento di Mounier lascerà in coloro i quali lo avevano ascoltato sarà, però, profonda e si rivelerà tale soprattutto in seguito, specie durante la IV e V Repubblica. Ma il suo allontanamento da Uriage non soddisfa, non può soddisfare il regime, che nell’agosto del 1941 decreta l’interdizione alla rivista ” in ragione delle tendenze generali che essa manifesta “. Inoltre, Vichy istituisce una seconda “scuola quadri” che, sotto la direzione di personale scelto, darà ai partecipanti una formazione totalitaria; ciò succede anche in relazione al completo insuccesso ottenuto dal regime a Uriage, in quanto quasi tutti gli alunni di questa entreranno a far parte viva della resistenza. Nel gennaio del 1942 viene arrestato a Clermont un corriere del movimento clandestino “Combat”, nelle sue carte si fa il nome anche di Mounier che a sua volta viene arrestato a Lione il 15 dello stesso mese, trasferito e incarcerato a Clermont-Ferrand il 27, dunque liberato il 24 febbraio ed infine rilasciato in libertà provvisoria nell’aprile. Rientrato a Lione viene nuovamente arrestato e condotto, il due giugno, a Vals-Les-Bains. Dell’esperienza carceraria di febbraio, tuttavia, egli conserva un ricordo positivo perché afferma ” sono profondamente orgoglioso di essere passato da qua. Manca ad un uomo non aver conosciuto la malattia, l’infelicità o la prigione “,e a sua madre, per consolarla:
” non si può dire: è ingiusto; vedi. In molti di questi casi – (aveva citato le esperienze di Platone, Socrate, Cristo, S. Paolo, ecc.) – è stato ingiusto, ma noi sappiamo che la giustizia non progredisce che con un minimo di persecuzione per mezzo dell’ingiustizia o semplicemente del malinteso “1.
A Vals-Les-Bains intanto, egli con altri quattro compagni di prigionia, attua uno sciopero della fame che gli farà perdere undici chili. Tale sciopero, volto allo scopo di far cessare l’internamento, durò dodici giorni, dopo di che grazie al successo ottenuto, Mounier fu trasferito nelle carceri di Lione, dove resterà per oltre tre mesi. Il 19 ottobre viene processato con altre 47 persone, ” medici, industriali, professori, ufficiali, ce n’è per tutti i gusti “. Il trenta dello stesso mese egli può scrivere all’amico Emile-Albert Niklaus: ” la sera: così è, vecchio mio, assolto (col beneficio del dubbio è vero!) “. Dopo la sentenza, Mounier andò a vivere a Dieulefit nel Drone, assumendo il cognome della moglie Leclerq, fino alla fine della guerra. Riesce, dopo numerosi sforzi, a far riprendere a “Esprit” il corso normale delle pubblicazioni nel dicembre del 1944. La linea della rivista è quella di sempre; Mounier è convinto che bisogna lavorare ancora molto, affinché la gente riesca a capire che “Esprit” si prefigge come scopo, quello di servire a tutti i costi la verità. É per questo che le accuse continuano anche nel dopoguerra, essendoci evidentemente ancora molta gente non disposta ad accettare tale idea. Ancora una volta egli è costretto ad affermare che la rivista non è mai stata una rivista di sinistra. Se ne guarda bene dal prendere delle posizioni troppo marcatamente politiche, specialmente in questo tormentato dopoguerra francese. ” Il ruolo della rivista non è quello di indicare un partito e di sostituirsi a degli impegni politici individuali “. Egli è dell’avviso che il ruolo della rivista debba continuare ad essere quello che era stato fino a quel momento; fucina di idee e di proposizioni, un aiuto chiaro e disinteressato – a livello teorico – per quanti volessero impegnarsi a livello pratico. É per questo che già fin dal 1943 Mounier aveva criticato Gilbert Dru, durante un congresso clandestino degli “amis d’Esprit”, tenuto a Dieulefit, avvisandolo che egli e i suoi amici potevano restare strozzati dalla gran massa dell’elettorato cattolico che era rimasto pressoché conservatore. Ciò che puntualmente si verificò in seguito con l’effimera esperienza dell’M.R.P. Il testo della ” Déclaration des Droits des Personnes et des Communautes “, che egli aveva già in qualche modo abbozzato durante l’occupazione, e poi incluso nei numeri di dicembre 1944 e marzo, aprile e maggio 1945, servirà, in effetti, come punto di partenza per la discussione che si svilupperà in seno alla “Commission de la Costitution” costituita nel 1945 46. Lo stesso, tra l’altro, avverrà per la situazione italiana, in quanto il pensiero di Emmanuel Mounier, sarà introdotto nella discussione per la preparazione della nostra Carta Costituzionale da Giorgio La Pira, e troverà la sua esplicazione nell’articolo 2. Intanto, però, il grande lavoro svolto, e le sofferenze patite – la sua prima bambina, Francoise, nata nel 1938, in seguito ad una iniezione sbagliata, era entrata in coma due anni dopo e non doveva più uscirne; morirà nel 1954 – lo scuotono nel fisico. Una prima avvisaglia egli l’aveva avuta nel settembre del 1949, un attacco cardiaco. Non avendogli dato eccessivo peso, e continuando nel suo intenso lavoro, avrà un secondo attacco in febbraio e – ma ormai era troppo tardi – il terzo, l’ultimo, alle ore 2 e 30 della notte del 22 marzo 1950. Dieci giorni dopo avrebbe compiuto quarantacinque anni. Due giorni prima di morire, egli stesso aveva scritto a l’abbé Depierre: ” io vorrei con mia moglie, dare almeno un po’, e prepararmi al giorno in cui gli avvenimenti forse ci spingeranno a donare tutto “.
IL PENSIERO
Uno sviluppo dello spiritualismo francese è rappresentato dal personalismo di Emmanuel Mounier, nel quale confluiscono anche ampiamente (come egli stesso ammise) temi dell’esistenzialismo teistico cristiano. Mounier fu, oltrechè filosofo, pubblicista e uomo politico: nel 1932, come abbiam detto nella sua biografia, fondò la rivista cattolica “Esprit”, che rimase (anche nel dopoguerra) termine di riferimento essenziale per i cattolici di sinistra, non solo francesi. Strenuo avversario del fascismo e vicino al Fronte popolare, durante la guerra di Spagna Mounier si schierò a favore del governo repubblicano, pur denunciando i rischi del totalitarismo comunista e le atrocità della guerra civile. Durante la seconda guerra mondiale partecipò attivamente alla resistenza, fu imprigionato dai Tedeschi per alcuni mesi e successivamente visse in clandestinità fino alla Liberazione. Oltre al “ Manifesto al servizio del personalismo ” (1936), le sue opere fondamentali sono “ Rivoluzione personalistica e comunitaria ” (1936), “ Che cos’è il personalismo? ” (1946), “ Trattato del carattere ” (1946), “ Il personalismo ” (1949). Lo sfondo storico in cui si sviluppa la riflessione filosofica di Mounier è la grande crisi economica conseguente al crollo della Borsa di Wall Street del 1929: in questa situazione di generale arretramento dell’economia, il filosofo francese si propone di indicare una “ terza forza ” , che si contrapponga sia all’individualismo liberistico sia al totalitarismo stalinista. La nuova strada viene ricercata in una filosofia che concepisca l’uomo né come semplice individuo, atomo tra altri atomi e privo di sostanziali relazioni con essi, né come momento di una totalità socio-economica che fagocita la sua specificità. L’individuo deve essere invece concepito come persona , cioè come uno “spirito” che, se da un lato, in quanto tale, è assolutamente unico e specifico, dall’altro è costituzionalmente aperto alle altre persone in una relazione che fa parte dello sviluppo e del carattere della persona stessa. I caratteri della persona sono i seguenti: in quanto spirito, essa è primariamente una realtà inoggettivabile (in ciò risulta evidente l’influenza di Marcel) che si esprime in una creatività assolutamente libera e in uno slancio verso la trascendenza, intesa sia come apertura verso Dio sia come comunione con le altre persone. Ma la persona, malgrado l’inoggettivabilità che deriva dalla sua spiritualità, non è qualcosa di astratto e di sganciato dal mondo materiale: al contrario, essa è incarnata nella realtà corporea e storica e può esplicare se stessa solamente attraverso un’attività pratica concreta. Infine (e qui ci troviamo di nuovo di fronte alla tematica della trascendenza, diretta però alla realtà sociale) il personalismo è essenzialmente comunitario , in quanto la piena realizzazione della persona si ha non nell’individuo, ma nella “persona collettiva” o “persona personale”. Quest’ultima rappresenta l’ideale cui ogni uomo deve aspirare, il “ polo profetico ” verso cui deve incessantemente tendere il “ polo politico ” rappresentato dall’azione della singola persona. La persona, dunque, non è qualcosa di dato e concluso, ma piuttosto un ideale e un compito che l’uomo deve gradualmente realizzare. Il personalismo, che in Francia aveva già trovato espressione nell’ultima fase del pensiero di Renouvier, è rappresentato anche in America (specialmente da un gruppo di pensatori che si raccolgono attorno alla rivista “The Personalist”), in Germania (come componente nel pensiero di Max Scheler e di Martin Buber), nonché in Italia, soprattutto nell’opera del piemontese Luigi Pareyson, che lo congiunge ad una spiccata ispirazione esistenzialistica.
L’IMPEGNO DI MOUNIER
Parlare di “Esprit” significa parlare di Emmanuel Mounier, come dire “Cahiers de la Quinzaine” vuol dire Charles Péguy e “Humanisme integrale” Jacques Maritain. Identificazioni che definiscono uno straordinario periodo della cultura e degli avvenimenti religiosi in Francia tra le due guerre, dominato, anzi ispirato, da questi intellettuali, che a costo della povertà, della prigionia e della fatica non sempre corrisposta, si sono impegnati in un ciclo creativo a favore della elevazione dei più deboli, della salvaguardia della libertà personale e della riconciliazione tra “la vera intelligenza e l’amore” intervenendo – senza confessionalismi e preclusioni – “imprimendovi il sigillo dell’Infinito”. Adesso che la lezione è appresa e condivisa sul piano culturale, l’umanità, ciononostante, continua implacabilmente con le proprie devianze, guerre, ingiustizie sociali, massificazione, edonismo. Assume, allora, un significato parlare ancora dell’avventura e insieme della speranza mounierane come direttive che pongono l’umanità al di là delle tecnologie e delle politiche verso una rivoluzione (perché di questo sempre si tratta) che ci faccia riappropriare della dignità della persona dentro una società libera, comunitaria, pluralistica? Incontrare Mounier non significa solo conoscere la sua concezione filosofica, condividere la sua passione sociale e i suoi ideali cristiani, ma penetrare in qualcosa di non comune, impalpabile, inafferrabile che però alla fine ti penetra e ti illumina. Qualcosa forse di “anacronistico” (in senso positivo) nella nostra epoca eppure di coinvolgente e fecondo, di elevato livello, di commovente; come quando incontri un amico che sa riconoscere la tua sofferenza e darle un senso, uno che ti fa passare dalla realtà al sogno (nel significato di realtà totale che Gide dà a questo termine), uno che ti riesce a convincere che dopo la notte della sofferenza viene la luce. Non ci si illuda di trovare nel suo privilegiare il senso dell’amicizia e della condivisione, un buonismo di marca fideistica confessionale o una pietà intimistica. “Sono un montanaro… di un’indole, la più incerta, la più selvaggia di gusti, tutto sommato impulsiva, e più fatta per la contemplazione distratta del cielo e della terra che per l’azione e per i dogmatismi”. “Esprit”, la rivista che nascerà nel 1932, è una creatura che esprime il suo patrimonio genetico, mostra la gestazione faticosa, il travaglio insidiato a destra e a sinistra, uno sviluppo che infiamma e che rivoluziona. Ma chi era quest’uomo del Delfinato, con alle spalle quattro nonni contadini, un’infanzia serena e meditativa, liceale timido e impegnato, una finestra all’interno percorso dall’angoscia, laurea in filosofia a Grenoble, poi l’incontro con la Sorbona nella grande città indifferente e l’avvio verso una fortunata carriera accademica? È un uomo che attorno agli anni trenta, partecipando al meglio della vita culturale parigina, sente nascersi dentro una diversa vocazione. È l’epoca dei filosofi Blondel e Bergson, poi, Marcel e Berdiaeff. “L’intellighenzia è a sinistra incontestabilmente”: con Gide, Huxley, Malraux, Bloch e altri. Tra i cattolici spicca Maritain che sempre svolgerà un ruolo ispiratore e mediatore. L’influenza di Péguy, morto una quindicina d’anni prima sul fronte della Marna, continua a ispirare Mounier come un padre spirituale. E poi ci sono Pouget, Guitton, De Rougermont, Domenach, e molti altri intellettuali, artisti, religiosi. Frattanto, la situazione storica francese è caratterizzata dall’ordine capitalistico borghese affidato alla vecchia classe che è riuscita a far uscire la nazione dalla crisi del dopoguerra e a far tacere i latenti conflitti sociali e politici, ma c’è disoccupazione, pericolo di inflazione, i giovani in fermento. In Russia si afferma la rivoluzione socialista. In Italia il fascismo è al potere. In Germania si va affermando il partito nazionalsocialista che porterà al potere Hitler. Continua la politica coloniale. Il Giappone inizia la sua espansione verso la Cina. In India Gandhi applica la resistenza passiva. Dentro a questa congerie di avvenimenti che coinvolge masse di uomini e mostra elevati livelli di tensione, quando già si profila all’orizzonte la minaccia di quella che sarà la seconda guerra mondiale, c’è una voce (un coro) in Francia che parla un linguaggio universale e profondo, che vale per i credenti e per i non credenti, per quanti sono giovani e non giovani, per quelli che vivono in solitudine e per quelli che amano ritrovarsi in gruppi di ricerca e di azione, per gli oppressi, per i disperati, per gli ammalati. Voce di uno che sa partecipare per intima vocazione alla sofferenza dell’uomo, che ha il gusto dell’eterno e “dello scandalo che sconvolge senza far rumore” che opera, anzitutto su di sé, “la purificazione interiore da cui scaturisce ogni fecondità”, uno che “testimoni l’Assoluto, porti le condanne che nessuno osa portare, proclami l’impossibile anche se non può realizzarlo”, in una costante revisione e con rigore interno al servizio dello spirito, però che “la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”. Non si tratta di sovradimensionare il carisma di Mounier quanto di valutare questo suo progetto di “restaurazione della persona nel servizio e nel dono che essa deve al mondo”, in armonia tra fede e lavoro dentro un confronto continuo e amichevole con gli altri onde ottenere un vasto consenso nel temporale: perché questa ha voluto essere sin dall’inizio la sua concreta posizione. E questo è il retroterra spirituale e culturale di Emmanuel Mounier quando – a partire dal Natale del ’29 – sente la necessità di uno strumento per intervenire nella radicale crisi della società che lo circonda. Ma, come argutamente annoterà più tardi, “a noi pianisti di venticinque anni, mancava un piano”. Frattanto ha “sacrificato” la passione musicale, ha detto addio per sempre all’Università, non ha ambizioni di carriera e di soldi e si prepara con un gruppo di amici a fondare una rivista. È convinto che non sarà “una rivista nel senso comune della parola, ma la punta e il quadrante di una attività molteplice”, un vero laboratorio di formazione e di nuove soluzioni che occupi necessariamente un ben preciso spazio da difendere con coerenza, un osservatorio disponibile per inchieste nel politico e nel sociale. Si susseguono pressoché quotidiane riunioni di lavoro tra pochi amici o gruppi più numerosi, talvolta nei piccoli caffè presso la Borsa o vicino a Saint Sulpice, in appartamenti, persino nel capannone di una fabbrica, o all’aria aperta sotto gli abeti. Ecco il manifesto che annuncia la pubblicazione di “Esprit” e il congresso di fondazione a Font-Romeu. “Come non essere in continua rivolta contro le tirannie del nostro tempo?” si chiede il gruppo: visto che la scienza è separata dalla saggezza e isterilita in preoccupazioni utilitaristiche, la filosofia mendicante dalla scienza una verità relativa, l’uomo subordinato alla macchina, una vita privata dilaniata e fuorviata, l’evidente materialismo, l’uomo sottomesso ai sistemi e alle istituzioni. Occorre salvare l’uomo ridonandogli la coscienza di ciò che egli è, ricostruirlo a partire dal primato dello spirituale; “è ora di liberare l’eroismo dall’acredine e la gioia dalla mediocrità” (Estratti dal Manifesto). Questa strategia comporta la nascita di un movimento e di gruppi in tutte le città, intorno alla rivista, perché nessuno può rimanere indifferente alle conseguenti azioni culturali e politiche. Ma “che la facciata non abbia più importanza della casa”. La rivista non è una rivista cattolica (“anche se si può essere insieme integralmente cattolici e sinceramente rivoluzionari”), è diversa da una organizzazione di partito. In particolare Mounier mai vorrebbe correre il pericolo di diventare “un produttore di carta stampata… un funzionario della rivoluzione spirituale”. “Per quanto riguarda Esprit non ho l’ambizione che si dica, neanche per i migliori di noi: “Che dinamismo!” bensì: “Che luce!”. Avremo possibilità di essere più vicini a Dio”. Per Mounier si tratta di integralità, non di integralismo. Crede nella distinzione tra spiritualità e moralità (che ricorda da vicino quell’altra tra Religione e Morale tanto cara a Ignace Lepp). Così, in un clima di euforia e di difficoltà, viene stampato nell’ottobre del ’32, a Lilla, il primo numero di “Esprit”. Le reazioni e le recensioni sono subito favorevoli, certi consensi arrivano all’entusiasmo. Si vanno definendo i temi: rottura tra il cristianesimo e il mondo borghese, rapporti col cristianesimo russo, confronto con la Troisième Force; il lavoro e l’uomo, progetto per il rinnovamento economico, la filosofia della persona, ed altri. Occorrerebbe seguire le annate della rivista, i numeri speciali, i saggi, le contemporanee opere di Emmanuel Mounier per capire la portata spirituale e culturale di questa generazione ricca di filosofi, politici, artisti, ma soprattutto di impegno civile, profondità esistenziale, purificazione cristiana senza etichette e formalità, convinzione che il cattolicesimo è incompatibile col “disordine costituito”, apertura ai non-credenti all’interno di un sistema fondato sulla persona umana. Le difficoltà economiche, le tensioni dell’impegno assunto, le ostilità di certi ambienti cattolici (interessante il Rapporto privato – 1936 – con cui Mounier difende “Esprit” davanti al pericolo di una condanna da parte del Vaticano), soprattutto la guerra, con l’invasione tedesca della Francia, la soppressione della rivista e la successiva riammissione, l’imprigionamento del direttore, le partenze, le morti di amici contrappuntano questa straordinaria avventura. Mentre “la cristianità moderna continua a preparare la sua morte” e “l’inferno matura le sue opere e aggroviglia le sue trame in una confusione dove nulla è riconoscibile. Silenzio ai confini dell’orrore”. La storia di “Esprit” coincide con la vicenda umana di Emmanuel Mounier. In un mondo duro di spirito, è riuscito a coltivare amicizie (“C’è forse proporzione tra un’opera letteraria e un gesto di amicizia?”), ha mantenuto pura e imperturbabile la fede religiosa, vivendo fino in fondo la propria avventura cristiana, ha amato, convinto che “l’amore umano insegna molte cose riguardo alle vie dell’amore di Dio”, ha scelto la povertà, ha saldato in modo esemplare vita pubblica e privata mettendosi al servizio dello spirito, ha accettato le sofferenze (“Le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza. La sua grandezza sta nella accettazione… Non ci resta altro che amare … e amare intensamente quelli che Egli spezza per amore”), le lettere alla moglie Paulette Leclercq testimoniano un rapporto fecondo sul piano umano e spirituale. Ma è soprattutto nella prova di Françoise, la sua piccola bambina malata di encefalite progressiva, che Emmanuel Mounier (lui che diceva che “i bambini hanno il cielo nei loro occhi” ma anche che “niente assomiglia di più al Cristo dell’innocenza sofferente”) manifesta il grande spessore della propria fede e la capacità di abbandono all’Assoluto, che ridona rassegnazione, colma il mistero e fa ritrovare quel che pare perduto. “… Dall’amore della nostra bambina che si trasforma dolcemente in offerta, in una tenerezza che la oltrepassa, che parte da lei, ritorna a lei, ci trasforma con lei …”. “Ciò nonostante, Françoise è la nostra corona, per un disegno misterioso. Essa dà, secondo me, un senso concreto, vicino, familiare, all’al di là: luogo nel quale ci diamo appuntamento, nel quale saremo un’altra volta padre e madre di un essere assolutamente sconosciuto, non toccato dal male”. Emmanuel Mounier morirà prematuramente d’infarto miocardico nella notte del 22 marzo 1950. Che cosa può insegnare oggi, con gli scenari che mutano e le imprevedibili scoperte biotecnologiche, l’esperienza di “Esprit”? Mounier non è arrivato sulle bacheche delle chiese e non ha il busto scultoreo nelle anticamere delle sedi di un partito ed è difficile che appaia, anche nella ricorrenza del cinquantenario della morte, sulle pagine patinate delle riviste. Uno che scrive: “Ci troviamo sospesi, tra cielo e terra, sulla corda che non si flette del cristiano; e l’equilibrio può essere mantenuto solo in alto” non può – e non vuole certo – essere l’ispiratore di un movimento politico o un filosofo in cattedra. Ma può ancora parlare alla coscienza e al cuore incoraggiandoci a continuare l’avventura cristiana.
IMRE LAKATOS
A cura di Antonino Magnanimo
“ Non è lecito far morire una teoria di malattia infantile perché una buona teoria per svilupparsi ha bisogno di tempo .”
Imre Lakatos nasce nel novembre 1922 a Debrecen in Ungheria da famiglia ebrea. Il suo vero nome è Imre Lipsitz. Il padre è un commerciante poliglotta di notevole cultura. Studia al Real Gymnasium e poi all’Università di Debrecen dove frequenta i seminari di filologia greca e latina e di storia della matematica. Conosce Eva Ravesz, che più tardi sposerà. Gli studi e la propaganda marxista che Lakatos aveva organizzato illegalmente insieme a un gruppo di studenti negli anni dell’Università sono interrotti dalla guerra e dall’occupazione nazista dell’Ungheria. La madre, la nonna e lo zio di Lakatos, vittime delle deportazioni naziste, moriranno ad Auschwitz, mentre Imre e il padre riescono a fuggire. Lakatos scappa con Eva sotto falso nome e vive con i documenti che si era procurato grazie all’aiuto di famiglie non ebree dalle quali è ospitato. In questo periodo cambia per la prima volta nome diventando Tibor Molnár. Entra a far parte della resistenza antinazista ed è leader di una cellula comunista. È di questo periodo il presunto episodio che sei anni più tardi costerà a Lakatos i lavori forzati. In circostanze mai chiarite, Lakatos fa valere il suo ruolo guida e influenza la decisione di convincere al suicidio Eva Iszack, una giovane ebrea rumena e attivista antifascista, la quale, se catturata, avrebbe rischiato di mettere a repentaglio la vita degli altri tredici membri del gruppo. Nel 1944 Lakatos si laurea in matematica, fisica e filosofia all’Università di Debrecen. Cambia nuovamente nome e sceglie quello di Imre Lakatos. (Lakatos è un cognome molto diffuso nella classe lavoratrice ungherese e significa fabbro). Per qualche tempo è ricercatore all’Università dove frequenta i seminari di estetica di Lukács, rientrato in quel periodo dal suo esilio moscovita insieme ad altri intellettuali comunisti ungheresi. Dal 1947 è alto funzionario del ministero della Cultura e dell’Educazione e si dedica al progetto della riforma scolastica. La forza delle sue idee e le sue qualità intellettuali gli consentono di esercitare un ruolo guida nei ristretti circoli dell’élite comunista. Lo stesso anno ottiene il suo primo dottorato in filosofia, fisica e matematica con una tesi dal titolo “Sulla formazione dei concetti scientifici”. Il 1948 è l’anno della svolta totalitaria del Partito comunista ungherese, ribattezzato Partito del proletariato. Ha inizio la collettivizzazione forzata dell’agricoltura, viene abolita la libertà di stampa e bandita la psicoanalisi. Segretario del Comitato della scienza di partito, Lakatos è coinvolto in un piano di riforma universitaria di impostazione stalinista; stende una lista di professori inaffidabili da sostituire con intellettuali più idonei. La partenza di Lakatos per Mosca segna la fine della sua influenza sulla vita politica e l’inizio dei suoi guai. A causa del suo carattere irriverente e della sua libertà di pensiero si fa non pochi nemici. Al ritorno a Budapest, senza alloggio, vive per un certo periodo in una stanza dell’Eötvös Collegium offertagli dal direttore. Nel frattempo continuano gli interrogatori del Comitato centrale di controllo del Partito comunista. Agli interrogatori fanno seguito le torture e sei settimane di isolamento. Nella primavera del 1950 Lakatos è arrestato e, senza processo regolare, imprigionato per tre anni nel campo di lavoro di Recsk. Prigioniero politico, senza il permesso di leggere e di scrivere, Lakatos racconterà di aver mantenuto la sua integrità mentale raccontandosi una barzelletta al giorno e ricostruendo una a una tutte le dimostrazioni matematiche che conosceva. Nel 1953, all’approssimarsi della morte di Stalin, la pressione sovietica si allenta. Imre Nagy diventa primo ministro, inizia una politica di riforme e chiude i campi di lavoro. Gli ideali comunisti di Lakatos, sopravvissuti all’esperienza della prigione, entrano in crisi con la lettura dei pensatori liberali, in particolare Popper e von Hayek. Nel 1955 conosce Eva Pap e si sposa per la seconda volta. Nel 1956 ritorna all’attività politica all’interno del Circolo Petöfi. Imre fugge a Vienna con la moglie Eva prima di essere nuovamente arrestato. Durante l’insurrezione dell’ottobre-novembre, appena prima di lasciare il suo paese, è coautore della “Dichiarazione del comitato nazionale dell’accademia delle scienze ungherese”. Da Vienna Lakatos si trasferisce a Cambridge. Nel frattempo incontra Popper e partecipa ai suoi seminari alla London School of Economics dove trascorrerà l’intera carriera accademica, eccezion fatta per una breve parentesi, nei primi anni sessanta, all’Università della California. Il governo britannico, per motivi ufficialmente ignoti, non gli concederà mai la cittadinanza, e per il resto della vita Lakatos sarà un senza patria. A Londra diventa amico di Paul Feyerabend, anch’egli allievo e futuro critico di Popper. I suoi interessi slittano verso la filosofia delle scienze fisiche. Il 2 febbraio 1974, a 51 anni, Imre Lakatos muore improvvisamente di infarto. Le opere più importanti sono: ” La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifica ” (1970), ” Dimostrazioni e confutazioni ” (pubblicato postumo nel 1976), ” Matematica, scienza e epistemologia ” (1978). Il secondo conflitto mondiale muta profondamente l’assetto politico, ma anche quello economico e sociale, del mondo occidentale. Contemporaneamente, lo sviluppo scientifico e tecnologico assume proporzioni inedite: si assiste allo sconvolgimento di tutte le categorie tradizionali di riflessione sulla realtà, al ripensamento dei fondamenti di ogni scienza e alla nascita di discipline nuove e di confine, situate al crocevia fra le scienze cosiddette esatte (matematica, fisica, chimica…), le scienze naturali e le scienze dell’uomo. Attorno al 1915 il tedesco Albert Einstein formula la teoria della relatività generale, secondo la quale i concetti di spazio, tempo e velocità non sono assoluti, ma relativi a un sistema di riferimento dato. In seguito a questa scoperta, la fisica conosce progressi straordinari: Max Planck presenta la prima versione della teoria quantistica, che il danese Niels Bohr applica alla struttura dell’atomo; il tedesco Werner Heisenberg enuncia il principio di indeterminazione, secondo il quale è impossibile determinare simultaneamente posizione e quantità di moto di una particella. Lo sviluppo scientifico e tecnologico spinge i teorici della conoscenza a interrogarsi sulla natura, i limiti e le condizioni di validità del sapere scientifico: la riflessione metodologica li conduce in un secondo momento a volgersi verso l’uomo e i suoi comportamenti, allargando le loro considerazioni alla politica e all’etica. A questa concezione, che mette l’accento sui fattori socio-psicologici spesso irrazionali che portano a una fase di frattura rivoluzionaria, il filosofo della scienza ungherese, naturalizzato britannico, Imre Lakatos oppone una convincente difesa della razionalità . Lakatos vuole correggere il “falsificazionismo ingenuo” di Popper, affermando che il progresso scientifico si attua attraverso la competizione non di teorie scientifiche, ma di programmi di ricerca, che costituiscono lo sfondo concettuale generale (la visione del mondo) delle teorie stesse. La posizione di Lakatos si sviluppa quindi in polemica con Popper e con Kunh. Lakatos contesta il principio della falsificabilità di Popper che definisce “falsificazionismo metodologico ingenuo” e propone una versione “sofisticata” del falsificazionismo . Una teoria infatti viene scartata, secondo Lakatos, non perché un’ osservazione empirica la falsifica, ma perché viene proposta un’altra teoria che rispetto alla precedente 1)abbia maggiore contenuto empirico, 2) sappia spiegare perché la prima teoria ha incontrato il consenso degli scienziati, 3) abbia il suo contenuto empirico corroborato dall’esperienza. Lo sviluppo della scienza, pertanto, scaturisce dalla competizione tra teorie in cui prevale la concezione che appare più adeguata a spiegare i fatti. L’idea di fondo dell’immagine della scienza proposta da Lakatos è che la scienza è, è stata e dovrebbe essere una competizione tra programmi di ricerca rivali. Questa idea caratterizza il “falsificazionismo metodologico sofisticato”, concezione che Lakatos sviluppa sulla scia di Popper. Il falsificazionismo metodologico sofisticato si distingue dal falsificazionismo dogmatico e dal falsificazionismo metodologico ingenuo. Il falsificazionismo dogmatico consiste nell’idea secondo cui la scienza si sviluppa attraverso congetture ardite e falsificazioni infallibili. Simile idea, fatta propria e diffusa da alcuni scienziati e filosofi, non è l’idea di Popper ed è sbagliata. E’ sbagliata perché la base empirica della scienza (i protocolli, le proposizioni di osservazione) non è certa, per cui non si danno falsificazioni infallibili o incontrovertibili. Le nostre falsificazioni possono anch’esse essere sbagliate come è attestato dalla logica e dalla storia della scienza. Da parte sua, il falsificazionismo metodologico ingenuo corregge l’errore dei falsificazionisti dogmatici e sostiene,come Popper aveva messo già bene in luce nella “Logica della scoperta scientifica”, che la base empirica della scienza non è infallibile, come non sono incontrovertibili le ipotesi ausiliarie che servono al controllo di quella ipotesi che abbiamo proposto come tentativo di soluzione del problema che ci interessa. Tuttavia, dice Lakatos, nonostante i suoi meriti, anche il falsificazionismo metodologico ingenuo è insoddisfacente, giacché concepisce lo sviluppo della scienza come una serie di successivi duelli tra teoria e fatti. Le cose non stanno affatto in questo modo, in quanto la lotta tra il teorico e il fattuale avviene sempre per lo meno a tre: tra due teorie in competizione e i fatti. Una teoria viene scartata non quando qualche fatto la contraddice, ma solo quando la comunità scientifica ha a disposizione una teoria migliore delle precedente: così, per esempio, la meccanica di Newton venne respinta solo dopo che si era venuti in possesso della teoria di Einstein. Diversamente che in Kuhn, per il quale la comunità scientifica è, di periodo in periodo, egemonizzata da un unico paradigma, la scienza, secondo Lakatos, si sviluppa in una competizione tra programmi di ricerca rivali . Per capire che cos’è un programma di ricerca basterà pensare al meccanicismo di Cartesio o a quello di Newton, alla teoria evolutiva di Darwin e, prima di queste cose, al Copernicanesimo. Un programma di ricerca è una successione di teorie che si sviluppano da un nucleo centrale che, per decisione metodologica, si mantiene infalsificabile; è così che un programma può mostrare il suo valore, la sua fecondità e la sua progressività nei confronti di un altro programma. “Non è lecito far morire una teoria di malattia infantile”, dice Lakatos. E una buona teoria per svilupparsi ha bisogno di tempo. La storia della scienza è e dovrebbe essere una storia di programmi di ricerca in competizione. In polemica con Kuhn, Lakatos afferma che le rivoluzioni scientifiche non scaturiscono dall’accettazione di un nuovo paradigma dovuto a fattori anche irrazionali ed emotivi; se così fosse allora non sarebbe più possibile la demarcazione tra scienza e non-scienza, tra razionalità ed irrazionalità. Secondo Lakatos, le rivoluzioni scientifiche non sono ribaltamenti irrazionali, ma scaturiscono dalla sostituzione di un programma di ricerca con un altro, considerato progressivo rispetto al primo, rimanendo all’interno quindi di una prospettiva razionale. Il contributo che Lakatos porta all’epistemologia contemporanea si può così riassumere:
- per comprendere lo sviluppo della scienza dobbiamo tener presente non solo le singole teorie, ma i programmi di ricerca scientifica all’interno dei quali queste teorie vengono prodotte;
- la storia della scienza è storia di continuo confronto e scontro tra teorie;
- i mutamenti teorici non derivano da accettazione irrazionale di nuovi modelli, ma sono conseguenze di scelte razionali che gli scienziati fanno aderendo a teorie che ritengono essere più in grado di altre di dare spiegazioni dei fatti.
Viene così confermata la concezione razionale della scienza. Per Imre Lakatos la scienza è, è stata e dovrebbe essere una competizione tra programmi di ricerca rivali. Un programma di ricerca (il copernicanesimo, il meccanicismo di Cartesio o quello di Newton, la teoria evolutiva di Darwin, ecc.) è costituito da un nucleo centrale. Nel caso del copernicanesimo è l’idea che il Sole è al centro dell’universo che si mantiene infalsificabile per decisione metodologica. Non dobbiamo far morire una teoria di malattia infantile; una buona teoria ha bisogno di fiato per mostrare il suo valore. Un programma di ricerca va mantenuto finché è progressivo, ed è progressivo se almeno parte delle sue previsioni teoriche ricevono conferma, se ciò esso riesce a predire qualche fatto nuovo. Un programma che corre dietro ai fatti è regressivo. Lakatos non parla di teorie ma di programmi di ricerca scientifici. Questo è il nocciolo della concezione lakatosiana della scienza e della storia della scienza. La scienza , pertanto, è “un campo di battaglia per programmi di ricerca piuttosto che per teorie isolate”. La scienza matura consiste di programmi di ricerca nei quali vengono anticipati non soltanto fatti nuovi, ma, anche nuove teorie ausiliarie; la scienza matura, a differenza del rozzo schema per-prova-ed-errore, ha potere euristico. In questo senso si vede, per Lakatos, la debolezza di programmi che, come il Marxismo e il Freudismo, immancabilmente modellano le loro reali teorie ausiliarie sulla scia di alcuni fatti, senza al tempo stesso anticiparne altri.
ARNOLD GEHLEN
A cura di Luigi Napolitano
1. Il “caso” Gehlen: un filosofo “conservatore”.
Arnold Gehlen è un autore di una ponderosa opera antropologica, sviluppatasi in Germania dal 1927, anno della sua tesi di laurea, sino alla morte, avvenuta nel 1976.
Gehlen resta un filosofo “problematico”, lontano dalle fascinazioni di “scuola” del XX secolo, capace di interessarsi dei più recenti sviluppi delle scienze, mentre ancora si sentiva legato alla tradizionale antropologia filosofica d’inizio ‘900, inaugurata da M.Scheler ed H.Plessner. Un “filosofo” nel senso etimologico del termine, che si è reso, nel tempo, antropologo, biologo, etologo, sociologo ed infine teorico delle istituzioni e “moralista”.
Le controverse scelte teoriche di Gehlen riflettono, d’altra parte, una biografia difficile da raccontare senza tener conto degli sconvolgimenti politici subiti dal suo paese nel secolo appena trascorso.
Nato a Lipsia nel 1904, Gehlen visse, negli anni della sua giovinezza, l’ascesa di Hitler al potere e la costituzione del regime nazionalsocialista in Germania. Iscrittosi nel 1933 al Partito nazional-socialista, divenne da allora un docente universitario rappresentativo del partito e venne assegnato a ricoprire, di volta in volta, cattedre da cui venivano allontanati intellettuali invisi al regime, come il “pacifista” p. Tillich, dell’università di Francoforte, e successivamente il suo stesso maestro di Lipsia, H. Driesch. In breve tempo Gehlen, grazie alla sua vicinanza al partito, raggiunse l’apice della carriera accademica con il trasferimento, nel 1940, come docente “tedesco”, all’università di Vienna, recentemente occupata dal nascente “Terzo Reich“.
Proprio in quell’anno, però, iniziava ad allontanarsi ideologicamente dal nazionalsocialismo, per via della fredda accoglienza ricevuta dal suo scritto L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, opera fondamentale della sua antropologia, in cui il tentativo di una fondazione filosofica, oltre che biologica, dell’Uomo conduce a smentire – a parte qualche marginale ed opportunistica citazione da Rosenberg – le illazioni pseudo-scientifiche sulla presunta “bestia bionda” ariana, che costituivano la base della propaganda razzista del regime.
2. Il “libro” dell’antropologia filosofica.
Il 1935 rappresenta nella lunga ricerca gehleniana l’anno della svolta in senso antropologico.
Dopo aver per lungo tempo polemizzato nei suoi scritti sia contro l’idealismo attardato di una parte della scuola tedesca, sia contro il nascente esistenzialismo di stampo heideggeriano, colpevoli, a loro modo entrambi, di dimenticare la vitalità dello spirito umano, e quindi di essere incapaci di cogliere realmente la condizione dell’Uomo contemporaneo, Gehlen avvertì, finalmente, che l’Uomo occidentale rischiava inesorabilmente di escludersi dalla possibilità di una determinazione responsabile della propria natura.
Seguendo così l’esempio della filosofia nietzscheana, Gehlen tentò un avvicinamento all’esperienza umana che fosse capace di comprenderla evitando le barriere della teorizzazione, ed allo stesso tempo la superficialità e la mera “presa di coscienza” della “riflessione immediata” esistenzialista. Ovviamente, qui s’intende riferire il senso della ricerca gehleniana, senza entrare nel merito delle sue asserzioni, che rientrano d’altra parte, almeno nella prima fase della sua “svolta” antropologica, nel quadro della cosiddetta “Critica della cultura” – Kulturkritik –, nata con lo scritto di O. Spengler del 1920, “Il tramonto dell’Occidente”, che teorizzava la fatale decadenza della nostra civiltà “faustiana“, entrata ormai nella sua fase “cesariana”, “militare” e “tecnica”.
Le considerazioni pessimistiche sul declino e la “decadenza” della nostra cultura conducono Gehlen verso un tentativo di riappropriazione del senso dell’umanità dell’Uomo.
“Der Mensch” giustifica la necessità di un’antropologia “filosofica” proprio a partire dall’urgenza di questa riappropriazione.
C’è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è necessaria un’”immagine”, una formula interpretativa.
(A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), Milano, Feltrinelli, 1983, p. 35)
La necessità di un’interpretazione conduce il filosofo a pensare la sua antropologia come risposta latamente “pedagogica”: a. riconduzione delle diverse ricerche delle scienze cosiddette “umane” e “biologiche” alla domanda fondamentale sul senso della nostra esistenza e della nostra appartenenza alla natura; b. avvertimento della ineludibilità di una “questione antropologica”; ed infine c. riscoperta del senso di un essere che vive costantemente come conflitto l’estraneità del mondo nel quale si trova a dover sopravvivere.
Ma l’intento “pedagogico” gehleniano si rivela particolarmente diretto, infine, ad una nuova concezione della “socialità” umana, come sviluppo determinante della nostra natura. La domanda…
circa se stesso significa: circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini; infatti anche il modo di trattare gli uomini dipende da come li si considera e da come si considera se stessi.
Questo però vuol dire che l’Uomo deve interpretare la sua natura e perciò assumere un atteggiamento attivo e tale da prendere posizione rispetto a se stesso e rispetto agli altri.
(A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 35)
3. “L’argomento Uomo è il più complesso che si dia in generale.”
Quest’avvertimento ricorre spesso negli scritti gehleniani, ed indica chiaramente come la ricerca antropologica, quando voglia essere condotta in modo “filosofico”, cioè sovradeterminata rispetto alle singole interrogazioni sull’Uomo, risulti inevitabilmente stratificata e non possa condurre ad una “risposta” semplice alla sua urgente interrogazione.
Quello che interessa qui è però mostrare come sia stato possibile, per un intellettuale del Novecento, concepire un progetto, che potrebbe definirsi “ingenuo”, di una unitaria sistemazione “elementare”, “biologica”, “generale” e quindi “filosofica” dell’Uomo, e come, nell’ingenuità di questa “visione complessiva”, si riveli la profonda difficoltà della filosofia a raccontare l’”esperienza” dell’umano.
Nietzsche (…) definì l’”Uomo” come l’”animale non ancora definito”. Quest’espressione è esatta, e ha un senso duplice. In primo luogo vuol dire: non sussiste ancora un accertamento di ciò che l’Uomo è propriamente; e, in secondo luogo: l’essere umano è per qualche verso “incompiuto”, non “costituito una volta per tutte”.
(A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 36)
Eppure l’antropologia deve partire dalla possibilità che il proprio oggetto d’indagine sia univoco, unico, unitario. Si giunge così a dover ammettere che, se pure la filosofia gehleniana tende ad un qualche “monismo” rappresentativo, il metodo antropologico non può che essere immerso in una pluralità di metodi, che a loro volta indagano una pluralità di “possibili” Umanità.
L’antropologia gehleniana, nel tentativo di evadere dalla particolare situazione di impasse epistemologico si vuole a questo punto come “antropo-biologia“:
Penso io stesso in termini biologici. Mi si conceda, infatti, il presupposto (…): che nell’Uomo si dia un progetto globale della natura, un progetto affatto unico, mai altrimenti tentato.
(A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 41)
La costituzione del corpo umano risulta “originale” ed “imprevista”, una sorta di “deviazione” dalla legge evolutiva naturale che vuole l’organismo “adattato” ad un “ambiente” particolare.
Di fatti, secondo Gehlen, l’Uomo rappresenta in generale un “essere manchevole” (sorprendentemente richiamandosi qui al Mängelwesen marxiano), sprovvisto di organi specializzati con cui “adattarsi” alla natura di un “ambiente” particolare. All’Uomo non corrisponde un ambiente, un habitat (Umwelt) particolare ed è stato costretto, da questa essenziale deficienza, ad “aprire” letteralmente la propria costituzione, “maneggiando” il mondo esteriore, adoperandolo al fine di “costruire” un Mondo (Welt) che si confacesse alla sua sopravvivenza.
L’essere umano risulta quindi essere “ingenuo” per eccellenza, costretto a “fare esperienza” del Mondo, per renderselo “familiare”, ovvero “assoggettarlo”.
L’appropriarsi del mondo è un’appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo in uno con la sua costituzione è sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita.
(A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 78)
L’esigenza di una “conduzione” (Zuchtung: che significa essenzialmente, “disciplina”), deriva dalla mancata specializzazione, oltre che strettamente “organica”, dell’essere umano dal punto di vista “pulsionale”. Di fatto, l’assenza e l’inutilità di comportamenti “istintivi”, in un essere che non possiede un “ambiente” a lui con-specifico, costituisce il motivo della sfrenata vita “pulsionale” umana. Il desiderio umano non conosce limiti “naturali”, in quanto propriamente non conosce “desideri naturali”. Eppure, poiché l’Uomo non è in grado di “re-agire” all’ambiente, egli deve “agire”, e l’Azione, per poter essere condotta ad un esito favorevole, deve essere in qualche modo posta sotto una “guida” che sia estranea alle esigenze del presente, deve poter essere “progettata”.
La sua stessa “eccedenza pulsionale” aiuta, a questo punto, l’essere umano che riesce a “godere” dei propri movimenti di “maneggio sul mondo”, e quindi a “desiderare” letteralmente di apprendere le “possibilità esecutive” del proprio corpo in esse.
Secondo Gehlen, la particolare “plasticità” del corpo umano, non “specializzato” dal punto di vista strettamente naturale, ed in particolare la creatività insita nel sistema di collaborazione dell’occhio con la mano, consentono infine all’Uomo di creare i presupposti per lo sviluppo “tecnico” delle proprie funzioni elementari, in vista del passaggio alle cosiddette funzioni “superiori”, o meglio “secondarie”, quelle del linguaggio, in primo luogo, quindi del pensiero, ed infine della socializzazione.
Plasticità (…) significa: da un ventaglio non ancora operante di possibilità occorre far risaltare, mediante l’autoattività nel maneggio delle cose, una scelta e costruire un variabile ordine di conduzione (…) essa significa sempre questa connessione di scelta automediata, architettonica (cioè rapporti variabili di conduzione e di subordinazione) e di adattabilità a quasi ogni situazione, a differenza dell’adattamento già predisposto.
(A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 200)
“Con grande facilità — avverte Gehlen — si commette l’errore d’ordine generale di localizzare l’intelligenza dell’Uomo nella sua testa” (p. 397). Di fatti, condizione indispensabile della nostra intelligenza risulta essere la nostra particolare costituzione morfologica e sensoria, biologica in senso lato, il modo cioè “particolare” e “problematico” in cui l’Uomo giunge alla “vita”.
La possibilità di un padroneggiamento delle proprie azioni, in vista del “padroneggiamento” dell’ambiente circostante, deriva in effetti dalla particolare “situazione” esistenziale dell’Uomo. Mentre l’animale “vive” il Mondo a partire ed in vista del proprio corpo, l’essere umano è in grado di “situare” la propria coscienza, in vista dell’azione futura, al di là dell’immediatezza del presente. L’Uomo è cioè in grado di “ignorare” il proprio corpo, e proprio in questa sua capacità, per così dire “ascetica”, risiede il segreto della sua “vitalità” e del suo sviluppo.
Il principio che di fatto caratterizza maggiormente l’antropologia gehleniana in senso “pragmatico” è quindi quello dell’ Esonero (Ent-lastung: ovvero lo “s-gravarsi” dal peso della situazione contingente in vista di una sua futura soluzione).
L’Uomo deve trovare a se stesso degli esoneri (Entlastungen) con strumenti e atti suoi propri, cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi in vita.
(A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 63)
Il nostro “vedere” (sehen) tende immediatamente a divenire “visione panoramica” (über-sehen: che è anche tralasciare, non vedere, vedere di scorcio) delle cose in vista della loro “utilizzabilità” pratica in quanto “oggetti” a noi disponibili. L’intelligenza umana consiste nella capacità di ridurre la “resistenza della cosa” (“Sach-zwang“: imposizione della “cosa”) ad “Oggettività” (“Sachlichkeit“: cosalità), ad “abitudine” cui è premessa una “presa” di posizione spontanea verso la “cosa” stessa, considerata nell’ambito del Mondo propriamente “tecnico”, ovvero “culturale”, che l’Uomo ha saputo costruire per se stesso.
4. Il “dopoguerra”.
Mai A. Gehlen si presentò in divisa di partito ai propri studenti, né si può dire che rimanesse particolarmente affascinato dai desideri di conquista dei “pangermanisti”. Egli apparteneva piuttosto a quell’alta borghesia tedesca che aderì al nazionalsocialismo per un’ideale conservatore e patriottico, frustrato dalla situazione post-bellica. La sua collusione con il partito fece in modo comunque che, dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del regime nazista, Gehlen venisse senz’altro allontanato dall’insegnamento in Austria e quindi assegnato a coprire cattedre di minor rilievo in Germania.
Nel 1945, spinto da interessi di ricerca nuovi, e forse anche dalla particolare situazione tedesca nel secondo dopoguerra, Gehlen dichiarò infine di aver abbandonato la filosofia – a suo dire capace, ormai, di risolvere unicamente questioni dogmatiche – in favore di studi sociologici che lo avrebbero condotto ad una profonda revisione dei suoi scritti filosofici, nonché a nuove polemiche con gli intellettuali tedeschi che lo considerarono un filosofo di regime divenuto, con la democrazia, teorico della “conservazione”.
In particolare con “Le origini dell’Uomo e la tarda cultura“, del 1956, la sua sociologia si propose infatti, come “teoria delle istituzioni”, ritenute necessario freno della tradizione contro la dispersione dei saperi e la disgregazione sociale che travolgono l’Uomo contemporaneo.
Le istituzioni mettono al sicuro una parte dell’esistenza e dell’efficacia dell’Ideale, e in ultima analisi quindi lo servono, se sottraendolo all’infido terreno della soggettività lo conducono sul solido piano delle realtà, dei bisogni e degli interessi ragionevoli.
(A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica (1956), Milano, SugarCo, 1984, p. 203)
Nel 1957, forse in risposta ad Heidegger, Gehlen scrive L’Uomo nell’era della tecnica, testo con il quale egli ritiene di adottare il metodo nuovo ed originale della psicologia sociale per smentire le “trenodie malinconiche” dell’idealismo di fronte all’avvento dell’era tecnologica.
La critica storico-culturale, largamente affermatasi in Germania fin dalle opere di Nietzsche e di Spengler, rinuncia di rado ad una certa intonazione polemica nei confronti della tecnica. È questo un sintomo evidente del fatto che la nostra società non ha ancora concluso l’interno conflitto con i mutamenti radicali verificatisi nel suo seno a seguito dell’industrializzazione.
(A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, cit., p. 9)
Essenziale per Gehlen rimane il fatto che:
La tecnica è vecchia quanto l’Uomo (…) E già il rozzo cuneo di pietra focaia nasconde in sé la stessa ambiguità che oggi è propria dell’energia atomica: era un utensile da lavoro ed in pari tempo un’arma micidiale. Nell’Uomo qualsiasi trasformazione degli aspetti originari della natura al servizio dei propri scopi è intrecciata fin dagli inizi alla lotta con i suoi simili…
(A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, cit., p. 10)
Il decadentismo ed il nichilismo, che avevano trovato in Gehlen una prima risposta nell’antropologia, possono ora considerarsi superabili sulla base di una nuova constatazione prettamente “sociologica”
Non si può conservare la cultura accanto all’apparato [delle nuove tecnologie: n.d.r.] ma solo salvarla inserendola in esso.
(A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, cit., p. 202)
E la spersonalizzazione, che gli idealisti lamentano nella nuova era tecnologica, rivela in realtà che il culto dell’individuo è meramente culturale…
Una personalità: è questa un’istituzione per un solo caso.
(A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, cit., p. 204)
L’ultima fase del lavoro gehleniano fu dedicata alla polemica con alcuni filosofi emergenti del ’68 tedesco, assertori dell’utopia del “nuovo Uomo”, proprio in quanto la sua nozione di “intellettuale” lo spinse, sino all’ultimo, a rifiutare la possibilità che il presente potesse essere ideologicamente strumentalizzato in vista di quello che per lui rimaneva, comunque, un ideale metafisico.
L’opera di A. Gehlen si presenta, infine, proprio nell’ambiguità e nell’”ingenuità” di certe sue prese di posizione, come lavoro di intensa ricerca, continuo “fare esperienza” dell’inattingibilità dell’uomo contemporaneo.
Per un approfondimento e per una possibile soluzione ad eventuali dubbi, fornisco di seguito una
Breve bibliografia delle opere gehleniane tradotte in italiano,
A. Gehlen, Von Wesen der Erfahrung (1936); tr. it.: A. Gehlen, Della natura dell’esperienza, in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cura e presentazione di E.Mazzarella, prefazione di K.S.Rehberg, trad. it. di G.Auletta, Guida, Napoli, 1989.
A. Gehlen, Die Resultate Schopenhauers (1938); tr. it: A. G., I risultati di Schopenhauer, in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), Wiesbaden 197812; trad. it: A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, introduzione di K.S.Rehberg, trad. a cura di C.Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1983.
A. Gehlen, Una immagine dell’Uomo (1941), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, V.Pareto e la sua “scienza nuova” (1941), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Per la sistematica dell’antropologia (1942), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehllen, Forme e destini della ratio (1943), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Su alcune categorie del comportamento liberato, in particolare di quello estetico (1950), in G.Carchia — R.Salizzoni, Estetica e Antropologia, Torino, Rosenberg & Tellier, 1980, pp. 135-147.
A. Gehlen, Lo stato attuale della ricerca antropologica (1951), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, L‘immagine dell‘Uomo alla luce dell‘antropologia moderna (1952), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen (1956); trad. it.: A. Gehlen, Le origini dell’Uomo e la tarda cultura, prefazione di R.Màdera, trad. it. di E.Tetamo, Milano, Il Saggiatore, 1994.
A. Gehlen, Per la storia dell’antropologia (1957), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter (1957); trad. it.: A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, prefazione di A.Negri, trad. it. A.Burger Cori, Milano, Sugarco, 1984.
A. Gehlen, L’immagine dell’Uomo nell’antropologia moderna (1958), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Sulla nascita della libertà dall’estraneazione (1960), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Della cristallizzazione culturale (1961), in p. Prini, Il mondo di domani, Roma, Abete, 1964, pp. 489-494.
A. Gehlen, Un modello antropologico (1968), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Antropologia filosofica e ricerca sul comportamento (1968), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Progressi nella ricerca sugli istiniti nel caso dell’Uomo (1970), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Gehlen, Antropologia filosofica (1971), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
Breve bibliografia degli scritti più significativi su Gehlen pubblicati in Italia:
F.G. Di Paola, La teoria sociale di A. Gehlen, Milano, Angeli, 1984.
U. Fadini, Antropologia “negativa” e teoria delle istituzioni in A. Gehlen, in “Cultura e scuola”, n.82, 1982, pp. 119-128.
U.Fadini, La misura dell’istituzione e la sua crisi. Note su A. Gehlen, in “Intersezioni”, n.2, 1982.
U. Fadini, Le ragioni del sistema tra Gehlen e Luhmann, in “aut aut”, 197-198, 1983.
U. Fadini, Le peripezie dell’umano: la composizione dell’io in A. Gehlen, in “Paradigmi”, n.5, 1984.
U. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, Antropologia e Tecnica in A. Gehlen, Milano, Angeli, 1988.
U. Fadini, Antropologia filosofica, in La Filosofia, diretta da p. Rossi, vol.I, Le filosofie speciali, Torino. UTET, 1995.
U. Galimberti, Psiche e techne, l’Uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999.
J. Habermas, Antropologia (1958), trad. it. in AA.VV., “Enciclopedia Feltrinelli —Fischer, Milano, Feltrinelli, 1966.
W. Lepenies, Antropologia filosofica e critica sociale. Sulla controversia Gehlen-Habermas, in W.Lepenies — H.Nolte, Critica dell’antropologia (1971), trad. it. L.Sosio, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 79-106.
W. Lepenies, Melanchonie und Gesellschaft (1969); trad. it.: W.Lepenies, Melanconia e società, Napoli, Guida, 1985.
E. Mazzarella, Presentazione, in A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
A. Negri, A. Gehlen: antropologia elementare e psicologia sociale, prefazione ad A. Gehlen, L’Uomo nell’era della tecnica, op. cit., trad. cit., 1984.
M.T. Pansera, L’Uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di A. Gehlen, prefazione di V.Cappelletti, Roma, Studium, 1990.
G. Poggi — C. Ryan, Arnold Gehlen e i presupposti antropologici della teoria volontaristica dell’azione sociale, in “Rassegna italiana di sociologia”, 3, 1967, pp. 353-382.
K.S. Rehberg, Die “elementare” Anthropologie Arnold Gehlens, introduzione a A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden 197812; trad. it: K.S.Rehberg, L’”Antropologia elementare” di A. Gehlen, in A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, op. cit.
K.S.Rehberg, Prefazione, trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, op. cit.
Per una bibliografia sistematica di A. Gehlen e degli scritti critici sul mio autore si vedano: F.G. Di Paola, La teoria sociale di A. Gehlen, Milano, Angeli, 1984, Riferimenti bibliografici, pp. 159-163: pp. 156-158;
U. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, Antropologia e Tecnica in A. Gehlen, Milano, Angeli, 1988, Nota bibliografica, pp. 269-270;
M.T. Pansera, L’Uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di A. Gehlen, Roma, Studium, 1990, note dalla 1 alla 6 dell’Introduzione, pp. 42-45.
L’Uomo secondo Arnold Gehlen
A cura di Francesco Boco
Capita che ci si dimentichi di cose importanti e capita che finiscano nel dimenticatoio libri fondamentali per il loro messaggio e per la loro attualità.
Sembra che questa sorte sia toccata ad Arnold Gehlen ed alla sua opera principale, L’Uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo (Feltrinelli 1983). Opera densa e ricca di idee su cui riflettere.
Arnold Gehlen
Arnold Gehlen nacque a Lipsia il 29 gennaio 1904, dal 1923 al 1925 frequentò a Colonia le lezioni di Max Scheler e di Nicolai Hartmann, nel 1926-27, ma anche negli anni precedenti, studiò a Lipsia filosofia, tedesco, storia dell’arte, fisica e zoologia. Laureatosi nel 1927, dal 1930 ottenne la libera docenza in filosofia con lo scritto Spirito reale e spirito irreale.
Dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo nel semestre estivo del 1933 venne chiamato a sostituire il destituito Paul Tillich alla cattedra di Francofotre. Il 1° novembre 1934, all’età di trent’anni, divenne il successore di Hans Driesch presso la cattedra di filosofia dell’Università di Lipsia. Favorito certamente dall’appartenenza convinta all’NSDAP nella sua carriera universitaria, è però riconosciuto che nelle nomine universitarie di Gehlen abbiano svolto un ruolo di primaria importanza le sue doti filosofiche.
Nel 1938 venne chiamato alla cattedra di filosofia dell’Università di Könisberg, quella che fu di Kant, e nel 1940 si trasferì all’Università di Vienna.
Gehlen uscì dal Partito nazionalsocialista (al quale si iscrisse nel maggio 1933) al più tardi al principio degli anni quaranta, a causa di crescenti tensioni, soprattutto riguardo l’organizzazione della Società filosofia tedesca, della quale divenne presidente nel 1942.
Dopo la fine della guerra venne privato della cattedra, ma non figurando come un attivo nazionalsocialista, venne poi nominato membro corrispondente dell’Accademia austriaca di scienze. Nel 1947 fu nominato professore ordinario di sociologia alla Scuola superiore di scienze amministrative di Spira.
Dopo il 1945 egli si distaccò apertamente dalla filosofia, ritenendo che solo le scienze potessero rispondere ai problemi sviluppatisi nella filosofia.
Nel 1961 fu nominato, dopo esitazioni di natura politica, alla nuova cattedra di sociologia della Technische Hochschule di Aquisgrana per la Renania-Vestfalia, dove insegnò fino al pensionamento nel 1969.
Il suo ultimo libro è Morale e Ipermorale, scritto nel 1969, disponibile anche in italiano; il Mulino ha recentemente ristampato la raccolta di articoli Prospettive antropologiche.
Morì ad Amburgo il 30 gennaio 1976.
L’Uomo
Der Mensch venne pubblicato nel 1940, per poi essere profondamente rielaborato nel 1950, fu il libro in cui Gehlen fondò la sua “antropologia filosofica”.
In apertura al testo Gehlen definisce l’uomo come un essere carente, non definito, che prende posizione e può disporre non soltanto di se stesso ma anche dell’esterno. Qualche pagina dopo definisce ulteriormente l’uomo come un essere che agisce (pag. 49-50). L’azione condensa in certi luoghi il nesso del somatico e dello psichico.
Partendo dalla sentenza nietzscheana secondo cui l’uomo è un compito, Gehlen ne trae le conseguenze: l’uomo deve realizzare se stesso nel mondo che lo sovrasta attraverso l’agire, costruendo e creando condizioni favorevoli alla sua esistenza.
È utile citare un passo tratto da uno dei capitoli finali, in cui l’uomo viene definito come «un essere aperto al mondo, cioè non specializzato, che per poter vivere si affida alla sua propria attività e intelligenza e che, esposto al mondo in ogni senso, deve mantenervisi, appropriandosene, elaborandolo da cima a fondo, riconoscendolo e ‘prendendolo nelle sue mani’ », diversamente dall’animale, «ha bisogno di una situazione pulsionale aperta al mondo.» (pagg. 383-384)
L’antropologia filosofica di Gehlen, che noi d’ora in avanti considereremo semplicemente filosofia, sprona l’uomo ad assumersi come compito a se medesimo, e non soltanto rivolto verso l’esterno.
«Come Prometeo, è obbligato a dirigersi su ciò che è lontano, su ciò che non è presente nello spazio e nel tempo; vive – a differenza dell’animale – per il futuro e non nel presente.» (pag. 59)
Un punto su cui Gehlen a lungo insiste, e che fa da fondamento alla sua dottrina e alla sua visione dell’uomo, è la distinzione, la netta differenza, che intercorre tra l’uomo e l’animale.
La Parte prima, intitolata Il peculiare posto morfologico dell’uomo, intende infatti spingere l’antropologia fuori dall’evoluzionismo darwinista, per giungere ad una definizione di uomo visto non più come il risultato perfezionato di una lunga graduale evoluzione che conduce fino ad esso; piuttosto si dimostra che l’uomo è un essere carente, privo delle protezioni e delle armi naturali di cui dispone ogni animale, privo di sensi particolarmente sviluppati ,come pure sostanzialmente privo di quegli istinti che gli permetterebbero di sopravvivere nella natura come guidato da automatismi.
L’uomo è quindi caratterizzato da primitivismi, cioè dall’assenza di qualsiasi specializzazione, di qualsiasi innata caratteristica che gli permetterebbe di sopravvivere senza bisogno d’altro in un dato ambiente.
L’uomo è invece capace, a differenza di qualsiasi animale, di adattarsi a qualunque clima, egli infatti è presente praticamente su ogni superficie della Terra, e soltanto grazie all’azione, al suo volgersi al futuro, l’uomo sopravvive, creando ciò di cui è naturalmente carente.
Entra in gioco quindi un termine chiave della trattazione gehleniana: esonero.
Attraverso processi d’esonero l’uomo, esperendo il mondo, lo riduce e concentra in simboli, così da acquistare visione panoramica e capacità di disporre; in questi processi ottiene il dominio su una molteplicità non limitata di movimenti. Il mondo è per l’uomo, diversamente dall’animale, un campo di sorprese infinite in cui deve in primo luogo sapersi orientare.
«Gli atti con i quali l’uomo assolve al compito di render possibile la sua vita vanno quindi considerati sempre da due versanti: da un lato si tratta di atti produttivi, grazie a cui egli ovvia agli svantaggi rappresentati dalle sue carenze – cioè di esoneri, di agevolazioni -, dall’altro di strumenti che l’uomo attinge in se stesso per dirigere la sua vita, e che rispetto all’animale sono interamente di nuovo genere.» (pag. 63) L’uomo infatti si caratterizza non per il semplice uso casuale di uno strumento che capiti sotto gli occhi,ma piuttosto per la fabbricazione di uno strumento in vista di uno scopo futuro.
L’uomo è esonerato – diversamente dall’animale, che non può mai esserlo – anche dalla situazione in cui si trova, infatti egli può agire in un certo modo indipendentemente da scopi o necessità, le sue capacità gli permettono di compiere azioni perfettamente “inutili”, ad esempio il gioco.
Nell’animale il gioco è sempre finalizzato e non è affatto esonerato, così come il sesso nell’uomo può essere esonerato, nell’animale ha sempre scopo riproduttivo.
«L’esonero è un esonero totale: l’uomo si muove in movimenti ben riusciti, impegnabili in modo variabile, non pulsionali, all’interno di uno spazio allusivo popolato di cose familiari e accantonate; e inoltre nell’indipendenza di principio della sua vita percettiva e motoria dalle sue pulsioni.» (pag. 256)
La vita pulsionale dell’uomo dev’essere orientabile, poiché egli agisce; è cioè necessario che la vita pulsionale vari col continuo variare delle condizioni del suo appagamento.
Dai processi d’esonero sorge per naturale sviluppo il linguaggio.
Altra forma di esonero fondamentale per l’uomo è il linguaggio, che lo distingue ulteriormente dall’animale, e ne caratterizza l’intelligenza e la spiritualità.
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«La peculiare somiglianza tra linguaggio e mano non è soltanto nella possibilità che i due sistemi hanno di essere indipendenti in ampia misura dalla situazione motoria complessiva, ciò essendo implicito nella loro qualità di organi guida. Essa è anche e soprattutto nel fatto che soltanto in quei due ambiti la nostra propria attività è elementarmente creativa, nel senso che moltiplica la ricchezza sensoriale del mondo. Al mondo muto il nostro linguaggio aggiunge quello sonoro, e la nostra mano, maneggiando le cose, infrangendole o elaborandole, ne cava qualità tattili e anche visive sempre nuove. (…) Per questo, qui, le fonti di una vita sensomotoria, comunicativa estremamente concentrata sono quelle nelle quali affluisce ora anche la nostra vita immaginativa. Linguaggio e immaginazione linguistica, lavoro manuale e sue fantasiose variazioni sono poteri originari che si sprigionano nei punti in cui si concentra la vita sensomotoria, che è di per sé una dimensione intelligente.» (pag. 173)
È attraverso il linguaggio che il mondo e le cose si fanno intime e partecipi della nostra esistenza, è il linguaggio che permette la rielaborazione della realtà necessaria all’agire, ed il linguaggio è nei bambini il tramite grazie al quale la motilità assume significato, per cui se ad un urlo si ottiene aiuto il bambino ripeterà quel verso nel momento del bisogno.
Ma la differenza dall’animale sta ancora una volta nell’importanza fondamentale dell’esonero.
L’uomo può utilizzare il linguaggio in modo esonerato, cioè slegato dalla necessità della contingenza, l’animale no. Ad esempio il bambino potrà strillare pur non essendosi fatto male, per il solo piacere di attirare l’attenzione dei genitori.
Le abitudini sono il prodotto dell’esonero, come un comportamento superiore che permette di essere slegati dal presente per proiettarsi nel futuro, il destino dell’uomo in quanto essere che agisce.
La vista ci permette di acquisire simboli, e grazie ad essi possiamo valutare le possibilità dell’agire, prima di compiere l’azione: siamo anche qui di fronte ad un processo di esonero. L’immaginazione motoria si lega a dei simboli ed al linguaggio, la percezione visiva su cui maggiormente si basa l’apertura dell’uomo al mondo è il mezzo grazie al quale l’uomo accoglie in una visione “panoramica” simbolica la realtà e le possibilità che gli si aprono.
«L’animale ha una “ambiente”, non un mondo.» (pag. 210)
«Il linguaggio è un’intima componente delle prestazioni motorie dell’uomo» (pag. 263); come detto l’immaginazione motoria, cioè la capacità di adattare le prestazioni motorie alle infinite circostanze, è legata al linguaggio ed al modo in cui il mondo viene codificato dall’uomo nel processo di neutralizzazione ( nel moto che rende il mondo neutro). Il mondo viene infatti reso “intimo” dall’uomo, e soltanto così egli può modificare l’aspetto delle cose e della realtà che lo circonda.
«La parola dunque è soprattutto reale azione, e non si dovrà mai trascurare questo aspetto della conduzione motoria effettiva. Che questa azione riavverta se stessa sensibilmente – si oda, in questo caso – è un fatto che condivide con le altre azioni comunicative esonerate, per esempio con i movimenti tattili.» (pag. 289)
Attraverso il linguaggio le intenzioni si fanno pienamente volontarie grazie anche alla funzione della memoria – le cui rappresentazioni sono esonerate – e alla possibilità del ripetersi di situazioni già affrontate, oppure dall’aprirsi di nuove prospettive.
Gehlen scrive che «l’uomo non può vivere nel presente, vive nel futuro, ovvero – e la cosa non è diversa – vive agendo. Se non che, il materiale della sua attività è circoscritto al presente, è un circoscritto materiale del presente.» (pag. 343) Egli esce dalla semplice prospettiva presente grazie alla possibilità datagli dal pensiero di radunare le esperienze vissute e avendo quindi la capacità di progettare l’avvenire in un mondo per sé tollerabile.
Il linguaggio racchiude nel nominare stesso una capacità esonerante, che non muta la realtà, ma ad essa allude attraverso uno sforzo minimo, è la condizione della “teoria”.
La parola sorge dunque attraverso il collegamento fonetico – motorio degli organi di senso: occhio e orecchio. Il parlare sorge originariamente nel pensiero per poi fluire all’esterno nel moto suono udito – suono ripetuto – suono riavvertito, la comunicazione rappresenta dunque un punto d’arrivo in cui il linguaggio si interseca in un punto, i nostri impulsi ed i nostri interessi si articolano nella parola ed in essa si direzionano verso l’esterno.
La storicità dell’uomo si manifesta allora nella comunità e nel formarsi della cultura dalla regolamentazione degli impulsi fondamentali.
Ogni cultura infatti obbedisce alla necessità di elaborare una gerarchia di regole che riguardano le azioni richieste, concesse e proibite come pure i bisogni della comunità; questo è possibile grazie alla plasticità delle pulsioni umane.
Il formarsi di civiltà è legato all’autodisciplinarsi degli uomini, dalla imposizione di leggi e di una gerarchia di valori condivisa. «Disciplina come educazione e autoeducazione, subordinazione e guida, attività volta all’esterno e lavoro costituiscono le impalcature che costringono in una forma la vita pulsionale; e costituiscono bisogni vitali e necessari delle pulsioni stesse, in un essere vulnerabile a causa della sua struttura biologica, e le cui prestazioni s’ingenerano dalla stessa radice da cui promanano i pericoli che le minacciano.» (pag. 357)
Entra qui in gioco il concetto di carattere, utile a distinguere la vita fatta di azioni significative e volute dalle azioni impulsive e insignificanti; carattere significa strutturato intreccio di interessi e bisogni in un agire controllato e condotto permanentemente.
«Ne consegue che le azioni debbono essere “sganciabili” dalle pulsioni, che si deve creare uno iato tra loro, avendo le prime bisogno dei loro tempi e delle loro occasioni per poter essere adeguate, ponderate, migliorabili e ripetibili.» (pag. 379)
Grazie allo iato, cioè alla separabilità delle azioni dalle pulsioni, l’uomo può dare vita alla civiltà, che si fonda appunto su un condiviso bisogno di educazione e di autodisciplina, ed è non solo una cosa accettata ma anche necessaria all’esistenza dell’uomo.
Parliamo quindi di una selezione delle pulsioni in funzione delle azioni, di modo che possano essere indirizzate sul mondo dall’uomo, è grazie all’azione nel mondo infatti che il carattere dell’uomo si fissa mettendo alla prova le proprie pulsioni: «l’azione contiene in sé, e crea, l’ambiente.» (pag. 382) Questo è possibile perché, come si è detto inizialmente, l’uomo è aperto al mondo e grazie a questa apertura egli agisce, l’azione caratterizza l’uomo: «L’interiorità umana è aperta al mondo; e ciò significa per un verso: investita di esperienze, impressioni, intuizioni, su ciascuna delle quali può attecchire e crescere un aspirare, un tendere; per un altro verso significa: la vita delle pulsioni e dei bisogni umani racchiude valori lontani, immagini del passato, un tendere verso ciò che è assente, un desiderare, un anelare a situazioni e circostanze future.» (pagg. 385-386)
Anche in Gehlen, come in altri filosofi, troviamo il ruolo chiave svolto dal tempo futuro: l’uomo si proietta in avanti, non si tratta di un essere che si accontenti semplicemente di un’esistenza limitata alla quotidianità e al presente, non è questa la sua natura. L’uomo è compito a se stesso e attraverso l’azione costruisce il mondo come una sua seconda natura, avanza in esso e lo esperisce anche grazie alle pulsioni.
Se l’animale vive nel presente, l’uomo vive invece nel futuro, nell’azione egli si progetta per padroneggiare il domani.
L’apertura dell’uomo al mondo significa anche il suo essere in relazione con gli altri , la necessità di inibire le pulsioni e riveste l’azione di un significato sociale. «La struttura pulsionale dell’uomo, nella sua plasticità, disciplinabilità, nella sua necessità vitale di essere plasmata, è per sua natura in rapporto con l’azione.» (pag. 399)
L’uomo è caratterizzato da un eccesso di pulsioni, ma è questo stesso eccesso a dar vita a prestazioni inibitorie e alla capacità di orientare i bisogni. Tale energia orientata diventa pressoché inesauribile e si riversa nell’azione e nel lavoro umani.
«Il compito, intimamente connesso con l’esistenza dell’uomo, della strutturazione della vita pulsionale – compito cronico e che si ripropone a ogni generazione – è assunto dall’educazione prima e dall’autodisciplina poi, in condizioni sempre nuove e perciò, necessariamente, in sempre nuovi termini.» (pag. 407) La strutturazione raggiunge il suo culmine nella moralità.
La volontà, parallelamente alle funzioni involontarie, svolge un ruolo centrale nella “conduzione” dei movimenti della persona tutta, la volontà riguarda l’uomo nella sua interezza. La volontà è la caratteristica propria dell’uomo in quanto essere esonerato, è una prestazione direttiva attraverso cui ci si progetta; è la volontà stessa che, rivolta all’interno, inibisce e disciplina, e quando è rivolta all’esterno, progetta e agisce.
«Una vita pulsionale non più controllata e non più plasmata nel modo di condursi degenera. Tutto questo ci consente di scorgere finalmente che cosa significhi il concetto di “carattere”(…), il carattere è allora azione e materia dell’azione a un tempo, è in ultima analisi una struttura comportamentale sottesa da pulsioni accettate, fatte proprie o rifiutate, sempre però messe a partito, che sono state attivamente orientate le une sulle altre e sul mondo». (pag. 419)
L’uomo quindi si rivolge contro se stesso inibendo le proprie pulsioni, disciplinandosi, ed attraverso questo processo si origina la civiltà ,la cultura. La comunità è da intendersi come un destino naturale per l’uomo, perché privo delle armi necessarie alla sopravvivenza, privo di istinti animali “completi”, è invece caratterizzato da un eccesso di pulsioni che gli permette però di controllarle, inibirle, e di porre tra la pulsione e l’azione uno iato, una distanza fondamentale grazie alla quale si manifesta la possibilità di un avanzamento volontario nel mondo, controllato ed educato. La moralità è la disciplinazione della comunità attorno a valori condivisi.
Gehlen prende in considerazione anche il ruolo svolto dal totemismo nel passato dell’umanità: l’identificazione dell’animale totem con gli uomini della comunità pose fine al cannibalismo, poiché l’animale simbolo non poteva essere ucciso, così neppure i suoi figli (cioè gli appartenenti alla tribù). Processi inibitori che condussero allo sviluppo di società agricole protette ciascuna dal proprio dio in fattezze animali – ricorda Gehlen che pure gli dèi greci venivano raffigurati con sembianze animali. Un ruolo fondante nella nascita delle comunità lo svolsero quindi anche la fede ed il mito.
«Le istituzioni durature, l’abbiamo veduto, sono prodotti di un comportamento sociale umano assai complesso, nel quale entrano sia atti ideativi, sia atti ascetici di autodisciplina e di inibizione. Ogni progresso della civiltà umana si è dato a riconoscere anche per aver stabilizzato una forma nuova di disciplina.» (pag. 452)
ANTONIO DAMASIO
A cura di IL DIOGENE
VITA
Nato a Lisbona e laureato in medicina, Antonio Damasio opera negli USA. Rappresenta una delle figure di maggior spicco a livello mondiale nel campo delle neuroscienze. E’ autore di importanti pubblicazioni sulla memoria, sulla fisiologia delle emozioni e sulla malattia di Alzheimer. I laboratori di ricerca che Damasio e sua moglie Hanna hanno realizzato presso l’Università dello Iowa, sono considerati ormai un punto di riferimento per lo studio dei fenomeni nervosi che sono alla base dei processi cognitivi. Antonio Damasio è membro di prestigiose associazioni, come l’European Academy of Science and Arts e l’American Neurological Association; fa parte inoltre dei comitati scientifici di importanti periodici dedicati alle neuroscienze e di alcune fondazioni di ricerca.
PENSIERO
Il punto di partenza di Damasio, sostenuto dall’osservazione di diversi casi clinici, è che il cervello non può essere studiato senza tener conto dell’organismo a cui appartiene e dei suoi rapporti con l’ambiente. Per Damasio, lo studio delle funzioni cognitive, e in particolare della coscienza, ha subito per lungo tempo l’influsso di una tradizione filosofica che può essere fatta risalire a Cartesio. Questi ci propone, infatti, una concezione che separa nettamente la mente dal corpo, attribuendo alla prima, addirittura, un fondamento non materiale. L’errore di Cartesio è stato quello di non capire che la natura ha costruito l’apparato della razionalità non solo al di sopra di quello della regolazione biologica, ma anche a partire da esso e al suo stesso interno.
Il processo decisionale (ad esempio quello di compiere una scelta tra due o più alternative), per Damasio è condizionato dalle risposte somatiche emotive osservabili, utilizzate dal soggetto come indicatori della bontà o meno di una certa prospettiva: i sentimenti somatici normalmente accompagnano le nostre aspettative del possibile esito delle varie opzioni di una decisione da prendere; in altre parole, i sentimenti fanno parte in qualche modo del contrassegno posto sulle varie opzioni; in tal modo i marcatori somatici ci servono come strumento automatico che facilita il compito di selezionare opzioni vantaggiose dal punto di vista biologico. Nelle scienze biologiche, l’orientamento cartesiano ha avuto come conseguenza quello di emarginare la mente dal campo della ricerca, ritardando ogni serio tentativo di indagarla mediante un approccio scientifico rigoroso. La coscienza, nel modello di Damasio, è studiata in funzione di due componenti fondamentali: l’organismo e l’oggetto, insieme alle relazioni che si sviluppano tra loro nel corso delle loro interazioni. In tale prospettiva, la coscienza consiste nella costruzione di conoscenze rispetto a due aspetti:
– l’organismo che entra in relazione con qualche oggetto;
– l’oggetto coinvolto nella relazione che causa un cambiamento nell’organismo.
Comprendere la biologia della coscienza significa quindi capire in che modo il cervello riesce a rappresentare le due componenti – organismo e oggetto – e in che modo si stabilisce la relazione tra questi. Secondo Damasio, la coscienza inizia come un sentimento, un tipo particolare di sentimento, ma comunque qualcosa di assimilabile a questo, anche se non completamente sovrapponibile alle altre modalità sensoriali rivolte al mondo esterno. In ogni caso, coscienza ed emozione non sono separabili, poiché la prima è indissolubilmente legata al sentimento del corpo.
Da un punto di vista evolutivo, le emozioni sono risposte fisiologiche che mirano ad ottimizzare le azioni intraprese dall’organismo nel mondo che lo circonda. A sostegno di queste tesi, il neurofisiologo portoghese riporta alcune prove neurologiche che mostrano come certi meccanismi cerebrali siano comuni sia alle emozioni che alla coscienza, giungendo alla conclusione che la coscienza rappresenti fondamentalmente un aspetto ausiliario della nostra dotazione biologica di adattameno all’ambiente.
Nella concezione di Damasio, la coscienza non è monolitica, ma può essere distinta in:
– Proto-sé
Fenomeno primordiale di autoidentificazione che l’uomo condivide con gli animali superiori, alle cui base sono le emozioni, eventi strettamente biologici, sui quali si sviluppano poi i sentimenti (paura, fame, sesso, rabbia…) che hanno come motore l’interazione tra l’organismo e il mondo oggettuale. Il “proto-sé” non è consapevole di sé: rappresenta semmai quella parte del sé che impara poco per volta a riconoscersi come parte separata dal mondo esterno.
– Coscienza nucleare
Fenomeno biologico nel quale sono contemporaneamente presenti tre elementi: l’oggetto di sui si è coscienti, la posizione del proprio corpo rispetto a quell’oggetto e la relazione che si stabilisce tra queste due entità. La coscienza nucleare fornisce all’organismo un senso di sé qui e ora; non ci dice nulla riguardo al futuro. L’unico passato che possiede è quello, vago, relativo a ciò che è appena accaduto.
– Coscienza estesa
Si forma sulla base della coscienza nucleare ed è all’origine del “sé autobiografico”.
Questo livello di coscienza richiede il linguaggio, poiché solo attraverso di esso possiamo formulare la nostra storia personale, in cui prendono posto i ricordi, le speranze, i rimpianti e così via.
Il modello di coscienza proposto da Damasio è un modello gerarchico, per cui non può darsi il sé nucleare senza il proto-sé e non può darsi quello autobiografico senza il sé nucleare. A Damasio va senz’altro riconosciuto il merito di aver contribuito a introdurre il corpo nella discussione scientifica sulla coscienza. L’idea che l’organismo partecipi all’esperienza cosciente rompe nettamente con una tradizione che vuole la mente ben distinta dal corpo e restituisce alla coscienza stessa i requisiti biologici indispensabili per farne un oggetto di studio scientifico.
OPERE
— L’errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano [1994], Adelphi, Milano, 1995
In quest’opera Damasio compie il tentativo di unificare mente, cervello e corpo, sulla base di dati rigorosamente scientifici. Partendo da alcuni casi clinici, come quello di Phineas P. Cage, egli cerca di dimostrare che l’idea dell’esistenza di un pensiero puro, di una razionalità non influenzata da emozioni e sentimenti, non ha riscontro nella realtà. La nostra mente, secondo Damasio, non è strutturata come un computer, in grado cioè di presentarci un elenco di argomenti razionali a favore o contro una determinata scelta. La mente umana agisce in maniera molto più rapida (anche se meno precisa): prende in considerazione il peso emotivo che deriva dalle nostre precedenti esperienze, fornendoci una risposta sotto forma di sensazione viscerale.
L’errore di Cartesio è stato quello di non capire che l’apparato della razionalità non è indipendente da quello della regolazione biologica, e che le emozioni e i sentimenti spesso sono in grado di condizionare fortemente, e a nostra insaputa, le nostre convinzioni e le nostre scelte.
— Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 2000
In quest’opera, Damasio prosegue sulla via già intrapresa con “L’errore di Cartesio”, affrontando il tema della coscienza dalla duplice prospettiva dell’analisi a livello neurofisiologico e delle relative corrispondenze sul piano psicologico.
— Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello [2003], Adelphi, Milano, 2003
In quest’opera, Damasio estende l’indagine, iniziata avendo come riferimento il pensiero di Cartesio, alla concezione di Spiniza, il quale, secondo il neurologo portoghese, fu il primo filosofo a intuire lo stretto legame esistente tra la mente e il corpo. La maggior parte delle convinzioni che abbiamo circa i sentimenti è falsa.
Damasio stesso prima credeva che fosse impossibile definirli in modo specifico, che fossero privati e inaccessibili e che, come la coscienza, fossero al di là della scienza.
I sentimenti sono la rivelazione dello stato in cui versa la vita all’interno dell’organismo nel suo insieme. Una neurobiologia dei sentimenti serve anche a risolvere il problema mente-corpo e a trovare cure più efficaci per alcune cause di sofferenza umana (come la depressione e le tossicodipendenza). Ma perché Spinoza? Il suo pensiero è utile per una descrizione delle emozioni e dei sentimenti umani. Spinoza è infatti precursore di alcune idee odierne, supportate dalle ricerche di Damasio: la separazione del processo del sentimento da quello dell’idea sull’oggetto che può aver causato l’emozione; la credenza nella possibilità di combattere un emozione negativa con una più forte ma positiva, indotta dalla ragione; la convinzione dell’unione di mente e corpo; il concetto di conatus (sforzo naturale di conservazione da parte degli organismi) ed infine l’affermazione che “l’oggetto dell’idea costituente la mente umana è il corpo”. Nel linguaggio comune non si distingue tra emozione e sentimento, adottandoli praticamente come sinonimi. Damasio opera invece una separazione intendendo per emozioni le componeti del processo esibite e rese pubbliche, e per sentimenti le componenti che restano invece private. Bisogna specificare che tale distinzione nasce per esigenze di spiegazione ma, in realtà, emozione e sentimento appartengono ad un unico processo (così come mente e corpo appartengono alla stessa sostanza). Secondo le ricerche di Damasio in tale processo per primo viene il meccanismo dell’emozione cui segue quello per produrre una mappa cerebrale e poi un’immagine mentale (o idea) dello stato dell’organismo che ne risulta, cioè il sentimento. “I sentimenti …non insorgono solo dalle emozioni vere e proprie, ma da qualsiasi insieme di reazioni omeostatiche, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l’organismo”(pag. 107). All’origine del sentimento è quindi il corpo, costituito da diverse parti continuamente registrate in strutture cerebrali. I sentimenti sono allora la percezione di un certo stato corporeo cui, talvolta , si aggiunge la percezione di uno stato della mente ad esso associato o anche la percezione del tipo di pensieri il cui tema è consono con il genere di emozione percepita. Già con altre ricerche Damasio aveva dimostrato il ruolo decisivo che i sentimenti hanno nel comportamento sociale (si veda “L’errore di cartesio“). E anche qui l’autore ribadisce che l’integrità dei meccanismi dell’emozione e del sentimento è necessaria per un comportamento sociale umano normale. I sentimenti “ci aiutano a risolvere problemi non standard che implicano creatività, giudizio e processi decisionali, e che richiedono l’esibizione e la manipolazione di grandi quantità di conoscenza”. (pag.215) All’interno della critica del dualismo cartesiano, Damasio ritorna sull’importanza della figura di Spinoza. Il filosofo modificò infatti la prospettiva ricevuta in eredità da Cartesio quando iniziò a sostenere che pensiero ed estensione sono sì distinguibili, ma sono anche attributi della stessa sostanza. Mente e corpo sono quindi inseparabili, “tagliati dalla stessa stoffa” (pag.251) [il che- se posso aggiungere- ricorda anche il pensiero fenomenologico di Merleau-Ponty]. Inoltre Damasio richiama l’attenzione su una strana situazione che si sta verificando oggi: la moderna associazione tra mente e cervello non ha eliminato la scissione dualistica tra mente e corpo, ma l’ha solo spostata. In diverse teorie ritroviamo infatti mente e cervello da un lato e corpo (cioè l’intero organismo ad esclusione del cervello) dall’altro. Ciò va contro la concezione sempre più diffusa e supportata da diverse ricerche (tra cui, appunto, quelle di Damasio) dell’unione di mente e corpo, cioè la cosiderazione del corpo nella sua completezza, nonché il suo ruolo di formazione della mente stessa. La neurobiologia dell’emozione e del sentimento dimostrano oggi un’altra delle intuizioni spinoziane, e cioè che la gioia e i sentimenti positivi sono preferibili al dolore in quanto “più favorevoli alla salute e allo sviluppo creativo del nostro essere” (pag.320). Il consiglio che Damasio propone a conclusione del libro è di combinare alcuni aspetti della filosofia spinoziana con un atteggiamento più attivo nei confronti dell’ambiente che ci circonda: “un atteggiamento combattivo…sembra prometterci che non ci sentiremo mai soli finchè il nostro interesse sarà concentrato sul benessere altrui”. (pag.339)
BRANI ANTOLOGICI
Razionalità ed emozioni
[E’ convinzione diffusa che l’utilizzo della logica formale sia di per sé in grado di condurci] alla soluzione migliore tra quelle possibili, per qualsiasi problema. Un aspetto importante di questa concezione razionalistica è che bisogna escludere le emozioni, per ottenere i migliori risultati: l’elaborazione razionale non deve essere impacciata da passioni. [da Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995, pag. 242]
[da Damasio, op. cit., pag. 243]
[da Damasio, op. cit., pag. 244] |
I “marcatori somatici”
Che cosa fa il marcatore somatico? Esso forza l’attenzione sull’esito negativo al quale può condurre una data azione, e agisce come un segnale automatico di allarme che dice: attenzione al pericolo che ti attende se scegli l’opzione che conduce a tale esito. Il segnale può farvi abbandonare immediatamente il corso negativo d’azione e così portarvi a scegliere fra le alternative che lo escludono; vi protegge da perdite future, senza ulteriori fastidi, e in tal modo vi permette di scegliere entro un numero minore di alternative. […] Nel normale processo umano di decisione i marcatori somatici possono non essere sufficienti, poiché in molti casi […] avrà ancora luogo un successivo processo di ragionamento e decisione finale. […] In breve, i marcatori somatici sono esempi speciali di sentimenti generati a partire dalle emozioni secondarie. Quelle emozioni e sentimenti sono stati connessi, tramite l’apprendimento, a previsti esiti futuri di certi scenari. Quando un marcatore somatico negativo è giustapposto a un particolare esito futuro, la combinazione funziona come un campanello d’allarme; quando invece interviene un marcatore positivo, esso diviene un segnalatore di incentivi, [da Damasio, op. cit., pagg. 245-6] |
L’errore di Cartesio
Qual era […] l’errore di Cartesio? [da Damasio, op. cit., pagg. 336-7] |
MARVIN MINSKY
A cura di IL DIOGENE
Marvin Lee Minsky, uno dei fondatori dell’intelligenza artificiale, è nato a New York nel 1927. Ha studiato matematica a Harvard e a Princeton, dove ha conseguito il dottorato nel 1954. Ha iniziato a lavorare presso il MIT (Massachussets) dove attualmente insegna come Toshiba Professor of Media Arts and Sciences e professore di ingegneria elettronica e informatica. Nel 1951 ha costruito lo SNARC (Stocastic Neural Analog Reinforcement Computer), il primo simulatore di reti neurali, basato sul rinforzo dei coefficienti di trasmissione di sinapsi simulate; nel 1955 ha inventato un tipo speciale di microscopio elettronico dotato di una risoluzione e di una qualità dell’immagine molto superiori a quelle di quei tempi. Nel 1959, Minsky, assieme a John McCarthy, diede il via al progetto sull’intelligenza artificiale, che è poi diventato il MIT Artificial Intelligence Laboratory. Membro della American Academy of Arts and Sciences, dell’Institute of Electrical and Electronic Engineers, della Harvard Society of Fellows e della League for Programming Freedom, Minsky ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il Turing Award e il Killiam Award (MIT).
PENSIERO Un’idea dominante nel pensiero di Minsky è quella di rendere un calcolatore capace di manipolare non solo dati numerici, ma anche simboli di tipo linguistico per la comprensione di forme di ragionamento basate su analogie e sul senso comune. Infatti, da diverse esperienze, Minsky era giunto alla conclusione che la logica, usata nei calcolatori, non è adatta a dexcrivere i processi di pensiero che gli uomini utilizzano nelle comuni situazioni quotidiane. A questo scopo egli ricorre al concetto di frame, un quadro di riferimento capace di fornire al programma una gamma di informazioni che trattano una classe di oggetti o di situazioni. Quando si trova di fronte a un problema da risolvere, il programma seleziona un frame e tenta di applicarlo alla soluzione del problema; se l’esito è negativo, prova con un altro frame, e così via. Gli sforzi per tentare di adattare il funzionamento dei computer alle diverse situazioni della vita reale, hanno condotto Minsky all’elaborazione di concetti e ipotesi, raccolti in numerosi articoli, confluiti successivamente nell’opera La società dela mente.
La società della mente Nell’opera La società della mente si trovano riassunte le tesi principali su cui si fonda la teoria di Minsky, da lui elaborata nella sua lunga attività di ricercatore nel campo dell’intelligenza artificiale. L’opera è divisa in 31 capitoli, e ogni pagina di ciascun capitolo tratta un singolo argomento, così che la lettura possa seguire anche un ordine diverso rispetto a quello in cui le pagine stesse si presentano. Tale organizzazione, secondo l’autore, è resa necessaria poiché «nessuna storia lineare potrebbe mai descrivere una struttura vasta come la mente umana, così come non sarebbe possibile cogliere il carattere di una cattedrale, di una città o di una civiltà osservandone un solo aspetto o seguendo un solo itinerario».
Il concetto posto alla base del funzionamento del cervello è quello di decentramento: la mente, secondo Minsky, funziona in modo simile a una società di agenti altamente specializzati, dove ognuno di essi ha un suo specifico compito. L’esempio portato da Minsky è quello della collaborazione tra unità mentali per compiere un gento molto semplice come quello di bere un caffè. Tale azione richiede l’intervento di numerosi agenti:
– quelli relativi alla PRESA, che reggono la tazzina
– quelli dell’EQUILIBRIO, che impediscono che il caffè venga versato
– quelli del GUSTO, che vogliono che il caffè venga bevuto
– quelli del MOVIMENTO, che portano la tazzina alle labbra.
Ogni agente svolge il suo compito, senza tuttavia impegnare la mente per intero. Infatti, mentre beviamo il caffè, possiamo portare avanti altre azioni come passeggiare per la stanza o parlare con un amico. Quando una persona compie più azioni nello stesso istante, possono aver luogo conflitti tra gli agenti. Questi conflitti danno vita a tensioni che generalmente fanno sì che un agente prevalga sugli altri. A tensioni eccessive può tuttavia corrispondere un blocco dell’intero sistema. Nelle diverse sezioni dell’opera, Minsky affronta le varie componenti dell’attività cognitiva umana – l’intelligenza, la memoria, la percezione dei colori e dello spazio, le emozioni, il linguaggio – cercando di mostrare come tali attività possano venire svolte da uno o più meccanismi specializzati, che spesso cooperano strettamente tra loro. Minsky riconosce che le macchine attuali, pur mostrandosi notevolmente precise e veloci nello svolgimento di determinate attività, appaiono sostanzialmente incapaci di portare a termine compiti che persino un bambino di 2 o 3 anni svolge con facilità. Egli attribuisce tale limite al fatto che alle macchine manca la conoscenza del senso comune, ossia qul tipo di conoscenza formata da un numero incredibile di nozioni pratiche, di regole ed eccezioni, disposizioni e tendenze, acquisite faticosamente attraverso l’esperienza quotidiana e che mancano generalmente a una macchina. Secondo Minsky, non c’è proprio ragione per credere che le macchine non possano imparare dall’esperienza oche non siano in grado di comportarsi in maniera intelligente. Tutto sta nel dotarle dell’appropriata architettura, capace di rappresentare adeguatamente i problemi da affrontare e di attingere informazioni da ampie biblioteche, piene di utile conoscenza del senso
ALFRED TARSKI
Alfred Tarski (1902-1985) è stato un logico e filosofo polacco,
noto precipuamente per la sua distinzione tra il linguaggio-oggetto e il metaliguaggio. Quest’ultimo è concepito come un
linguaggio meramente formale. Al centro dell’opera di Tarski vi è il problema della verità, affrontato in scritti significativi, come Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati (1936) e La teoria semantica della verità (1944). A giudizio di Tarski,qualsivoglia tentativo di prospettare una definizione generale della verità, che si possa applicare a tutti i linguaggi naturali, è contraddittoria: segnatamente precipita nel noto paradosso del mentitore. In coerenza con tale paradosso, allorché io dico “io mento”, se questo enunciato è vero, allora sto dicendo il falso; ma se tale enunciato è falso, allora sto dicendo la verità. Il paradosso del mentitore scaturisce dal fatto di riconoscere la possibilità che un dato enunciato (nel caso specifico, “io mento”) possa riferirsi a se stesso, cioè possa dire di se stesso di non essere vero. A giudizio di Tarski, è quel che capita con i linguaggi naturali: dunque, se si vuole evitare di precipitare in paradossi di questo tipo, è d’uopo edificare linguaggi formali e operare una distinzione nella gerarchia dei linguaggi, soprattutto bisogna distinguere tra il linguaggio-oggetto e il metalinguaggio. Infatti, nella sfera del meta linguaggio, si può asserire della proposizione “io mento”, affermata sul piano del linguaggio-oggetto, che è vera, senza per questo precipitare nei paradossi. Detto altrimenti, sul piano del metalinguaggio è possibile svolgere asserzioni sul linguaggio-oggetto, impiegando i predicati vero o falso. Sul fondamento di questa prospettiva, il nostro autore procede a segnalare le condizioni che occorre
soddisfare da parte di una adeguata definizione della verità. Se ad esempio assumiamo che “la neve è bianca” sia un enunciato del linguaggio-oggetto, allora quella definizione deve comportare l’equivalenza “l’enunciato ‘la neve è bianca’ è vero se e solo se la neve è bianca”. Dal momento che questa condizione viene soddisfatta nella sfera del meta-linguaggio, risulta lampante che una adeguata definizione di verità si può fornire unicamente per specifici linguaggi formalizzati edificati dai logici. Ricorrendo a mezzi logicamente complessi e articolati, Tarski si spinge a elaborare la definizione formale della verità nei termini della corrispondenza e mette a tema quella che viene appellata “semantica formale”.
LUDWIG VON MISES
Ludwig von Mises (Lemberg, 29 settembre 1881 – New York, 10 ottobre 1973) è stato un economista austriaco naturalizzato statunitense. È considerato tra i più influenti della scuola austriaca e del pensiero neoliberale, nonché uno dei padri del moderno libertarianismo. Egli è il decano della scuola economica austriaca. In suo onore è nato il Ludwig von Mises Institute. Di origine ebraica, nacque da Arthur Edler von Mises, ingegnere edile, e Adele von Landau, a Leopoli nella Galizia austro-ungarica (oggi Ucraina). La famiglia del padre era stata nobilitata nel XIX secolo e il titolo “Edler” (nobile) indicava l’appartenenza ad una famiglia nobilitata senza possedimenti fondiari. La famiglia partecipò al finanziamento e alla costruzione della rete ferroviaria e il padre era distaccato a Leopoli come ingegnere per la società ferroviaria Czernowitz. La madre di Ludwig, Adele, era nipote di Joachim Landau deputato liberale al parlamento austriaco. All’età di 12 anni Ludwig parlava correntemente il tedesco, il polacco e il francese e poteva leggere in latino e capire l’ucraino. Il fratello minore di Ludwig, Richard von Mises divenne un matematico e studioso della teoria delle probabilità e fece parte del circolo di Vienna. Ludwig von Mises si trasferì a Vienna con la famiglia, iscrivendosi alla locale università e laureandosi in legge ed
economia nel 1906. L’ambiente accademico viennese lo espose all’influenza dei maggiori economisti austriaci del tempo, soprattutto Carl Menger. Von Mises nella sua biblioteca Negli anni che vanno dal 1904 al 1914 Mises seguì i corsi di Eugen von Böhm-Bawerk. Si laureò all’Università di Vienna nel febbraio 1906 e cominciò a lavorare come funzionario dell’amministrazione finanziaria austriaca. Dopo pochi mesi lasciò questo lavoro per iniziare la pratica in uno studio legale. Teneva anche lezioni di economia e nel 1909 passò a lavorare alla Camera di Commercio di Vienna. Durante la prima guerra mondiale Mises prestò servizio al fronte come ufficiale di artiglieria e come consulente economico del Ministero della Guerra. Dopo la fine della guerra Mises fu capo economista della Camera di Commercio di Vienna e consulente economico di Engelbert Dollfuss, il cancelliere austriaco che si oppose ai nazisti. Nel 1934, con l’avvento del nazismo, fu costretto a lasciare l’Austria per via delle sue idee liberali e della sua origine ebraica. Trovò rifugio in Svizzera, a Ginevra, dove rimase per sei anni come professore al Graduate Institute of International Studies. La situazione, però, per von Mises rimaneva molto pericolosa, fra pressioni dei nazisti sul governo elvetico perché lo espellesse ed anche un fallito tentativo di rapimento. Decise pertanto nel 1940 di trasferirsi negli Stati Uniti, dopo aver effettuato un viaggio molto pericoloso attraverso la Francia occupata, la Spagna ed il Portogallo. Arrivato a Lisbona, si imbarcò per New York, dove lavorò come professore universitario alla New York University fino al 1969, senza ricevere stipendio. Riuscì a sopravvivere grazie ai finanziamenti del ricco uomo d’affari libertario Lawrence Fertig. Nel 1938 partecipò al colloquio Walter Lippmann. Morì all’età di 92 anni al St Vincent’s Hospital di New York. La vasta bibliografia di Mises è interamente dedita alla difesa del classical liberalism della scuola austriaca e ai valori che portarono poi alla nascita del libertarianismo. Ciò implica una dura critica del socialismo, che viene confutato a partire dal principio secondo cui renderebbe impossibile ogni calcolo economico razionale. Infatti sono i prezzi che guidano le scelte razionali degli individui, ma in una società socialista senza
proprietà privata e scambio non ci possono essere prezzi. Nel suo trattato economico, Human Action (tradotto in italiano come L’azione umana), considerato la sua opera più importante, Mises introduce il concetto di “prasseologia”, come teoria di base sull’azioni umana e rifiuta il metodo del positivismo applicato all’economia. L’approccio epistemologico di Mises è molto importante per capire la differenza tra la scuola austriaca e il pensiero economico neoclassico. Secondo Mises l’economia politica non è una scienza basata sul modello empirista delle scienze naturali, ma una scienza basata sull’analisi a priori di alcuni concetti autoevidenti, con un metodo analogo a quello della geometria o della matematica. Molti dei lavori misesiani si concentrano su due temi fondamentali: teoria monetaria e inflazione; superiorità del libero mercato rispetto alla pianificazione economica statale. La teoria dell’impossibilità in un regime socialista di gestione razionale dell’economia è stata poi ripresa da un allievo di Mises, Friedrich von Hayek, il quale sosteneva, come già Mises, che proprio per questo motivo sarebbe stato inevitabile il crollo dell’Unione Sovietica. Mises e Hayek possono, insieme, considerarsi come due dei più importanti esponenti del liberismo contemporaneo, che a loro seguita a richiamarsi implicitamente o esplicitamente.
ELIAS CANETTI
Elias Canetti (Ruse, 25 luglio 1905 – Zurigo, 14 agosto 1994) è stato uno scrittore, saggista e aforista bulgaro naturalizzato britannico, di lingua tedesca, insignito del Nobel per la letteratura nel 1981. Elias Canetti nacque a Ruse, primo dei tre figli di Jacques Canetti, commerciante ebreo di remote origini spagnole (gli avi paterni nacquero con il cognome di Cañete ma, in seguito all’espulsione degli ebrei dalla penisola iberica, avvenuta nel 1492[2], modificarono il proprio cognome), e di Mathilde Arditti, nata da una ricca famiglia ebraica sefardita di origini italiane (gli avi materni erano sefarditi livornesi che si erano stabiliti in Bulgaria). La lingua della sua infanzia fu il ladino o giudeospagnolo parlato in famiglia, ma il piccolo Elias fece presto esperienza con la lingua tedesca, usata in privato dai genitori (che la consideravano la lingua del teatro e dei loro anni di studio a Vienna). Dopo avere appreso il bulgaro, si trovò ad avere a che fare con l’inglese quando il padre decise di trasferirsi per lavoro a Manchester nel 1911. La decisione fu accolta con entusiasmo da Mathilde Arditti, donna colta e liberale, che dovette sottrarre Elias dall’influenza del nonno paterno, il quale lo aveva iscritto alla scuola talmudica. Nel 1912, con la morte improvvisa del padre Jacques, cominciarono le peregrinazioni
della famiglia, che si spostò prima a Vienna e poi a Zurigo, dove Canetti trascorse, tra il 1916 e il 1921, gli anni più felici. In questo periodo, nonostante la presenza dei fratelli più piccoli, il rapporto di Canetti con la madre (che dal 1913 soffriva di periodiche crisi depressive) diventò sempre più stretto, conflittuale e segnato dalla dipendenza reciproca. La tappa seguente fu Francoforte, ove ebbe modo di assistere alle manifestazioni popolari a seguito dell’assassinio del ministro Walther Rathenau, prima esperienza di massa che gli lasciò un’impressione indelebile. Nel 1924 Canetti fece ritorno con il fratello Georges a Vienna, dove si laureò in chimica e rimase quasi ininterrottamente fino al 1938. Canetti si integrò velocemente nell’élite culturale viennese, studiando con avidità le opere di Otto Weininger, Sigmund Freud (che gli suscitò diffidenza sin dall’inizio) e Arthur Schnitzler, e assistendo alle conferenze di Karl Kraus, polemista e moralista. In uno di questi incontri culturali conobbe la scrittrice sefardita Venetiana (Veza) Taubner-Calderon, fin dalla nascita priva dell’avambraccio sinistro; nel 1934 la sposò, nonostante l’avversione della madre. Sotto l’influenza del ricordo delle manifestazioni viste a Francoforte, nel 1925 cominciò a prendere forma il progetto di un libro sulla massa. Nel 1928 andò a lavorare a Berlino come traduttore di libri americani (soprattutto Upton Sinclair) e qui conobbe Bertolt Brecht, Isaak Babel’ e George Grosz. Due anni più tardi conseguì il dottorato in chimica, professione che però non praticò mai e verso la quale non mostrò comunque alcun interesse. Tra il 1930 e il 1931 incominciò a lavorare al lungo romanzo Die Blendung (letteralmente L’accecamento, tradotto in italiano come Autodafé), pubblicato nel 1935, e, tornato a Vienna, continuò le frequentazioni dell’ambiente letterario: Robert Musil[3], Fritz Wotruba, Alban Berg, Hermann Broch, Anna e Alma Mahler. Nel 1932 uscì il suo primo lavoro teatrale, Nozze. Due anni dopo fu la volta di La commedia della vanità. Nel 1937 Canetti si recò a Parigi per la morte della madre, evento che lo segnò profondamente e che chiude simbolicamente l’ultimo volume dell’autobiografia.
Nel 1938, a seguito dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista, Canetti emigrò prima a Parigi e poi a Londra. Nei vent’anni successivi, si dedicò esclusivamente all’imponente progetto sulla psicologia della massa, il cui primo e unico volume, Massa e potere, fu pubblicato nel 1960. Criticò molto duramente Thomas Stearns Eliot, il più celebrato poeta del Regno Unito e Premio Nobel.[4] Nel 1952 prese la cittadinanza britannica: due anni dopo, al seguito di una troupe cinematografica, trascorse un periodo in Marocco, da cui trasse il volume Le voci di Marrakesh. La prima del suo dramma Vite a scadenza si tenne a Oxford (1956). La moglie Veza, sposata nel 1934 e con la quale condivideva gli entusiasmi socialisti e la venerazione per Karl Kraus, morì suicida nel 1963 in seguito al fallimento del loro matrimonio, forse dovuto anche ai frequenti tradimenti di Elias. Nel 1971 Canetti sposò la museologa Hera Buschor, dalla quale ebbe l’anno seguente una figlia, Johanna. Nel 1975 le Università di Manchester e di Monaco gli conferirono due lauree honoris causa. Nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per opere contraddistinte dalla visione ampia, dalla ricchezza di idee e dalla potenza artistica”. Dopo la morte di Hera (1988), Elias Canetti tornò a Zurigo, dove morì nel 1994, e nel cui cimitero fu sepolto accanto a James Joyce. Autodafé È il primo libro di Elias Canetti e il suo unico romanzo. Die Blendung (letteralmente “L’accecamento”, tradotto in italiano e altre lingue come Auto da fé, titolo voluto dallo stesso Canetti) venne pubblicato nel 1935. Fu successivamente bandito dai nazisti e, nonostante l’apprezzamento di Thomas Mann e di Hermann Broch, non ricevette grande attenzione fino a quando non venne ripubblicato negli anni sessanta. Romanzo di notevole forza narrativa, per certi elementi grotteschi e demoniaci può essere avvicinato alle opere maggiori della letteratura russa del XIX secolo, in particolare ai lavori di Nikolaj Gogol’ ma soprattutto di Fëdor Dostoevskij, nei confronti del quale lo stesso Canetti ha dichiarato il suo debito. Nel saggio Massa e potere (1960), analizza a tutto tondo la sociologia delle masse. Fu un’opera di difficile gestazione, Canetti impiegò quarant’anni a scriverla e la definì come
“l’opera di una vita”. Nella sostanza Massa e potere è un’opera antropologica e sociologica nel senso che Canetti, attraverso lo studio degli elementi primi costitutivi della Massa, arriva a mettere a nudo, ad insegnarci i principi che stanno alla base del potere. Nel monumentale saggio Canetti fece confluire materiale da diverse discipline (antropologia, sociologia, mitologia, etologia, storia delle religioni), evitando programmaticamente nomi come Marx o Freud (menzionato solo una volta in una nota). L’argomentazione dimostra come ciò che contribuisce a formare una massa sia un istinto connaturato nell’uomo tanto quanto quello della sopravvivenza. La prima parte analizza la dinamica dei diversi tipi di massa e della “muta”. La seconda parte si concentra sulla questione del come e del perché le masse obbediscono ai capi. Hitler viene presentato come il capo paranoico, affascinato dalle dimensioni della massa che egli stesso comanda. La persecuzione degli ebrei viene poi messa in relazione con l’enorme inflazione del primo dopoguerra. Importante è anche l’Autobiografia di Canetti. Divisa in più volumi (La lingua salvata, Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi), fu pubblicata fra il 1977 e il 1985. È proprio quest’opera, una delle più intense della letteratura contemporanea, che fa di lui uno degli scrittori più importanti del Novecento. La lingua salvata insieme a Il frutto del fuoco, Il gioco degli occhi e Party sotto le bombe costituisce una sorta di ‘Bildungsroman’. La vicenda, chiaramente autobiografica, si articola in quattro parti fondamentali, ognuna delle quali si riferisce ad un diverso luogo e periodo di tempo. La prima parte, ambientata nella città natale dell’autore, fa riferimento agli avvenimenti relativi alla prima infanzia dell’autore. Egli delinea un mondo sospeso tra modernità e progresso, assimilabili rispettivamente in maniera ideale alla componente paterna (costituita da una famiglia arricchitasi di recente) da un lato, e da quella materna dall’altro (costituita da una delle famiglie più prestigiose della cittadina). Un ulteriore elemento di rottura è portato proprio dai suoi genitori, che, con le loro aspirazioni alla cultura (in opposizione alla tradizionale pratica familiare del commercio, tema che verrà più volte ripreso da Canetti nelle sue opere) e attraverso un continuo volgersi all’Occidente (rappresentato da Vienna,
che comincia ad assumere sin dalle prime pagine del libro i tratti di topos per eccellenza) aprono una frattura nella mentalità locale, quasi stagnante in un lungo Medioevo retaggio della passata dominazione ottomana. Le aspirazioni represse dei genitori diventano uno dei temi chiave dell’opera, quasi una molla in tensione pronta a saltare, che si rivelerà nel corso dell’opera distruttiva in ambito familiare. Elias Canetti descrive i rituali e la vita di un “bel tempo antico”, in un mondo che ancora non aveva scoperto le devastazioni delle guerre mondiali. Le giornate del piccolo Elias nella cittadina danubiana si susseguono senza affanni o preoccupazioni di sorta, occasionalmente scandite dalle festività religiose e da pochi altri eventi di rilievo. Troviamo così una trattazione che, per così dire, rifugge dal resoconto storiografico, trovando una dimensione intimistica e personale, capace di dare rilievo a quei piccoli traguardi quotidiani che contrassegnano la vita di un bambino: scopriamo l’amore del piccolo Elias per la lettura, comunicatogli dalla madre, lo stupore verso il mondo degli adulti, con le sue regole incomprensibili e impenetrabili, ma più di tutto l’affetto per i genitori e i fratelli minori.
EMIL CIORAN
«Il paradiso geme al fondo della coscienza, mentre la memoria piange. Ed è così che si pensa al senso metafisico delle lacrime e alla vita come al dipanarsi di un rimpianto». (E. Cioran, Lacrime e santi)
Emil Cioran (Rășinari, 8 aprile 1911 – Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista romeno, tra i più influenti del XX secolo. Gran parte della sua produzione è caratterizzata dall’aporia, dal paradosso, dall’ossimoro, dall’iperbole, nonché dalla contraddizione e dalla provocazione volute, e fu definita da lui stesso come una forma di letteratura terapeutica, volta a sfogare il proprio pessimismo esistenziale. Nato in Romania, dal 1933 al 1935 visse a Berlino, e dalla seconda guerra mondiale in avanti risiedette in Francia con lo status di apolide; scrisse i primi libri in lingua romena, ma dalla fine del conflitto scrisse sempre in francese e, nonostante questo non fosse il suo idioma di nascita, viene considerato da molti critici come uno dei migliori prosatori in questa lingua. Vicino al pensiero esistenzialista, si distacca comunque dal movimento esistenzialista francese per la sua distanza ideologica dai principali esponenti quali Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Albert Camus, rifiutando l’impegno politico attivo sul fronte progressista e condividendo la filosofia dell’assurdo del suo amico Eugène Ionesco, benché venata dal suo pessimismo radicale. Il pensiero di Cioran è infatti influenzato da Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger (rispetto allo stile ermetico di quest’ultimo, maturerà peraltro un netto rifiuto) e successivamente anche da Leopardi (benché, per sua stessa ammissione, mai profondamente conosciuto, ma avvertito quale “fratello d’elezione”), dai quali trae il suo nichilismo, scetticismo e il suo pessimismo. I suoi aforismi, anche per esperienze personali, inizialmente una gravissima forma di insonnia che lo colpì dall’adolescenza, sono infatti pervasi da una profonda amarezza e misantropia, che però vengono temperate dalla sua acuta ironia e dalla sua capacità di scrittura. Tra le opere di Cioran ricordiamo: Al culmine della disperazione (1934), Lacrime e santi (1937), Sommario di decomposizione (1949), Sillogismi dell’amarezza (1952), La tentazione di esistere (1956), Storia e utopia (1960), La caduta nel tempo (1964), Il funesto demiurgo (1969), L’inconveniente di essere nati (1973), Squartamento (1979), Esercizi di ammirazione (1986), Confessioni e anatemi (1987).
Nell’ambito del pensiero filosofico, Cioran si colloca tra quelle figure che esulano dai canoni stabiliti dall’epoca e dai sistemi, e che non fanno parte di nessuna corrente o scuola. Il suo stile è caustico, diretto e profondamente emotivo, pieno di paradossi, contraddizioni e ossimori, poiché egli scrisse non per diffondere le proprie idee ad un pubblico, bensì per dissipare la propria sofferenza, derivante da un’insonnia costante che lo condusse sull’orlo del suicidio. «L’insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il Paradiso stesso in un luogo di tortura. Qualsiasi cosa è preferibile a questa allerta permanente, a questa criminale assenza di oblio. È durante quelle notti infernali che ho capito la futilità della filosofia. Le ore di veglia sono, in sostanza, un’interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero, è la coscienza esasperata da se stessa, una dichiarazione di guerra, un infernale ultimatum della mente a se medesima. Camminare vi impedisce di lambiccarvi con interrogativi senza risposta, mentre a letto si rimugina l’insolubile fino alla vertigine.» L’ammirazione per la concettualità filosofica occupò, in realtà, solo la più tenera formazione di Cioran. Appena ventunenne, quando pubblica Al culmine della disperazione, egli si rese conto come il ricorso alla filosofia fosse totalmente precario, che i suoi lineamenti concettuali incontrassero solo faticosamente le esigenze tragiche incarnate nella vita. Il ricorso a quella che può essere definita una forma di letteratura terapeutica, poiché solo grazie ad essa desistette dall’uccidersi, fu il vero riscatto nella vita del filosofo. Egli non amò tanto la scrittura in quanto atto poietico, ovvero in quanto produttrice di un’opera finita, ma in quanto activitas che dissolvendo lo stritolamento esistenziale consente la vivibilità della vita. Dilaniato da contraddizioni insanabili, il pensiero di colui che si autodefinisce un filosofo urlatore si manifestò attraverso affermazioni volutamente provocatorie, e paradossali iperboli di humour nero (ad esempio quando scrive ne L’inconveniente di essere nati che “il diritto di sopprimere tutti quelli che ci infastidiscono dovrebbe figurare al primo posto nella costituzione della città ideale”; “La mia visione dell’avvenire è così precisa che, se avessi dei figli, li strangolerei all’istante”; “Ero solo in quel cimitero che sovrasta il paese, quando entrò una donna incinta. Uscii subito, per non dover guardare da vicino quella portatrice di cadavere”; “Aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre”; “Quei figli che non ho voluto, sapessero la felicità che mi debbono”). Qualsiasi giudizio su questa figura del Novecento deve tener conto che egli ha fatto dello scandalo artistico uno stile di vita, dell’arte un’esplosione di sentimenti e della scrittura una valvola di sfogo prettamente personale. Cioran aderisce ad una forma estrema di scetticismo filosofico pessimista e di relativismo, che sfocia nel nichilismo non attivo e indifferentista (“cadere nel menefreghismo dei morti” dice), per una precisa volontà di evitare passioni filosofiche, psicologiche e ideologiche, e utopie giovanili. Così scrive: «Mi sono imposto una filosofia scettica per potere contrastare la mia natura infelice, i miei sgomenti, le mie reazioni umorali. In ogni momento ho bisogno di dominarmi, di frenare i miei impulsi, di combattere le indignazioni, alle quali non credo, anche se mi montano dal sangue o non so da dove. Lo scetticismo è un calmante, il più sicuro che abbia trovato. Vi ricorro in ogni occasione; se non lo avessi, esploderei nel senso proprio del termine.» (Quaderni, 1966). Recenti studi hanno rivalutato filosoficamente il pensiero di Cioran insistendo invece sul contributo decisivo del filosofo a temi centrali della tradizione filosofica occidentale come il nichilismo, la critica della nozione di progresso e il senso della Storia, la soggettività, l’estetica e la politica.
JULIUS EVOLA
Evola nacque da una famiglia siciliana di nobili origini. Le poche notizie sui suoi anni di formazione si possono ricavare dalla sua autobiografia (Il Cammino del cinabro):
«Nella prima adolescenza si sviluppò in me un interesse naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell’arte. Da giovinetto, subito dopo il periodo di romanzi d’avventure, mi ero messo in mente di compilare, insieme ad un amico una storia della filosofia, a base di sunti. D’altra parte, se mi ero già sentito attratto da scrittori come Wilde e D’Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi, a tutta la letteratura e l’arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime serrato e libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l’incontro con pensatori come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger.»
Si espresse inizialmente nell’arte della pittura, aderendo alle tendenze artistiche più moderne. Entrò in contatto epistolare con Tristan Tzara e divenne uno dei principali esponenti del Dadaismo in Italia. Nell’ambito della poesia entrò in contatto con Gottfried Benn e Filippo Tommaso Marinetti quindi s’interessò al Futurismo. Malgrado i suoi contatti con l’ambiente futurista romano, F.T.Marinetti, dopo aver letto uno scritto del giovane Evola pare abbia detto: Le tue idee sono lontane dalle mie più di quelle di un esquimese. Marinetti non era tanto lontano dal vero. Nel 1917 partecipò alla Prima guerra mondiale come ufficiale di artiglieria, pur essendo affascinato dai grandi imperi come quello austro-ungarico contro cui combatteva. Rientrato a Roma dopo il conflitto attraversò una profonda crisi esistenziale e lui stesso riporta (sempre in Il cammino di cinabro) di essersi deciso a 23 anni al suicidio:
«Questa soluzione fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi.»
Questo suicidio mancato fu per Evola il momento di passaggio più significativo: morte all’arte e alla poesia, che infatti abbandonò nel 1921 e nel 1922, e nascita alla filosofia. Terminò nel 1924 la Teoria e Fenomenologia dell’individuo assoluto, che aveva iniziato a scrivere già in trincea e che venne pubblicata in due volumi nel 1927 e nel 1930. In questo testo Evola si interessa delle dottrine riguardanti il sovrarazionale, il sacro e la Gnosi, con l’obiettivo di tentare il superamento della dualità io/non-io. Il suo interesse verso le tradizioni orientali si manifestò in L’uomo come potenza, pubblicato nel 1926, dove compariva una concezione dell’io ispirata dal Tantrismo: l’io si identifica con il mondo percepito e viceversa; l’attaccamento al mondo sensibile costituisce il “velo di Maya”, che si deve sollevare per fondersi nell'”Unità”. In quest’epoca Evola frequentava i circoli esoterici e spiritualisti romani e partecipava alla vita della Roma notturna, intrattenendo un tempestoso rapporto sentimentale con Sibilla Aleramo (narrato nel romanzo della scrittrice Amo dunque sono del 1927). Iniziò inoltre a interessarsi di politica: nel 1924 partecipò alla redazione di Lo Stato democratico, un testo contemporaneamente antifascista e antidemocratico, e tra il 1924 e il 1926 collaborò a riviste come Ultra, Bilychnis. Ignis, Atanor. Tra il 1927 e il 1929 fu il coordinatore del “Gruppo di UR” , che si occupava di recerche sulle tradizioni extra-europee: un’antologia dei fascicoli editi venne più tardi pubblicata in tre volumi nel 1955-1956, con il titolo Introduzione alla Magia quale Scienza dell’Io. Nel 1928 pubblicò un libro che gli procurò grande fama, Imperialismo pagano, nel quale attaccava violentemente il Cristianesimo e si rivolgeva verso il Fascismo, al quale lo accomunava la volontà di ritrovare l’antica grandezza della civiltà romana, ma che tacciava di eccessiva democraticità.
«non ci s’illuda: il fascismo non fa che proclamare tali valori (valori di gerarchia) ma di fatto mantiene una quantità di elementi democratici e borghesi da far paura. Che cosa sia la guerra, la guerra voluta in sé come un valore superiore sia al vincere che al perdere come quella via eroica e sacra di realizzazione spirituale che nella Bhagavadgita si trova esaltata dal dio Krshna, che cosa sia una tale guerra non lo sanno più questi formidabili “attivisti” di Europa che non conoscono guerrieri ma soltanto soldati e che una guerriciola è bastata per terrorizzare e per far tornare alla retorica dell’umanitarismo e del patetismo quando non ancora peggio a quella del nazionalismo fanfarone e del dannunzianismo. La misura della libertà è la potenza: non dovrà essere più l’idea a dar valore e potere all’individuo ma l’individuo a dar valore, potere, giustificazione a un’idea. Volere la libertà è tutt’uno che volere l’impero»
Influenzato dalla lettura delle opere di René Guénon, abbandonò in seguito le tesi estremiste dell’Imperialismo pagano a favore del concetto della “Tradizione” e fondò la rivista La Torre, destinata a difendere princìpi sovrapolitici e dunque poco accetta al regime fascista: Evola fu costretto a farsi proteggere da una guardia del corpo e la rivista fu bandìta dopo otto numeri pubblicati. In questo periodo furono pubblicati diversi saggi sul simbolismo tradizionale (La Tradizione ermetica, 1931; Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, 1932; Il mistero del Graal, 1937). Nel 1943 fu pubblicato La dottrina del risveglio, uno studio sull’ascesi buddhista. Nel 1934 apparve la sua opera fondamentale, Rivolta contro il mondo moderno, nella quale tracciò un affresco della storia letta secondo lo schema ciclico tradizionale delle quattro età (oro, argento, bronzo, ferro, nella tradizione occidentale; satva, treta, dvapara, kali yuga, in quella indù) e in cui descrisse la decadenza del mondo moderno. Nelle sue opere Evola pose spesso l’accento sull’unità delle antiche civiltà tedesche e italiane e fece frequenti viaggi in Germania. Per amore verso il mondo germanico cambiò nome da Giulio a Julius. Nel 1938 prese contatto con il nazionalista rumeno Corneliu Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro, per il quale ebbe nei suoi scritti parole di ammirazione. Nel 1937 pubblicò Il Mito del Sangue (che ebbe una seconda edizione nel 1942) dove ricostruiva le concezioni sulla razza nelle civiltà antiche e nelle teorie del XVIII secolo, contrapponendole alla versione moderna e biologica del nazismo. Seguì nel 1941 la Sintesi di dottrina della razza. In questi testi espresse le sue concezioni antisemite, non basate su una concezione di razzismo biologico (gli Ebrei non potevano infatti essere considerati secondo Evola una razza, per le mescolanze subite nel corso della storia), ma che opponevano ugualmente a livello tradizionale “Giudei” e “Ariani” (da “Arya”, gli antichi Indiani) nel nome di una differenza di “razza spirituale” e propugnavano l’affermazione della razza ariana. Dichiarò che non aveva importanza l’attendibilità storica dei Protocolli dei savi di Sion, il falso opuscolo creato dalla propaganda zarista e largamente diffuso da quella nazista per provare il “complotto giudaico”, visto che comunque raccontava una veridicità secondo lui attendibile sugli effetti ebraici di controllo della società (banche, stampa, mercato, politica) attraverso la dissoluzione culturale dall’interno. L’ebraismo è per Evola una colpa senza redenzione: «nemmeno il battesimo e la crocefissione cambia la natura ebraica». Evola non aderì al Partito fascista, e questa mancata adesione gli impedì nel 1940 di arruolarsi come volontario contro l’Unione Sovietica nel corso della Seconda guerra mondiale. Nel 1942 fu pubblicato il suo testo Per un allineamento politico-culturale dell’Italia e della Germania nel quale esprimeva ammirazione per il nazismo tedesco, considerandolo superiore al fascismo, in ragione del coraggio nel risvegliare l’antico spirito ariano e germanico. Critica tuttavia l’incompletezza nell’attuazione di questo programma, non abbastanza radicale e aderente ai principi della “Tradizione”: per esempio una difesa della razza improntata giuridicamente ad una sorta di “igiene razziale” e il potere del Führer derivato dal popolo e non un potere regale di origine divina come nell’ideale società ario-germanica delle origini. Si potrebbe definire Evola come un teorico di un tradizionalismo “puro”, ideale e più radicale, che avesse la forza di attuare i propri principi e di far trionfare la cultura romana e pagana delle origini a cui dichiarava di ispirarsi. Nutrito di concetti buddhisti, Evola condivise con Martin Heidegger e Carl Schmitt lo stesso progetto di un risveglio della Germania e di rinascimento della “germanicità”. Tra l’Unione Sovietica comunista e gli Stati Uniti capitalistici il nazionalsocialismo tedesco gli era sembrato proporre una terza via, preferibile dal suo punto di vista: quella di un impero europeo e pagano sotto la guida egemonica della Germania di Hitler. Evola aderì più tardi alla Repubblica Sociale e intraprese tentativi di influenza sulle SS e sui nazisti tedeschi, compreso lo stesso Heinrich Himmler. Si scoprì poi, nel dopoguerra, dagli archivi delle SS e della Ahnenherbe, che Evola fu, in Germania ed in Italia, sempre sotto stretta sorveglianza, i suoi libri venivano letti ed analizzati minuziosamente, ed un qualsiasi particolare sgradito era sufficiente ad avversare la pubblicazione o la diffusione dell’opera. Le SS gli permisero di intrattenere ruoli culturali solo nei casi in cui ritennero che questo potesse giovare alla propria causa: il sospetto per il tradizionalismo di Evola derivava dal paragone con movimenti tradizionalisti tedeschi come la Konservative Revolution, la quale fu stroncata dai nazisti come “troppo spiritualista” e troppo poco “attiva”, come sentenziò lo stesso Goebbels nei suoi diari. Nel 1945 Evola si trovava a Vienna, sicuro di essere protetto dagli dei, si avventurò in una passeggiata durante i bombardamenti che colpirono la capitale austriaca. Venne sbalzato da uno spostamento d’aria: una lesione al midollo spinale gli provocò una paralisi permanente agli arti inferiori. Solo nel 1948, grazie alla Croce Rossa Internazionale, fu trasferito a Bologna e nel 1951 poté rientrare nella sua casa di Roma. Già nel 1950 aveva pubblicato un opuscolo (Orientamenti) nel quale erano sintetizzate in undici punti le sue idee, poi sviluppate nei libri successivi. Nel 1953 pubblicò Gli uomini e le rovine, che eserciterà grande influenza negli ambienti della destra italiana, nel quale spiegava la decadenza del mondo moderno, in seguito alla distruzione del principio di autorità e di ogni possibilità di trascendenza per l’affermarsi del razionalismo, in contrasto con le antiche civiltà e i valori della Tradizione. Nel 1958 uscì la Metafisica del Sesso sulla forza magica e potentissima del sesso, attraverso lo studio dei simboli esteso a numerose tradizioni. Nel 1961 pubblicò ancora Cavalcare la Tigre, in cui proseguiva la sua critica del mondo moderno, offrendo una guida per coloro che pur non sentendo di appartenere interiormente a questo mondo, avessero intenzione di non cedervi psicologicamente né esistenzialmente. Negli ultimi anni visse con una pensione di invalido di guerra, facendo traduzioni e scrivendo articoli. Uno scompenso cardiaco si manifestò nel 1968 e si ripeté nel 1970. Morì nella sua casa romana nel 1974. Nel suo testamento aveva stabilito che il corpo venisse cremato, che non vi fossero cerimonie cattoliche né annunci. Le sue ceneri vennero consegnate alla guida alpina Eugenio David suo compagno di scalate in giovinezza e gettate in un crepaccio del Monte Rosa come stabilito prima della sua morte. Evola fu propugnatore del tradizionalismo, ossia di un modello ideale e sovratemporale di società, attuato storicamente in alcune delle antiche civiltà, caratterizzato in senso aristocratico. Queste antiche società erano suddivise gerarchicamente sulla base della qualità naturale degli individui, di carattere ereditario e genetico dunque, invece che su criteri economici e materiali. In queste società antiche era fondamentale inoltre il senso del sacro, tradotto in simboli e riti ossia la Regalità Divina, la Iniziazione, l’ Azione eroica o la Contemplazione, il Rito e la Fedeltà, la Legge tradizionale, la Casta, l’Impero. Questo stato e civiltà ritenuti superiori, basati sulla più elevata sfera metafisica e spirituale invece che sull’ordine fisico e materiale, furono cancellati secondo Evola dalla decadenza attualmente visibile nella civiltà occidentale (secondo lo schema delle quattro età di Esiodo: oro, argento, bronzo e ferro). La distruzione degli antichi valori fu per il filosofo il frutto delle idee illuministiche massoniche espresse nella Rivoluzione Francese e di una visione della realtà basata esclusivamente sull’esperienza corporea, che avrebbe impedito il superamento e la purificazione della natura umana nel divino e la sua liberazione dal divenire contingente. Il pensiero di Evola ha un carattere eroico. Ricercando la metafisica comune a tutte le tradizioni antiche, i suoi scritti si sforzano di ritrovare attraverso l’interpretazione dei simboli delle civiltà la presenza di una antica casta guerriera. Questa, secondo il filosofo, doveva essere collocata in cima alla gerarchia sociale, trascurando le caste sacerdotali e la loro supremazia. Il suo pensiero, pur influenzato da quello di Guénon e di Nietzsche, se ne differenzia tuttavia sino all’incompatibilità (specialmente con Nietzsche). Da Guénon derivava la base della dottrina tradizionale e da Nietzsche la difesa dei valori aristocratici e guerrieri e l’ostilità verso il Cristianesimo. Dalla Tradizione deriva il differenzialismo, ossia la concezione di una naturale diseguaglianza degli esseri umani ovvero delle loro potenzialità innate, che possono o non possono in seguito essere sviluppate. Ne è conseguenza l’antidemocrazia , accompagnata dalla critica al totalitarismo, anch’esso considerato espressione della società di massa. La società propugnata da Evola era dunque profondamente antidemocratica e basata sulla superiorità per nascita degli individui appartenenti alla casta più alta, gli unici in grado di raggiungere una più elevata spiritualità. Il pensiero del filosofo, in virtù dell’avversione all’ugualitarismo, era profondamente e radicalmente anticomunista: Evola in molte sue opere attacca con disprezzo l’ideologia, gli ideologi comunisti e i loro seguaci, considerandoli “subumani”, in quanto espressione più bassa e animale dell’umanità. Così come ci sono differenze innate tra gli individui, ci sarebbero secondo Evola differenze tra le razze. La razza interiore di cui parla il filosofo, è definita come un patrimonio di tendenze e attitudini che a seconda delle influenze ambientali giungono o meno a manifestarsi compiutamente. L’appartenenza ad una razza si individua dunque sulla base delle caratteristiche spirituali, e solo in seguito fisiche, diventandone col tempo queste ultime il segno visibile. Evola criticava una concezione razziale che si basasse esclusivamente sui dati naturali e biologici perché, come scriveva, “la razza esiste sia nel corpo, sia nello spirito”. La concezione spirituale della vita propria della Tradizione, come potenzialità innata ed ereditaria, sarebbe espressione propria dei ceppi umani superiori, identificati con le popolazioni di origine indoeuropea, pur non essendo propria solo di quelle genti: Evola estese la sua ammirazione a tutte le culture tradizionali, specie orientali e mediorientali. Secondo la concezione aristocratica e gerarchica propria dello spirito tradizionale, la razza tuttavia secondo Evola non potrebbe determinare da sola il valore di un individuo, cosa che livellerebbe tutti gli appartenenti ad un popolo con la democratizzazione del sangue, abbattendo le differenze di casta (per il filosofo necessarie), e introducendo un elemento egualitario. In quest’ambito si inserisce anche l’antisemitismo di Evola, sfumato nella accezione astratta che caratterizza il suo pensiero. Evola si contrappone alla Ebraicità, intesa come tendenza spirituale antitradizionale, la quale si sarebbe manifestata nella storia nel popolo ebraico, convertendo il suo spirito tradizionale degli inizi in una mentalità anti-tradizionale di tipo sovversivo in seguito a vicende di numerose sconfitte e sventure patite nella storia antica. L’importanza attribuita al progresso spirituale in contrapposizione a quello materiale in questa concezione, non impedisce al filosofo di attribuire il carattere di superstizione e irrazionalità al Cristianesimo come religione devozionale, opponendogli invece una conoscenza superiore, con aspetti esoterici (il nocciolo nascosto dalla scorza, concezione influenzata anche dalle tradizioni orientali). Questa conoscenza si raggiungerebbe attraverso un’ascesi che non costituisca tuttavia una mortificazione di sé, ma piuttosto una piena realizzazione dell’Io, secondo la concezione dell’individuo assoluto. Costui non subisce, secondo Evola, i condizionamenti del contingente, ma lo domina e trova autarchicamente in sé il centro di tutto, nel quale è compreso anche il mondo esterno, venendo così a coincidere con il divino. Attualmente il complesso pensiero del filosofo è ancora studiato in molte nazioni e diversi autorevoli studiosi individuano nella speculazione evoliana l’utopia di un profeta disperato e disperante. Nelle opere evoliane emerge la disillusione per una civiltà mondiale, ed europea in particolare, che gli appare irrimediabilmente in rovina, non esistendo a suo avviso una categoria adeguata di persone che possa dirigere la società ideale in modo organizzato e gerarchico. Nell’opera Cavalcare la tigre arriva a proporre una soluzione di tipo anarchico: considerando che non esistono capi eroici per i quali sacrificarsi, afferma, tanto vale orientarsi all’individualismo.
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