FILOSOFIA E AMORE
“L’amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile. Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”
(T.W. Adorno, Minima moralia)
A cura di Diego Fusaro
In questa prima sezione del nostro sito, tenteremo, pur senza pretese di esaustività, di delineare i tratti fondamentali dell’ontologia dell’amore. Facciamo nostre, allora, le parole pronunziate da Agatone nel Simposio platonico: “è giusto che anche noi elogiamo Eros, prima dicendo quale è lui, poi quali sono i suoi doni” (195 a). Seguendo lo Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto del 1821, l’ontologica differenza del sesso maschile e di quello femminile trova nella vita familiare etica la propria unificazione fondata sull’immediatezza del sentimento amoroso. Tanto l’amore, quanto la sua eticizzazione familiare, sono intese non già come annullamento della differenza, bensì come raggiungimento dell’unità nella differenza: o, se si preferisce, come sintesi duale, in cui i diversi coesistono uniti. Prima che il rapporto si eticizzi nella forma stabile e istituzionalizzata della famiglia, esso esiste come immediatezza del sentire amoroso, come libera e spontanea attrazione mediante cui unirsi all’altro, riconoscendolo ed essendo da lui riconosciuti. Rovesciamento dell’individualismo acquisitivo ed egoistico, l’amore, nella sua determinazione più generale, fa valere la verità duale. Sottoponendoci a una “mutazione identitaria che ci trasforma intensamente”, ci fa vivere secondo una nuova prospettiva a due lo stesso mondo che, fino a quel momento, avevamo sperimentato secondo il punto di vista dell’uno. L’amore è, in sintesi, esperienza di verità duale, costruzione a due della verità o, ancora, verità esperita della differenza, “esperienza del molteplice o della differenza avvertita attraverso una sintonia unitaria”. Come l’opera d’arte analizzata da Heidegger nel saggio racchiuso nei Sentieri interrotti, l’amore dischiude un mondo duale e diverso, perché esperito dal punto di vista del due che ora siamo liberamente passati a essere mediante l’unione di spontaneo riconoscimento con l’altro. Lo si può comprendere, forse, evocando lo splendido passaggio in cui Goethe narra dello scenario incantevole che gli si apre dinanzi varcando le Alpi, allorché fa la sua comparsa, sullo sfondo, il lago tra le montagne. Il poeta, nella sua olimpica solitudine, si lamenta di non poter condividere con nessuno quell’esperienza maravigliosa, ossia di non poterla vivere in forma duale. L’esperienza d’amore ci aiuta, per una via particolare, ad acquisire coscienza dell’unilateralità del discorso dell’economista e dello scienziato, che oggi pretendono di risolvere la verità nel calcolo e nella quantità, nella misurazione e nell’utilità: in una parola, nelle forme della certezza rappresentativa della scienza e della crescita quantitativa dell’economia. Il nesso che lega tra loro, con la sintassi di Gadamer, “verità e metodo” non è esclusivo. Si danno molteplici esperienze di verità che cadono al di là del metodo della scienza del calcolo e che non possono spiegarsi, né intendersi, alla sua luce. È, inter alia, il caso dell’arte e della religione, della filosofia e dell’amore: quest’ultimo, a differenza di ciò che esiste nel “regno della quantità”, non può essere calcolato, né può valere in forme astratte e universali. L’oggetto dell’amore è sempre la vita palpitante che risponde al nome proprio: e che, per ciò stesso, sfugge tanto alla presa della ragione calcolante quanto a quella del principio dell’universalismo astratto. A differenza del danaro, non si può acquistare. A differenza del potere, non si può imporre. Ancora, a differenza della morale, – come già sapeva Hegel – “non può essere comandato”6 nella forma di un dover essere. Prova ne è, peraltro, l’absurdum di un eventuale imperativo che così suonasse: “devi amare!”. È questo, in fondo, l’insegnamento generale che sull’amore traiamo dalle considerazioni che intorno a esso viene svolgendo il giovane Hegel a Francoforte (1797-1800). L’amore – scrive Hegel – è “patologico” ed “è così poco subordinato al dovere e al diritto che il suo trionfo è piuttosto non dominare su nulla ed essere verso l’altro senza potenza ostile”8. Nel sentimento amoroso il giovane Hegel, a Francoforte, ravvisa una via privilegiata per il superamento della “scissione” (Entzweiung) e per la conseguente riconquista di una Totalità fusionale in grado di oltrepassare l’opposizione soggetto-oggettiva. Secondo la via già battuta da Schiller, che, nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’umanità (1795), mediante la nozione di Liebe, aveva tentato di ricomporre in una superiore sintesi armonica i dualismi kantiani di sensibilità e intelletto, inclinazione e dovere, l’amore è, per l’Hegel di Francoforte, unità priva di lacerazioni, separatezze e scissioni. È sintesi duale che unifica e vivifica i due, portandoli a essere una Totalità organica perfetta. Nell’amore, Soggetto e Oggetto si fondono un un’unità scevra di opposizioni: in una sorta di imperscrutabile rationelle Mystik, “solo nell’amore si è uni con l’oggetto, né lo si domina, né se ne è dominati”. Ogni opposizione viene incondizionatamente esclusa e superata mediante la sintesi soggetto-oggettiva posta in essere dal vincolo amoroso: è appunto tolta la Entzweiung, che, letteralmente, significa lo “sdoppiamento” e, dunque, la separatezza dei due che, invece, dovrebbero tendere all’unità, in essa realizzandosi appieno. Nella figura dell’amore, a Francoforte, è già tematizzata dallo Hegel la dialettica con le sue leggi specifiche, pur ancora in assenza dell’elaborazione del sistema, quale verrà prendendo forma a Jena: il separato è ancora presente, ma come parte superata nell’Intero vivente. Quest’ultimo, a sua volta, alberga in sé l’unità e la molteplicità, l’unificato e il separato: si presenta come Totalità differenziata e, dunque, come identità dell’identità e della non-identità. In particolare, nel noto frammento, pubblicato da Nohl con il titolo Die Liebe (L’amore) con due redazioni (1797 e 1798-1799), Hegel valorizza l’amore esattamente in quest’ottica di riunificazione e di superamento attivo della Entzweiung. A differenza dell’intelletto e della ragione, che lasciano sussistere l’opposizione e irrigidiscono le parti nella loro separatezza irrelata, l’amore “esclude ogni opposizione”. Esso si pone realiter come unificazione dei separati, che sentono se stessi come viventi solo nell’atto in atto dell’amore vissuto. Le solitudini dell’io e del tu vengono superate dialetticamente nella sintesi vivente del noi che essi hanno ora preso a essere: “Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo tra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo e per nessun lato l’uno è morto rispetto all’altro”. Nell’amore, il separato non è annullato in quanto tale: esiste ancora, ma non più come separato, bensì come unito. Prende, così, forma un’unità rispettosa delle parti, nella quale ciascuna di esse si avverte come frammento di un Intero che ne realizza la pienezza. Lo sdoppiamento coessenziale alla scissione (Entzweiung) è risolto nell’unità duale, nella nuova sintesi unitaria che realizza le parti nella Totalità concreta in cui ora prendono a vivere. Tale Totalità – Hegel vi insiste ad abundantiam, e sarà peraltro uno dei principali motivi della sua rottura in ambito teoretico con lo Schelling – non è indifferenziata alla stregua della notte in cui tutte le vacche si mostrano nere. È, al contrario, articolata nelle sue parti, che sono e si sanno viventi nell’Intero. Le parti anelano all’unità assoluta, superante ogni scissione e ogni separazione soggetto-oggettiva. L’amore si avverte come imperfetto quando non riesce a produrre tale unità: “un amore puro non si vergogna dell’amore; ma si vergogna che questo non sia completo”. Per parte sua, il pudore – spiega Hegel – è un corruccio sorgente al cospetto di quell’impedimento all’unione totale rappresentato dai corpi. Questi ultimi possono solo avvicinarsi, ma non unificarsi in via definitiva: l’amore è per questa ragione, anche a livello fisico, aspirazione a superare la distinzione e la separatezza mediante il contatto, le carezze, le effusioni e l’unione dei corpi. In quanto desiderare il desiderio di un altro, l’eros è, per sua essenza, negazione di ogni movente egoistico dell’agire. È, in quest’ottica, antiutilitaristico nel suo stesso fondamento relazionale. Scrive Hegel: “Colui che prende non si trova con ciò più ricco dell’altro; si arricchisce, certo, ma altrettanto fa l’altro. Parimenti, quello che dà non diviene più povero: nel dare all’altro egli ha, anzi, accresciuto i propri tesori. […] L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infinite differenze e trova infinite unificazioni. S’indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite”. Le geometrie dell’utile e del do ut des sono spezzate dalla dialettica d’amore, con la quale, più si dà e più si ha. Ci si arricchisce a vicenda nei “propri tesori”, donando e ricevendo in dono, senza che tale dinamica – Hegel si sta riferendo alle figure di Romeo e Giulietta – sia presieduta dalle logiche dello scambio: “ognuno dà ciò che prende, l’uno come l’altro”, dirà in quegli stessi anni Federico Schlegel. È così, in generale, potenziata la “ricchezza di vita” (Reichtum des Lebens), mediante uno “scambio” che è intrinsecamente antieconomico, legato ai “pensieri” e alle “molteplicità dell’anima”: la pienezza d’essere degli amanti si potenzia mediante l’unità che, con la dialettica d’amore, essi hanno generato e che, nel dare reciproco, accresce i tesori di entrambi. Le loro particolarità individuali sono dialetticamente superate in una nuova e più alta sintesi, che non le annulla, ma le porta a essere in forma più piena e più ricca. “Gli amanti – precisa Hegel – sono un tutto vivente” e soltanto stando insieme “hanno indipendenza”. Superamento realizzato dell’opposizione, l’amore pone in essere un organismo vivente nell’unità delle sue parti: “il separato è solo opposto in tal modo che l’uno è l’amato e l’altro l’amante, così dunque ogni separato è un organo di un vivente”. E, in tal guisa, “si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità” o, secondo le grammatiche della dialettica hegeliana, come unità dell’unità e della non unità. Con le parole dello Spirito del cristianesimo e il suo destino, “nell’amore la vita ha ritrovato la vita”. Nel frammento Religion und Liebe (1797-1798), in coerenza con la soluzione teorica propria della fase francofortese, Hegel ritiene che la religione e l’amore siano accomunati dalla loro potenza unificante in modo immediato. La religione si presenta essa stessa come una forma di amore mediante cui l’amato non è opposto, ma è un tutt’uno con la nostra essenza. Scrive Hegel: “La religione è una con l’amore. L’amato non ci è opposto, è uno con la nostra essenza. In lui vediamo solo noi stessi, e tuttavia non è noi: miracolo che non siamo in grado di capire”. In questa prospettiva, sulle orme di Hegel, l’amore è la relazione di elementi diversi che non si dà come terzo rispetto ai due, come se fosse un quid che si aggiunge agli opposti. È, viceversa, il legame vivente che li unifica senza annullarne l’esistenza autonoma, ma risolvendola in una superiore sintesi dialettica, la cui essenza sfugge alla presa dell’intelletto separante (“miracolo che non siamo in grado di capire”). Nell’unità duale della sintesi amorosa, la vita è duplicata e, insieme, portata all’unità. È duplicata, in quanto l’Intero vivente è ora duale, composto dai due viventi che lo animano. Ed è portata all’unità, giacché essi, pur restando in due, esistono come un’unità reale, come una Totalità che non annulla le parti, ma che ne realizza la pienezza d’essere. Liebe e Leben, “amore” e “vita”, esprimono l’Intero e la Einigkeit ed esigono il superamento della “riflessione” e delle forme in cui si cristallizza la scissione dell’evo moderno, che tutto scompone e calcola, frammenta e misura. Così asserisce lo Hegel negli scritti di Francoforte in relazione all’amore come antidoto contro la scissione: “Esso non è l’intelletto, le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono delle opposizioni; esso non è ragione, che oppone assolutamente al determinato il suo determinare: non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo. […] Nell’amore questo tutto non è contenuto come somma di particolari, di molti separati; nell’amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità. […] Nell’amore infatti rimane ancora il separato, ma non più come separato, bensì come unito: e il vivente sente il vivente”. Nei testi jenesi che precedono la Fenomenologia dello Spirito, la figura concettuale dell’amore compare, sia pure in una posizione meno direttamente centrale, e continua a essere concepita dallo Hegel come una chiave di accesso a un’unità superante la disgregazione. L’amore, infatti, “trasforma entrambi i sessi in essere-coscienti l’uno per l’altro” e, in tal guisa, li unifica in una sintesi che già trascende l’individualità irrelata che ciascuno era prima di incontrare l’altro. Se prima ciascuno era ermeticamente rinchiuso in sé e nella propria particolarità, ora “è per sé nella coscienza dell’altro”: si ottiene, così, l’“immediato essere-uno di entrambi nell’assoluto essere-per-sé di entrambi”. Con le parole dello Spirito del Cristianesimo e il suo destino, “nell’amore l’uomo ha ritrovato se stesso in un altro”. Ciascuno è per sé, mantenendo la propria individualità: e, insieme, forma una totalità duale scaturente dall’unione delle due particolarità, ora entrate a far parte di una sintesi superiore. Sicché – scrive lo Hegel – “ognuno è reciprocamente nella coscienza dell’altro”26: a scaturirne è, ora, il “vivente essere-uno di entrambi”27, caratterizzantesi per la nuova figura dell’“essere per altro”28 che accompagna la coscienza di ciascuno dei due amanti. La formula magica del sentimento d’amore, che ciascuno dei due amanti può pronunziare in riferimento all’altro, è dunque la seguente: “esso sa sé in me”. Il mondo a due è un mondo condiviso, che ci fa continuamente esperire la nostra mancanza: e, insieme, ci permette di superarla. Con le summenzionate parole di Hegel, “rimane ancora il separato, ma non più come separato, bensì come unito”. Per questa via, l’esistenza degli amanti è rifondata ex novo: sorge una seconda volta, vivendo in modo inedito l’esperienza del mondo nella duplicazione della vita che si sente come unificata nella dualità in cui ha ora preso a esistere1. È quanto esprime Sartre nell’Être et le néant, allorché asserisce che, in virtù dell’amore dell’altro, io sono salvato dalla mia bruta e opaca facticité: l’essere amato e l’amare a mia volta è ciò in forza di cui cesso di esistere accidentalmente e acquisto finalmente un senso preciso. Per questo, la domanda d’amore è sempre, immancabilmente, una domanda di senso: amandomi, l’altro mi sottrae all’abbandono assoluto e mi dona quel senso nuovo che si incarna nell’esistere nella dualità amorosa. La mia esistenza, ancora con la sintassi sartriana, si avverte ora come giustificata: “è questo il fondo della gioia d’amore, quando esiste: sentirsi giustificati d’esistere”. Sulle orme delle analisi di Badiou, potremmo con diritto asserire che l’amore si pone, per sua essenza, come una “costruzione di verità” che dischiude una nuova esperienza del mondo a partire dal due e non più dall’uno che primieramente si era. Siffatta esperienza veritativa si fonda sulla differenza più che sull’identità. E si sviluppa nella forma specifica di un “proposito esistenziale” radicato sullo sforzo e sull’attiva ricerca della costruzione di un mondo nuovo a partire “da un punto di vista decentrato rispetto al mio semplice istinto di sopravvivenza, o al mio interesse”. Amando, sono per l’altro e mediante l’altro. In ciò riposa la verità dell’eros come “procedura di verità”, ossia come verità del e sul due o, se si preferisce, della differenza in quanto tale. Essa eccede intrinsecamente l’ambito scientifico: non v’è relazione amorosa ordine geometrico demonstrata (e, se v’è, non è autenticamente tale), né v’è discorso razionale, o scientifico, che possa rendere ragione del sentimento d’amore, che Leopardi poeticamente appella “terribile ma caro dono dono del ciel” (Il pensiero dominante, vv. 4-5). L’elemento universale-veritativo dell’eros, pertanto, non può essere descritto con l’ordine del discorso scientifico, secondo i parametri del numero e della cifra, della quantità e della misurazione obiettiva. Può soltanto essere narrato in prima persona. Ed è per questa ragione che, da sempre, destano interesse presso il grande pubblico i romanzi d’amore (o, più recentemente, i film consacrati al tema). Ogni amore delinea una particolare forma della verità dell’essere due, della verità della differenza, di come, nel nesso amoroso, il mondo come totalità dell’essente venga esperito diversamente rispetto a come lo esperisce la coscienza individuale. A differenza del discorso scientifico, la cui esattezza prescinde dalla soggettività di chi lo enuncia (e che trova, anzi, in tale indipendenza extrasoggettiva il proprio stesso fondamento), il discorso d’amore è inaggirabilmente connesso con l’io narrante. Muove da un nome proprio e a un nome proprio si rivolge. E, insieme, riguarda quelle verità del cuore che sono, per loro essenza, personali e non universalizzabili, perché connesse al concreto vissuto del soggetto che ne fa reale esperienza. È quanto ci ricorda anche Socrate allorché, nel Simposio, si rivolge ad Agatone e gli ricorda come l’amore non esista mai in astratto e senza contenuto e sia, invece, sempre rivolto a un essere vivente concreto, a una particolarità esistente nella sua insostituibile concretezza. Così si spiega anche perché, sempre nelle pagine del Simposio, Alcibiade, sopraggiunto quando il convivio sta volgendo al termine, non svolga un discorso su Eros, a differenza degli altri convitati, ma su Socrate stesso, che è il filosofo – e, dunque, l’alter ego dell’eros –, ma poi anche il nome proprio della persona da lui amata. Parlare dell’amore significa, ineludibilmente, parlare della persona amata, del nome proprio in cui esiste materialmente l’amore che ci porta a trascendere l’individualità personale che siamo. In questo orizzonte, peraltro, si comprende la peculiare forma del testo – solo parzialmente inquadrabile come saggio – di Roland Barthes intitolato Fragments d’un discours amoureux (1977): il solo modo per delineare l’essenza specifica dell’amore sta nell’immaginare il discorso di un soggetto amoroso, la sua narrazione soggettiva svolta nella forma della prima persona singolare. Ed è quanto ci viene, appunto, restituito nel testo di Barthes. Non v’è, propriamente, ragione universale che operi nella dimensione dell’eros: che è invece, sempre, esperienza vissuta dal soggetto nella propria interiorità insostituibile. Ce ne restituisce una vivida testimonianza la sofferta lamentazione di Werther tratteggiata da Goethe: Ach, was ich weiß, kann jeder wissen – mein Herz habe ich allein, “ah, quello che io so, chiunque lo può sapere: ma il mio cuore lo possiedo solo io!” (I dolori del giovane Werther, II, 9 maggio). Per questo, l’amore è sempre da particolare a particolare e sfugge alla presa di ogni forma di universalismo astratto: come si ricordava poc’anzi, è amore del nome proprio per il nome proprio. L’essenza dell’esperienza erotica, con le parole di Aristofane nel Simposio, sta nell’anelito a ἐν τῷ αὐτῷ γενέσθαι ὅτι μάλιστα ἀλλήλοις, ὥστε καὶ νύκτα καὶ ἡμέραν μὴ ἀπολείπεσθαι ἀλλήλων, a “diventare l’uno con l’altro una medesima cosa, in modo da non lasciarsi mai né notte, né giorno” (192 d): se ne inferisce che l’amore si configura metafisicamente come rapporto dialettico tra unità e dualità o, se si preferisce, come tensione dei due a farsi uno senza annullare la propria particolarità, ma realizzandola appieno nella comunione con l’altro. Ancora con le parole di Aristofane, ἔρως è ricerca di riconquista dell’unità perduta e frammentata, “ritornando in tal modo alla natura più antica” e tentando di “fare di due uno” (191 d). L’amore, dunque, si pone come tentativo delle singolarità di raggiungere un’unità che non le annulli, ma che le innalzi a una diversa prospettiva, quella del duale: dove l’unità stessa, raggiunta, non sopprime le individualità, ma permette loro di vivere l’esperienza duale del mondo. L’unità così raggiunta, lungi dall’annichilire l’individualità degli amanti, la potenzia e la porta alla sua pienezza d’essere, innalzandola al grado di una Totalità differenziata a cui si apre l’esperienza duale del mondo. L’eros è, dunque, potenza universale e cosmica che aspira a unificare gli essenti e a superare la scissione: con le parole del medico Erissimaco, πολλὴν καὶ μεγάλην, μᾶλλον δὲ πᾶσαν δύναμιν ἔχει συλλήβδην μὲν ὁ πᾶς Ἔρως, “Eros ha una potenza così vasta e grande e, anzi, una potenza universale” (188 d). Il mito degli androgini racconta di come le parti dell’Intero siano separate e condannate a rincorrersi con l’anima sanguinante e a cercare ciascuna la propria metà originaria. È la punizione inflitta dai divini ai mortali, affinché abbandonino la superbia che li induce, in origine, a sentirsi essi stessi divini nella loro completezza unitaria e addirittura a tentare “di scalare il cielo per dare l’assalto agli dèi” (190 b-c): l’ombelico – spiega Aristofane (191 a) – venne lasciato ben visibile sul ventre a mo’ di “ricordo dell’antico castigo”. Infatti, secondo la narrazione di Aristofane, ripresa dopo l’interruzione cagionata dal singhiozzo, πάλαι ἡμῶν φύσις οὐχ αὑτὴ ἦν ἥπερ νῦν, ἀλλ᾽ἀλλοία, “anticamente la nostra natura non era quale è ora, ma era diversa” (189 d), poiché “la figura di ciascun uomo era tutta intera rotonda” (189 e) e ognuno di noi bastava a se stesso. La scissione prodotta da Zeus per punire l’umana tracotanza comporta che, da quel momento, ciascuna metà cerca l’altra per poter reistituire, con essa, l’unità originaria che insieme formavano: “dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla” (191 a). Per questo, spiega Aristofane, la cosa migliore è “incontrare un amato che abbia un animo che corrisponda al nostro” (193 c) e mediante il quale fare di due uno. Sicché ἔρως è la forza della riunificazione del separato: una potenza magnetica a tal punto radicata che, come ricorda il Simposio (192 e), se al cospetto degli amanti si presentasse Efesto, il dio fabbro, essi accetterebbero con entusiasmo che questi saldasse indisgiungibilmente i loro corpi e di due ne facesse uno solo. Se l’originario essere sferico rimanesse intatto, allora l’amore resterebbe ignoto, perché mancherebbe la tensione e la bellezza come cosa degna di essere amata. La vera perfezione – questo insegna il mito platonico – non è data, ma va conquistata: non coincide con la pacifica fruizione di una condizione originaria, ma con lo sforzo di riconquista del separato, vuoi anche con la riattuazione di una seconda unità, superiore perché ricercata consapevolmente e ottenuta mediate l’azione concreta dell’amare. Con le parole del Simposio, ἔστι δὴ οὖν ἐκ τόσου ὁ ἔρως ἔμφυτος ἀλλήλων τοῖς ἀνθρώποις καὶ τῆς ἀρχαίας φύσεως συναγωγεὺς καὶ ἐπιχειρῶν ποιῆσαι ἓν ἐκ δυοῖν καὶ ἰάσασθαι τὴν φύσιν τὴν ἀνθρωπίνην, “da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riconduce all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura” (191 d). Il Simposio, con la voce dell’antichità classica, ci insegna che la separatezza dell’essere individui, lungi dall’essere la suprema forma di realizzazione del sé, coincide con una patologia dolorosa1. La strutturale mancanza che l’individuo è chiede di essere superata mediante il suo inserimento in un nesso autenticamente intersoggettivo, che non lo annulli, ma lo realizzi pienamente. Rispetto a tale fisiologica mancanza, la prima e fondamentale terapia è offerta dall’ἔρως come riconquista dell’unità perduta, ora rivivificata mediante l’unità duale del rapporto amoroso: in cui le singolarità non si annullano, ma si completano in una microcomunità solidale. Negli spazi di quest’ultima, per dirla à la Hegel, il separato non cessa di esistere, ma cessa di esistere come separato. Su basi solo in parte hegeliane, è quanto ha sostenuto anche L’arte di amare di Fromm: “sembra un paradosso, ma nell’amore due esseri diventano uno e tuttavia restano due”2. Così inteso, ἔρως è costitutivamente sforzo del ritorno odisseico alla patria dell’unità originaria e struggente ricordo di quell’unità che eravamo e che ora non siamo più. È, dunque, coscienza sofferta del nostro attuale essere difettivo (manque-a-être), della mancanza che siamo, che vorremmo non essere e che ci sforziamo operativamente di superare donandoci all’altro e provando con lui a rigenerare l’“Uno e Tutto” (Ἓν καὶ Πᾶν) di cui siamo in cerca. Di qui discende l’analogia strutturale, fondativa della poderosa architettura del Simposio, tra il filosofo e il dio Eros, entrambi mancanti e in cerca di ciò che possa porre rimedio alla mancanza che essi sono e sanno di essere. Entrambi sono figli di Πενία e di Πόρος, di “mancanza” ed “espediente”, poiché tutti e due, muovendo dalla privazione che ab intrinseco sono, cercano di superarla mediante specifici stratagemmi che li conducano a una condizione di pienezza d’essere. Essi sono “mancanza” e, insieme, “espediente” teso al suo superamento: si sanno mancanti e, per ciò stesso, si adoperano in ogni guisa per completarsi e per superare la condizione limitata che ne contraddistingue l’esistere. Per questo motivo, sussiste un nesso di identità in forza del quale il filosofo è amante e, insieme, Eros è φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου, “filosofeggiante per tutta la vita” (203 d). Sono entrambi nella condizione del μεταξὺ, dell’“intermedio” tra divino e mortale, tra sapiente e insipiente, tra avente e non avente: sicché ἀναγκαῖον ἔρωτα φιλόσοφον εἶναι, φιλόσοφον δὲ ὄντα μεταξὺ εἶναι σοφοῦ καὶ ἀμαθοῦς, “è necessario che Eros sia filosofo, e in quanto filosofo, che sia intermedio tra il sapiente e l’ignorante” (204 b). Per questa ragione Socrate, la personificazione del filosofo, può dire di sé: αὐτὸς τιμῶ τὰ ἐρωτικὰ, “io stesso onoro le cose d’amore” (212 b), perché filosofare significa amare, proprio come amare vuol dire filosofare. In termini analoghi, secondo questo intreccio a geometria variabile per cui il vero filosofo è colui che ama, e colui che ama veramente non può non essere filosofo, così dice di sé Socrate: οὐδέν φημι ἄλλο ἐπίστασθαι ἢ τὰ ἐρωτικά, “dico di non conoscere null’altro all’infuori delle cose d’amore” (Simposio, 177 d). Il sapere filosofico di cui è gravido, rectius il suo sapere di non sapere, è il fondamento stesso che caratterizza τὰ ἐρωτικά, “le cose dell’amore”. Secondo la stringente logica socratica, se Eros è amante di bellezza vuol dire che non la possiede (201 b). Anche in ciò risiede la sua differenza rispetto agli altri dèi e al loro εὐδαίμονας εἶναι καὶ καλούς, “essere beati e belli” (202 c). Eros non è bello e non è in quiete: “per mancanza delle cose buone e belle ha desiderio di queste cose di cui è mancante (ἐπιθυμεῖν αὐτῶν τούτων ὧν ἐνδεής ἐστιν)” (202 d) e si adopera senza posa e in ogni guisa per procacciarsele. Ancora una volta, egli πένης ἀεί ἐστι, “è povero sempre” (203 c) e al tempo stesso dispone di espedienti sempre pronti: οὔτε ἀπορεῖ οὔτε πλουτεῖ, “non è mai povero di risorse, né ricco” (203 e), ed è proprio grazie alle risorse di cui è dotato che cerca di farsi ricco di ciò di cui è e si sa sprovvisto. Per questo, Eros “è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza, pieno di risorse, filosofo per tutta la vita (φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου)” (203 d). Peraltro, la condizione specifica di Eros è quella di ente intermedio sia in verticale, sia in orizzontale: in verticale, perché è mediatore tra divini e mortali, senza che la sua natura sia integralmente ascrivibile ad alcuna delle due dimensioni. Platone lo appella esplicitamente δαίμων μέγας, “un gran demone” (202 d) più che un dio, giacché è proprio del demoniaco e non del divino l’essere mediano, l’essere μεταξὺ θνητοῦ καὶ ἀθανάτου, “intermedio tra mortale e immortale” (202 d). È, poi, ente intermedio in orizzontale, perché figura come mediatore di caratteri opposti come la povertà e l’espediente, la privazione e l’acquisizione. Figlio di tali genitori, Eros si trova permanentemente in bilico tra la ricchezza dell’acquisizione e la penuria della perdita4. La sua è una condizione di moto perpetuo, in quanto avverte la mancanza che intrinsecamente è: e, insieme, escogita sempre nuovi espedienti per oltrepassarla, senza tuttavia addivenire mai a una condizione definitivamente stabile e risolta. Nel giorno in cui gli dèi banchettavano per la nascita di Afrodite, Πενία – spiega Platone – mendicò alla porta e riuscì a unirsi con Πόρος: poiché venne concepito alla festa di Afrodite, Eros è, di conseguenza, di lei ministro. E dato che ella è bella, Eros è per ciò stesso amante del bello, di cui è sprovvisto e alla cui ricerca muove senza posa. In ciò sta la sua condizione di μεταξὺ, di “intermedio” tra il brutto e il bello, tra la mancanza e l’acquisizione. Invero, una siffatta concezione – obietterà Federico Schlegel nella sua Lucinde (1799) – decifra solo per metà l’essenza dell’amore, poiché ne adombra il carattere infinitamente tensionale e, insieme, omette lo specifico godimento che si trae nell’unione, quando essa diventi possibile, tra i due amanti. Essi, per così dire, passano dal mortale all’immortale, ancorché tale condizione sia transeunte e destinata a interrompersi celermente: |