PENSIERO DIALETTICO
“La lotta per l’oggettività sarebbe quindi la lotta per l’unificazione culturale del genere umano; il processo di questa unificazione sarebbe il processo di oggettivazione del soggetto, che diventa sempre più universale concreto, storicamente concreto”.
(A. Gramsci, Quaderni del carcere)
Vi è un passaggio di Ragione e rivoluzione di Marcuse che, meglio di ogni altro, esprime il carattere antiadattivo e ab intrinseco rivoluzionario della ragione dialettica dell’idealismo:
“Il pensiero dialettico annulla la posizione a priori di valore e fatto interpretando tutti i fatti come momenti di un unico processo nel quale il soggetto e l’oggetto sono talmente uniti che la verità può essere raggiunta solo nella totalità unitaria di soggetto e oggetto. Tutti i fatti comprendono in sé chi li conosce così come chi li fa. Essi traducono continuamente il passato in presente. Gli oggetti, pertanto, “racchiudono” la soggettività nella loro stessa struttura. […] Il pensiero dialettico inizia con la constatazione che il mondo non è libero: cioè che l’uomo e la natura esistono in condizioni di alienazione, “diversi da ciò che sono”. Ogni maniera di pensare che escluda la contraddizione dalla sua logica è una logica difettosa. Il pensiero “corrisponde” alla realtà solo se trasforma la realtà medesima comprendendone la sua struttura contraddittoria. Qui il principio della dialettica porta il pensiero al di là dei confini della filosofia. Comprendere la realtà, infatti, significa comprendere ciò che le cose sono e ciò a sua volta implica di non accettare la loro apparenza come dati di fatto. La non accettazione, la rivolta, si configura come il procedimento sia del pensiero sia dell’azione. Mentre il metodo scientifico conduce dall’immediata esperienza delle “cose” alla loro struttura logico-matematica, il pensiero filosofico conduce dall’immediata esperienza dell’esistenza alla sua struttura storica: il principio della libertà”.
L’oggetto non è presenza data, ma prodotto storico del soggetto agente. Non chiede di essere registrato, secondo l’accordo cartesiano del soggetto all’oggetto: al contrario, deve essere trasformato dalla stessa prassi soggettiva che l’ha posto, in modo che venga ad accordarsi con il soggetto stesso.
L’accertare-accettare cede il passo al facere che accorda l’oggetto al soggetto secondo l’ordine del tempo. Questa è – in risposta ai nuovi Ponzio Pilato in veste postmoderna – la verità filosofica, intesa come coincidenza del soggetto con sé e con l’oggetto mediata dall’agire e dalla temporalità. La verità filosofica non può essere confusa con la corrispondenza fattuale empirica, con la certezza scientifica falsificabile, con l’esattezza matematica verificabile, con la sincerità o, ancora, con la veridicità. Riprendendo in forma variata la sintassi di Gadamer, verità o metodo: la verità filosofica e il metodo scientifico della certezza sono reciprocamente irriducibili.
Seguendo Marcuse, il pensiero dialettico muove dalla constatazione dell’assenza di libertà di un mondo in cui tutto è diverso da come dovrebbe essere: in cui, cioè, l’uomo e la realtà sociale esistono in forme che contraddicono il loro concetto e in cui l’oggetto, lungi dall’essere pensato come il soggetto stesso che si è a sé oggettivato nella sua storia, è concepito come presenza autonoma. Il logo astratto si limita a registrare avalutativamente l’esser-così delle cose, risolvendo la verità nella certezza rappresentativa che riproduce – santificandola – la realtà contraddittoria ipostatizzata in “dato di fatto”. La contraddizione sparisce nella disgiunzione delle parti tra loro e rispetto all’Intero che le ospita. Dal canto suo, muovendo dalla falsità dell’Intero che ospita le parti, la ragione dialettica critica la configurazione delle cose e, insieme, si adopera per la loro trasformazione, affinché vengano a corrispondere con le loro potenzialità attualmente pervertite.
Il rigetto dell’adattamento e, in modo convergente, la critica rovesciante costituiscono la modalità fondamentale del darsi della verità come azione volta a far sì che, mediato dall’agire e dalla temporalità storica, il vero diventi pienamente tale: ossia permei le strutture dell’esistente, in modo che il reale corrisponda al concetto, l’oggetto al soggetto. La storia assume, così, lo statuto di teatro del diventare-vero-del-vero, ossia della conformazione – mediata dal tempo e dall’agire, dal negativo e dal suo superamento – dell’umanità e delle sue oggettivazioni.
È questa la storia della coscienza umana delineata, sia pure in forme differenziate, nella dottrina della scienza di Fichte in tutte le sue proteiformi esposizioni, nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel e nel Capitale di Marx: testi certo profondamente diversi tra loro, ma che possono con diritto essere concepiti come accomunati dall’assunzione della libertà come un’acquisizione storica nel “romanzo di formazione” dell’umanità, le cui figure sono metafore di altrettanti momenti educativi di consapevolezza dei singoli individui come del genere umano.
Il ritmo della storia viene, per questa via, a coincidere con un processo di sempre più marcata autocoscienza del genere umano e, insieme, di sempre più radicata coincidenza di soggetto e oggetto, di umanità agente e di sue oggettivazioni storiche. Soggetto e oggetto non sono, cioè, poli opposti e indipendenti, cose autonome (come li intende il pensiero moderno, figlio della reificazione in atto), ma parti dialetticamente mediate, opposte nell’identità. L’oggetto è il soggetto stesso a sé oggettivato, ossia il modo concreto in cui, nel teatro storico, l’umanità si realizza in forme sempre più libere e conformi al proprio concetto.
L’individuo come il genere pervengono, così, al riconoscimento del vero carattere della società e della storia come l’esito di un’attività comune degli uomini, scoprendo la genesi umana del mondo oggettivo, in un processo dialettico in cui lo Spirito, alienandosi e disalienandosi, si crea e si ritrova in ciò che ha creato, autoproducendosi nelle sue realizzazioni oggettive. Si ha, allora, il raggiungimento dell’identità di soggetto e oggetto come recupero dell’alienazione e trasformazione della Sostanza in Soggetto. Tutto ciò che appare come “oggettivo” e “positivo”, come dato e inemendabile, è, invece, per la ragione dialettica, il prodotto dall’attività umana che deve pervenire a riconoscere l’identità soggetto-oggettiva, ossia il vero carattere dell’oggetto come mai definitiva creazione del soggetto nella temporalità storica, come sua libera positio nel teatro della storicità.
L’identità hegeliana di Sostanza e Soggetto, nella Fenomenologia dello Spirito (1807), non mira a eliminare dalla filosofia il concetto di sostanza. Aspira, invece, a prospettarne una concezione alternativa rispetto a quella tradizionale. La concepisce non più come datità oggettiva e astorica, bensì come oggettività storicamente connessa al soggetto – il genere umano – che si oggettiva praticamente nel teatro della temporalità storica, maturando una sempre più profonda coscienza di sé come identico all’oggetto.
Il compito della filosofia consiste appunto, con la grammatica hegeliana, nel trasformare la Sostanza in Soggetto, l’oggettività data in oggettivazione del soggetto stesso, invertendo il tradizionale nesso tra soggetto e oggetto e, dunque, portando a compimento la svolta transzendentalphilosophisch. Ed è questo, d’altro canto, il telos a cui Marx ha attribuito il nome di comunismo come “dominio cosciente” delle forze reali e oggettive, ossia – con le parole dell’Ideologia tedesca – come “controllo e gestione consapevole di tali forze, che, generate dall’azione reciproca degli uomini, si sono fino ad ora imposte ad essi e li hanno soggiogati come forze del tutto estranee”. È la cifra dell’idealistico dispositivo defatalizzante della riconduzione della Sostanza al Soggetto.
Il tentativo compiuto da Hegel e Marx di rappresentare il mondo umano come libera produzione dell’uomo stesso nella sua storia, intendendo lo Spirito come processo e svolgimento, come risultato di sé medesimo (fichtianamente, il non-Io come creazione dell’Io), permette, se metabolizzato nell’odierno deserto postmoderno, di defatalizzare l’esistente e di destrutturare l’ideologia della inemendabile imperfezione, tornando a far risplendere il senso della possibilità trasformativa mediata dal tempo e dall’agire.
Con le parole della Differenzschrift hegeliana, “la totalità è possibile nella più alta pienezza di vita solo quando si restaura procedendo dalla più alta divisione”, ossia quando si agisce “per restaurare con le proprie forze l’uomo contro la disgregazione dell’epoca e per ristabilire quella totalità che il tempo ha lacerato”. La Totalità disgregata dalla moderna scissione e legittimata dalla ratio scientifica del logo astratto deve essere restaurata. Deve, in altri termini, essere reintrodotta ma a un più alto livello, perché mediata dal negativo, tramite un’azione in grado di riaffermare la centralità dell’uomo – contro la sua reificazione – e della comunità etica dissolta dalla spinta centrifuga dell’utile personale, unico collante dell’atomistica delle solitudini. Riaffermare il soggetto significa reagire alla reificazione imperante (che tutto riconduce al registro della presenza oggettiva, del Bestand illimitatamente consumabile e sfruttabile), riscoprire l’umanismo metafisico e, insieme, il carattere soggettivo dell’oggetto, esito del porre soggettivo.
La scissione resta, hegelianamente, la fonte del bisogno della filosofia come fondamento veritativo che ristabilisca il vivere comunitario nel tempo della disgregazione, ossia quando la potenza unificatrice che fa degli individui parti della comunità è andata perduta e a dominare sono le opposizioni non più come parti dinamiche di un intero, ma come forze assolutizzate e a sé stanti. L’idealismo coincide, allora, con la rammemorazione dell’essere sociale e dell’identità soggetto-oggettiva dopo l’oblio moderno. Ne scaturisce una costellazione teorica borghese e anticapitalistica – sta qui il segreto della coscienza infelice –, attraversata da soluzioni diverse e irriducibili, ma che trovano il loro coefficiente di unitarietà nell’opposizione radicale tanto all’autonomizzazione dell’economico, quanto all’assolutizzazione dell’individuo sradicato e della realtà oggettiva pensata come presenza astorica.
In Hegel, prendono forma il primato della politica sull’economia e un soggetto comunitario sittlich e storicamente determinato che è il rovesciamento del soggetto formale-astratto tenuto a battesimo dalla svolta cartesiana. In Fichte, l’abbandono del kantiano Ding an sich corrisponde alla rinuncia all’accettazione del mondo come un dato di fatto (come una “cosa in sé”) che può solo essere rispecchiato dal soggetto conoscente e alla sua sostituzione con un nesso dialettico, metafora della trasformabilità prassistica del mondo. Soggetto e oggetto si danno sempre e solo in un nesso di reciproca mediazione.
La totalità delle relazioni umane e delle oggettivazioni storiche (il non-Io) è sempre di nuovo posta e superata dalla prassi trasformatrice del soggetto comunitario umano (l’Io). Tema, quest’ultimo, che verrà ampiamente metabolizzato da Marx nella sua distinzione teorica, nella prima delle Tesi su Feuerbach, tra “oggetto come dato di fatto” (Objekt) e “oggetto come risultato della prassi umana” (Gegenstand), con la conseguente tematizzazione della Weltveränderung, la “trasformazione del mondo” che supera per via pratica il mercato globale e instaura una più alta formazione sociale, l’“umanità socializzata” non classista.
La metafisica – di cui il nostro tempo seguita a proclamare la morte con il solo obiettivo di favorirla –, si configura, allora, come la costruzione di una totalità dialetticamente organizzata, in cui la verità delle singole parti esiste solamente nell’espressione della loro interconnessione essenziale e concreta, nel loro “con-crescere” effettivo. Del resto, la stessa diatriba che vede contrapposti Hegel e Schelling non è solo un civile scontro accademico tra due differenti profili teorici, ma una lotta radicale tra la costruzione della dialettica come “ossatura” di un nuovo mondo etico, sottratto all’anarchia del mercato già inappellabilmente condannata da Fichte, e la fuga verso l’irrazionalismo e la conseguente accettazione della logica illogica della nuova morfologia dell’esistente. Anche per questo, contro la narrazione rassicurante della storiografia pigra, Schelling – eccezion fatta per la sua fase fichtiana – non può essere considerato come un idealista, presentando piuttosto il profilo di un panteista spiritualista.
Il carattere intrinsecamente antiadattivo dell’idealismo tedesco come essenza della coscienza infelice borghese emerge, soprattutto, dal fatto che esso codifica il nesso inscindibile tra soggetto e oggetto con l’obiettivo di mostrare la non-oggettività del mondo oggettivo. Per questa via, diventa possibile rinvenire una connessione dialettica dietro l’oggettività apparentemente rigida e intrasformabile degli oggetti e delle istituzioni sociali. L’oggettività si mostra, così, nella sua vera essenza di premessa e risultato dell’attività mai definitiva del soggetto.
L’idealismo è già sempre potenzialmente critico verso il feticismo dell’economia e la sua assolutizzazione reificante dell’oggettività data. Il nesso soggetto-oggettivo codificato dal pensiero idealistico si declina in una triplice rinuncia a) all’accettazione della morta positività del reale, b) alla riconversione della verità filosofica in certezza scientifica e c) all’immutabilità dell’esistente. L’intreccio tra le istanze gnoseologiche e quelle socio-politiche è lampante, e trova il proprio cardine in quella mediatezza del porre che defatalizza l’oggettività correlandola alla soggettività agente.
Sul piano gnoseologico, si muove dalla convinzione che l’oggetto esista indipendentemente da noi, per poi acquisire coscienza del fatto che esso sussiste sempre e solo come oggetto di un soggetto, cioè nell’atto del pensiero che, pensandolo, lo pone (risolvendosi la dualità di pensante e pensato nell’unità del pensare in atto, che istituisce la polarità per poi superarla sempre di nuovo nell’unità soggetto-oggettiva). Analogamente, sul piano storico, si procede dalla convinzione che il mondo oggettivo si dia in forma autonoma rispetto a noi (come oggettivamente oggettivo), per poi acquisire gradualmente coscienza, tramite la mediazione temporale, dell’oggettività non oggettiva di quel mondo: vale a dire del suo esistere come mediato dal porre socio-politico, e dunque della possibilità concreta di mutarne la configurazione agendo.
L’oggetto non è mai autonomo rispetto al soggetto, né in ambito conoscitivo (ogni oggetto esiste come pensato, e dunque mediato dal pensiero pensante del soggetto), né in sede socio-politica, dove tutto ciò che è, esiste come risultato di un fare, come prassi cristallizzata, come esito storico mai definitivo. La realtà sociale non è un “solido cristallo”, secondo l’immagine di Marx, ma prassi oggettivata e sempre trasformabile, identità in movimento tra l’umanità e le sue oggettivazioni, tra l’ordo ordinans della ragione e i suoi prodotti storici. L’errore del logo astratto promosso dalla reificazione consiste sempre – Gentile docet – nel pensare che “le cose siano altro dalla nostra attività”. È l’attività pratica a fondare la realtà del mondo, il suo esistere non come un tutto già compiuto, ma come un qualcosa che sorge solamente nel processo di attuazione di se stesso.
L’omnimoda determinabilitas è la cifra del reale pensato come esito sempre riprogrammabile della prassi umana. L’Io fichtianamente determinantesi nel porre il non-Io, proprio come l’identità hegeliana di Sostanza e Soggetto, allude al carattere non definitivo del mondo oggettivo: il quale coincide non già con una natura data a cui adattarsi, secondo il canone dell’adaequatio gnoseologica e politica, bensì con l’esito temporalmente mediato della prassi soggettiva, sempre di nuovo trasformabile in vista del suo accordo con il soggetto stesso.
Si tratta di una svolta epocale, che segna la transizione, nell’immaginario umano, dalla concezione del mondo con egemonia del mercato come immodificabile cosa in sé al nesso tensionale tra i due poli in correlazione essenziale del soggetto e dell’oggetto. Lungi dal dover solo essere rispecchiato, il mondo può essere trasformato, razionalizzato, accordato con i princìpi della soggettività: la società è il risultato sempre di nuovo ricreato dell’attività umana. Il presente non è natura che dev’essere asetticamente registrata: corrisponde, invece, al momento dell’alienazione (all’oblio del soggetto e del nesso soggetto-oggettivo), la quale dev’essere superata per mezzo dell’agire che l’ha posta in essere. La caverna platonica resta l’orizzonte immaginativo in cui pensa e opera la defatalizzazione idealistica.
La critica dell’esistente, che in Platone assume la figura dell’utopia topologico-simbolica, nella forma del paradigma in cielo strutturato sui due piani, disgiunti spazialmente e assiologicamente, della terra e del cielo, si ridispone, con l’idealismo tedesco, in orizzontale. Infatti, si proietta nella pura immanenza di questo mondo, grazie alle prestazioni di una “storia universale” (Weltgeschichte) concepita, con un solo concetto di tipo trascendentale-riflessivo, come teatro della trasformazione e dell’universalizzazione della libertà secondo l’ordine del tempo: ossia, hegelianamente, come un processo di “alienazione e di sua restituzione” (Entäusserung und ihre Rücknahme) mediato dal tempo e dall’azione. Il pensare storicamente coessenziale all’idealismo è la cifra della riapertura del senso della possibilità.
Nei termini hegeliani dell’Aufhebung, la saggezza greca (il problema della verità come fondamento onto-assiologico del vivere comunitario), negata dalla moderna teologia gnoseologica (la traduzione della verità in certezza rappresentativa), viene restaurata, rinnovata e superata dal sapere dell’idealismo tedesco e dal suo ristabilimento di un’inedita teoria storica della verità come diventare-vero-del-vero (il Vero come Risultato processuale).
Se per il punto di vista realistico il mondo è dato, nella prospettiva idealistica esso è fatto. Nell’idea fondamentale – architrave dell’idealismo – secondo cui non v’è un oggetto senza il soggetto è già racchiuso, virtualmente, il rifiuto del mondo cartesianamente inteso come un datum e, dunque, come un’oggettività che fieri nequit e che deve essere rispecchiata, conosciuta e, in ogni caso, accettata nella sua consistenza di oggettualità esistente a prescindere dal soggetto agente. Il cartesiano soggetto spettatore cede il passo all’idealistico soggetto rivoluzionario.
L’avvento dell’odierna fase speculativa ha disarticolato la visione idealistica del mondo, reimponendo, nella forma della mistica della necessità, l’onnipotenza dell’oggetto. Di qui l’odierno irresistibile ritorno dei realismi e del teorema di Cartesio. Tale disarticolazione a livello simbolico è, a sua volta, avvenuta sull’onda della già rievocata rimozione della contraddizione propria della fase dialettica. Si è anestetizzata la vis oppositiva del servo e, insieme, si è neutralizzata la coscienza infelice borghese, rimuovendo in pari tempo il senso della storicità come luogo temporale della possibile trasformazione.
Il Nomos dell’economia ha superato la contraddizione, pervenendo alla piena corrispondenza con le proprie potenzialità (nella già richiamata forma del capitalismo assoluto). Pervaso capillarmente dall’onnimercificazione e dalla nuova metafisica dell’illimitatezza, il mondo intero si è trasformato in speculum in cui il capitale si riflette ubiquitariamente, a livello sia reale sia simbolico, nei corpi come nei pensieri. Il servo, a partire dagli anni Settanta, lotta per ottenere salari più alti all’interno del deserto capitalistico (accettandolo, dunque, come destino irredimibile, secondo una piena metabolizzazione dell’ideologia dominante). Dal canto suo, la borghesia è stata destrutturata dal capitale a partire dal Sessantotto: e questo secondo un movimento che, antiborghese e ultracapitalistico, ha aperto la strada a un ordo oeconomicus non più limitato dalla sfera etica borghese e senza più il rischio dell’opposizione operativa della coscienza infelice borghese.
Si è così imposto, senza trovare più alcuna limitazione, il principio cardinale del Sessantotto, che è oggi il segreto dell’onnimercificazione: non esiste l’autorità, tutto è possibile purché ve ne sia sempre di più. Dalle figure borghesi come Mozart e Balzac, o da quelle borghesi e anticapitaliste come Hegel e Marx, si è così passati disinvoltamente a quelle ultracapitaliste perché antiborghesi. Neutralizzata l’opposizione dialettica data dall’unione della coscienza infelice borghese e delle lotte del servo, il regime speculativo ha, con movimento simmetrico, disarticolato il binomio di storicità e prassi come luogo del possibile ringiovanimento del mondo.
Per questa ragione, come si è visto, la rimozione della storicità, nella forma dell’odierna malattia antistorica, costituisce l’essenza della neutralizzazione dell’elemento dialettico. Il 1989 segna, da questo punto di vista, la data epocale dell’imposizione del capitalismus sive natura. Si è potuta imporre l’ideologia dell’inemendabile imperfezione della gabbia d’acciaio. Il capitale pienamente corrispondente al proprio concetto aspira a mantenersi tale in eterno, come oggetto da rispecchiare e da venerare senza alcuna opposizione possibile. Messe in congedo la borghesia, la sua coscienza infelice in cerca dell’emancipazione universale e la vis oppositiva resa possibile dall’idealistica assunzione dialettica dell’oggetto come esito mai definitivo del fare umano, si è imposta l’incoscienza felice della razionalizzazione postmoderna del disincanto e, a seguire, della neorealistica riconfigurazione dell’essere come presenza data e inemendabile.
In questo scenario, il codice idealistico della ταὐτότης, l’“identità” di soggetto e oggetto mediati dall’agire, risulta irricevibile e, di più, deve continuamente essere demonizzato. Nel tempo della “notte del mondo” (Weltnacht), come la chiamava Heidegger, ogni condizione per rovesciare la situazione viene puntualmente impiegata per impedire che ciò avvenga. Nel quadro della strategia di egemonia ideologica programmata, la demonizzazione preventiva si rivela uno strumento altamente efficace. Essa ha il solo scopo di delegittimare a priori le argomentazioni, liquidandole come sorpassate, “fuori moda”, insostenibili, politicamente scorrette, e dunque sottraendole alla dimensione socraticamente dialogica del “dare ragione” (λόγον διδόναι).
Occorre, allora, tornare a prendere le mosse dall’idealismo e dalla sua codificazione della soggetto-oggettività, ossia dalla concezione che fa dell’oggetto l’esito sempre riprogrammabile di un porre storico-pratico del soggetto. La defatalizzazione dell’esistente costituisce la base imprescindibile per l’elaborazione di un progetto trasformativo. Quest’ultimo – come chiariremo – deve essere condotto, nell’odierno scenario globale, a partire dalla reintroduzione dell’egemonia della politica democratica sulla dittatura monocratica dell’economia.
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Vi è un passaggio di Ragione e rivoluzione di Marcuse che, meglio di ogni altro, esprime il carattere antiadattivo e ab intrinseco rivoluzionario della ragione dialettica dell’idealismo:
“Il pensiero dialettico annulla la posizione a priori di valore e fatto interpretando tutti i fatti come momenti di un unico processo nel quale il soggetto e l’oggetto sono talmente uniti che la verità può essere raggiunta solo nella totalità unitaria di soggetto e oggetto. Tutti i fatti comprendono in sé chi li conosce così come chi li fa. Essi traducono continuamente il passato in presente. Gli oggetti, pertanto, “racchiudono” la soggettività nella loro stessa struttura. […] Il pensiero dialettico inizia con la constatazione che il mondo non è libero: cioè che l’uomo e la natura esistono in condizioni di alienazione, “diversi da ciò che sono”. Ogni maniera di pensare che escluda la contraddizione dalla sua logica è una logica difettosa. Il pensiero “corrisponde” alla realtà solo se trasforma la realtà medesima comprendendone la sua struttura contraddittoria. Qui il principio della dialettica porta il pensiero al di là dei confini della filosofia. Comprendere la realtà, infatti, significa comprendere ciò che le cose sono e ciò a sua volta implica di non accettare la loro apparenza come dati di fatto. La non accettazione, la rivolta, si configura come il procedimento sia del pensiero sia dell’azione. Mentre il metodo scientifico conduce dall’immediata esperienza delle “cose” alla loro struttura logico-matematica, il pensiero filosofico conduce dall’immediata esperienza dell’esistenza alla sua struttura storica: il principio della libertà”.
L’oggetto non è presenza data, ma prodotto storico del soggetto agente. Non chiede di essere registrato, secondo l’accordo cartesiano del soggetto all’oggetto: al contrario, deve essere trasformato dalla stessa prassi soggettiva che l’ha posto, in modo che venga ad accordarsi con il soggetto stesso.
L’accertare-accettare cede il passo al facere che accorda l’oggetto al soggetto secondo l’ordine del tempo. Questa è – in risposta ai nuovi Ponzio Pilato in veste postmoderna – la verità filosofica, intesa come coincidenza del soggetto con sé e con l’oggetto mediata dall’agire e dalla temporalità. La verità filosofica non può essere confusa con la corrispondenza fattuale empirica, con la certezza scientifica falsificabile, con l’esattezza matematica verificabile, con la sincerità o, ancora, con la veridicità. Riprendendo in forma variata la sintassi di Gadamer, verità o metodo: la verità filosofica e il metodo scientifico della certezza sono reciprocamente irriducibili.
Seguendo Marcuse, il pensiero dialettico muove dalla constatazione dell’assenza di libertà di un mondo in cui tutto è diverso da come dovrebbe essere: in cui, cioè, l’uomo e la realtà sociale esistono in forme che contraddicono il loro concetto e in cui l’oggetto, lungi dall’essere pensato come il soggetto stesso che si è a sé oggettivato nella sua storia, è concepito come presenza autonoma. Il logo astratto si limita a registrare avalutativamente l’esser-così delle cose, risolvendo la verità nella certezza rappresentativa che riproduce – santificandola – la realtà contraddittoria ipostatizzata in “dato di fatto”. La contraddizione sparisce nella disgiunzione delle parti tra loro e rispetto all’Intero che le ospita. Dal canto suo, muovendo dalla falsità dell’Intero che ospita le parti, la ragione dialettica critica la configurazione delle cose e, insieme, si adopera per la loro trasformazione, affinché vengano a corrispondere con le loro potenzialità attualmente pervertite.
Il rigetto dell’adattamento e, in modo convergente, la critica rovesciante costituiscono la modalità fondamentale del darsi della verità come azione volta a far sì che, mediato dall’agire e dalla temporalità storica, il vero diventi pienamente tale: ossia permei le strutture dell’esistente, in modo che il reale corrisponda al concetto, l’oggetto al soggetto. La storia assume, così, lo statuto di teatro del diventare-vero-del-vero, ossia della conformazione – mediata dal tempo e dall’agire, dal negativo e dal suo superamento – dell’umanità e delle sue oggettivazioni.
È questa la storia della coscienza umana delineata, sia pure in forme differenziate, nella dottrina della scienza di Fichte in tutte le sue proteiformi esposizioni, nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel e nel Capitale di Marx: testi certo profondamente diversi tra loro, ma che possono con diritto essere concepiti come accomunati dall’assunzione della libertà come un’acquisizione storica nel “romanzo di formazione” dell’umanità, le cui figure sono metafore di altrettanti momenti educativi di consapevolezza dei singoli individui come del genere umano.
Il ritmo della storia viene, per questa via, a coincidere con un processo di sempre più marcata autocoscienza del genere umano e, insieme, di sempre più radicata coincidenza di soggetto e oggetto, di umanità agente e di sue oggettivazioni storiche. Soggetto e oggetto non sono, cioè, poli opposti e indipendenti, cose autonome (come li intende il pensiero moderno, figlio della reificazione in atto), ma parti dialetticamente mediate, opposte nell’identità. L’oggetto è il soggetto stesso a sé oggettivato, ossia il modo concreto in cui, nel teatro storico, l’umanità si realizza in forme sempre più libere e conformi al proprio concetto.
L’individuo come il genere pervengono, così, al riconoscimento del vero carattere della società e della storia come l’esito di un’attività comune degli uomini, scoprendo la genesi umana del mondo oggettivo, in un processo dialettico in cui lo Spirito, alienandosi e disalienandosi, si crea e si ritrova in ciò che ha creato, autoproducendosi nelle sue realizzazioni oggettive. Si ha, allora, il raggiungimento dell’identità di soggetto e oggetto come recupero dell’alienazione e trasformazione della Sostanza in Soggetto. Tutto ciò che appare come “oggettivo” e “positivo”, come dato e inemendabile, è, invece, per la ragione dialettica, il prodotto dall’attività umana che deve pervenire a riconoscere l’identità soggetto-oggettiva, ossia il vero carattere dell’oggetto come mai definitiva creazione del soggetto nella temporalità storica, come sua libera positio nel teatro della storicità.
L’identità hegeliana di Sostanza e Soggetto, nella Fenomenologia dello Spirito (1807), non mira a eliminare dalla filosofia il concetto di sostanza. Aspira, invece, a prospettarne una concezione alternativa rispetto a quella tradizionale. La concepisce non più come datità oggettiva e astorica, bensì come oggettività storicamente connessa al soggetto – il genere umano – che si oggettiva praticamente nel teatro della temporalità storica, maturando una sempre più profonda coscienza di sé come identico all’oggetto.
Il compito della filosofia consiste appunto, con la grammatica hegeliana, nel trasformare la Sostanza in Soggetto, l’oggettività data in oggettivazione del soggetto stesso, invertendo il tradizionale nesso tra soggetto e oggetto e, dunque, portando a compimento la svolta transzendentalphilosophisch. Ed è questo, d’altro canto, il telos a cui Marx ha attribuito il nome di comunismo come “dominio cosciente” delle forze reali e oggettive, ossia – con le parole dell’Ideologia tedesca – come “controllo e gestione consapevole di tali forze, che, generate dall’azione reciproca degli uomini, si sono fino ad ora imposte ad essi e li hanno soggiogati come forze del tutto estranee”. È la cifra dell’idealistico dispositivo defatalizzante della riconduzione della Sostanza al Soggetto.
Il tentativo compiuto da Hegel e Marx di rappresentare il mondo umano come libera produzione dell’uomo stesso nella sua storia, intendendo lo Spirito come processo e svolgimento, come risultato di sé medesimo (fichtianamente, il non-Io come creazione dell’Io), permette, se metabolizzato nell’odierno deserto postmoderno, di defatalizzare l’esistente e di destrutturare l’ideologia della inemendabile imperfezione, tornando a far risplendere il senso della possibilità trasformativa mediata dal tempo e dall’agire.
Con le parole della Differenzschrift hegeliana, “la totalità è possibile nella più alta pienezza di vita solo quando si restaura procedendo dalla più alta divisione”, ossia quando si agisce “per restaurare con le proprie forze l’uomo contro la disgregazione dell’epoca e per ristabilire quella totalità che il tempo ha lacerato”. La Totalità disgregata dalla moderna scissione e legittimata dalla ratio scientifica del logo astratto deve essere restaurata. Deve, in altri termini, essere reintrodotta ma a un più alto livello, perché mediata dal negativo, tramite un’azione in grado di riaffermare la centralità dell’uomo – contro la sua reificazione – e della comunità etica dissolta dalla spinta centrifuga dell’utile personale, unico collante dell’atomistica delle solitudini. Riaffermare il soggetto significa reagire alla reificazione imperante (che tutto riconduce al registro della presenza oggettiva, del Bestand illimitatamente consumabile e sfruttabile), riscoprire l’umanismo metafisico e, insieme, il carattere soggettivo dell’oggetto, esito del porre soggettivo.
La scissione resta, hegelianamente, la fonte del bisogno della filosofia come fondamento veritativo che ristabilisca il vivere comunitario nel tempo della disgregazione, ossia quando la potenza unificatrice che fa degli individui parti della comunità è andata perduta e a dominare sono le opposizioni non più come parti dinamiche di un intero, ma come forze assolutizzate e a sé stanti. L’idealismo coincide, allora, con la rammemorazione dell’essere sociale e dell’identità soggetto-oggettiva dopo l’oblio moderno. Ne scaturisce una costellazione teorica borghese e anticapitalistica – sta qui il segreto della coscienza infelice –, attraversata da soluzioni diverse e irriducibili, ma che trovano il loro coefficiente di unitarietà nell’opposizione radicale tanto all’autonomizzazione dell’economico, quanto all’assolutizzazione dell’individuo sradicato e della realtà oggettiva pensata come presenza astorica.
In Hegel, prendono forma il primato della politica sull’economia e un soggetto comunitario sittlich e storicamente determinato che è il rovesciamento del soggetto formale-astratto tenuto a battesimo dalla svolta cartesiana. In Fichte, l’abbandono del kantiano Ding an sich corrisponde alla rinuncia all’accettazione del mondo come un dato di fatto (come una “cosa in sé”) che può solo essere rispecchiato dal soggetto conoscente e alla sua sostituzione con un nesso dialettico, metafora della trasformabilità prassistica del mondo. Soggetto e oggetto si danno sempre e solo in un nesso di reciproca mediazione.
La totalità delle relazioni umane e delle oggettivazioni storiche (il non-Io) è sempre di nuovo posta e superata dalla prassi trasformatrice del soggetto comunitario umano (l’Io). Tema, quest’ultimo, che verrà ampiamente metabolizzato da Marx nella sua distinzione teorica, nella prima delle Tesi su Feuerbach, tra “oggetto come dato di fatto” (Objekt) e “oggetto come risultato della prassi umana” (Gegenstand), con la conseguente tematizzazione della Weltveränderung, la “trasformazione del mondo” che supera per via pratica il mercato globale e instaura una più alta formazione sociale, l’“umanità socializzata” non classista.
La metafisica – di cui il nostro tempo seguita a proclamare la morte con il solo obiettivo di favorirla –, si configura, allora, come la costruzione di una totalità dialetticamente organizzata, in cui la verità delle singole parti esiste solamente nell’espressione della loro interconnessione essenziale e concreta, nel loro “con-crescere” effettivo. Del resto, la stessa diatriba che vede contrapposti Hegel e Schelling non è solo un civile scontro accademico tra due differenti profili teorici, ma una lotta radicale tra la costruzione della dialettica come “ossatura” di un nuovo mondo etico, sottratto all’anarchia del mercato già inappellabilmente condannata da Fichte, e la fuga verso l’irrazionalismo e la conseguente accettazione della logica illogica della nuova morfologia dell’esistente. Anche per questo, contro la narrazione rassicurante della storiografia pigra, Schelling – eccezion fatta per la sua fase fichtiana – non può essere considerato come un idealista, presentando piuttosto il profilo di un panteista spiritualista.
Il carattere intrinsecamente antiadattivo dell’idealismo tedesco come essenza della coscienza infelice borghese emerge, soprattutto, dal fatto che esso codifica il nesso inscindibile tra soggetto e oggetto con l’obiettivo di mostrare la non-oggettività del mondo oggettivo. Per questa via, diventa possibile rinvenire una connessione dialettica dietro l’oggettività apparentemente rigida e intrasformabile degli oggetti e delle istituzioni sociali. L’oggettività si mostra, così, nella sua vera essenza di premessa e risultato dell’attività mai definitiva del soggetto.
L’idealismo è già sempre potenzialmente critico verso il feticismo dell’economia e la sua assolutizzazione reificante dell’oggettività data. Il nesso soggetto-oggettivo codificato dal pensiero idealistico si declina in una triplice rinuncia a) all’accettazione della morta positività del reale, b) alla riconversione della verità filosofica in certezza scientifica e c) all’immutabilità dell’esistente. L’intreccio tra le istanze gnoseologiche e quelle socio-politiche è lampante, e trova il proprio cardine in quella mediatezza del porre che defatalizza l’oggettività correlandola alla soggettività agente.
Sul piano gnoseologico, si muove dalla convinzione che l’oggetto esista indipendentemente da noi, per poi acquisire coscienza del fatto che esso sussiste sempre e solo come oggetto di un soggetto, cioè nell’atto del pensiero che, pensandolo, lo pone (risolvendosi la dualità di pensante e pensato nell’unità del pensare in atto, che istituisce la polarità per poi superarla sempre di nuovo nell’unità soggetto-oggettiva). Analogamente, sul piano storico, si procede dalla convinzione che il mondo oggettivo si dia in forma autonoma rispetto a noi (come oggettivamente oggettivo), per poi acquisire gradualmente coscienza, tramite la mediazione temporale, dell’oggettività non oggettiva di quel mondo: vale a dire del suo esistere come mediato dal porre socio-politico, e dunque della possibilità concreta di mutarne la configurazione agendo.
L’oggetto non è mai autonomo rispetto al soggetto, né in ambito conoscitivo (ogni oggetto esiste come pensato, e dunque mediato dal pensiero pensante del soggetto), né in sede socio-politica, dove tutto ciò che è, esiste come risultato di un fare, come prassi cristallizzata, come esito storico mai definitivo. La realtà sociale non è un “solido cristallo”, secondo l’immagine di Marx, ma prassi oggettivata e sempre trasformabile, identità in movimento tra l’umanità e le sue oggettivazioni, tra l’ordo ordinans della ragione e i suoi prodotti storici. L’errore del logo astratto promosso dalla reificazione consiste sempre – Gentile docet – nel pensare che “le cose siano altro dalla nostra attività”. È l’attività pratica a fondare la realtà del mondo, il suo esistere non come un tutto già compiuto, ma come un qualcosa che sorge solamente nel processo di attuazione di se stesso.
L’omnimoda determinabilitas è la cifra del reale pensato come esito sempre riprogrammabile della prassi umana. L’Io fichtianamente determinantesi nel porre il non-Io, proprio come l’identità hegeliana di Sostanza e Soggetto, allude al carattere non definitivo del mondo oggettivo: il quale coincide non già con una natura data a cui adattarsi, secondo il canone dell’adaequatio gnoseologica e politica, bensì con l’esito temporalmente mediato della prassi soggettiva, sempre di nuovo trasformabile in vista del suo accordo con il soggetto stesso.
Si tratta di una svolta epocale, che segna la transizione, nell’immaginario umano, dalla concezione del mondo con egemonia del mercato come immodificabile cosa in sé al nesso tensionale tra i due poli in correlazione essenziale del soggetto e dell’oggetto. Lungi dal dover solo essere rispecchiato, il mondo può essere trasformato, razionalizzato, accordato con i princìpi della soggettività: la società è il risultato sempre di nuovo ricreato dell’attività umana. Il presente non è natura che dev’essere asetticamente registrata: corrisponde, invece, al momento dell’alienazione (all’oblio del soggetto e del nesso soggetto-oggettivo), la quale dev’essere superata per mezzo dell’agire che l’ha posta in essere. La caverna platonica resta l’orizzonte immaginativo in cui pensa e opera la defatalizzazione idealistica.
La critica dell’esistente, che in Platone assume la figura dell’utopia topologico-simbolica, nella forma del paradigma in cielo strutturato sui due piani, disgiunti spazialmente e assiologicamente, della terra e del cielo, si ridispone, con l’idealismo tedesco, in orizzontale. Infatti, si proietta nella pura immanenza di questo mondo, grazie alle prestazioni di una “storia universale” (Weltgeschichte) concepita, con un solo concetto di tipo trascendentale-riflessivo, come teatro della trasformazione e dell’universalizzazione della libertà secondo l’ordine del tempo: ossia, hegelianamente, come un processo di “alienazione e di sua restituzione” (Entäusserung und ihre Rücknahme) mediato dal tempo e dall’azione. Il pensare storicamente coessenziale all’idealismo è la cifra della riapertura del senso della possibilità.
Nei termini hegeliani dell’Aufhebung, la saggezza greca (il problema della verità come fondamento onto-assiologico del vivere comunitario), negata dalla moderna teologia gnoseologica (la traduzione della verità in certezza rappresentativa), viene restaurata, rinnovata e superata dal sapere dell’idealismo tedesco e dal suo ristabilimento di un’inedita teoria storica della verità come diventare-vero-del-vero (il Vero come Risultato processuale).
Se per il punto di vista realistico il mondo è dato, nella prospettiva idealistica esso è fatto. Nell’idea fondamentale – architrave dell’idealismo – secondo cui non v’è un oggetto senza il soggetto è già racchiuso, virtualmente, il rifiuto del mondo cartesianamente inteso come un datum e, dunque, come un’oggettività che fieri nequit e che deve essere rispecchiata, conosciuta e, in ogni caso, accettata nella sua consistenza di oggettualità esistente a prescindere dal soggetto agente. Il cartesiano soggetto spettatore cede il passo all’idealistico soggetto rivoluzionario.
L’avvento dell’odierna fase speculativa ha disarticolato la visione idealistica del mondo, reimponendo, nella forma della mistica della necessità, l’onnipotenza dell’oggetto. Di qui l’odierno irresistibile ritorno dei realismi e del teorema di Cartesio. Tale disarticolazione a livello simbolico è, a sua volta, avvenuta sull’onda della già rievocata rimozione della contraddizione propria della fase dialettica. Si è anestetizzata la vis oppositiva del servo e, insieme, si è neutralizzata la coscienza infelice borghese, rimuovendo in pari tempo il senso della storicità come luogo temporale della possibile trasformazione.
Il Nomos dell’economia ha superato la contraddizione, pervenendo alla piena corrispondenza con le proprie potenzialità (nella già richiamata forma del capitalismo assoluto). Pervaso capillarmente dall’onnimercificazione e dalla nuova metafisica dell’illimitatezza, il mondo intero si è trasformato in speculum in cui il capitale si riflette ubiquitariamente, a livello sia reale sia simbolico, nei corpi come nei pensieri. Il servo, a partire dagli anni Settanta, lotta per ottenere salari più alti all’interno del deserto capitalistico (accettandolo, dunque, come destino irredimibile, secondo una piena metabolizzazione dell’ideologia dominante). Dal canto suo, la borghesia è stata destrutturata dal capitale a partire dal Sessantotto: e questo secondo un movimento che, antiborghese e ultracapitalistico, ha aperto la strada a un ordo oeconomicus non più limitato dalla sfera etica borghese e senza più il rischio dell’opposizione operativa della coscienza infelice borghese.
Si è così imposto, senza trovare più alcuna limitazione, il principio cardinale del Sessantotto, che è oggi il segreto dell’onnimercificazione: non esiste l’autorità, tutto è possibile purché ve ne sia sempre di più. Dalle figure borghesi come Mozart e Balzac, o da quelle borghesi e anticapitaliste come Hegel e Marx, si è così passati disinvoltamente a quelle ultracapitaliste perché antiborghesi. Neutralizzata l’opposizione dialettica data dall’unione della coscienza infelice borghese e delle lotte del servo, il regime speculativo ha, con movimento simmetrico, disarticolato il binomio di storicità e prassi come luogo del possibile ringiovanimento del mondo.
Per questa ragione, come si è visto, la rimozione della storicità, nella forma dell’odierna malattia antistorica, costituisce l’essenza della neutralizzazione dell’elemento dialettico. Il 1989 segna, da questo punto di vista, la data epocale dell’imposizione del capitalismus sive natura. Si è potuta imporre l’ideologia dell’inemendabile imperfezione della gabbia d’acciaio. Il capitale pienamente corrispondente al proprio concetto aspira a mantenersi tale in eterno, come oggetto da rispecchiare e da venerare senza alcuna opposizione possibile. Messe in congedo la borghesia, la sua coscienza infelice in cerca dell’emancipazione universale e la vis oppositiva resa possibile dall’idealistica assunzione dialettica dell’oggetto come esito mai definitivo del fare umano, si è imposta l’incoscienza felice della razionalizzazione postmoderna del disincanto e, a seguire, della neorealistica riconfigurazione dell’essere come presenza data e inemendabile.
In questo scenario, il codice idealistico della ταὐτότης, l’“identità” di soggetto e oggetto mediati dall’agire, risulta irricevibile e, di più, deve continuamente essere demonizzato. Nel tempo della “notte del mondo” (Weltnacht), come la chiamava Heidegger, ogni condizione per rovesciare la situazione viene puntualmente impiegata per impedire che ciò avvenga. Nel quadro della strategia di egemonia ideologica programmata, la demonizzazione preventiva si rivela uno strumento altamente efficace. Essa ha il solo scopo di delegittimare a priori le argomentazioni, liquidandole come sorpassate, “fuori moda”, insostenibili, politicamente scorrette, e dunque sottraendole alla dimensione socraticamente dialogica del “dare ragione” (λόγον διδόναι).
Occorre, allora, tornare a prendere le mosse dall’idealismo e dalla sua codificazione della soggetto-oggettività, ossia dalla concezione che fa dell’oggetto l’esito sempre riprogrammabile di un porre storico-pratico del soggetto. La defatalizzazione dell’esistente costituisce la base imprescindibile per l’elaborazione di un progetto trasformativo. Quest’ultimo – come chiariremo – deve essere condotto, nell’odierno scenario globale, a partire dalla reintroduzione dell’egemonia della politica democratica sulla dittatura monocratica dell’economia. |