FILOSOFIA E RELIGIONE
“La filosofia si rende esplicita solo in quanto rende esplicita la religione e, rendendosi esplicita, fa esplicita la religione”.
(G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione)
Il tratto più caratterizzante della speculazione filosofico-teologica di Georg Wilhelm Friedrich Hegel sta nell’aver ravvisato nella religione un contenuto veritativo analogo a quello della filosofia, sia pure diversamente espresso. Sotto questo riguardo, non possiamo non considerarci hegeliani assai più che marxiani: la religione non coincide con un momento di “alienazione” (Entfremdung), essendo invece parte integrante dello Spirito assoluto e dunque – non meno dell’arte e della filosofia – della verità. Aver liquidato la religione come “alienazione”, pur cogliendone l’istanza di “protesta” oltre che di “aroma spirituale” del mondo senza spirito, resta uno degli erramenti del pensiero che Marx ha consegnato alla popolosa schiera dei marxisti che a lui si sono variamente ispirati. Per quel che concerne la filosofia, a partire dall’Ideologia tedesca Marx ritiene di averla congedata come espressione ideologica, come superstruttura del mondo alienato: eppure, come si è mostrato nel nostro libro Marx idealista, egli seguita, suo malgrado, a mantenersi nell’alveo della filosofia dialettica hegeliana, con cui pure ritiene di aver chiuso i conti. Fondamentalmente fichtiano è il suo concetto di praxis nelle Tesi su Feuerbach, proprio come essenzialmente hegeliane risultano le sue concezioni della Totalità e dello sviluppo dialettico ritmato da contraddizioni. Per quel che riguarda la religione, invece, Marx tiene fede alla propria dichiarazione di “condanna” del fenomeno religioso, pur nella consapevolezza – contro Feuerbach e i “giovani hegeliani” – che criticarlo soltanto significhi, au fond, lasciar essere il mondo alienato che produce la religione come sua espressione. E proprio nella pretesa di liquidare l’istanza veritativa della religione e della filosofia sta il principale erramento teorico di Marx, la sua inconfessabile legittimazione ex post del mondo della reificazione postmoderna, vuoi anche – parafrasando Del Noce – l’insospettato “punto di innesto” tra il marxismo e il neoliberismo.
Come la filosofia, anche la religione, per Hegel, coglie l’Assoluto e, dunque, esprime rappresentativamente la verità dell’Intero. In particolare, nel System dello Hegel “maturo”, la religione e l’arte sono accomunate alla filosofia per quel che concerne l’oggetto (la verità dell’intero, l’Assoluto), ma ne sono separate dalla forma espressiva. Infatti, la forma depotenziata della Vorstellung religiosa e della “rappresentazione sensibile” operata dall’arte sono diverse e inferiori rispetto alla potenza del “concetto”, del Begriff filosofico, il solo in grado di rendere conto della soggetto-oggettività. Soltanto la filosofia è, in senso pieno, “spirito pensante”, id est “la forma più alta, più libera e più sapiente”5 dello Spirito o – direbbe Aristotele – ἐπιστήμη τῆς ἀληθείας, “scienza della verità” (Metafisica, 993 b 20). Secondo la precisazione di Benedetto Croce, la religione è “forma immaginosa” e, conseguentemente, “immatura e contraddittoria di filosofia”.
Solo con il Begriff il Soggetto e l’Oggetto sono momenti dello stesso Spirito: e il loro opporsi è, in verità, l’opporsi della Sostanza a se stessa. Con la potenza del concetto, pertanto, la filosofia supera e, insieme, invera arte e religione: l’oggettività dell’arte è ora affrancata dal sensibile, proprio come la soggettività della religione viene purificata in soggettività del pensiero puro. In quanto regno della Herrschaft des Begriffs, della “signoria del concetto”, la filosofia può, in tal maniera, definirsi come Aufhebung e dell’arte e della religione, giacché le supera, le toglie e le conserva, mantenendone i contenuti e, insieme, ponendoli nella superiore forma del Begriff. Se, nel giovanile Frammento di sistema, Hegel, in assenza di una compiuta teoria del “pensare dialettico” (dialektisches Denken), poteva intendere la religione come superiore alla filosofia (perché essa sola in grado di superare il dualismo di Soggetto e Oggetto), già con la Fenomenologia dello Spirito del 1807 la prospettiva è rovesciata a beneficio della filosofia. E tale sempre resterà nell’iter speculativo hegeliano: “bisogna andare oltre la forma della rappresentazione” e ciò avviene con il “sapere assoluto” (absolutes Wissen), che dialetticamente supera (inverando, conservando e togliendo) la religione. Quest’ultima, nel tempo, precede la scienza e prima di essa esprime l’essenza dello Spirito: “solo la scienza, però, è il vero sapere che lo Spirito ha di se stesso”. Per quel che concerne la religione, così asserisce lo Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della religione, frutto dei quattro corsi tematici tenuti a Berlino (1821, 1824, 1827 e 1831): “la religione ha in comune con la filosofia l’aspetto sostanziale: Dio, l’assoluto, ciò che è in sé e per sé. Questo è il contenuto sia della religione sia della filosofia, è l’essenza del mondo; il rapporto con la verità, con l’idea assoluta, costituisce il terreno comune”.
Al di là delle analogie e degli isomorfismi, “la differenza propria della filosofia è che in essa il contenuto è posto, è compreso nella forma del pensare”, là dove nella religione – spiega lo Hegel – è solo vorgestellt, “rappresentato”. Il concetto supera la distinzione tra essere e pensare, tra Oggetto e Soggetto, là dove la religione la riproduce, nella misura in cui il Vor-stellen coincide con un “porre dinanzi” come altro da sé il proprio oggetto nella forma del divino come totalmente altro dall’uomo. Secondo quanto precisato icasticamente dalla Propedeutica filosofica, “nella rappresentazione abbiamo di fronte a noi una cosa, anche secondo il suo esteriore inessenziale essere determinato”. Nella religione, infatti, l’essenza assoluta è bensì l’oggetto della coscienza degli uomini, ma “è considerata come l’altro da essi, come un al di là, vicino o lontano, propizio o minaccioso e ostile”. La filosofia, superando e inverando l’arte e la religione e, insieme, facendole apparire come ein Vergangenes, come “un che di passato”, coglie l’Assoluto nell’identità soggetto-oggettiva del Concetto. Per questo, se l’arte esprime la medesima ragione della filosofia ma “immediatamente nel tempo e nello spazio, in pietra e in suoni”, ossia mediante l’elemento del sensibile che è il meno appropriato per cogliere l’Assoluto, la religione giù supera tale esteriorità e, di più, si pone come “reminiscenza di questa esteriorità nella forma della rappresentazione”. Con le parole della Filosofia della religione, “la specie e il modo con cui lo Spirito diviene oggetto per sé è la rappresentazione; questo elemento è la forma per la coscienza assoluta come religione”: ad esempio, asserire che “Dio è creatore del mondo”, “è perfetta giustizia” ed “è onniscienza” è vero nella forma della Vorstellung religiosa.
Il discorso filosofico dello Hegel, in effetti, ha al centro, secondo il suggerimento di Löwith, “Dio e null’altro che Dio e la esplicazione di Dio”. E non di meno, parlare di Dio equivale per Hegel a parlare dell’Assoluto e, dunque, a fare filosofia: “il contenuto della filosofia, la sua esigenza e i suoi interessi sono del tutto comuni con la religione; il suo oggetto è l’eterna verità (die ewige Wahrheit), niente altro che Dio e la sua esplicazione”. In ciò risiede l’essenza specifica della religione senza fede dello Hegel, la quale coincide, de facto, con la filosofia come absolutes Wissen, come “sapere assoluto”. La religione, come la filosofia, ha per oggetto il vero, dunque non la morale o, come ritiene lo Spinoza del Trattato teologico-politico, l’obbedienza. Il quid proprium dell’interpretazione hegeliana della religione sta, in effetti, nel fatto che essa non viene ricondotta all’etica, secondo il modus proprio del moderno, ma alla filosofia prima, all’ambito teoretico. Come lo Hegel precisa senza perifrasi, “la religione è la coscienza del vero in sé e per sé”, più precisamente “la coscienza del contenuto speculativo, interamente universale, non di questo o quel vero, da un lato ancora finito e falso, bensì della verità assoluta, dell’universale che è in sé e per sé”.
Il Dio di Hegel si presenta, nelle Lezioni sulla filosofia della religione, come l’affermazione di un Assoluto che racchiude in sé la divinità cristiana, concepita come momento della sua formazione. In particolare, il Figlio svolge il ruolo di mediatore dell’Idea: nega il Padre per poi negare se stesso. La morte di Cristo è la negazione della negazione: più precisamente, la negazione del particolare (Gesù) che aveva negato l’universale (Dio). Con le parole della Filosofia della religione:
“Dio è morto, Dio è stato ucciso – questo è il pensiero più pauroso e inquietante, che non tutto è eterno, che non tutto è vero, che la negazione stessa è in Dio. Il dolore supremo, il sentimento dell’assenza di ogni salvezza, il venir meno di tutto ciò che è superiore, vi è intrinsecamente legato. Ma il cammino della storia di Dio non può arrestarsi qui, ora viene avanti un mutamento radicale (Umkehrung). Dio infatti si mantiene in questo processo, ed esso è ora la morte della morte. Dio ritorna di nuovo alla vita: egli si volge nella direzione opposta”.
Nel transito dal Christus patiens al Christus triumphans si dà il movimento dialettico per cui il Vero diviene se stesso processualmente, come Selbstbewegung, come “auto-movimento” entelechiale: da tale doppia negazione scaturisce lo Spirito, che è universale concreto, divinizzazione del mondo. Lo Spirito è, allora, il terzo non come Persona divina, ma come risultato della duplice negazione dei momenti precedenti: “è per questa Trinità che la religione cristiana sta più in alto delle altre religioni” ed “è sua mercé che la filosofia trova anche in essa l’idea di ragione”. Nelle Lezioni sulla filosofia della religione, Hegel insiste specialmente sulla comprensione quieta e composta dell’Assoluto che la rappresentazione religiosa rende possibile, dischiudendo “lo splendore dell’eterno”.
Giova a questo proposito sottolineare come Hegel, in nessuna fase del suo iter intellettuale, abbia cercato di destituire la filosofia a favore della religione (come avverrà con i “vecchi” hegeliani della Destra), né di delegittimare la religione a beneficio della filosofia (secondo il modus operandi dei “giovani” hegeliani della Sinistra e dello stesso Marx). Nel quadro del trionfo della Restaurazione e del rilancio della religione in chiave anti-illuministica e anti-razionalistica, lo Hegel si oppone con forza all’aspirazione della religione alla riconquista del monopolio sulle umane coscienze: la religione resta, a suo giudizio, pienamente legittima, dacché è una figura dello Spirito assoluto. Con la sua soluzione teoretica, Hegel si allontana tanto dalle pretese illuministiche di ridurre la religione a Schwärmerei, a “superstizione” fanatica e a erramento inconciliabile con la raison, quanto dalla dominante, sia pure non esclusiva, concezione cristiana che concepisce la fede come compimento, a un livello superiore, della ragione e che muove dal presupposto secondo cui “matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone” (Purgatorio, III, vv. 34-36).
Per la prospettiva dell’intelletto astratto, la religione è liquidata dal sapere razionale. Per la visione cristiana poc’anzi richiamata, la ragione deve cedere il passo, per limiti intrinseci, alla fede, come è raffigurato dalla Commedia con la consegna di Dante a Beatrice da parte di Virgilio. Dal punto di vista cristiano, infatti, la ragione – come rileva Pascal – può tutt’al più dimostrare un primo principio, una di tutte le cose (come anche Anselmo da Aosta aveva provato a fare, procedendo non ex auctoritate ma sola ratione), ma non potrà mai, da sola, incontrare il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe: “state contenti, umana gente, al quia” (Purgatorio, III, v. 37). Per Hegel, al contrario, come ricordato, religione e filosofia presentano il medesimo contenuto veritativo e differiscono unicamente per la diversa forma espressiva utilizzata; forma in virtù della quale è la filosofia a potersi intendere come compimento, a un grado superiore, della religione, senza che ciò comporti un annullamento di quest’ultima, che pure resta momento essenziale dell’absoluter Geist. Già la Metafisica di Aristotele aveva spiegato che la “scienza prima” (πρώτη ἐπιστήμη) comprende la teologia, giacché anch’essa, studiando Dio, è scienza che si cimenta nel περὶ τοῦ ὄντος ᾗ ὂν θεωρῆσαι, nello “studiare l’essere in quanto essere” (VI, a 31): la “filosofia prima”, in quanto sapere assoluto dei princìpi primissimi, è dunque, scienza dell’essere e scienza del divino.
La filosofia stessa, dal canto suo, è per Hegel un culto continuo , avente per oggetto il vero nella sua forma suprema conosciuta non in maniera rappresentativa, ma concettualmente, secondo il ritmo della ragione che si ritrova anche nelle sue opere come da lei prodotte. L’arte, la religione e la filosofia coincidono con la “domenica della vita” (così, curiosamente, lo Hegel definisce anche la pittura olandese) e con il “venerdì santo speculativo” (der spekulative Karfreitag), con l’eterno celebrato nel finito e con l’“autocoscienza dello Spirito assoluto”. Sicché si potrebbe dire, con formula mutuata da Heidegger, che il modo di pregare proprio del filosofo è il pensare: Denken ist Danken, “pensare è ringraziare”. Il suo è, dunque, spinoziamente, amor Dei intellectualis. Secondo un modo di procedere che gli costerà l’accusa di “logoteismo”, ossia di surrettizia riduzione del divino al logico, la religione è per Hegel, a tutti gli effetti, Spirito pensante, ma non ancora Spirito che pensa apertamente se stesso: sicché essa resta nella disuguaglianza con sé. Come lo Hegel precisa, “la filosofia si spiega solo in quanto spiega la religione” e, in quanto “spiega se stessa, spiega la religione”. È in questa cornice ermeneutica che Hegel riprende e valorizza le tradizionali prove dell’esistenza di Dio, reagendo all’abbandono che di esse aveva operato Kant (contro il quale, tra l’altro, sostiene che la prova cosmologica è più antica di quella teleologica). Esse – soprattutto la “prova ontologica” di Anselmo da Aosta, “questo profondo pensatore speculativo” che dall’essenza di Dio deduce la sua necessaria esistenza – meritano rispetto e considerazione, in quanto sono il momento dell’elevazione dello spirito finito verso Dio, ancorché si resti incagliati nell’ambito della riflessione. In particolare, l’argomento ontologico di Anselmo coglie nel segno: a differenza dei “cento talleri” di Kant o dell’isola beata di Gaunilone, non penso l’Assoluto se non lo penso anche come esistente, giacché v’è inseparabilità del concetto e dell’essere. Se Dio è aliquid quo nihil maius cogitari possit, allora – secondo l’argomento anselmiamo – Egli deve necessariamente esistere, dacché, se non esistesse, non sarebbe, appunto, ciò di cui nulla si può pensare di maggiore (si potrebbe, infatti, pensare il medesimo ma, in più, dotato del predicato dell’esistenza).
La potenza veritativa della rappresentazione cristiana sta per Hegel nel suo essere, al contempo, religione a) della rivelazione, b) della verità e c) della riconciliazione33: della rivelazione, ché in essa Dio si manifesta e si rivela per quello che è; della verità, poiché suo contenuto è l’Assoluto, ciò che è ed è eternamente; della riconciliazione, in quanto il suo fondamento è la riconciliazione del mondo con Dio. Per quel che concerne l’ultimo plesso teorico, la morte e la resurrezione di Cristo – il quale figura, per dirla con la Fenomenologia, come der unmittelbar gegenwärtige Gott, “il Dio presente immediatamente”34 – costituiscono il locus revelationis della possibilità della Versöhnung, resa accessibile mediante l’immediatezza rappresentativa dell’intuizione sensibile. La vicenda cristica compendia in forma rappresentativa la dinamica di sviluppo entelechiale e autotelico dello Spirito, rispetto alla quale il negativo è esso stesso, se speculativamente inteso, un momento positivo e necessario. Come lo Hegel asserisce commentando la Genesi, “tale perdita del paradiso è veramente necessaria” e coincide, teologicamente, con la felix culpa.
Immaginando di interpretarlo con le categorie di Hegel, il noto asserto di Benedetto Croce – “non possiamo non dirci cristiani” – non può essere letto in una chiave sterilmente storicistica, come se, appunto, non potessimo non dirci cristiani nel senso che, tra le tante figure storiche incontrate e vissute dall’Occidente, v’è stata anche quella del cristianesimo. Al contrario, se non possiamo non dirci cristiani, ciò dipende – direbbe Hegel – dal fatto che v’è, nel cristianesimo, un irrinunciabile messaggio veritativo, che è lo stesso espresso, in altra e più alta forma, dalla filosofia. Fare filosofia significa, in pari tempo, fare teologia, vale a dire occuparsi dell’eternamente vero e dei princìpi primissimi.
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Il tratto più caratterizzante della speculazione filosofico-teologica di Georg Wilhelm Friedrich Hegel sta nell’aver ravvisato nella religione un contenuto veritativo analogo a quello della filosofia, sia pure diversamente espresso. Sotto questo riguardo, non possiamo non considerarci hegeliani assai più che marxiani: la religione non coincide con un momento di “alienazione” (Entfremdung), essendo invece parte integrante dello Spirito assoluto e dunque – non meno dell’arte e della filosofia – della verità. Aver liquidato la religione come “alienazione”, pur cogliendone l’istanza di “protesta” oltre che di “aroma spirituale” del mondo senza spirito, resta uno degli erramenti del pensiero che Marx ha consegnato alla popolosa schiera dei marxisti che a lui si sono variamente ispirati. Per quel che concerne la filosofia, a partire dall’Ideologia tedesca Marx ritiene di averla congedata come espressione ideologica, come superstruttura del mondo alienato: eppure, come si è mostrato nel nostro libro Marx idealista, egli seguita, suo malgrado, a mantenersi nell’alveo della filosofia dialettica hegeliana, con cui pure ritiene di aver chiuso i conti. Fondamentalmente fichtiano è il suo concetto di praxis nelle Tesi su Feuerbach, proprio come essenzialmente hegeliane risultano le sue concezioni della Totalità e dello sviluppo dialettico ritmato da contraddizioni. Per quel che riguarda la religione, invece, Marx tiene fede alla propria dichiarazione di “condanna” del fenomeno religioso, pur nella consapevolezza – contro Feuerbach e i “giovani hegeliani” – che criticarlo soltanto significhi, au fond, lasciar essere il mondo alienato che produce la religione come sua espressione. E proprio nella pretesa di liquidare l’istanza veritativa della religione e della filosofia sta il principale erramento teorico di Marx, la sua inconfessabile legittimazione ex post del mondo della reificazione postmoderna, vuoi anche – parafrasando Del Noce – l’insospettato “punto di innesto” tra il marxismo e il neoliberismo.
Come la filosofia, anche la religione, per Hegel, coglie l’Assoluto e, dunque, esprime rappresentativamente la verità dell’Intero. In particolare, nel System dello Hegel “maturo”, la religione e l’arte sono accomunate alla filosofia per quel che concerne l’oggetto (la verità dell’intero, l’Assoluto), ma ne sono separate dalla forma espressiva. Infatti, la forma depotenziata della Vorstellung religiosa e della “rappresentazione sensibile” operata dall’arte sono diverse e inferiori rispetto alla potenza del “concetto”, del Begriff filosofico, il solo in grado di rendere conto della soggetto-oggettività. Soltanto la filosofia è, in senso pieno, “spirito pensante”, id est “la forma più alta, più libera e più sapiente”5 dello Spirito o – direbbe Aristotele – ἐπιστήμη τῆς ἀληθείας, “scienza della verità” (Metafisica, 993 b 20). Secondo la precisazione di Benedetto Croce, la religione è “forma immaginosa” e, conseguentemente, “immatura e contraddittoria di filosofia”.
Solo con il Begriff il Soggetto e l’Oggetto sono momenti dello stesso Spirito: e il loro opporsi è, in verità, l’opporsi della Sostanza a se stessa. Con la potenza del concetto, pertanto, la filosofia supera e, insieme, invera arte e religione: l’oggettività dell’arte è ora affrancata dal sensibile, proprio come la soggettività della religione viene purificata in soggettività del pensiero puro. In quanto regno della Herrschaft des Begriffs, della “signoria del concetto”, la filosofia può, in tal maniera, definirsi come Aufhebung e dell’arte e della religione, giacché le supera, le toglie e le conserva, mantenendone i contenuti e, insieme, ponendoli nella superiore forma del Begriff. Se, nel giovanile Frammento di sistema, Hegel, in assenza di una compiuta teoria del “pensare dialettico” (dialektisches Denken), poteva intendere la religione come superiore alla filosofia (perché essa sola in grado di superare il dualismo di Soggetto e Oggetto), già con la Fenomenologia dello Spirito del 1807 la prospettiva è rovesciata a beneficio della filosofia. E tale sempre resterà nell’iter speculativo hegeliano: “bisogna andare oltre la forma della rappresentazione” e ciò avviene con il “sapere assoluto” (absolutes Wissen), che dialetticamente supera (inverando, conservando e togliendo) la religione. Quest’ultima, nel tempo, precede la scienza e prima di essa esprime l’essenza dello Spirito: “solo la scienza, però, è il vero sapere che lo Spirito ha di se stesso”. Per quel che concerne la religione, così asserisce lo Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della religione, frutto dei quattro corsi tematici tenuti a Berlino (1821, 1824, 1827 e 1831): “la religione ha in comune con la filosofia l’aspetto sostanziale: Dio, l’assoluto, ciò che è in sé e per sé. Questo è il contenuto sia della religione sia della filosofia, è l’essenza del mondo; il rapporto con la verità, con l’idea assoluta, costituisce il terreno comune”.
Al di là delle analogie e degli isomorfismi, “la differenza propria della filosofia è che in essa il contenuto è posto, è compreso nella forma del pensare”, là dove nella religione – spiega lo Hegel – è solo vorgestellt, “rappresentato”. Il concetto supera la distinzione tra essere e pensare, tra Oggetto e Soggetto, là dove la religione la riproduce, nella misura in cui il Vor-stellen coincide con un “porre dinanzi” come altro da sé il proprio oggetto nella forma del divino come totalmente altro dall’uomo. Secondo quanto precisato icasticamente dalla Propedeutica filosofica, “nella rappresentazione abbiamo di fronte a noi una cosa, anche secondo il suo esteriore inessenziale essere determinato”. Nella religione, infatti, l’essenza assoluta è bensì l’oggetto della coscienza degli uomini, ma “è considerata come l’altro da essi, come un al di là, vicino o lontano, propizio o minaccioso e ostile”. La filosofia, superando e inverando l’arte e la religione e, insieme, facendole apparire come ein Vergangenes, come “un che di passato”, coglie l’Assoluto nell’identità soggetto-oggettiva del Concetto. Per questo, se l’arte esprime la medesima ragione della filosofia ma “immediatamente nel tempo e nello spazio, in pietra e in suoni”, ossia mediante l’elemento del sensibile che è il meno appropriato per cogliere l’Assoluto, la religione giù supera tale esteriorità e, di più, si pone come “reminiscenza di questa esteriorità nella forma della rappresentazione”. Con le parole della Filosofia della religione, “la specie e il modo con cui lo Spirito diviene oggetto per sé è la rappresentazione; questo elemento è la forma per la coscienza assoluta come religione”: ad esempio, asserire che “Dio è creatore del mondo”, “è perfetta giustizia” ed “è onniscienza” è vero nella forma della Vorstellung religiosa.
Il discorso filosofico dello Hegel, in effetti, ha al centro, secondo il suggerimento di Löwith, “Dio e null’altro che Dio e la esplicazione di Dio”. E non di meno, parlare di Dio equivale per Hegel a parlare dell’Assoluto e, dunque, a fare filosofia: “il contenuto della filosofia, la sua esigenza e i suoi interessi sono del tutto comuni con la religione; il suo oggetto è l’eterna verità (die ewige Wahrheit), niente altro che Dio e la sua esplicazione”. In ciò risiede l’essenza specifica della religione senza fede dello Hegel, la quale coincide, de facto, con la filosofia come absolutes Wissen, come “sapere assoluto”. La religione, come la filosofia, ha per oggetto il vero, dunque non la morale o, come ritiene lo Spinoza del Trattato teologico-politico, l’obbedienza. Il quid proprium dell’interpretazione hegeliana della religione sta, in effetti, nel fatto che essa non viene ricondotta all’etica, secondo il modus proprio del moderno, ma alla filosofia prima, all’ambito teoretico. Come lo Hegel precisa senza perifrasi, “la religione è la coscienza del vero in sé e per sé”, più precisamente “la coscienza del contenuto speculativo, interamente universale, non di questo o quel vero, da un lato ancora finito e falso, bensì della verità assoluta, dell’universale che è in sé e per sé”.
Il Dio di Hegel si presenta, nelle Lezioni sulla filosofia della religione, come l’affermazione di un Assoluto che racchiude in sé la divinità cristiana, concepita come momento della sua formazione. In particolare, il Figlio svolge il ruolo di mediatore dell’Idea: nega il Padre per poi negare se stesso. La morte di Cristo è la negazione della negazione: più precisamente, la negazione del particolare (Gesù) che aveva negato l’universale (Dio). Con le parole della Filosofia della religione:
“Dio è morto, Dio è stato ucciso – questo è il pensiero più pauroso e inquietante, che non tutto è eterno, che non tutto è vero, che la negazione stessa è in Dio. Il dolore supremo, il sentimento dell’assenza di ogni salvezza, il venir meno di tutto ciò che è superiore, vi è intrinsecamente legato. Ma il cammino della storia di Dio non può arrestarsi qui, ora viene avanti un mutamento radicale (Umkehrung). Dio infatti si mantiene in questo processo, ed esso è ora la morte della morte. Dio ritorna di nuovo alla vita: egli si volge nella direzione opposta”.
Nel transito dal Christus patiens al Christus triumphans si dà il movimento dialettico per cui il Vero diviene se stesso processualmente, come Selbstbewegung, come “auto-movimento” entelechiale: da tale doppia negazione scaturisce lo Spirito, che è universale concreto, divinizzazione del mondo. Lo Spirito è, allora, il terzo non come Persona divina, ma come risultato della duplice negazione dei momenti precedenti: “è per questa Trinità che la religione cristiana sta più in alto delle altre religioni” ed “è sua mercé che la filosofia trova anche in essa l’idea di ragione”. Nelle Lezioni sulla filosofia della religione, Hegel insiste specialmente sulla comprensione quieta e composta dell’Assoluto che la rappresentazione religiosa rende possibile, dischiudendo “lo splendore dell’eterno”.
Giova a questo proposito sottolineare come Hegel, in nessuna fase del suo iter intellettuale, abbia cercato di destituire la filosofia a favore della religione (come avverrà con i “vecchi” hegeliani della Destra), né di delegittimare la religione a beneficio della filosofia (secondo il modus operandi dei “giovani” hegeliani della Sinistra e dello stesso Marx). Nel quadro del trionfo della Restaurazione e del rilancio della religione in chiave anti-illuministica e anti-razionalistica, lo Hegel si oppone con forza all’aspirazione della religione alla riconquista del monopolio sulle umane coscienze: la religione resta, a suo giudizio, pienamente legittima, dacché è una figura dello Spirito assoluto. Con la sua soluzione teoretica, Hegel si allontana tanto dalle pretese illuministiche di ridurre la religione a Schwärmerei, a “superstizione” fanatica e a erramento inconciliabile con la raison, quanto dalla dominante, sia pure non esclusiva, concezione cristiana che concepisce la fede come compimento, a un livello superiore, della ragione e che muove dal presupposto secondo cui “matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone” (Purgatorio, III, vv. 34-36).
Per la prospettiva dell’intelletto astratto, la religione è liquidata dal sapere razionale. Per la visione cristiana poc’anzi richiamata, la ragione deve cedere il passo, per limiti intrinseci, alla fede, come è raffigurato dalla Commedia con la consegna di Dante a Beatrice da parte di Virgilio. Dal punto di vista cristiano, infatti, la ragione – come rileva Pascal – può tutt’al più dimostrare un primo principio, una di tutte le cose (come anche Anselmo da Aosta aveva provato a fare, procedendo non ex auctoritate ma sola ratione), ma non potrà mai, da sola, incontrare il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe: “state contenti, umana gente, al quia” (Purgatorio, III, v. 37). Per Hegel, al contrario, come ricordato, religione e filosofia presentano il medesimo contenuto veritativo e differiscono unicamente per la diversa forma espressiva utilizzata; forma in virtù della quale è la filosofia a potersi intendere come compimento, a un grado superiore, della religione, senza che ciò comporti un annullamento di quest’ultima, che pure resta momento essenziale dell’absoluter Geist. Già la Metafisica di Aristotele aveva spiegato che la “scienza prima” (πρώτη ἐπιστήμη) comprende la teologia, giacché anch’essa, studiando Dio, è scienza che si cimenta nel περὶ τοῦ ὄντος ᾗ ὂν θεωρῆσαι, nello “studiare l’essere in quanto essere” (VI, a 31): la “filosofia prima”, in quanto sapere assoluto dei princìpi primissimi, è dunque, scienza dell’essere e scienza del divino.
La filosofia stessa, dal canto suo, è per Hegel un culto continuo , avente per oggetto il vero nella sua forma suprema conosciuta non in maniera rappresentativa, ma concettualmente, secondo il ritmo della ragione che si ritrova anche nelle sue opere come da lei prodotte. L’arte, la religione e la filosofia coincidono con la “domenica della vita” (così, curiosamente, lo Hegel definisce anche la pittura olandese) e con il “venerdì santo speculativo” (der spekulative Karfreitag), con l’eterno celebrato nel finito e con l’“autocoscienza dello Spirito assoluto”. Sicché si potrebbe dire, con formula mutuata da Heidegger, che il modo di pregare proprio del filosofo è il pensare: Denken ist Danken, “pensare è ringraziare”. Il suo è, dunque, spinoziamente, amor Dei intellectualis. Secondo un modo di procedere che gli costerà l’accusa di “logoteismo”, ossia di surrettizia riduzione del divino al logico, la religione è per Hegel, a tutti gli effetti, Spirito pensante, ma non ancora Spirito che pensa apertamente se stesso: sicché essa resta nella disuguaglianza con sé. Come lo Hegel precisa, “la filosofia si spiega solo in quanto spiega la religione” e, in quanto “spiega se stessa, spiega la religione”. È in questa cornice ermeneutica che Hegel riprende e valorizza le tradizionali prove dell’esistenza di Dio, reagendo all’abbandono che di esse aveva operato Kant (contro il quale, tra l’altro, sostiene che la prova cosmologica è più antica di quella teleologica). Esse – soprattutto la “prova ontologica” di Anselmo da Aosta, “questo profondo pensatore speculativo” che dall’essenza di Dio deduce la sua necessaria esistenza – meritano rispetto e considerazione, in quanto sono il momento dell’elevazione dello spirito finito verso Dio, ancorché si resti incagliati nell’ambito della riflessione. In particolare, l’argomento ontologico di Anselmo coglie nel segno: a differenza dei “cento talleri” di Kant o dell’isola beata di Gaunilone, non penso l’Assoluto se non lo penso anche come esistente, giacché v’è inseparabilità del concetto e dell’essere. Se Dio è aliquid quo nihil maius cogitari possit, allora – secondo l’argomento anselmiamo – Egli deve necessariamente esistere, dacché, se non esistesse, non sarebbe, appunto, ciò di cui nulla si può pensare di maggiore (si potrebbe, infatti, pensare il medesimo ma, in più, dotato del predicato dell’esistenza).
La potenza veritativa della rappresentazione cristiana sta per Hegel nel suo essere, al contempo, religione a) della rivelazione, b) della verità e c) della riconciliazione33: della rivelazione, ché in essa Dio si manifesta e si rivela per quello che è; della verità, poiché suo contenuto è l’Assoluto, ciò che è ed è eternamente; della riconciliazione, in quanto il suo fondamento è la riconciliazione del mondo con Dio. Per quel che concerne l’ultimo plesso teorico, la morte e la resurrezione di Cristo – il quale figura, per dirla con la Fenomenologia, come der unmittelbar gegenwärtige Gott, “il Dio presente immediatamente”34 – costituiscono il locus revelationis della possibilità della Versöhnung, resa accessibile mediante l’immediatezza rappresentativa dell’intuizione sensibile. La vicenda cristica compendia in forma rappresentativa la dinamica di sviluppo entelechiale e autotelico dello Spirito, rispetto alla quale il negativo è esso stesso, se speculativamente inteso, un momento positivo e necessario. Come lo Hegel asserisce commentando la Genesi, “tale perdita del paradiso è veramente necessaria” e coincide, teologicamente, con la felix culpa.
Immaginando di interpretarlo con le categorie di Hegel, il noto asserto di Benedetto Croce – “non possiamo non dirci cristiani” – non può essere letto in una chiave sterilmente storicistica, come se, appunto, non potessimo non dirci cristiani nel senso che, tra le tante figure storiche incontrate e vissute dall’Occidente, v’è stata anche quella del cristianesimo. Al contrario, se non possiamo non dirci cristiani, ciò dipende – direbbe Hegel – dal fatto che v’è, nel cristianesimo, un irrinunciabile messaggio veritativo, che è lo stesso espresso, in altra e più alta forma, dalla filosofia. Fare filosofia significa, in pari tempo, fare teologia, vale a dire occuparsi dell’eternamente vero e dei princìpi primissimi. |