FILOSOFIA EBRAICA
“La luce che si spande nella materia emana da un’altra luce che è al disopra della materia” (Avicebron, La fonte della vita)
INTRODUZIONE
Fare un’introduzione alla filosofia ebraica risulta alquanto complesso almeno fino al I sec. dell’Era Volgare, quando con Filone di Alessandria si stabilisce il primo originale incontro tra il giudaismo e la filosofia greca, ci risulta difficile comprendere il significato che possiamo attribuire ad un concetto originale di “filosofia”. Molti studiosi, tra i quali Colette Sirat, sottolineano la complessità di definire in particolare il concetto di filosofia ebraica : “Filosofia ebraica non significa, quindi una filosofia elaborata da un ebreo; non significa nemmeno una filosofia le cui fonti siano ebraiche […] Questo significa che una data filosofia, apparsa ad un certo momento della storia umana, è stata accostata alla tradizione ebraica e che si sono messi in rilievo i tratti comuni a certi testi del patrimonio culturale ebraico e a questo sistema di pensiero. In questo senso i testi che costituiscono la ‘filosofia ebraica’ sono raramente testi di filosofia pura” ( Colette Sirat La filosofia ebraica medievale, secondo testi editi e inediti. A cura di Bruno Chiesa Paideia Brescia 1990. Introduzione pp. 21-22)
E’ quindi evidente che per comprende lo sviluppo della tradizione e della cultura ebraica occorre esaminare almeno i testi che sin dall’origine sono stati al centro delle speculazioni e dei dibattiti del popolo di Israele e che, sicuramente, attraverso la loro interpretazione e rielaborazione sono alla base di tutti quei sistemi di pensiero che rimangono vivi all’interno del giudaismo – parlo qui di sistemi di pensiero proprio perché accanto alla filosofia anche altre correnti come il misticismo, espresso pienamente dalla Qabbalah, o altre forme di ascetismo hanno indubbiamente contribuito alla formazione di un monumentale corpus che rafforza le fondamenta della più antica e millenaria tradizione ebraica.
Ovviamente il primo testo che dobbiamo tenere in considerazione e che costruisce non solo lo speciale rapporto tra un popolo e il Suo Dio, ma soprattutto sancisce e regola la vita dell’uomo e dell’intera comunità è la Torah, ovvero i cinque libri che formano il Pentateuco: Genesi, Bereshit ; Esodo, Shemot ; Levitico Vaykrà; Numeri Bamidbar; Deuteronomio, Devarim. ( i nomi dei libri che formano il Pentateuco in ebraico sono così chiamati dall’incipit di ogni singolo libro, Bereshit infatti vuol dire “In principio”; Shemot “Nomi”; Vaykrà “Egli chiamò”; Bamidbar “Nel deserto”: Devarim “Parole”). Aggiungo qui anche una breve nota poiché spesso erroneamente parlando di Torah si vuole intendere, in senso più generale, la Bibbia. Per indicare tutto l’Antico Testamento si usa TaNaCh che è l’acronimo di tutte e tre le sezioni che compongono la Bibbia ebraica, Torah, il Pentateuco appunto, Ne’vim, i libri dei profeti, e Ketuvim, gli scritti.
Accanto a questa tradizione scritta che può essere semplicemente indicata come “Torah Scritta” (Torah shebikhtav), è ben viva e presente nell’ebraismo una ancora più copiosa tradizione orale o “Torah Orale” (Torah shebal’pe) che fu quella tramandata direttamente da Dio a Moshe sul Monte Sinai attorno alla quale si costruirà l’intero assetto del Talmud.
Talmud
Prima di introdurre il contenuto del Talmud è indispensabile sottolineare come, all’interno del pensiero ebraico, possiamo individuare, anche solo attraverso una lettura superficiale, diversi piani di lettura elaborati dai più antichi Maestri di Israele e dalla scuole che sin dal I sec. a.e.v. hanno fatto il loro ingesso all’interno della scena culturale e sono entrati appieno nella tradizione ebraica. Abbiamo prima parlato di una “Torah Scritta” e di una “Torah Orale”. Il Talmud è la raccolta e rielaborazione della Legge trasmessa da Dio a Moshe sul Monte Sinai quindi della cosiddetta “Torah Orale”. A questo punto è già possibile distinguere due piani di interpretazione che contraddistinguono e convivono assieme non soltanto all’interno del pensiero ebraico ma vengono a costituire la struttura portante del Talmud: Halachah e Aggadah.
L’Halachah coglie l’aspetto giuridico e normativo (Halach in ebraico significa “via”), l’Aggadah (Racconto) invece raccoglie l’aspetto narrativo-omelitico. Vorrei qui riportare una breve citazione di Emmanuel Levinas che comprende appieno la duplice valenza delle due componenti della Legge ebraica che spesso sembrano in antitesi ma che in realtà sono due facce della stessa medaglia ( per un approfondimento rimando anche all’opera di Chaim Nachman Bialik Halachàh e Aggadah, a cura di Andrea Cavalletti, Bollati Boringhieri, Torino 2006)
Emmanuel Levinas in una delle sue ri-letture talmudiche contenute in “Dal Sacro al Santo. La tradizione talmudica nella rilettura dell’ebraismo postcristiano” commentando il Trattato Baba Kama 60a-60b coglierà raffinatamente quella sottile differenza tra Halachàh e Aggadah « Rabbi Assì e Rav Anì erano seduti davanti a Rabbi Jtzchaq, il fabbro. L’uno gli chiese di trattare di Halachàh, e l’altro di trattare di Aggadah. Quando quegli cominciava una Halachàh, il secondo glielo impediva; quando cominciava un Aggadah, il primo glielo impediva.
Rabbi Jtzchaq è fabbro. Sa come maneggiare pacificamente il fuoco. Sicuramente, non è qui per caso.[…]
Allora disse loro: Vi racconterò una parabola. Questa è simile a un uomo che ha due mogli, una giovane e una vecchia; la giovane gli strappava i capelli bianchi, la vecchia gli strappava i capelli neri:al punto che diventò calvo dai due lati.
[…] Esistono Aggadah e Halachàh. Aggadah e Halachàh sono nel nostro testo paragonate a giovinezza e vecchiezza. Io poco fa le definivo altrimenti, dicendo: L’Halachàh è il modo di comportarsi; l’Aggadah è il significato filosofico – religioso e morale – di questo comportamento. Ma non è sicuro che le due definizioni si contraddicano. E’ evidente che i giovani giudicano l’Halachàh come capelli grigi, pure forme: forme che hanno perduto il loro colore. La moglie giovane li strappa: i giovani interpretano fino a sradicare le radici dei termini. La moglie vecchia è il punto di vista tradizionale: l’ortodossia che prende i testi alla lettera. Li conserva nel loro deterioramento. Per lei non ci sono testi da ringiovanire: il capello bianco va ancora bene. Ha il suo valore. Strappa invece i capelli neri, che rappresentano la virilità, l’impazienza e l’interpretazione apportatrici di rinnovamento. Si tratta della stessa divisione della comunità d’Israele, della sua spaccatura tra giovinezze e non-giovinezza. Dappertutto allora c’è violenza. Siffatta divisione in giovani e vecchi, siffatta separazione in rivoluzionari e tradizionalisti, è condannata. Contro il culto della tradizione e contro il culto della modernità! In essi va perduta la sovranità dello spirito. Gli uni vogliono rinnovare fino al recupero di una religione a base di danze e spettacoli; gli altri, per rispetto dei capelli bianchi, vedono dappertutto frivolezza. Ora, lo spirito non è bigamo! Il terribile di questa bigamia dello spirito simboleggia le due donne, la vecchia e la giovane; la maturità come conservatorismo, e la giovinezza come ricerca del nuovo ad ogni costo. Rabbi Jtzchaq il fabbro trae una conclusione:
Allora egli disse loro: Vi darò una storia che piacerà a tutt’e due.
In altre parole: Vi darò una Halachàh che è un’Aggadah e un’Aggadah che è una Halachàh.
Se un fuoco divampa e raggiunge dei rovi, e avanza da sé, allora chi appiccò il fuoco deve pagare.
Ma ecco subito la Halachàh trasformata in Aggadah, o, più esattamente, messa in relazione con una Aggadah letta come Halachàh:
Il Santo- benedetto sia- dice: Ho acceso un fuoco in Sion, come è detto: “ Egli accende un incendio in Sion, che ne ha divorato perfino le fondamenta” ( Lamentazioni 4, 11) e la ricostruirò un giorno col fuoco, com’è detto ( Zaccaria 2,9 ): “E io sarò per lei una muraglia di fuoco tutt’intorno, e sarò motivo di gloria in mezzo ad essa.»
Dal Sacro al Santo, introduzione di Sofia Cavalletti, Città Nuova, Roma 1985 pp. 154-156.
Il Talmud che significa propriamente “studio, insegnamento”- ma che può assumere anche il significato di “dottrina”- indica non solo la “Torah Orale” ma anche, in senso lato, il libro che contiene gli insegnamenti trasmessi a Moshe. Abbiamo, a partire dalla complessità della tematica e soprattutto dalle differenti scuole e Accademie, due diverse scuole talmudiche che hanno redatto due distinte edizioni del Talmud: il Talmud babilonese Talmud Bavli ( quello a cui generalmente si fa riferimento ) e il Talmud gerosolimitano o palestinese.
Una prima codificazione della Torah Orale è avvenuta attorno al II sec. e.v. con Rabbi Yehudah ha-Nassì ed è proseguita sino al III / IV sec. ; a questa suddivisione corrispondono anche i due “livelli” attraverso cui il Talmud si articola la Mishnah (Ripetizione) che è la raccolta delle più antiche discussione dei Maestri e dei Sapienti di Israele e la Gemarah (Completamento) che fornisce un commento alla Mishnah.
La filosofia ebraica medievale fino al XII secolo.
La filosofia ebraica medievale, richiamandomi sempre agli studi compiuti da Colette Sirat (La Filosofia ebraica medievale secondo i testi editi e inediti; a cura di Bruno Chiesa, Paideia, Brescia 1991), può essere suddivisa sommariamente in due periodi: il primo che parte dal pensiero filosofico di Saadia Gaon (882-942) e arriva sino a Moshè ben Maimon, Maimonide (1138-1204); e il secondo che da Maimonide prosegue fino all’era moderna.
Questa suddivisione ci permette di comprendere sin da subito la centralità del pensiero e delle speculazioni filosofiche di Maimonide, il quale diventa realmente una auctoritas del pensiero e della tradizione ebraica. E’ attraverso la sua ricerca che è possibile integrare un sistema filosofico che fino all’anno mille appariva in antitesi con la tradizione ebraica. Questo segna un punto di svolta per il pensiero ebraico che permette un’apertura verso la cultura e la tradizione latina.
La filosofia ebraica medievale nasce e si sviluppa all’interno del contesto arabo, in Palestina, Mesopotamia e nella penisola araba vengono istituite le prime scuole di pensiero che prendono le distanze dalle classiche scuole talmudiche. I primi filosofi ebrei, non a caso, si richiamano pienamente alle dottrine ispirate ai movimenti teologici musulmani, i mutakallimun ( letteralmente “parlanti”, Teologi Musulmani, coloro che studiano il Kalam, letteralmente “discorso”) il cui confronto rimarrà sempre vivo almeno fino a Maimonide (cfr. la prima parte del Moreh ha-Nevukim, la Guida dei Perplessi) e sarà comunque ripreso dagli autori del neoplatonismo ebraico.
Tra il X e il XII secolo la filosofia greca fa il suo ingresso all’interno del pensiero ebraico. La filosofia medievale ebraica, in questo periodo, è peculiarmente neoplatonica. Già a partire dal IX secolo gli scritti di Plotino e di Proclo iniziano a circolare in ambiente arabo, con le prime traduzioni dai testi originali greci, i trattati che ne fungono da commento, assieme ad opere tipicamente originali.
Una prima differenza con i secoli precedenti può essere individuata già da uno “spostamento” geografico dei suoi esponenti, i filosofi provengono infatti dall’Africa Settentrionale (Egitto, Tunisia) e dall’Andalusia; tutti i filosofi ebrei si esprimono e scrivono in arabo (eccezion fatta per i commenti halachici e per quelli talmuduci che ovviamente continuano ad essere scritti in ebraico).
Tra i testi che fanno da riferimento ai filosofi ebrei di questi secoli sicuramente possiamo annoverare: la Teologia di Aristotele ovvero una parafrasi araba di alcune parti delle Enneaidi di Plotino; il Liber de Causis l’elaborazione di alcuni passi dell’ Elementatio theologica di Proclo realizzata probabilmente da al-Kindi; le opere filosofiche di al-Kindi; il Libro delle cinque sostanze dello pseudo-Empedocle (cfr. La filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Mauro Zonta, Laterza, Bari 2002).
Tra gli esponenti del neoplatonismo ebraico dobbiamo assolutamente ricordare Isaac ben Shelomoh Israeli (850-932 o 955), Shelomon ben Yehudah Ibn Gabirol (1021-1058 ca), Abraham Ibn Ezra (1089-1164).
Possiamo parlare di un vero e proprio aristotelismo ebraico a partire dalla prima metà del XII secolo in Andalusia. Ovviamente la difficoltà di integrare la filosofia di Aristotele con le dottrine filosofiche, e soprattutto con la tradizione teologico-religiosa del pensiero ebraico e arabo, ha sicuramente attardato l’ingresso del Filosofo all’interno della tradizione ebraica.
I testi di Aristotele sono comunque mediati dall’influsso neoplatonico e dalle interpretazioni dei suoi commentatori classici come Temistio e Alessandro di Afrodisia, nonché dagli insegnamenti e dai commenti dei filosofi arabi, pensiamo a Ibn Rushd (Averroè) e Ibn Sina (Avicenna).
L’aristotelismo ebraico nasce anche come opposizione al forte influsso neoplatonico che dominava il pensiero di quei secoli, sicuramente il Libro del Cazaro di Yehudah ha-Lewi (1075-1141) ha contribuito allo sviluppo dello studio del rapporto tra filosofia e religione facendo da precursore a queste tematiche.
Abraham Ibn Daud (1110-1180) fu il primo ad introdurre nella filosofia ebraica le dottrine aristoteliche tentando di mostrare una possibile correlazione tra la filosofia del Maestro e la Torah.
Sicuramente l’approccio al pensiero di Aristotele in Andalusia è avvenuto anche attraverso la mediazione di un filosofo arabo musulmano Ibn Bāggia il quale lo aveva introdotto attraverso l’interpretazione di Al-Farabi.
Moshè ben Maimon (1138-1204), Maimonide, fu il primo filosofo ebreo a dimostrare che la filosofia di Aristotele non si pone assolutamente in opposizione agli insegnamenti della Torah, al contrario la Filosofia deve e può essere usata come strumento di interpretazione della Legge. L’antitesi apparente tra la filosofia greca e la tradizione ebraica è sciolta dunque da Maimonide che con arguta finezza è riuscito a conciliare le due posizioni perfezionando dunque le tematiche affrontate in parte da Abraham Ibn Daud.
Haskalah
Vorrei qui fornire una breve parentesi sul pensiero filosofico ebraico in età moderna e contemporanea. Già a partire con le speculazioni filosofiche di Spinoza ha luogo una sostanziale rottura con il pensiero ebraico tradizionale, ma è proprio con l’avvio del XVIII secolo che il pensiero ebraico tende verso una svolta ben più radicale, infatti con il termine Haskalah si vuole indicare quel movimento che fa capo alle idee diffuse con l’età dei lumi nell’Europa del Settecento e che in un certo qual modo vengono fatte proprie all’interno del pensiero ebraico.
Haskalah quindi sta letteralmente a significare l’Illuminismo ebraico, nato e sviluppatosi all’interno del pensiero e della tradizione ebraica. Questo movimento coincide ovviamente con una grande svolta politica che ha scosso l’intera l’Europa del XVIII sec. e che senza dubbio ha contribuito all’emancipazione ebraica (nel 1796 infatti la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda attribuiranno i medesimi diritti agli ebrei che vivono all’interno del proprio Stato, facendoli diventare così cittadini a tutti gli effetti). Gli ebrei dunque “escono dal ghetto”, non soltanto nell’accezione fisica e tangibile del termine, ma “l’uscire dal ghetto” sta realmente a significare un “emancipazione” culturale e spirituale.
Questo indubbiamente produce una vera e propria rottura con il passato, già comunque avvenuta in parte con Spinoza che attraverso le sue posizioni “poco ortodosse” viene scomunicato dalla comunità ebraica di Amsterdam (1656), ma è proprio in questo momento che la questione identitaria diventa centrale all’interno dell’ebraismo e certamente il movimento dell’Haskalah ha contribuito a mantener viva questa discussione in particolar modo rispetto alla questione dell’assimilazione del popolo ebraico all’interno della società. Non è un caso infatti che in quegli stessi anni un movimento contrario e speculare viene a crearsi sempre in Europa che al contrario pone i suoi principi nell’Ortodossia religiosa.
Moses Mendelsshon (1729-1786) ha sicuramente contribuito alla diffusione delle dottrine illuministe in ambiente ebraico ed è uno degli esponenti più importanti dell’Haskalah. Oltre ad essere un intellettuale è doveroso ricordare i suoi contributi al pensiero filosofico – Heinrich Graetz sottolineerà come questo così sottile e ingegnoso pensatore abbia studiato da autodidatta – e all’interpretazione della Torah che non possono essere considerati assolutamente secondari, egli infatti sarà un meticoloso interprete ed esegeta delle Scritture, e soprattutto del pensiero di Maimonide.
Saadia Gaon
Sa’adyah ben Yosef al-Fayyumi noto con il nome di Saadia Gaon (882-942) è sicuramente il più importante filosofo ebraico della prima metà del IX secolo. Secondo Abraham Ibn Ezra : “Saadia Gaon fu il primo a prendere la parola in tutti i campi (del sapere)”. Egli infatti scriverà numerose opere e trattati dalla filologia ebraica all’esegesi biblica, dalla letteratura religiosa (compose infatti un’opera sul calendario ebraico e numerosi commenti al Talmud) a trattati di teologia.
Saadia Gaon nasce in Egitto, ma ben presto, nel 915, lasciò la sua famiglia per un lungo viaggio verso Palestina, Iraq e Siria. Nel 928 fu nominato “ga’on”, capo appunto, dell’accademia ebraica di Sura in Mesopotamia, questa carica gli fu senza dubbio affidata non solo per essere un grande conoscitore della lingua ebraica ed esegeta biblico ma anche per le sue profonde conoscenze in ambito di diritto e di astronomia.
Indubbiamente le sue conoscenze filosofiche possono essere ricondotte all’ambiente arabo, in cui vive e produce tutte le sue opere, e sicuramente ha una conoscenza diretta del pensiero delle scuole mutazilite del kalam islamico; Saadia Gaon non conosceva direttamente i testi e le dottrine del pensiero antico ma le sue conoscenze sono mediate dai commenti dei pensatori tardo-antichi tradotti in arabo (cfr. Mauro Zonta La filosofia ebraica medievale, Laterza Bari 2002).
Accanto ad un trattato sul lessico ebraico, il Sefer Agron, Libro del Lessico, le sue due opere più importanti sono il Tafsir Kitab al-mabadi, Commento al libro della creazione (in ebraico Perush Sefer Yetzirah), e il Kitab al-Amanat wal-I-tiqadati, il Libro delle credenze e delle convinzioni (in ebraico Sefer ‘Emunot we-De’ot).
Le tematiche affrontate, ma soprattutto la suddivisione in capitoli e la metodologia dell’indagine filosofica, nel Kitab al-Amanat sono sicuramente riprese direttamente dai trattati mitaziliti infatti nei primi due capitoli, Saadia Gaon si occuperà della questione sull’unità di Dio, negli altri sette invece della Giustizia divina. Il decimo capitolo fungerà da una sorta di appendice dell’intera opera, sicuramente aggiunto a posteriori.
I primi capitoli dunque hanno come tema la creazione del mondo. Saadia Gaon introduce qui la teoria della conoscenza che egli chiama “convinzione”: «Si tratta di una nozione che si costituisce nell’anima per ogni cosa conosciuta conformemente a quello che essa è in realtà […] l’intelligenza la incorpora, la ingloba e la fa pervenire nell’anima» (cfr. Colette Sirat, La Filosofia ebraica medievale secondo i testi editi e inediti, Paideia Brescia p.45) Quindi questa “convinzione” che si produce all’interno dell’anima umana deve essere attinta da tre fonti: la realtà esterna (la conoscenza attraverso i sensi), la ragione (la conoscenza intellettiva) e la conoscenza del bene e del male, a questi tre principi si deve necessariamente aggiungere un’altra fonte la tradizione della Torah (sia Orale che Scritta).
La questione della creazione del mondo apre indubbiamente la strada ad un’altra problematica che Saadia Gaon affronterà con molto scrupolo e attenzione: Dio. Secondo Saadia Gaon Dio non può essere assolutamente definito e compreso attraverso le dieci Categorie aristoteliche poiché, per il filosofo, Dio trascende tutte le categorie, tutti gli attributi che vengono riferiti a Lui non possono essere qualificativi ma debbono necessariamente coincidere con la sua essenza, proprio perchè Dio è Uno e Unico (questa tematica verrà ripresa e sviluppata da Maimonide). Tutti gli attributi che vengono relati a Dio, come si legge anche dalle Scritture quando si parla di “la mano di Dio” la “voce di Dio” sono soltanto formule che servono per farLo comprendere agli esseri umani. Non bisogna quindi cadere nell’errore ed interpretare questi versi letteralmente poiché si cadrebbe necessariamente nell’antropomorfismo del Dio, ma come Saadia Gaon dimostrerà proprio in questo suo trattato e nel Tafsir Kitab al-mabadi Dio è incorporeo e trascende, appunto, qualsiasi categoria che l’intelletto umano è costretto ad utilizzare per la comprensione del mondo esterno.
Secondo Saadia Gaon esistono quattro prove per dimostrare la creazione del mondo da parte di Dio: «1) se il mondo, che è limitato nello spazio, si muovesse da solo, anche la forza che lo muove sarebbe limitata; poiché se il mondo si muove perpetuamente, è necessario che il motore del mondo sia una forza diversa dal mondo. 2) il mondo è fatto di parti, che ora si uniscono ora si separano; ma né la separazione né l’unione sono per loro essenziali; bisogna pertanto ammette che una forza esteriore le riunisce e le separa al fine di formare i corpi, piccoli come le piante o grandi come le sfere; questa forza è Dio creatore; 3) La terza prova è basata sugli accidenti; tutto, in questo mondo, è formato da una sostanza necessaria e da accidenti […] dato che nulla è sprovvisto di accidenti, che si susseguono l’un l’altro nello stesso corpo e cambiano in continuazione, è necessario che Dio produca questi cambiamenti. 4) La quarta prova è dedotta dal tempo, che è finito; se infatti la successione degli istanti fosse infinita, non potrebbe essere ripercorsa dal pensiero; solo una successione che abbia un inizio temporale può spiegare l’esistenza del mondo nel presente» (Cfr. Collette Sirat, La filosofia ebraica medievale, p.47).
AVICEBRON
MOSE’ MAIMONIDE
Nato in Spagna nel 1138 durante la dominazione musulmana, Mosè Maimonide studiò la Torah sotto la guida di suo padre Maimon e del rabbino Joseph ibn Migash. Nel 1148 Cordoba venne conquistata dagli Almohadi il cui oltranzismo li portò ad avviare contro gli ebrei e i cristiani una vera azione di persecuzione, sia in al-Andalus sia in Nordafrica, offrendo loro come unica alternativa alla morte la conversione all’Islam, in completo spregio della tradizione che nei confronti della “Gente del Libro” (Ahl al-Kitab) esige solo la sottomissione politica e il pagamento dell’imposta di “protezione” ( jizya ). Nei dieci anni seguenti la sua famiglia si spostò nel sud della Spagna tentando di sfuggire la conquista almohade ma finì per fermarsi, nel 1160, a Fez in Marocco, dove riuscirono a farsi passare per musulmani, finché – anche a causa della crescente popolarità dell’ingegno di Moshe – non vennero scoperti. Già attorno al 1158 iniziò la stesura di alcune opere: un trattato in ebraico sul calendario e un trattato in arabo di logica, probabilmente il suo unico scritto a carattere strettamente filosofico. Iniziò al contempo la creazione del Commento alla Mishna, trattazione giuridica dell’etica ebraica che lo vedrà impegnato per buona parte della sua vita. A Fez scrisse anche una Risala (Lettera) contro l’apostasia. Di fronte alla certezza di finire giustiziati come apostati, fuggirono dal Marocco per raggiungere, toccando Acri, Hebron, Gerusalemme, l’antica città del Cairo, al-Fustat. In Egitto egli poté portare a compimento nel 1168 la prima versione del Mishneh Torah, e a seguito di numerosi eventi luttuosi che colpirono anche la sua famiglia, intraprendere lo studio della medicina. Secondo la tradizione, è nel 1171 che assunse il ruolo di nagid (guida) della locale comunità ebraica. Negli stessi anni compose anche opere minori di carattere dottrinario. Il ventennio successivo si dimostrò essere il più fecondo dal punto di vista della produzione letteraria e nei successi della carriera: dimostrò il suo attaccamento alla professione medica compilando alcuni trattati in lingua araba su diversi argomenti, dall’igiene ai veleni, e diventando attorno al 1185 medico personale del visir al-Qadi al-Fa?il al-Baysami, ministro per l’Egitto di Saladino (Salah al-Din). Dal punto di vista della trattazione dottrinaria concluse definitivamente nel 1180 ca. il Mishneh, nella forma che possiede tutt’oggi, e dieci anni dopo la Guida dei Perplessi. Gli ultimi anni della sua vita trascorsero in relativa pace, rispettato e onorato tanto nel mondo arabo in qualità di filosofo, quanto nelle comunità europee della diaspora come medico e maestro. Morì il 13 dicembre del 1204, amato e compianto.
Maimonide compose sia opere di ebraismo sia testi di medicina. La gran parte delle opere di Maimonide vennero scritte in arabo. Il Mishneh Torah, però, venne redatto in ebraico, la lingua della Torah. Di particolare importanza per lo studio dell’ebraismo sono: Nel suo Pirush Hamishnayot (trattato Sanhedrin, capitolo 10) Maimonide formula i suoi 13 principi della fede (ebraica):
Esistenza di Dio
Unità e unicità di Dio
Spiritualità ed incorporeità di Dio
Eternità di Dio
Adorazione riservata solo a Dio
Rivelazione tramite i profeti di Dio
Preminenza di Mosè tra i profeti
Legge di Dio data sul Monte Sinai
Immutabilità della Torah come Legge di Dio
Preconoscenza delle azioni umane da parte di Dio
Ricompensa del bene e punizione del male
Venuta del Messia
Risurrezione dei morti
Questi principi dogmatici furono oggetto di controversia, suscitando subito critiche dai rabbini, culminanti in quelle di Hasdai Crescas di Barcellona (tardo XIV secolo), anch’egli razionalista ma anti-aristotelico, e dell’allievo di questi Joseph Albo, e furono ignorati dalla maggior parte delle comunità ebraiche per diversi secoli. (“Dogma in Medieval Jewish Thought,” Menachem Kellner). Con il tempo, invece, divennero ampiamente condivisi, tanto che due esposizioni poetiche dei 13 principi (Ani Ma’amin e Yigdal) sono entrate nel canone del “siddur” (il libro di preghiere comunitarie dell’ebraismo); oggi (2007) l’Ebraismo Ortodosso li ritiene vincolanti.
Nel suo Sefer Hamitzvot Maimonides elenca le 613 mitzvòt contenute nella Torah (Pentateuco) e afferma che la sua selezione è stata guidata dai seguenti 14 shorashim (radici o principi):
Non si contano i comandamenti di origine rabbinica (dalla legge orale), come accendere candele ad Hanukkah e leggere il libro di Ester a Purim.
Non si contano i comandamenti derivati usando le 13 regole ermeneutiche (Regole di Rabbi Yishmael), come la reverenza per gli esperti della Torah, derivabile da Deuteronomio 10:20.
Non si contano i comandamenti che non sono storicamente permanenti, come la proibizione in Numeri 8:25.
Non si contano i comandamenti che comprendono tutta la Torah, come il comando in Esodo 23:13.
Non si conta come comandamento distinto la ragione di un comandamento, come in Deuteronomio 24:4.
In comandamenti con componenti sia positive sia negative, la positiva conta come precetto positivo, mentre la negativa conta come precetto negativo, come l’obbligo di riposare di Sabato e il divieto di lavorare in quel giorno.
Non si contano i dettagli di un comandamento, che ne definiscono le modalità applicative, come nell’ordine ai peccatori di offrire un animale in espiazione (Levitico 5).
La negazione (fattuale) di un obbligo non si conta come divieto, in apparenza ovvio ma chiarisce un rischio di ambiguità linguistica in ebraico.
Si conta una sola volta lo stesso obbligo o divieto, anche se ripetuto più volte, perché contano i concetti e non le affermazioni, come per il divieto di bere sangue che si trova in sette versetti (Levitico 3:17, 7:26 e altrove).
Non si contano separatamente i preparativi introduttivi all’esecuzione di un comandamento, come in Levitico 24:5-7.
Non si contano separatamente le parti di un comandamento se la loro combinazione è necessaria per quel comandamento, come le quattro specie vegetali per Sukkot.
Non si contano separatamente le attività necessarie a compiere il comandamento, come nel processo di sacrificare un animale in olocausto.
Si conta una volta sola un comandamento eseguito in più giorni, come le offerte animali nei sette giorni di Sukkot.
Si conta come un obbligo ciascuna forma di punizione, come la pena di morte per lapidazione ordinate per il blasfemo (Levitico 24:16), l’adoratore di Moloch (20:2) e altri peccatori, che conta una volta sola.
Già da vivo, Maimonide venne accusato di aver eccessivamente razionalizzato lo studio della Torà. Da morto, poi, le polemiche divamparono. Nel mondo ebraico, il trattato maimonideo divenne il principale punto di riferimento dell’aristotelismo, non solo in Spagna ma anche in Provenza e in Italia, e come tale fu fatto oggetto di parecchi commenti. La lettura della Guida dei Perplessi come testo di esegesi filosofica della Bibbia, invece, appare già in una raccolta di discorsi sul Pentateuco (1236? 1250?) di Ya’aqov Anatoli, un filosofo e scienziato ebreo di origine provenzale attivo a Napoli alla corte di Federico II. Nel XIII secolo, grazie a celebri difensori come il rabbino Hillel ben Samuel da Verona (soprattutto con le sue opere del periodo forlivese, alla fine del secolo), e dopo che si fu giunti perfino a scomunicare gli antimaimonidiani, si riuscì a far cessare la frattura all’interno del pensiero ebraico. Maimonide diventò così un punto di riferimento imprescindibile della cultura ebraica. La storia della filosofia medievale attesta che la Guida dei perplessi ebbe attenzione ed influenza non solo in ambito ebraico, ma anche cristiano e islamico. Quanto al mondo cristiano, le tre versioni latine medioevali della Guida dei Perplessi sarebbero state realizzate assai presto, rispettivamente a Roma nel 1224, in Francia intorno al 1242 e a Parigi nel 1242-1244. La diffusione del pensiero di Maimonide è legata anche al progetto culturale pro-aristotelico dell’imperatore Federico II, dove pure si ebbe una traduzione in latino (Dux neutrorum). Nel XIII secolo sono variamente debitori a da Maimonide grandio Scolastici come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto; dopo il 1300 l’opera continuerà a influenzare vari rappresentanti della Scolastica, soprattutto Meister Eckhart. Mentre in Europa si interpretava l’opera alla luce di Aristotele e di Averroè, nei paesi islamici essa veniva interpretata in chiave neoplatonica, sulla scorta di Avicenna e di al-Ghazali, come mediazione tra la filosofia e la tradizione religiosa ebraica. La Makala fi sina’at al-mantiq in arabo o Millot ha-Higgayon in ebraico (Trattato di Logica, 1158), scritto in arabo e tradotto da Moses ibn Tibbon, rabbino occitano del XIII secolo, oggetto di molte edizioni e traduzioni, una delle prime in latino (1527). Il Pirush Hamishnayot (Commentario alla Mishna, 1158), scritto in arabo, fu uno dei primi commentari per il grande pubblico; condensa i dibattiti talmudici e offre le sue soluzioni in svariati casi dubbi. L’introduzione generale e le introduzioni alle varie sezioni sono state ampiamente citate dagli autori successivi; la più nota è quella al decimo capitolo del trattato Sanhedrin, dove elenca i tredici articoli di fede dell’ebraismo, che fu tradotta in ebraico da Samuel ben Judah ibn Tibbon, un rabbino occitano suo contemporaneo. Il Kitab al-fara’id in arabo o Sefer Hamitzvot in ebraico (Libro dei comandamenti), scritto in arabo e tradotto in ebraico da Moses ibn Tibbon (prima edizione a stampa 1497); elenca, descrive e commenta le 613 mitzvòt o precetti. Maimonide utilizza un insieme di 14 regole (shorashim) per determinare, fra i comandamenti scritti nella Torah, quali siano da includere nella lista dei precetti, rispetto ai comandi che Dio ha dato in vari punti della Torah ma che si riferiscono ad azioni particolari compiute una sola volta. Si tratta dell’elenco più autorevole dei 613 precetti dell’ebraismo, e fu più volte commentato, fra gli altri dal Nachmanide (Rabbi Moses ben Nachman o RaMBaN). Al precetto negativo n° 290 Maimonide scrive una frase celebre: “È meglio e più soddisfacente assolvere mille colpevoli piuttosto che mettere a morte un solo innocente”. Il Mishneh Torah (Ripetizione della Torah, 1168/1180), sottotitolato Yad ha-Chazaka (la mano forte), la sua opera più importante nel campo della dottrina ebraica, fu scritto in ebraico mishnaico, anziché nell’aramaico talmudico, per favorirne una maggior diffusione al di fuori della cerchia dei dotti. Quasi una summa theologiae del giudaismo in 14 libri, vuole offrire un’esposizione completa, chiara e concisa della “legge orale” rabbinica (Talmud), in modo da rendere superfluo ogni altro testo al di fuori della “legge scritta” (TaNaKh): perciò non cita mai le fonti o le discussioni ma solo la posizione finale. Benché oggetto di aspre dispute (acuta la contestazione puntuale del coevo rabbino provenzale Abraham ben David, in margine a quasi tutte le edizioni), la sua influenza fu grande su tutti i futuri pensatori ebrei, e nella versione latina di alcuni suoi passi venne letta e fatta oggetto di riflessione da personalità eminenti del mondo cristiano medievale quali Alberto Magno, Duns Scoto e Alessandro di Hales. Ancora oggi è la sola opera post-Talmudica che dettaglia tutta la legge ebraica, anche se considerata ormai superata da Arba Turim di Yaakov ben Asher (XIV secolo) e da Shulchan Arukh di Yosef Caro (XVI secolo). Il titolo vuole richiamare un tradizionale appellativo del Deuteronomio, mentre il sottotitolo allude al numero dei libri (in ebraico 14 si scrive YD). La Dalalat al-ha’irin in arabo o Moreh Nevukhim in ebraico (Guida dei perplessi, 1190), scritta in arabo sotto forma di una lettera in 3 volumi all’allievo Rabbi Joseph ben Judah ibn Aknin, e tradotta sotto la sua supervisione in ebraico da Samuel ben Judah ibn Tibbon, “per promuovere la vera comprensione del reale spirito della Legge, al fine di guidare quelle persone religiose che, aderendo alla Torah, hanno studiato filosofia e sono in imbarazzo per le contraddizioni tra gli insegnamenti della filosofia e il senso letterale della Torah”, i “perplessi”, appunto. Viene considerata come il frutto più maturo del pensiero filosofico di Rambam, sebbene fosse stata concepita più come opera di supporto all’esegesi biblica che come trattato sistematico di filosofia; è indubbio tuttavia l’opera interpreta la teologia biblica e rabbinica nei termini della fisica e metafisica aristoteliche. Nel “conflitto di autorità” che si può generare, la guida aiuta lo studioso ad andare oltre il testo puro e semplice e oltre l’accettazione ex auctoritate, per comprendere con la forza della sua ragione le più elevate verità di fede espresse in modo implicito dalla rivelazione sinaitica. Fin dall’inizio molto dibattuta nell’ebraismo, fra sostegno entusiasta e accuse di eresia, ed è stata oggetto di traduzione in molte lingue moderne. Teshuvot (ritorni o conversioni o pentimenti), una raccolta di lettere pubbliche e private e di responsi che spaziano dalla resurrezione alla conversione ad altre fedi, inclusa una celebre lettera indirizzata alla oppressa comunità ebraica dello Yemen. I suoi scritti di medicina sono stati di fondamentale importanza nella storia medica, tanto che alcuni di essi sono ancora studiati. Fra essi, tutti scritti in arabo, la lingua dei paesi in cui operò, si ricordano: Fusul Musa in arabo o Pirkei Moshe in ebraico (Capitoli di Mosè (Maimonide)), una collezione di aforismi medici, la sua opera medica più nota. Ha-Ma’amar ha-Nikbad o Ha-Ma’amar be-Teri’akh (Trattato sui Veleni e sui loro Antidoti), tradotto da Moses ibn Tibbon. Trattato sulle Emorroidi. Ma’amar be-Hanhagat ha-Beri’ut (Trattato sull’Igiene), tradotto da Moses ibn Tibbon. Trattato sulle Cause dei Sintomi. Leggi dei Temperamenti Umani. Trattato sull’Asma.
GERSONIDE
Levi ben-Gershom, noto come Gersonide, fu filosofo, esegeta, matematico e fisico vissuto nella Francia meridionale. Nacque a Bagnols nel 1288 e morì il 20 Aprile del 1344. “Gershuni”, l’equivalente ebraico di “Gersonide”, fu usato per la prima volta per designare Levi b. Gershon da David Messer Leon (c. 1500). Levi era discendente da una famiglia di studiosi. Secondo alcuni, suo padre era Gershhon b.Solomon, l’autore di “Sha’ar ha-Shamayim”.
La posizione di Levi ben Gershon nella filosofia ebraica è unica. Di tutti i Peripatetici Ebraici solo lui ha osato rivendicare il sistema aristotelico nella sua integrità, a prescindere dal conflitto esistente tra alcune delle sue dottrine ed i principali dogmi del Giudaismo. Inventore di un sofisticato strumento per calcolare la distanza angolare tra due stelle, scrisse parecchi commenti biblici e commentari ai commenti di Averroè ad Aristotele.
Dotato di uno spiccato senso critico, Levi talvolta non concorda con Aristotele e sostiene i suoi propri punti di vista in opposizione a quelli del suo Maestro, Averroè; ma quando, dopo aver valutato i vantaggi e gli svantaggi di una dottrina la ritiene valida, non teme di professarla, anche quando è in diretta contraddizione con il dogma accettato della teologia ebraica. Significativamente, egli dice che “la Legge non può impedirci di considerare vero ciò che la ragione ci sprona a credere”.
Venendo storicamente dopo Maimonide, Levi si occupò soltanto di quelle questioni filosofiche che l’autore di “Morch Nebukim”, a causa della sua ortodossia, risolse o in diretta opposizione ai principi aritstotelici oppure spiegò con vaghe affermazioni sulle quali lo studente era stato lasciato nell’oscurità per quanto riguarda la vera opinione di Maimonide sull’argomento. Le questioni sono le seguenti: l’immortalità dell’anima, la profezia, l’onniscienza di Dio, la divina provvidenza, la natura delle sfere celesti e l’eternità della materia. Alla soluzione di questi problemi filosofici Levi dedicò il suo Milamot Adonai: Le guerre del Signore, opera in sei libri portata a compimento nel 1329. Il lavoro comprende sei principali sezioni, ciascuna delle quali è suddivisa in capitoli. Il metodo adottato da Levi è quello aristotelico: prima di fornire la sua soluzione al problema in oggetto, presenta una rassegna critica delle opinioni dei suoi predecessori.
La prima sezione si apre con un’esposizione delle teorie di Alessandro di Afrodisia, Temistio, Averroè e di alcuni filosofi del suo tempo, a proposito della dottrina aristotelica dell’anima.
La trattazione aristotelica dell’argomento è infatti molto oscura; mentre asserisce che l’anima è la prima entelechia del corpo organico, e di conseguenza non può essere separata da esso più di quanto la forma non possa essere separata dalla materia, egli sostiene che dei due elementi dell’anima, l’intelletto passivo ed attivo, l’ultimo è immortale.
Al fine di armonizzare queste due affermazioni contrastanti, Alessandro di Afrodisia, nella sua parafrasi del libro di Aristotele sull’anima, opera una distinzione tra l’intelletto materiale, il quale, come la materia, ha soltanto un’esistenza potenziale, e l’intelletto acquisito, quest’ultimo è l’intelletto materiale quando, per studio e riflessione, è passato dalla potenzialità all’attualità ed ha assunto un’esistenza effettiva.
La causa di questa transizione è l’intelletto universale, che è Dio stesso. Ma poiché la relazione tra Dio e l’anima è solo temporanea, l’intervento divino cessa con la morte e l’intelletto acquisito scivola nel nulla. Il sistema psicologico, nel quale una mera facoltà fisica della sostanza che non ha nulla di spirituale nella sua essenza può con un graduale sviluppo diventare qualcosa di immateriale e permanente, è respinto da Temistio. Per lui l’intelletto è una disposizione inerente che ha per substrato una sostanza che differisce interamente da quella del corpo. Averroè, nel suo trattato sull’intelletto, combina i due sistemi ed enuncia l’opinione che l’intelletto diventa una sostanza attuale non appena lascia il corpo. Secondo alcuni contemporanei di Levi l’intelletto è una facoltà che esiste da sè. Dopo un’attenta esamina delle varie opinioni, Levi fornisce il suo punto di vista sulla natura dell’intelletto.
L’intelletto è nato con l’uomo, non è altro che una mera facoltà che ha come substrato l’anima immaginativa, essendo quest’ultima unita con l’anima animale. Questa facoltà, quando è messa in moto dall’intelletto universale, inizia ad avere un’esistenza effettiva dalle idee acquisite e dai concetti con i quali si identifica perché l’atto del pensare non può essere separato dall’oggetto del pensiero.
L’ identificazione dell’intelletto con l’intellegibile costituisce l’intelletto acquisito (“sekel hanikneh”), che è per la facoltà originale ciò che la forma è per la materia. Ma l’intelletto acquisito cessa di esistere con la morte del corpo? Questa domanda è strettamente collegata a quella della natura degli universali. Se, come asserito dai realisti, gli universali sono entità reali, allora l’intelletto acquisito, che consiste di idee concepite le quali hanno una reale esistenza, può sopravvivere al corpo; ma se, come sostenuto dai nominalisti, nulla esiste fuorchè gli individui e gli universali sono meri nomi, allora l’immortalità è fuor di questione. In contrasto con Maimonide, Levi difende la teoria dei realisti e sostiene con essa il principio dell’immortalità.
La seconda sezione de “Milamot” è dedicata alla filosofia. Fu concepita per completare e correggere alcune affermazioni fatte da Aristotele nel suo lavoro incompleto De Sensu et Sensibili, il quale contiene due capitoli sul processo di divinazione. Mentre Maimonide si occupò soltanto dell’aspetto psicologico del problema – “quali sono i requisiti della profezia?” – Levi considerò anche la fase metafisica: “è possibile una profezia?”; non è l’ammissibilità della prescienza assolutamente incompatibile con la credenza nel libero arbitrio dell’uomo? Per rispondere alla prima domanda non vi è, secondo Levi, bisogno alcuno di dimostrazioni speculative. Il fatto che esistano uomini dotati della facoltà di prevedere il futuro è, a suo avviso, incontestabile. Questa facoltà si trova non solo nei profeti ma anche nei chiaroveggenti, nei visionari e negli astrologi. Cita il caso di un uomo malato di sua conoscenza, il quale, nonostante non avesse nozioni mediche, sognò il rimedio che lo avrebbe curato. Lo stesso Levi sostenne di aver ricevuto in sogno, in diverse occasioni, soluzioni ad enigmatici problemi metafisici.
Ma la prescienza implica anche la predestinazione. Ciò, tuttavia, sembra essere in contrasto con la libertà d’arbitrio. Per confutare tale obiezione, Levi si impegna a dimostrare che, nonostante tutti gli eventi sublunari siano determinati dai corpi celesti, l’uomo può con il suo libero arbitrio e la sua intelligenza annullare tale determinazioni. Dopo aver riconciliato la predizione con il principio del libero arbitrio, definisce la natura della prescienza ed opera una distinzione tra profezia ed altri tipi di divinazione. Nelle visioni profetiche, afferma, è la facoltà razionale che è messa in comunicazione con l’intelletto universale e, pertanto, le predizioni sono sempre infallibili; mentre nella divinazione la facoltà ricettiva è il potere d’immaginazione e le predizioni possono spesso essere chimeriche. Quindi, come Maimonide, Levi sostiene che l’origine delle percezioni profetiche è la stessa di quella della scienza comune, ovvero l’intelletto universale. Mentre l’autore de Moreh annovera tra i requisiti della profezia una ricca immaginazione, Levi asserisce che la grandezza del profeta consiste precisamente nella sua facoltà di verificare la pratica dell’immaginazione così che essa non disturbi i dettami della ragione.
Un altro punto di disaccordo tra Maimonide e Levi è la questione se le perfezioni intellettuali e morali siano da sole sufficienti ad assicurare ai loro possessori la visione profetica. Per Maimonide, la speciale volontà di Dio è la conditio sine qua non per la profezia, per Levi le perfezioni morali ed intellettuali sono da sè sufficienti.
La parte più interessante de Milamot è la terza sezione principale che tratta l’onniscienza di Dio. Come è noto, Aristotele limitò la conoscenza di Dio agli universali, arguendo che se Egli avesse avuto la conoscenza dei particolari, sarebbe stato soggetto a cambiamenti costanti. Maimonide rifiuta tale teoria e si impegna a dimostrare che il credo nell’onniscienza divina non è in contrasto con il credo nella Sua unità ed immutabilità. “Dio”, afferma, “percepisce gli eventi futuri prima che questi accadano, e la Sua percezione è sempre infallibile. Pertanto non Gli si presenta alcuna nuova idea. Egli sa che quel tale individuo nascerà in quel tempo, vivrà per un certo periodo e poi ritornerà alla non-esistenza. Il venire alla luce di quell’individuo non rappresenta per Dio un fatto nuovo; nulla è accaduto di cui Egli non era a conoscenza, poiché Egli conosceva tale individuo, così come è ora, prima della sua nascita”. Per quanto riguarda le obiezioni fatte dai Peripatetici alla credenza nell’onniscienza di Dio, ovvero a come sia concepibile che l’essenza di Dio possa rimanere indivisibile nonostante la molteplicità di conoscenza di cui si compone; al fatto che la Sua intelligenza debba abbracciare l’infinito; che gli eventi debbano mantenere il loro carattere di contingenza nonostante il fatto che essi sono previsti dall’Essere Supremo; tutto ciò, secondo Maimonide, è basato su un errore. Sviati dall’uso del termine “conoscenza”, gli uomini credono che qualunque sia il requisito per la loro conoscenza tale requisito lo sia anche per la conoscenza di Dio. Il fatto è che non vi è paragone alcuno tra la conoscenza dell’uomo e quella di Dio, essendo quest’ultima assolutamente incomprensibile all’intelligenza umana. Questa teoria è aspramente criticata da Levi, il quale afferma che non la ragione ma la sola religione ha dettato ciò a Maimonide. Infatti Levi arguisce che non vi è dubbio che tra la conoscenza umana e quella divina vi sia un’ampia differenza di grado; ma l’assunzione che non vi sia la benché minima analogia tra le due è ingiustificata. Quando la natura di Dio è caratterizzata attraverso determinazioni positive, l’anima è vista coma la base del ragionamento. Pertanto la scienza è attribuita a Dio perché anche l’uomo la possiede fino ad un certo livello. Se poi, come suppone Maimonide, non vi è, fatta eccezione per il nome, alcuna somiglianza tra la conoscenza di Dio e quella dell’uomo, come può l’uomo ragionare di Dio? Allora, di nuovo, vi sono attributi che possono essere predicati di Dio, come per esempio, la conoscenza e la vita, che implicano la perfezione, ed altri che devono esserGli negati, quali per esempio, la corporeità ed il movimento perché essi implicano l’imperfezione. Ma secondo la teoria di Maimonide non v’è ragione d’escludere qualsiasi attributo dal momento che applicati a Dio tutti gli attributi necessariamente perdono il loro significato. Maimonide è davvero coerente ed esclude tutti gli attributi positivi ammettendo solo quelli negativi, ma le ragioni da lui spiegate per tali distinzioni non sono soddisfacenti. Avendo pertanto confutato le teorie di Maimonide, sia quella dell’onniscienza di Dio che quella degli attributi divini, Levi spiega i suoi punti di vista. Il pensiero sublime di Dio, afferma, abbraccia tutte le leggi del cosmo, che regolano l’evoluzione della natura, gli influssi generali esercitati dai corpi celesti sul mondo sublunare e le specifiche essenze delle quali la materia è investita, ma gli eventi sublunari, i molteplici dettagli del mondo fenomenico sono nascosti dal Suo spirito. Non conoscere tali dettagli non è tuttavia un’imperfezione perché nel conoscere le condizioni universali delle cose, Egli sa ciò che è essenziale e conseguentemente buono nell’individuo.
Nella quarta sezione Levi discute la questione della Provvidenza divina. La teoria secondo la quale l’umanità sola nella sua interezza è guidata e protetta dalla provvidenza divina non riconosce nè l’esistenza della profezia nè quella della divinazione. Nè può ciascun individuo essere l’oggetto della sollecitudine di una provvidenza speciale, poiché ciò è (1) contro la ragione, poiché, come è stato dimostrato, l’intelligenza divina abbraccia solo gli universali ed è inammissibile che il male provenga da Dio, la fonte di ogni bene; (2) contro l’esperienza poiché spesso si cerca il retto vinto dalla miserie, mentre il malvagio trionfa; (3) contro il senso della Torah, che quando ammonisce gli uomini che le loro ribellioni saranno seguite da disastri perché Dio nasconderà loro il Suo volto, implica che le calamità che li sopraffaranno giungeranno come la conseguenza del loro essere stati lasciati senza protezione dalle vicissitudini del destino. Levi pertanto perviene alla conclusione che alcuni sono sotto la protezione e guida della provvidenza generale, mentre altri sono protetti e guidati da una provvidenza speciale ed individuale. È inconfutabile, afferma, che ad una provvidenza benefica importino tutti gli esseri sublunari. Ad alcuni attribuisce alcuni organi corporali che li rendono capaci di procurarsi tutto ciò che è loro necessario nella vita per proteggersi dal pericolo, ad altri assegna una natura che li mette in condizione di evitare ciò che potrebbe nuocer loro. È inoltre dimostrato che la posizione più alta della scala della creazione occupata da un essere vivente gli garantisce più organi per la sua conservazione e difesa: in altre parole, maggiori la sollecitudine e protezione assegnategli dal Creatore.
Quelle specie animali che più da vicino assomigliano all’uomo partecipano nella sollecitudine della provvidenza ad un livello più esteso rispetto a quella parte di animalità che costituisce il punto di raccordo tra i regni animale e vegetale. Se, poi, il grado di partecipazione di un essere nella protezione della divina provvidenza è proporzionato al grado del suo sviluppo è chiaro che più uno si avvicina all’intelligenza attiva, più esso è l’oggetto della sollecitudine divina. Pertanto coloro che si sforzano per sviluppare le facoltà dell’anima godono della cura di una provvidenza speciale ed individuale, mentre coloro che brancolano nell’ignoranza sono custoditi soltanto dalla provvidenza generale. C’è, tuttavia, una grossa obiezione a questa teoria: non vi può essere questione di una provvidenza speciale se Dio conosce soltanto le generalità. Per far fronte a questa antinomia, Levi definisce la natura della provvidenza speciale. Tutti gli avvenimenti, afferma, tutti i fenomeni di questo mondo sono da attribuirsi agli influssi dei corpi celesti, regolati da leggi eterne ed immutabili, così che il principio demiurgico, che conosce tali leggi, ha una conoscenza perfetta di tutti i fenomeni che si ripercuotono su questo mondo, di ciò che è buono e cattivo che è in serbo per l’umanità. Tale sottomissione alle sostanze eteree tuttavia non è assoluta poiché l’uomo per il suo libero arbitrio può, come asserito precedentemente, annullare tali determinazioni. Al fine però di scongiurare tali influssi, egli deve essere avvertito del pericolo. Questo monito viene dato dalla divina provvidenza all’umanità nel suo insieme, ma è percepito soltanto da coloro il cui intelletto è pienamente sviluppato; la provvidenza divina giova soltanto agli individui.
La quinta sezione comprende tre parti, rispettivamente di astronomia, fisica e metafisica.
La parte astronomica, che forma da sola un saggio di considerevole portata composto da 136 capitoli, non fu inclusa nell’edizione pubblicata de Milamot ed è ancora in forma di manoscritto. Fu tradotto in latino per conto di Papa Clemente VI e godette di una tale alta reputazione nel mondo scientifico cristiano che l’astronomo Keplero si peritò di ottenerne una copia.
La seconda parte è dedicata alla ricerca delle cause finali di tutto ciò che esiste nei cieli, ed alla soluzione dei problemi astronomici, quali ad esempio se le stelle esistono per sé o se invece esse hanno lo scopo di esercitare un influsso su questo mondo; se, come supposto da Tolomeo, esiste sopra le sfere celesti una sfera senza stelle che impartisce il moto diurno ai cieli inferiori, o se, come sostenuto da Averroè, non ve n’è alcuna; se le stelle fisse sono tutte situate in un’unica e stessa sfera, o se il numero delle sfere corrisponde a quello delle stelle; come il sole riscalda l’aria; perché la luna prende a prestito la sua luce dal sole e non brilla di luce propria. Nella terza parte Levi stabilisce l’esistenza primo di un intelletto attivo, poi di intelligenze planetarie ed infine di una causa primaria, che è Dio. La prova migliore dell’esistenza di una causa efficiente e finale è il fenomeno della procreazione. Senza l’intervento di un’intelligenza efficiente, non vi è possibilità di spiegare la generazione e la sistemazione di esseri animati.
Esiste soltanto un’unica intelligenza demiurgica oppure ve ne sono molteplici? Dopo aver esaminato le varie opinioni in merito, Levi conclude quanto segue: 1) i vari movimenti dei corpi celesti implicano una gerarchia di principi motori; 2) il numero di questi principi corrisponde a quello delle sfere; 3) le sfere stesse sono esseri animati ed intelligenti, che compiono le loro rivoluzioni con perfetta cognizione della loro causa. Diversamente da Maimonide, egli sostiene che le varie intelligenze non sono state gradualmente emanate dalla prima, ma sono state tutte il diretto effetto della causa primaria. Non può, tuttavia, questa causa primaria essere identificata, come supposto da Averroè, con una delle intelligenze, in particolare con quella che dà il moto alle sfere più elevate, ovvero quella delle stelle fisse? Questo, dice Levi, è impossibile poiché ognuna di queste intelligenze percepisce soltanto una parte dell’ordine universale dal momento che è confinata ad un cerchio limitato di influenze; se Dio quindi fosse il motore di qualsiasi sfera ci sarebbe un legame stretto tra Lui e le Sue creature.
L’ultima sezione tratta la creazione ed i miracoli. Dopo aver confutato le argomentazioni avanzate da Aristotele a favore dell’eternità del mondo ed aver dimostrato che nè il tempo nè il moto sono infiniti, Levi dimostra quanto segue: 1) il mondo ebbe un inizio; 2) il mondo non ha fine; 3) non è seguito ad un altro mondo. Nell’ordine della natura, afferma, l’intera terra era coperta da acqua, che era avvolta dalla sfera concentrica di aria, la quale, a sua volta, era coperta da quella del fuoco.
Fu quindi, si chiede, come suppone Aristotele, il calore assorbente del sole che fece sì che l’acqua recedesse e la terra apparisse? In quel caso l’emisfero sud, dove il calore è più intenso, doveva presentare un fenomeno simile. È pertanto ovvio che fu dovuto all’azione di un agente superiore. Dal fatto che il mondo ebbe un inizio non si deve però assumere che avrà anche una fine; al contrario, esso è senza fine come i corpi celesti, che sono la fonte della vita e del moto, e dei quali le sostanze, essendo immateriali, non sono soggette alle leggi naturali del decadimento. Avendo così dimostrato che il mondo non è eterno a parte ante ed è eterno a parte post, Levi fornisce il suo punto di vista sulla creazione. Sceglie una posizione a metà tra la teoria dell’esistenza di una sostanza cosmica primordiale e quella di una creazione ex nihilo, entrambe da lui criticate. A suo avviso, dall’eternità esisteva una materia non determinata inerte, priva di forma ed attributo. Ad un certo momento Dio assegnò a tale materia (che fino ad allora aveva solo un’esistenza potenziale) un’essenza, una forma, il moto e la vita; da essa procedettero tutti gli esseri sublunari e le sostanze celesti, ad eccezione delle intelligenze separate che erano dirette emanazioni della Divinità.
Nella seconda parte dell’ultima sezione Levi si impegna a dimostrare che la sua teoria della creazione concorda con la narrazione della Genesi; egli dedica gli ultimi capitoli de Milamot alla discussione dei miracoli. Dopo aver definito la loro natura dalle inferenze bibliche, egli dimostra che colui che compie effettivamente i miracoli non è nè Dio nè il profeta, bensì l’intelletto attivo. Ci sono, afferma, due tipi di legge naturale: quelle che regolano l’economia dei cieli e dalle quali le sostanze eteree producono i comuni fenomeni sublunari e quelle che governano le particolari operazioni del principio demiurgico e dalle quali vengono prodotti gli straordinari fenomeni noti come miracoli. Come la libertà d’arbitrio nell’uomo, questa facoltà fu data da Dio all’intelletto attivo come una correzione agli influssi dei corpi celesti, che sono talvolta troppo rigidi nella loro inflessibilità. Il soprannaturale inteso nel suo senso letterale non esiste dal momento che persino un prodigio è un effetto naturale di una legge primordiale, sebbene distinto da altri eventi sublunari per la sua origine ed estrema rarità. Pertanto un uomo dall’intelletto fortemente sviluppato può prevedere il compimento di un determinato miracolo che è unicamente il risultato di una legge provvidenziale concepita ed eseguita dall’intelletto attivo. I miracoli sono soggetti, secondo Levi, alle seguenti leggi: 1) il loro effetto non può essere permanente e pertanto soppiantare la legge della natura; 2) nessun miracolo può produrre cose che si contraddicono intrinsecamente quali, ad esempio, un oggetto che è tutto nero e bianco allo stesso tempo; 3) nessun miracolo può avvenire nelle sfere celesti. Quando Giosuè affermò “Sole, levati su Gibeon”, egli volle semplicemente esprimere il desiderio che la sconfitta del nemico dovesse essere completata mentre il sole continuava a risplendere su Gibeon. Pertanto il miracolo consisteva nella prontezza della vittoria.
Le conclusioni raggiunte ne Milamot furono introdotte da Levi nei suoi commentari biblici in cui egli si adoperò al fine di riconciliarle con il testo della Legge. Guidato dal principio disposto ma non sempre seguito da Maimonide, ovvero che un insegnamento filosofico o morale soggiace ad ogni racconto biblico, Levi adottò il metodo di assegnare il significato letterale e poi di riassumere le idee filosofiche e le massime morali contenute in ciascuna sezione. I libri di Giobbe e i Cantici sono principalmente interpretati da lui in modo filosofico. Gerusalemme, a suo avviso, simboleggia l’uomo, che, come la città, fu scelto a servizio di Dio; “le figlie di Gerusalemme” simboleggiano le facoltà dell’anima, e Salomone rappresenta l’intelletto che governa tutto. Contrariamente agli esegeti filosofici del suo tempo, Levi tuttavia, non allegorizzò le parti storiche e legislative della Bibbia, ma si impegnò a fornire una spiegazione naturale dei miracoli.
ISAAC BEN SHELOMOH ISRAELI
A partire dal X secolo il neoplatonismo fa il suo ingresso all’interno delle speculazioni filosofiche del pensiero ebraico medievale. L’interesse verso gli scritti neoplatonici è prettamente incentrato sulla modalità in cui in questi sia possibile una conciliazione tra filosofia e testi rivelati.
Isaac ben Shelomoh Israeli è il primo pensatore ebreo, dopo Filone d’Alessandria, a tentare una conciliazione tra la filosofia classica e il pensiero tradizionale giudaico. Isaac Israeli nacque attorno al 850 in Egitto fu medico di al-Mahdi, fondatore della dinastia fatimide nell’Africa del Nord e morì nel 932 circa (secondo molti studiosi il filosofo fu molto più longevo, attribuendogli come data di morte il 955).
Numerose sono le opere che Israeli produsse, molte delle quali ebbero molta fortuna nel mondo latino, Gerardo da Cremona, infatti, tradusse in latino due opere del filosofo ebreo il Libro delle definizioni e il Libro degli elementi. La stessa fortuna ebbero le opere mediche scritte da Isaac Israeli infatti anche queste ebbero molta influenza e diffusione nel mondo ebraico e latino fino a tutto il Medioevo, tanto che Maimonide sostenne che Israeli “fu solo medico”, sottovalutando le altre sue produzioni letterarie.
Isaac Israeli avrebbe indicato, in un passo che ci è giunto, quali fossero le sue opere più importanti: “Ho scritto quattro libri che faranno sopravvivere la mia memoria più di quanto avrebbero fatto dei figli: il Libro sulle febbri, il Libro degli alimenti e delle droghe, il Libro degli elementi” ( cfr. Colette Sirat La filosofia ebraica medievale secondo testi editi ed inediti, a cura di Bruno Chiesa, Paideia Brescia 1990)
Isaac Israeli dunque scrisse numerosi trattati e opere di ampia diffusione: il Libro delle definizioni (Kitab al-hudud in arabo, Sefer ha-gebulim in ebraico ); il Libro delle sostanze ( Kitab al-gawahir in arabo); il Libro degli elementi (Kitab al-ustuqussat in arabo, Sefer ha-yesodot in ebraico ); un’Introduzione alla Logica (al-Mudkhal ila l-mantiq in arabo) andata perduta; il Libro dello spirito e dell’anima ( Sefer ha-ruah weha-nefesh in ebraico) unico testo in ebraico composto da Israeli in cui l’autore cita espressamente la Bibbia e le Sacre Scritture, probabilmente poiché destinato ad un pubblico ebraico. Numerosi sono gli scritti di medicina alcuni dei quali sono andati però perduti: il Libro degli alimenti e delle droghe, il Libro delle febbri, il Libro sull’urina, un Libro sulla pulsazione, un Libro sulla teriaca ed alcuni attribuiscono a lui un’ Introduzione all’arte medica.
Il pensiero di Isaac ben Shelomoh Israeli come ho accennato nella brevissima introduzione è indubbiamente influenzato dalle dottrine neoplatoniche e in particolare dagli scritti di Plotino e Proclo, anche se ci sono “contaminazioni” dirette con il pensiero di Aristotele, soprattutto per quanto riguarda la concezione del mondo fisico, ed in particolare per la descrizione dei quattro elementi che sono a fondamento del mondo fisico e della terra.
Secondo Isaac Israeli Dio, ente perfettissimo, ha creato il mondo a partire da una materia prima e da una forma prima che hanno dato origine all’Intelletto, da questo per emanazione ( come proprio della filosofia neoplatonica) discende il “mondo delle anime” ovvero l’anima razionale ( l’anima che è prerogativa dei soli uomini e che trae origine da una “luce purissima”) l’anima animale e l’anima vegetale. Dopo il mondo delle anime sempre per emanazione discendono il mondo delle sfere, il mondo sublunare con i quattro elementi (aria, acqua, fuoco e terra) la cui mescolanza e composizione è fondamento del mondo fisico.
Questa particolare teoria è stata anche definita “metafisica della luce” poiché l’anima può risalire verso la sua dimora originaria ovvero l’Intelletto, sino a raggiungere Dio. “L’effluvio spirituale, la luce dell’Intelletto, penetra tutta la gerarchia degli esseri viventi per arrestarsi solo davanti al mondo minerale. Più questa luce si allontana dalla fonte, più si ottenebra e si affievolisce, pur senza sparire del tutto, e il raggio di luce attraversa tutto lo spessore dei corpi e li congiunge alla fonte brillante e perfetta dell’Intelletto” ( cfr. Colette Sirat, La filosofia ebraica medievale, p. 89).
ABRAHAM BAR HIYYA
A cura di Giada Coppola
Abraham bar Hiyya nato a Barcellona attorno al 1065 e morto verso il 1136 circa, ha avuto un ruolo molto importante per il pensiero filosofico ebraico medievale, infatti Abraham bar Hiyya fu il primo filosofo a scrivere e comporre le sue opere in lingua ebraica contribuendo a creare un linguaggio “tecnico” che prima di lui mancava ( cfr. Mauro Zonta, La Filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Laterza Bari 2002 p.103) e fu il primo a diffondere non soltanto nel mondo ebraico ma anche in Europa le nozioni matematiche, aritmetiche, geometriche e astronomiche conosciute sino ad allora soltanto nel mondo islamico.
Abraham bar Hiyya scrisse dunque numerosi trattati scientifici: la Forma della terra (Surat ha-arez); il Computo di procedere degli astri; le Tavole del Principe (un trattato astronomico); il Libro dell’intercalazione. Accanto a questi trattati scientifici Abraham bar Hiyya ha composto opere di carattere morale come Il rotolo rivelatore (Megillat ha-megalleh); la Meditazione dell’anima dolente; ed inoltre il filosofo elaborò anche un compendio scientifico-filosofico intitolato Gli elementi di comprensione e la torre della fede.
È proprio nel trattato morale sull’anima che Abraham bar Hiyya affermerà che la conoscenza scientifica e filosofica non può essere trasmessa dai filosofi ma deve essere studiata attraverso la lettura della Torah, poiché secondo bar Hiyya i filosofi non hanno ricevuto il dono della Torah e le loro conoscenze sono state ereditate dagli antichi saggi di Israele (questa opinione sarà ben presente per tutto il medioevo e il rinascimento nella tradizione ebraica).
La rilettura di bar Hiyya della creazione è comunque influenzata dalle dottrine aristoteliche e neoplatoniche, infatti il filosofo sosterrà che Dio ha “fatto venire all’esistenza la forma nascosta che era in potenza” e “dalla luce del mondo superiore, che è forma pura proviene la forma che si lega alla materia pura ed eterna: la loro congiunzione produce i cieli. Viene poi la forma che si lega al mondo della materia bruta, densa e transitoria; dalla loro congiunzione nasce l’insieme del mondo sublunare, con i suoi elementi, le piante e gli animali. L’anima dell’uomo che nasce nel mondo delle forme pure deve dopo la permanenza nel corpo, risalire verso il mondo degli angeli, o più esattamente, verso uno dei mondi di luce” (cfr. Colette Sirat La filosofia ebraica medievale secondo testi editi ed inediti, a cura di Bruno Chiesa, Paideia Brescia 1990 p. 132).
MOSHEH IBN EZRA
A cura di Giada Coppola
Su Mosheh ben Ya’aqov Ibn Ezra abbiamo numerose informazioni bibliografiche, nasce a Granada nel 1055, dopo la venuta degli Almoravidi, a causa delle violente persecuzioni, è costretto a spostarsi in Castiglia dove muore nel 1135-1138.
Sappiamo che oltre ad essere un filosofo e un letterato era anche un poeta e le sue frequentazioni non escludevano infatti i circoli culturali musulmani spagnoli, infatti per le tematiche e le modalità di scrittura la sua opera può a buon avviso essere ascritta ad un genere letterario tipicamente arabo dell’adab, ovvero una sorta di dialogo tra “umanisti” su temi di carattere molto generale (cfr. Mauro Zonta La Filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Laterza, Bari 2002, p. 79).
Fu un grande esegeta e conoscitore delle Scritture, infatti nella sua produzione letteraria sono numerosi i trattati e i commentari alla Bibbia (purtroppo molti di questi sono andati perduti) come il Trattato esegetico.
Probabilmente la sua opera più importante e che ebbe ampia diffusione nel mondo ebraico è il Libro del giardino sul significato metaforico e su quello vero. Questo scritto si compone di due parti la prima a carattere filologico e lessicografico, la seconda invece tratta tematiche filosofico-teologiche. Questo suo componimento pur non essendo sistematico e non avendo una struttura omogenea indubbiamente ha influenzato la struttura dell’opera maimonidea. Gli undici capitoli che compongono questo testo illustrano la natura di Dio e della creazione sfruttando lo schema seguito dalle opere del kalam dei mutaziliti, i primi capitoli sono infatti dedicati a Dio, quelli centrali ai precetti e alle norme razionali, Mosheh Ibn Ezra introdurrà poi le questioni che ineriscono all’uomo e alla natura ed infine gli ultimi due capitoli sono interamente dedicati all’intelletto e alle tre anime (vegetativa, animale e razionale).
MOSHEH IBN EZRA
A cura di Giada Coppola
Su Mosheh ben Ya’aqov Ibn Ezra abbiamo numerose informazioni bibliografiche, nasce a Granada nel 1055, dopo la venuta degli Almoravidi, a causa delle violente persecuzioni, è costretto a spostarsi in Castiglia dove muore nel 1135-1138.
Sappiamo che oltre ad essere un filosofo e un letterato era anche un poeta e le sue frequentazioni non escludevano infatti i circoli culturali musulmani spagnoli, infatti per le tematiche e le modalità di scrittura la sua opera può a buon avviso essere ascritta ad un genere letterario tipicamente arabo dell’adab, ovvero una sorta di dialogo tra “umanisti” su temi di carattere molto generale (cfr. Mauro Zonta La Filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Laterza, Bari 2002, p. 79).
Fu un grande esegeta e conoscitore delle Scritture, infatti nella sua produzione letteraria sono numerosi i trattati e i commentari alla Bibbia (purtroppo molti di questi sono andati perduti) come il Trattato esegetico.
Probabilmente la sua opera più importante e che ebbe ampia diffusione nel mondo ebraico è il Libro del giardino sul significato metaforico e su quello vero. Questo scritto si compone di due parti la prima a carattere filologico e lessicografico, la seconda invece tratta tematiche filosofico-teologiche. Questo suo componimento pur non essendo sistematico e non avendo una struttura omogenea indubbiamente ha influenzato la struttura dell’opera maimonidea. Gli undici capitoli che compongono questo testo illustrano la natura di Dio e della creazione sfruttando lo schema seguito dalle opere del kalam dei mutaziliti, i primi capitoli sono infatti dedicati a Dio, quelli centrali ai precetti e alle norme razionali, Mosheh Ibn Ezra introdurrà poi le questioni che ineriscono all’uomo e alla natura ed infine gli ultimi due capitoli sono interamente dedicati all’intelletto e alle tre anime (vegetativa, animale e razionale).
LA FILOSOFIA EBRAICA IN PROVENZA
A cura di Giada Coppola
Nei secoli XIII e XIV i filosofi e i pensatori ebrei della Provenza e della Catalogna hanno contribuito notevolmente alla trasmissione dei testi, delle traduzioni e dei commenti delle opere filosofiche e dei trattati scientifici in ambiente ebraico e arabo: infatti molte delle opere che nel medioevo sono giunte nel mondo latino-cristiano hanno essenzialmente subito la mediazione delle traduzioni dei filosofi ebrei, in particolare dei traduttori di origine spagnola – ma che sono vissuti in Il primo di questi autori fu Yehudah ben Saul Ibn Tibbon (1120-1190 ca) che fu con molta probabilità il primo “traduttore professionale” del mondo ebraico medievale ( cfr. Mauro Zonta La filosofia antica nel Medioevo ebraico, Paideia Brescia 1996). La sua prima traduzione fu di un testo di Bahya Ibn Paquda L’introduzione ai doveri del cuore, 1161; a questa seguì una traduzione del Kuzari di Yehudah ha-Lewi, del Libro delle credenze e delle convinzioni di Saadia Gaon, del Miglioramento delle qualità dell’anima di Ibn Gabirol, e di due scritti di grammatica.
Samuel ben Yehudah Ibn Tibbon (1150-1232 ca.) seguendo la stessa linea del padre, tradurrà le opere più importanti di Maimonide e aprirà la strada alle traduzione degli scritti di filosofia classica greca. Tutte le opere di Samuel Ibn Tibbon sono redatte in arabo, probabilmente la sua prima traduzione fu l’Ars Parvia di Galeno a cui seguì la Meteorologia di Aristotele. Come avevo prima accennato tradusse molte opere di Maimonide, prima di tutto la Guida dei Perplessi (1204), il Trattato sulla Resurrezione dei Morti, i due Commenti alla Mishnà, inoltre scrisse anche un Glossario dei termini rari della Guida. Oltre all’opera di traduzione Samuel Ibn Tibbon fu anche un arguto esegeta, infatti tradusse e commentò i tre libri di Salomone: Ecclesiaste, Proverbi e il Cantico dei Cantici.
Moshè ben Samuel Ibn Tibbon ( lavorò tra il 1240-1283 ca) fu il continuatore di questa tradizione familiare. Moshè Ibn Tibbon tradusse numerosi trattati aristotelici e commenti di Averroè. Possiamo ricordare la traduzione del Compendio di Averroè della Fisica e del De caelo del 1246 circa; il Compendio di Averroè del De generatione et corruptione, del 1250; il Compendio del De anima di Averroè, del 1244; il Compendio dei Parva Naturalia [De sensu et sensatu] di Averroè del 1254; la Parafrasi del Libro XII della Metafisica di Temistio. Inoltre Moshè Ibn Tibbon scrisse e tradusse, secondo la tradizione, una divisione delle scienze ispirata ad Avicenna, un estratto del Libro I del Commento grande alla Fisica di Aristotele e un Compendio della Metafisica.
Un altro personaggio che ruota attorno a questa scuola di traduzione fu sicuramente Ya’acob Anatoli (1194-1256 ca), medico alla corte di Federico II di Svevia, ed è proprio alla corte dell’Imperatore che conobbe sicuramente un’altra personalità importantissima del panorama culturale latino Michele Scoto. Ya’acob Anatoli si dedicò alla traduzione dei Commenti medi di Averroè ovvero le Isagoge, le Categorie, il De interpretatione, gli Analitici priori e posteriori, la Sofistica, la Retorica e la Poetica. Scrisse anche una raccolta sul Pentateuco intitolata Malmad ha-talmidim (Il pungolo dei discepoli).
SHEM TOV BEN YOSEF FALAQUERA
A cura di Giada Coppola
Shem Tov ben Yosef Falaquera nasce nel Nord della Spagna oppure in Provenza attorno al 1225 e morì probabilmente nel 1295. Personalità eclettica, può essere senza dubbio considerato uno degli autori più importanti del XIII secolo, redasse molte opere il cui nucleo centrale offriva spunti sulla sua grande conoscenza del pensiero classico antico, Shem Tov Falaquera infatti fu sicuramente un grande conoscitore delle filosofia greca e arabo-islamica. Fu il primo a scrivere un commento alla Guida dei Perplessi di Maimonide, intitolato il Moreh ha-Moreh ovvero la Guida della Guida in cui vengono spiegati i passi più complessi della monumentale opera maimonidea.
Gli autori che particolarmente influenzano il pensiero di Shem Tov Falaquera e che per lui rappresentano la massima espressione della perfezione filosofica sono Aristotele, Al-Farabi, Averroè e indubbiamente Maimonide.
Numerose sono le sue opere, possiamo qui ricordare: l’Epistola etica, una sorta di antologia di detti filosofici di origine greca, araba ed ebraica; il Principio della scienza (Reshit hokmah) una vera e propria introduzione alla filosofia di Aristotele e Platone attraverso i commenti e il pensiero di Al-Farabi ed Avicenna; i Libro dei Gradi, anche questa una sorta di antologia che comprendeva passi e citazioni di autori antichi e medievali come Aristotele, Galeno, Avicenna, Ibn Baggia, Al-Farabi; il Libro sull’Anima, una sorta di compendio al trattato aristotelico del De Anima; un commento al Pentateuco; uno scritto di argomento etico la Perfezione delle azioni, un vero e proprio compendio all’Etica Nicomachea.
L’opera più importante di Shem Tov ben Yosef Falaquera è il De’ot ha-filosofim ovvero le Dottrine dei filosofi, una vera e propria enciclopedia in cui argomento centrale è la descrizione delle dottrine della fisica e della metafisica di Aristotele correlata dai commenti di Averroè. Quest’opera seppur così importante è quasi totalmente inedita eccezion fatta per due manoscritti curati e pubblicati da Mauro Zonta (cfr. Mauro Zonta Un dizionario filosofico ebraico del XIII secolo. L’introduzione al Sefer De’ot ha-filosofim di Shem Tob Ibn Falaquera, “Quaderni di Henoch” 4, Silvio Zamorani Editore, Torino 1992 ).