LA FILOSOFIA ROMANA
“La virtù marcisce, senza avversario” (Seneca)
INTRODUZIONE
Nel 146 a.C. , con la distruzione di Corinto , la Grecia diventa di fatto una provincia romana . In realtà i rapporti del mondo romano con la cultura greca erano già avviati da tempo . Dottrine filosofiche , estrapolate dai complessi contesti argomentativi dei quali originariamente facevano parte , già circolavano , tra il terzo e il secondo secolo a.C. , soprattutto in forma di massime , attraverso gli scritti di poeti come Ennio , il quale , tra l’ altro , faceva riferimento alla dottrina empedoclea degli elementi e a quella dell’ anima e delle sue reincarnazioni . Ma é soprattutto a partire dalla metà del secondo secolo d.C. che si fa progressivamente più massiccia la penetrazione della filosofia a Roma . Nel 161 a.C. un decreto espelleva da Roma filosofi e retori : ciò é segno del fatto che alcuni intellettuali greci cominciavano a stabilirsi nella città . Di fronte alla filosofia greca i ceti dominanti romani assunsero atteggiamenti ambivalenti . Da una parte , si ebbe la resistenza dei membri più tradizionalisti , i quali nutrivano sospetti verso un senso di vita refrattario o inutile alla politica o addirittura dannoso in una prospettiva etico – politica che ha il suo nucleo portante in un rapporto organico con lo Stato e i valori tradizionali . L’ esempio più noto é rappresentato da Catone il censore , che pure non era ignorante di cultura greca , e l’ episodio più significativo l’ ambasceria dei filosofi inviati nel 155 a.C. da Atene a Roma per ottenere il condono di una multa . Di essa faceva parte Carneade , che diede prova in pubbliche conferenze della sua abilità di discutere pro e contro la teoria della giustizia , un tema estremamente delicato per la vita politica . Carneade , infatti , argomentò sia a favore , sia contro l’ esistenza di una legge naturale universalmente valida . Questa impostazione , che rischiava di condurre ad un atteggiamento scettico , non poteva che essere respinta da Catone , ma , sottilmente , Carneade impiegò anche un argomento che poteva essere ben accolto dai conquistatori romani : a quale diritto si appella il più forte nell’ aggredire il più debole , se non a quello della forza stessa ? Se i romani conquistatori avessero voluto essere giusti e , quindi , restituire il bottino delle loro vittorie , sarebbero rimasti poveri . Su una linea di reale giustificazione dell’ ” imperialismo ” romano si mosse , con le sue Storie , lo storico greco Polibio , ( 208 – 126 a.C. ) . Esso veniva presentato come il legittimo sbocco della storia , perchè Roma era riuscita a costruire una forma di costituzione mista ( che già Platone aveva esaltato delineando il suo stato secondo ) che riuniva gli aspetti positivi delle tre forme costituzionali ( monarchia , aristocrazia , democrazia ) , senza avere i difetti propri di ognuna . Non é un caso che Polibio fosse benevolmente accolto nella cerchia di potenti aristocratici romani , quali gli Scipioni . Di questa cerchia faceva parte anche un filosofo , Panezio , ma l’ apertura verso la filosofia di questi aristocratici non deve essere scambiata per interesse personale : la filosofia appare , piuttosto , un ingrediente importante per la formazione di un nuovo tipo di uomo e politico , meno legato ai valori tradizionali della frugalità e della rudezza , propri di una civiltà rurale qual era quella della Roma più antica . In generale , il rapporto positivo con la filosofia da parte di membri colti dei ceti aristocratici di Roma non si traduce nella adesione rigida a una singola scuola filosofica . Estranei al mondo delle scuole e dell’ insegnamento , essi avvertono meno vincoli di ortodossia e risultano più disponibili all’ ascolto di voci filosofiche anche in dissenso tra loro . Tra le correnti filosofiche , soprattutto l’ epicureismo aveva mantenuto una maggiore impermeabilità nei confronti di dottrine di altra provenienza , ancorandosi fedelmente all’ insegnamento del fondatore della scuola . Le altre correnti , invece , soprattutto quelle più influenti , come lo stoicismo e l’ Accademia scettica , cominciarono già a partire dalla metà del secondo secolo a.C. a trasformarsi . Da allora si assiste a travasi concettuali e terminologici sempre più frequenti tra scuole diverse , ma senza che ciò dia luogo a quello che é stato definito eclettismo , ossia una acritica e incoerente mescolanza di elementi teorici di provenienza diversa e talvolta contradditori . La tendenza a tener conto delle soluzioni dottrinali fornite da scuole filosofiche diverse da quella alla quale si appartiene , é confermata dall’ attività della èlite politica e culturale di Roma , Panezio , Posidonio e Antioco , dei cui scritti tuttavia rimangono soltanto frammenti .
PANEZIO
Dopo Crisippo e fino a tutta la prima metà del II secolo a.C., lo Stoicismo conosce una fase alquanto statica, caratterizzata dalla tendenza a conservare in tutta la sua purezza il patrimonio dottrinale elaborato da Zenone di Cizio e dai suoi primi continuatori. Questo, oltre a contrastare col carattere non dogmatico della scuola, ne insterilì il vigore speculativo, almeno fino a quando, nel 129 a.C., la sua direzione fu assunta da Panezio di Rodi, che diede un rinnovato slancio al pensiero della Stoà: questa fase dello Stoicismo é stata più volte definita dagli studiosi come “Media Stoà”, a sottolinearne il distacco dall’antico stoicismo. Panezio nacque intorno al 185 a.C. da nobile famiglia e dapprima si recò a Pergamo, per frequentare i corsi del filologo Cratete di Mallo, e poi si stanziò ad Atene, dove si avvicinò allo Stoicismo ascoltando le lezioni di Diogene di Seleucia e di Antipatro, avvicendatisi alla guida della Stoà. Dopo il 150 a.C., Panezio si recò più volte a Roma, dove entrò in contatto, probabilmente per intervento di Polibio, col circolo culturale di Scipione Emiliano. Al seguito di questo influente personaggio, Panezio vagabondò in Oriente fra il 140 e il 139, e questo contribuì probabilmente ad ampliare non di poco il suo orizzonte culturale. Divenuto scolarca nel 129, mantenne questo prestigioso incarico fino alla morte (109 a.C. circa), avvenuta dopo circa un ventennio, nel corso del quale soggiornò parecchie volte a Roma. La produzione di opere di Panezio non fu certo vasta come quella di molti altri filosofi ellenistici; tuttavia egli compose un’opera di fondamentale importanza, intitolata Sul dovere, un trattato che sarà ripreso niente poco di meno che da Cicerone nei primi due libri del De officiis; tuttavia accanto al trattato Sui doveri vanno senz’altro menzionati anche quello Sulla provvidenza, Sulla necessità di sopportare il dolore, Sulla gioia dell’animo e la Lettera a Q. Tuberone su un carme di Appio Claudio Cieco. Tuttavia di questi scritti ci sono pervenuti solo pochi frammenti, un centinaio circa. Panezio apportò modifiche di sensazionale importanza al sistema dottrinale dello Stoicismo antico, mitigandone le asprezze e inaugurando una tendenza moderatamente eclettica che sarà proseguita dal suo allievo Posidonio di Apamea e da Cicerone stesso. Gli apporti del filosofo di Rodi investono sia la fisica sia l’etica, e obbediscono alla medesima esigenza di ridimensionare il determinismo del sistema originario; per quel che concerne la fisica, Panezio negò o comunque avanzò seri dubbi sulla teoria stoica dell’
ekpurosiV, la conflagrazione universale, che finiva con l’assegnare alla divinità la semplice funzione di reggitrice e non di artefice dell’universo: la divinità governa in modo razionale l’andamento del mondo, ma chi l’ha creato? Nella stessa ottica antideterministica va anche ascritta la serrata polemica di Panezio rivolta all’arte divinatoria e all’astrologia, il cui scopo é quello di prevedere un futuro già rigidamente stabilito; con parecchi secoli di anticipo rispetto all’umanista italiano Pico della Mirandola, Panezio sembra aver ravvisato nell’astrologia un qualcosa che limita il libero arbitrio umano: se tutto é già decretato necessariamente, l’uomo non ha libertà e, di conseguenza, l’etica (fulcro dell’insegnamento stoico) cade nel vuoto: a che serve insegnare ad uno come comportarsi se tutto é già determinato, compreso il suo comportamento? D’altronde gli astri per Panezio sono troppo distanti per poter influire sugli eventi della Terra. Con Panezio viene dunque messo in dubbio il caratteristico determinismo stoico. Per quel che riguarda la dottrina dell’anima, egli non arrivò a sostenere la sua immortalità, ma vi distinse una parte irrazionale, composta di aria, e una razionale, di natura ignea. In campo etico, Panezio approdò ad una concezione meno rigida e rigoristica della virtù (areth) e della saggezza (sofia), affermando che la prima non é sufficiente (ouk autarkh) quando non vi si aggiungano buona salute, agiatezza economica e vigore fisico e rispondendo in tono deliberatamente evasivo a chi gli poneva un quesito sulle caratteristiche del perfetto sapiente: “Del saggio parleremo un’altra volta!”. Tuttavia é evidente che il saggio inteso da Panezio non é più quello della più rigorosa tradizione stoica, che anche se chiuso nel toro di Falaride sapeva essere felice perchè in possesso della virtù. In questo senso, si comprende come Panezio non abbia voluto occuparsi dei katorqwmata (azioni perfette), ma abbia rivolto la sua attenzione ai kaqhkonta (i doveri), intitolando a essi la sua opera più famosa: Panezio individua quali sono i doveri per tutti gli uomini, anche per quelli che non hanno ancora raggiunto la perfezione. Essi sono definibili in relazione alle diverse posizioni sociali e circostanze della vita e nel rispetto delle regole della convivenza civile. Infine possiamo cogliere un segno dei nuovi tempi correnti nel radicale rifiuto da parte di Panezio della apaqeia, l’abolizione delle passioni, perno intorno al quale ruotava la tradizionale etica stoica: a questo ripudio probabilmente non fu estraneo l’influsso della concezione attivistica sulla quale si fondava lo stato romano. L’attenzione e la comprensione del filosofo per i problemi dell’uomo ha fatto a ragion veduta parlare di umanesimo paneziano, l’humanitas dei Latini. Si é più volte detto che Panezio, non interessato a problemi di logica, abbia dato una svolta aristocratica alla dottrina stoica, cercando di liberarla dai tratti rozzi e plebei come l’ingiunzione di chiamare le cose con i loro nomi, cioè di non evitare i termini osceni e di addolcire l’originario rigorismo morale ormai anacronistico in modo tale da renderla praticabile anche da parte di una classe aristocratica e nobile, colta e raffinata. Inoltre Panezio, a differenza dello Stoicismo classico, dà un giudizio positivo sugli istinti, che non devono essere oppressi dalla ragione, ma piuttosto corretti e disciplinati. Egli elaborò un sistema di virtù in cui le tradizionali virtù cardinali stoiche (giustizia, sapienza, fortezza, temperanza) venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali: la virtù fondamentale é per Panezio costituita dalla socialità, in cui alla tradizionale virtù cardinale si affianca la beneficenza: se alla prima spetta di “dare a ciascuno il suo“, la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani, che , attraverso gli officia e l’elargizione nei confronti dei concittadini, sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato. Alla virtù tradizionale della fortezza Panezio sostituisce la magnanimità (grandezza d’animo), una virtù “signorile” che scaturisce da un naturale istinto a primeggiare sugli altri, e risplende nella capacità di imporre il proprio dominio di cui da tempo il popolo romano ha dato prova di fronte al mondo.TESTIMONIANZE SU PANEZIO
Cicerone è la fonte piú importante per conoscere il pensiero di Panezio: il De officiis ciceroniano è infatti costruito sul modello dell’opera di Panezio Perì toû kathékontos (Sul dovere):
“Tre dunque, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se sia onorevole o turpe a farsi ciò che è argomento di deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l’argomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le giocondità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi ed ai nostri; la quale deliberazione rientra nel campo dell’utile. Si è infine incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con ciò che è moralmente onorevole: mentre infatti l’utilità ci trascina verso di sé e l’onestà anche ci chiama a sé, avviene che il nostro animo vacilli nel prendere una decisione e rimanga perplesso fra opposti pensieri“. [Cicerone, De officiis, I, 9]
“1 Panezio dunque, che senza dubbio trattò molto accuratamente dei doveri, e che io, con qualche modificazione, ho principalmente seguíto, stabilisce tre punti, su cui di solito si pondera e si riflette intorno al dovere: primo, quando si è incerti se la cosa in questione sia onesta o turpe; secondo, se sia utile o meno; terzo, se ciò che sembra onesto contrasta con ciò che sembra utile. Egli trattò dei primi due casi in tre libri, e promise che avrebbe trattato in seguito del terzo, ma non mantenne la promessa. […]
2 Non sono poi d’accordo con quanti sostengono che questo punto non è stato dimenticato da Panezio, ma a bella posta tralasciato, e che non era il caso di parlarne perché l’utile non può mai essere in contrasto con l’onesto. Riguardo a queste due affermazioni si può discutere forse se si dovesse svolgere oppure omettere quel punto, che è il terzo nella trattazione di Panezio; ma non si può mettere in dubbio che da Panezio sia stato proposto e poi tralasciato. È evidente che, se ha diviso la materia tre parti e ne ha svolto due, rimane da trattare la terza: si aggiunga che alla fine del terzo libro Panezio dichiara che la tratterà in seguito. […]
3 Non si può quindi dubitare dell’intenzione di Panezio: si può forse discutere se facesse bene o no ad aggiungere questa terza parte alla ricerca dei doveri. Infatti, sia l’onesto il solo bene, secondo il parere degli stoici, sia invece, come vogliono i vostri peripatetici, un bene cosí grande che tutto ciò che gli si contrappone ha piccolissimo peso, è fuori di dubbio che l’utile non può venire a conflitto con l’onesto. […] Che se Panezio fosse stato uomo tale da proclamare che la virtú deve essere praticata perché è causa di utilità, come fanno coloro che dal piacere o dalla mancanza del dolore misurano la desiderabilità delle cose, avrebbe potuto dire che talvolta l’utile è in contrasto con l’onesto. Ma poiché è invece uno che ritiene che sia bene solo ciò che è onesto, e che non con l’accrescimento né con il decrescimento di ciò che con una qualche parvenza di utilità contrasta con l’onesto, la vita possa divenire migliore o peggiore, non mi pare che avrebbe potuto introdurre la questione sul confronto fra ciò che appare utile e l’onesto. Il sommo bene degli stoici, vivere secondo natura, significa, secondo me, essere sempre in accordo con la virtú ed accettare poi tutto ciò che è secondo natura, quando non sia contrario alla virtú”. [Cicerone, De officiis, III, 7-13]
POSIDONIO DI APAMEA
Posidonio di Apamea (città della Siria) fu il diretto continuatore dello stoicismo di Panezio (lo stoicismo della cosiddetta "Media Stoà"). Nato nella città di Apamea in una data incerta tra il 140 e il 130 a.C., nell’86 a.C. capeggiò un’ambasceria inviata a Roma dai Rodesi; il suo soggiorno nella capitale gli permise di stringere durevoli rapporti coi circoli ellenizzanti e di rinsaldare quel ponte fra le due culture già creato da Panezio, tanto che – dieci anni dopo – Cicerone si recò a Rodi per ascoltare le sue lezioni. Un forte legame di carattere personale e politico fu quello che lo unì a Pompeo, di cui condivise il programma moderato e filosenatorio e che celebrò in una monografia di carattere storico. Mosso dalla sua curiosità di scienziato e di erudito, compì parecchi viaggi nei paesi del Mediterraneo e anche nell’Europa del nord, ma fissò la sua dimora a Rodi, ove fondò la già menzionata scuola. Morì forse a Roma, durante uno dei suoi soggiorni nella capitale, verso il 50 a.C., quasi alla vigilia dello scontro di Farsalo fra Cesare e Pompeo. Della vasta produzione di Posidonio – di cui purtroppo restano solamente frammenti e testimonianze – conosciamo poco più di venti titoli, che si riferiscono a opere di carattere filosofico (Sulle passioni, Sul dovere, Sul cosmo, Sugli dei, Sull’anima, Sul fato, Sulla divinazione, Sull’ira), retorico/letterario (Sul sublime) e scientifico (Sull’Oceano, Sui corpi celesti, Sulla grandezza del sole). Un posto a sé occupavano gli scritti di carattere storico, il maggiore dei quali era costituito dai 52 libri delle Storie dopo Polibio, che narravano gli avvenimenti tra il 145 e l’85 a.C. (vittoria di Silla su Mitridate). Benché quest’opera sia andata del tutto perduta, possiamo farcene un’idea abbastanza precisa dalle tracce evidenti che essa ha lasciato nella Biblioteca di Diodoro Siculo, soprattutto nella parte riguardante le rivolte servili in Sicilia (135-101 a.C.), da brani conservati nei Sofisti a banchetto di Ateneo e da alcune preziose testimonianze di Stradone. Oltre ai frequenti excursus etno-geografici, ciò che caratterizzava l’opera era una spiccata attenzione per la problematica sociale e politica, che conduceva l’autore ad esprimere lucidi giudizi sul trattamento riservato agli schiavi: pur condannando – da buon filoaristocratico – le sanguinose insurrezioni dei servi, egli non mancava di mettere in luce le colpe di una classe dirigente che concepiva il rapporto servo/padrone solo in termini di spietato e disumano sfruttamento. Dietro questa riflessione sociologica (che nasce anche dall’avversione di Posidonio per l’emergente ceto equestre) non è difficile scorgere il riflesso della
filanqrwpia stoica, che troverà la sua massima espressione nelle riflessioni di Seneca (Epistole a Lucilio, 47), che a riguardo degli schiavi dirà: "servi sunt, immo homines". Procedendo sulla linea dell’antidogmatismo e dell’eclettismo paneziano, anche Posidonio apporta modifiche di rilievo allo stoicismo di Zenone di Cizio, ormai incompatibile – per via del suo rigorismo soffocante – con la nuova temperie culturale. Tuttavia Posidonio riprende alcuni aspetti peculiari della filosofia stoica che erano stati espunti da Panezio: ad esempio, egli riporta in auge la dottrina della conflagrazione universale (ekpurosiV) e sostiene la validità dell’arte mantica. Pur con la cautela suggerita dall’incerta paternità di alcune testimonianze, si possono attribuire a Posidonio la teoria della sumpaqeia, ovvero del rapporto di reciproca influenza che legherebbe insieme tutte le parti dell’universo (il che, tra l’altro, giustifica il ricorso alla divinazione, ossia la lettura del futuro sulla base dei segni del presente), e l’identificazione della divinità col cielo. Meno sicura appare l’escatologia attribuitagli da diversi studiosi, specie sulla scorta del noto passo di Cicerone (De divinatione I, 64) in cui si attribuisce a Posidonio la dottrina dell’aria come sede di anime immortali ("plenus aer sit immortalium animorum") e di altre testimonianze più dubbie, le quali lascerebbero intendere che le anime stesse abbiano origine dal sole e che ad esso tornino dopo un periodo di permanenza sulla luna. Riportiamo il passo ciceroniano:"Divinare autem morientes illo etiam exemplo confirmat Posidonius, quod adfert, Rhodium quendam morientem sex aequales nominasse et dixisse, qui primus eorum, qui secundus, qui deinde deinceps moriturus esset. Sed tribus modis censet deorum adpulsu homines somniare: uno, quod provideat animus ipse per sese, quippe qui deorum cognatione teneatur; altero, quod plenus aer sit immortalium animorum, in quibus tamquam insignitae notae veritatis appareant; tertio, quod ipsi di cum dormientibus conloquantur. ldque, ut modo dixi, facilius evenit adpropinquante morte, ut animi futura augurentur". (M. T. Cicero, De divinatione I, 64)
[Che i morenti abbiano capacità divinatoria lo dimostra anche Posidonio adducendo quel famoso caso: uno di Rodi, in punto di morte, fece i nomi di sei coetanei e disse quale di essi sarebbe morto per primo, quale per secondo, e così di seguito tutti gli altri. In tre modi, del resto, Posidonio ritiene che gli uomini sognino per impulso divino: nel primo, perché l’anima prevede da sé, essendo unita da parentela con gli dèi; nel secondo, perché l’aria è piena di anime immortali, nelle quali i segni della verità appaiono, per così dire, chiaramente impressi; nel terzo, perché gli dèi stessi parlano coi dormienti. E che le anime predicano il futuro avviene più facilmente all’appressarsi della morte, come ho detto or ora]
L ‘opera di Posidonio è, in ogni caso, caratterizzata dalla vastità dei suoi interessi enciclopedici. Fu particolarmente attento alle condizioni geografiche e di vita delle varie popolazioni presso cui giunse nei suoi numerosi viaggi, ricavandone materia per i suoi scritti di geografia, storia ed etnografia. Ma si occupò anche di questioni astronomiche, del problema della misurazione della circonferenza della terra e dei fondamenti della geografia euclidea, contro attacchi mossi alla validità di essa da parte dell’epicureo Zenone di Sidone. Poche menti furono in Grecia così enciclopediche come Posidonio: a tal proposito, Giovanni Reale asserisce che "fu la mente più universale che la Grecia ebbe, dopo Aristotele". Questa concezione di un sapere universale era forse connessa – nel pensiero di Posidonio – alla nozione tipicamente stoica di simpatia, a cui abbiamo poc’anzi accennato: l’unità tra le parti del sapere non esprime altro che l’ unità e la connessione tra le varie parti dell’ universo. Su questa linea, egli difese anche, contrariamente a Panezio , l’ astrologia e la divinazione. Anche Posidonio però manifesta libertà nei confronti di tradizioni dottrinali proprie della sua scuola: ciò appare in modo particolare nella sua
critica al monismo psicologico di Crisippo. Secondo Posidonio, Crisippo non riesce a spiegare l’origine prima del vizio: come é possibile che essa dipenda dall’ esercizio della stessa ragione? Nè é sufficiente imputarla ad influenze esterne, al processo educativo e alla società, perchè occorrerebbe spiegare da che cosa dipende la corruzione degli educatori e della società stessa. La soluzione di Posidonio consiste in una ripresa dell’impostazione propria di un’altra tradizione filosofica, quella platonico/aristotelica (il che testimonia l’eclettismo di Posidonio, componente che troviamo anche – forse in misura addirittura accentuata – in Cicerone). Egli ipotizza, infatti, l’ esistenza di una facoltà irrazionale originaria dell’anima, alla quale possono essere imputate le passioni e l’insorgere del vizio. La terapia delle passioni potrà allora avvenire anche attraverso l’impiego di ciò che é piacevole e non razionale, in particolare della musica e della poesia, come già aveva sostenuto Platone.FILODEMO
In Italia, nel I secolo a.C., si costituì un altro circolo di Epicurei, di carattere decisamente aristocratico, che trovò la sua sede in una villa di Ercolano di proprietà di Calpurnio Pisone, noto e influente uomo politico – fu suocero di Cesare e fu console nel 58 a.C. –, e grande mecenate. L’uomo che convertì Calpurnio Pisone all’Epicureismo era nato a Gadara in Siria e si chiamava Fílodemo. Venuto a Roma da Atene dopo la morte del maestro Zenone di Sidone, contrasse amicizia con Calpurnio Pisone, il quale gli mise a disposizione una sua villa a Ercolano, che divenne la sede di un cenacolo epicureo frequentato dall’alta società romana. Gli scavi compiuti ad Ercolano hanno portato all’identificazione della villa e al ritrovamento dei resti di una biblioteca costituita di scritti di Epicurei e in particolare di scritti dello stesso Filodemo. Contrariamente all’Epicureismo di Amafinio, quello di Filodemo mantenne la lingua greca, e affrontò problemi tecnici ad alto livello.
Nella rinascita di studi epicurei, la figura di Filodemo sta vieppiù acquistando una sua fisionomia precisa. Un contributo di Filodemo, almeno in parte originale, dovette consistere nell’approfondimento delle operazioni logiche che sorreggono l’umano ragionare, iniziato già dal maestro Zenone, e in particolare nell’approfondimento del procedimento induttivo fondato sull’analogia. Filodemo indagò inoltre il problema degli Dei, della religione e della morte. Si occupò diffusamente di problemi dell’arte e della retorica, nonché della economia. Ma il contributo di gran lunga più cospicuo all’Epicureismo doveva venire dal canto del poeta Tito Lucrezio Caro, di puro sangue latino, e indipendentemente sia dal movimento popolare messo in atto da Amafinio, sia dal circolo dotto di Filodemo e di Calpurnio Pisone.
AMAFINIO
Amafinio fu il primo a redigere un trattato filosofico in latino, sostenendo idee epicuree. Scrive Cicerone:
Opere rappresentative di questa filosofia, in latino si può dire non ne esistano: o, se mai, sono assai poche. Ciò è dovuto alla difficoltà della materia e al fatto che i nostri connazionali erano presi da ben altri problemi, e ritenevano inoltre che quelle non fossero cose da piacere a gente senza istruzione come erano loro. Mentre essi tacevano, venne fuori Gaio Amafinio: quando uscirono i suoi libri la gente ne rimase impressionata, e accordò notevolissimo favore alla dottrina di cui egli era rappresentante, per la facilità con cui si capiva, per l’attrazione esercitata dalle seducenti lusinghe del piacere, e anche perché, dal momento che non le era offerto nulla di meglio, prendeva quello che c’era. All’opera di Amafinio hanno fatto seguito, in gran numero, gli scritti dei molti altri partigiani dello stesso sistema, che hanno invaso tutta l’Italia: ora, è questa la miglior prova che le loro teorie non sono profonde, dal momento che si capiscono con tanta facilità e trovano credito presso chi non se ne intende. Per loro, invece, questo qui è il dato infallibile che conferma la bontà dei loro sistema. (Cicerone, Tusc. Disput., IV, 3)
E sempre in riferimento ad Amafinio, Cicerone scrive ancora:
Dico questo [si riferisce al proposito da lui stabilito di introdurre la filosofia in Roma seguendo rigore logico, buon gusto ed eleganza] perché ho sentito che libri [di filosofia] in latino ne esistono, e come: sarebbero libri scritti da quei tali che si fanno chiama e filosofi. lo questi libri – sarà perché non h ho mai letti – non è che li disprezzi: ma quando i loro stessi autori ammettono apertamente di non saper scrivere né con chiarezza, né con ordine, né con gusto, né con eleganza, io rinuncio senza rammarico a una lettura così poco attraente. Tanto, le teorie della loro scuola le sanno già tutti quelli che abbiano un minimo di cultura. Cosi, visto che poi non si preoccupano nemmeno loro del modo in cui scrivono, non vedo perché gli altri debbano andare a leggerli: che si leggano tra di loro, con quelli che la pensano in quel modo. Platone e gli altri socratici, coi filosofi che si ricollegano alla loro scuola, li leggono tutti quanti, anche quelli che non la pensano come loro o che non sono simpatizzanti del loro sistema: mentre Epicuro e Metrodoro li prendono in mano i loro seguaci e basta, si può dire. Così è per i libri di questi scrittori latini: li leggono solo coloro che prendono per vero ciò che essi dicono. Noi invece siamo dei parere che, qualunque cosa si scriva, si debba scrivere per il pubblico colto: e se non riusciamo a mantenerci sul piano adeguato, non dobbiamo per questo dimenticarcene. (Cicerone, Tusc. disput., II, 3)
Dunque, i libri di filosofia epicurea di Amafinio e dei suoi seguaci avevano un carattere fondamentalmente divulgativo; erano, cioè, diretti in prevalenza ad un pubblico non colto, e, probabilmente, si limitavano all’etica, o almeno puntavano soprattutto sull’aspetto pratico dell’epicureismo. Certo essi non dovevano disquisire sulle complesse questioni dell’atomismo, altrimenti quanto dice Cicerone non avrebbe senso. Pertanto, il movimento di Amafinio dovette avere carattere essenzialmente popolare.
La collocazione cronologica di questo movimento è purtroppo incerta. Si è pensato, da alcuni, che si possa collocare alla fine del I secolo a.C.; da altri, invece, agli inizi dei I secolo a.C.; infine c’è qualcuno che colloca il movimento negli anni immediatamente anteriori all’epoca in cui Cicerone ne fa menzione (46/45 a.C.).
PATRONE
“Con Patrone Epicureo io ho tutto in comune, tranne che in filosofia, nella quale discordo fortemente da lui. Ma già all’inizio, a Roma, quando osservava te e tutti i tuoi, si curò di me soprattutto, e ultimamente, quando ottenne quei vantaggi e premi che volle, mi considerò quasi il primo fra i suoi difensori e amici; inoltre, mi fu raccomandato anche da Fedro (che, quando ero fanciullo e prima che conoscessi Filone, stimavo molto come filosofo, e, successivamente, se non come filosofo, certo come uomo one-sto, piacevole e cortese). Questo Patrone, dunque, mi aveva già scritto a Roma di conciliarlo con te e che ti chie-dessi di concedergli non so quali famose rovine della casa di Epicuro (nescio quid illud Epicuri parietinarum sibi concederes). Io, però, non te ne scrissi nulla, perché non volevo che il tuo progetto di costruzione (aedificationis tuae consilium) fosse ostacolato dalla mia raccomandazione. Ma il medesimo Patrone, giunto che fui ad Atene, avendomi di nuovo pregato di scriverti sulla stessa questione, riuscì nel suo intento, perché fra i tuoi amici si dava per certo che tu avessi abbandonato quel tuo progetto di costruzione. Se questo è vero e se della faccenda non te ne importa più nulla, io vorrei che tu, se nell’animo tuo è nato qualche risentimento con lui a causa della perversità di alcuni (giacché io conosco bene quella gente), tu ti rappacificassi, o per la tua suprema benignità o per fare a me questo favore. Per la verità, se vuoi sapere qual è il mio parere, non vedo né la ragione per cui egli debba insistere così tanto in questa richiesta, né la ragione per cui tu debba opporti, per non dire che a te molto meno che a lui conviene dibattersi senza ragione. Infatti sono certo che tu sai che cosa Patrone domanda e su che cosa si fonda. Egli dice che deve mantenere il suo onore, a suo dovere, il rispetto del testamento, l’autorità di Epicuro, la richiesta di Fedro, la sede, l’abitazione e le vestigia di uomini sommi (honorem, officium, testamentorum ius, Epicuri auctoritatem, Phaedri obstentationem, sedem, domicilium, vestigia summorum hominum sibi tuenda esse dicit). Orbene, se noi volessimo biasimarlo per questa sua insistente richiesta, dovremmo altresì deridere il tenore della sua vita e la dottrina filosofica che segue. Orbene, in verità, dal momento che a lui e agli altri di quella setta noi non siamo troppo nemici, non so perché non gli si debba perdonare tanta insistenza: se anche eccede in questa, eccede più per leggerezza che per cattiveria. Ma, per non andare per le lunghe (giacché bisogna pure che io lo dica una buona volta), io voglio bene a Pomponio Attico come ad un fratello. Nessuna cosa mi è più cara e più dolce di lui. Egli, non perché sia uno di loro [scil.: degli Epicurei), giacché possiede perfettamente tutte le scienze liberali, ma perché ama molto Patrone e amò molto Fedro, si dà da fare per ottenere questo da me, lui che è un uomo per nulla ambizioso né insistente, più di quanto non abbia mai fatto. Non dubita che io possa ottenere questo da te con un solo cenno, anche se tu avessi ancora l’intenzione di fabbricare. Ma ora, se egli saprà che tu hai deposto l’intenzione di fabbricare e che, ciononostante, io non ti ho fatto la sua richiesta, non riterrà che tu sia stato scortese nei miei confronti, ma riterrà che io sia stato negligente nei suoi confronti. Per la qual cosa io ti chiedo che tu scriva ai tuoi che quel decreto degli Areopagiti, che essi chiamano memoriale, per tua volontà sia annullato. Ma ritorno da capo. Vorrei che, prima di far questo, tu ti persuada di farlo volentieri per causa mia. E tieni per certo che, se farai questo che ti chiedo, mi farai cosa gratissima. Sta’ bene“.Da questa lettera emerge chiaramente ciò che abbiamo già sopra anticipato, ossia, con ogni probabilità, che il Giardino era stato chiuso e che i membri della Scuola si erano dispersi. Patrone agisce e parla come se fosse un ex-scolarca, che tenta ad ogni costo di salvare almeno i luoghi in cui era sorta la Scuola dalla totale distruzione. Il fatto che subito dopo il 51 a.C. non si abbiano più notizie di scolarchi del Giardino conferma questa ipotesi. La crisi della Scuola epicurea ad Atene, probabilmente, durò a lungo e si protrasse, forse, anche per gran parte del I secolo d.C. Da alcune testimonianze del neopitagorico Numenio e dell’aristotelico Aristocle sembra potersi ricavare che il Giardino nel II secolo d.C. sussisteva come istituzione e che, dunque, era rinato. In ogni caso, questo si ricava senza dubbio da alcune iscrizioni pervenuteci, le quali dimostrano come venissero nominati «diadochi» della Scuola epicurea in Atene nel II secolo d.C. Ben si comprende, pertanto, come Diogene Laerzio, che visse nella prima metà del III secolo d.C., abbia potuto, fra le varie prove attestanti la probità di Epicuro e della filosofia.
MARCO TERENZIO VARRONE
VITA
Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti nel 116 a.C. e morì a Roma nel 27 a.C.
Egli acquisì nel campo della cultura una tale fama da essere ritenuto in tutta l’antichità, sino al Medioevo, “il più grande erudito romano”.
Fu questore e, successivamente, tribuno della plebe nonché pretore.
Fu al seguito di Pompeo, che seguì nella guerra contro Sertorio, in quella contro i pirati e nella campagna contro Cesare: comandò allora come legato le truppe pompeiane nella Spagna Betica, ma si arrese nel 49 a.C. a Cesare, che lo volle amico e lo propose alla direzione della prima biblioteca pubblica (46 a.C.).
Il secondo triumvirato gli si mostrò ostile e lo proscrisse (46 a.C.), ma fu graziato e poté trascorrere tranquillamente nello studio il resto dei suoi giorni.
Si fece seppellire secondo il rituale pitagorico.
OPERE
Un catalogo incompleto dei suoi scritti ci è stato tramandato per mezzo di san Girolamo: ricostruendolo con altre testimonianze, arriviamo a contare 75 opere in 620 libri, delle quali possediamo soltanto cinque libri del De lingua latina e il dialogo De re rustica. Elencando le principali conviene distinguerle in quattro categorie: le opere di storia letteraria e linguistica, le opere antiquarie , le opere didascaliche e le opere letterarie.
Le Imagines, in quindici libri, contenevano settecento ritratti di uomini celebri, sia romani che greci (statisti, poeti e filosofi, ma anche danzatori e sacerdoti), accompagnati ciascuno da un epigramma e da un riassunto della vita; il De poematis era un trattato sulla poesia, nello schema delle artes retoriche; il De scaenicis originibus verteva sulle origini della drammatica latina; il De comoediis Plautinis e le Quaestiones Plautinae gettavano i fondamenti della critica plautina, riconoscendo l’autenticità di ventuno fra le centotrenta commedie che andavano allora sotto il nome di Plauto. Il De antiquitate litterarum trattava dell’alfabeto; il De origine linguae Latinae delle origini della lingua.
L’opera linguistica di gran lunga più importante era il trattato in venticinque libri; il De lingua Latina, composto fra il 47 e il 45 a.C.
La più importante delle opere antiquarie era rappresentata dalle Antiquitates rerum humanarum et divinarum (Antichità umane e divine) in quarantuno libri, di cui venticinque per le antichità umane e sedici per le divine. Dividendo gli argomenti in sezioni (come de hominibus, de locis, de temporibus, de rebus, de deis), Varrone ricostruiva la storia dei popoli e dei costumi antichi e tracciava un quadro completo delle antichità sacre.
Dal punto di vista religioso, egli combatteva le fantasie dei poeti e cercava di interpretare la religione tradizionale alla luce della teologia di Posidonio, che concepiva il cosmo retto da un’anima cosciente la cui parte più nobile è l’etere, che dà origine agli dèi. Attinsero alle Antiquitates molti scrittori pagani e cristiani, principalmente Agostino; Petrarca, inoltre, si ricorderà di Varrone come del “terzo gran lume romano” dopo Cicerone e Virgilio. Altri importanti scritti antiquari erano: De gente populi Romani (storia mitica dal diluvio universale del tempo di Ogige, re di Tebe, al periodo della monarchia in Roma), De vita populi Romani (la vita e lo spirito della Roma antica), De familiis Troianis (ricerca araldica sui nomi di famiglie patrizie romane), Rerum urbanarum (topografia di Roma), Aetìa (sull’origine di usanze eccentriche).
La principale opera didascalica è De re rustica, scritta nel 37 a.C. e indirizzata alla moglie Fundania in occasione dell’acquisto del podere.
È divisa in tre libri dedicati rispettivamente a Fudania e gli amici Turranio Nigro e Pinnio e consta di una serie di dialoghi tenuti in date e luoghi diversi, con interlocutori il cui nome richiama la materia trattata.
Varrone parla ai ricchi possidenti e allevatori amanti del guadagno e del lusso. Egli dimostra un sincero amore per la campagna e tenta di esprimersi in una lingua corretta e, talora, artisticamente elevata.
Argomenti di scienza navale affrontava Varrone nelle opere De ora maritima, De aestuariis ed Ephemeris navalis. Di diritto parlava nel De iure civili, di diritto e grammatica antiquaria negli 8 libri di Epistolicae quaestiones, redatti appunto in forma epistolare. Nei 9 libri di disciplinae (le nove scienze: grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia, musica, medicina e architettura) dava vita alla prima grande enciclopedia latina e gettava la base della bipartizione medievale delle arti liberali in «trivio» e «quadrivio» (le ultime due discipline non furono riconosciute).
Di Varrone scrittore si devono citare principalmente le Sature Menippeae, composizioni miste di prosa e di versi a imitazione del filosofo cinico greco Menippo di Gàdara (vissuto nel III secolo a.C.); erano raccolte in centocinquanta libri, dei quali non possediamo che circa seicento frammenti.
Varrone non mostra, nelle Menippae, di aderire a una determinata filosofia, anzi ritiene che spesso le dispute dei filosofi siano “logomatie” o puri scontri verbali: e, nonostante il suo ricollegarsi a Menippo, egli resta lontano dall’anarchismo rivoluzionario e dall’astratto cosmopolitismo dei cinici greci, richiamandosi di continuo al mos maiorum romano. Talvolta riesce anche a liberarsi, sia pure per un momento, dall’oratoria moralistica e a gustare disinteressatamente i multicolori aspetti del mondo circostante: nascono così tratti descrittivi e lirici che toccano la poesia: come la lode del vino definito hilaritatis dulce seminarium (“dolce scaturigine di buonumore”), gli agili galliambi in onore di Cibele e i dimetri anapestici – di levità quasi catulliana – per la gioia di un ritorno in patria.
Fra le opere letterarie vanno ancora ricordati i Logistorici, una raccolta di sessantasei libri in ciascuno dei quali era introdotto un personaggio a ragionare di una determinata questione; il logistorico Pius aut de pace conteneva cenni biografici su Sallustio. Varrone aveva inoltre raccolto le sue Orationes in 25 libri, aveva scritto De vita sua e degli Annales di carattere cronologico.
Varrone – è stato detto – rappresenta “l’apogeo del sapere antico”. Già i contemporanei si resero conto dell’importanza della missione culturale da lui intrapresa: i suoi lavori di carattere enciclopedico, importanti al concetto della funzionalità della cultura, aprivano nuovi orizzonti nel panorama della ricerca scientifica romana.
PENSIERO
Più che di una filosofia di Varrone si può parlare di implicanze filosofiche della sua cultura generale. Infatti, propriamente, il nostro autore non si occupa specificamente di filosofia: eppure essa è costantemente presente sullo sfondo dei suoi scritti.
Contrariamente a Cicerone, che segue Filone di Larissa, egli si schiera dalla parte di Antioco, e gli resta in larga misura fedele.
La sua concezione dell’anima come «pneuma» e del Divino come «anima del mondo» sono infatti in perfetta sintonia con l’Eclettismo stoicizzante antiocheo.
La dottrina filosofica per cui egli è più noto consiste nella distinzione delle tre forme di teologia (una distinzione che ha radici molto antiche):
1) la «teologia favolosa o mitica» dei poeti;
2) la «teologia naturale» propria dei filosofi;
3) la «teologia civile», che si esprime nelle credenze e nei culti delle città.
Varrone riteneva la seconda forma di teologia come la più vera; al tempo stesso, egli insiteva molto sul fatto che la religione fosse una creazione umana.
Boyancé rileva quanto segue: «da tempo alcuni filosofi si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle Città. Si trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone aveva un rispetto tutto romano di questa tradizione. L’erudito, in lui, rispettoso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fondare la verità dei filosofi. […] Tutto ciò non avveniva in Varrone senza esitazioni, dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era sostenuto dal fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue conoscenze» (Les implications philosophiques des recherches de Varron sur la religion humaine, in «Atti del Congresso Internazionale degli Studi Varroniani», Rieti 1976, I, p. 161. Cfr. vol. X). Si ricordi, infine, l’utopia filosofica tratteggiata da Varrone in un’opera intitolata Marcopolis (letteralmente: La città di Marco): su di essa non sappiamo pressoché nulla perché, purtroppo, è andata perduta; però non è inverosimile pensare che la città utopica così come Varrone la immaginava fosse saldamente legata al passato tradizionale di Roma, e non tanto a valori rivoluzionari. Questo aspetto può essere desunto dal pensiero stesso di Varrone, accanito difensore del “mos maiorum”, ma anche da un’altra sua opera, intitolata Sexagesis, in cui raccontava di un personaggio che, addormentatosi da ragazzo, si svegliava a sessant’anni per accorgersi che a Roma tutto era mutato in peggio. Ancora in un altro passo dei suoi scritti, Varrone guarda con ammirazione alla società perfetta delle api, alla loro operosità e alla loro solidale convivenza.
CICERONE
LA VITA
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino , nei pressi dell’ attuale Frosinone , da agiata famiglia equestre ; compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso e dei due Scevola . Strinse con Tito Pomponio Attico un’ amicizia destinata a durare per tutta la vita . Nell’ 81 , o forse anche prima , debuttò come avvocato e nell’ 80 difese la causa di Sesto Roscio ( accusato di Parricidio ) , che lo mise in conflitto con autorevoli esponenti del regime sillano . Tra il 79 e il 77 si allontanò da Roma ( forse per paura di rappresaglie dopo il grande successo della sua orazione a difesa di Roscio ) ed effettuò un lungo viaggio in Grecia e in Asia dove studiò la filosofia e , sotto la guida di Molone di Rodi , la retorica . Al ritorno sposò Terenzia , dalla quale nacquero Tullia ( che Cicerone appellò affettuosamente ” Tulliola ” ) , nel 76 , e Marco , nel 65 . Nel 75 fu questore di Sicilia e nel 70 sostenne trionfalmente l’ accusa dei Siciliani contro l’ ex governatore Verre , accusato di truffa e di empietà ( faceva rubare le statue dai templi ! ) ; con questa esperienza Cicerone si guadagnò fama di oratore principe . Nel 69 fu edile , nel 66 pretore e diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo poteri straordinari per la lotta contro il re del Ponto , Mitridate , facendo così gli interessi degli equites ( lui stesso era di famiglia equestre ) che venivano ostacolati nel loro lavoro di esattori delle imposte da Mitridate ma nello stesso tempo tutelò anche i suoi stessi interessi , accattivandosi la simpatia del ceto equestre : in questo frangente scrisse la ” Pro lege Manlia ” in favore della legge proposta dal tribuno Manilio che prevedeva , come detto , la connessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’ Oriente , e la ” De imperio Gnaei Pompei ” ( in un secondo tempo ripudiata da Cicerone stesso ) nella quale appunto prendeva le difese degli equites e che può essere considerata il suo punto di massimo avvicinamento alla politica dei populares , la fazione a lui avversa ( Cicerone era uno degli optimates ) . Nel 63 fu eletto console e soffocò in modo duro la congiura di Catilina , che aveva cercato di salire al potere in modo illegale e di stravolgere la res publica : in quest’ occasione compose le 4 Catilinarie , con le quali svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella competizione elettorale : esse , con i loro toni veementi , minacciosi e carichi di pathos , possono essere considerate il suo capolavoro consolare : il celebre inizio ( Quo usque tandem abutere , Catilina , patientia nostra ? ) é molto esplicativo in tal senso . In esse fece , tra l’ altro , uso di un arteficio retorico singolare : l’ introduzione di una prosopopea ( personificazione ) della Patria , la quale rimproverava aspramente Catilina stesso . Dopo la formazione del primo triunvirato , cui Cicerone guardava con preoccupazione perchè riteneva che potesse essere insidiosa per l’ autorità senatoria , il suo astro iniziò a decadere : nel 58 dovette recarsi in esilio , con l’ accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina e la sua casa venne rasa al suolo . Richiamato a Roma , vi rientrò trionfalmente nel 57 . Nel 52 Clodio , acerrimo nemico di Cicerone , rimase ucciso e questo fatto pesò su Milone , il diretto rivale di Clodio ; Cicerone assunse le difese di Milone componendo la Pro Milone , una delle sue opere meglio riuscite . Nel 51 fu governatore di Cilicia , pur avendo accettato a malincuore di allontanarsi da Roma . Allo scoppio della guerra civile ( 49 ) aderì con scarso entusiasmo alla causa di Pompeo ; dopo la sconfitta di quest’ ultimo ottenne il perdono da Cesare . Negli anni successivi divorziò da Terenzia e si risposò con la sua giovane pupilla Publilia , dalla quale tuttavia divorziò dopo pochi mesi . Nel 45 gli morì la figlia Tullia e in quegli anni iniziò la composizione di una lunga serie di opere filosofiche , mentre il dominio di Cesare lo teneva distante dalle vicende politiche . Nel 44 , dopo l’ assassinio di Cesare , tornò alla vita politica e cominciò la lotta contro Antonio ; pronunciò le Filippiche ( in totale18 ) per indurre il senato a dichiarargli guerra e a dichiararlo nemico pubblico ; sono orazioni in cui serpeggia l’ odio , dove Antonio viene presentato come un tiranno assoluto , un ladro di denaro pubblico , un ubriacone ( ” che vomita in tutto il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino ” ) . Ma la manovra politica di Cicerone era destinata a fallire . Con un brusco voltafaccia , Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato , e strinse un accordo con Antonio e un altro capo cesariano , Lepido ( secondo triumvirato ) . I tre divennero così padroni assoluti di Roma . Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone , il cui nome venne inserito nelle liste di proscrizione . Venne raggiunto dai sicari presso Formia , dopo che aveva intrapreso un tentativo di fuga , ai primi di dicembre del 43 ; pare che le sue mani , autrici di una miriade di scritti , siano state appese nel foro .
IL PENSIERO FILOSOFICO
L’ antiepicureo Cicerone fu filosofo che compose molti libri , scritti in gran parte nell’ arco di due anni , tra il 46 e il 44 a.C. , quando la vittoria di Cesare lo costrinse a tenersi lontano dalla vita politica e la morte della figlia Tullia lo spinse a cercare nella filosofia una medicina dell’ animo . Cicerone era stato uno dei protagonisti delle convulse lotte politiche della prima metà del primo secolo a.C. ; nel momento in cui venne costretto a un ozio forzato , egli scrisse di filosofia , ma anche allora per lui la politica rimase la dimensione fondamentale della vita . Infatti , una delle ragioni della sua condanna dell’ epicureismo é anche l’ apoliticità di questa scuola . I contenuti degli scritti filosofici di Cicerone non sono radicalmente nuovi rispetto a quelli elaborati dalla tradizione filosofica greca ; egli , infatti , condivide con buona parte degli uomini colti del suo tempo l’ idea che le alternative filosofiche fondamentali siano già date . Il problema non é dunque quello di trovare nuove filosofie o nuove basi teoriche , in base alle quali organizzare la propria vita , la tradizione filosofica ha già provvisto a costruire queste basi . Si tratta soltanto di saggiarle e renderle operanti , oltre che preliminarmente accessibili ad un pubblico di lingua latina . Di qui l’ importante lavoro linguistico compiuto da Cicerone , al quale la tradizione filosofica occidentale deve l’ introduzione di termini come moralis , qualitas , notio e così via . Lo strumento letterario di cui Cicerone si avvale nella sua opera di diffusione della filosofia greca non é la poesia , ma il dialogo . Esso gli consente di esporre argomentazioni opposte , pro e contro una determinata tesi . Così avviene per i problemi gnoseologici negli Accademici , che ci sono giunti incompleti , per i problemi fisico/teologici in Sulla natura degli dei , Sulla Divinazione , Sul fato , e , per quelli etici , nelle Dispute tusculane e Sui termini estremi dei beni e dei mali . Il modello é dato dalla pratica giudiziaria , nella quale le parti contendenti si affrontano davanti ai giudici . Il pubblico a cui Cicerone si rivolge é il giudice che deve pronunciare il verdetto , dopo aver ascoltato le argomentazioni pro e contro presentate dai protagonisti del dialogo . Si tratta della tecnica di discussione tipica dell’ Accademia scettica , da Arcesilao a Carneade , che anche Cicerone fa propria , in quanto gli appare più consona ad un atteggiamento libero . Le altre scuola filosofiche , soprattutto la stoica e l’ epicurea , chiedono ai loro adepti un asservimento totale nei confronti del patrimonio dottrinale della scuola ; la filosofia dell’ Accademia , invece , lascia liberi , secondo Cicerone , di formulare il giudizio dopo aver ascoltato le parti contendenti . Solo al confronto tra tesi opposte si può sperare di ricavare qualcosa che sia almeno vicino al vero , ossia il probabile , ciò che può essere saggiato e approvato . Sullo sfondo di queste tesi si staglia la figura del romano di ceto elevato , che non può asservirsi ai dettati di una scuola nè praticare la filosofia come un’ attività professionale in competizione con dei rivali . All’ autorità della scuola , Cicerone oppone il giudizio libero , corroborato dalla tradizione romana e dai valori impliciti in essa : i filosofi greci in contrasto tra loro trovano così i veri arbitri in Roma , in filosofi liberi dai vincoli di scuola . Diversa appare l’ impostazione degli scritti ciceroniani Sulla repubblica e Sulle leggi , pervenuteci incompiuti , e della sua ultima opera Sui doveri , ove , anzichè presentare e discutere tesi contrapposte , si espongono dottrine positive sulla preferibilità della costituzione mista , sulle leggi , sulle varie occupazioni confacenti alle funzioni e al rango occupato da ciascuno nella società . Ma in queste opere , che pure attingono al patrimonio concettuale dei filosofi , soprattutto di Platone , domina Roma con le sue istituzioni e i suoi valori . In questo caso non c’è più spazio per tesi contrapposte ; occorre invece far emergere l’ immagine totalmente positiva dei costumi antichi e della concordia tra i ceti , cardini della grandezza di Roma oltre che modello e programma politico anche per il presente . Nelle pagine di Cicerone antichi personaggi romani , come Catone o Scipione , diventano eroi filosofici : non é necessario essere filosofi di professioni per non temere la morte . A proposito dell’ attività politica del popolo romano nel suo complesso , essa é rappresentata nella Repubblica come una ” sapientia ” che si é realizzata in leggi e istituzioni , più che in parole , come era avvenuto in Grecia . Lo scritto Sui doveri , poi , si presenta come una sorta di lunga lettera indirizzata al figlio Marco , con esplicito intento pedagogico . Qui Cicerone , ispirandosi in parte a Panezio , si appropria di una forma rielaborata e addolcita di stoicismo , spogliata dai paradossi tipici di questa scuola . Egli sostiene che sui problemi dei comportamenti da assumere nella vita quotidiana non é possibile rinviare il giudizio o abbracciare posizioni scettiche , tanto meno contrapporsi ai valori diffusi ; la soluzione più adeguata gli appare consistere in un giusto contemperamento di virtù e utilità .
LE OPERE FILOSOFICHE
Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell’ Arpinate . Innanzitutto , va detto che gran parte dell’ opera di Cicerone é pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione dei valori tradizionali . Dietro la vicenda intellettuale dell’ Arpinate si profila una società attraversata da spinte contrastanti , spesso laceranti : l’ afflusso di ricchezze dai paesi conquistati ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità delle origini ; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa sopravvivenza dello stato repubblicano . D’ altronde lo scopo stesso delle sue opere filosofiche é dare una solida base ideale , etica , politica a una classe dominante ( gli optimates ) il cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure , cui il rispetto per la tradizione nazionale ( mos maiorum ) non impedisca l’ assorbimento della cultura greca ; una classe che l’ assolvimento dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura , nè , in generale , di quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine di humanitas . Quella di Cicerone , chiaramente , rimane un’ ottica di parte , legata al progetto di egemonia di un blocco sociale ( sostanzialmente i ceti possidenti ) : egli é fermamente contrario a qualsiasi progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei debiti , Cicerone scorge la via d’ uscita dalla crisi che minaccia la repubblica nella concordia dei ceti abbienti , senatori e cavalieri ( concordia ordinum ) . La sua , in fin dei conti , é e rimane una natura moderata in campo politico . In un secondo tempo , però , Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti . In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio ed equestre , la concordia ordinum si era rivelata fallimentare : Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium bonorum , cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti , amanti dell’ ordine sociale e politico , pronte all’ adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia . Il dovere dei boni é quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a discapito di quelli pubblici : essi devono fornire un sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa . Il progetto di concordia dei ceti abbienti , nelle due diverse formulazioni che Cicerone ne diede , significò in ogni caso un tentativo almeno embrionale ( é ovvio che i boni preferirono in ogni caso tutelare i propri interessi ) di superare in nome del superiore interesse della collettività , la lotta tra i gruppi e le fazioni all’ epoca dominanti la scena politica romana . Tuttavia il pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni : da tempo si dibatteva in Grecia se l’ oratore dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece necessaria una vasta cultura nel campo del diritto , della filosofia e della storia . In gioventù Cicerone aveva iniziato , senza portarlo a termine , un trattatello di retorica , il De inventione ( inventio indica il reperimento dei materiali da parte dell’ oratore ) . Un interesse particolare riveste il proemio , dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia ( cioè cultura filosofica ) , quest’ ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’ oratore : l’ eloquenza priva di sapientia ha portato più volte gli stati in rovina . La soluzione ciceroniana é pensata esplicitamente per la società romana : molti anni dopo egli ritorna sulle stesse tematiche nel De oratore , una delle sue opere ” più curate ” . Composto nel 55 , durante un periodo di ritiro dalla vita politica , mentre Roma era travagliata dalle bande di Clodio e di Milone , é ambientato nel 91 , al tempo dell’ adolescenza di Cicerone ; sotto forma di dialogo ( sulle orme di Platone ) vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell’ epoca , fra i quali spiccano Marco Antonio ( 143 – 87 a.C. ) , nonno del triumviro che fece uccidere l’ Arpinate , e Lucio Licinio Crasso , portavoce del pensiero di Cicerone stesso . Nel I libro Crasso sostiene , per l’ oratore , di una vasta formazione culturale . Antonio gli contrappone l’ ideale di un oratore più istintivo e autodidatta , la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali , sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’ esempio degli oratori precedenti . Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche , ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio ( la raccolta di materiale ) , la dispositio ( l’ organizzazione del materiale ) e la memoria ( l’ insieme delle tecniche per memorizzare i concetti ) . Compare anche un personaggio spiritoso e caustico , Cesare Strabone , al quale é assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito . Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio , cioè in genere all’ actio ( recitazione ) dell’ oratore , non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica . La scelta del 91 per l’ ambientazione del dialogo ha un preciso significato : é l’ anno stesso della morte di Crasso e precede di poco la guerra sociale e i lunghi conflitti civili tra Mario ( l’ homo novus ) e Silla , nel corso dei quali soccomberanno crudelmente alcuni altri degli interlocutori principali , fra cui lo stesso Antonio . La crisi dello stato é un’ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l’ ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni , la villa tuscolana di Crasso . La consapevolezza della terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri . Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi , Cicerone si é sforzato di ricreare l’atmosfera degli ultimi giorni di pace dell’ antica repubblica . Il modello a cui si ispira é sostanzialmente quello del dialogo platonico : con gesto aristocratico , alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano . A sintetizzare la tesi principale di tutta l’ opera potrebbe valere un’ espressione di Sulpicio , uno dei partecipanti al dialogo : ” non l’ eloquenza é nata dalla teoria retorica , ma la teoria retorica dall’ eloquenza ” . Si richiede quindi una vasta preparazione culturale ( soprattutto filosofica – morale ) all’ oratore : bisogna che egli sia versatile , abile a sostenere il pro e il contra su qualsiasi argomento , riuscendo sempre a convincere e a trascinare il proprio uditorio ; ma questo di per sè non basta : il tutto deve essere accompagnato dalla virtus , la quale deve mantenere l’ intero sistema oratorio ancorato all’ apparato dei valori tradizionali , in cui la ” gente perbene ” si riconosce . Crasso insiste perchè probitas ( integrità )e prudentia ( saggezza ) siano saldamente radicate nell’ animo di chi dovrà apprendere l’ arte della parola : consegnarla a chi mancasse di queste virtù sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati . La formazione dell’ oratore viene quindi a coincidere con quella dell’ uomo politico della classe dirigente . Egli dovrà servirsi della sua abilità oratoria non per blandire il popolo copn proposte demagogiche , ma per piegarlo alla volontà dei boni . Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore in un trattato più esile , l’ Orator , aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica . Disegnando il ritratto dell’ oratore ideale ( come Platone aveva tratteggiato le figure del sofista e del politico ) , l’ Arpinate sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi : probare ( argomentare la propria tesi ) , delectare ( produrre un effetto piacevole sull’ uditorio ) , flectere ( muovere le emozioni tramite il pathos ) . Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici che l’ oratore dovrà sapere alternare : umile , medio , e elevato o ” patetico ” . Nel 44 , poi , Cicerone compone i Topica , ispirati all’ opera omonima di Aristotele , i quali trattano dei topoi , i luoghi comuni ai quali può far ricorso l’ oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare nel discorso . Ma possono farvi ricorso anche i filosofi , gli storici e i giuristi . Il modello del dialogo platonico ritorna poi , con maggiore evidenza , nel De re publica , al quale Cicerone si dedicò assiduamente fra il 54 e il 51 . Non cercò , tuttavia , di costruire a tavolino uno stato ideale , come Platone aveva fatto nella sua ” Repubblica ” : con gesto che gli diventava sempre più consueto , l’ Arpinate si proiettò nel passato , per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni . Il dialogo si svolge nel 129 , nella villa suburbana di Scipione Emiliano , che con l’ amico e collaboratore Lelio é uno dei principali interlocutori . La ricostruzione della trama é purtroppo resa fortemente ipotetica , soprattutto per alcune sezioni , dalle condizioni estremamente frammentarie in cui il dialogo ci é stato conservato . Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle 3 forme fondamentali di governo ( monarchia , aristocrazia , democrazia ) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estreme , rispettivamente della tirannide , della oligarchia e della olocrazia ( governo della ” feccia ” del popolo ) . Scipione mostra come lo stato romano dei maiores ( gli antenati ) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali : l’ elemento monarchico si rispecchia nell’ istituzione del consolato , l’ elemento aristocratico nell’ istituzione del senato , l’ elemento democratico nell’ istituzione dei comizi . Il libro II si occupa della costituzione romana , mentre il III tratta della iustitia , ed é in larga parte dedicato a un tentativo di confutazione dell’ acutissima critica che l’ accademico Carneade aveva svolto dell’ imperialismo romano : la critica si incentrava soprattutto sul concetto di ” guerra giusta ” , ricorrendo al quale i Romani , col pretesto di soccorrere i loro alleati , ( cioè sudditi ) in difficoltà , avevano progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria sfera d’ influenza . Il IV libro si occupa dell’ educazione dei cittadini e dei princìpi che devono regolare i loro rapporti . Nei libri IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae ( rettore e governatore dello stato ) o princeps . Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione , da parte di Scipione l’ Emiliano , del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l’ avo , Scipione Africano , per mostrargli , dall’ alto del cielo , la piccolezza e l’ insignificanza di tutte le cose umane , anche della gloria terrena , e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell’ aldilà le anime dei grandi uomini di stato : questa parte , che costituisce la sezione finale dell’ opera , va generalmente sotto il nome di Somnium Scipionis . La teoria del regime misto cui si appella Scipione risaliva agli stessi Platone ( vedi le ” Leggi ” ) e Aristotele . Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi trarre in inganno : il singolare si riferisce al ” tipo ” dell’ uomo politico eminente , non alla sua unicità ( come invece sarà invece per Machiavelli ) ; in altre parole , l’ Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni e si raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano . Il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche , principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza : é questo il senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello stato . Cicerone disegna così l’ immagine di un dominatore – asceta , rappresentante in terra della volontà divina , rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua despicentia verso le passioni umane . L’ ideale ciceroniano era tuttavia difficilmente realizzabile : probabilmente proprio la convinzione della necessità di un governo di maggiore autorevolezza , e d’ altra parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l’ accentramento di enormi poteri nelle mani di pochi capi , spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo e ai triumviri , nella speranza di mantenere l’ operato sotto il controllo del senato . Ispirandosi ancora al modello di Platone , che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi , l’ Arpinate completò il dialogo sullo stato col De legibus , iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita . L’ azione stavolta non é posta in un’ epoca passata , ma nel presente , e interlocutori sono lo stesso Cicerone , il fratello Quinto , e il grande amico Attico . L’ ambientazione é nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi delle campagne circostanti , raffigurati secondo una modulazione del motivo del locus amoenus che ha il suo modello soprattutto nel Fedro di Platone . Quinto é tratteggiato come un ottimate estremista , Cicerone come un conservatore moderato , Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle sue scelte filosofiche . Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non é sorta per convenzione , ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed é perciò data da Dio . Nel libro II l’ esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione utopica ( alla Platone ) ma sulla tradizione legislativa romana , che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale . Nel libro III Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze . In gioventù l’ Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi più diversi , e ad interessarsi di filosofia continuò per tutta la vita : a scriverne , tuttavia , iniziò solo nel 46 , con l’ operetta sui Paradossi degli Stoici , dedicata a Marco Bruto e incentrata soprattutto sull’ esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l’ opinione comune . Ma é nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera incredibile in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone , quali la morte della figlia Tullia . L’ Hortensius , perduto , era un’ esortazione alla filosofia , sul modello del Protrettico di Aristotele . Gli Academica , che trattavano i problemi gnoseologici , ebbero una duplice redazione : la prima , i cosiddetti Academica priora , in due libri ; la seconda , gli Academica posteriora , in quattro libri . Il De finibus bonorum et malorum ( I limiti del bene e del male ) é da alcuni considerato il capolavoro filosofico di Cicerone : tratta questioni etiche , e cioè il problema del sommo bene e del sommo male , che é affrontato in 5 libri , comprendenti 3 dialoghi . Nel primo é esposta la teoria degli epicurei , cui segue la confutazione ciceroniana ; nel secondo si mette a confronto la teoria stoica con le teorie accademica e peripatetica ; nel terzo é esposta la teoria eclettica di A. Ascalona , maestro di Cicerone e di Varrone , la più vicina al pensiero dell’ autore . Ancora di questioni etiche tratta un’ altra fra le maggiori opere filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata , le Tusculanae disputationes , dedicate anch’ esse a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo . L’ opera , in 5 libri , che segna il massimo avvicinamento dell’ Arpinate alle tesi propugnate dagli stoici , é condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore . Nei singoli libri sono trattati , rispettivamente i temi della morte , del dolore , della tristezza , dei turbamenti dell’ animo e della virtù come garanzia della felicità : siamo dunque di fronte ad una grande summa dell’ etica antica . Nelle Tusculanae l’ Arpinate cerca una risposta ai suoi personali interrogativi , una soluzione ai suoi dubbi : di qui la profonda partecipazione emotiva dell’ autore agli argomenti trattati . Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi , il De natura deorum , in 3 libri , anch’ esso dedicato a Bruto ; il De divinatione , in 2 libri , e il De fato giuntoci incompleto . Le due ultime opere sono presentate esplicitamente dall’ autore come integrative e complementari rispetto alla prima . Nelle opere filosofiche Cicerone viene ripesando tutto il corpus di metodi e teorie cresciuto entro le scuole ellenistiche . L’ impegno ciceroniano nell’ attività filosofica é soprattutto moralistico , e non dimentica i doveri del cittadino al servizio dello stato . Interessante in questi dialoghi é il ricercare sempre la conseguenza pratica , la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica a cui possono portare le teorie filosofiche : si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana . In sede di teoria della conoscenza Cicerone aderì , nei suoi anni maturi , al probabilismo degli Accademici , una sorta di scetticismo pragmatico , che senza negare l’ esistenza di una verità oltre i fenomeni , si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile , utile a orientare l’ azione e ad essa funzionalizzata . Nel libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere l’ esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni : se tutto é opinabile , allora non vi sarà più nè certezza nè verità . L’ Arpinate replica che anche un dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità ; nemmeno pensa , come gli scettici che esistano più verità . In un celebre passo delle Tusculanae Cicerone definisce il metodo che egli segue nel trattare dei problemi di maggiore importanza : astenendosi egli stesso dal formulare un’ opinione precisa , si sforza di esporre le diverse opinioni possibili , e di metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre . L’ eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso , che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico . La stessa ideologia della humanitas , alla cui elaborazione l’ Arpinate diede un contributo notevolissimo , invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza : dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande apertura e si può notare come i vari interlocutori non polemizzino mai tra loro con toni aspri e cerchino sempre di rispettare il loro turno per prendere la parola : siamo insomma di fronte ad una cerchia ristretta di uomini perbene che vedono nelle teorie diverse dalle loro un arricchimento culturale . Ma c’ é un caso in cui il contraddittorio e la confutazione , pur senza scadere nella zuffa , si fanno talora più violenti e indignati : l’ eclettismo ciceroniano , come già anticipato , mostra una chiusura radicale verso l’ epicureismo , alla cui esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De finibus bonorum et malorum . I motivi dell’ avversione ciceroniana verso l’ epicureismo sono soprattutto due , tra loro strettamente connessi : in primo luogo la filosofia epicurea porta al disinteresse per la vita politica ( ” vivi di nascosto ” era il loro motto ) , mentre dovere dei boni é l’ attiva partecipazione alla vita pubblica ; inoltre l’ epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità ( per quanto non ne neghi l’ esistenza ) e indebolisce così i legami con la religione tradizionale , che per Cicerone rimane la base fondamentale dell’ etica . Va poi detto che l’ Arpinate vedeva negativamente la ricerca del piacere ( voluptas ) propugnata dagli epicurei , i quali non esitavano a collocarla tra le somme virtù : ora é evidente che se ogni cittadino vivesse ” di nascosto ” alla ricerca del piacere personale lo stato si sfascerebbe ; inoltre mettere la voluptas tra le virtù é come mettere una prostituta tra signore per bene , dice Cicerone . Tutte queste argomentazioni spiegano in parte il senso dei dialoghi di argomento religioso e teologico . Nel De natura deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea dell’ indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane . Successivamente viene presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale , mentre in uno dei libri successivi ( il III ) l’ Arpinate si schiera a favore dello scetticismo accademico . Più interessante risulta il De divinatione , anche perchè legato a vicende più contemporanee a Cicerone , che si dimostra incerto se denunciare la falsità della religione tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti inferiori . Tornando al De finibus bonorum et malorum , Cicerone , dopo aver confutato la tesi epicurea , esamina quella stoica : riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più solide all’ impegno dei cittadini verso la collettività , ma tuttavia si sente lontano per cultura e gusti : il loro rigore etico gli appare anacronistico e impraticabile nella società romana . Cicerone , invece , apprezza le tesi scettiche : la verità é per lui irraggiungibile , e l’ uomo si può solo avvicinare ad essa applicando la virtus ; l’ eclettismo ciceroniano non a caso si basa su ideali scettici : dato che la verità é irraggiungibile , tanto vale esaminare tutte le diverse filosofie ed estrapolare da ognuna di esse il meglio . Un posto particolare tra le opere filosofiche occupano anche il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia . Nel Cato maior de senectute Cicerone trasfigura l’ amarezza per una vecchiaia la quale , oltre al decadimento fisico e all’ imminenza della morte , sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico . Tuttavia Cicerone , immedesimandosi nell’ austera figura di Catone il Censore , tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l’ otium e la tenacia dell’ impegno politico , due opposte esigenze che l’ Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto l’ arco della sua vita . Diversa , più combattiva , é l’ atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia , il quale , all’ indomani dell’ uccisione di Cesare , accompagna il rientro di Cicerone sulla scena politica . Il dialogo é immaginato svolgersi nel 129 , lo stesso anno del De re publica : pochi giorni dopo la scomparsa di Scipione nel corso delle agitazioni graccane . Rievocando la figura dell’ amico scomparso , Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sul valore e sulla natura dell’ amicizia stessa . Amicitia per i Romani era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico . Nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato aristocratico , il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici . La novità dell’ impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas : a fondamento dell’ amicizia sono posti valori come virtus e probitas riconosciuti a vasti strati della popolazione . L’ amicizia propagandata da Lelio non é solo un’ amicizia politica : si avverte in tutta l’ opera un disperato bisogno di rapporti sinceri , quali Cicerone , preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica , potè forse trovare solo in Attico . La stesura del De officiis venne iniziata probabilmente nell’ autunno del 44 : si tratta stavolta di un trattato , non di un dialogo , dedicato al figlio Marco , allora studente di filosofia ad Atene . L’ opera é il prodotto di un’ elaborazione rapidissima , per lo più contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche : mentre sta combattendo colui che ai suoi occhi sta portando la patria alla rovina definitiva , Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro , indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all’ aristocrazia di riacquistare il pieno controllo della società . La base filosofica viene offerta dallo stoicismo moderato di Panezio . Nel de officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani : ciò conferma la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica . I 3 libri di cui il De officiis é composto trattano rispettivamente dell’ honestum , dell’ utile e del conflitto tra di loro . Lo stoicismo di Panezio si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio : le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali . La virtù fondamentale per Panezio era la socialità , cui si affiancava la beneficenza : se alla prima spetta di ” dare a ciascuno il suo ” , la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo . La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani , che , attraverso gli officia e l’ elargizione nei confronti dei concittadini , sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato ; tuttavia per Cicerone la beneficenza può causare seri problemi : può essere strumento di corruzione , infatti , il donare denaro oppure l’ effettuare benefici ingiusti o ancora abbassare le tasse . Perciò l’ Arpinate sottolinea con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali . Alla tipica virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la grandezza d’ animo ; ebbene , Cicerone riprende questa concezione , ma , paradossalmente , a fondamento della magnitudo animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni , come gli onori , la ricchezza , il potere .
TITO LUCREZIO CARO
LA VITA
Della vita di Tito Lucrezio Caro rimane poco o nulla: due righe di san Gerolamo ed un accenno (o forse due) di Cicerone, entrambi ideologicamente avversi alla dottrina epicurea e, perciò, quantomeno da considerare con ponderatezza. Si è solitamente propensi a collocare la sua nascita tra il 98 e il 96 a.C. e la sua morte nel 55. Il silenzio su questo grande poeta e filosofo, che dovette provocare comunque un certo scalpore nella Roma di allora, è tuttavia emblematico della stigmatizzazione che dovette subire il “De rerum natura”, lontano com’era sia dagli allora in voga poetae novi di ispirazione alessandrina, sia dallo stoicismo eclettico di Cicerone, sia dall’esaltazione della politica attiva o della guerra fatta da Catilina e Cesare. Nato nei burrascosi tempi della guerra civile fra Silla e Mario, probabilmente proveniva da Napoli o da Roma (dalla sua opera e dal modo in cui si rivolge all’aristocratico Memmio non si riesce però ancora a capire se fosse anch’egli un aristocratico oppure un liberto) e altrettanto probabilmente trascorse una vita tormentata da forti passioni, come si rileva in molti passi del “De rerum natura”. Va, tuttavia, respinta la teoria di San Girolamo riguardo la presunta follia di L. causata da un filtro d’amore: si pensa infatti che l’accusa sia nata nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa del nostro poeta.
L’EPICUREISMO A ROMA
A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la cultura e il pensiero greco erano penetrati, attentamente filtrati, nel mondo romano. Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del pensiero greco pericolosi per la conservazione dello stato: non a caso Cicerone trovava un elemento di forte contrasto nella dottrina di Epicuro: l’epicureismo era visto come una dottrina che portava alla dissoluzione della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene, distoglieva i cittadini dall’impegno politico per la difesa delle istituzioni. Inoltre l’epicureismo, negando l’intervento divino negli affari umani, portava molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale non poteva più usare la religione come strumento di potere. Poco si conosce riguardo la penetrazione dell’epicureismo nelle classi inferiori della società romana; probabilmente divulgazioni dell’epicureismo circolavano presso la plebe attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi contenuti. Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, Lucrezio scelse la forma del poema epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione nell’agire di Lucrezio: se da un lato condanna la poesia per la sua stretta connessione col mito e per il fatto che può arrecare infelicità agli uomini, dall’altro ne fa uso per divulgare i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da Lucrezio, così alta e grandiosa, per divulgare il suo messaggio si è pensato di dover spiegare anche l’atteggiamento di Cicerone nei suoi confronti: evidentemente Cicerone non poteva accettare gli ideali filosofici epicurei, ma forse è proprio l’eccezionalità della forma poetica che ha spinto Cicerone a non tenere conto di Lucrezio nella sua polemica all’epicureismo.
LA FILOSOFIA DI LUCREZIO
*Religio: Il “De rerum natura” si apre con l’invocazione a Venere, dea dell’amore, unica a poter placare la sete di sangue di Marte, dio della guerra: Lucrezio vive i turbolenti anni della rivolta si Spartaco, della guerra di Gallia e forse anche delle ostilità fra Cesare e Pompeo, e vorrebbe un ritorno alla pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di potere della classe politica romana. La via che Lucrezio trova per affrontare i mali della vita è la dottrina di Epicuro, cantato come simbolo della ratio umana, che fuga i miasmi della religione e della superstizione e prende coscienza dello stato umano. All’inizio del poema Lucrezio invita il lettore a non considerare subito empia la dottrina che egli si accinge ad esporre, e a riflettere su quanto, al contrario, sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (emblema ne è il sacrificio di Ifigenia, la figlia di Agamennone sacrificata dal padre per ingraziarsi gli dèi, o anche l’immolazione del vitellino e la descrizione della madre che lo cerca, disperata): la religione è in grado di sopprimere e condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un seme di paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è più nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. Si vede, quindi, già dai primi versi come Lucrezio offra un nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di una speculazione scientifica per ovviare a questo timore: per lui, dunque, questi timori nascono dall’ignoranza delle leggi meccaniche che governano il mondo. Con parecchi secoli di anticipo su Marx, Lucrezio si accorge che la religione è l’ ‘oppio del popolo’ , e ha portato l’uomo a compiere azioni imperdonabili. L’accesa lotta alla religio è certamente la parte piú eterodossa della filosofia di Lucrezio : Epicuro non aveva cosí marcate tendenze atee, auspicava piuttosto un ritorno ad un culto piú semplice. Lucrezio si scaglia con ardore contro la religione, contro quella meschina invenzione umana che ‘potè suggerire tanto male’ ( tantum potuit suadere malorum ) e che con Epicuro si è trovata ‘ calpestata’ ( religio pedibus subiecta ). I timori degli uomini di fronte alla morte e alla religione sono del tutto vani e analoghi alla paura dei bambini di fronte al buio.
*Natura: Per insegnare agli uomini come la dottrina epicurea possa servire da tetrafarmaco, e combattere cioè la paura per morte, malattia, dolore e dei, Lucrezio inizia la sua descrizione della natura. Tutto ciò che ci circonda è formato da piccolissimi granelli indivisibili, gli atomi, i semina rerum o genitalia corpora come li chiama il poeta per enfatizzare il loro originario ruolo di creazione. Ogni pianta, pietra, uomo è formato da atomi, e cosí persino l’animo umano; ed ogni cosa è destinata a nascere e disfarsi in eterno; solo gli atomi sono immortali e non i loro aggregati. In questo mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano le particelle elementari, c’è comunque spazio per la libertà: all’origine dell’universo c’è una deviazione del moto atomico, un clinamen , che ha dato il via alla formazione delle cose ed al gioco infinito della natura.
*Morte : Dopo aver descritto la natura della materia l’autore invita i suoi lettori (rappresentati da Memmio) ad accettare la morte come qualcosa di ineluttabile e comunque esterna all’uomo: quando noi siamo non c’è morte, quando c’è la morte noi non siamo: invece di preoccuparsi della propria fine l’uomo dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo stupide ambizioni (E tu esiterai, e per di piú t’indignerai di dover morire? Tu cui è morta la vita mentre ancora sei vivo e vedi e consumi nel sonno la parte maggiore del tempo, e pure da sveglio dormi e non smetti di vedere sogni, e hai l’animo tormentato da vane angosce, né riesci a scoprire qual sia cosí spesso il tuo male, mentre ebbro e infelice ti incalzano da ogni parte gli affanni e vaghi oscillando nell’incerto errare della mente – III, vv. 1045-1052).
*Sensi e amore: Il IV quarto tratta dei sensi, della loro veridicità, di come possano essere turbati. I sensi, per Lucrezio, non fanno altro che captare dei flussi atomici particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e la ragione umana, non crollerebbe soltanto tutta la ragione, ma anche la vita stessa rovinerebbe di schianto, se tu non osassi fidare nei sensi (IV, vv. 507-8). Anche stavolta, dopo aver cercato di trasmette l’atarassia epicurea, Lucrezio si allontana dalla calma del suo maestro e descrive con profonda partecipazione quanto piú può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali, a cui dedica i vv. 1026-1287, di cui diamo qualche saggio: Brucia l’intima piaga (l’amore) a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei giorni l’ardore, l’angoscia ti serra, se non confondi l’antico dolore con nuove ferite, e le recenti piaghe errabondo lenisca d’instabili amori, e ad altro tu possa rivolgere i moti dell’animo (vv. 1068-1073); Infatti proprio nel momento del pieno possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l’ardore degli amanti che non sanno di cosa prima godere con gli occhi o con le mani. Premono stretta la creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le mordono a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, perché il piacere non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l’oggetto, qualunque sia, da cui sorgono i germi di quella furia (vv. 1076-1083). Dopo aver condannato l’amore come sofferenza (v.vv. 1068-1074), furore (vv. 1079-1083), amarezza (v. 1134), rimorso (v. 1135), gelosia (vv. 1139 e segg.), cecità (v. 1153), miseria (v. 1159) ed umiliazione (vv. 1177-1179), Lucrezio cambia tono: “È proprio lei che talvolta con l’onesto suo agire, / l’equilibrio dei modi, la nitida eleganza della persona, / ti rende consueta la gioia d’una vita comune. / Nel tempo avvenire l’abitudine concilia l’amore; / ciò che subisce colpi, per quanto lievi ma incessanti, / a lungo andare cede, e infine vacilla”. Appare diverso, teneramente malinconico, più paterno (“E spesso alcuni […] trovarono fuori [di casa] una natura affine, così da poter adornare di prole la loro vecchiaia”, vv. 1254-6). Personalità contrastata fra ratio e furor, Lucrezio, come scrisse Schwob, “conoscendo esattamente la tristezza e l’amore e la morte, continuò a piangere e a desiderare l’amore e a temere la morte”.
*Civiltà e peste: Nel libro seguente il poeta descrive dettagliatamente la formazione del mondo e la nascita della civiltà: I re cominciarono a fondare città e a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a sé stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, dell’ingegno e della bellezza di ognuno (V, vv. 1008-1111), senza però cadere in tentazioni positiviste: con la nascita della civiltà nascono anche l’ambizione e la cupidigia, contro cui Lucrezio si scaglia con forza: Lascia dunque che si affannino invano e sudino sangue coloro che lottano sull’angusto sentiero dell’ambizione, poiché sanno per bocca d’altri e dirigono il loro desiderio ascoltando la fama piuttosto che il proprio sentire; né questo accade e accadrà piú di quanto è accaduto in passato (vv. 1131-1135). Insomma, Lucrezio pone molta attenzione sul progresso dell’uomo e ne delinea gli effetti positivi e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto rilievo il fatto che il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale e il sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto di evitare i desideri innaturali e non necessari, e di badare solo al soddisfacimento di quelli necessari: gli unici requisiti essenziali per essere un uomo veramente felice sono il non provare la fame, la sete e il freddo. Bisogna abbandonare gli sprechi inutili per indirizzarsi verso i piaceri naturali. Anche nel discusso finale dell’opera, la descrizione della tremenda peste di Atene, il poeta si distacca dalla pretesa leggerezza dell’epicureismo, per immergersi completamente nella malattia e nelle morti: probabilmente l’opera non doveva avere questo finale (è comunque appurato che dovesse essere il sesto l’ultimo libro e non moltissimi versi alla chiusura del poema), mancando la descrizione delle sedi degli dei e la spiegazione di come l’epicureismo possa aiutare ad affrontare persino i mali piú oscuri come la peste; il passo rimane comunque emblematico del tormentato animo lucreziano, che in questa descrizione è piú vicino al gusto dell’orrido di stoici come Seneca o Lucano che non al calmo filosofo del Giardino.
*Politica: Seguendo gli insegnamenti del maestro Epicuro (‘vivi al di fuori della sfera politica’), Lucrezio rifiuta la politica e vede in essa una fonte di affanni e di tormenti per l’anima umana. Il saggio deve, inoltre, abbandonare le inutili ricchezze e allontanarsi, poi, dalla vita politica, dedicandosi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, somma ricchezza della vita umana. Lucrezio sottolinea la vacuità e l’inutilità di ogni forma di potere: solo distanti dalla vita politica si può contemplare il mondo serenamente, e guardare tutto e tutti con occhio distaccato, così come è soave guardare dalla terraferma il mare in tempesta e gli uomini che vengono tormentati, compiacendosi dei mali da cui si è indenni.
LO STILE
Se le teorie epicuree vedevano nella poesia un passatempo per allietare l’animo, Lucrezio la considera come il miele che, cosparso sull’orlo del bicchiere, aiuta il bambino a prendere la medicina ( nam veluti pueris abstinthia taetra medentes / cum dare conantur, prius oras pocula circum / contingunt mellis dulci flavoque liquore – lib V vv. 11-13): la sua poesia è scientifica, chiara ( obscura de re tam lucida pango / carmina ), in netta rottura coi vatum terriloquis dictis di molti poeti che l’hanno preceduto (anche se può sembrare strano che la ricerca della chiarezza si accompagni ad un frequente uso di arcaismi e grecismi). Il commento di Cicerone, pensatore notoriamente avverso all’epicureismo, riguardo il “De rerum natura” testimonia che egli ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche le grandi capacità di elaborazione artistica. Anche lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia da trattare, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano sotto questa luce le frequenti ripetizioni che, a una prima vista, potevano sembrare delle semplici imperfezioni stilistiche. Anche l’invito all’attenzione del lettore è ripetuto spesse volte. Non bisogna trascurare inoltre che la lingua latina mancava di alcuni vocaboli tecnici e non era quindi in grado di esprimere certi concetti della filosofia greca, Lucrezio si trovò costretto così a dover inventare nuove perifrasi e nuovi vocaboli: il poeta sfrutta molti vocaboli della poesia arcaica e molti altri ne crea ex novo. Vi è inoltre un uso abbastanza frequente di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici, infiniti passivi in -ier , il prevalere della desinenza bisillabica -ai e l’uso dell’enjambement. Lucrezio dimostra di avere una buona conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese da Omero e Platone e la descrizione della peste di Atene. Il registro del poema è quello dell’entusiasmo poetico posto a servizio della didattica: ne scaturisce uno stile severo, capace di durezze ed eleganze, pronto alla commozione ma anche all’invettiva profetica: comunque sempre grandioso.
CONSIDERAZIONI
Prima del “De rerum natura” la letteratura romana non aveva prodotto opere di poesia didascalica di grande impegno; d’altra parte, Lucrezio si differenzia notevolmente rispetto ai poeti ellenistici in quanto ha come unico scopo quello di descrivere e spiegare ogni aspetto importante della vita dell’uomo e del mondo, di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. La tradizione ellenistica ricerca invece la sua ispirazione negli argomenti tecnici, quasi idealizzanti. La consapevolezza dell’importanza ella materia e delle informazioni date determina un particolare tipo di rapporto tra Lucrezio e il lettore discepolo: questo viene continuamente esortato e minacciato affinché segua con rettitudine i precetti e il percorso di felicità imposti dall’epicureismo. Un’ ulteriore differenza tra la poesia didascalica ellenistica e quella di Lucrezio sta nel fatto che quest’ultimo ricerca le cause dei fenomeni, e propone al lettore una verità, una ratio sulla quale è obbligato ad esprimere un giudizio, mentre la prima si limita a descrivere in maniera empiristica tali fenomeni. Per Lucrezio non vi è nulla di cui meravigliarsi nell’osservazione di questo o quel fenomeno poiché esso è connesso necessariamente con una regola oggettiva: non può trarne stupore chi abbia capito il funzionamento di tale regola. Alla retorica del mirabile egli sostituisce la retorica del necessario ( necesse est è una formula molto usata nel poema di Lucrezio). I toni grandiosi e gli scenari sublimi del poema sono pensati per spronare il lettore a scegliere anch’egli un modello di vita forte e alta: il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi in eroe, a farsi pronto e forte come la poesia che egli legge. Il destinatario ideale di Lucrezio è colui che sa adeguarsi alla forza sublime di un’esperienza sconvolgente: in questo modo la dottrina degli atomi è descritta non solo in sé, ma anche nelle reazioni di vertigine che può provocare nel lettore. Il rapporto docente allievo diventa nel “De rerum natura” un centro di tensione e un tema problematico; basta pensare per contrasto a quanto fosse pacifica la struttura didascalica dei poemi ellenistici. Una delle caratteristiche principali del poema è la rigorosa struttura argomentativa. Lucrezio usa anche il sillogismo. Il libro che testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. Pur avendo dimostrato scientificamente la mortalità dell’anima, Lucrezio si rende conto che ciò non basta per distogliere l’uomo dalla paura di lasciare la propria vita. Al fine di convincerlo Lucrezio, nella parte finale del libro, dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge all’uomo; si tratta di una delle più celebri prosopopee della letteratura latina: ‘ Perchè la morte ti strappa questi gemiti? Perchè se hai potuto godere a tuo piacimento della vita trascorsa,se tutti questi godimenti sono stati come radunati in un vaso forato,se non sono scorsi via e perduti senza profitto, perchè, come un convitato sazio, non ritirarti dalla vita? Perchè, povero sciocco, non prenderti di buona grazia un riposo che nulla turberà? Se, invece, tutto ciò di cui hai a lungo goduto é trascorso in pura perdita, se la vita ti é di peso, perchè volerla prolungare di un tempo che a sua volta deve terminare in una triste fine e dissiparsi tutto senza profitto? Non posso immaginare ormai altre nuove invenzioni per farti piacere: le cose vanno sempre allo stesso modo. ‘ In questo libro è evidente il contatto di Lucrezio con la letteratura diatribica (ossia l’accorgimento di far parlare dei personaggi fittizi di particolare interesse). I critici sono molto confusi riguardo al binomio autore e narratore: benché siano la stessa persona non devono essere sovrapposte meccanicamente. Come visto, un’attenta lettura dell’opera induce a constatare che la tensione dell’autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale. Lucrezio è fortemente contrario alle insensatezze della passione amorosa poiché questa non è certamente un bisogno necessario e deve essere, di conseguenza, esclusa dai piaceri da conseguire. Probabilmente avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoteroi . La volontà di Lucrezio è allora, come già detto, quella di ricercare un indirizzo stilistico elevato che accolga nella sua forma sublime gli elementi della satira e della diatriba.
RIASSUNTO DEL DE RERUM NATURA
La più grande opera di Lucrezio, il “De rerum natura” , fu scritta in esametri e suddivisa in sei libri: probabilmente non fu finita o, in qualsiasi caso, manca di una revisione. Il poema è dedicato a Gaio Memmio, che fu amico e patrono di Catullo e Cinna. San Girolamo asserisce che il “De rerum natura” fu rivisto e pubblicato da Cicerone pochi anni dopo la morte di Lucrezio. La data di composizione non è sicura: probabilmente fu composta nel periodo successivo al 58, anno in cui fu pretore Memmio. Il motivo del poema, come spiega lo stesso Lucrezio, è la diffusione della filosofia epicurea a Roma; un’impresa ardua, tanto più per il fatto che la lingua latina aveva un vocabolario molto ristretto e Lucrezio si trova in difficoltà nel tradurre in latino parole greche centrali nella filosofia di Epicuro e deve ricorrere a perifrasi nuove, quali semina, primordia o corpora prima per designare gli atomi. Ma perché allora Lucrezio, per impartire insegnamenti filosofici, si avvale della poesia? Lucrezio spiega che come i genitori somministrano le medicine ai bambini cospargendole di miele per renderle meno sgradite, così lui intende fare con la filosofia: vuole cioè cospargere col miele delle Muse una dottrina apparentemente amara, che riduce l’esistenza dell’uomo al mondo terreno. Quest’idea, di sfuggita, è ripresa anche da Torquato Tasso in La Gerusalemme liberata , libro I : E che il vero condito in mille versi, / i più schivi allettando ha persuaso . Il poema è chiaramente articolato in tre gruppi di due libri (diadi): Nel I libro, dopo l’inno a Venere, personificazione della forza vivificatrice della natura e immagine della contemplazione razionale della bellezza della natura, sono spiegati i princìpi generali della filosofia epicurea: gli atomi, le parti ultime della materia (indivisibili, immutabili, infinite), muovendosi nel vuoto infinito si aggregano in modi diversi e danno vita a tutte le realtà esistenti; interviene poi la disgregazione. Nascita e morte sono costituite da questo processo di continua aggregazione e disgregazione: a rigor di logica, spiega Lucrezio, nulla muore, nulla nasce e tutto si conserva. Alla fine del I libro Lucrezio fa una carrellata di teorie naturalistiche contrapposte a quella di Epicuro, confutandole una ad una: Eraclito, Empedocle, Anassagora. Nel II libro viene illustrata la teoria del clinamen, la caratteristica più originale di Epicuro rispetto a Democrito e Leucippo: il clinamen, ovvero la deviazione degli atomi dal loro corso, svolge due funzioni importantissime. Se non ci fosse, da un lato, il mondo non si sarebbe potuto formare: esso è infatti dato dallo scontro degli atomi e dalla loro successiva aggregazione, ma se essi cadessero verticalmente nell’infinito non potrebbero mai incontrarsi; con il clinamen, invece, per una qualche legge che sfugge al rigido determinismo, può succedere che qualche atomo si allontani dal suo moto verticale e vada a scontrarsi con altri atomi. La teoria del clinamem, poi, rende possibile il libero arbitrio dell’uomo, il quale è, per Epicuro e per Lucrezio, artefice del proprio destino: l’idea che nel mondo non tutto vada secondo necessità, secondo leggi rigidamente determinate è dimostrato dal fatto che gli atomi subiscano il clinamen (deviazione) e si scontrino, dando origine al mondo; viene così garantito un margine di libertà all’agire umano. Il III e IV libro costituiscono la seconda coppia che espone l’antropologia epicurea: il III spiega come l’anima e il corpo siano entrambi costituiti da atomi e, pettanto, entrambi destinati a morire. Tuttavia si tratta di atomi diversi: quelli dell’anima sono più leggeri e lisci. Il IV libro tratta la gnoseologia epicurea: entra in gioco la teoria dei simulacra , teoria secondo la quale alcuni atomi si staccano dall’ oggetto conosciuto per colpire i sensi del soggetto conoscente. I simulacra , tra l’altro, servono anche per spiegare le immagini che vediamo nei sogni e sono anche all’origine della reazione dei dormienti di fronte all’immagine degli oggetti del loro desiderio. Lucrezio dà anche una celebre spiegazione della passione d’amore, spiegando come essa altro non sia che un’attrazione fisica, meramente materiale. La terza coppia di libri prende in esame la cosmologia: il libro V espone la mortalità del mondo (uno degli infiniti tra i mondi esistenti), analizzandone il processo di formazione. Lucrezio tratta anche, in questo libro, del moto degli astri e delle sue cause. Il VI libro, invece, si sforza di dare spiegazioni assolutamente naturali dei vari fenomeni fisici (i fulmini, i terremoti, ecc), estromettendone la volontà divina, che non influisce minimamente negli affari degli uomini. Sulla descrizione dei vari eventi catastrofici si innesta la descrizione della terribile peste scatenatasi ad Atene nel 430 e già narrata splendidamente da Tucidide, con la quale l’opera si chiude bruscamente. Ogni coppia si chiude con un quadro impressionante di dissoluzione. All’attacco di ogni libro, invece, c’è una celebrazione di Epicuro ( ille deus fuit ripete Lucrezio), del suo coraggio intellettuale e del suo ruolo storico (e qui Lucrezio evidentemente intende il riferimento anche come rivolto a se stesso). Come detto, il “De rerum natura” probabilmente non ha ricevuto un’ultima revisione: il poema avrebbe dovuto chiudersi con una nota serena, in corrispondenza con il gioioso inno a Venere, e non con il terrificante quadro della peste di Atene.
MANILIO
Figura enigmaticamente avvolta da un alone di mistero,
"E come è suddiviso il popolo nelle grandi città, ove i senatori occupano il posto più elevato e il più vicino a questo i cavalieri, e tu potresti vedere i cittadini seguire i cavalieri e il volgo senza qualità i cittadini e poi la folla senza nome, così anche nell’universo c’è una forma di stato fatta dalla natura, che ha creato nel cielo una città".
Come nella città umana sussiste una gerarchia fissata dal destino e, in forza di ciò, tale da non poter essere rovesciata, così nella città celeste tutto è disciplinato da un ordine mai sovvertibile. Rivelandoci questo splendido ordine celeste, Manilio ci sta invitando a non peccare di presunzione e di stoltezza, ossia a non cercare di voler piegare il mondo al nostro volere, ma, piuttosto, a piegare il nostro volere alla ratio del cosmo. L’accettazione della realtà nella sua datiti è tema tipicamente stoico, presente tanto in Crisippo e Zenone quanto nei nuovi eroi della Stoà (Panezio e Posidonio), dai quali Manilio trae l’ispirazione. Proprio Posidonio di Apamea aveva rivalutato l’astronomia e, soprattutto, l’astrologia, fondando la validità delle sue predizioni sulla teoria stoica della sumpaqhia universale, cioè dello stretto legame che unisce l’uomo e l’universo, costituenti un unico organismo animato da un soffio vitale (pneuma) che permea di sé ogni singola parte e la collega con tutte le altre in una struttura compatta e inscindibile, ordinata secondo un disegno razionale e provvidenziale che l’uomo, grazie alla propria ragione (che è una scheggia della ragione cosmica) può studiare e conoscere. Già con Lucrezio la filosofia aveva trovato la propria espressione poetica più adeguata nei versi della poesia: anche Manilio segue tale strada, ma il messaggio di cui egli è alfiere non è più quello epicureo (veicolato da Lucrezio), bensì quello stoico, che, per sua stessa natura, era assai propenso ad accettare tanto l’astronomia quanto l’astrologia e la divinazione, ossia la predizione del futuro in base all’interpretazione dei segni che in vari modi la divinità invia agli uomini. Come Cicerone, come Germanico e, in generale, come tutto il pensiero latino, anche Manilio prende spunto dai Fenomeni di Arato di Soli, il grande poema didascalico di età ellenistica, benché egli non si stanchi mai di rivendicare la propria autonomia e, soprattutto, la propria originalità:
"racconterò una mia storia, senza nulla dovere a nessun poeta che mi ha preceduto; su un carro solitario solcherò il cielo, con una barca tutta mia fenderò le onde" (libro II, proemio)
E in effetti Arato si era in certa misura – a partire dal titolo stesso,fainomena, ossia "le cose quali appaiono" – limitato a render conto delle apparenze, non già della profonda struttura del reale ad esse soggiacente: dal canto suo, Manilio accampa il ben più ambizioso progetto di render ragione di come proceda il mondo, disgelandone i segreti più intimi. Sicchè, nelle stesse pagine, convivono raffinatissime descrizioni scientifiche (la sfericità della Terra, la durata di sei mesi del giorno e della notte al Polo) con una cieca fede nell’influsso degli astri sulla vita umana (ciò resta vero ancora in Keplero). Il cielo di Manilio, pertanto, è retto da una mirabilis ratio, da una necessità che l’uomo, pur non potendo mutare, può ciò non di meno comprendere:
"nulla vi è di più mirabile, nell’immensità dell’universo, del fatto stesso che tutto debba obbedire a leggi immutabili".
I nomi stessi degli astri non sono, secondo Manilio, dettati dal caso, ma piuttosto dalla lunga esperienza degli astronomi che ne riconobbero l’eterna natura fissandola nei nomi e nelle storie del mito. Il cielo stellato diventa così l’immensa pagina di una narrazione di miti, legati l’uno all’altro dai vincoli parimenti potenti della matematica e della genealogia. Le parti del cielo si reggono e si influenzano l’una con l’altra, e lo si può mostrare altrettanto bene calcolandone la disposizione nella sfera celeste o raccontandone i miti; inoltre la sfera celeste avvolge e condiziona la sfera terrestre: perciò il libro quarto contiene un’ampia sezione corografica, in cui le sezioni della Terra sono una per una ripercorse e poste sotto l’influenza delle loro stelle e dei loro miti. Per questo motivo sono richiamati anche gli eventi e i personaggi della storia umana, anch’essi fatalmente soggetti alle regole immutabili dettate dagli astri e, in questa cornice, Manilio si mette alla prova in una moltitudine di microdrammi, comprimendo in sei versi la gloria e la morte di Pompeo, in cinque il mito di Salmoneo, il re che sfidò Zeus violando i confini fra terra e cielo; e poi Manilio incastona nel suo poema un vero e proprio poema minore, la storia di Andromeda, che occupa ottanta versi del quanto libro. L’autore è pienamente consapevole dell’operato dei poeti che l’hanno preceduto: Omero cantò Troia, Esiodo le genealogie degli dei e il lavoro agreste, altri scrissero sulle costellazioni, "ma per essi nulla è se non favola il cielo, quasi lo avesse fabbricato la terra, che invece tutta ne dipende" (libro II); Teocrito cantò i pastori, altri gli uccelli, la caccia di belve, le serpi perniciose, le erbe e le piante, o l’oltretomba. Tutto è già stato cantato:
"io invece cercherò un vergine prato cosparso d’intatta rugiada, una sorgente che sgorghi in una grotta inesplorata, che neanche Apollo abbia ancora gustato".
Quella di Manilio viene allora a configurarsi come una scoperta sensazionale: la commistione di ammaestramenti filosofici inerenti la struttura dei cieli e versi poetici. E la scienza del cielo rivela all’uomo il proprio destino, perché ormai "conosciamo abbastanza la natura, possiamo penetrarvi fino in fondo, impadronirci del cielo che ci dà la vita, muoverci fra gli astri, noi che dagli astri fummo originati". Tale professione di fede spiega perché Manilio possa parlare di stelle con tanta passione poetica: penetrandone la natura, l’uomo soggiogato dal destino ridiviene padrone di se stesso, non già perché possa mutare la fortuna, bensì in quanto può conoscerla. Spetta all’uomo (e a lui soltanto) disgelare i serrami della natura celeste e della ragione cosmica, giacché solamente l’uomo partecipa massimamente di tale ragione (questo passo piacque molto a Goethe):
"Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo,
e trovare Dio, se non chi partecipa della divinità?
E questa vastità della volta che si estende senza fine,
e le danze degli astri e i fiammeggianti tetti del cielo,
e l’eterno conflitto dei pianeti contrapposti alle stelle,
chi potrebbe discernere e racchiudere nell’angusto petto,
se la natura non avesse dato alla mente occhi così potenti
e non avesse rivolto a sé un’intelligenza ad essa affine,
e non avesse ispirato un compito così alto, e non venisse dal cielo
ciò che ci chiama al cielo, per partecipare ai sacri riti?"
(II, 115-125)
Proprio la conoscenza delle leggi naturali deve secondo Manilio condurre all’accettazione del destino assegnatoci: sicchè egli, nel proemio del libro IV, esorta gli uomini con un’apostrofe solenne:
"Liberate i vostri animi, o mortali, alleviate gli affanni,
svuotate la vita di tanti, inutili lamenti. I fati reggono il mondo, tutto è determinato da leggi precise,
e le lunghe età sono segnate da vicende prestabilite.
Nascendo moriamo [nascentes morimur] e la fine dipende dall’inizio".
(IV, 12-16)
LUCIO ANNEO SENECA
La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l’imperatore e l’aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sè la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l’abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell’individuo, il ritiro dalla vita politica o l’impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l’opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre – celebre retore – e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall’imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchè alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all’ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che
la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. L’intera produzione di tragedie di Seneca è del resto – secondo Alfonso Traina – direzionata a impartire consigli a Nerone. La clemenza é agli antipodi dell’ira – la malattia del tiranno – , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira : se vogliamo avere la meglio sull’ira, non deve essere lei ad avere la meglio su di noi. Cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all’esterno ; infatti – dice Seneca – se le consentiamo di fuoriuscire, essa ci domina: dobbiamo dunque nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto, essa va trascinata perchè non ci trascini; bisogna combattere tutti i suoi indizi e le sue manifestazioni: é opportuno raddolcire la voce , allentare il passo, contenere il volto e a poco a poco l’interno si conformerà all’esterno: exemplum di questo atteggiamento è Socrate, il quale, quando era adirato, era solito "submittere vocem".Pugna tecum ipse, si vis vincere iram, non potest te illa. Incipis vincere, si absconditur, si illi exitus non datur. Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. Cum magna id nostra molestia fiet, cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem, sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: vultus remittatur, vox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. In Socrate irae signum erat vocem summittere, loqui parcius; apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae ingrata. Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. Quanto magis hoc nobis faciendum est! De ira, III)
Perfino Platone, preso da ira verso un suo schiavo, affidò ad un altro il compito di picchiarlo perché lui stesso l’avrebbe picchiato più del giusto. Con il suo trattato sull’ira, Seneca prende le distanze dalle posizioni peripatetiche, propense a dar libero sfogo all’ira e non a contenerla. Il filosofo consigliere può contribuire alla formazione nel principe di quell’autodominio, che é garanzia del corretto dominio sugli altri. La monarchia é la forma naturale di costituzione: come il cosmo é tenuto insieme – secondo una tesi tipicamente stoica – da un soffio vitale, da una mente divina che lo pervade, così il corpo dell’impero é tenuto saldamente in piedi dal principe. La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l’uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l’alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l’esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un’esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il
suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio: "non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perchè vivere non é un bene, ma é un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce , non della sua durata: se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità , esce dal carcere … Quel che importa non é morire più presto o più tardi, ma importa morire bene o male, ma morire bene é fuggire il pericolo di vivere male" (Epistole a Lucilio, 70 ). Una teoria sul suicidio, evidentemente, presuppone una teoria sul valore della vita, perchè quello é negazione o almeno rinuncia di questa. Che cosa é la vita per un uomo saggio? "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur" (vive colui che é di utilità a molti , vive colui che può usare se stesso) : per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole, bisogna poter disporre di sè, della parte migliore di sè, cioè della propria ragione. Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto. In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere. Anche per Seneca, costretto all’impotenza politica, la filosofia diventa – come già per Cicerone – la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall’estensione nel tempo dell’efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E’ in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti , in particolare alcuni dialoghi De otio, De tranquillitate animi, De providentia e soprattutto le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchè sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo in nuce l’intero pensiero senecano. Ridiventando filosofo, Seneca trova davanti a sè la natura da contemplare nelle sue manifestazioni e nel suo ordine; all’ indagine sulle cause dei fenomeni metereologici egli dedica le Questioni naturali, in sette libri . Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità: in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l’errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa: "siamo tutti schiavi del destino: qualcuno é legato con una lunga catena d’oro, altri con una catena corta e di vile metallo. Ma che importanza ha? La medesima prigione rinchiude tutti e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri … Tutta la vita é una schiavitù. Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione, lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire" (De tranquillitate animi). Se – stoicamente – il destino è signore delle cose, allora non ha senso opporvisi: siamo come cani legati ad un carro, e la cosa più saggia che possiam fare è accettare liberamente di farci tirare da esso; proprio degli stolti è invece opporsi, con la conseguenza che si è ugualmente trascinati ma ci si fa male. Questa riflessione maturata nello stoicismo antico è da Seneca compendiata – Epistulae ad Lucilium, 107 – nella sententia "il fato guida chi è consenziente, trascina chi si oppone" ("ducunt fata volentem, nolentem trahunt"). Il dominio dei valori si trova così spostato dall’esterno all’interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose. L’ interiorità, a cui fa appello Seneca, é il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che é esterno per la salvaguardia della propria libertà: ed è per questo che il pensatore spagnolo ci invita (De ira, III, 36) alla sera, quando la nostra giornata volge al termine, a fare un redde rationem, una ricognizione fra i sentieri del proprio animo per sincerarsi che quella trascorsa sia stata una giornata bene impiegata. La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini, ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico, poichè questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo, che, consegnato dalla sorte a un padrone, non può mutare il suo stato perchè con la sorte non si interferisce: anche il padrone è schiavo del fato. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l’assoggettamento al vizio. Sulla tematica della schiavitù Seneca si sofferma diffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Felice che Lucilio accetti benevolmente la presenza degli schiavi, Seneca ne approfitta per dissertare sulla loro condizione, asserendo: “Sono schiavi.” No, sono uomini. “Sono schiavi”. No, vivono nella tua stessa casa. “Sono schiavi”. No, umili amici. “Sono schiavi.” No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li percuote in continuazione e chi impedisce loro di parlare (pena severissime punizioni) lo fa solo in forza di una sciocca consuetudine antiquata: "così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura". Tanto più che la sorte – incontrastata signora delle vicende umane – può improvvisamente stravolgere la condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi: "considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo". Del resto, la stessa Ecuba, lo stesso Platone e perfino Creso vennero fatti schiavi quand’erano già in età avanzata: che cosa ci vieta allora di pensare che sorte analoga possa toccare anche a noi? Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare con noi e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni, poiché "della propria condotta ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo diventino". Del resto – nota acutamente Seneca – chi non è schiavo? “È uno schiavo.” Ma forse è libero nell’animo. “È uno schiavo.” E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c’è chi è schiavo della lussuria, chi dell’avidità, chi dell’ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un’ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria. Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù: nel De beneficiis – un’opera in cui Seneca mette in luce come il vero beneficio sia quello fatto in maniera disinteressata e non per averne un tornaconto – egli scrive: "nulli preclusa est virtus, omnibus patet, omnes admittit, omnes invitat ingenuos, libertinos, servos, reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est" (De beneficiis, III, 18, 4). Se è vero che la via della virtù non è preclusa a nessuno, è altrettanto vero che solo il saggio stoico può percorrere realmente tale via fino in fondo: è questa a tesi che affiora nel De costantia sapientis; ma il vero saggio stoico è più un ideale a cui mirare che non un uomo esistente: è talmente raro – dice Seneca, Epistola 42 – da essere paragonabile alla fenice, che nasce una volta ogni cinquecento anni. Discorso analogo a quello sulla schiavitù può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato "indifferenti": per esempio, nei confronti delle ricchezze, Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole. Il modello militare di virtù e l’etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli, proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica, si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma . "Senza un avversario la virtù marcisce", dice Seneca. Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà, che ha il suo modello nell’autosufficienza (autarkeia) del sapiente. La costruzione e l’affermazione di sé, attraverso il combattimento, é dunque una vicenda interna all’anima. Il ritiro in se stessi , nel seno protettivo della filosofia, é anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia, come quella dei cinici, stravaganti anche nell’aspetto e nel comportamento esteriori. Seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente (laqe biwsaV): questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo é abbastanza eccezionale nell’antichità: Cicerone si era sì rivelato un eclettico aperto ad ogni filosofia, ma nei riguardi dell’epicureismo aveva palesato un atteggiamento di netta chiusura. Seneca invece nota con occhio critico come epicurei e stoici non siano così diversi, tant’è che l’obiettivo ultimo che si propongono è di ordine etio. La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre é un richiamo al modo di filosofare epicureo (nonché platonico). Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione: una massima utile, infatti, anche se enunciata da Epicuro, é proprietà comune. Come egli scrive (Lettere a Lucilio, 2), "soleo et in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator" ("sono anche solito passare agli accampamenti altrui, non come disertore, ma piuttosto come esploratore"), giacchè anche le altre filosofie hanno qualcosa da insegnarci. Seneca, che pure si professa stoico, rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola. I filosofi del passato, egli sostiene, "non sono i nostri padroni , ma le nostre guide", giacchè "chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo". La metafora a cui ricorre Seneca per tratteggiare il proprio eclettismo, contrario ad ogni dogmatismo, è quella dell’ape (Epistole a Lucilio, 84), la quale, errando qua e là, sceglie i fiori adatti al miele, evitando quelli inadatti; dobbiamo ingerire il pensiero altrui come il cibo che, una volta assunto, viene digerito, rielaborato e fatto nostro: "e se anche nella tua opera trasparirà l’autore che ammiri, e che è impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto è una cosa morta". Per questo motivo è di fondamentale importanza dedicarsi attivamente alla lettura dei libri – spiega Seneca nell’Epistola 2 -, scegliendone pochi ma buoni: sbaglia infatti chi passa in continuazione da un libro all’altro, senza fermarsi mai, poiché "nusquam est qui ubique est" ("non è da nessuna parte chi è dappertutto"): come chi viaggia di continuo ha ospiti ma non veri amici e come chi ingerisci troppi cibi non si nutre ma si intossica, così chi salta continuamente da un libro all’altro nuoce a se stesso: "nihil tam utile est, ut in transitu prosit". L’uomo è per Seneca – sulla scia di Aristotele – un animale congenitamente socievole ("hominem sociale animal communi bono genitum videri volumus", De clementia, I, 3, 2): siamo tutti membra di uno stesso corpo, tutti per natura vincolati da un rapporto di reciproco sostegno, così come le pietre che costituiscono una volta (Epistole a Lucilio, 95), pronta a cadere se esse non si sorreggessero a vicenda. Buona parte dell’opera di Seneca è poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così è per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata; questo punto è da Seneca compendiato (De brevitate vitae) nella scintillante sententia "vita longa est, si uti scias" ("la vita è lunga, se sai farne uso") Il guaio è che molti uomini si perdono in futili attività, sprecando in tal modo il loro tempo; ed è a tal proposito che Seneca fa (nel De brevitate vitae) un affresco di quelli che lui chiama gli "occupati", e che noi potremmo definire "i perdigiorno", coloro cioè che, immersi in attività del tutto inutili, non si accorgono che la loro vita sta scorrendo via. "La vita non è breve, ma tale la rendiamo noi", sprecando il nostro tempo in futili attività, senza accorgerci che "mentre si attende di vivere, la vita passa":"comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire" (Epistole a Lucilio, 1). E il miglior modo per impiegare la propria vita è per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica, secondo gli insegnamenti stoici: così, nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa, invitando chi si è accorto che nella politica è impossibile esercitare la virtù e la filosofia a distaccarsene (dando quindi ragione ad Attenodoro), proprio come era accaduto a Seneca stesso nei suoi travagliati rapporti con Nerone. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica (il LogoV), che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perchè, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di un’immensa fortuna nel pensiero successivo.
RIASSUNTO DELLE OPERE
Ben poche fra le opere senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo, la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile dell’uomo. Molte opere filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di “Dialoghi” su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali, confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto è dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari di etica, in un quadro generale ch’è quello essenzialmente di un eclettismo di propensione stoica (scuola di mezzo”):
”
De providentia ” (62 d.C.?): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell’ordine cosmico, accettandolo serenamente.”
De brevitate vitae “: vi sono trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità della vita: la condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo afferrare l’essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni futili.”
De ira libri III ” (41 d.C.?): sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle: si tu vis vincere iram, non potest te illa , questo è il tema portante. Se per i Peripatetici era giusto che si potesse sfogare l’ira in manifestazioni esterne, per Seneca è l’esatto contrario: l’ira va trattenuta, va vinta, affinchè non sia essa a vincerci. Bisogna trascinarla dentro, affinchè non sia lei a trascinarci; è opportuno tenere nascoste le sue manifestazioni ( obruamus signa illius ).”
De clementia ” : l’opera è stata composta all’incirca tra il 55 e il 56 e rappresenta la più chiara espressione della concezione senecana del potere. Il testo è opportunamente dedicato all’imperatore Nerone come traccia di un ideale programma politico ispirato ad equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, nè le forme ormai palesemente monarchiche che esso ha assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l’impero. Il problema, piuttosto, è di avere un buon sovrano: l’unico freno del sovrano, essendo il potere assoluto, sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà tratteenere dal governare in modo tirannico. L’ideale senecano di clemenza è una misurata commistione di indulgenza e moderazione.”
De costantia sapientis “, ” De tranquillitate animi ” (62 d.C.?): in questa trilogia, dedicata all’amico Sereno, Seneca cerca una mediazione tra l’otium contemplativo e l’impegno del civis romano, suggerendo una posizione intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento dell’intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche, ma la scelta di una vita totalmente appartata può essere resa necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa. E Seneca polemizza con un pensatore stoico (Attenodoro), sostenendo che il filosofo stoico non deve allontanarsi dalla politica (come voleva Attenodoro, sulla scia di Epicuro).”
De otio ” (62 d.C. ?): in quest’opera vi è un ribaltamento delle posizioni senecane: il vero filosofo stoico deve stare lontano dalla politica e dedicarsi interamente alla vita contemplativa. Chi opera politicamente si accorge di non potere esercitare la virtus, come si era accorto attenodoro, e come ora si accorge Seneca, in seguito alla rottura dei rapporti con Nerone.In effetti, più specificamente, questo è il tema del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l’imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune è l’obiettivo da seguire: quello, cioè, della serenità d’animo capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e con la parola. Sempre di filosofia trattano:
”
De beneficiis ” (7 libri): dedicati all’amico Ebuzio Liberale, in essi si parla della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di Nerone). In pratica, quest’opera è un appello ai doveri della filantropia e della liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del progetto di una monarchia illuminata. Il beneficio, per Seneca, è un atto in sè, non finalizzato ad avere un tornaconto.Tra i dialogi abbiamo due lettere (
ad Helviam matrem e ad Polybium , un liberto di Claudio) basate sul genere della consolazione, ripreso dall’antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla precarietà della vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera a Polibio si rivela un tentativo di adulare l’imperatore, e per questo S. viene accusato anche di opportunismo.Quindi abbiamo: 124 ”
Epistulae morales ad Lucilium ” (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione diatribica. L’opera ci è giunta incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico (62). Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a S. da Platone e da Epicuro: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che S. è convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un’unione con l’amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica), fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella dell’autore, priva di sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici (si dice, di questa forma, “parenetica”). Col tono pacato di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia, e attraverso un vero e proprio colloquium, S. propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’ozio a valore supremo: un ozio che non è inerzia, ma alacre ricerca del bene. La progressività del processo di formazione, così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole lettere, man mano che l’epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato filosofico.Di carattere scientifico sono i 7 libri delle ”
Naturales quaestiones “, dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali Seneca analizza i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete. L’interesse dell’autore per le scienze – ritenute parte integrante della filosofia – non è “gratuito”, ma è legato ad una profonda istanza morale, comune all’epicureismo: quella di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori. Seneca celebra, tra l’altro, il valore etico del progresso scientifico, ma è contrario all’uso della scienza per fini esecrabili: ad esempio, è contrario all’uso illegittimo degli specchi o alla barbara usanza romana di intavolare i pesci ancora vivi.Ci sono poi: 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento (mitologico) greco:
Hercules furens , Troades , Phoenissae , Medea , Phaedra , Oedipus , Agamemnon , Thyestes , Hercules Oetus . Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia, sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria, e inoltre sono molto importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico: esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell’espressionismo verbale, della “tragedia retorica”. Tuttavia, appunto la scarsità di notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non è da escludere l’ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla lettura in pubblico, in cui quindi l’azione drammatica è sostituita dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è la psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico. Quelle ritenute autentiche sono, come detto, nove cothurnatae: sul modello dell’autore greco Euripide abbiamo, ad es., le Phoenissae , che narra del tragico destino di Èdipo e dell’odio che divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di Èdipo è presente anche nell’ Oedipus : causa inconsapevole dell’uccisione del padre, alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra della vendetta di Átreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Tuttavia, il rapporto con i modelli greci è abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità di una ferrea autonomia, dall’altra ha sempre in mente i modelli greci. Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia augustea, dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi nella tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul filone delle tragedie di età giulio-claudia è infine evidente la generalizzata ispirazione antitirannica. Le tragedie sono sempre alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell’autore, i cui tratti fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le vicende si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti, soprattutto all’interno dell’animo, nell’opposizione tra mens bona e furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi più che altro come substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben presenti le esigenze letterarie del tempo, sia perché nella tragedia di Seneca il logos si rivela incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono perciò toni cupi e atroci, scenarî d’orrori e di forze maligne, in una lotta tra il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all’interno della psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del tiranno sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il male, tormentato com’è dalla paura e dall’angoscia, nel suo eterno problema del potere. A parte va considerata l’ Octavia , una commedia praetexta (cioè di argomento romano, e l’unica rimastaci della letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro come protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla tradizione manoscritta, data l’affinità stilistica con le precedenti tragedie. l’ ” Apokolokýntosis ” o “Ludus de morte Claudii”, una satira menippea sull’apoteosi dell’imperatore: Il componimento narra appunto la morte di Claudio e la sua ascesa all’Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce schiavo del nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso toni parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (è la tipica opposizione stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre con gioia viene salutato l’avvento al potere di Nerone. Apokolokýntosis è il titolo greco dell’opera e significherebbe “deificazione di una zucca”, con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto Claudio. Un’opera simile contrasta però con la laudatio funebris dell’imperatore morte presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua autenticità. Si attribuisce infine a S. una raccolta di circa 70 epigrammi, di cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa è, invece, la corrispondenza con San Paolo.EPITTETO
Epitteto (50 – 125 circa d.C.) è – insieme con Seneca e con Marco Aurelio – il massimo esponente della cosiddetta "Nuova Stoà", ovvero dell’ultima grande fase che la scuola stoica conobbe dopo la sua fondazione (la "Stoà antica" di Zenone di Cizio e Crisippo di Soli) e dopo la sua fase intermedia (la cosiddetta "media Stoà" di Panezio di Rodi e di Posidonio di Apamea). Epitteto nacque a Ierapoli, in Frigia; dapprima schiavo, gli fu poi concessa dal padrone la libertà e in seguito, espulso da Roma sotto Domiziano, si ritirò a Nicopoli in Egitto, dove aprì una propria scuola filosofica. Tra i frequentatori di essa ci fu Arriano di Nicomedia, che all’inizio del secondo secolo d.C. trascrisse dalla viva voce del maestro le lezioni e le conversazioni in un’opera intitolata Diatribe. Nella composizione di quest’opera, Arriano assunse a modello i Memorabili di
MARCO AURELIO
“La durata della vita umana non è che un punto e la sostanza è un flusso, e nebulose ne sono le percezioni, e la composizione del corpo è corruttibile, e l’anima è un turbine, e la fortuna imperscrutabile, e la fama cosa insensata … E dunque, cosa c’è che possa guidare un uomo? Una cosa e solo una, la filosofia”.
MARCO AURELIO
Alcuni anni dopo la morte di Epitteto di Ierapoli (135 d.C. circa), lo stoicismo ha un ultimo sussulto di vita in un personaggio che si trova all’ estremo opposto della scala sociale (il che testimonia come per gli Stoici non conti il ceto di appartenenza), l’ imperatore Marco Aurelio, un vero e proprio filosofo sul trono. Nato a Roma nel 121 d.C., allievo dapprima del retore Frontone che tentò invano di tenerlo lontano dalla filosofia, Marco Aurelio fu imperatore dal 161 al 180, quando morì combattendo i Marcomanni e i Quadi presso Vienna. Apollonio (il grande maestro venuto da Bisanzio a Roma per educarlo e formarlo alla filosofia) gli trasmette i principi essenziali dello stoicismo: lo spirito di indipendenza guidato dalla ragione, l’abitudine all’impassibilità. Ed anche gli insegnamenti di Tiberio Claudio Massimo, uomo di Stato e filosofo, vengono alle volte distorti dalla contraddittorietà e dalla mancanza di una decisa personalità di base che segna Marco Aurelio. Con Claudio Massimo, il futuro imperatore apprende le virtù fondamentali dello stoico: il senso del dovere e il coraggio in ogni momento della propria vita; la capacita di assolvere i propri compiti a qualsiasi costo; l’autocontrollo, cioè l’assenza di stupori o turbamenti, di boria e ipocrisia; infine, e soprattutto, la clemenza. Certo il giovane Marco vivrà nel pensiero stoico con una parte del proprio intelletto. Ma é anche vero che non riuscirà mai a sentire pienamente e con slancio la dottrina nella quale vede lo strumento per raggiungere l’adiaforia (ossia l’indifferente serenitá nei confronti del reale, l’accettazione razionale dell’accadimento universale di cui facciamo parte) e sfuggire alle angosce che nascono dall’evidente conflitto fra i suoi naturali istinti e la filosofia che vuole interiorizzare. Egli é autore di un’ opera fatta di brevi pensieri, diretti a se stesso, scritta in greco e intitolata A se stesso (Ta eiV eauton). Dalla lettura critica dell’opera e dalla storia della vita personale e politica di questo imperatore “saggio e illuminato” esce il ritratto di un uomo pieno di tormenti cui non é realmente congeniale la logica stoica, come dimostra il fatto che egli la insegue senza riuscire ad afferrarla, se non per qualche attimo e con le mani incerte dell’uomo reso debole dalla mancanza di una netta, precisa, irrinunciabile visione interiore. Per un imperatore la distinzione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi é molto meno drammatica che per l’ex schiavo Epitteto o per i senatori in conflitto con un potere che li sovrasta. Per l’imperatore, il termine di riferimento verso l’alto diventa il cosmo intero nella sua eterna vicenda, di fronte al quale il piccolo mondo umano appare inconsistente e futile. Da un autore che gli é caro – Eraclito di Efeso – Marco Aurelio attinge una concezione del mondo come perenne fluire. L’arroganza umana nasce, a suo avviso, dalla presunzione di essere immortali: il risultato é un radicale ridimensionamento di sè e del mondo circostante. Per l’imperatore, l’ altro non é più una sorgente potenziale di minacce di asservimento, viceversa, é l’altro che dipende dall’imperatore e pertanto é da sopportare, non da combattere. Non di rado Marco Aurelio lascia affiorare il senso di solitudine che l’ imperatore avverte nella sua corte: egli dice a proposito che “nessuno é così favorito da non avere accanto a sè, al momento della morte, qualcuno che gioisca del triste evento”. Egli sa di poter trovare nella corte non amicizia, ma soltanto dissimulazione e, di fronte a questa triste constatazione , egli può evitare di isolarsi completamente grazie all’ insegnamento stoico, secondo cui ciascuno é parte di quella totalità organica che é l’universo: nell’ordinamento cosmico ognuno ha un posto assegnato, con doveri specifici. Per Marco Aurelio é quello di romano e di imperatore, ma ciò non significa “sperare nella repubblica di Platone”, ossia in un capovolgimento radicale dello stesso ordinamento politico. Il vero punto di raccordo con l’universalità cosmica é ritrovato nel proprio interno, nella consapevolezza di farne parte. All’io ipertrofico e trionfalistico dell’ antico sapiente stoico, Marco Aurelio oppone l’io infinitamente piccolo, che con la morte torna a integrarsi, anche fisicamente, nella totalità. E tuttavia possiamo vedere nella figura di Marco Aurelio, in un certo senso, il raggiungimento del sistema politico auspicato da Platone, il quale asseriva (Lettera VII) che ci sarebbe stato un buon governo solo quando i filosofi fossero diventati re o i re fossero diventati filosofi. E quello di Marco Aurelio, in effetti, fu un buon governo. Egli è un imperatore onnipotente, ma non riesce a superare gli ostacoli che nella società impediscono la realizzazione della sua filosofia. Nella personale rilettura dello stoicismo, che dalla fondazione in poi ha subito tre revisioni, Marco Aurelio non porta una rielaborazione originale, non fa una rivisitazione anche in chiave politica, rivisitazione che sarebbe stata necessaria in presenza della sempre più impetuosa diffusione del cristianesimo e della progressiva consunzione dei valori sociali, dell’economia e della potenza di Roma. Egli annota: “io sono nato per governarli, come il toro la mandria, l’ariete il gregge. E’ la natura che regge l’universo e, se questo é vero, gli esseri inferiori sono nati per i superiori e viceversa” (A se stesso XI, 18). La sua filosofia resta confinata fra i fogli di pergamena, una lancia non scagliata: “Se l’intelligenza é comune agli uomini, pure la ragione, che ci rende ragionevoli, è a tutti comune. Se questo risponde a verità é comune anche la ragione che ordina ciò che si deve e non si deve fare. Esiste perciò una legge comune, perciò siamo tutti cittadini e perciò partecipiamo tutti a una specie di governo, quindi il mondo é simile a una città… ” (A se stesso IV, 4). Ricorre spesso nella mente di Marco Aurelio il pensiero della morte. Ma questi pensieri, anche se qualche volta apparentemente staccati, sereni, hanno venature di paura, presentano le caratteristiche tipiche di una patologica insicurezza che potrebbe aver radice nella morte prematura del padre e nella conseguente infanzia ricca ma trascorsa con una madre severissima e con precettori che già a dodici anni lo costringono allo studio della filosofia violando i tempi di maturazione della sua identità. Il dubbio lo tormenta, lo attanaglia l’horror vacui dell’ignoto “dopo”. E gioca sul filo dell’illusione, travolto dall’emotività che l’insegnamento di Apollonio non ha sradicato: “lasciare il mondo degli uomini, se gli dei esistono, non è affatto motivo di terrore: certo non ti getterebbero nella sventura. Ma se gli dei non esistono, o non si occupano delle umane cose, perché vivere, in un mondo deserto di dei o vuoto di Provvidenza? Ma invece esistono, e si occupano delle umane cose, e perché l’uomo non cada in quelli che sono i veri mali, su di lui tutto hanno concentrato” (A se stesso II, 11). L’iter di questo pensiero é sicurezza-dubbio-sicurezza. Nell’annotazione seguente il dubbio prevale, dissimulato appena da un velo di sarcasmo: “dopo aver curato tanti mali Ippocrate cadde malato a sua volta e morì. Alessandro, Pompeo, Gaio Cesare, che pure tante volte rasero al suolo intere città e fecero a pezzi in battaglia schiere intere di decine di migliaia di fanti e cavalieri, infine anch’essi lasciarono la vita. Dopo tanti studi finali sulla conflagrazione del mondo Eraclito, il corpo gonfio per l’idropisia e la pelle spalmata di sterco, morì. Democrito morì a causa dei pidocchi…Ebbene, ti sei imbarcato, il viaggio é finito, sei giunto all’approdo: sbarca. Se ciò significherà entrare in una nuova vita, lì non troverai più nulla che sia vuoto di dei. Se ciò significherà non sentire nulla, cesserai di provare pene e piaceri” (A se stesso III, 3). Ciò che più caratterizza l’opera filosofica di Marco Aurelio è indubbiamente dato dal contrasto fra una precettistica mirata alla conquista della serenità interiore e il senso di malinconia che aleggia in quelle pagine, traducendosi spesso in cupe meditazioni sul tempo e sulla morte: consapevole di essere l’ultimo dei grandi Cesari, Marco Aurelio registra lucidamente i segni premonitori dell’imminente declino dell’impero, tanto più che i grandi imperatori del passato (Augusto, Traiano, Adriano) sono solo fantasmi inghiottiti dal baratro dei secoli.
GALENO
Galeno , nato a Pergamo nel 129 , frequentò da giovane le tradizionali 4 scuole filosofiche ( platonica , aristotelica , epicurea e stoica ) e a Smirne seguì l’ insegnamento del platonico Albino . Dopo un soggiorno ad Alessandria nel 152 – 57 , ove apprese la pratica della dissezione anatomica , si recò nel 161 a Roma . Tornato a Pergamo , fu richiamato a Roma nel 169 da Marco Aurelio prima come medico militare e poi come medico di corte . Qui Galeno scrisse numerose opere , molte delle quali ci sono state conservate . In una sorta di autobiografia scandita come una sequenza di scritti , intitolata Sui propri libri , Galeno stesso provvede a fornire un elenco bibliografico di tutta la sua produzione . Pertanto , quanto contasse per lui il fatto di scrivere é provato dalla sua affermazione che la natura ha dato all’ uomo la mano per scrivere . Forse dopo il 192 tornò nella sua città natale , Pergamo ; morì verso il 200 . Galeno intende rifondare la medicina come sapere globale , capace di accogliere in sè le punte più avanzate del sapere scientifico , filosofico e letterario . La stessa supremazia culturale in ambito medico non può essere assicurata con il solo impiego di modelli teorici medici o di tecniche terapeutiche , sempre in ogni caso insufficienti e sovente fallimentari . Il successo che egli incontra presso il pubblico colto a Roma é dovuto non solo alla sua esperienza anatomica , ma anche alla sua capacità di discutere teorie globali e fornire soluzioni a problemi generali . Il ritratto di medico che egli delinea nello scritto programmatico L’ ottimo medico é filosofo fa emergere una figura capace di padroneggiare i più svariati campi del sapere . Il suo modello conoscitivo é esemplificato dalla dimostrazione geometrica . L’ interesse di Galeno per la logica , documentato nello scritto Introduzione alla logica , mostra piena conoscenza delle proprietà dei sillogismi categorici ed ipotetici , già studiati nella tradizione aristotelica e stoica . A questi egli aggiunge sillogismi di relazione , che trovano particolare applicazione in ambito matematico . Un esempio : se A é uguale a B e B é uguale a C , allora A é uguale a C , dove é enunciata la proprietà transitiva della relazione di uguaglianza . Ma Galeno si dimostra altrettanto versato negli altri settori della filosofia ; qui emergono le opzioni di Galeno : decisamente anti-stoico , oltre che anti-epicureo , egli ritiene che le punte più avanzate dell’ indagine filosofica siano da ravvisare nel platonismo e , in via subordinata , nell’ aristotelismo . In generale , tuttavia , egli rifiuta di identificare le proprie posizioni con quelle di una singola scuola , così come respinge in quanto pseudo-problemi non suscettibili di reale soluzione alcune questioni tradizionali per i filosofi , come quelle sull’ essenza della divinità , sull’ immortalità dell’ anima , sull’ eternità del mondo , sulla sua finitezza o infinità , sull’ unicità o pluralità dei mondi . Secondo Galeno non esistono dati adeguati che consentano di dirimere tali questioni , le quali oltre tutto non hanno alcuna utilità pratica . Una teoria ha significato quando é controllata dall’ esperienza , che ha funzione rilevante nell’ acquisizione di conoscenze . La convergenza di medicina e filosofia consente in primo luogo , secondo Galeno , di costruire un’ antropologia globale . La vera tradizione medica é per lui rappresentata da Ippocrate , che egli considera autore di varie opere del Corpus che va sotto il suo nome , e alle quali egli dedica minuziosi commenti . Da Ippocrate egli accoglie soprattutto la teoria umorale , secondo cui l’ uomo é costituito dai quattro umori , sangue , flegma , bile gialla e bile nera . Il variare dei rapporti proporzionali fra i 4 uomri dà luogo a 4 temperamenti , che delineano la tipologia umana fondamentale : sanguigno , flegmatico , collerico e malinconico . Galeno ritiene che molti medici dell’ età successiva , dagli allievi di Erasistrato ad Asclepiade e ai cosiddetti metodici , si siano allontanati dalle linee fondamentali dell’ insegnamento di Ippocrate , al quale egli ritiene necessario tornare . In particolare , contro tutte le forme di meccanicismo e atomismo , che trovavano applicazione anche in ambito medico , egli avanza una concezione finalistica ( teleologica ) della natura , già avanzata in passato da Aristotele . Nello scritto Sull’ uso delle parti , in 17 libri , egli tenta di spiegare la conformazione dei vari organi del corpo umano in base alle funzioni che ciascuno di essi deve assolvere . Come mostra in un altro scritto , intitolato Sulle facoltà naturali , ogni organo é dotato della facoltà naturale di attrarre o trasformare o espellere . La perfetta corrispondenza di organi e funzioni appare come manifestazione di un ordine divino provvidenziale . Le concezioni filosofiche , alle quali egli si richiama in questa prospettiva , sono soprattutto il platonismo e l’ aristotelismo , e non lo stoicismo . In opposizione agli stoici , egli pone al centro la causa finale , sulla scia di Platone e Aristotele , ma sulla linea di Platone e a differenza di Aristotele , egli interpreta il finalismo della natura in termini di provvidenza divina . E’ soprattutto la filosofia di Platone che Galeno vede convergere con l’ insegnamento medico di Ippocrate . Nello scritto ” Sulle dottrine di Ippocrate e Platone ” , egli polemizza contro la concezione monistica dell’ anima propria dello stoico Crisippo , opponendole l’ impostazione platonica . In un altro scritto , dal titolo ” I costumi dell’ anima dipendono dai temperamenti del corpo ” , Galeno fa propria la tripartizione platonica dell’ anima ( la metafora della biga alata ) , con corrispondente localizzazione somatica di ciascuna delle parti ( rispettivamente in cervello , cuore , fegato ) , ma riconduce le qualità dei vari tipi di anima al temperamento che ha luogo negli organi corporei . La conseguenza é che tali qualità dipendono in parte dal processo di generazione e formazione dell’ embrione , sul quale il medico non può intervenire , ma in seguito anche dall’ alimentazione e dal regime di vita , sui quali , invece può agire il medico . Galeno rivendica in tal modo alla dialettica medica il controllo e la terapia delle passioni . Contro la pretesa del filosofo stoico di essere in tal senso il vero terapeuta , il medico afferma il proprio primato , attribuendosi la cura anche dei malvagi . Essi , qualora risultino irrecuperabili , devono essere soppressi in quanto pericolosi e non perchè responsabili , allo stesso modo in cui serpenti e scorpioni non sono responsabili del veleno che portano con sè . A Galeno erano noti scritti di scuola di Aristotele , che egli citava e utilizzava .
TOLOMEO
Nell’ impero romano penetra con forza anche l’ astrologia , di cui é simbolo emblematico la figura di Tolomeo . Studioso di ottica , astronomia , geografia , musica , operante ad Alessandria nella seconda metà del II secolo d.C. egli fornì l’ esposizione più avanzata della teoria geocentrica , detta appunto anche tolomaica , nella sua più importante opera astronomica intitolata Collezione matematica , in tredici libri . Denominata ” grandissima ” ( in greco ” meghiste ” ) , essa circolerà nel mondo arabo col nome di Almagesto . Il sistema in vigore fino al 1600 circa , gli anni della rivoluzione scientifica , é il cosiddetto sistema aristotelico – tolemaico : si tratta di un ibrido abbasta malriuscito perchè vengono messi insieme due sistemi che hanno sì qualcosa in comune , ma comunque sono molto diversi tra loro . Una curiosità é che esso per molti secoli resterà in vigore e nessuno avanzerà obiezioni : Dante stesso lo accetterà e non si accorgerà delle incongruenze . Il sistema aristotelico era di ” sfere concentriche ” , ossia c’ era la Terra in mezzo e poi una serie di sfere l’ una concentrica all’ altra ; ogni pianeta era mosso dalla combinazione di movimenti di molte sfere ( le sfere erano molte di più rispetto ai pianeti perchè per muovere ogni pianeta occorre un numero consistente di sfere ) . Questo serviva essenzialmente per un motivo : per rendere compatibile ciò che si vede con ciò che si pensa . L’ apparenza dei fenomeni é un movimento non regolare dei pianeti : dalla Terra abbiamo l’ impressione di un movimento del cielo delle stelle fisse ; le stelle erano fissate tutte sulla ” pelle dell’ universo ” alla stessa distanza , senza profondità differenti . Noi oggi sappiamo che in realtà non é il cielo che gira intorno alla Terra , ma é la Terra che gira intorno al suo asse ( movimento di rotazione ) . Poi ci sono , dicevamo , i pianeti , ossia le stelle vaganti , così dette perchè a differenza delle stelle fisse che sono attaccate sulla parete del mondo , esse vagano . Il movimento di questi pianeti é apparentemente irregolare , perchè é vero che vanno in una determinata direzione , ma a velocità diverse a seconda delle occasioni ( a volte si fermano o addirittura sembrano tornare indietro ) ; le costellazioni , é interessante notare , sono pure illusioni ottiche perchè ci sembrano stelle allineate , ma non é così : sono disposte in profondità e non sullo stesso piano , come sembra ; per rendere compatibile questa situazione fenomenica con le convinzione ammesse all’ epoca Aristotele inventò il suo sistema ” a sfere ” : se ad ogni pianeta fosse corrisposta una sfera sola allora ci sarebbe dovuto essere un moto regolare ( che però in realtà non c’ é ) come quello delle stelle fisse ; così Aristotele aveva dovuto introdurre più sfere che davano combinazioni di movimenti in modo tale che il movimento delle combinazioni di sfere fosse apparentemente irregolare , ma questa apparente irregolarità é compatibile con alcune convinzioni metafisiche di Aristotele : il cielo é fatto di sfere che girano attorno al proprio asse . Doveva risolvere questa apparente irregolarità in un insieme di movimenti regolari che ne davano uno ai nostri occhi irregolare ; Aristotele era profondamente convinto che il movimento dei pianeti fosse dato dalla combinazione dei movimenti delle sfere , cosa che oggi sappiamo essere sbagliata : l’ unico metodo a sua disposizione era assommare un tot di movimenti regolari che ne davano uno apparentemente irregolare ; il tutto poi doveva essere compatibile con la centralità della Terra : un sistema semplicissimo per spiegare l’ irregolarità di moto dei pianeti consisteva , come dirà Copernico , nell’ affermare che la Terra non é il centro e quindi noi vediamo da un punto di vista erroneo questi moti , che se visti dal punto di vista giusto ( il Sole ) possono essere facilmente spiegati : il Sole diventa il centro di rotazione ; ma ai tempi di Aristotele questo era impensabile ! Tolomeo inventa un nuovo sistema ancora più complicato : anche per lui il movimento degli astri é perfetto ( sebbene sembri imperfetto ) e va quindi spiegato con combinazioni di movimenti circolari . Anche Tolomeo ha bisogno di operare correzioni per spiegare l’ apparente irregolarità : il suo é un sistema geostatico , ma non geocentrico , ossia la Terra é ferma , ma non é al centro dell’ universo .
Il punto T é la Terra e il centro di rotazione di tutto quanto é C , il centro ; C é vicino alla Terra , ma non é la Terra . La Terra é ” eccentrica ” rispetto al vero centro dell’ universo . Dopo di che abbiamo il punto Ep che gira su questa circonferenza attorno a C . Poi poniamo Eq ( equante ) che é equidistante da C rispetto alla Terra ( la distanza tra T e C é = a quella tra Eq e C ) : equante vuol dire ” uguagliante ” , che rende uguale . I movimenti devono essere tutti regolari , ma ci sono due maniere per calcolare la regolarità di un movimento circolare : se prendiamo i raggi di una bicicletta : se vogliamo calcolare il movimento del punto P nell’ immagine qua sotto
possiamo a ) in ogni determinata unità di tempo vedere quanto é lo spazio lineare percorso da P sulla circonferenza : supponendo che l’ arco P – E sia di 3 cm mi trovo quanto ha percorso ; b ) posso sfruttare gli angoli ” percorsi ” . Posso quindi calcolare la lunghezza ( in un arco di tempo X ha percorso Y cm ) , oppure l’ angolo : se in ogni unità di tempo percorre lo stesso arco di circonferenza ( unità di tempo X , Y cm , 2 X , 2 Y cm e così via ) allora ho una velocità costante ; lo stesso vale per il calcolo angolare . Qui non c’ é niente di strano : se é costante la velocità in termini lineari sarà anche costante quella in termini angolari . Però c’ é un problema : immaginiamo che la velocità angolare sia calcolata non facendo centro il punto C , ma da un punto diverso ( Q ) : man mano che questo punto si sposterà avremo angoli diversi : il percorso lineare P – E avrà quindi come angolo non quello precedente , ma quello segnato qua sotto ; :
allora tutto cambia ! Mentre quando il centro della circonferenza era anche centro di rotazione la velocità era costante a tempo costante sia in termini lineari sia in termini angolari , qui non é più vero : se il punto ( Q ) da cui osservo il moto , non ci sarà più una corrispondenza di velocità costanti tra distanze angolari e lineari , é evidente : ora o é costante o una o l’ altra ; in altre parole , se in uno stesso lasso di tempo verranno ” spazzati ” angoli uguali ( cioè la distanza angolare é uguale ) , tuttavia la distanza angolare non potrà più trovare corrispondenza con quella lineare . Riportiamo ora tutto lo schema sul mondo , nel disegno qua sotto
C é il centro ( come nella circonferenza della ruota di bicicletta ) , T la Terra e Eq é quello che sulla circonferenza della bici era Q ; il punto Ep é quello che sulla bici era P , ossia ciò che ruotava intorno ; la premessa di principio é che la velocità é costante , in quanto c’ é l’ idea generale di un moto regolare ; ciò che cambia é che la costanza di velocità c’ é sì , ma non é costanza in termini lineari rispetto al centro di rotazione C , bensì é costanza in termini angolari rispetto al punto equante ( Eq ) : in altri termini , in termini uguali di tempo verrà spazzato un ugual angolo su Eq , proprio come nella circonferenza della bici : non sarà invece costante la distanza lineare . Costante é solo l’ angolo spazzato , ma non guardato dal centro C ( altrimenti anche il percorso lineare sarebbe costante ) , bensì osservato da Eq , l’ equante , che rende uguale , costante la velocità anche se essa non lo é : non é costante in termini lineari , ma lo é in termini angolari . Ricapitolando : T é immobile , non é il centro di rotazione ( che invece é C ) ; Ep gira attorno alla circonferenza che per centro ha C ; la sua velocità é costante in termini angolari ( e non lineari ) e va calcolata basandosi non su C e T , ma su Eq , che é simmetrico rispetto alla Terra . Ma non é finita qui : il pianeta non é il punto Ep : Ep é solo il centro di un’ altra circonferenza , come si può vedere dal disegno qua sotto :
Ep si chiama epiciclo ed é una circonferenza più piccola che sta sopra ( ” epì ” in greco spesso vuol dire ” sopra ” )ad un’ altra circonferenza ; Ep gira attorno a C ma non é un pianeta , ma solo il centro di rotazione : il vero pianeta é quello che nell’ ultima immagine é stato chiamato P , che si muove sulla circonferenza che per centro ha Ep , la quale a sua volta ruota attorno a C . Di queste tre correzioni ( 1 ) la Terra é ferma , ma non é al centro ; 2 ) é il punto Eq che va preso come modello per misurare la velocità ; 3 ) il pianeta che ruota sull’ epicentro che a sua volta ruota attorno a C ) la terza é la più importante : noi guardiamo i movimenti dei pianeti dalla Terra , che non é più il centro di rotazione , e questo é il movimento :
c’ é il movimento di rotazione grande che si combina con quello piccolo e noi dalla Terra dovremmo un movimento generale grosso modo rotatorio ( come quello disegnato qua sopra ) : il pianeta é P e non Ep .
Però noi non siamo al centro ( C ) ma sulla Terra ( T ) : se guardiamo collocandoci dentro ” la pianta ” non vedremo il movimento in generale come nel grafico , ma vedremo soltanto che quando é nella fascia qui sotto colorata di rosa va più velocemente , quando é nella fascia colorata di giallo andrà più lentamente perchè lo vedremo in diagonale : é solo un’ impressione ottica che si muova più lentamente dovuta alla nostra posizione ; ci sembrerà anche immobile nel punto in verde , e perfino ” indietreggiante ” nella fascia in arancione . Il pianeta quando ci sarà più vicino ci sembrerà anche più luminoso . Questo sistema ha certamente delle analogie con quello aristotelico ( c’ é l’ idea della geostaticità , della circolarità dei movimenti , quella della perfezione dei movimenti dei pianeti ) , ma anche delle differenze ( quello aristotelico é a sfere concentriche , quello tolemaico ad epicicli ; quello aristotelico é geocentrico , quello tolemaico é solo geostatico ; quello tolemaico poi prevede una costanza nei moti solo angolare e non lineare ) : ma la differenza più clamorosa é che Aristotele é un fisico ( un filosofo della ” filosofia seconda ” , come la chiamava lui ) , Tolomeo é un astronomo ; detta oggi una frase del genere non ha senso perchè in fin dei conti oggi astronomi e fisici finiscono per essere la stessa cosa , ma a quei tempi gli astronomi erano dei matematici e non dei fisici : l’ astronomia era pura scienza matematica . A quei tempi l’ unica cosa che si potesse fare di fronte ad una stella era sapere dove fosse e come si muovesse e nulla di più perchè gli strumenti non consentivano nient’ altro : si studiavano le regolarità del comportamento degli astri . Questo ci permette di capire perchè l’ astrologia sia a lungo stata non branca della fisica , ma della matematica perchè si finiva per limitarsi a calcolare matematicamente il moto dei pianeti . Dai Pitagorici in poi si colse questa parentela tra due materie che a noi sembrano assai diverse . Tolomeo fa quindi astronomia matematica , Aristotele fa astronomia fisica : in concreto questo significa che Aristotele parlando di sfere le intende effettivamente materiali ( da buon fisico ) , fatte di etere ( parla anche di ” sfere cristalline ” ) ; per lui ruotano materialmente , come oggetti materiali , con i pianeti fissati sopra . Per Tolomeo cambia tutto : ha una prospettiva più astratta ( da buon matematico ) e ciò che ci dice a riguardo delle varie rotazioni va inteso , in un certo senso , allo stesso modo di quando in geometria si dice che il cilindro é dato dalla rotazione su se stesso di un rettangolo ; le sfere quindi per lui non sono reali nè materiali , anche perchè nella sua concezione sarebbe davvero impossibile che lo fosse perchè ci sono , abbiamo visto , due circonferenze che si incrociano ( a differenza di Aristotele ) e se fossero materiali ciò sarebbe impossibile : é un processo che può avvenire solo mentalmente ; ” é come se ” ( per dirla alla Kant ) avvenissero questi incroci tra sfere ; si tratta in fin dei conti di un’ ipotesi geometrica . Altra opera importantissima di Tolomeo é un trattato in 4 libri intitolato Tetrabiblos : egli considera l’ astrologia una disciplina ” seria ” che richiede vastissime conoscenze matematiche e astronomiche e non ha nulla a che vedere con le pratiche dei ciarlatani . Tutto quanto accade agli uomini per Tolomeo ha cause astrali ; inoltre , egli ammette che l’ astrologia ha un carattere maggiormente congetturale rispetto alla scienza astronomica , data l’ instabilità e mutevolezza dei fenomeni che essa esamina , ma ciò non esclude che anche in questo ambito possano essere rintracciate regolarità . La conoscenza preventiva del futuro , che essa consente di acquisire , può abituare l’ anima dei singoli ad accogliere serenamente il futuro . L’ astrologo terapeuta dell’ anima può così richiedere la stessa fiducia accordata al medico .
APULEIO
Vita e opere
Poche sono le notizie in nostro possesso sulla vita di questo che è certamente il personaggio più poliedrico e affascinante dell’età degli Antonini (lo stesso “praenomen” tramandatoci sembra essere piuttosto una conseguenza del fatto che il protagonista del suo romanzo si chiama appunto Lucio); notizie, del resto, tutte ricavabili da certe informazioni che lo stesso scrittore ci fornisce nelle sue opere, soprattutto nell’ “Apologia”. Così sappiamo che nacque a Madaura intorno al 125 d.C, che fu di estrazione agiata e che studiò a Cartagine, dove apprese le regole dell’eloquenza latina; si recò poi ad Atene, per avviarsi allo studio del pensiero greco. Ciò che principalmente l’attraeva erano le dottrine nelle quali il pensiero religioso aveva una sua funzione: ma lo stoicismo, al quale rimanevano fedeli in gran parte i nobili romani e di cui Marco Aurelio sarà un adepto, lo attraeva molto meno del platonismo, o della dottrina che allora passava sotto questo termine (platonismo se così possiamo dire “teosofico”), impregnata di misticismo e addirittura di magia. L’iniziazione ai culti misterici. A. si fece iniziare a tutti i culti più o meno segreti che a quei tempi abbondavano nell’Oriente mediterraneo: misteri di Eleusi, di Mitra, misteri di Iside, culto dei Cabiri a Samotracia, e tanti altri di minore fama. La sua speranza era di trovare il “segreto delle cose” e, al pari della sua eroina Psiche, si abbandonava a tutti i dèmoni della curiosità, avventurandosi fino alle frontiere del sacrilegio. L’accusa di magia e il processo. La strada del ritorno dalla Grecia all’Africa lo condusse attraverso le regioni asiatiche, in Egitto e quindi in Cirenaica, dove lo attendeva una straordinaria avventura verso Alessandria (155-156). Ad Oea (l’odierna Tripoli), infatti, conobbe Pudentilla, madre di uno dei suoi compagni di studi ad Atene, Ponziano, la quale, rimasta vedova, desiderava riprendere marito. A. le piacque, e i due si sposarono. I parenti della nobildonna, adirati nel vedere compromessa l’eredità, intentarono un processo al “filosofo” straniero accusandolo di aver plagiato e sedotto la donna con arti magiche per impossessarsi dei suoi averi, e lo tradussero davanti al governatore della provincia. Per difendersi, A. compose un’arringa scintillante di spirito, che ci è stata conservata col titolo di “Apologia” (158).Gli ultimi anni. Dopo il processo, lo scrittore tornò a Cartagine, dove ottenne varie dignità (come quella di “sacerdos provinciae” del culto imperiale, ma fu pure sacerdote e propagandista del culto di Asclepio) e dove proseguì la sua brillante carriera di conferenziere (i Cartaginesi giunsero ad innalzare statue in suo onore). Infine, la sua morte va collocata probabilmente dopo il 170 d.C., dal momento che da quest’anno in poi non abbiamo più notizie sul suo conto. Apologia
[trad.it] o “De magia” (158), come detto, versione successivamente rielaborata della propria, vittoriosa, orazione difensiva. L’episodio autobiografico viene filtrato attraverso una densa rete letteraria, che lo rende quasi emblematico, se non addirittura mitico; costante vi è poi l’ironia, da cui traspare la sicurezza della vittoria. In quest’opera, così, è già in nuce lo stile caratteristico dello scrittore, fatto di folgorazioni, sospensioni, parallelismi, allitterazioni, di espressioni nuove ed inaspettate, dove il ciceronianismo di fondo già si sfalda in una serie di brevi, frizzanti periodi. Dal punto di vista della difesa, invece, A. distingue tra filosofia e magia: la differenza è che il filosofo può avere contatti coi demoni (vd. oltre, “De deo Socratis”) per fini di purificazione spirituale, mentre il mago, con le sue arti, intende raggiungere scopi malefici. E’, infine, interessante paragonare questo genere di eloquenza, di discorso effettivamente pronunciato davanti a un tribunale, con quella dei “Florida” [vers.lat] (antherà, “selezioni di fiori”), estratti di conferenze (23 brani oratori) tenute dallo scrittore a Cartagine e a Roma, antologizzati in 4 libri da un anonimo ed eccezionali esempi di virtuosismo retorico.
De mundo
rifacimento – in chiave stoicheggiante – dell’omonimo trattato pseudoaristotelico;- “De Platone et eius dogmate” [vers.lat], una sintesi della fisica e dell’etica di Platone, cui doveva seguire una logica (“Perì ermeneias”?): ne emerge un Platone permeato di neopitagorismo, di teorie misteriche ed iniziatiche;- “De deo Socratis” [vers.lat], un opuscolo in cui A. esamina la demonologia di Socrate: sotto l’influsso delle filosofie orientali, i “demoni” (ovvero, divinità) diventano Angeli, o affini ad essi, per A., spiriti che fungono da intermediari tra gli dèi e gli uomini, e che presiedono a rivelazioni e presagi.- Numerose, poi, le opere perdute, o di cui ci resta molto poco. Scrisse di aritmetica, musica, medicina ecc., e, tra le altre cose, compose “Carmina amatoria”, “Ludicra” (di questa raccolta faceva parte un carme su un dentifricio e due epigrammi d’amore conservati nell’ “Apologia”) e poi una traduzione del “Fedone” platonico, un romanzo, “Hermagoras”, di cui ci restano due frammenti e nel quale doveva essere celebrato il culto di “Ermete Trismegisto”. Il carattere enciclopedico e insieme misterico e salvifico della sua produzione minore è confermato pure da scritti trasmessi sotto il suo nome, specie da un dialogo ermetico apocrifo, l’ “Asclepius”.
Metamorfosi
(“Metamorphoseon libri XI”), denominato a volte “L’asino d’oro” (“Asinus Aureus”), certamente il suo capolavoro (“Asino d’oro” è il titolo con cui la prima volta lo indicò Sant’Agostino nel “De civitate Dei”: ma non si sa se l’aggettivo “aureus” sia stato coniato in riferimento alle doti eccezionali dell’asino, oppure alla qualità artistica del romanzo, oppure ancora al valore di edificazione morale insito nella storia del protagonista).Le “Metamorfosi”.
Considerazioni
*Il romanzo, opera stravagante in 11 libri, è forse l’adattamento (almeno nei primi 10) di uno scritto di Luciano di Samosata di cui non siamo in possesso, ma del quale ci è pervenuto un plagio intitolato “Lucius o L’asino”: si discute se A. abbia seguito il modello solo nella trama principale, o ne abbia ricavato anche le molte digressioni novellistiche tragiche ed erotiche. Non è improbabile, poi, che sia A. che Luciano abbiano (sia pure con intenti del tutto diversi) rielaborato un’ulteriore fonte, di cui ci testimonia Fozio: ovvero, un’opera intitolata, manco a dirlo, “Metamorfosi”, e attribuito ad un certo Lucio di Patre, il cui canovaccio esteriore è praticamente lo stesso dell’opera del nostro. “Le “Metamorfosi” di A. gravitano comunque nella tradizione della “milesia”, ma anche in quella del romanzo greco contemporaneo, arricchito però dall’originale e determinante elemento magico e misterico.Dunque, nell’opera, il magico si alterna con l’epico (nelle storie, ad es., dei briganti), col tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi (ordinati ovviamente in un unico disegno, con un impianto strutturale abbastanza rigoroso), che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, nella piena padronanza di diversi registri, variamente combinati nel tessuto verbale: e il tutto in una lingua, comunque, decisamente “letteraria”. Trama
*La storia narra di un giovane chiamato Lucio (identificato da A. con lo stesso narratore), appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio – avvinto dalla sua insaziabile “curiositas” – vuole imitarla e, valendosi dell’aiuto di una servetta, Fotis, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l’antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri, che hanno fatto irruzione nella casa, durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia da soma per lunghi mesi, si trova coinvolto in mille avventure, sottoposto ad infinite angherie e muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti.Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di “Amore e Psiche”, narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l’avventura di Psiche, l’Anima, innamorata di Eros, dio del desiderio, uno dei grandi dèmoni dell’universo platonico, la quale possiede senza saperlo, nella notte della propria coscienza, il dio che lei ama, e che però smarrisce per curiosità, per ritrovarlo poi nel dolore di un’espiazione che le fa attraversare tutti gli “elementi” del mondo) (vd oltre, la parte dedicata specificamente alla favola). Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finché – dopo altre peripezie – si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiaggia di Cancree; durante la notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride. La chiave “mistagogica”
*L’ultima parte del romanzo (libro XI), che si svolge in un clima di forte suggestione mistica ed iniziatica, non ha equivalente nel testo del modello greco. E’ evidente che è un’aggiunta di A., al pari della celebre “favola” di Amore e Psiche, che si trova inserita verso la metà dell’opera: centralità decisamente “programmatica”, che fa della stessa quasi un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone la corretta decodificazione. Ci si può chiedere se queste aggiunte non servano a spiegare l’intenzione dell’autore. In realtà l’episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, ha un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo, interpretato specificamente ora come mito filosofico di matrice platonica, ora come un racconto di iniziazione al culto iliaco, ora – ma meno efficacemente – come un mito cristiano. Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici all’itinerario spirituale del protagonista-autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorica: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’XI libro è certamente la conclusione religiosa (lo stesso numero dei libri, 11, sembra del resto far pensare al numero dei giorni richiesti per l’iniziazione misterica, 10 appunto di purificazione e 1 dedicato al rito religioso). Il tutto farebbe delle “Metamorfosi”, così, un vero e proprio romanzo “mistagogico”, che sembrerebbe invero registrare l’esperienza stessa dello scrittore.Romanzo che, tuttavia, qualunque sia la sua reale intenzione, ci offre una straordinaria descrizione delle province dell’impero al tempo degli Antonini e, in modo particolare, della vita del popolo minuto. Confrontato con quello di Petronio, dà però la curiosa impressione che i personaggi vi siano osservati a maggiore distanza, come in un immenso affresco dove si muovono, agitandosi, innumerevoli comparse. La favola di “Amore e Psiche”. Come detto, la favola di Amore e Psiche, che si estende emblematicamente dalla fine del IV libro (paragrafo XXVIII) a buona parte del VI (prg. XXIV incl.), ha un’importanza esemplare nell’economia generale del romanzo, svolgendo una funzione non solo esornativa, ma fornendocene invero la corretta chiave di lettura e di decodificazione, fulcro artistico ed etico dell’opera tutta. Trama
La favola inizia nel più classico dei modi: c’erano una volta, in una città, un re e una regina, che avevano tre figlie. L’ultima, Psiche, è bellissima, tanto da suscitare la gelosia di Venere, la quale prega il dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione disonorevole per l’uomo più vile della terra. Tuttavia, lo stesso Amore si invaghisce della ragazza, e la trasporta nel suo palazzo, dov’ella è servita ed onorata come una regina da ancelle invisibili e dove, ogni notte, il dio le procura indimenticabili visite. Ma Psiche deve stare attenta a non vedere il viso del misterioso amante, a rischio di rompere l’incantesimo. Per consolare la sua solitudine, la fanciulla ottiene di far venire nel castello le sue due sorelle; ma queste, invidiose, le suggeriscono che il suo amante è in realtà un serpente mostruoso: allora, Psiche, proprio come Lucio, non resiste alla “curiositas”, e, armata di pugnale, si avvicina al suo amante per ucciderlo. Ma a lei il dio Amore, che dorme, si rivela nel suo fulgore, coi capelli profumati di ambrosia e le ali rugiadose di luce e il candido collo e le guance di porpora. Dalla faretra del dio, Psiche trae una saetta, dalla quale resta punta, innamorandosi, così, perdutamente, del’Amore stesso. Dalla lucerna di Psiche una stilla d’olio cade sul corpo di Amore, e lo sveglia. L’amante, allora, fugge da Psiche, che ha violato il patto. L’incantesimo, dunque, è rotto, e Psiche, disperata, si mette alla ricerca dell’amato. Deve affrontare l’ira di Venere, che sfoga la sua gelosia imponendole di superare quattro difficilissime prove, l’ultima delle quali comporta la discesa nel regno dei morti e il farsi dare da Persefone un vasetto. Psiche avrebbe dovuto consegnarlo a Venere senza aprirlo, ma la curiosità la perde ancora una volta. La fanciulla viene allora avvolta in un sonno mortale, ma interviene Amore a salvarla; non solo: il dio otterrà per lei da Giove l’immortalità e la farà sua sposa. Dalla loro unione nascerà una figlia, chiamata “Voluttà”. La chiave di lettura della favola La successione degli avvenimenti della novella riprende quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la “curiositas” punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e le sofferenze, che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità. La favola, insomma, rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver commesso il peccato di “hybris” (tracotanza) tentando di penetrare un mistero che non le era consentito di svelare, deve scontare la sua colpa con umiliazioni ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi al dio. L’allegoria filosofica è appena accennata (se non altro, nel nome della protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso è evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi è caduto, e lo fa di sua spontanea volontà, non per i meriti della creatura umana.
Le Metamorfosi
Libro I: Prologo: il protagonista e narratore si presenta, dicendo di essere greco e di chiamarsi Lucio, ed invita il lettore a prestare attenzione alle fabulae Milesiae che intreccerà per lui. Inizia quindi il racconto principale o cornice. Lucio si trova in Tessaglia, terra della magia, ove si è recato per affari. Durante il viaggio incontra due viandanti, uno dei quali, Aristòmene, strada facendo racconta l’incredibile storia che gli è capitata. Racconto di Aristomene: Aristomene incontra per caso ad Ìpata, in Tessaglia, il suo ex-commilitone Socrate, ridotto ad una larva umana per essere stato l’amante di una strega. Lavato e rivestito l’amico, Aristomene lo porta in una locanda e decide di fuggire con lui l’indomani. Ma durante la notte, per magia, la strega e sua sorella penetrano nella stanza dei due, sgozzano Socrate sostituendo il suo cuore con una spugna ed inondano Aristomene di urina; indi se ne vanno. Mentre Aristomene, terrorizzato, cerca di darsi la morte per non essere accusato dell’omicidio dell’amico, ecco che questi si risveglia come se niente fosse. I due si rimettono in viaggio verso casa. Giunti presso un ruscello, si fermano per riposarsi e mangiare; ma all’improvviso, mentre Socrate si china sull’acqua per bere, il suo collo si squarcia e ne esce la spugna, ed egli cade stecchito. Aristomene fugge e cambia vita, lasciandosi alle spalle il terribile passato. Fine del suo racconto. Lucio, lasciati i due viandanti, giunge ad Ìpata e si reca a casa del suo ospite Milone. Libro II: L’indomani, al mercato, Lucio viene riconosciuto, proprio a causa della sua bellezza, da una donna che non conosce affatto, Birrena, che si dice amica intima della madre di lui. Il giovane accetta il suo invito e si reca a casa di costei, che lo mette in guardia contro Pànfila, la moglie di Milone, famosissima maga. L’avvertimento ottiene l’effetto contrario a quello sperato: Lucio, curiosus per natura, è elettrizzato dalla prospettiva di sperimentare la magia. Per avere accesso ai segreti della padrona di casa, il giovane fa leva sui propri mezzi fisici e seduce la graziosa Fòtide, ancella di Panfila. Quella notte stessa Lucio ha il primo incontro d’amore con lei. Qualche sera dopo egli si reca a cena in casa di Birrena, ove ascolta il terribile racconto autobiografico di uno dei commensali, Telìfrone. Racconto di Telìfrone: giunto a Larissa, in Tessaglia, Telìfrone accetta una stranissima offerta di lavoro: dovrà fare la guardia ad un cadavere per tutta la notte, onde evitare che le streghe ne asportino le parti ad esse necessarie per i loro incantesimi. Il contratto prevede che, in caso di inadempienza, il sorvegliante malaccorto debba rifondere il danno in natura, mutilandosi delle corrispondenti parti del corpo. Il morto in questione è il marito di una bellissima matrona, che accoglie Telìfrone in lacrime; il giovane si pone a fare la guardia; ma durante la notte penetra nella stanza una donnola, e Telìfrone sprofonda in un sonno pesante. Al mattino si risveglia pieno d’angoscia, ma il cadavere è intatto. Durante il rito funebre, tuttavia, il vecchio zio del defunto accusa la vedova di averlo assassinato. Il cadavere viene risuscitato temporaneamente per magia e rivela la verità, ma non viene creduto; allora, per dimostrare che dice il vero, racconta ciò che solo lui può sapere, cioè che cosa è successo mentre Telìfrone dormiva: alcune streghe hanno invocato il nome del morto per attirarlo fuori; ma disgraziatamente il morto è omonimo di Telìfrone; quest’ultimo, sonnambulo, si è recato dalla streghe, che gli hanno mozzato naso ed orecchie sostituendoli con organi posticci. A quelle parole, il povero Telìfrone nega disperatamente e si tocca il naso e le orecchie, che subito si staccano. Fine del racconto di Telìfrone. Durante il ritorno verso casa Lucio, ubriaco, s’imbatte in quelli che crede essere tre ladri in procinto di scassinare la porta del suo ospite Milone, e li uccide. Libro III: In un’atmosfera surreale ed onirica, Lucio viene arrestato il mattino successivo e sottoposto a processo per l’uccisione dei tre supposti ladroni. Quando ormai dispera della salvezza, i tre cadaveri vengono condotti in aula, coperti, e lui stesso viene costretto a scoprirli: con sua enorme sorpresa, sotto il drappo appaiono tre otri. Troppo tardi Lucio si accorge, mentre tutti scoppiano a ridere, che il processo è una farsa: ricorre infatti quel giorno la festa del dio Riso, in cui gli abitanti della Tessaglia amano divertirsi alle spalle degli ingenui. Sarà Fòtide, più tardi, a spiegare a Lucio come siano andate le cose: i tre otri hanno preso vita per un incantesimo di Panfila, e Lucio, nel buio, ubriaco com’era, li ha scambiati per esseri umani e si è reso così… otricida. Lucio coglie la palla al balzo e chiede a Fotide di permettergli di vedere la padrona mentre si trasforma per virtù di magia; la ragazza acconsente. Il giovane assiste così, non visto, alla trasformazione di Panfila in uccello, e tale è il suo entusiasmo, che immediatamente chiede a Fotide di spalmarlo con quel filtro portentoso. Ma la ragazza sbaglia unguento, e Lucio viene trasformato in asino, pur conservando intelletto umano. Infuriato ma impotente, Lucio-asino si dirige nel luogo che gli sembra più adatto al suo nuovo stato, e cioè la stalla, in attesa di poter disporre dell’antidoto indicatogli da Fotide: dovrà infatti mangiare delle rose, e subito ritornerà uomo. Ma durante la notte alcuni briganti fanno irruzione in casa di Milone e si portano via anche tutte le bestie da soma, fra cui Lucio. Egli, pur avendone l’occasione, evita di mangiare delle rose, poiché teme di essere ucciso dai briganti una volta tornato uomo. Libro IV: Lucio-asino cerca invano delle rose. Ma i ladroni lo conducono nel loro rifugio sulle montagne, dove le rose non crescono; sopraggiungono ben presto altri componenti della banda. I briganti raccontano le prodezze di tre loro compagni morti: Làmaco, Álcimo e Trasileòne. Il giorno seguente viene portata al rifugio una bella e giovane prigioniera, Càrite, che è stata rapita con la speranza di ricavarne un riscatto. Per lenire la sua angoscia, la vecchia custode del rifugio racconta una storia: quella di Amore e Psiche. La favola di Amore e Psiche (clicca qui per il testo integrale): C’era una volta un re che aveva tre figlie; la minore, Psiche, era di una tale bellezza che Venere stessa ne era invidiosa e nessun uomo osava chiederla in moglie. Un vaticinio di Apollo, espresso per l’occasione in latino (sic!), chiede che Psiche venga posta in cima ad una rupe, dove andrà sposa ad un orribile mostro. Fra le lacrime di tutta la popolazione, Psiche viene portata sul luogo del supplizio. Ma Zèfiro la solleva e la depone su un prato. Libro V: Psiche, esausta, si addormenta. Al suo risveglio si trova di fronte ad una reggia incantata, nella quale entra. Nel magnifico palazzo non vede nessuno, ma le fanno compagnia le “voci nude”, che la servono, le parlano e suonano per lei. Di notte, nel buio, la raggiunge il misterioso mostro suo sposo, che la fa sua senza permetterle di vederlo. Dopo qualche tempo Psiche, che, contrariamente al previsto, trova molto piacevole la compagnia notturna del marito, ma soffre la solitudine di giorno, riesce a strappargli il permesso di vedere le sue sorelle. Queste, tuttavia, prese da una feroce invidia per la fortuna toccata a Psiche, macchinano la sua rovina e con subdole insinuazioni la convincono che quello con cui giace tutte le notti (e da cui ormai aspetta un figlio) è un mostro orrendo e pericolosissimo: ella dovrà perciò ucciderlo, per essere salva. Psiche, atterrita, vìola quella notte stessa il comando del marito, portando una lucerna nel talamo mentre lui dorme: ma alla luce della lampada appare, addormentato, un giovane bellissimo, Cupìdo. Psiche si punge con una delle frecce del marito e all’istante si innamora pazzamente di lui; si china per baciarlo, ma nel far questo rovescia sul suo braccio l’olio bollente della lampada, e Cupìdo si sveglia di soprassalto. Vedendosi tradito, vola via, invano trattenuto da Psiche. Prima di andarsene le rivela la verità: Venere, sua madre, gli aveva imposto di dare Psiche in moglie al più abietto degli esseri, ma lui stesso se n’era innamorato e l’aveva voluta come sua sposa. Detto questo, il dio fugge. Psiche, fuori di sé per il dolore, si vendica delle sorelle: fa credere loro che Cupido le desideri come spose e che Zèfiro le traporterà giù dalla rupe; in tal modo le due perfide si sfracellano sulle rocce. Frattanto anche Venere, scoperto l’inganno del figlio, medita vendetta. Libro VI: Psiche chiede invano aiuto a Cèrere ed a Giunone. Venere, dal canto suo, fa cercare con un bando Psiche, ma la ragazza decide di presentarsi spontaneamente. La dèa infierisce su di lei con maltrattamenti di vario genere, nel tentativo di imbruttirla; infine, non contenta, le impone alcune prove terribili, che tuttavia Psiche supera con l’aiuto delle formiche, di una canna palustre e di un’aquila; ma la quarta prova è pressoché impossibile: si tratta di scendere all’Ade per chiedere a Prosèrpina una fiala di bellezza per Venere. Psiche vi riesce con l’aiuto di una torre, ma sulla via del ritorno non sa resistere alla curiosità ed apre la fiala, come Venere aveva previsto: la fiala di Prosèrpina non contiene infatti bellezza, ma morte. Psiche cade a terra esanime. Ma Cupìdo, guarito dalla scottatura e più innamorato che mai, vola presso di lei e la salva. Subito dopo, per intervento di Giove, Cupìdo ottiene il permesso di sposare Psiche, che viene resa immortale. Poco dopo Psiche darà alla luce una figlia, Voluttà. Fine del racconto. Al loro ritorno, i briganti decidono di sbarazzarsi dell’asino; Lucio li previene e fugge. La giovane prigioniera ne approfitta e gli balza in groppa. Ma la fuga dei due viene interrotta dai ladroni, che li catturano e decidono di ucciderli l’indomani, cucendo la giovane nel ventre dell’asino morto. Nel frattempo anche la vecchia si è impiccata, per timore del castigo. Libro VII: Sopraggiunge un ladrone, il quale informa gli altri che la colpa della rapina in casa di Milone è ricaduta su Lucio: la notizia affligge moltissimo il povero asino, che vorrebbe discolparsi. Intanto i briganti eleggono come loro capo una nuova recluta, dopo avere ascoltato il racconto delle sue straordinarie prodezze. Il nuovo capo propone di non uccidere la ragazza, ma di venderla ad un lenone: la proposta viene accettata all’unanimità. L’asino, fra sé e sé, è indignato dell’atteggiamento della giovane, la quale è tutta contenta di essere venduta come prostituta e per di più si lascia continuamente baciare dal nuovo capo. Ma Lucio si sbaglia: il nuovo ladrone altri non è che Tlepòlemo, il fidanzato della prigioniera, il quale, ubriacati i briganti, riesce a fuggire con lei e con l’asino. Il giorno dopo i ladroni vengono uccisi e l’asino viene raccomandato alle attenzioni di un mandriano; ma la moglie di quest’ultimo, una perfida megera, lega la povera bestia alla macina; come se non bastasse, Lucio viene assalito dagli stalloni e sottoposto alle sevizie di un malvagio ragazzo, che per di più lo accusa di sconcezze del tutto inventate. In tal modo gli altri pastori si risolvono ad ucciderlo o a castrarlo; finalmente però l’asino riesce a fuggire, spaventato da un’orsa. La libertà è effimera: Lucio viene catturato da un passante, che verrà accusato a torto dell’assassinio del cattivo ragazzo (ucciso in realtà dall’orsa) e condannato a morte; anche l’asino viene condannato, e, nell’attesa che il supplizio si compia, la madre del ragazzo morto incrudelisce selvaggiamente su di lui. Libro VIII: Il mattino seguente giunge dalla città un servo di Càrite, la bella fanciulla che era stata prigioniera dei briganti; egli racconta la tristissima fine della storia di Càrite: Trasillo, un antico pretendente della ragazza, ha ucciso in una battuta di caccia Tlepòlemo, suo novello sposo; la sposa si è chiusa in un cupo dolore, rifiutando inorridita la proposta di matrimonio di Trasillo, quando una notte le appare in sogno Tlepòlemo e le rivela la verità; allora la ragazza finge di acconsentire a trascorrere una notte d’amore con l’assassino, ma, dopo averlo narcotizzato, lo acceca con uno spillone. Quindi corre sulla tomba del marito e si uccide. Analoga sorte tocca a Trasillo, che non riesce a sopravvivere alla tragedia e muore dopo avere confessato tutto. Tuttavia per l’asino questa tragedia è una fortuna, dal momento che i mandriani, temendo che il nuovo padrone sia meno generoso del precedente, decidono di andarsene e portano Lucio con sé, carico di bagagli. Durante il viaggio i mandriani temono l’assalto dei lupi, ma vengono invece ridotti a malpartito da alcuni contadini, che aizzano loro contro dei cani; un giovane pastore viene poi divorato da un drago. Quando finalmente il gruppetto giunge in una grande città, l’asino viene venduto ad un vecchio pederasta dedito al culto di Cìbele, che lo porta subito alle sue “ragazze” (ossia i cinedi che convivono con lui): costoro utilizzano l’asino per portare in processione l’immagine della dèa durante la questua. L’asino, già infastidito da tutto ciò, e disgustato dalle sconcezze di quei pervertiti, richiama l’attenzione dei passanti col suo raglio mentre i “sacerdoti” sono tutti presi dalle loro libidini, col risultato di farsi picchiare quasi a morte. Ma i pericoli, per la povera bestia, non sono finiti: capitato in casa di un cittadino devoto di Cìbele, rischia ora di essere ucciso per andare a sostituire un prosciutto rubato da un cane. Libro IX: L’asino scappa, ma viene catturato da alcuni servi che lo credono ammalato di rabbia; appurato che è sano, viene restituito ai sacerdoti di Cìbele e ricomincia, suo malgrado, i suoi vagabondaggi. In una locanda apprende la gustosa storia di un marito credulone gabbato dalla moglie traditrice. Un bel giorno, finalmente, i sedicenti sacerdoti vengono arrestati, e Lucio viene acquistato da un mugnaio, che lo pone nuovamente alla macina; qui la bestia ha modo di constatare, con profonda pietà, le misere condizioni degli animali suoi compagni. Il mugnaio, brava persona in fondo, ha per moglie una vera e propria megera (cristiana? N.d.R.), che lo tradisce con un giovane delle cui prestazioni amorose ultimamente è scontenta; la vecchia serva che le sta sempre accanto le magnifica le imprese amatorie di un certo Filesìtero, che ha sedotto impunemente la moglie del gelosissimo decurione Barbaro, e la moglie del mugnaio decide senz’altro di fare del focoso giovane il suo amante. Ma mentre i due sono soli in casa, il mugnaio ritorna inaspettatamente; Filesìtero si nasconde e il povero marito confida alla moglie tutto il suo sdegno per il triste caso di un lavandaio suo amico, la cui consorte è stata appena colta in flagrante tradimento. L’asino decide allora di intervenire e, calpestando le dita all’amante nascosto, lo costringe a svelarsi. Ma il marito non si scompone ed escogita per l’adultero una punizione davvero originale: costringe infatti il giovane a passare la notte con lui. Poi caccia di casa i due adulteri. La vendetta della perfida moglie non si fa attendere: ella ricorre alle arti di una strega, e l’indomani il mugnaio viene trovato morto. Lucio viene venduto ad un ortolano poverissimo ma onesto e a modo suo generoso, che si affeziona all’asino; una sera, per ricompensa di un favore, il poveretto viene invitato a cena da un ricco signore. Ma la cena si muta in tragedia: al padrone di casa viene riferito che i suoi tre figli sono appena morti, per cui il poveretto si sgozza con lo stesso coltello con cui stava tagliando il formaggio. Sconvolto, l’ortolano s’incammina verso casa con l’asino, ma ad un tratto un legionario romano lo ferma e pretende di portargli via l’animale; l’ortolano reagisce: ne nasce una rissa. Infine il legionario ha la peggio, ma l’ortolano e Lucio devono nascondersi in casa di un amico per sfuggire alle ricerche del soldato. Ma sarà proprio l’asino, con la sua sciocca curiosità, a perdere sé e il suo padrone, sporgendosi dal nascondiglio per guardare. L’ortolano è condannato a morte. Libro X: Lucio è ora al servizio del legionario, che odia profondamente. Un giorno, in casa di un decurione, viene a conoscenza di un fatto terribile che vi si è appena verificato: la seconda moglie del padrone di casa si è follemente invaghita, novella Fedra, del figliastro; poiché questi non le si concede, decide di ucciderlo, ma il veleno a lui destinato viene assunto per errore dal figlio della donna, che muore; costei accusa il figliastro dell’assassinio e di tentato incesto con lei. Ma quando ormai il povero giovane sta per essere condannato a morte, un medico interviene e rivela la verità: egli stesso ha venduto il veleno, ma al servo della donna, non al ragazzo; e, poiché il servo nega, aggiunge che non si trattava di veleno, ma della mandràgora, un potentissimo narcotico: se dunque il figlio minore non è morto, non c’è dubbio che sia stato “avvelenato” dall’acquirente della mandràgora, e cioè dal servo. Infatti il giovinetto è vivo e riprende di lì a poco i sensi: il servo viene condannato a morte e la donna all’esilio perpetuo, mentre il padre, fuori di sé per la gioia, ritrova in un colpo solo i due figli che credeva perduti. Lucio viene venduto dal soldato a due fratelli, l’uno cuoco e l’altro pasticciere, e finalmente può rimpinzarsi a dovere di pasticcini; ma un giorno i due scoprono le strane abitudini alimentari della bestia e le rivelano al padrone di casa: costui le trova così divertenti che si compra l’asino e lo fa ammaestrare, anche perché il suo mestiere consiste appunto nell’allestire spettacoli circensi. Recatosi a Corinto con l’asino, guadagna un discreto gruzzolo grazie alle sue esibizioni; ma una matrona s’invaghisce follemente di Lucio e pretende di passare alcune notti con lui. Scoperte le prodezze amatorie dell’asino, si decide di farlo esibire nel circo come amante di una feroce assassina condannata a morte. Lucio decide di morire piuttosto che subire questo oltraggio: durante lo spettacolo di apertura dei ludi riesce a fuggire strappando la corda, e non si ferma prima di avere raggiunto la riva del mare, dove, sdraiato sulla sabbia, sprofonda esausto nel sonno. Libro XI: All’improvviso l’asino si sveglia e vede sorgere dal mare la luna. Profondamente commosso, le rivolge una preghiera, chiedendole di potersi liberare della bestia che è in lui, oppure di morire. Poi si riaddormenta. In sogno gli appare Iside, che gli annuncia la fine dei suoi tormenti: il giorno seguente (il 5 marzo) è la festa della dea; Lucio dovrà avvicinarsi al sacerdote e mangiare i petali delle rose della sacra ghirlanda: all’istante ritornerà uomo. La sua vita però cambierà del tutto: egli diventerà un adepto del culto della dea, che gli promette beatitudine eterna dopo la morte. L’asino si risveglia: è una stupenda giornata primaverile e tutto è permeato di una strana gioia. Passa la processione: finalmente Lucio vede il sacerdote, gli si avvicina e mangia le rose. All’istante ridiventa uomo. Il sacerdote gli spiega il senso delle sue traversìe e lo esorta ad abbracciare la nuova fede. Lucio, commosso, segue il corteo del navigium Isidis. Il giovane può finalmente rivedere i suoi, da cui era creduto morto; ma tutti i suoi desideri sono rivolti all’iniziazione, che finalmente, dopo una lunga attesa, avrà luogo. Una seconda iniziazione avverrà a Roma: Lucio diverrà anche adepto di Osiride. Infine vi sarà la terza e definitiva consacrazione di Lucio, che ora scopre le sue carte e si dice non più greco, ma originario di Madauro (la sovrapposizione con l’autore è ormai completa); il dio Osiride in persona promette al giovane una brillante carriera come retore giudiziario e lo esorta a non preoccuparsi delle calunnie della gente. Lucio, prima di entrare a far parte di un collegio sacerdotale, con gesto altamente simbolico si rasa i bei riccioli biondi di cui andava tanto fiero.
Amore e Psiche
La novella di Amore e Psiche è inserita in un lungo “romanzo” dal titolo Metamorfosi (chiamato in seguito da S. Agostino L’asino d’oro) composto da Apuleio nel II secolo d.C., nel quale vengono narrate le peripezie di Lucio che, per errore, viene trasformato in asino, pur conservando mente e sentimenti umani: solo dopo molte avventure, talvolta anche dolorose, Lucio potrà infine riprendere forma umana grazie all’intervento della dea Iside, di cui Lucio diventerà sacerdote. Si tratta dunque della rappresentazione simbolica del percorso dell’uomo dallo stato bestiale allo stato spirituale, un complesso cammino interiore dalla materia allo spirito. La novella di Amore e Psiche, che come vedremo rappresenta “in piccolo” questo medesimo itinerario, è posta in bocca ad un personaggio del romanzo e rappresenta uno dei primi esempi nella letteratura occidentale di “fiaba di magia”, cioè un tipo di narrazione che conserva l’eco di antichi riti di iniziazione durante i quali, attraverso racconti “esemplari”, le popolazioni primitive trasmettevano alle nuove generazioni la loro concezione del mondo, il loro patrimonio mitico-religioso, le loro “regole” sociali. La novella presenta infatti lo schema narrativo tipico di tutte le fiabe di magia (messo in luce per la prima volta da V. Propp in Morfologia della fiaba di magia), che è assai semplice, ripetitivo e strutturato su una serie di sequenze obbligate:
· l’eroe/l’eroina è costretto ad allontanarsi dall’ambiente familiare per inoltrarsi in un ambiente nuovo e sconosciuto (un bosco, una foresta, un castello…);
· deve quindi affrontare situazioni pericolose (“prove”), che riesce a superare solo grazie all’intervento di “donatori”, cioè grazie all’aiuto offerto da persone, o anche da animali, piante parlanti o da oggetti magici;
· infine, dopo aver superato le prove, si ritrova in una nuova condizione (ad esempio corona il suo sogno d’amore con il matrimonio) e vive una nuova esistenza, per definizione felice (il lieto fine è infatti d’obbligo).
· I protagonisti e la trama
La novella si snoda attraverso le sequenze tipiche della “fiabe di magia”: racconta infatti le peripezie di una giovane e bellissima ragazza dall’emblematico nome di Psiche, che significa “anima”, di cui si innamora perdutamente il dio Cupido, cioè Amore, figlio di Venere, il quale trasporta Psiche in uno splendido palazzo e la fa sua sposa, imponendole tuttavia di non cercare mai di conoscere la sua identità. Ma la felicità dei due giovani è minacciata sia dall’invidia delle due sorelle di Psiche, sia dalla decisa ostilità di Venere, che non vuole per suo figlio una sposa mortale e soprattutto una ragazza tanto bella da essere addirittura paragonata a lei. Seguendo i perfidi consigli della sorelle, Psiche disobbedisce ad Amore, che di conseguenza l’abbandona; disperata va alla ricerca dello sposo, ma finisce tra le mani di Venere che la costringe a sottoporsi a prove “impossibili”, dalle quali esce tuttavia vittoriosa grazie ad una serie di aiuti straordinari. Segue l’immancabile lieto fine: Giove in persona celebrerà le nozze tra Amore e Psiche e conferirà alla fanciulla l’immortalità ed il rango di dea. Attorno ai due protagonisti si muovono poi altri personaggi appartenenti al mondo degli uomini (ad esempio le sorelle “cattive” di Psiche), degli dèi (ad esempio Venere, Giove, Pan) e della natura magicamente animata (ad esempio animali, fiumi ad alberi parlanti), in un continuo intreccio fra realismo e magia. Che il senso della novella vada oltre il semplice piacere del racconto fantastico, ma rimandi ad un significato allegorico, e necessiti quindi di un’interpretazione, appare evidente sin dalle prime battute e dal nome stesso dei protagonisti: Amore e Psiche. La novella rappresenta quindi una qualche conquista simbolica attraverso una complessa serie di esperienze difficili e dolorose: ma il senso esatto di questa esperienza sfugge: le interpretazioni che ne sono state date sono molteplici, alcune anche banalizzanti, nella loro velleità pseudo-scientifica di ridurre quello che è certamente un complesso simbolismo esoterico, “per iniziati”, ad un residuo di cultura semi-tribale che davvero fa sorridere se attribuita ad un personaggio come Apuleio. Insoddisfacenti risultano quindi, a nostro parere, i tentativi dell’antropologia culturale di interpretare questa novella come la descrizione simbolica del rito di iniziazione che in tutte le società primitive segna il passaggio dei ragazzi alla società adulta. Qui di seguito, perciò, tenteremo di fornire una nostra chiave di lettura, alla luce della filosofia platonica della quale Apuleio era seguace ed autorevole esponente. L’allegoria della caduta dell’anima nelle “Metamorfosi” Tutto il romanzo di Apuleio costituisce una singolare allegoria, imperniata sulla vicenda dell’Anima che, caduta per un fatale errore, attraverso una serie di durissime prove riconquista alla fine – ma solo per l’intervento della Grazia divina – la piena felicità, e con essa l’immortalità. Sebbene l’esatto significato di questa esperienza filosofico-religiosa sia tuttora oggetto di discussione, occorre sottolineare come Apuleio sia e rimanga un filosofo platonico, e non rinneghi mai questa sua appartenenza culturale, per quanto sincretisticamente fusa con esperienze di segno diverso: in un primo momento l’ermetismo e la magia – o l’alchimia -, quasi certamente praticata dal “bel filosofo” africano (che nell’Apologia sive de magia lo nega, ma in modo sempre ambiguo e mai davvero convincente); successivamente la conversione al culto misterico di Iside. L’allegoria assume connotati a nostro parere esplicitamente platonici proprio nella favola di Amore e Psiche, dove i nomi stessi dei protagonisti ( ErwV = Amore; Yuch = Anima) non possono non evocare alla mente la teoria dell’eros platonico, così come la troviamo espressa nella triade Fedone – Simposio – Fedro. D’altra parte la vicenda di Psiche rispecchia quella di Lucio, per cui si direbbe che la funzione della novella di Amore e Psiche – non a caso situata in posizione centrale nel romanzo – sia appunto quella di esplicitare in modo quasi didascalico, nella microstruttura della favola, il senso della macrostruttura che la include. Ciò su cui ci pare opportuno riflettere è il tipo di peccato per cui cade l’Anima. Si tratta, come è noto, di un peccato di curiositas: tanto Lucio quanto Psiche vogliono vedere, sapere. Ma che cosa sia e che cosa rappresenti esattamente la curiositas nell’universo filosofico di Apuleio non è chiaro. Alcuni critici ritengono, a nostro parere a torto, che la curiositas venga valutata in modo positivo da Apuleio, quasi fosse per lui il tratto distintivo dell’intelligenza; salvo poi, dopo avergli attribuito questa opinione, tacciarlo spesso di superficialità e frivolezza. Ci sembra che il significato dell’esperienza adombrata nelle Metamorfosi debba essere valutato con maggiore attenzione, ad esempio alla luce della definizione che Heidegger dà della curiosità: “ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente le possibilità derivanti dall’abbandono al mondo. […] La curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell’ente pieno di meraviglia, con il qaumazein; non la interessa lo stupore davanti a ciò che non si comprende, perché essa cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter aver saputo” (Sein und Zeit, Halle 1927). Avanziamo a questo punto qualche ipotesi. Apuleio, come già Euripide in un’opera altrettanto discussa ed enigmatica, le Baccanti, sembrerebbe contrapporre, nel suo romanzo, due modalità del conoscere:
1) la curiositas (che in Euripide è designata con il termine sophòn), che si illude di poter arrivare alla decifrazione dell’Essere attraverso l’osservazione delle forme dell’Apparenza (l'”abbandono al mondo”), dei fenomeni (etimologicamente “ciò che appare”) e dei segni in essa impressi: è questa l’illusione della scienza, della gnosi, la stessa di Apuleio mago-alchimista-scienziato, la stessa, a ben guardare, del primo Socrate ancora physikòs, studioso dei fenomeni della natura; essa si rivela, a quanto pare, suprema stoltezza, perché la multiforme varietà delle cose né può essere realmente conosciuta, né può condurre alla conoscenza di ciò che veramente è al di là delle apparenze e dà loro significato;
2) la rivelazione (che in Euripide è designata con il termine sophìa), che avviene – si direbbe – attraverso una stretta collaborazione tra uomo e Dio: l’uomo, una volta caduto, deve passare attraverso l’inferno dell’abiezione morale e della disperazione (si pensi anche all’esperienza dantesca ed a quella autobiografica raccontata da S. Agostino nelle Confessioni), per arrivare a conoscere fino in fondo la nullità delle risorse intellettuali umane: solo a questo punto potrà intervenire la Grazia divina (Eros nella favola, Iside nella storia principale) a portare la salvezza, e con essa le fede.
Troveremo più tardi in atto questa contrapposizione, in campo religioso, nella secolare e sanguinosa lotta della Chiesa cattolica contro le multiformi eresie di derivazione gnostica, che rifiutano categoricamente ogni dogma, non attribuiscono alcun valore alla fede ed alla mediazione delle istituzioni ecclesistiche e ritengono che la salvezza sia una conquista strettamente individuale, che si attua attraverso la conoscenza (in greco gnòsis, appunto). A proposito delle Baccanti di Euripide ci si è spesso domandati se la contrapposizione tra le due modalità del conoscere adombri una “conversione” dell’autore dal razionalismo alla fede (cosa che a noi non sembra affatto verosimile); nel caso di Apuleio il senso della contrapposizione appare ancor più problematico, data la natura composita dell’esperienza filosofico-religiosa dell’autore: e questo deve certo indurre alla cautela nel formulare giudizi. Ma, quale che sia il senso esatto da attribuire alla parabola esistenziale adombrata dal romanzo apuleiano, è da notare un particolare: nella prospettiva della novella di Amore e Psiche, l’Anima è già amata da Dio fin dall’inizio (cioè è già salva), ma non lo sa. Questo elemento riconduce inevitabilmente alla teoria platonica della reminiscenza (si veda soprattutto la teoria dell’anàmnesi esposta nel Menone): in termini platonici, l’anima è già immortale, ma non lo sa, o per meglio dire non se ne ricorda: l’estrema ignoranza e confusione in cui è precipitata, piombando nella materia, la porta a voler sapere ciò che in realtà non conta nulla, a vedere, sperimentare (la trasformazione magica nel caso di Lucio, le sembianze dello sposo divino nel caso di Psiche), immergendosi nelle illusioni della materia ed allontanandosi così sempre più dalla sua originaria condizione immortale. Per poter essere di nuovo salva e garantirsi l’immortalità dovrà arrivare alla conoscenza per una via completamente diversa, che la costringerà a ricordare ciò che era in origine.