LA FILOSOFIA UMANISTICA
“O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole” (Pico della Mirandola, Orazione sulla dignità dell’uomo)
INTRODUZIONE
Umanesimo e Rinascimento sono i due termini che vengono usati a volte indifferentemente per segnare una periodizzazione interna alla storia europea che coincide con il passaggio dall’ età medioevale a quella moderna . A volte invece i due termini sono usati addirittura per indicare periodi distinti . Entrambi sono termini coniati piuttosto di recente , nel 1800 , quando alcuni storici hanno cominciato a ravvisare una piena coscienza degli autori del 1400 e del 1500 di vivere un periodo di autentica rinascita . Il concetto di Rinascimento implica sì l’ idea di un rinnovamento , ma di un rinnovamento che si riaggancia a radici , a quelle classiche : é un tornare radicalmente alla cultura classica latina e greca , cercando di dimenticare la ” tragica ” parentesi del Medioevo ; anche in campo religioso si vuole tornare alle origini del cristianesimo , al Vangelo , alle fonti antiche : Lutero stesso , il padre della Riforma , é quindi assolutamente coerente alle teorie rinascimentali . Certo noi parlando di riforma abbiamo in mente l’ idea di ” rinnovamento ” , ma all’ epoca significava tornare alle origini , dare di nuovo al cristianesimo la sua forma primordiale ( da qui il termine Riforma ) . Ma tornare alle origini non significa riagganciarsi alla cultura classica e basta , bensì vuol dire riprendere quella cultura per poter dare nuovi frutti : Giordano Bruno , filosofo dell’ epoca , descriverà il Rinascimento servendosi dell’ immagine di una pianta amputata , ma non ancora morta ; il tronco é ancora vivo e dopo secoli bui ( il Medioevo ) ricomincia a germogliare . Per la prima volta , si ha coscienza che c’é stata una rottura con il mondo classico , che va ripreso , pur nella consapevolezza che esso sia ben diverso : per gli uomini medioevali , invece , non c’era stata alcuna frattura e non coglievano differenze tra il loro mondo e quello dell’ età classica : Dante stesso non era consapevole della rottura e nella Commedia fa un ” calderone ” di personaggi di ogni epoca : per dirne una , Didone e Paolo e Francesca si trovano a tu per tu nell’ Inferno . Il giudizio che si dà al Rinascimento é di solito fortemente positivo , ma é interressante notare che ci furono anche aspetti negativi : nella sua prima fase di sviluppo , il Rinascimento é un periodo di chiusura politica e sociale , a differenza del Medioevo ( ricordiamoci che Dante condannava l’ eccessiva dinamicità di Firenze ) . Questa chiusura é presente anche nella cultura , che é fortemente aristocratica : l’ Umanesimo del ‘400 é latino ( il latino già a fine Medioevo stava prendendo sempre più piede ) , mentre il Medioevo aveva invece visto nascere il volgare e la Commedia stessa di Dante non é in latino . Nel Medioevo , infatti , la borghesia stava affermandosi sempre più e non era certo a conoscenza del latino . Le Signorie e i Principati sono , per esempio , simboli della chiusura politica e sociale del Rinascimento . Nel ‘500 , anche se non si parlerà più in latino , l’ italiano sarà volutamente aulico e latinizzante , espressione di un’ aristocrazia volutamente conservatrice . Altro aspetto negativo del Rinascimento é senz’ altro la concezione che si ha e che é arrivata fino a noi del Medioevo , visto come un’ epoca di decadenza e di ignoranza : i Rinascimentali volevano segnare il più possibile il distacco dal Medioevo , sebbene vi fossero stati periodi d’ oro per la cultura , come il XII secolo , anche perchè la fase del Medioevo che essi meglio conoscevano era il 1300 , il secolo a loro più vicino , caratterizzato dalla peste e dalla carestia . Il concetto di Umanesimo , anch’ esso coniato in epoca recente , é diverso rispetto a quello di Rinascimento e tra i due risulta piuttosto difficile trovare analogie ; il modo più semplice di intenderli , evitando di dire che essi si riferiscono a due periodi distinti , é sostenere che essi si riferiscano a due aspetti diversi della stessa cosa . Con il termine Rinascimento ci riferiamo in generale alla rinascita avuta dopo il Medioevo e al riagganciarsi alla cultura classica , con il termine Umanesimo invece ci riferiamo a determinati aspetti di questo rinascere , e più precisamente alle humanae litterae : nel 1400 rinasce l’ interesse per la letteratura latina che era andato perduto nel Medioevo : comincia una vera e propria caccia delle opere latine nei monasteri , vengono realizzate edizioni critiche e si riscopre il latino classico , quello di Cicerone , ben diverso da quello medioevale , rozzo e pieno di errori , dove , per dirne una , l’ uscita del genitivo della prima declinazione era diventata -e al posto di -ae . A questo proposito va senz’ altro ricordato il lavoro di Poggio Bracciolini , che rinvenne , tra le varie opere , le Istituzioni oratorie di Quintiliano e La natura delle cose di Lucrezio . Nasce la filologia , ossia si hanno gli strumenti linguistici per recuperare le origini del testo : accanto al latino troverà ampio sviluppo anche il greco , che si affermerà soprattutto dopo il crollo dell’ Impero bizantino ( 1453 ) con l’ avvento in Italia di dotti greci che portavano con sè manoscritti in greco . Nel Medioevo , ancora più che con il latino , c’ era stata un’ autentica rottura con il greco : quasi nessuno lo conosceva più e Dante stesso , nella Commedia , farà citazioni greche scorrette ! Umanesimo significa anche humanitas , la paideia greca , già presente ai tempi dei Romani : l’ humanitas non é nient’ altro che l’ insieme degli spetti che contribuiscono a formare l’ uomo e può quindi essere tradotta con ” formazione dell’ uomo ” . Nel Rinascimento si cerca di riprendere l’ humanitas romana ” in toto ” : il che presenta senz’ altro aspetti positivi , come il recupero di testi antichi e la diffusione del greco , ma non dobbiamo dimenticarci che ebbe anche aspetti negativi , in primis la tendenza formalistica , ossia il tenere in maggior considerazione la forma rispetto al contenuto , tendenza che é arrivata fino a noi . Non a caso gli Umanisti polemizzarono aspramente contro i Medioevali solo perchè esponevano le loro teorie in un latino poco gradevole , senza però neanche badare a ciò che essi dicevano : Pico della Mirandola sottolineerà particolarmente questo ” cattiva abitudine ” degli Umanisti nella lettera in cui critica Ermolao Barbaro per il suo disprezzare i Medioevali esclusivamente per via del loro parlare . Se la mettiamo in questi termini , anche Platone scriveva meglio di Aristotele , ma non per questo Aristotele non va apprezzato ! Anche Montaigne si accorse di questa tendenza alla formalità e alla retorica e disse a riguardo della cultura umanistica : “noi sappiamo declinare la virtù , ma non amarla ” . Se prendiamo Giordano Bruno , per esempio , ci accorgiamo che egli scrive in modo molto elegante , ma senza rigore filosofico . L’ humanitas implica più di ogni altra cosa la centralità dell’ uomo in ogni campo ; ciò non significa che egli sia al vertice della realtà ( dove invece ci sarà sempre Dio ) , bensì vuol dire che é al centro di tutto quanto . Come accade per tutte le grandi correnti culturali , anche per quel che riguarda l’ Umanesimo esso fu usato per denominare ” umanisti ” certe persone effettivamente del ‘400-‘500 , ma anche per altre persone di altri periodi ; i sofisti , ad esempio , verranno chiamati ” illuministi ” e sempre i sofisti verranno chiamati ” umanisti ” perchè abbandonano la ricerca del principio per concentrarsi esclusivamente sull’ uomo ; in poche parole , come dice Cicerone , essi riportano la filosofia ” dal cielo alla terra ” e quindi possono essere classificati , giustamente , come umanisti . Tuttavia l’ Umanesimo del ‘400 é cristiano e vede sì l’ uomo al centro , ma Dio resta pur sempre il vertice della realtà ; é una prospettiva ben differente da quella teocentrica del Medioevo , dove si arrivava addirittura a vedere la vita come preparazione alla morte ( Dante dice : ” il vivere che é un correre alla morte ” ) ; l’ uomo é quindi per gli Umanisti al centro della realtà e lo si può notare anche dai quadri che lo vedono in modo assai diverso rispetto al Medioevo . L’ uomo assume un significato importantissimo : gli viene riconosciuta medietà ; egli sta cioè a cavallo tra mondo razionale e mondo celeste , tra mondo spirituale e mondo non spirituale , tra angeli e cose . Già Platone aveva sottolineato questa medietà dell’ uomo e per questo per tutto il Rinascimento sarà apprezzato molto più di Aristotele ( lo si preferirà anche per il suo stile oratorio , più raffinato e ricco di metafore ) : l’ uomo é copula mundi , ossia é l’ elemento di medietà tra Dio e tutto il creato , quell’ elemento in grado di tenere insieme mondo materiale e Dio : é solo grazie all’ uomo e alla sua attività che c’ é unitarietà dell’ Universo . La centralità dell’ uomo , poi , si manifesta nel cosiddetto ” Umaneimo civile ” , dove l’ uomo adempie funzioni politiche e sociali . Ma recupero del mondo classico non significa solo recupero del latino e del greco : vengono riportate in auge la matematica di Euclide , la medicina di Galeno e anche i filosofi venuti prima di Platone e Aristotele , così come quelli venuti dopo . Nascerà una vera e propria disputa tra sostenitori di Platone e sostenitori di Aristotele ; tuttavia tutti , anche i suoi più accaniti sostenitori , rifiuteranno l’ Aristotele ” medioevale ” , quello che veniva chiamato il ” philosophus ” per eccellenza : l’ Aristotele medioevale va assolutamente scartato e quindi si preferisce , paradossalmente , l’ aristotelismo di Averroè o di Sigieri di Brabante . Ma , come detto , vengono ripresi anche i filosofi più antichi e quelli più moderni : il naturalismo dei primissimi come l’ epicureismo , che era stato condannato nel Medioevo . Soprattutto quest’ ultimo , ovvero l’ epicureismo , si confaceva particolarmente alla prospettiva umanistica : infatti chi più di Epicuro proclamava la centralità dell’ uomo nel mondo ? Anche l’ idea di cercare la felicità più di ogni altra cosa , tipicamente epicurea , verrà apprezzata e messa in pratica soprattutto nella Firenze del ‘400 , contro la quale tuonerà il Savonarola . Il filo conduttore della filosofia , in fin dei conti , sarà l’ acceso anti-aristotelismo , dove si combatterà non tanto contro Aristotele in sè , quanto piuttosto contro l’ Aristotele ” philosophus ” della Scolastica . Particolarmente interessante risulta l’ atteggiamento generale del Rinascimento nei confronti della magia , nella quale crederanno perfino gli intellettuali e i filosofi , come Pico della Mirandola ; va subito precisato che questo rapporto con il magico ( e con l’ astrologia ) é espressione di un atteggiamento culturale vivace e dinamico . Già negli ultimi secoli del Medioevo era nata l’ alchimia , ossia quella che al giorno d’ oggi definiamo ” chimica ” , orientata alla trasformazione materiale della realtà tramite riti e formule magiche . Nasce la concezione del sapere come potere , ossia del sapere che può diventare strumento di trasformazione della realtà . Viene quindi meno , in fin dei conti , l’ idea aristotelica del sapere per il sapere e prevale quella che il vero sapere é quello utile , che può trovare applicazioni nella realtà . La magia se é vero che va contro le concezioni aristoteliche é altrettanto vero che si fonda su presupposti neoplatonici : alla base della magia sta infatti l’ idea della realtà vista come vari livelli legati tra loro in modi complessi dove basta toccare la corda giusta in uno di questi livelli per avere risultati su altre ” zone ” della realtà ; é evidente la derivazione neoplatonica di questa concezione della realtà basata su livelli , segreti e corrispondenze .
COLUCCIO SALUTATI
A cura di Diego Fusaro
Un posto centrale nell’umanesimo civile occupa Coluccio Salutati, figlio dell’età medioevale ma già proteso verso il sorgente Umanesimo, di cui è in certo senso antesignano. Lino Coluccio Salutati – questo il suo vero nome – era nato a Stignano in Valdinievole [Pistoia] nel 1331. Si trasferisce a Bologna con la famiglia, in esilio per motivi politici, e qui compie gli studi notarili. Dopo aver soggiornato in varie città italiane, nel 1374 è a Firenze, dove ottiene la carica di cancelliere del Comune che ricopre fino alla morte. Si deve al suo intervento la decisione della Signoria fiorentina di invitare Manuele Crisolora ad insegnare letteratura greca a Firenze (1397). Il Salutati testimonia così la sua passione umanistica – pur ignorando egli il greco – e il suo sostegno convinto ad una lettura filologica dei classici. Il suo studio attento e costante dà come primi frutti la trascrizione delle lettere di Cicerone ai suoi familiari, le epistole “Ad familiares”, appunto, e la raccolta delle opere di Ovidio, di Seneca, di Gregorio Magno e di Sant’Agostino. Sono importanti anche le sue lettere, raccolte in un “Epistolario” di 14 libri, poi ridotti a cinque. Egli vi affronta argomenti disparati che spaziano dalla più scottante attualità alla letteratura e alla filosofia. Come molti intellettuali del suo tempo, che si misurano con l’affermazione delle Signorie da un lato, e col permanere delle idealità repubblicane dall’altro, il Salutati interviene nel dibattito sulla tirannide e sul diritto alla libertà, ed esprime al riguardo opinioni decise. Egli condanna la tirannide, cui contrappone l’ideale di libertas (libertà): essa è un “dono divino” che va difeso anche a costo della vita. Come già il Petrarca, anch’egli desume dagli esempi dell’antichità romana la proposta di una federazione di Stati. In altre lettere il fervore umanistico gli detta interventi polemici. Contro il predicatore domenicano Giovanni Dominici (1357 ca.-1419), ad esempio, ostile alla poesia classica e all’amore per la cultura pagana, il Salutati riafferma l’alto significato culturale e civile della ricerca umanistica. Egli è anche autore di vari trattati. Nel “De saeculo et religione”, esalta la vita ascetica, che apre la strada alla conquista di una piena serenità dello spirito, e la contrappone alla falsità e vanità della vita mondana, densa di tentazioni e di mali. Nel “De fato, fortuna et casu”, lo scrittore elabora concetti più cari alla mentalità umanistica. Egli muove dall’asserzione che l’idea della morte non deve costituire un ostacolo all’agire umano, né frenare l’aspirazione alla piena realizzazione di sé. Il convincimento che l’uomo debba impegnarsi nella vita associata non contrasta con l’intima religiosità dello scrittore: egli vede nella vita attiva una delle strade per giungere “alla gloria di Dio” e a sostegno della sua tesi cita di frequente esempi biblici. Il “De nobilitate legum et medicinae” esalta la funzione delle leggi, che sono necessarie per regolare la convivenza tra gli uomini ed hanno per fine il benessere comune: un tema che era già sentito e discusso nel Due-Trecento (basti pensare a Dante). Nel 1400, la domanda di uno studente di Padova, che chiede i motivi per cui Dante condannava all’Inferno Bruto e Cassio, gli uccisori di Cesare, ispira al Salutati la stesura di un trattato, il “De tyranno”, in cui sembra contraddire la sua impostazione repubblicana. Afferma infatti che la condanna di Bruto e Cassio fu giusta perché in taluni periodi storici la monarchia è necessaria, e quindi gli assassini di Cesare, uccidendo un principe, si opposero alla necessità della storia. Lo scrittore unisce dunque all’attività di filologo e di studioso l’ideale umanistico di un uomo attivo, impegnato nella vita civile e consapevole delle proprie capacità intellettuali. L’uomo gli appare responsabile delle proprie azioni, legato agli altri dall’aspirazione alla fratellanza e teso ad affermare i princìpi di giustizia e di onestà. Animatore del Circolo di Santo Spirito, luogo di convegno e dibattito tra i dotti fiorentini, e considerato maestro esemplare dagli umanisti successivi, il Salutati è anche grande ammiratore di Dante, Petrarca e Boccaccio, ai quali riconosce un peso culturale pari a quello degli antichi. Lo stile delle sue opere, e in special modo delle lettere, rivela l’attenta lettura dei classici, in piena coerenza con i suoi interessi culturali: spiccano soprattutto la ricchezza lessicale e la capacità dialettica. Salutati considerò Firenze come sua patria, e la difesa nell’ “Invettiva” (Invectiva, 1403) dalle accuse di Antonio Loschi portavoce della corte viscontea milanese. Inizialmente poeta latino, si occupò poi di filosofia e politica. I suoi trattati sono importanti per comprendere il nuovo clima intellettuale che si profilava con l’umanesimo all’interno di temi e questioni tradizionali. Il secolo e la religione (De saeculo et religione, 1381) è una disputa retorica che esalta la vita religiosa contro i vizi e i peccati di quella mondana. Il fato, la fortuna e il caso (De fato, fortuna et casu, 1396-1399). La nobiltà delle leggi e della medicina (De nobilitate legum et medicinae, 1399) sviluppa in termini umanistici un tema largamente dibattuto dalla precettistica tradizionale. Il tiranno (“De tyranno”, 1400) segna un ribaltamento in chiave di impegno civile dell’ascetismo sostenuto ne “Il secolo”, e vi si difende l’interpretazione alighieriana della figura di Caesar. “Le fatiche di Hercules” (“De laboribus Herculis”), incompiuto, verte sull’interpretazione del mito di Hercules (Ercole) e più in generale sulla poesia: Salutati rivendica, contro il disinteresse della retorica classica, piena autonomia e dignità del genere. Soprattutto importante è il suo vastissimo epistolario. All’interno della tradizione della cancelleria fiorentina segna un deciso superamento della povertà lessicale e del rigido schematismo precedenti. Le lettere, specie quelle di più evidente impianto propagandistico, rivelano il suo attaccamento a Firenze (costantemente esaltata come erede della “libertas” romana), le sue doti di oratore, polemista accorto, e la tensione morale che con il tempo diventa esplicito magistero. Salutati fu un personaggio di primo piano nella vita politica, punto di riferimento della classe dirigente fiorentina. Corrispondente di Petrarca e Boccaccio, devoto sostenitore delle loro opere e di quelle di Alighieri, anche in contrasto con alcuni dei suoi stessi allievi, svolse un ruolo decisivo nella promozione della nuova cultura umanistica.
POGGIO BRACCIOLINI
Nella cultura rinascimentale la connessione tra studi letterari e impegno politico non è l’unico ambito di “interdisciplinarità”. Infatti, i molteplici aspetti dell’umanesimo non rappresentano “correnti” di pensiero giustapposte, ma sono espressioni di esigenze culturali condivise indifferentemente da tutti gli studiosi. Non é pertanto possibile collocare i singoli esponenti della cultura rinascimentale all’ interno di attività specifiche , che si differenzino da quelle svolte da altri intellettuali . La stessa ricerca filologica , che costituisce la componente principale del Rinascimento , non si esaurisce nello studio dei codici e nella ricostruzione dei testi antichi , ma coinvolge l’ interesse per altre dimensioni della cultura umanistica . Ne é appunto buon esempio l’ opera di Poggio Bracciolini (1380 – 1459) . Dalle biblioteche monastiche italiane e tedesche, attraverso una lunga serie di viaggi, egli riporta alla luce le opere di aurori quali Quintiliano, Vitruvio, Lucrezio, Stazio Ammiano Marcellino, nonchè molti testi ciceroniani. Inoltre, con il costante confronto tra differenti redazioni, attraverso tecniche filologiche raffinate, i testi vengono ricostruiti e restituiti alla loro forma originaria. Bracciolini, tuttavia rivela anche buone doti di letterato. I suoi viaggi e le sue scoperte sono infatti vivacemente descritti nelle lettere, nelle quali l’esaltazione dei classici si congiunge all’esaltazione delle virtù umane dell’impegno civile. Il suo epistolario costituisce una delle migliori produzioni della letteratura latina del Quattrocento: del resto l'”epistola”, sempre richiamandosi a un modello classico, acquisisce nuovamente la dignità di genere letterario, venendo spesso concepita e composta in vista della pubblicazione. Pur dedicando buona parte della propria vita alle ricerche nelle biblioteche, Bracciolini non ha come ideale la figura dell’erudito che si isola in mezzo ai libri. Al contrario, egli celebra le virtù umane che si rafforzano nel rapporto costante tra uomo e uomo e sottolinea con forza la dimensione sociale dell’individuo. Modernissima è inoltre, nel suo dialogo De avaritia (1429) , la valorizzazione del denaro come fondamento della società: se ciascuno si rinchiudesse in un’economia rivolta esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni individuali, la società si disgregherebbe; viceversa, l’accumulazione di denaro fornisce linfa vitale allo Stato, cosicchè “l’avarizia” può essere considerata il fondamento delle istituzioni politiche . Esaminiamo ora le opere principali di Bracciolini : ” La liberazione dei classici dagli ergastoli dei Germani ” , ossia l’ epistola scritta all’ amico Guarino Veronese il 16 dicembre 1416 , é forse l’ epistola più celebre di tutto il Quattrocento , che ci permette di cogliere dal vivo l’ entusiasmo che fu proprio degli umanisti nella loro opera di disseppellimento del mondo antico , di scoperta dei testi , dei documenti , delle opere d’ arte ; quella febbre da cui furono presi gli uomini colti d’ Italia , che condusse alla restaurazione di innumerevoli aspetti della civiltà antica , alla scoperta di opere che avevano avuto un’ importanza fondamentale nella storia degli uomini . La scoperta di un testo , smarrito per secoli sotto la polvere , nei sotterranei di un’ abbazia gotica , pareva ad essi non solo la conquista di un’ opera nuova per il mondo della cultura , ma ” un atto di liberazione umana ” . Bracciolini fu senz’ altro uno dei più grandi scopritori di opere , e quella di cui parla nell’ epistola a Guarino Veronese riguarda la riscoperta delle ” Istituzioni oratorie ” di Quintiliano . Dalla lettera traspare una notevole commozione di Bracciolini : ” qual cosa infatti potrebbe essere , in nome di Dio , più lieta , più gradita , più accetta a te e agli uomini dottissimi , quanto la conoscenza di quelle opere , con l’ uso delle quali noi diventiamo più dotti e , ciò che é considerato un bene anche maggiore , più eleganti ? ” ; traspare anche la concezione tipicamente umanistica , giunta fino a noi , di come la forma possa essere addirittura più importante del contenuto stesso . Tuttavia é innegabile , accanto alla commozione , una eccessiva compostezza e cura formale , un amore dell’ eloquio ornato , una costruzione sin troppo sapiente nella struttura dell’ epistola : lascia nei lettori un senso indefinito di disagio , l’ impressione che lasciano i prodotti sin troppo lavorati e composti . Bracciolini ci parla di un Quintiliano ingiustamente prigioniero in ” questi ergastoli barbari ” , di un Quintiliano ” triste , in abito luttuoso , come solevano essere i condannati a morte ” . Dal punto di vista filosofico , ancora più apprezzabile risulta il trattato ” De avaricia ” , ossia l’ elogio dell’ avidità , nel quale possiamo scorgere quello che fu forse il primo elogio vero e proprio del capitalismo . E’ assurdo disprezzare l’ avidità , perchè ” puoi indagare su qualunque attività , intellettuale o manuale , e niente troverai che sia immune da una notevole avidità ” : il denaro stesso , come già aveva sostenuto Aristotele , non va disprezzato , perchè senza di lui non potrebbero aver luogo i commerci e gli scambi tra gli uomini . Disprezzare l’ avidità é poi assurdo perchè in essa si può riconoscere la molla essenziale delle azioni umane , per non dire il fondamento stesso sul quale si regge il consorzio degli uomini . Ma in fin dei conti che cosa é l’ avidità ? E’ desiderare più del necessario , secondo Agostino , e quindi , secondo Bracciolini , tutti siamo avidi per natura : non si troverà mai nessuno che non voglia più del necessario . Se poi tutti smettessero di fare ciò che oltrepassa le loro necessità , allora si sarebbe costretti , secondo Bracciolini , a coltivare tutti quanti la terra perchè infatti nessuno produrrebbe più di quanto potesse bastare a lui e alla sua famiglia . La carità stessa , uno dei principali valori cristiani , verrebbe meno : nessuno potrebbe più essere liberale e generoso , perchè non sarebbe possibile dare agli altri non avendo nulla in più . Se bisognasse bandire dalle città tutti gli avidi , conclude Bracciolini , allora esse rimarrebbero deserte .
LEONARDO BRUNI
Noto anche come Leonardo Aretino, Leonardo Bruni nacque ad Arezzo nel 1370 e morì a Firenze il 9 marzo 1444. Ancora adolescente, viene fatto prigioniero dai ghibellini fuorusciti rientrati in città con l’aiuto dei Francesi e rinchiuso nel castello di Quarate. Liberato insieme coi suoi familiari, si trasferì a Firenze, dove lo troviamo già nel 1396; si dedicò dapprima allo studio della giurisprudenza, poi giunto a Firenze il celebre Manuel Crisolora di Costantinopoli nel 1396 si dedica allo studio del greco, alla scuola del quale conosce i più importanti umanisti fiorentini, come Francesco Filelfo; ebbe come maestro anche il Malpighini e fu intimo di Coluccio Salutati. Nel 1406, una volta tornato a Roma, il Papa Innocenzo VII lo nominò segretario pontificio, in un momento storico molto difficile per i rapporti tra Roma e il Papato: nell’agosto dell’anno precedente una delegazione di cittadini romani si presentò al Papa insultandolo e accusandolo di non muovere un dito per la ricomposizione dello scisma (c’erano ben tre papi); s’intromise il nipote Luigi Migliorati che fece uccidere undici rappresentanti della delegazione, scatenando una violenta reazione per cui il papa fu costretto ad abbandonare Roma, rifugiandosi a Viterbo e potè tornare solo nell’agosto dell’anno dopo. Il Papa sarebbe morto il 6 novembre 1406. La carica fu confermata dal successore Gregorio XII prima e da Alessandro V e Giovanni XXIII poi, e dal Bruni venne tenuta sino al 1414, eccettuata una breve interruzione tra il 1410 e il 1411, durante la quale fu segretario della Repubblica fiorentina mentre a Roma la sede papale rimaneva vacante; insediatosi a Roma il nuovo papa (o meglio, antipapa) Giovanni XXIII, cioè il vescovo di Napoli Baldassarre Costa, che sembra avesse avvelenato il predecessore Alessandro V a Bologna, conferma l’incarico al Bruni, e nel 1414 si farà accompagnerà al Concilio di Costanza, dove verrà dichiarato decaduto il 29 maggio 1415 come simoniaco e condannato alla prigionia. Il Bruni torna allora in Italia e si trasferisce definitivamente a Firenze, che gli concede il diritto di cittadinanza nel 1416, dopo la pubblicazione del primo libro della Storia fiorentina. Nel 1426 fu mandato insieme a Francesco Tornabuoni come ambasciatore presso il Papa Martino V che, eletto a Costanza l’11 novembre 1417, era potuto finalmente tornare in Roma il 30 settembre 1420, accolto calorosamente dalla folla festante e felice di avere finalmente come papa un concittadino. Nel 1427 Firenze gli dà l’incarico di Cancelliere, succedendo a Paolo Testini. Quando finì il IX libro della Storia, ebbe la cittadinanza onoraria con esenzione dalle imposte. Fu uomo di grande autorità, vigoroso ed arguto parlatore e aveva ricoperto a Firenze altre cariche pubbliche. Alla sua morte la città gli tributò onorevole e solenni esequie e fu sepolto in Santa Croce in un mausoleo opera di Bernardo Rossellino; sulla tomba fu posta questa iscrizione:
POSTQUAM LEONARDUS E VITA MIGRAVIT
HISTORIA LUGET ELOQUENTIA MUTA EST
FERTURQUE MUSAS TUM GRAECAS TUM
LATINAS LACRIMAS TENERE NON POTUISSE
(Dopo che Leonardo abbandonò questa vita / la storia piange e l’eloquenza è muta / e si racconta che le muse sia greche sia / latine non abbiano potuto trattenere le lacrime)
Il Bruni è rappresentato nel rilievo disteso sul sarcofago della sua tomba nelle vesti di retore, per l’estremo amore che in vita aveva mostrato per la civiltà di Roma antica. Il volto raffigurato di fronte rispetto allo spettatore mostra una estrema cura fisiognomica tanto che ha fatto pensare al ritratto desunto da un calco dal vero. Per il volto si fa il nome di Antonio Rossellino, mentre per il complesso si fa quello di Bernardo Rossellino, della scuola di Leon Battista Alberti; ed è proprio alla scuola di Leon Battista Alberti che molti critici propendono di assegnare la progettazione del complesso monumento funerario. Sta di fatto che la complessità stessa e la bellezza e grandiosità del monumento testimonia tutto l’affetto che la cittadinanza di Firenze portò al celebre concittadino onorario. Oltre alla Storia citata, in cui un vivo interesse politico lo portò a intendere, con una profondità e un senso critico insoliti alle cronache del tempo, le vicende di Firenze, e a rivolgere la sua attenzione, più che alle imprese militari, alla costituzione interna e alle vicende civili, vanno ricordati i Commentari che narrano avvenimenti a cui lo scrittore partecipò, talvolta come uno degli attori non tanto di secondo piano. Scrisse inoltre storie della Origini della città di Mantova, delle Origini di Roma. Studioso e divulgatore delle letterature e della cultura classica, soprattutto greca, tradusse l’Etica Nicomachea e la Poetica di Aristotile, parecchi dialoghi di Platone, parecchie vie di Plutarco, sei Orazioni di Demostene e una di Eschine. Cultore del volgare, prese posizione contro i suoi detrattori, nella quattrocentesca questione della lingua, coi Dialoghi ad Petrum Fistrum, ed in volgare compose Le vite di Dante e del Tetrarca. Bruni fu un umanista di profonda cultura, consapevole del significato civile dell’impegno letterario. Fu tra i maggiori scrittori in latino del suo tempo, soprattutto come traduttore dal greco di Platone di cui tradusse Fedone (1405), Gorgia (1409), Fedro (1424), Apologia (1424); e di Aristotele di cui tradusse Etica a Nicomachus (1416-7), Economici (1420-21), Politica (1435-38). Si tratta di traduzioni importantissime dal punto di vista culturale. Per i lettori di oggi, la sua opera più importante sono le Storie del popolo fiorentino (Historiae florentini populi) in dodici libri, iniziate nel 1414 e concluse con il Commentario degli avvenimenti del suo tempo (Rerum suo tempore gestarum commentarius) scritto nel 1378-1440. L’opera è tesa a esaltare la libertà di Firenze, ad affermare il suo ruolo egemonico in Italia: sono concetti già prefigurati da Bruni nel suo Elogio della città fiorentina (Laudatio florentinae urbis, 1401-3). Nella sua opera storiografica Bruni rivela un metodo fondato sul confronto dei documenti e sulla rinuncia a ogni interpretazione provvidenzialistica. Impegnato nella rivalutazione del volgare, Bruni scrisse una Vita del Petrarca (1436) e una Vita di Dante (1436) su Alighieri. In quest’ultima riconosce la grandezza della poesia alighieriana e la validità della lingua nuova di fronte alle antiche lingue classiche. Leonardo Bruni deve la propria formazione culturale a Crisolora e a Salutati: quest’ultimo lo invitò a seguire gli insegnamenti del primo, dopo che Bruni ebbe abbandonato gli studi di diritto civile. In un passo dei Commentarii, egli stesso ci racconta la sua profonda avversione allo studio delle lettere greche: “Io in quel tempo studiavo in ragione civile, non rozo degli altri studii perché naturalmente ardevo d’amore delle scienze et a dialectica et rethorica haveo data opera non picola. Per la qual cosa nella venuta di Chrysolora cominciai a dubitare; perocchè abandonare lo studio di ragione, mi pareva dannevole, et tanta comodità d’imparare le greche lettere lasciare, stimavo quasi pechato. Et spesse volte giovenilmente a me medesmo così parlavo: Tu quando Homero, Platone et Demosthene, et gli altri poeti philosophi et oratori, de’ quali tante et sì mirabili cose si dicono, puoi vedere et insieme con loro parlare et della loro mirabile disciplina riempierti, lasci et abbandoni? Tu questa facoltà divinamente offertati lasci passare? Già settecento anni nessuno in Italia ha saputo le lettere greche et pure da loro essere ogni dottrina confessiamo […]. Molti dottori di ragione civile sono in ogni luogo né mai d’impararlo ti dee manchare comodità; ma questo è uno et solo dottore delle greche lettere: se questo dinanzi ti si toglie, nessuno poi si troverrà da cui tu impari. Alfine vinto da queste ragioni, mi detti a Chrysolora con tanto ardore d’imparare, che quel che il dì veghiando imprendevo, di notte poi etiandio dormendo referivo” (traduzione di Girolamo Pasqualino, contemporaneo di Bruni). Dei suoi due autori prediletti dell’antichità classica (Aristotele e Cicerone), Bruni volle narrare la vita (Vita Aristotelis e Vita Ciceronis), e con altrettanto zelo ed entusiasmo egli volle stendere anche una Vita di Dante (1436) in volgare, superando le riserve dell’ambiente umanistico – anche fiorentino – verso i grandi trecentisti in genere (tematica che sarà ripresa da Pico nella sua disputa con Ermolao Barbaro), e verso Dante in particolare, che erano state oggetto di discussione, pro e contro, nei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, che lo stesso Bruni aveva scritto nel 1401. Bruni riconosce nella sua opera su Dante la grandezza insuperata del poeta fiorentino, il cui ingegno non fu affatto inferiore a quello dei “grandi” dell’antichità; Bruni riconosce anche la validità della lingua volgare in cui l’Alighieri aveva espresso il suo mondo, poiché – com’egli afferma nella Vita di Dante – “ciascuna lingua ha la sua perfezione e suo suono e suo parlare limato e scientifico” e fra latino e volgare non v’è altra differenza “se non come scrivere in greco o in latino”. Ciò non toglie, naturalmente, che Bruni apprezzi sommamente il latino e il greco, e non è un caso che sia scritta in greco l’opera De militia. Ma, a testimonianza dei suoi interessi per il volgare, egli scrive in volgare Sulla repubblica dei Fiorentini (Peri thV twn Flwrentinwn politeiaV), una novella imperniata sulle vicende di Seleuco, re di Siria, che cede al figlio Antioco la sua moglie Stratonica.
LORENZO VALLA
Lorenzo Valla nacque a Roma nel 1407 da famiglia piacentina. Gli furono maestri Giovanni Aurispa e Ranuccio da Castiglion Fiorentino, ma dimostrò subito, con la vivacità dell’ingegno, il suo anticonformismo sostenendo in un opuscolo andato perduto (De comparatione Ciceronis Quintilianique) che Quintiliano era da considerarsi superiore a Cicerone . Nel 1429, dopo inutili tentativi di trovare una sistemazione nella curia pontificia , lasciò Roma, e dopo un breve soggiorno a Piacenza, si recò a Pavia per insegnarvi eloquenza (1430-33). Compose nel 1431 il trattato De voluptate, dialogo nel quale il Bruni sostiene la morale stoica , il Panormita la morale epicurea , e il Niccoli cerca di conciliare le due opposte tesi. Il pensiero di Valla muove dal riconoscimento della morale cristiana che indica per fine dell’uomo la beatitudine celeste, ma ritiene che la virtù derivi dalla naturale tendenza dell’uomo al piacere , che in sè e per sè non è da respingere. C’è un diletto spirituale e c’è anche un diletto fisico, che sono conciliabili nell’uomo sano e saggio. Per dissensi col Panormita, appena un anno dopo, il Valla pose mano a una nuova redazione del trattato, col titolo De vero bono, cambiando tutti e tre gli interlocutori, e successivi mutamenti apportò negli anni dal 1434 al 1441, cambiando nuovamente il titolo (De vero falsoque bono). Nel 1433 dovette lasciare Pavia per aver suscitato con un suo opuscolo le ire dei giuristi locali, e girovagò in varie città, fra le quali Milano, Genova e Firenze; poi tentò di trovare un posto in curia e finalmente nel 1435 fu accolto come segretario alla corte del re Alfonso d’Aragona che conduceva la guerra per la conquista del regno di Napoli. Negli anni anteriori all’entrata del re a Napoli (1443) il Valla compose il De libero arbitrio, i tre libri della Dialecticae disputationes, dove prende posizione contro gli scolastici e l’aristotelismo, l’opuscolo De falso credita et ementita Constantini donatione, e il dialogo De professione religiosorum. Con le sue opere, il Valla si crea nemici dappertutto, e deve far fronte anche all’accusa di eresia, dalla quale si difese scrivendo un’Apologia indirizzata al papa Eugenio IV. Nel 1448 lasciò Napoli e si stabilì a Roma, dove finalmente fu accolto come segretario apostolico nella curia pontificia, e insegnò eloquenza nello Studio. A Roma morì nel 1457. L’opera più famosa del Valla sono le Elegantiae della lingua latina in sei libri, a cui lavorò gran parte della sua vita, e già divulgate nel 1444. Quest’ opera segna un momento molto importante nella storia dell’umanesimo. Il Valla trae dalla sua vasta esperienza dei classici latini, e specialmente da Cicerone e Quintiliano, gli esempi per attuare l’eleganza stilistica dello scrivere latino, dettando le norme per l’uso moderno e mostrando disdegno non solo per il latino medievale, ma anche per quello degli umanisti suoi contemporanei (Bruni, Bracciolini, Fazio, ecc.), che usavano un latino piuttosto empirico. Di qui le aspre polemiche che spesso degenerarono nello scambio di insulti e vituperi, specialmente col Fazio (1446) e col Bracciolini (1452-53). E il torto non era tutto da una parte sola. Lo stesso Valla, scrivendo nel 1446 la storia di Ferdinando I , padre di Alfonso (Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae libri tres), proprio perchè spesso scrive con vivacità e divertimento dello gli episodi che narra , si lascia andare a un latino meno regolato e meno elegante , ma indubbiamente più vivo e ” moderno ” .
IL PENSIERO
Nel Rinascimento ottiene notevole successo anche l’ edonismo , nella formulazione datane da Epicuro . L’ imitazione in Valla e non solo non é del tutto servile , perchè l’ edonismo ha la sua radice nel sentimento terreno della nuova vita , che si abbandona al libero gioco dei suoi sensi , delle sue passioni , delle sue attività . La natura per il Valla non é matrigna , é invece benigna largitrice del piacere e alleviatrice delle cure dei mortali : l’ amore della gloria , fuori dal clima edonistico , non é che una vana chimera ( che giova infatti ai morti la gloria , se non hanno sensi per goderla ? ) ; e l’ infamia é fuggita non come cosa disonesta , ma perchè si teme con essa di diventar ludibrio degli altri o di perdere credito ; la gloria e il disonore non sono che mezzi subordinati al fine del piacere . E l’ edonismo non é impeto bestiale , bensì é dottrina che implica ragione e discernimento , per cui il saggio ” antepone i danni minori ai maggiori e i beni più grandi ai più piccoli ” . In questo senso il piacere prende il nome meglio appropriato di utile ed estende l’ azione dell’ individuo dalla sfera particolare della sua sensibilità a quella più vasta del consorzio civile : l’ utilità infatti costituisce i governi , informa le leggi , detta le pene . La stessa vita celeste é , come é chiamata nella Scrittura , ” paradisium voluptatis ” : la speranza in un al di là , invece di troncare , completa , rendendolo eterno , il nostro piacere e ci dà nuova forza per sopportare le molestie dell’ esistenza terrena . E perchè mai la dottrina cristiana insisterebbe sulla reintegrazione dei corpi , nel giorno finale , se non per darci una maggiore capacità di godimento . L’ immaginosa rappresentazione dell’ altra vita si chiude con una evocazione di convivii e di trionfi , che ricordano , assai da vicino , quelli della gaudente società italiana del ‘400 : epilogo inatteso e del tutto estraneo al ” sermon prisco ” degli epicurei , il cui tetro pessimismo non lascia nessuna traccia nell’ originale imitazione del Valla . Particolarmente interessante e famoso é l’ elogio dei piaceri effettuato dal Valla , soprattutto quello del vino , riservato esclusivamente agli uomini ed estraneo agli animali ; Valla avrebbe voluto anche elogiare il riso come massimo piacere , ma non lo fece perchè consapevole che ad esso si accompagna il pianto , che tuttavia , agli occhi del Valla , é sfogo del dolore e quindi dono riservato all’ uomo , proprio come la parola , la capacità di riflettere e di aver coscienza di sè . Il vino , poi , non é un piacere idoneo solo a una certa fascia d’ età , come la maggior parte dei piaceri , che sono riservati ai giovani , ma esso é sommamente caro a tutti , senza differenza di sesso o di età , anzi più si é anziani e più lo si apprezza . Valla arriva addirittura a parlare a tu per tu con il vino , che chiama ” padre dell’ allegria , maestro dei grandi , compagno nella felicità , sollievo nell’ avversità , preside dei convivii , capo e direttore delle nozze , arbitro di pace , padre del dolcissimo sonno , ristoratore delle forze negli stanchi corpi … ” e in molti altri modi , con animo pervaso da estasi .
NICOLA CUSANO
Nicola Cusano ( 1401 – 1464 ) é di origini tedesche , sebbene dal nome sembrerebbe essere italiano a tutti gli effetti : ricordiamoci che nel Rinascimento vi era la tendenza a latinizzare i nomi e il nome Cusano deriva dalla sua città natale ( Kues ) . La precisazione geografica nel caso di Cusano é piuttosto importante perchè lui , pur essendo influenzato dall’ Umanesimo , pur viaggiando assiduamente per tutta l’ Europa per via delle importanti cariche che ricopriva , risente assai del pensiero scolastico : la Germania é infatti una realtà periferica nel ‘400 , dove l’ Umanesimo si sviluppa più lentamente e con minore profondità . Ciò che senz’ altro va sottolineato della sua vita é il gran numero di cariche ricoperte , sia in campo politico sia in campo ecclesiastico ; si occuperà non solo della teologia vera e propria , ma anche dell’ andamento della Chiesa e del suo potere . Due episodi della sua vita risultano particolarmente interessanti : fu infatti coinvolto dalle vicende del conciliarismo , ossia di quella teoria sviluppatasi nella prima metà del ‘400 : dopo la parentesi trecentesca della cattività avignonese , dei papi e degli anti-papi il concilio dei vescovi aveva rivendicato a sè l’ autorità della Chiesa ; la tesi conciliarista essenzialmente era questa : la Chiesa non é fatta dal papa , ma dall’ assemblea dei vescovi ; l’ opinione che si opponeva a questa era quella curialista , che vedeva il potere concentrato nelle mani del papa e che alla fine prevalse sulla posizione conciliarista . A noi interessa il fatto che Cusano fu coinvolto da questa ” battaglia ” ideologica e a distanza di pochi anni assunse , probabilmente anche per interessi personali , ambedue le posizioni : prima sostenne l’ autorità del concilio , poi quella del papa . Più avanti vedremo le argomentazioni con cui argomenterà in favore prima dell’ una , poi dell’ altra posizione e questo ci interesserà più che altro perchè nel suo argomentare vi saranno le basi stesse della sua filosofia . Il secondo episodio fondamentale della vita di Cusano fu il viaggio in Oriente ; in questo periodo Costantinopoli sta vivendo da vicino la minaccia dei Turchi , tant’ é che nel 1453 cadrà in loro potere . L’ Oriente , nel momento in cui si accorse del pericolo della minaccia turca , cercò un accordo con la Chiesa d’ Occidente per poter così godere di un aiuto politico e così per qualche anno si ebbe una unificazione della Chiesa orientale con quella occidentale . Cusano ebbe a che fare con queste vicende e della sua personalità emerse una grande tolleranza per tutte le fedi ; in alcune sue note autobiografiche , poi , racconta che nel viaggio di ritorno ebbe l’ intuizione del concetto della ” dotta ignoranza ” , che é la base della sua filosofia . Cusano , quindi , nei confronti delle altre fedi mostra grande tolleranza e per spiegare ciò che intende immagina che Dio abbia convocato al suo cospetto saggi appartenenti a diverse culture e fedi per trovare una PACE DELLA FEDE . Cusano é pienamente consapevole che la divisione delle varie religioni ha provocato molti lutti e molte guerre religiose , pensiamo alle crociate ; tuttavia egli non ha di fronte a sè il problema della Riforma , che si proporrà anni dopo . Al cospetto di Dio ci sono ebrei , cristiani e musulmani , ma il discorso può essere esteso anche alle guerre interne allo stesso mondo cristiano , che avverranno successivamente . Dio li ” invita ” perchè possano trovare un accordo , ma come ? Un percorso può suggerirlo il concetto di fede : a parlare nel dialogo immaginario c’é anche san Paolo che rivendica il nucleo della salvezza proprio nella fede ( ” Sola fide ” dirà Lutero ) . In questo contesto interamente intellettuale Cusano inizia ad avanzare sue ipotesi : é effettivamente la fede a dare la salvezza , dice Cusano similmente a Lutero , ma egli della fede fa un utilizzo più erasmiano che non luterano : la fede non porta per Cusano alla spada , come sarà per Lutero , ma alla tolleranza , come dirà Erasmo . Cusano dice che in fondo in tutte le tre religioni c’ é l’ idea di fede , che può essere vista come nucleo comune ; queste tre religioni , per di più , sono pure imparentate tra loro visto che il cristianesimo e l’ islamismo sono figlie dell’ ebraismo . Tutte e tre sono monoteistiche e quindi prevedono la credenza in un unico Dio : é assurdo dividersi , secondo Cusano , nei vari modi in cui si adora Dio perchè nessuno può sapere quale sia il modo giusto di adorarlo : come si può criticare un’ altra religione per come adora Dio non sapendo come effettivamente vada adorato ? E poi secondo Cusano la pluralità delle religioni é positiva perchè può creare uno spirito emulativo reciproco dove ciascuna religione cerca di superare le altre nell’ adorare Dio : é come se l’ esistenza di più religioni desse adito ad una gara a chi più adora Dio . Sullo sfondo di questa concezione c’é un’ idea tipicamente di Cusano : per lui l’ infinito , l’ assoluto , in ultima istanza Dio , non é mai pienamente attingibile . Il concetto di dotta ignoranza , che esamineremo meglio in seguito , vuol proprio sottolineare l’ inattingibilità da parte dell’ uomo dell’ assoluto : il rapporto tra la nostra conoscenza e Dio ( l’ assoluto ) é lo stesso che si instaura tra un poligono inscritto e la circonferenza alla quale é inscritto : il poligono e la circonferenza , per definizione , non saranno mai uguali tuttavia man mano che si moltiplicano i lati del poligono ci si avvicina sempre di più alla circonferenza ; così l’ uomo può avvicinarsi sempre di più a Dio senza mai raggiungerlo definitivamente . Questo modo di pensare é già sotteso alla tolleranza di Cusano : pur convinto che il cristianesimo di tutte e tre sia la religione migliore , Cusano sostiene che nessun punto di vista potrà mai esaurire l’ essenza di Dio e darne un’ immagine giusta : la pluralità delle fedi aumenta la conoscibilità di Dio , quasi come se moltiplicasse i lati del poligono . Certo , se ci fosse una religione che da sola cogliesse l’ intera essenza di Dio allora le altre sarebbero erronee e da scartare , ma visto che non é così allora la pluralità delle fedi , ossia i più punti di vista che si hanno di Dio , diventano una ricchezza : é come se si moltiplicassero i lati del poligono , ci si avvicina sempre di più a Dio . Di fatto , secondo Cusano , l’ essenza di Dio , nella sua inesauribilità e ineffabilità ( riprendendo Plotino ) potrebbe essere colta solo se Dio fosse visto da un’ infinità di punti di vista , cosa che però é inattuabile . Cusano non usa questa metafora , ma tuttavia é come se vedesse Dio sotto forma di sfera : da qualsiasi punto di vista la osserviamo abbiamo una corretta visuale , ma non completa ; se siamo già in due e sommiamo le nostre visuali , che sono entrambe corrette , la visuale complessiva risulterà maggiore ; se ipoteticamente potessimo moltiplicare all’ infinito i punti di vista , come detto , avremmo una visuale completa di Dio : quindi , quante più religioni ci sono , tanti più punti di vista su Dio ( tutti corretti ) si hanno . Dio stesso , dice Cusano , appare all’ uomo a seconda di come l’ uomo lo guarda : appare adirato all’ uomo che lo guarda adirato , appare benevolo all’ uomo che lo guarda benevolo . L’ idea di tolleranza non é solo un’ idea di tolleranza religiosa , ossia un puro e semplice ” buonismo ” , ma dipende dallo stesso impianto generale della filosofia di Cusano . Un discorso analogo vale per le tesi con cui difende , prima , il conciliarismo e con cui lo attacca , dopo . La distinzione che Cusano effettua in primo luogo é tra presiedere il concilio e presiedere nel concilio ; il papa non presiede il concilio , ma nel concilio , il che é ben diverso ; per arrivare a questa conclusione Cusano si serve delle parole di Cristo in persona , rivolte ai discepoli : ” ogni volta che vi ritrovate in nome mio , io sono lì presente ” . Quindi il concilio , ossia l’ assemblea di tutti i fedeli , quando si riunisce in nome di Dio , é come se fosse presieduto da Dio stesso ; e il papa quindi che funzione ha ? Secondo Cusano egli presiede nel consiglio , ha cioè un ruolo di coordinamento , di dare attuazione alle delibere , di ” primus inter pares ” , ma non ha assolutamente funzione di comando . Filosoficamente più interessante é l’ argomentazione di cui Cusano si serve per dimostrare contro il conciliarismo : il papa compendia la Chiesa ; con il papa é come se fosse lì presente tutta la Chiesa riunita in un punto solo . Cusano parla di Chiesa ” complicata ” nel papa , ossia ” piegata insieme ” quasi come un foglio accartocciato . La Chiesa , invece , é la sua esplicazione , ossia , riprendendo l’ immagine del foglio accartocciato , essa é il foglio che si apre dopo essere stato accartocciato . Quest’ idea deriva a Cusano da Platone e dai neoplatonici : vi é rapporto tra il Bene in sè e le cose che da lui derivano : la Chiesa altro non é che lo ” sviluppo ” del foglio di carta accartocciato , ossia del papa . Questo rapporto di complicazione ( papa ) – esplicazione ( Chiesa ) non va tanto letto in chiave aristotelica , quanto piuttosto in chiave platonica : infatti Cusano in un certo senso prende da Aristotele i concetti di potenza ( il papa , la complicazione ) e atto ( la Chiesa , l’ esplicazione ) , però per lui l’ atto non é superiore alla potenza , ma , viceversa , la potenza ( il papa ) é superiore all’ atto ( la Chiesa ) , riprendendo evidentemente il rapporto platonico tra Bene e realtà : il Bene in Platone era una complicazione della realtà , per dirla alla Cusano , però si trovava ad un livello decisamente superiore ad essa . Il papa risulta quindi essere superiore alla Chiesa e , di conseguenza , anche al concilio . Esaminiamo ora gli aspetti più metafisico-teologici di Cusano : il testo più importante e dove meglio emerge l’ intera sua filosofia é la Dotta ignoranza , concetto che dice aver avuto nel viaggio di ritorno dall’ Oriente ; dice esplicitamente che questo concetto non é propriamente suo , ma che l’ ha elaborato e ripreso da altri filosofi più antichi . Il concetto di dotta ignoranza si richiama palesemente a Socrate , il quale affermava ” so di non sapere ” , e ad Agostino . Cusano con ” dotta ignoranza ” non intende evidenziare qualcosa di negativo , ossia il non sapere di per sè , quanto piuttosto sottolineare l’ aspetto positivo di questo non sapere , riprendendo in questo senso lo scetticismo : il fatto di non sapere diventa stimolo a sforzarsi di sapere . Alla base di questo ragionamento stanno due presupposti : 1 ) uno aristotelico :l’ uomo per sua natura tende alla conoscenza e questa ” tensione ” non può che essere soddisfatta : Aristotele sottolineava che l’ uomo prova piacere nel provare sensazioni conoscitive e che per nulla al mondo si priverebbe degli organi che gli consentono di provarle ( per esempio gli occhi ) ; il sapere é naturale e proprio in quanto naturale tende ad essere soddisfatto ; 2 ) il secondo platonico ( e più generalmente neoplatonico ) : Cusano ragiona su cosa é la conoscenza : la conoscenza consiste nell’ instaurare rapporti di proporzione tra quello che già conosciamo e quello che non conosciamo ancora ; é come se nella nostra mente avessimo degli ” attaccapanni ” dirà in seguito qualcuno : ogni nuova conoscenza va collegata , confrontata e proporzionata alle precedenti : in fin dei conti il paragone usato da Cusano per descrivere il processo conoscitivo é quello dell’ equazione dove bisogna trovare la x ; si deve stabilire un rapporto e cavare fuori la x : tutti i rapporti conoscitivi vanno così . Però da notare che Cusano estende a rapporti qualitativi ciò che noi useremmo solo per quelli quantitativi : la x infatti é quantitativamente determinata , ma ciononostante Cusano fa valere il rapporto per ogni realtà ; a rigore , più che di proporzione , si dovrebbe quindi parlare di confronto . Questo ridurre tutto a rapporti quantitativi porta Cusano a conclusioni ulteriori : se é vero che ogni conoscere é proporzionare , si arriva a concludere che l’ assoluto , il ” massimo ” , come lo chiama Cusano , che poi in ultima istanza é Dio , non sarà mai pienamente conoscibile perchè matematicamente non c’é rapporto tra il finito e l’ infinito . Il nostro intelletto e le nostre conoscenze sono indubbiamente finite , ma Dio , l’ infinito , é assolutamente incommensurabile rispetto alle cose finite : se non posso fare la proporzione , evidentemente , ne risulta che Dio ( l’ infinito ) non sarà mai pienamente conoscibile . Ma il discorso di Cusano si fa ancora più ” scettico ” nel momento in cui arriva a dire che non solo non possiamo conoscere la natura di Dio ( ossia dell’ infinito ) , ma non possiamo neanche conoscere le cose finite perchè in fin dei conti anche il rapporto tra cose finite tenderà sempre ad essere infinito : il rapporto con le cose da conoscere , tramite le proporzioni , sarà sempre più preciso , ma non potrò mai arrivare a una conoscenza assoluta : istituirò rapporti con le cose da conoscere sempre più precisi all’ infinito , ma che non saranno mai conoscitivi fino alla fine : é come con il poligono inscritto alla circonferenza e la circonferenza stessa : il poligono ( ossia la nostra conoscenza ) e la circonferenza ( gli oggetti della conoscenza ) potranno essere sempre più ” vicini ” man mano che moltiplico i lati del poligono , ma non arriveranno mai a coincidere totalmente perchè , se prestiamo attenzione , il poligono i lati li ha finiti , ma la circonferenza li ha infiniti : mi posso avvicinare sempre di più nella conoscenza di una cosa senza però mai conoscerla effettivamente . Per capire meglio questo concetto occorre prendere in considerazione il ” De coniecturis ” di Cusano , ossia ” Le congetture ” : la conoscenza secondo Cusano consisterebbe nell’ elaborare una serie di congetture , ossia nell’ avanzare ipotesi che si avvicino il più possibile alla realtà presa in esame ; ma le congetture non saranno mai effettivamente adeguate alla realtà : la parola congettura , non a caso , deriva dal verbo latino ” icio ” , lancio , e quindi significa ” lanciare ” ipotesi nel tentativo di raggiungere , di colpire l’ oggetto . Potrò fare sempre nuove congetture che si avvicineranno sempre di più all’ oggetto in questione , senza però mai raggiungerlo : quindi anche per una realtà finita il processo conoscitivo finisce per essere infinito . Farò sempre nuove congetture , sempre più vicine all’ oggetto , ma che tuttavia mai lo ” colpiranno ” . I lati del poligono inscritto possono identificarsi con le congetture : infatti , proprio come i lati , io posso moltiplicarle all’ infinito senza mai raggiungere ciò che mi ero proposto di raggiungere . Quindi Cusano in un primo tempo nega la conoscenza dell’ infinito , ma ammete quella del finito , poi le nega ambedue : ne deriva la dotta ignoranza : é un’ ignoranza , perchè la conoscenza resta sempre un poligono che mai coinciderà con la circonferenza , ma é dotta perchè so di non sapere e in più quest’ ignoranza in quanto dotta non é il punto di arrivo , ma di partenza , come testimonia il ” De coniecturis ” , che fa vedere più che ” La dotta ignoranza ” , il lato positivo : potrò fare sempre nuove congetture e avvicinarmi alla conoscenza , senza mai raggiungerla : quindi i due presupposti , aristotelico e platonico sono compatibili . In ultima istanza potremmo paragonare la dotta ignoranza all’ eros di Platone : é un qualcosa che sta a metà strada tra il non sapere e il sapere , e che quindi diventa stimolo per una ricerca continua . ” La caccia della sapienza ” é uno degli ultimi scritti di Cusano e in esso l’ autore paragona l’ attività del filosofo a una caccia le cui prede sono rappresentate dalle varie forme del sapere . Una preda che però sfugge sempre é la conoscenza di Dio , al quale ci si può accostare solo per via negativa . Si tratta di un concetto analogo a quello della dotta ignoranza : in sostanza Cusano riprende la ” teologia negativa ” di Plotino : l’ uomo non sa come Dio sia e quindi l’ unico modo che ha per definirlo consiste nel dire non cosa é , ma cosa non é : é infatti impossibile conoscere un Dio talmente grande che non c’é alcun limite alla sua grandezza . Ma attraverso l’ esperienza della dotta ignoranza a quale obiettivo mira Cusano ? E’ uomo di Chiesa e quindi la sua é senz’ altro una riflessione teologica e quindi l’ obiettivo sarà Dio , che in termini filosofici lui chiama ” l’ assoluto ” , o meglio ancora ” il massimo ” , inteso in termini anselmiani come ” ciò di cui nulla si può pensare di maggiore ” , il massimo . In che senso la dotta ignoranza può aiutare a cogliere il massimo ? Può farci cogliere la cosiddetta coincidentia oppositorum , ossia la coincidenza degli opposti : in altre parole é convinto , in base a considerazioni neoplatoniche , che nella realtà assoluta cose che nella realtà finita sono opposte possano convivere insieme e coincidere ; già Plotino stesso parlando dell’ Uno , dove coincide tutta la realtà , ammette la coincidenza degli opposti . La dotta ignoranza può arrivare a far cogliere questo aspetto e Cusano per spiegare ciò si serve di metafore matematiche – geometriche : prendiamo il poligono e il cerchio , con il quale Cusano ha già dimostrato la teoria della dotta ignoranza : li usa per dimostrare che dei concetti di per sè contradditori , portati alle estreme conseguenze non sono più contradditori , ossia che cose contradditorie nel finito non lo sono più nell’ infinito . Esempio tipico é quello del cerchio e del poligono , due realtà che si escludono a vicenda perchè uno ha a che fare con la linea retta , l’ altro con la curva : curva e retta sono concetti inconciliabili e contradditori ; ma se portiamo all’ infinito i lati del poligono otteniamo esattamente una linea curva ; fin quando rimaniamo nell’ ambito del finito sarà sempre un poligono , ma quando entriamo nell’ ambito dell’ infinito , ecco che allora diventa una circonferenza . Discorso analogo vale per il concetto di triangolo : ha sue caratteristiche ; un triangolo isoscele ha due angoli alla base , per definizione , congruenti e la loro somma é necessariamente minore di 180 gradi , che é invece la somma di tutti gli angoli interni di un triangolo . Però se aumentiamo progressivamente l’ altezza del triangolo , l’ angolo del vertice si restringe gradualmente , mentre quelli alla base tendono ad allargarsi sempre più e ad avvicinarsi sempre più ad essere angoli retti e la loro somma si avvicina sempre più a 180 gradi ; immaginiamo che il triangolo isoscele abbia altezza infinita : avrebbe i due angoli alla base uguali a 180 gradi e il terzo angolo uguale a 0 ; i due lati congruenti del triangolo isoscele finirebbero per essere paralleli , cioè non si dovrebbero mai incontrare ( il che equivale a dire che si incontrano all’ infinito ) ; allora nel campo dell’ infinito concetti opposti finiscono per identificarsi . Ecco quindi con il triangolo l’ esempio classico del modo di ragionare di Cusano : da un verso é un metodo meta-matematico , dove la matematica viene applicata per interpretare realtà metafisiche , ma dal caso del triangolo emerge qualcosa di più : in realtà il suo metodo non é fatto di due livelli , ma di tre : prima enuncio una verità geometrico-matematica riguardante il finito ( la somma dei tre angoli é 180 gradi ) , poi la estendo all’ infinito ( immagino una dimensione infinita e vedo cosa succede ) e poi con le nuove verità paradossali riguardanti l’ infinito interpreto le verità metafisiche del massimo . Cusano non dice che Dio é un triangolo isoscele con l’ altezza infinita , evidentemente ; mentre una realtà geometrica può essere infinita solo sotto un determinato aspetto , Dio , come infinito , lo é sotto tutti gli aspetti . L’ infinità matematica é puramente spaziale , quella divina no : Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore , ma non solo in termini spaziali , ma anche in termini qualitativi : ha infinita bontà , giustizia , amore … Dio non é un triangolo infinito , ma é come un triangolo infinito : ha una qualche analogia , e cioè l’ aspetto di infinitezza . E’ un modo di avvicinarsi a Dio tramite verità matamatiche , senza avere la pretesa di cogliere l’ essenza di Dio . Altre due metafore matematiche : paragona Dio ad una cerchio il cui centro é dappertutto e la circonferenza non é da nessuna parte ; cosa vuol dire ? Dio é come un cerchio infinito ; sempre col metodo di Cusano partiamo da verità matematiche in ambito finito , poi si passa ad ambito infinito e infine a Dio . L’ altra metafora é di tipo aritmerico e riguarda il concetto di massimo ; fa notare che anche solo riferendoci al concetto di massimo vale quanto detto sulla coincidenza degli opposti : qui forse si vede anche meglio il passaggio da quantitativo a qualitativo : sia massimamente piccolo sia massimamente grande sono due manifestazioni del massimo opposte nell’ ambito del finito ; ma se passiamo al piano infinito piccolo e grande coincidono nel concetto stesso di massimo , massimamente piccolo e massimamente grande : si unificano nel concetto di massimo . Problema fondamentale in Cusano é il rapporto tra Dio e il mondo : Cusano deve fare attenzione a non scivolare nel panteismo ; il neoplatonismo con la metafora della sorgente e dell’ acqua faceva notare che il legame Dio-mondo creato é indisgiungibile ; Cusano deve trovare un qualcosa che distingua Dio dal mondo creato , cioè giustificare nella concezione neoplatonica la distinzione tra creato e creatore : egli si serve allora dei concetti di complicazione , esplicazione e contrazione ; i primi due li abbiamo già trovati a riguardo del papa e della Chiesa ; in ultima istanza Cusano usa tale rapporto per descrivere il rapporto tra Dio e il mondo : Dio é la complicazione di ciò che sarà il mondo ( oppure il mondo é l’ esplicazione di ciò che é Dio ) ; ancora una volta si serve di una metafora per descrivere ciò che intende : il rapporto tra l’ uno e i numeri : l’ uno complica in sè tutto ciò che i numeri saranno in maniera esplicata : l’ uno può essere visto come l’ origine di tutti i numeri , sulla scia dell’ antico pitagorismo che chiamava l’ uno ” parimpari ” . Dall’ uno derivano i numeri nel senso che partendo dall’ unità , se aggiungo l’ uno vado a due , poi aggiungo ancora l’ uno e vado a tre e così via ; come per tutte le metafore matematiche di Cusano , anche qui si parte da una verità matematica per poi arrivare a una verità metafisica : l’ uno come unità rappresenta Dio . Va però fatta una precisazione : il rapporto di complicazione-esplicazione non va letto in termini aristotelici , o meglio , in realtà Cusano fa un paragone tra il rapporto complicazione-esplicazione e quello di potenza-atto , però lo reinterpreta secondo categorie neoplatoniche : nell’ aristotelismo la potenza era sempre subordinata all’ atto : una cosa in potenza ( l’ uovo ) per diventare in atto ( gallina ) ha bisogno di qualcosa già in atto ( il gallo ) ; l’ atto era comunque superiore anche assiologicamente : il seme di per sè non ha valore , se non come futura pianta . Sembrerebbe quindi che il seme é la pianta complicata e la pianta é il seme esplicato , per dirla alla Cusano ; ma non é così perchè nel rapporto esplicazione-complicazione é superiore ciò che é complicato , come ben emergeva a riguardo del papa e della Chiesa : il papa é superiore perchè complica in sè tutte le cose . Comunque Cusano usa espressamente la parola di derivazione aristotelica ” potenza ” , che però assume un valore diverso : la potenza del Padre , nel senso che Dio ha in sè la forza ontologica . Il rapporto complicazione-esplicazione viene reinterpretato in chiave neoplatonica nel senso che nell’ uno é tutto complicato ciò che si esplicherà poi nel mondo : pensiamo all’ Uno di Plotino . E’ implicito nel discorso la coincidenza degli opposti , caratteristica propria di Dio : in Dio non vale più il principio di contraddizione che vale per le realtà materiali , finite : una cosa o é A o é non A . Per Dio questo non vale più , nel senso che tutta la molteplicità ( e dire molteplicità vuol dire contraddizione : ci sono tante cose e ciascuna non é le altre ) é complicata in lui . Le cose diverse si riconducono nell’ unità . A questo punto dobbiamo seguire il ragionamento cusaniano che porta a dire che il mondo é un’ esplicazione di Dio ; ciò che in Dio é tutto complicato , nel mondo si esplica . Non dobbiamo fare l’ errore di vedere il tutto in chiave aristotelica altrimenti il mondo come atto sarebbe superiore a Dio come potenza ; dobbiamo vedere nell’ ottica neoplatonica , dove nell’ Uno tutto é complicato e perfetto : però dobbiamo superare un altro rischio , quello di incappare in una concezione panteistica : se dico che il mondo é esplicazione di Dio finisco per dire che Dio e il mondo siano la stessa cosa ; già nel neoplatonismo in quanto tale era implicita questa sorta di panteismo : infatti si sottolinea sì la trascendenza di Dio , ma tuttavia c’è anche una sorta di cordone ombelicale che lega tutto ciò che esce dall’ Uno all’ Uno stesso ; la posizione neoplatonica è una sorta di equilibrio instabile nel senso che c’é un elemento di ambiguità tra trascendenza e immanenza . Chi percorse la strada efettivamente immanente fu Giordano Bruno , che finì per dire che Dio si identifica col mondo . Cusano a differenza di Plotino e di Bruno é cristiano convinto e deve porsi il problema di non scivolare nel panteismo , di segnare la divisione tra Dio e il mondo . In fin dei conti però sarà condannato dalla Chiesa come panteista , nonostante abbia provato a depurare il concetto di Dio dal panteismo : Cusano ci provò servendosi del concetto stesso di teologia negativa , ossia quella teologia che non dice cosa Dio é , ma cosa non é : ” Dio é il totalmente altro ” si dirà in epoche successive . Dio é totalmente altro rispetto a tutto ciò che ci circonda : é pienamente coerente con la dotta ignoranza e con le congetture ; infatti ammettere che di Dio si può dire solo ciò che non é non significa chiudersi in una sorta di ” scetticismo teologico ” : Cusano dice che non tutte le affermazioni sono identiche , così come non tutte le nagazioni lo sono : da un lato é vero che nessuna definizione di Dio lo coglierà pienamente : quindi sia dire ” Dio é amore ” sia dire ” Dio é una pietra ” é sbagliato , tuttavia non sono affermazioni identiche : dire Dio é una pietra é più distante dalla verità che non dire ” Dio é amore ” ; é il discorso della circonferenza e del poligono : dire ” Dio é una pietra ” é come dire che il poligono é un triangolo ( quindi distantissimo dalla circonferenza ) , dire ” Dio é amore ” é come dire che il poligono inscritto ha un numero elevato di lati , si avvicina a Dio . Ci sono affermazioni che si avvicinano a Dio e altre che manco si avvicinano ; più corretta , però , secondo Cusano , é la teologia negativa : Dio non é pietra e Dio non é amore ; ma in fondo si invertono le posizioni : é più giusta , nell’ ambito della teologia negativa , l’ affermazione ” Dio non é pietra ” ( mentre dire ” Dio é pietra ” era più sbagliata ) : la pietra é infinitamente distante da Dio ; c’ entra il discorso delle congetture perchè in fondo dire ” Dio non é pietra ” e ” Dio non é amore ” sono congetture che ci consentono di avvicinarci a Dio sempre più . Passiamo ora al concetto di contrazione : cosa significa ? Quando Cusano parla del massimo , dice che lo si può pensare in tre termini : 1 ) il massimo assoluto 2 ) il massimo contratto 3 ) il massimo contemporaneamente assoluto e contratto . Il massimo assoluto é Dio , quello contratto é il mondo : ciò che é esplicato coincide con ciò che é contratto , ciò che é complicato coincide con ciò che é assoluto ; che cosa significhi che Dio é complicato l’ abbiam già detto , ma cosa vuol dire che il mondo é contratto ? Per Cusano il mondo é tendenzialmente infinito come Dio e qui comincia ad aprire , se pur timidamente , le porte ad una concezione dell’ universo come infinito : come era arrivato a definire l’ universo infinito ? Esaminiamo il suo ragionamento , che verrà esplicitato da Bruno e che era già stato anticipato da Guglielmo da Ockham : Ockham diceva che il mondo é finito ( da Aristotele in poi tutti la pensarono così ) , ma visto che l’ onnipotenza di Dio non ha limiti , Dio avrebbe tranquillamente potuto farlo infinito . Quest’ affermazione é di fondamentale importanza : da Aristotele in poi c’era sempre stata una difficoltà concettuale insormontabile per dimostrare l’ infinitezza del mondo : era una sorta di contraddizione interna che impediva all’ universo di essere infinito : i corpi muovono ai loro ” luoghi naturali ” e quindi c’é un alto e un basso assoluto , dice Aristotele , quindi c’é un centro , e se c’é un centro significa che il mondo é finito . Però Ockham sostiene l’ onnipotenza totale di Dio : Dio può sovvertire tutte le leggi fisiche e ne sono esempio i miracoli : non é una realtà logica la finitezza del mondo per Ockham : abbatte così ogni remora logica ! Cusano , in modo un pò ambiguo e sfumato , dice : ” se Dio é una causa infinita non può che avere un effetto infinito ” o detto in altri termini ” ciò che Dio é in forma complicata , il mondo é lo stesso ma in forma esplicata ” . Tuttavia questo rapporto é caratterizzato da una contrazione : anche ammesso che il mondo sia infinito , resta il fatto che l’ infinità di Dio é diversa da quella dell’ universo ; ammettiamo che l’ universo sia infinito : le cose di cui questo infinito é fatto , però , non sono a loro volta infinite ; un libro é parte dell’ universo ma non é infinito , lo stesso per una casa , per un cavallo e per ogni altra realtà sensibile : l’ universo é infinito , nel senso che é somma infinita di enti finiti ; chiaramente l’ infinità dell’ universo é spaziale , quella di Dio é di un altro genere : pensiamo alle metafore matematiche : non si arrivava a dire che Dio fosse un triangolo , ma che fosse come un triangolo , per dire . Dio é infinito tutto insieme senza differenziazioni interne , quali invece ha l’ universo ( gli enti finiti ) : vale la coincidenza degli opposti : ciò che in Dio é tutt’ insieme , si dispiega nell’ universo e dà vita a caratteri contrastanti : tutte le cose in Dio sono tutt’ uno e quindi infinite , nell’ universo invece diventano finite . Il massimo assoluto é Dio , il massimo contratto é l’ universo , quasi come se tutto l’ infinito non riuscisse a stare tutt’ insieme in esso e si contraesse di volta in volta in ogni singolo essere . L’ universo é un infinito , potremmo dire , di volta in volta limitato da ogni singolo essere . Il massimo assoluto e contratto insieme é la figura di Cristo perchè unione di natura umana e divina ; la natura umana é un aspetto del mondo contratto caratterizzata dal finito la natura divina é aspetto del massimo assoluto , che ha come caratteristica quella di essere infinito . Questo discorso della contrazione nel discorso di Cusano ha la funzione di consentirgli di non assumere una piega panteistica e di mantenere una separazione : la contrazione depotenzia l’ assoluto e crea un vero stacco . Questo rapporto , poi , Cusano l’ ha formulato più volte e in vari modi e si é spesso servito del ” meccanismo ” platonico : nel massimo contratto si trovano imitazioni imperfette di modelli presenti nel massimo assoluto : ad esempio , nel movimento , che si articola in 3 momenti ( punto di partenza , la forma che deve essere realizzata e il passaggio che lega le due cose , ossia il movimento vero e proprio ) e che , come già dicevano Aristotele e Platone , é ciò che caratterizza il mondo fisico , vede che ci sono tre concetti fondamentali : materia , forma che deve assumere la materia , e il movimento stesso ( passaggio da potenza ad atto ) ; però questo tipo di spiegazione aristotelica Cusano la rivede in chiave platonica : questo processo di moto non é altro che l’ esplicazione , ossia la contrazione , nel mondo fisico di una sorta di modello ideale presente in Dio : la Trinità ; Dio padre é la potenza , Dio figlio é la forma che deve assumere e lo Spirito Santo é il ” movimento ” , l’ amore che lega le prime due persone . Da notare , come già accennato , che Cusano confonde il concetto di potenza come pre-atto , come potenzialità con quello di potenza come forza , potere . Dio é da interpretarsi per Cusano come idea platonica che ha presenti complicate in sè tre persone , la Trinità , ma nell’ universo queste tre ” cose ” si esplicano nel movimento , in tre aspetti ben distinti . Questo gli serve per dimostrare che ciò che nel massimo contratto é ” unificato ” , non presenta aspetti contrastanti , nel massimo esplicato , invece , é esplicato , non contratto . Tuttavia la Chiesa finì per cogliere in Cusano istanze panteistiche e non potè accettare le sue dottrine , nonostante egli , per non scivolare nel panteismo , ossia per non sostenere l’ identificazione tra Dio e mondo , avesse ” spinto ” il neoplatonismo verso la trascendenza , a differenza di come farà Bruno .
GIORGIO GEMISTO PLETONE
“Il grande Cosimo … quando si svolgeva a Firenze il concilio per l’unificazione della Chiesa greca con la latina, ascoltò spesso le discussioni sui misteri platonici di un filosofo greco che di nome si chiamava Gemisto, di soprannome Pletone, quasi fosse un secondo Platone” (Marsilio Ficino).
Giorgio Gemisto detto Pletone nasce a Costantinopoli verso il 1355, da nobile famiglia. Costretto in giovane età, per motivi non noti, a lasciare la città natia, chiede asilo ad Adrianopoli, provvisoria capitale ottomana. In seguito si sposta a Mistra (l’antica Sparta), a quel tempo capoluogo di un principato greco. Qui si stabilisce definitivamente, ricoprendo anche cariche pubbliche; inoltre, fonda e guida una Scuola filosofica tradizionalista. In occasione del concilio del 1438-1439, che viene aperto a Ferrara e poi spostato a Firenze, al seguito dell’Imperatore Giovanni Paleologo arrivano in Italia numerosi filosofi orientali, tra cui Giovanni Bessarione da Trebisonda (1395-1472) e soprattutto il venerando Giorgio Gemisto Pletone, sapiente onorato e ammirato. Pur molto anziano, in Italia tiene lezioni su Platone e sugli Oracoli Caldaici, presentandoli come espressione della dottrina di Zoroastro (Zarathustra), “priscus theologus”, considerato la fonte principale di una sapienza solare antichissima che si manifesta per gradi, e della quale Pitagora e Platone risultano essere tra i massimi rappresentanti. In aggiunta, egli ricollega a tale filone tradizionale anche Minosse, Licurgo, Numa, i sacerdoti di Dodona, i Sette Sapienti, Parmenide, Timeo, Plutarco, Porfirio, Giamblico, i Magi e perfino i Brahmani. “Tutti questi, essendo in accordo intorno alla maggior parte delle questioni fondamentali, sembrano aver dettato le loro concezioni, come le migliori, agli uomini più sensati … Noi dunque li seguiremo senza cercare novità nostre o altrui … i sapienti esprimono sempre opinioni in armonia con le convinzioni più antiche…” (Pletone). A seguito di tali incontri, viene notevolmente rivitalizzato l’interesse per Platone ed il Neoplatonismo in senso spirituale-realizzativo (a differenza degli umanisti italiani alla Bruni, che si limitano a mostrare un interesse più che altro filologico-eruditivo). L’espressione “Fratelli in Platone”, usata da Gemisto, e significativa dell’atmosfera vibrazionale che si avverte nella sua cerchia. L’entusiasmo sollevato da Pletone è notevole, tant’è che il mecenate Cosimo de’ Medici ne viene suggestionato, al punto da meditare la formazione di un’Accademia Platonica a Firenze (progetto poi affidato a Marsilio Ficino). È lo stesso Ficino, nella prefazione alla sua traduzione di Plotino, a dare notizia dell’influsso di Pletone su Cosimo de’ Medici. Nel 1439 Pletone scrive Sulla differenza tra la filosofia platonica e quella aristotelica, in cui mostra la superiorità di Platone, innescando una polemica che coinvolge altri intellettuali, tra cui il Bessarione, buon conoscitore dei padri orientali, che si schiera a sostegno del Platonismo, contro certi polemisti filo-aristotelici. Il platonismo è da Pletone concepito come imprescindibile punto di riferimento per una possibile unificazione, su base filosofica, delle differenti fedi religiose (tema affrontato anche da Nicola Cusano e da Pico della Mirandola). Per questa via, si apre una sorta di contenzioso relativo alla migliore conciliabilità del platonismo o dell’aristotelismo con il cristianesimo: sul fronte platonico, Pletone trova un alleato in Basilio Bessarione; sul fronte aristotelico, invece, si schierano autori che, pur essendo di provenienza bizantina, divengono sostenitori accaniti della tradizione scolastica aristotelizzante latina, come Giorgio Scholario (detto Gennadio) e Giorgio Trapeziunzio (1396-1484). In un’opera di più largo respiro, Il trattato delle leggi, Pletone riattualizza il modello della comunità platonica, quale comunità sapienziale centrata sul dio-Sole: egli riprende quel teocentrismo che stava alla base delle Leggi di Platone. Secondo le tesi ivi esposte, la spiritualità platonica, prolungamento di quella di Zoroastro, sarebbe in grado di favorire il superamento delle controversie religiose, come quelle emerse all’interno del Cristianesimo e tra Cristianesimo e Islam, e di fondare la pace universale (aspirazione che sarà ripresa da Marsilio Ficino e che sarà rielaborata da Pico della Mirandola). Tutto questo dovrebbe avvenire anche grazie al supporto della religiosità “pagana” ellenica, rivisitata secondo una prospettiva che accomuna esplicitamente il progetto di Pletone a quello precedente di Giuliano Imperatore: non è un caso che in questo contesto anche gli scritti di Giuliano trovino nuova fortuna, e specialmente il suo Inno al Sole, particolarmente caro ai circoli neoplatonici dell’epoca (lo stesso Marsilio Ficino scriverà “uno splendido De Sole”, secondo il giudizio di E. Garin). Pletone, a Mistra aveva già promosso la restaurazione degli antichi dei; negli incontri fiorentini, in nome di tale restaurazione dal sapore giulianeo annuncia che “il mondo intero avrebbe avuto una sola e identica religione … Ed avendogli domandato io, se sarebbe stata la fede di Cristo o quella di Maometto, mi rispose: nessuna delle due, ma un’altra non dissimile da quella dei gentili…” (così testimonia il suo acerrimo avversario Giorgio di Trebisonda). Nel citato Trattato sulle leggi, Gemisto recupera e riadatta vari inni, preghiere e riti solari, precisandone i significati metafisici, capaci di trascendere le limitazioni delle religioni positive, alimentando una vasta letteratura “solare” nel corso dell’età umanistico-rinascimentale. Purtroppo le Leggi vennero “in gran parte distrutte dall’odio teologico” (E. Garin), su istigazione del teologo Gennadio, nemico di Pletone. Sono rimasti vari frammenti, dai quali è possibile ricostruire le linee generali del grandioso programma di riforma politico-spirituale, in favore del quale Pletone operò durante tutta la sua lunga vita, morendo quasi centenario. Pletone è alla base delle utopie rinascimentali, che cercavano di immaginare un mondo perfetto sotto il dominio del sapere. Un sapere però occulto, riservato agli iniziati di una nuova religione che avrebbe armonizzato nella pace universale cristianesimo e Islam, divinità dell’Olimpo, della Persia e dell’India, le filosofie di Platone e quelle di Pitagora. Appare del tutto probabile che Sigismondo sia stato uno dei primi “iniziati”. Tanto da avere l’inaudita audacia di rivestire una chiesa cristiana, San Francesco, con un involucro che a metà ‘400 apparve a tutti pagano e sacrilego. Nei bassorilievi dove i pianeti e le muse sostituiscono i santi, sono in molti a leggere le visioni del filosofo greco. O meglio, sono in pochi. Perché la lapide in greco che sul fianco del Tempio ricorda la sepoltura del filosofo rimase oscura ai più. Solo alcuni sapienti – Marsilio Ficino, Pico della Mirandola – approfondirono quegli insegnamenti. E poi furono gli occultisti e infine la massoneria a custodirne gelosamente l’arcano ricordo. Qualcuno pensò che Pletone, in realtà, si diede il compito di trasferire l’eredità di misteri millenari che risalivano ad Eleusi e Orfeo. Gli stessi misteri con cui forse erano venuti a contatto i Templari. E ancora oggi si vocifera di misteriosi personaggi che di notte si aggirano nei pressi del sarcofago dimenticato.
MARSILIO FICINO
Nato dal medico Diotifeci e da Alessandra di Nanoccio, studia a Firenze sotto Luca de Bernardi e Comando Comandi e apprende le prime nozioni di greco da Francesco da Castiglione, mentre è da smentire la notizia riportata nella Vita Ficini di Giovanni Corsi, scritta del 1506, che sia stato allievo del Platina. Il suo primo maestro di filosofia è il folignate Niccolò Tignosi, medico aristotelico autore di un De Anima e di un De ideis. Conseguenza di questi insegnamenti è la sua Summa philosophiae, un gruppo di scritti in latino dedicati a Michele Mercati intorno al 1454 in cui il Ficino tratta di fisica, di logica, di Dio e di aliae multae questiones. Nella dedica all’amico scrive di volerlo introdurre a quegli studi che devono impegnare la nostra età, secondo la regola del nostro Platone. Studia Epicuro e Lucrezio, scrivendo intorno al 1457 i Commentariola in Lucretium, che distruggerà nel 1492, il De voluptate ad Antonium Calisianum, il De virtutibus moralibus e il De quattuor sectis philosophorum, dove tratta di questioni morali e dell’anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche, epicuree e stoiche, exercendae memoriae gratia, come esercitazione mnemonica e senza pretese sistematiche. Nel 1456 scrive quattro libri di Institutionum ad platonicam disciplinam, perduti, tratti da fonti latine e per questo motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta fonte greca. Sembra che il suo interesse al platonismo abbia indotto l’arcivescovo fiorentino Antonino, preoccupato di possibili deviazioni del Ficino verso eresie platoniche, a consigliargli di studiare tanto medicina a Bologna che l’opera di Tommaso d’Aquino. Ma la permanenza a Bologna dal 1457 al 1458, testimoniata da Zanobi Acciaiuoli, non è documentata e resta certo l’ininterrotto interesse per la filosofia platonica e neo-platonica. Intorno al 1460 traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l’Assioco attribuito a Senocrate. Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la Teologia di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de’ Medici un codice platonico e una villa a Careggi, che diverrà nel 1459 sede dell’Accademia Platonica, fondata dallo stesso Ficino per volere di Cosimo, con il compito di studiare le opere di Platone e dei platonici, promuovendone la diffusione. Qui inizia la traduzione, nell’aprile del 1463, dei Libri ermetici (Corpus hermeticum), portati in Italia dalla Macedonia da Leonardo da Pistoia; la sua opera di traduzione avrà un grande influsso nel pensiero rinascimentale. Il Ficino vede in quella sapienza antica l’esistenza di una rivelazione, di una pia philosophia della quale l’umanità di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a Cosimo, scrive che Ermete Trismegisto per primo disputò con grandissima sapienza della maestà divina, della gerarchia degli spiriti (daemonum ordine), della trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo: lo seguì, secondo teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro divino Platone. Esiste dunque, secondo Ficino, una concorde e antica tradizione teologica, una priscae theologiae undique sibi consona secta, che nasce con Ermete e si conclude con Platone e che si propone di sottrarre l’anima dagli inganni dei sensi e della fantasia per portarla alla mente; questa percepisce la verità, l’ordine di tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Dio, grazie all’illuminazione divina, cosicché l’uomo, tornato fra i suoi simili, li rende partecipi delle verità rivelategli dalla fonte divina (divino numine revelata). La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, già tradotta in volgare nel 1463 da Tommaso Benci, viene stampata nel 1471; nel 1463 inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, conclusa forse nel 1468 e vi aggiunge nel tempo i suoi commenti: intorno al 1474, al Convivio, tradotto anche in italiano, al Filebo e al Fedro, nel 1484 al Timeo e nel 1494 al Parmenide. Dal 1469 al 1474 stende l’opera più importante, i diciotto libri della Theologia platonica de immortalitate animarum, dedicata a Lorenzo de’ Medici e, dopo aver preso i voti sacerdotali il 18 dicembre 1473, la Religione cristiana, in italiano, di cui darà poi la versione latina nella De christiana religione. Dal 1475 al 1476 scrive la Disputatio contra iudicium astrologorum e nel 1481 viene dato alle stampe il suo Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello dell’epidemia del 1478. Nel 1484 inizia la traduzione delle Enneadi di Plotino e dal 1488 al 1493 Giamblico, Proclo, Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Michele Psello, la Mistica teologia e i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora: con questo ampio corpus platonico il Ficino persegue la sua teorizzazione della continuità della tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi attraverso Dionigi Areopagita, Agostino, Apuleio, Boezio, Macrobio, Avicebron, Al-Farabi, Avicenna, Duns Scoto, Bessarione e il Cusano. I tre libri del De vita, usciti nel 1489, gli procurano accuse di magia dalle quali si difende con un’ Apologia; nel 1495 pubblica dodici libri di Epistulae che comprendono anche opuscoli scritti dal 1476 al 1491, come il De furore divino, la Laus philosophiae, il De raptu Pauli, le Quinque claves Platonicae sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l’ Orphica comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de voluptate quattuor. Lascia incompiuto un Commento a San Paolo per la morte sopraggiunta a sessantasei anni, nel 1499. È sepolto nel duomo di Santa Maria del Fiore, dove un monumento lo celebra come il maggior filosofo fiorentino. È noto come Aristotele concepisca l’essere umano come sinolo, insieme indissolubile di materia e forma, di corpo e anima, cosicché il suo principale commentatore dell’antichità Alessandro di Afrodisia poteva ben dedurne esplicitamente la mortalità dell’anima contemporanea a quella del corpo. Al contrario, Platone aveva già distinto le due sostanze, concedendo all’anima una vita separata e indipendente dal destino del corpo. A questa concezione aderisce Ficino, la cui Theologia platonica o De immortalitate animarum, si apre con un « Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste dove contempleremo beati l’eccellenza del genere nostro » Per comprendere la sostanza dell’anima è necessario comprendere la struttura dell’universo alla cui base, ossia al grado inferiore, è la materia, concepita, seguendo Averroè, come pura quantità: “la materia non ha di per sé nessuna forza che possa produrre le forme”, diversamente da chi, come Avicebron, la concepisce come “sostanza produttrice di forme, fonte piuttosto che soggetto delle forme”. E’ la qualità il principio formale che dà sostanza alle realtà corporee, grazie a “una sostanza incorporea che penetra attraverso i corpi, della quale sono strumento le qualità corporee”: questa sostanza incorporea è l’anima “che genera la vita e il senso della vita anche dal fango non vivente”. Al di sopra delle anime sono gli angeli: “sopra quelli intelletti che alli corpi s’accostano, cioè l’anime ragionevoli, non è dubbio che sono assai menti, dal commercio dei corpi al tutto divise”; e se l’intelletto dell’anima “è mobile e parte interrotto e dubbio”, l’intelletto angelico è “stabile tutto, continuo e certissimo”. Al di sopra del tutto è Dio, che è unità, bontà e verità assoluta, fonte di ogni verità e di ogni vita, è atto e vita assoluta: “dove un continuo atto e una continua vita dura, quivi è un immenso lume d’una assolatissima intelligenza” che è luce per gli uomini perché si riflette in tutte le cose. Attraverso Dio “tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova in tutte le cose e tutte le cose si veggono in lui…Iddio è principio, perché da lui ogni cosa procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è vita e intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti intendono”. Dio e corpo sono gli estremi della natura e la funzione dell’anima, che è, diversamente da Aristotele e da Tommaso, realtà in sé e non forma del corpo, è quella di incarnarsi per unire corpo e spirito:”è tale da cogliere le cose superiori senza trascurare le inferiori…per istinto naturale, sale in alto e scende in basso. E quando sale, non lascia ciò che sta in basso e quando scende, non abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo, scivolerebbe verso l’altro e non sarebbe più la copula del mondo”. La copula mundi è l’anima razionale che “ha sede nella terza essenza, possiede la regione mediana della natura (obtinet naturae mediam regionem) e tutto connette in unità”.
GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA
Giovanni Pico della Mirandola nacque da famiglia principesca nel castello dei signori di Mirandola e Concordia il 24 febbraio 1463. Rivelò precocemente una straordinaria capacità di apprendere, che gli diede come un’ ansia tumultuosa di abbracciare tutto il conoscibile per conquistare la verità. Studiò diritto canonico a Bologna nel 1477-78, si recò a Ferrara nel ’79, poi a Padova dove frequentò quello Studio nel 1480-82, e l’ anno seguente a Pavia. Nel 1484 è a Firenze, dove stringe rapporti di amicizia con Lorenzo de Medici, col Poliziano e con Marsilio Ficino. Passando dal clima della filosofia scolastica, aristotelica e avverroistica di Padova, a quello della filosofia platonica instaurato dal Ficino a Firenze e di qui radiantesi per l’ Italia e per l’ Europa, Pico non si pone il problema della scelta tra le due filosofie, ma piuttosto quello di una loro possibile conciliazione. Insofferente delle eleganze stilistiche del latino nell’ uso degli umanisti italiani, nell’ 85 lascia Firenze per andare a familiarizzarsi a Parigi con lo stile aspro dei filosofi e teologi della Sorbona, ma l’ anno appresso è di nuovo a Firenzecon un immenso, anche se ancora incomposto, correedo di cognizioni sul pensiero filosofico e teologico non solo della tradizione cristiana, ma dei Greci, Latini, Ebrei- dei quali in particolar modo gli apparvero rivelatori i libri cabalistici -, Caldei, Egizi. Pico ha la convinzione di scoprire che, sotto un’ apparente diversità di manifestazioni di pensiero di popoli diversi e lontani fra loro, si cela un senso unico che attesta la dignità dell’ uomo e il suo valore predominante nell’ universo, l’ amore universale che lega le creature fra di loro e le creature a Dio, l’ immensa varietà delle cose in tutto il creato come segni della parola di Dio. A 23 anni gli pare di poter trarre il frutto delle sue meditazioni nella proposta di novecento tesi da discutere in un convegno di dotti da radunare a sue spese a Roma il 7 gennaio 1487. Ma il convegno non potrà aver luogo perchè la pubblicaziopne della sua tesi provoca la condanna da parte di una commissione di teologi e di giuristi, che le giudica eretiche,e l’ apertura di un processo a carico di Pico. L’atto di sottomissione che fece il 31 luglio dell’ 87 non gli lasciò tranquilla la coscienza, si ribellò apertamente e, per sfuggire alla cattura, lasciò Roma, mettendosi in viaggio per la Francia. Il suo arresto quando era già in territorio francese, vicino a Lione, suscitò clamorose proteste a Parigi, anche alla Sorbona, e Pico fu liberato con l’ obbligo di lasciare il suolo francese nell’ estate del 1488. Se ne tornò a Firenze, accettando l’ invito di Lorenzo, che si adoperò inutilmente fino agli ultimi giorni della sua vita a fargli ottenere il perdono da Innocenzo VIII. L’ assoluzione dall’ eresia gli verra da Alessandro VI il 18 giugno 1493. Vivrà ancora poco più di un anno (morì il 17 novembre 1494), dedito agli studi e a pratiche religiose col conforto e l’ amicizia del Savonarola. Di non grande rilievo quel poco che Pico scrisse in volgare: dei sonetti e un commento in prosa a una canzone dottrinale di Girolamo Benivieni sull’ amore divino, ispirata alle teorie di Marsilio Ficino. Il momento più fervido delle sue meditazioni filosofiche e teologiche è consacrato nell’ orazione De hominis dignitate che Pico avrebbe dovuto pronunziare al convegno dei dotti del 7 gennaio 1487, e che fu stampata solo dopo la sua morte. La dignità dell’ uomo, dominatore della natura e responsabile del suo destino, vi è affermata con trasporto lirico sorretto dalla profonda e meditata convinzione che nella storia umana di titti i popoli si attua un cincorde sforzo d’ amore che conduce verso la luce divina. Una risposta fortemente polemica all’ accusa di ersia è l’ Apologia, composta e divulgata prima della fuga verso la Francia. Del 1489 è l’ Heptaplus, dedicato a Lorenzo, nel quale interpreta il Genesi col metodo cabalistico, che rivelerebbe l’ esistenza dell’ universo di quattro mondi: il mondo intellettuale che è di Dio e degli angeli, il mondo celeste che è quello delle sfere, il mondo sublunare che è degli elementi, e finalmente il mondo dell’ uomo che partecipa di tutti e tre i mondi precedenti e che è simile a Dio perchè anche l’ uomo ha facoltà creatrici. Di un’ opera di grande impegno che doveva dimostrare la concordia sostanziale dei sistemi filosofici diversi, pubblicò soltanto il libro De ente et uno dedicato al Poliziano (1491). Fra le opere a cui attendeva, e che la morte gli impedì di condurre a termine, fu ritrovata fra le sue carte un’ ampia trattazione in dodici libri , De astrologia, in cui si dimostra l’ inconsistenza scientifica delle divinazioni del futuro fondate sul corso degli astri.
IL PENSIERO
Giovanni Pico della Mirandola inizia propriamente i suoi studi filosofici nelle università di Bologna , Ferrara e Padova . Qui egli si convince della validità della tradizione scolastica e della sua conciliabilità con gli orientamenti filosofici successivi . Ciò lo conduce al dissenso nei confronti di alcune tendenze artificiosamente esasperate della filologia umanistica . E’ il caso della polemica con Ermolao Barbaro ( 1453-1493 ) , duramente critico verso i filosofi della tarda Scolastica a causa del loro linguaggio astrusamente tecnico , che rappresenta una degenerazione del latino classico . All’ umanista veneto Pico ribatte che al di là della forma , la quale sola pare interessare ad Ermolao , occorre guardare ai contenuti del discorso filosofico , che valgono indipendentemente dall’ espressione letteraria e non sono attaccabili dalla critica filologica : Pico scrive un’ epistola all’ amico-avversario Ermolao per rivendicare la nobiltà della ricerca filosofica : la contrapposizione tra retorica e filosofia é contrapposizione tra ” lingua ” e ” cuore ” ; Pico immagina che siano quegli stessi filosofi ritenuti barbari da molti umanisti a parlare in propria difesa . L’ idea della conciliabilità e della continuità tra i diversi orientamenti di pensiero matura ulteriormente in Pico dopo il periodo di studi a Parigi . Nasce così l’ intento di realizzare una concordia filosofica , all’ interno della quale ciascuna tradizione speculativa può essere considerata come depositaria di una parte di verità . Il grande progetto culturale di Pico avrebbe dovuto concretizzarsi in una sorta di ” congresso ” nel quale intellettuali di ogni formazione e provenienza si sarebbero confrontati in un dibattito su 900 tesi ( cioè brevi proposizioni riassuntive ) che egli stesso aveva catalogato desumendole dalle filosofie di cui era a conoscenza . Il progetto non ebbe realizzazione pratica , poichè alcune proposizioni , sulle quali gravavano forti sospetti di eresia , imponevano maggiori cautele . Pico comunque sviluppò autonomamente gli argomenti proposti nelle 900 tesi , ma i risultati di questo lavoro videro la luce soltanto nelle ” Conclusiones ” apparse dopo la morte del loro autore . Durante la vita di Pico , il quale finì poi per stabilirsi definitivamente a Firenze dove si mantenne in stretto contatto con l’ ambiente ficiniano dell’ Accademia platonica , fu invece pubblicata l’ Orazione sulla dignità dell’ uomo , che avrebbe dovuto fungere da introduzione al dibattito progettato . Qui vengono celebrate le capacità di autodeterminazione dell’ uomo , cioè quelle facoltà intellettuali che lo conducono a scegliere liberamente tra più o meno nobili generi di vita ; ma dell’ Orazione parleremo in seguito . Del resto , il progetto di sintesi filosofica di Pico della Mirandola vuol essere un’ esaltazione della potenza intellettuale umana , considerata nel dispiegarsi delle sue manifestazioni storiche . Mentre Ficino aveva tracciato le linee di una storia del progresso intellettuale garantita dal concorso , con pari dignità , di rivelazione e filosofia , Pico intende porre in rilievo come l’ avanzamento culturale dell’ umanità sia reso possibile dal continuo succedersi di scuole di pensiero che , nelle loro differenze , non si contraddicono , ma si integrano l’ una con l’ altra . Su questo fondamento , che nulla toglie al valore della rivelazione , si realizza la pace filosofica alla quale l’ umanità deve aspirare . Sempre nella prospettiva della capacità dell’ uomo di autodeterminarsi , Pico opera una netta distinzione tra magia e astrologia , che la cultura del tempo tendeva ad accomunare in unico giudizio positivo . Nel pensiero rinascimentale , come ad esempio in Ficino , le due pratiche sono considerate non già manifestazioni di superstizione , ma tecniche pienamente legittime , rivolte o allo studio dell’ ordine naturale ( nel caso dell’ astrologia ) o alla realizzazione del dominio dell’ uomo sulla natura ( nel caso della magia ) . Pico , invece , reputa l’ astrologia una dottrina che limita pericolosamente la libertà dell’ uomo , ricercando le cause del suo agire in fattori indipendenti dalla volontà umana : se gli astri determinano l’ uomo , ossia se esercitano su di lui una grande influenza , l’ uomo perde così la possibilità di autodeterminarsi , in altri termini perde il libero arbitrio . Al contrario , la magia intesa tradizionalmente come capacità di controllo della natura da parte dell’ uomo , non inficia minimamente le capacità di autodeterminazione dell’ essere umano e può quindi essere pienamente giustificata . Allo stesso modo , come tecnica per indagare il significato recondito della Sacra Scrittura , é legittima la cabala , cioè l’ antica dottrina esoterica ebraica che , stabilendo una corrispondenza tra lettere e numeri , consentirebbe di passare da una composizione in lettere di un testo scritturale a una composizione numerica , e poi da questa a una nuova composizione in lettere nella quale risiederebbe il significato occulto . Oltre che per la diversa valutazione di astrologia e magia , Pico della Mirandola si differenzia da Ficino anche perchè rivela una grande attenzione all’ oggettività della ricostruzione storico-filosofica . L’ acribia era infatti del tutto assente nella tradizione ficiniana della perenne catena di rivelazione e filosofia , la quale più che a restituire la verità ai fatti badava a dimostrare la tesi della conciliabilità tra platonismo e filosofia . Viceversa , una più precisa consapevolezza storica e una più fedele analisi della dottrina platonica rivelano a Pico l’ impossibilità di essere un vero platonico rimanendo nel contempo un buon cristiano . Questo atteggiamento di Pico si manifesta chiaramente nel diverso modo in cui egli concepisce la dottrina platonica dell’ amore . Nel ” Commento alla Canzone d’ amore di Girolamo Benivieni ” , prima alludendo genericamente ad ” alcuni platonici del suo tempo , poi riferendosi esplicitamente a Ficino , Pico contesta la pretesa di parlare ” platonicamente ” del Dio cristiano . Se si vuole essere fedeli a Platone occorre concepire l’ amore come desiderio di bellezza , come desiderio di ciò di cui si manca . Ma la divinità , se può essere oggetto d’ amore , non può esserne soggetto , poichè essa non é manchevole di nulla : viene così a cadere la reciprocità amorosa tra Creatore e creatura ammessa da Ficino . Per di più non é neppure possibile riferire alla divinità l’ attributo della bellezza ; infatti , la bellezza non é che armonia , la quale a sua volta risulta dalla consonanza di più parti differenti . Un cristiano non può nè riconoscere una manchevolezza nel suo Dio , nè attribuirgli una natura composta di parti , anzichè assolutamente semplice e unitaria : non é dunque possibile essere insieme cristiani e platonici . Se la conciliazione e l’ integrazione tra filosofia ( platonica ) e religione costituivano uno dei nuclei fondamentali del pensiero di Ficino , per Pico della Mirandola viceversa un Platone cristianizzato é un Platone travisato e un cristianesimo platonizzante é un cristianesimo contradditorio : mentre é possibile realizzare la concordia tra le diverse filosofie , si rivela insuperabile il divario tra filosofia e religione .
ORATIO DE HOMINIS DIGNITATE
Pico della Mirandola , indubbiamente uno degli ingegni più vivaci dell’ Accademia platonica , dotato di una cultura immensa e disordinata e di una memoria divenuta proverbiale , riecheggia nell’ orazione ” de hominis dignitate ” gli argomenti già in parte trattati dall’ umanista Giannozzo Manetti , tuttavia con quella consapevolezza di natura teoretica che difettava nello scrittore precedente . Pico esalta l’ uomo per una delle sue caratteristiche specifiche , il libero arbitrio , la libertà di innalzarsi sino a Dio oppure discendere sino ai bruti . Tale libertà gli é assicurata dal fatto che il Creatore provvide all’ uomo sul finire dell’ opera creativa , e lo pose perciò nel ” centro indistinto ” dell’ universo , unico essere a cui fosse concesse di determinare da se stesso il proprio destino . Pare opportuno osservare che osservazioni come quelle dell’ Oratio de hominis dignitate , sebbene ispirate ad una religiosità piuttosto astratta e generica , tale che permette la citazione così della Bibbia , come del Timeo e del Corano , non potevano neppure immaginarsi senza l’ esperienza cristiana . Certe concise e solenni affermazioni degli umanisti sono incomprensibili senza la parola nuova del Vangelo : l’ esaltazione dell’ uomo é troppo più alta di quello che fosse possibile ai pagani . Interessante é l’ epiteto che Pico attribuisce a Dio , chiamandolo ” architectus ” , che risulta molto simile a quello usato da Platone a riguardo dal Demiurgo , ” che sempre geometrizza ” . L’ uomo non é stato fatto nè mortale nè immortale , nè celeste nè terreno perchè lui stesso possa scegliere la forma che gli é più cara , quasi come se ” libero e sovrano artefice ” del suo destino . Non sarebbe stato degno di Dio all’ ultimo del generare , quasi per esaurimento venir meno : e così egli diede il meglio di sè creando l’ uomo , decidendo che a lui non poteva essere dato nulla di proprio e che quindi gli fosse comune tutto ciò che alle singole creature era stato dato di particolare . Ecco qui il testo dell’ orazione :
Già il sommo Padre, già l’architetto divino aveva costruito, con le leggi della sua arcana sapienza, questa dimora terrena, questo tempio augustissimo della divinità, che è il nostro mondo. Già aveva posto gli spiriti ad ornamento della regione superna; già aveva seminato di anime immortali i globi eterei e riempito di ogni genere di animali le impure e lercie parti del mondo inferiore. Ma compiuta la sua opera, l’artefice divino vide che mancava qualcuno che considerasse il significato di così tanto lavoro, ne amasse la bellezza, ne ammirasse la grandezza. Avendo, quindi, terminata la sua opera, pensò da ultimo – come attestano Mosè e Timeo- di produrre l’uomo. […] Ormai tutto era pieno, tutto era stato occupato negli ordini più alti, nei medii e negl’infimi. […] Stabilì, dunque, il sommo Artefice, dato che non poteva dargli nulla in proprio, che avesse in comune ciò che era stato dato in particolare ai singoli. Prese pertanto l’uomo, fattura priva di un’immagine precisa e, postolo in mezzo al mondo, così parlò: «Adamo, non ti diedi una stabile dimora, né un’immagine propria, né alcuna peculiare prerogativa, perché tu devi avere e possedere secondo il tuo voto e la tua volontà quella dimora, quell’immagine, quella prerogativa che avrai scelto da te stesso. Una volta definita la natura alle restanti cose, sarà pure contenuta entro prescritte leggi. Ma tu senz’essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell’arbitrio che ho posto nelle tue mani. Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo. Non ti ho fatto del tutto né celeste né terreno, né mortale, né immortale perché tu possa plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore. Potrai degenerare sino alle cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature superne, alle divine.» O somma liberalità di Dio Padre, somma e ammirabile felicità dell’uomo! Al quale è dato di poter avere ciò che desidera, ed essere ciò che vuole. I bruti nascendo, assorbono dal seno materno ciò che possederanno. Gli spiriti superiori furono invece, sin dall’origine, o poco di poi, ciò che saranno eternamente. Il Padre infuse all’uomo, sin dalla nascita, ogni specie di semi e ogni germe di vita. Quali di questi saranno da lui coltivati cresceranno e daranno i loro frutti: se i vegetali, sarà come pianta, se i sensuali, diventerà simile a un bruto, se i razionali, da animale si trasformerà in celeste; se gl’intellettuali, diverrà angelo e figlio di Dio. E se di nessuna creatura rimarrà pago, rientrerà nel centro della sua unità, e lo spirito, fatto uno con Dio, verrà assunto nell’umbratile solitudine del Padre che s’aderge sempre al di sopra di ogni cosa. Chi ammira questo nostro camaleonte, o, anzi chi altri può ammirare di più?
LEON BATTISTA ALBERTI
CRONOLOGIA
Nascita
Figlio illegittimo di Lorenzo Alberti, nacque a Genova il 14 febbraio 1404 dopo che la famiglia era stata bandita da Firenze ad opera degli Albizzi a causa del suo coinvolgimento nel tumulto dei Ciompi.
La formazione culturale
Poche notizie si hanno dei suoi primi studi: sappiamo che iniziarono a Venezia, dove il padre si trasferì per motivi di affari, e che continuarono nel 1415 prima a Padova, alla scuola del ciceroniano Gasparino Barzizza, poi a Bologna, dove frequentò la facoltà di diritto e dove nel 1421 ebbe la notizia della morte del padre.
Gli anni seguenti dovette affrontare difficoltà ed amarezze causate da discordie e soprusi familiari
Nel 1428 conseguì la laurea in diritto canonico, dopo aver studiato anche matematica e fisica.
Le attività professionali
Trasferitosi nel 1428 a Firenze (dopo la revoca da parte della Signoria del bando che aveva colpito la sua famiglia) fu molto probabilmente (sino al 1431) in Francia e in Germania al seguito del cardinale Albergati.
Nel 1432 divenne segretario del patriarca di Grado, Biagio Molin, e fu da questi fatto nominare abbreviatore apostolico (notaio) alla corte pontificia. Rimase nell’orbita della corte papale fino al 1464, quando papa Paolo II abolì il collegio degli abbreviatori. Il legame con la corte papale gli permise di dedicarsi alla sua attività di letterato e di studioso senza più avere difficoltà finanziarie.
Nel 1432 intanto aveva ottenuto il priorato di San Martino a Gangalandi presso Signa.
Nel 1435 seguì papa Eugenio IV a Firenze dove entrò in contatto con l’ambiente artistico fiorentino in cui operavano, tra gli altri, Brunelleschi, Ghiberti, Paolo Uccello e Luca della Robbia.
Dal 1436 fu poi a Bologna e a Ferrara, dove nel 1438 si aprì il Concilio delle Chiese romana e bizantina. Consulente per le opere architettoniche alla corte di Lionello d’Este a Ferrara nel 1438, si occupò in particolare del monumento equestre di Niccolò I e del campanile della cattedrale.
Nel 1439 tornò a Firenze dove organizzò nel 1441 il Certame coronario sul tema dell’amicizia.
Nel 1444 fu nuovamente a Roma dove collaborò al programma di interventi urbanistici voluto da Niccolò V, dedicandosi in particolare alla sistemazione del Borgo Curiale, e soprintendendo al restauro di alcuni importanti monumenti antichi ( tra gli altri San Pietro e Santo Stefano Rotondo), alle opere di fortificazione e agli acquedotti.
Tra il 1447 e il 1451 si pone la costruzione di Palazzo Rucellai a Firenze; al 1450 circa risale il progetto per il Tempio Malatestiano di Rimini, al 1455 la facciata fiorentina di Santa Maria Novella (terminata nel 1470). Fu a Mantova nel 1459 con Pio II, dove soggiornò in occasione della celebre dieta per la crociata, nel 1463 e poi nel 1470 e 1471, ideò in questa città le chiese di San Sebastiano e Sant’Andrea. Al 1467-’70, in occasione di un ritorno a Firenze, risalgono infine la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio e la tribuna della Santissima Annunziata.
La morte
Morì a Roma nell’aprile del 1472.
VITA E OPERE
Leon Battista Alberti fu architetto, letterato e scrittore d’arte e di tecnica artistica. Nato durante l’esilio della sua famiglia, di origine fiorentina, trascorse la giovinezza a Padova, dove divenne allievo dell’umanista Barsizza, e a Bologna; qui si laureò in diritto a ventiquattro anni. Successivamente, impiegatosi presso il cardinale Albergati, legato papale, si reca in Francia e in Germania. Nel 1431-34 lo troviamo a Roma, dove divenne membro della cancelleria pontificia alla corte del papa Eugenio IV, che lo nominò anche priore di San Martino e Gangalandi (1432). In questo periodo scrive il “Della famiglia” e la “Descriptio urbis Romae” (Descrizione della città di Roma), per la quale misurò con strumenti matematici di sua invenzione gli antichi monumenti. Nel giugno del 1434, al seguito del papa, Alberti poté finalmente soggiornare a Firenze, la città dei suoi avi, dove frequentò il circolo umanistico di San Marco ed ebbe il primo contatto, rivelatore, con l’arte nuova del Rinascimento fiorentino. Fu in questa occasione che si entusiasmò per le opere del Brunelleschi, di Masaccio, di Donatello. A Firenze scrisse il “De statua”, dove analizzò per primo e sistematicamente le proporzioni del corpo umano, e il “De pictura”, dedicato proprio a Brunelleschi, in cui codificò per la prima volta il metodo di rappresentazione prospettico e la pittura venne intesa come veduta prospettica della natura. Sempre con la curia si trasferì nel 1436 a Bologna; nel 1438 soggiornò a Ferrara alla corte di Lionello d’Este, cui fornisce forse idee e disegni per l’arco del Cavallo e il campanile del duomo, prime opere architettoniche in cui si riconosce un suo intervento. Dopo un altro soggiorno a Firenze nel 1439-43, tornò a Roma e da allora vi si stabilì in permanenza. Con l’elezione di papa Niccolò V (1447), Alberti sovrintese a un ampio programma di rinnovamento edilizio, urbanistico e di restauro di antichi edifici, e nel 1450 scrisse il “De re aedificatoria” (1450, Dell’architettura), in dieci libri. Alberti giunge all’architettura solo dopo i quarant’anni da diverse esperienze letterarie e scientifiche nelle quali si afferma una diversa intuizione dell’uomo, riconosciuto ora come artefice del proprio destino e capace, dall’indagine della natura, di conoscere il vero e creare il bello, di fondare la propria dignità su una base razionale. Per questo, mentre divide la fase di progettazione da quella dell’esecuzione, eleva l’aspetto pratico-artistico a operazione intellettuale “separata da ogni materia” (segnando una netta svolta rispetto a Brunelleschi per il quale l’architettura è ancora “arte di costruire”, fatto sperimentale di tecniche e materiale) e la fa entrare in circolo con l’umanesimo letterario, filosofico, scientifico, con l’etica della nuova vita civile; egli procede a una sistemazione teorica e a una fondazione filologica del classicismo, che incide nella storia della cultura al di là delle alterne fortune delle sue opere architettoniche. Ritenuto ottimo disegnatore e prospettico, i suoi disegni sono andati perduti. Sua prima opera certa è, a Roma, Santo Stefano Rotondo: demolendo le pareti già in rovina della chiesa, restaurando il colonnato interno e murando l’intercolumnio [spazio compreso tra due colonne] del secondo colonnato, l’Alberti chiuse l’edificio in una nuova disposizione di spazi. Dopo questo restauro creativo, iniziò nel 1450 il rivestimento della gotica chiesa di San Francesco a Rimini, il Tempio Malatestiano. Ma i precisi progetti di trasformazione dell’interno (già manomesso nel 1447 da Matteo de’ Pasti e Agostino di Duccio), cioè la volta a botte in legname, il nuovo transetto e il coro, la cupola semisferica, non ebbero mai principio di esecuzione. Solo il celebre esterno fu realizzato come omaggio dell’Umanesimo all’arte romana. Seguono le opere fiorentine: il progetto per palazzo Rucellai, dalla facciata elegantemente scandita dall’intelaiatura lineare delle cornici e delle lesene [Risalto verticale su una superficie muraria avente forma tale da poter essere assimilato a un pilastro incassato, generalmente a sezione orizzontale rettangolare, sporgente leggermente dalla superficie stessa], il prospetto di Santa Maria Novella, la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio (1467) e la tribuna dell’Annunziata (disegnata nel 1470). Per i Gonzaga l’Alberti progettò e iniziò tra il 1459 e il 1460 la chiesa di San Sebastiano a Mantova. La facciata subì tali modifiche che ne rendono difficile l’analisi. Chiaro, invece, l’interno, il primo a croce greca dell’Umanesimo, che nella sua essenziale stereometria resistette all’ingiuria dei secoli: al centro della croce, la cupola semisferica e il cubo di 15 m di lato creano uno spazio nitidamente definito e insieme grandiosamente sonoro, perfettamente intonato, pur nella sua solennità, alla misura umana. Nella chiesa di Sant’Andrea, pure a Mantova, ideata nel 1470, l’Alberti, accettando apparentemente la forma basilicale latina, coi suoi progressivi piani prospettici, riuscì a trasformarla in assoluta unità plastica col contrapporre e legare in giochi alterni, sotto la volta maestosa e unificante, le masse chiuse delle cappelle minori e i vani sonori delle cappelle maggiori. Morì a Roma nel 1472. Tempio Malatestiano Il tempio Malatestiano che si trova a Rimini è un esempio eccelso dell’architettura rinascimentale italiana, si limita tuttavia al semplice rivestimento esterno, per giunta incompleto, della chiesa che i francescani avevano eretto, ad aula unica non absidata, nella prima metà del XIII sec. Ma già nel 1350 circa, l’essenzialità dell’interno venne modificata con la costruzione di cinque cappelle lungo i fianchi, dalle quali cominciò, con il loro restauro, la riforma del tempio voluta da Isotta degli Atti e Sigismondo Pandolfo Malatesta, che nella chiesa aveva sepolto i suoi avi. Così nel 1447 ebbero inizio i lavori nella cappella degli Angeli e in quella di San Sigismondo, che in dieci anni vennero ultimati da Matteo de’ Pasti, medaglista e architetto, coadiuvato da Matteo Nuti. In strettissima collaborazione attesero alla parte scultorea Agostino di Duccio col fratello Ottaviano, Giovanni di Francesco e Pellegrino di Giovanni veneziani. Ne uscì un interno unico in cui sottili lesene classiche, strette tra due cornicioni, legano tra loro pareti e cappelle in un ritmo verticale di sapore gotico: balaustre, portali, pilastri, cornici, capitelli e persino sculture e bassorilievi sostanzialmente rinascimentali riescono a fondersi senza stridori con una decorazione di scudi, vesti, elmi piumati e damaschi, insegne araldiche e festoni del più lussuoso costume del gotico internazionale, tradotti in marmi e pietre colorate con una intensità e ricchezza decorativa senza precedenti. Questo equilibrio deve molto al linearismo nervoso e scattante degli stiacciati di Agostino di Duccio, che rivestì di pannelli marmorei pilastri, pareti e sarcofagi, evocando, tra fiaba e storia, virtù teologali e cardinali, angeli musici e putti in gioco, pianeti e segni zodiacali, storie e paesi. Per l’esterno, affidatogli nel 1450, Leon Battista Alberti disegnò un involucro autonomo dentro il quale resta perfettamente racchiuso il vecchio organismo con le nuove aggiunte. Il rivestimento del tempio fu realizzato da Matteo de’ Pasti, protomaestro di tutta l’opera; ma la crisi malatestiana di quegli anni ne impedì il completamento. Rimangono l’incompiuta facciata ispirata all’arco di Rimini, in cui la classicità romana dei rapporti tra colonna e muro si manifesta in nuovi moduli, e, sugli alti stilobati, i due fianchi, successione di archi e pilastri di una forza e armonia che neppure gli antichi acquedotti conobbero. Così, ispirandosi all’antichità, ma in forma genialmente originale, l’Alberti postulò per primo la glorificazione di una dinastia nelle forme architettoniche di un edificio. A tal punto l’Alberti riuscì nel suo intento che il papa Pio II scomunicò Sigismondo e definì l’edificio “pieno di opere pagane al punto che sembrava meno una chiesa che non il tempio degli infedeli adoratori del demonio”.
IL PENSIERO
Leon Battista Alberti è stato a lungo considerato come il modello dell’umanista, come l’uomo che più ha saputo incarnare l’Uomo Nuovo nato dall’Umanesimo, un uomo integrale e universale, che sa trarre dalla vita e dal mondo tutto ciò che questi gli possono offrire, un uomo fatto di anima e corpo, rivolto insieme al cielo e alla terra, libero seppure con i vincoli dati dalla fortuna. È questo l’uomo della città terrena, cui la religione non comanda più rinunce o ascesi, ma di “ben vivere, umanamente vivere questa vita che è pur dono di Dio, in questo mondo che è pur tempio di Dio” (Garin, Educazione umanistica, p. 7-8).
Seppure visse il momento della crisi dell’Umanesimo civile fiorentino, Alberti condivise ed incarnò – almeno in parte – questo modello, rivolgendo i suoi interessi a tutti i campi del sapere del tempo ed acquistando una conoscenza veramente enciclopedica, se non pari a quella di Pico, sicuramente assai vicina ad essa. Fu infatti architetto, pittore, letterato, filosofo, musico, fisico, chimico, pedagogo e matematico, anticipando in tal senso per poliedricità la figura di Leonardo da Vinci. Summa di questo sapere dalle mille sfaccettature a cui non sfugge nulla è l’architetto (non il filosofo) che diviene, nella prospettiva di Alberti, il modello dell’uomo integrale: “È l’architetto che cementa le comunità umane costruendone le sedi, che ne orienta gli edifici secondo astrologia, che ne scandisce il tempo con gli orologi, che struttura le istituzioni nei palazzi e nei templi, che regola le acque e apre le strade, che difende dai nemici e vince le guerre senza sangue” (Garin, Umanisti Artisti Scienziati, p. 160); dell’uomo che impone un ordine razionale alla propria vita, seguendo la luce gettata da quella ragione svalutata dai Medievali e che ora – nell’età moderna – è tornata ad essere curiosa di tutto, secondo il modello inaugurato da Socrate, programmando e razionalizzando il proprio tempo ed utilizzando le proprie capacità per fronteggiare la fortuna; di uomo che antepone la vita activa e operosa (sia in ambito privato, sia in ambito pubblico) alla vita contemplativa, che sa trasformare la realtà per adattarla ai propri bisogni e alle proprie esigenze. Insieme all’architetto, dobbiamo ricordare anche il borghese, l’uomo d’affari ricco di una esperienza acquisita non sui libri, ma con la frequentazione degli uomini e della società. Il saggio dunque non è il filosofo, che Alberti identifica nel teologo-filosofo della tradizione scolastica, ma il pensatore non professionale e non professorale che ha imparato dagli artigiani e dalla natura a conoscere l’uomo e il mondo. Dio ha creato (e in ciò Alberti concorda pienamente con Pico e Ficino, e in generale con gli altri Umanisti) l’uomo come ente superiore a tutti gli altri, come ente capace di opere eccellenti ma anche dia zioni deplorevoli (proprio in ciò sta la libertà umana): “Fece la natura, cioè Iddio, l’uomo composto parte celesto e divino, parte sopra ogni mortale cosa formosissimo e nobilissimo […] sia adunque persuaso che l’uomo nacque, non per atristirsi in ozio, ma per adoperarsi in cose magnifice e ample, colle quali e’ possa piacere e onorare Iddio in prima, e per avere in se stessi come uso di perfetta virtù, così frutto di felicità” (I libri della famiglia, IV, 2). Nella costruzione dell’uomo ideale, un ruolo di primo piano è esercitato – secondo gli Umanisti italiani del Quattrocento – dallo studio dei classici antichi, che costituiscono una voce che, ancora viva, continua a porci questioni sempre attuali (l’eterno ti estin socratico). La filologia, nel suo sforzo di ripresentare i classici nel loro volto originario, assume il compito di educare gli uomini, ristabilendo il dialogo con i grandi del passato. Il Medioevo rappresenta solo un deviamento, uno sbandamento, un momento – secondo Hegel – in cui la coscienza umana è “infelice” perché impotente di fronte ad un Dio che tutto pùò. Ma Alberti non contribuì ad aprire questa prospettiva, ne fu semmai un erede, lucido e critico laddove rifiutò atteggiamenti da epigono e da imitatore, peraltro non giudicati negativamente dagli intellettuali dell’epoca. Nella sua ambizione di essere considerato il nuovo Vitruvio, egli frequentò con assiduità i testi classici, ripetutamente citati, anche con sfoggio di erudizione, e presenti come punto di riferimento nelle sue opere, ma non cercò in essi modelli da copiare quanto piuttosto di apprendere da loro per “mettere innanzi nuove cose trovate da noi per vedere se gli si può acquistar pari o maggior lodi di loro” (De Re Aedificatoria, I,9). Oltre agli elementi classici presenti nelle opere di Alberti architetto, vanno qui ricordati alcuni aspetti che costituiscono lo sfondo sul quale Alberti costruisce il suo rapporto con gli antichi:
1] l’alta considerazione che Alberti, almeno dopo il ritorno a Firenze, mantiene del presente: come è scritto nella dedica a Brunelleschi del De Pictura, il presente supera l’antichità nel trovare nuove arti e scienze, senza precettori e modelli come poterono fare gli antichi, i quali poterono contare per raggiungere i risultati che conosciamo, sull’edificazione di una lunga tradizione: il presente non è solo una rinascita, ma una nuova fondazione di un’arte e di una scienza mai viste prima; il presente è sì sempre nuovo, ma non per questo sganciato dal passato.
2] L’indipendenza che anche in questo ambito Alberti seppe mantenere nei confronti dell’Umanesimo codificato e di moda del suo tempo. Se guardiamo alla letteratura, i suoi riferimenti classici furono soprattutto Plauto, Luciano, Esopo e non gli autori apprezzati dagli umanisti fiorentini (Platone, Aristotele, Quintiliano).
3] L’autonomia che mostra nei confronti della semplice imitazione dei modelli classici. Come nota Malerba, anche negli Apologhi, nel Cane e nella Mosca egli si sottrae a tale imitazione dei modelli, Esopo e Luciano, rifiutando l’utilizzo di soggetti e personaggi definiti: “la volpe o il pavone, il lupo o l’agnello, difficilmente possono sottrarsi all’esopismo cristallizzato dalla tradizione, mentre l’ombra dell’uomo o l’ottone o il sale, o anche certi animali dotati di una personalità complessa e non univoca come il cane, inducono l’autore ad allontanare o comunque a rendere incerto e ambiguo il messaggio” (Apologhi ed elogi, Pref. di L. Malerba, p. 8).
Pur muovendosi in un ambito già esplorato dagli umanisti italiani, Alberti sembra voler sgretolare e smembrare procedure e codificate per introdurre nei prodotti letterari che hanno come modello i classici, chiaroscuri, contrasti e un forte carattere di originalità. Un aspetto particolare del rapporto con gli antichi riguarda la questione della lingua per la quale abbiamo la presa di posizione di Alberti nella lettera dedicatoria a Francesco d’Altobianco Alberti del Libro III del De familia. In essa Alberti fa propria la tesi sostenuta da Flavio Biondo nel De locutione romana in un dibattito avvenuto a Firenze nel 1435, secondo la quale in primo luogo nell’antica Roma vi era una sola lingua che aveva assunto due forme, il latino classico e quello di uso comune, ed in secondo luogo il volgare discende dal latino corrotto dopo la caduta dell’Impero per le invasioni straniere. Secondo Alberti, il volgare è in grado di esprimere qualunque contenuto e di rivolgersi ad un numero più ampio di persone. Per dare dignità letteraria al volgare e mostrarne le potenzialità espressive, è sufficiente che i letterati comincino ad utilizzarlo rimediando alle sue mancanze sintattiche e lessicali tramite il latino. Questo atteggiamento ha una puntuale corrispondenza con la prosa albertiana, ricca di latinismi, sia nel lessico, sia nella struttura sintattica delle frasi. Si deve dunque rimarcare come Alberti compia pertanto un passo decisivo verso il superamento del pregiudizio secondo il quale il volgare non poteva essere utilizzato per trattare argomenti seri. A partire dal 1440, gli interessi tecnico-scientifici e artistici cominciarono a prevalere in Alberti rispetto a quelli letterari, con i quali aveva esordito. Un primo esempio è lo scritto De equo animante (1441) in cui Alberti, utilizzando fonti sia antiche che moderne, descrive le forme e le caratteristiche del cavallo, il suo allevamento, le sue funzioni sia in pace sia in guerra. Negli anni successivi si dedicò a questioni pratiche (la misurazione della città di Roma, il restauro di edifici, fontane e acquedotti, il recupero di una nave romana nel lago di Nemi) che troviamo descritte nelle sue opere a partire dal De re aedificatoria. Numerose descrizioni contenute in quest’opera testimoniano la competenza di Alberti nella tecnologia e nell’ingegneria idraulica. Nei Ludi elaborò una serie di esercizi di matematica:
a] Dal I al VII troviamo problemi di misurazione indiretta attraverso un traguardo ottico
b] Nell’VIII e nel IX troviamo descritti strumenti per la misurazione della profondità del mare e la fontana di Erone;
c] I rimanenti riguardano astrolabi, quadranti, bilance, anemometri, ecc.
d] Il XVI illustra il metodo per misurare “il sito e ambito di una terra e li sue vie e case”, da collegare con la Descriptio urbis Romae.
Nel De componenda statua definisce le misure proporzionali del corpo umano utilizzando il “definitore”, uno strumento simile all’orizzonte graduato, costituito da un disco da porre sul capo con un regolo sporgente e un filo a piombo appeso, per fornire allo scultore i punti di riferimento di un ideale cilindro da cui ricavare la statua. Il De componendis cifris è il primo trattato moderno di criptografia.
Nella Descriptio urbis Romae elaborò un metodo di eccezionale importanza per la cartografia basato sull’uso delle coordinate polari. Adottando tendenzialmente il dialogo di marca ciceroniana (più che platonica), pur essendo di orientamento stoicheggiante, Alberti si oppone al monologo medievale gestito dalla fede, dove mancava il libero circolo di idee e di opinioni: la scelta della forma dialogica corrisponde appunto alla precisa esigenza di cercare un confronto, un libero scambio di opinioni anche con chi si muove seguendo prospettive diverse; l’apertura albertiana, del resto, si riverbera all’interno dei suoi stessi scritti, primi fra tutti I libri della famiglia, nei quali egli invita i figli a seguire liberamente le proprie attitudini, e non le costrizioni che vengono imposte dai genitori (che, così facendo, forzano la loro natura). Si devono dunque assecondare e potenziare le capacità dei figli, senza però proteggerli eccessivamente, tenendoli lontani dalla realtà: bisogna invece lasciare che essi imparino a cavarsela da sé. La prima cosa da fare è avvicinare i fanciulli alle humanae litterae, affinchè prendano contatto con la cultura, poiché non si può essere gentiluomini senza di essa. Sempre in ambito familiare, Alberti riconosce pari importanza e dignità al marito e alla moglie, sebbene essi svolgano mansioni diversissime nella casa. Accanto a queste questioni di carattere familiare, Alberti tratta anche del rapporto tra virtù e fortuna (che sarà ripreso da Machiavelli), dicendo che la fortuna vince laddove la virtù non ha costruito le giuste difese: ne consegue – umanisticamente – che l’uomo è signore di sé o, per dirla con la celebre espressione sallustiana, è faber fortunae suae, libero di scegliere la propria sorte (entro certi limiti, naturalmente).
Il mito della vita in campagna
Di Lydia Pavan
L’opuscolo Villa – forse una riduzione o un estratto di un’opera maggiore, soltanto concepita ovvero perduta – è stato scritto da Leon Battista Alberti probabilmente nel 1438 ed è stato scoperto nel 1953 da Cecil Grayson, nel codice Palatino 267 della Biblioteca Nazionale di Parma. L’opera s’inserisce a pieno titolo nella tematica privilegiata dai Rei rusticae scriptores, la cui tradizione, sviluppatasi in epoca classica, approda naturalmente al Quattrocento. Tra i tanti valori, presenti nel testo, ne predomina uno che, da Esiodo delle Opere e i giorni arriva all’Alberti, attraverso le meditazioni della filosofia stoico-epicurea e degli scrittori latini, come Virgilio delle Georgiche: è il valore della medietas (misura, medietà, equilibrio, saggezza), che si configura come un modello di vita finalizzato ad evitare gli estremi, ad affrontare l’imprevedibilità della fortuna, a dominare la realtà proprio come, nell’agricoltura, si deve dominare il campo per ricavarne il meglio per sé e per l’ambiente circostante, nella convinzione che gli eccessi, il poco o il troppo, arrechino dei danni cui è difficile rimediare. Se la medietas è constatabile nella stessa scelta economica di investire per metà in campagna e per metà in città, scelta già attuata dalla famiglia Alberti nel Trecento, tutta la Villa è percorsa dal segno della moderazione _ che non è certo una novità nel periodo umanistico, basti pensare a Paolo da Certaldo che parla della misura come di un mezzo di difesa dai vizi. Scorriamo il testo. Vedi e rivedi prima che tu statuisca piacerti quello per cui tu darai quello che a tutti piace, cioè il danaro, che bisogna dunque saper gestire con oculatezza e capacità previsionale. Come de’ figliuoli, così della villa: una ène poco, due sono assai, tre sono troppi. Lo spazio della villa è così legato a quello della famiglia da presupporre una medesima progettualità, all’insegna appunto della medietas, la quale funge da argine per un’istituzione familiare in crisi nella società del Quattrocento, crisi che si propone ancora oggi. Fornisci la casa di quello bisogna e di quello può forse bisognare. Compera niuna di quelle cose, quali puoi prendere da e’ tuoi terreni: sono raccomandati una gestione oculata e il risparmio, onde evitare superflue spese. I precetti dell’utile e del necessario, dunque né il troppo né il poco, sono ribaditi nella parte in cui l’Alberti, rivolgendosi al proprietario, si occupa dei rapporti con i servi: A questi comanderai cose utili, darai quello che sia necessario. E ancora il criterio della medietas è riproposto nella pratica della coltivazione e della gestione dei consumi casalinghi: Più nuoce il troppo stercorare [concimare] che non giova il poco; più molto giova assai stercorare che non nuoce il troppo. […] Non solo lo ulivo fugge il troppo caldo e anche il troppo freddo ma e ogni radice nutrita dalla terra ama l’aiere temperato. […] El fuoco mai si spenga in casa, e mai arda indarno.
Emblematico è poi l’uso ragionevole del tempo riferito ai servi: Non vorrai facciano il dì quello possono poi fare la notte, né in dì da lavorare gli occuperai in faccende quale e’ possano essequire il dì della festa. Con prudenza e oculato consumismo Alberti consiglia: Béi quando la botte sia piena, e béi quando el’ è scema, consiglio che risulta chiaro anche in Esiodo, secondo il quale è bene saziarsi all’inizio e alla fine. Trattando della ricchezza, entrambi sono convinti che sia apprezzabile solo quella ottenuta senza frode. Scrive Alberti: E quelle ricchezze quali s’accumulano senza fraude sono un bene divino. Ancora, il risparmio del tempo, la sua capitalizzazione rientrano in una visione del mondo ispirata ad un’organizzazione sagace dell’esistenza, alla coscienza che utilizzare il tempo in modo saggio equivale a rallentarne la corsa: A chi perde tempo s’accrescono faccende, lo ’ndugio rende il fine contumace e fuggitivo. Legata all’esigenza di non perdere tempo, è forse la moderazione stessa nel parlare. La medietas non è certo disgiunta dal realismo, appreso da autori classici come Catone il Censore (De Agricultura) o Plinio il Vecchio (Naturalis Historia); molteplici sono infatti, nella Villa, i consigli pratici per colui che vuole arrivare ad un’optima ricolta, partendo dall’aratura e dai lavori intermedi, prestando attenzione alla posizione della luna, crescente o calante, e del sole: nulla tanto nuoce a tutta la villa quanto non guatare ogni dì dove il sol si lieva e dove e’ si pone.
Traspare qua e là una concezione pseudo-animistica della natura, ove gli astri hanno una dimensione corporea, e ove s’individuano possibilità relazionali. Si vedano, tra gli altri, i passi seguenti: Nimico alla vite è il lauro e anche il caulo[cavolo]; e sdegnano e’ pampani il rapano [ravanello] e aodiano el caule [odiano il fusto del cavolo]. […] Seminerari che la luna ti vegga. […] Osserva che la luna smagri e non ti vegga. Si direbbe che venga riconosciuta alla luna una sorta di facoltà percettiva: gli sguardi suoi e dell’uomo s’incrociano o meno, in un rapporto continuo di sfida. Il realismo dell’Alberti non si esaurisce, dunque, in un’osservazione oggettiva, ma è vivificato da un linguaggio originale che connette magicamente i fenomeni.
LEONARDO DA VINCI
Leonardo da Vinci ( 1452 – 1519 ) é il classico esempio di ” genio universale ” , il cui sapere spazia nei campi più vasti e soprattutto , come a tutti é noto , nella pittura . Tuttavia possiamo considerare il genio fiorentino come vero e proprio filosofo e possiamo desumere la sua filosofia soprattutto dai suoi ” pensieri ” ossia quei brevi racconti , spesso sotto forma di favola , che si concludono sempre con una morale . E’ evidente che il pensiero di Leonardo sia influenzato soprattutto dai due più grandi filosofi del passato , Platone e Aristotele cui spesso si richiama : ma egli non si richiama alla loro autorità , cosa che peraltro era particolarmente in voga , anzi polemizza contro coloro che invece di ragionare con la propria testa per confutare le tesi altrui si limitano a servirsi dell’ ” ipse dixit ” , ossia a richiamarsi all’ autorevolezza di quei due grandi pensatori : ” chi disputa allegando l’ autorità , non adopra lo ‘ngegno , ma più tosto la memoria ” . Altrove egli si serve delle vicende di Mario , il famoso avversario di Silla , per illustrare l’ assurdità dell’ atteggiamento di chi punta tutto sull’ autorità di certe persone , trascurando completamente se stesso : Mario , infatti , é risaputo che fosse un ” homo novus ” , ossia che non vantava tra i suoi antenati figure famose e gloriose e proprio su questo facevano leva i suoi avversari per vincerlo , loro che invece potevano annoverare tra i loro antenati personalità di spicco e di gran carisma , autori di imprese memorabili ; Mario ai suoi avversari disse che preferiva farle lui le imprese piuttosto che compiacersi e vantarsi di quelle degli antenati . Leonardo certo é affascinato dalla figura di Platone e da quella di Aristotele , ma tuttavia é convinto che al principio della scienza ci sia l’ esperienza : ” la sapienza é figliuola della sperienza ” afferma in uno dei più celebri pensieri ; é qui evidente l’ influenza di Aristotele , il quale sosteneva che solo tramite l’ esperienza si potesse arrivare ad una conoscenza solida e fondata , agli ” universali ” ; é l’ osservazione dei fatti che porta l’ uomo alla conoscenza . Tuttavia Leonardo si muove in un periodo in cui tutto il complesso della scienza derivava dai ” supremi principi ” , cioè da un ragionamento astratto , senza rapporti approfonditi con la realtà naturale ; bisognerà attendere il ‘600 e la rivoluzione scientifica di Galilei perchè si pervenga al metodo opposto , quello che dall’ osservazione dei fatti intende risalire alle leggi . Però Leonardo sente la necessità di lavorare sulla natura e di non limitarsi a ragionamenti mentali ( alla metafisica ) , che esulino dall’ esperienza , e infatti dice : ” se tu dirai che le scienze , che principiano e finiscono nella mente , abbiano verità , questo non si concede , ma si niega , per molte ragioni , e prima , che in tali discorsi mentali non accade esperienza , senza la quale nulla dà di sè certezza ” : l’ esperienza per Leonardo non deve esaurire l’ intero processo scientifico , ma avvalorare e certificare con i dati sensibili l’ operato della mente . Tuttavia é solo l’ esperienza ad essere ” madre di ogni certezza ” perchè in quelli che lui chiama ” discorsi mentali ” , che poi sono i ragionamenti puramente astratti vi deve essere per forza una grande quantità di errori perchè senza confronto con la realtà é impossibile avere una conoscenza scevra di errori . Leonardo non vuol certo invitare gli uomini ad aborrire dal ragionamento , ma semplicemente é convinto che esso debba essere accompagnato da esperienze materiali , da esperimenti per dirla con un termine più moderno : altrove infatti Leonardo dice con un vigore estremo dell’ espressione che ” salvatico é quel che si salva ” , ossia che solo nel silenzio della solitudine si potrà rinvenire la voce più profonda dell’ animo , dialogando col quale si potranno avere intuizioni da verificare in natura . I meri empirici , egli dice , rassomigliano al nocchiere che entra in naviglio senza timone o bussola : il vedere dell’ osservatore non é un ingenuo atto della sensibilità , ma é un saper vedere , una vista guidata dall’ intelletto : quindi se il ragionamento da solo é inefficiente , é anche vero che diventa efficace se unito all’ esperienza . Se da Aristotele il genio fiorentino desume l’ idea dell’ esperienza come fondamento della scienza solida , egli attinge da Platone il gusto raffinato per i miti e per le immagini , che oltre ad avere valenza universale sono anche più piacevoli da leggere . Non solo desume dal ” padre delle idee ” la passione per le metafore , ma addirittura una delle sue più famose é palesemente platonica ; si tratta del ” mito della caverna ” , autentico compendio della filosofia platonica nel quale il ” padre delle idee ” descriveva la nostra condizione umana . Leonardo riprende questa immagine e la rielabora con una particolareggiata descrizione : ” … e tirato dalla mia bramosa voglia , vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura , raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli , pervenni all’ entrata d’ una gran caverna ; dinanzi alla quale , restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa , piegato le mie reni in arco , e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa ; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era . E stato alquanto , subito salse in me due cose , paura e desiderio : paura per la minacciante e scura spilonca , desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa ” ; leggendo il pensiero pare quasi di vedere la scena raffigurata tanto é minuziosa la descrizione , tipica di un esperto di pittura quale Leonardo . Tuttavia é evidente che si tratti di un’ immagine , proprio come in Platone , e che Leonardo non voglia descriverci una sua avventura di speleologo : é un’ efficacissima metafora del processo conoscitivo che l’ uomo deve affrontare , seguendo la sua inclinazione naturale ( la ” bramosa voglia ” ) , come già diceva Aristotele ( ” ogni uomo per sua natura tende alla conoscenza ” ) . Tuttavia seguire la propria natura , ossia raggiungere la conoscenza non é un processo indolore , come era per Aristotele o per Dante : infatti si può pervenire a conoscenze ” scomode ” , capaci di stravolgere le nostre concezioni e di portarci a mettere in discussione verità che ritenevamo solide e inconfutabili : nell’ animo di Leonardo infatti albergano contemporaneamente due sentimenti antitetici : egli é indeciso se seguire la sua inclinazione naturale di uomo , ossia se entrare nella caverna e raggiungere così la conoscenza , o se desistere dall’ avventurarsi in quel luogo oscuro , rinunciando così alla conoscenza ma evitando di mettere in discussione le sue concezioni . Leonardo non ci dice se in buona fine si é deciso ad entrare o é rimasto fuori , quasi come se volesse lasciare insoluto il problema deliberatamente , per far ragionare il lettore e per portarlo a chiedersi come si comporterebbe lui in tale circostanza . Sono solo il coraggio e la virtù a poter spingere l’ uomo a raggiungere la conoscenza , elevandosi così non solo al di sopra degli altri animali , ma dei suoi simili stessi : é infatti solo superando il timore di stravolgere le proprie conoscenze che se ne possono acquisire di nuove , magari in contrasto con le precedenti : spetta quindi all’ uomo effettuare un raffronto tra le conoscenze appena acquisite e quelle consolidate dalla consuetudine ed optare con discernimento per quelle che risultano ai suoi occhi essere migliori . In effetti Platone nel suo mito della caverna non affrontava tanto il problema del sapere come ” doloroso ” , ma in fin dei conti l’ uomo che si liberava dalle catene e poteva risalire in superficie lasciandosi la caverna alle spalle doveva in qualche modo affrontare la conoscenza , che in quel caso più che mai stravolgeva le sue concezioni : infatti scopriva che il suo mondo , a riguardo del quale non nutriva alcun dubbio , non é quello vero , ma una pallida copia ( pure malriuscita ) di quello ideale . Va poi detto che la ” gran caverna ” indica proprio la grandezza e l’ imponenza della natura agli occhi di colui che si accinge a conoscerla . D’ altronde la pittura stessa si configurava agli occhi di Leonardo non come un’ attività diversa dall’ indagine naturale , ma come uno degli aspetti di quell’ indagine , forse quello più libero e creativo : é come se lo scienziato e l’ artista fremessero di una medesima commozione , di un medesimo sgomento dinanzi alla realtà ancora ignota da indagare e riprodurre . Tuttavia non tutte le conoscenze e non tutte le realtà sono per l’ uomo favorevoli , o meglio , dipende tutto dall’ uso che egli fa di esse : in un altro celebre pensiero Leonardo racconta di una farfalla affascinata da un lume che emanava luce e che le pareva bellissimo , così bello che le pareva impossibile che potesse essere causa di male o di danno ; fatto sta che , volandogli troppo , vicino finì per cadere bruciata nell’ olio del lume e le ultime parole che potè dire furono : ” o maledetta luce , io mi credevo avere in te trovato la mia felicità ; io piango indarno il mio matto desiderio , e con mio danno ho conosciuto la tua consumatrice e dannosa natura ” ; il lume le rispose : ” così fo io a chi ben non mi sa usare ” : con questo pensiero il genio Fiorentino vuole comunicarci diverse cose : in primis di non fidarci delle apparenze , che spesso ingannano ; poi egli vuole sottolineare come alla base della conoscenza ci sia l’ esperienza : é solo sulla nostra pelle che possiamo apprendere . Ma ciò che maggiormente emerge dal pensiero é che per Leonardo in natura non ci sono un male e un bene nettamente distinti : la natura stessa delle cose dipende dall’ uso che ne facciamo ; é chiaro che per la farfalla il lume é stato un male , ma esso diventa un bene per l’ uomo che se ne serve per far luce nel buio . Da notare che comunque Leonardo non si serve delle metafore per conferire alle sue idee uno spirito divulgativo , per renderle comprensibili al ” popolo ” ignorante , che egli peraltro disprezza e dice che a loro non darebbe mai un libro in mano perchè convinto che , portatolo al naso , come prima cosa esaminerebbero se é cosa ” mangiativa ” ( commestibile ) : ” ecci alcuni che altro che transito di cibo e aumentori di sterco e riempitori di destri chiamar si debbono , perchè per loro alcuna virtù in opera si mette ; perchè di loro altro che pieni e destri non resta ” . Gli uomini che non desiderano sapere , che non seguono cioè la loro naturale inclinazione sono agli occhi di Leonardo bestie perchè non usano la ragione , che é ciò che appunto ci contraddistingue dalle fiere : per lui ” la vita bene spesa lunga é ” ( Seneca diceva : ” Vita , si uti scias , longa est ” : se sai usarla , la vita diventa lunga ) , ossia ogni essere vivente deve seguire appunto le sue inclinazioni , le sue prerogative ( Leonardo riprende l’ idea del ” Bene ” di Platone , in una prospettiva finalistica ) : un cavallo dovrà seguire la sua natura correndo veloce , una mucca producendo il latte , un cane facendo la guardia e l’ uomo raggiungendo il sapere , o almeno sforzandosi di raggiungerlo . Tuttavia compito dell’ uomo non é esclusivamente mirare al sapere , combattere chi compie il male e ” chi non combatte il male , comanda che si faccia ” : é un insegnamento etico che invita l’ uomo a prendere sempre una posizione e chi si disinteressa é agli occhi di Leonardo un disonesto che in fondo dà la sua complicità a chi compie il male .
TOMMASO MORO ( THOMAS MORE )
Con Thomas More , latinizzato in Tommaso Moro ( 1480 – 1535 ) gli ideali umanistici si diffondono in Inghilterra con gli stessi caratteri che avevano avuto in Italia nel Quattrocento : gli studi letterari non devono mettere capo a un’ oziosa erudizione , ma promuovere un fattivo impegno nella realtà civile . Questo impegno More lo testimoniò con la vita : cancelliere del regno , egli fu condannato a morte da Enrico VIII per essere rimasto fedele alla Chiesa cattolica , quando il re , per risposarsi , chiese al papa , senza ottenerlo , l’ annullamento del precedente matrimonio . Carattere politico ha anche l’ opera più nota di More , Utopia ( 1517 ) . In essa More delinea , sulla scia di quanto già aveva fatto Platone , il suo ideale politico , che immagina realizzato in un’ isola chiamata appunto Utopia , cioè il ” non luogo ” ( dal greco ” ou ” , non , + ” topos” , luogo ) o ” luogo che non esiste ” . Di qui l’ uso del termine per indicare ogni progetto socio-politico che abbia un valore esclusivamente ideale , non trovando concreta realizzazione da nessuna parte del mondo . E’ interessante notare la distinzione tra i due aggettivi , utopico e utopistico che derivano dal progetto politico di More ; “utopistico” è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile , ma che per fortuna non lo è : utopistico è il Comunismo russo .”Utopico” è un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo , che molti credono buono così come è , imperfetto e migliorabile : il progressista ha un atteggiamento sempre volto al cambiamento . Tornando a More , alla base della sua costituzione ideale egli pone il rifiuto della proprietà privata , come già aveva fatto Platone , che é principio di egoismo e di conflitto . Gli abitanti di Utopia , del resto , non lavorano a scopo di lucro , ma soltanto per provvedere ai beni necessari alla propria esistenza . In questo modo , dal momento che tutti esercitano un lavoro manuale ( pure le donne ) , le ore di attività possono essere ridotte a sei al giorno . Rimane così molto tempo per l’ educazione : particolare attenzione viene riposta nello studio delle scienze naturali e della filosofia morale , mentre sono trascurate discipline astratte come la logica e la metafisica . Dal punto di vista politico – amministrativo i cittadini dell’ isola sono divisi in 54 comunità cittadine , rette da funzionari eletti democraticamente : ma nei casi di decisioni gravi viene convocata l’ assemblea dell’ intera popolazione . Da notare che il carattere politico di Thomas More é in rapporto con la situazione storica che si veniva creando nell’ Inghilterra del ‘500 : in seguito all’ appropriazione delle terre da parte dell’ aristocrazia ( con gli ” enclosure acts ” ) e alla sostituzione dei vasti pascoli alla cerealicultura , i signori traevano più lauti guadagni dall’ industria della lana , mentre i contadini erano gettati nella miseria ; onde , come More osservava amaramente , ” i montoni divorano gli uomini ” ; nella città ideale di Utopia , invece , non c’é miseria nè disuguaglianza : il lavoro é obbligatorio per tutti e ognuno lavora per la comunità . La comunione dei beni libera ciascuno dal bisogno e dalla paura , assicura cioè a tutti la vera ricchezza . Le magistrature a Utopia sono elettive e ciascuno , dopo le sei ore di lavoro quotidiano , é libero di coltivare il proprio spirito . A Utopia non potrà mai accadere , come invece accade nelle altre città , che uomini ricchi , privi di cultura e di moralità , comandino su persone colte e virtuose , nè che vi si accendano e si esasperino le lotte e gli egoismi . Per quel che concerne la religione , si tratta di una religione naturale , a fondo monoteistico ; pur professando religioni diverse , gli abitanti di Utopia ( gli utopisti ) riconoscono nei vari dei un unico Dio ; ciascuno é libero di professare la sua religione e può anche fare opera di proselitismo , ma senza usare mezzi coercitivi : chi li usa é condannato all’ esilio o alla servitù . Tuttavia nell’ opera traspare un netto rifiuto dell’ ateismo da parte di Tommaso Moro ; se é vero che ad Utopia vige la più totale libertà di culto religioso , é altrettanto vero che gli atei sono esclusi ; essi , infatti , sono , secondo Moro , i più intransigenti e intolleranti : vogliono a tutti i costi inculcare nelle menti altrui le proprie concezioni . Il legislatore di Utopia si é di proposito rifiutato di legiferare in materia religiosa e di imporre particolari riti o credenze perchè forse Dio stesso ama la varietà e la molteplicità dei culti . Questo motivo , che più che di tolleranza può essere considerato di vera libertà , deriva direttamente , nell’ immagine e nell’ espressione , da Cusano e da Ficino : é il motivo che sfronda le diverse ispirazioni religiose dei propri elementi differenziali e le risolve , in definitiva , in un’ unica religione entro i limiti della ragione . Può sorprendere che ad affermarlo sia chi , come More , é animato da una particolare fede , quella cattolica , e per essa ha anche affrontato , con serenità , il martirio . Ma in realtà la riforma di More é realizzata nell’ immaginario stato di Utopia , vale a dire fuori dallo spazio , nella pura ragione del pensiero , non é riforma propriamente volta ad operare in concreto in una concreta società .
Riassunto di UTOPIA
Perchè il nome Utopia : La parola Utopia venne usata per la prima volta da Tommaso Moro, che in una sua opera del 1516 esponeva le usanze, le abitudini e i costumi del popolo dell’isola di Utopia, del quale sentì parlare da un marinaio; la controversia sull’origine del nome è dovuta al fatto che nell’opera di Moro viene presentata una società che ha entrambe le caratteristiche. L’origine più probabile rimane comunque quella di “non luogo”, in quanto era intento dell’autore descrivere una società che fosse in qualche modo perfetta, ma che purtroppo fosse anche impossibile da realizzare. Ad avvalorare quest’ipotesi c’è anche l’uso da parte di Moro di alcuni nomi quali ademo (senza popolo) per designare il principe, Anidro (senz’acqua) per indicare il fiume vicino ad Amauroto (città invisibile), la città principale dell’isola di Utopia, che in precedenza fu chiamata Abraxa (dove non piove) di re Utopo. Il libro inizia con una lettera indirizzata ad un suo amico, Pietro, con il quale ascoltò il racconto sull’isola di Utopia; in questa lettera Moro chiede se per favore Pietro potesse correggere la sua trascrizione del racconto, allo scopo di evitare che ci possano essere degli errori. Di seguito alla lettera inizia la vera opera, che è divisa in due libri. Nel primo libro Moro descrive il suo incontro ad un ricevimento con l’amico Pietro, che coglie l’occasione per presentargli un personaggio che sicuramente sarebbe interessato all’autore, un marinaio esperto conoscitore di terre lontane a causa dei suoi lunghi ed innumerevoli viaggi: Raffaele Itlodeo. Dopo aver fatto conoscenza i due, assieme a Pietro, decidono di ritirarsi in un posto appartato e di iniziare a discutere. Durante la prima parte del dialogo vengono analizzati i vari problemi della monarchia inglese, discussione che sorge dal diverbio successivo alla proposta di Moro secondo cui Itlodeo poteva essere utile in carica di consigliere per un sovrano europeo in quanto era dotato di buon senso e di esperienza, essendo rimasto per cinque anni nell’isola di Utopia. In realtà il motivo per cui Itlodeo rifiuta ritenendo di non essere adeguato all’incarico è proprio il fatto di aver vissuto per un così lungo tempo in quella società: egli sa bene, infatti, che il modello utopico fosse irrealizzabile in qualsiasi altro stato a causa delle sue caratteristiche. Fra i problemi individuati vengono messi in risalto: la nobiltà parassitaria e i lati negativi della proprietà privati fra i quali, soprattutto, la divisione che faceva tra ricchi e poveri. Questi ultimi, infatti, erano fortemente dipendenti dalla nobiltà che li costringeva a mendicare e a fare lavori poco retribuiti. Inoltre viene trattato la questione della pena di morte e il fatto che, con questa, fossero puniti anche i ladri che erano in molti casi costretti a rubare per necessità. In generale possiamo dire che vengono trattai tutti quei problemi cui, nel secondo libro, tramite la narrazione del racconto di Raffaele Itlodeo, Moro cerca di dare una soluzione pur sapendo che l’isola da lui ipotizzata è del tutto irrealizzabile. Nella seconda parte dell’opera – che coincide con il secondo libro – il discorso di Itlodeo si sposta sulla descrizione dell’isola secondo i suoi più vari aspetti.
La società : I cittadini di Utopia sono secondo la legge tutti uguali, anche se in realtà all’interno della società esistono delle differenze di classe. La divisione più sostanziale che possiamo trovare tra i cittadini è sicuramente quella tra uomini liberi e schiavi. Secondo lo statuto utopico tutti gli uomini nascono liberi; gli schiavi, infatti, non sono né prigionieri di guerra né figli d’altri schiavi, semplicemente presso gli utopici la schiavitù è una pena assegnata per i reati più gravi. Agli schiavi sono destinati i lavori più umili, mentre c’è l’uguaglianza tra gli altri cittadini. In realtà però anche tra i cittadini liberi esistono delle differenze di classe, che comportano alcuni privilegi per una di queste. Tutti gli uomini devono per legge avere un lavoro, anche se in realtà esiste una rotazione tra campagna e città, in modo che nessuno sia costretto a svolgere solamente i lavori agricoli nella sua vita. La società degli utopici è in realtà basata sul sapere, basti pensare alla classe sociale esente dal lavoro: gli uomini di lettere o sifogranti. Infatti i lavoratori hanno a disposizione nella loro giornata sei ore non lavorative, che possono dedicare allo svago o, se vogliono, allo studio; privilegiato è lo studio della letteratura. Tra questi vengono scelti i più meritevoli e vengono esentati dal lavoro, ed è da questa classe sociale che vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti e le persone facenti parte delle istituzioni.
Le istituzioni : L’isola di Utopia è una federazione di 54 città, in ognuna delle quali il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo è nelle mani del senato. Il senato in ogni città è formato da un principe (eletto a vita), da filarchi e da un protofilarco, eletto ogni dieci filarchi. Il principe è eletto dai protofilarchi d’ogni città che devono votare tra i quattro candidati che la città stessa designa. Oltre a questo senato all’interno delle città, ogni anno si tieni un ulteriore senato ad Amauroto con tre rappresentanti di ogni città. L’intero stato è basato sulla democrazia che viene materialmente rappresentata dai comitia publica, sede e istituzione principale. Non esiste un capo assoluto, addirittura ci sono leggi che evitano l’insediarsi di un potere tirannico, come per esempio il prendere decisioni politiche al di fuori del senato. Le leggi sono poche e chiare, in modo che la reggenza dello stato sia basata su pochi ma saldi pilastri, e che in questo modo possano essere tenuti bene a mente dai cittadini. Per la difesa dell’isola non esiste un esercito stabile, di conseguenza, in caso di guerra saranno gli stessi cittadini a difenderla. Preciso dicendo “difenderla” in quanto gli utopici non attaccano mai una popolazione vicina, ma si limitano a difendere l’isola o le loro colonie quando queste vengono attaccate. Il diverso modo di pensare influisce sugli utopici anche durante le guerre, in quanto essi ritengono vergognosa una vittoria ottenuta con un grandissimo spargimento di sangue, poiché secondo loro “sembra ignoranza pagar troppo caro una merce, per quanto di pregio”. Secondo questo loro modo di vedere è molto più gratificante una vittoria ottenuta con un inganno, ma che riesca a ridurre le vittime.
La famiglia : Il nucleo fondamentale della società di Utopia è la famiglia, sia nel campo economico che politico. Essa è unità base della politica, giacché decide per l’elezione dei filarchi (uno ogni trenta famiglie) e dei candidati al principato. Questa è anche la prima tappa produttiva dell’agricoltura ed entità fondamentale della società. All’interno della famiglia a comandare è il più anziano, o, in caso disturbi dovuti ad una eventuale avanzata senilità, il parente prossimo più anziano. Anche all’interno della famiglia perciò ci sono delle differenze, per esempio il fatto che i figli devono ubbidire ai padri e le mogli ai mariti. Grande importanza è poi attribuita al matrimonio, tanto che le leggi sono molto più severe su quest’argomento, anche allo scopo di preservare la famiglia e la moralità. È per questo che come per qualsiasi altro “commercio”, prima del matrimonio i due interessati vengono spogliati nudi e fatti vedere all’altro per la decisione finale e per verificare che nessuno dei due abbia imperfezioni fisiche che non aveva in precedenza fatto presente all’altro, per evitare così che il rapporto sia contratto senza il pieno amore e conoscenza dell’altro, e che sono vietati i rapporti precedenti il matrimonio.
L’economia : L’economia di Utopia è fondata sul lavoro, tanto che, come abbiamo già detto in precedenza, ognuno ha il dovere nella propria vita di imparare un lavoro; nonostante questo tutti i lavoratori di Utopia hanno il dovere, a rotazione, di lavorare in campagna; la rotazione è stata scelta affinché nessuno debba lavorare ingiustamente più degli altri, anche se questa rotazione non è così rigida come si potrebbe immaginare, e per rendersene conto basti tener presente il fatto che chiunque, se mosso da vera passione per il proprio lavoro può ottenere dei cambiamenti, a volte anche di un mese o più, sui turni. Preoccupazione dei sifogranti è che nessuno passi le sue giornate nell’ozio, ma che tutti abbiano un’occupazione; preoccupazione di questa classe sociale è però anche che nessuno debba fare più lavoro di quanto gliene spetti (a meno che non lo voglia lui di sua spontanea volontà lavorando anche in una parte delle sei ore che ognuno ha a disposizione), e per questo motivo la giornata lavorativa di ognuno è di sei ore. Moro precisa nella sua opera di non lasciarsi ingannare dal fatto che la giornata lavorativa sia così brave, in quanto poiché tutta la popolazione lavora non c’è mai mancanza di generi di prima necessità. Un altro punto sul quale è importante soffermarci è sicuramente l’atteggiamento degli utopici di fronte all’uso dei metalli e delle pietre preziosi come per esempio l’oro. L’atteggiamento delle persone rispetto all’oro è di rifiuto, siccome essi pensano che non sia necessari per il cittadino doversi abbellire con questo genere di oggetti (l’unico uso che “rientri nella norma” è per gli scambi esteri con le altre popolazioni), e perciò li usano in modi alternativi. Le pietre preziose vengono usate dai bambini per giocare, in quanto non sono ancora in possesso del modo del modo di pensare delle persone adulte, anche se verso i quindici anni anche loro le abbandonano; l’oro viene usato come materiale per i più svariati oggetti – Moro cita addirittura vasi da notte – e anche per cingerei polsi agli schiavi, perciò come segno di riconoscimento per loro.
La religione : In Utopia non vi è nessuna religione di stato ed è concesso a tutti di venerare il dio che ognuno sceglie. Nonostante questo però l’ateismo non è accettato, in quanto secondo il loro modo di vedere l’ateismo corrisponderebbe ad un abbassamento della natura dell’anima degli uomini, che per loro invece deve essere rispettata. Come abbiamo già affermato la parola “utopia” nasce con l’opera di Tommaso Moro, ma il concetto che essa esprime è molto più antico. Infatti la nascita delle dottrine politiche utopistiche viene comunemente associata con Moro, ma questo è in realtà un discorso valido solamente per il periodo moderno, in quanto nell’antichità furono scritte altre opere a carattere utopistico. La prima opera di questo genere che la storia ricordi è sicuramente la Repubblica di Platone, che, anche se da un lato è connessa alla concreta base della polis greca, dà comunque un modello idealizzato, in quanto per il filosofo l’uomo si poteva realizzare solamente come cittadino, non come singolo individuo, e questo stato ideale era pensato proprio per questa funzione. Il mondo romano, invece, è povero o addirittura privo di tendenze utopistiche. Il suo forte senso giuridico, l’orgoglio realistico della civis, la scarsa propensione all’astrazione filosofica, la concretezza di questo popolo, la stessa potenza politica e vastità territoriale non ne favorirono certo lo sviluppo. Questa situazione continuò in seguito anche nel medioevo, dovendo perciò aspettare l’umanesimo per rivedere altre opere utopiste. Queste opere vengono infatti riscoperte proprio in questo periodo a causa del cambiamento culturale: difatti la seconda metà del cinquecento e il seicento rappresentano il periodo immediatamente successivo all’umanesimo; una delle conseguenze più importanti di questo movimento di pensiero fu sicuramente la valorizzazione dell’uomo come essere razionale, concezione che portò poi all’affermazione della ragione. Questo portò in seguito ad una più completa autonomia dell’uomo, che contribuì ad una laicizzazione del sapere. Quest’evoluzione, che per alcuni storici segna il passaggio da pseudoscienze a scienze vere e proprie, ebbe come conseguenza la formazione di nuove dottrine politiche e la rivoluzione scientifica. Le dottrine politiche di questo periodo sono le utopie, e il realismo di Machiavelli, che per le loro caratteristiche sono una l’opposto dell’altra; Machiavelli, infatti, preferì partire da un’analisi della realtà, facendo riferimento in particolare alla situazione italiana, su cui poi costruisce il suo pensiero politico. Nelle opere utopiste invece c’è la volontà di idealizzare la società, creandone un’altra come secondo gli utopisti sarebbe dovuta essere; è da questo che derivano le particolari caratteristiche di queste opere, come per esempio la mancanza di distinzioni di classi sociali (anche se, come abbiamo visto per quest’opera, questo principio non viene sempre rispettato). Dentro il modello ideale, che è possibile ricollegare a Platone, s’annida un rifiuto della società da ricondurre alla storia del tempo. La ragione, con l’autorità che le conferisce la sua conquistata autonomia, non accetta il dispotismo dei principi o le ingiustizie della società; non riuscendo, da sola, a sanare quei mali contemporanei che tuttavia individua e denuncia, ne trasferisce la soluzione al di fuori e al di sopra della storia.
Le 3 utopie : Ognuna delle tre opere del periodo (Utopia di Moro, Nuova Atlantide di Bacone e La città del sole di Campanella) ha caratteristiche proprie, ma è possibile trovarvi degli elementi comuni. In tutte le opere vi è una visione idealizzata del luogo, in quanto le società descritte dai tre autori sono tutte poste su isole che vengono a loro volta collocate nell’emisfero australe del mondo, o comunque in luoghi lontani dalle società europee. Questa decisione è un modo per far risaltare maggiormente i caratteri di isolamento e di autarchia di questi popoli, che per la loro impostazione economica appaiono totalmente indipendenti dagli stati confinanti. Inoltre le società appaiono fondatale sul lavoro, e la sua razionalizzazione e la sua estensione all’intera comunità, anche alle donne, permette di aumentare il livello della produzione a beneficio di tutti e permette a tutti, e non più ad una sola minoranza privilegiata, di dedicare il tempo libero alla cultura. Si avverte qui la protesta e la condanna, esplicita del resto, sia in Moro che in Campanella, contro una società ancora gravata dal peso di parassiti e di oziosi. Le società utopistiche hanno la caratteristica di essere società precomuniste, e la caratteristica più lampante di questa interpretazione è sicuramente l’assenza di proprietà privata, per cui tutto appartiene a tutti ed è lo stato che distribuisce per esempio il cibo o le abitazioni (che nel caso di Utopia vengono distribuite anche in base ai “turni” di lavoro nelle campagne). Nel caso specifico dell’opera di Moro possiamo però vedere che la società, oltre che precomunista, può anche essere interpretata come una forma di socialismo, essendo una società meritocratica, dove i più capaci e più portati allo studio fanno poi parte della classe sociale dei sifogranti. Quest’aspetto rispecchia il desiderio di nuove gerarchie elettive fondate sul sapere, sul merito, sulla capacità, che ricorrono alla consultazione popolare, non più sui principi di assolutismo, dei diritti del sangue, della fondatezza dei privilegi del censo. Altri aspetti comuni alle tre opere sono il rifiuto della guerra, e la scomparsa del tempo: questo stava a significare che in alcune di queste società la giornata delle singole persone era preorganizzata, ovvero erano già decisi gli orari sia di lavoro sia quelli di tempo libero. Da notare che, nonostante in questo periodo si assista alla rivoluzione astronomica (al tempo di Moro in realtà iniziò semplicemente a circolare privatamente l’opuscolo De hypothesibus motuum coelestium a Se constitutis commentariolus di Copernico, che lo tenne nascosto per molti anni per timore delle possibili reazioni critiche), la scienza non è un aspetto cui gli autori dettero molto importanza; l’unica opera che abbia queste caratteristiche è la Nuova Atlantide di Bacone, in quanto nell’opera di Campanella, che pure ne intuisce le implicazioni sociali, ha ancora aspetti magici e astrologici. Contro l’arbitrio dei singoli, contro la prepotenza dei principi, si leva il limite dell’ostacolo di una razionalità comune a tutti gli uomini, cui ineriscono ormai diritti innati e naturali, anche se la schiavitù, che Campanella respinge, è ancora accolta da Moro che leva tuttavia la sua protesta contro la pena di morte.
FRANCESCO PATRIZI
Francesco Patrizi o de Pretis, nacque a Cherso nel 1529. Dopo aver studiato nella sua città natale con Petruccio da Bologna, percorse gli studi universitari a Padova, e fra gli studenti fu presidente della Congrega dei Dalmati. Non tardò a farsi notare e a Padova ed a Venezia dove nel 1553 pubblicò una raccolta di studi: Città felice; Dialogo dell’Honore; Il Bargnani; Discorso sulla diversità dei furori poetici; Lettere sopra un sonetto di Petrarca. Tornò a Cherso e, dopo poco, ripartì per Venezia e Ferrara. Divenne amico di Alfonso d’Este, di Scipione Gonzaga, di Agostino Valerio, di Girolamo della Rovere, del cardinale Ippolito Aldobrandini, e di altre eminenti personalità. Viaggiò molto. Percorse l’Italia e la Spagna. Si recò alcune volte in Oriente e, nel 1571, si trovava a Cipro quando la città dovette soccombere all’assalto dei Turchi. Nel 1578 venne chiamato all’Università di Ferrara, incarico che ricoprì sino al 1592, quando il cardinale Aldobrandini lo invitò a trasferirsi a Roma per assumere la cattedra di filosofia alla “Sapienza”. Il cardinale, una volta divenuto Papa con il nome di Clemente VIII, continuò sempre ad onorarlo.
Patrizi morì a Roma nel 1597, e venne sepolto a Sant’Onofrio nella stessa tomba del Tasso. Patrizi fu una delle figure più significative dell’Italia intellettuale del XVI secolo, una delle menti più vaste e più dotte che l’abbiano onorata. Egli estese i propri interessi in tutti i campi della conoscenza e volle fare della filosofia la sintesi del sapere. La sua opera, amplissima, abbraccia la letteratura, l’arte, la critica, la storia, la scienza, l’arte militare, la filosofia.
Fu anche poeta, ma non ebbe molto successo. Volendo innovare anche in questo campo, nel 1558 pubblicò un poema, Eridano, scritto in nuovi versi “eroici” di tredici sillabe. Nel 1560 apparvero i dieci suoi dialoghi Della Historia, e nel 1562 altri dieci Della Retorica. Poi si applicò alla filosofia, pubblicando nel 1581 le Discussioni peripatetiche. Due anni più tardi, seguendo forse l’esempio del Machiavelli, ma certamente per amore dell’Italia, con la sua Milizia Romana di Polibio, di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso, affrontò una questione completamente diversa.
A Ferrara proseguì negli studi letterari e di filosofia, partecipando al vasto movimento intellettuale italiano ed alle diverse controversie accademiche. Nel 1585 pubblicò un Parere in difesa di Ludovico Ariosto e l’anno successivo tornò ad interessarsi di poesia pubblicando: Della Poetica-La Deca historiale e Della Poetica-La Deca disputata.
Successivamente tornò ad occuparsi di scienze. Nel 1587 pubblicò la Nuova geometria dedicata a Carlo Emanuele di Savoia, e la Philosophia de rerum natura, che sollevarono il più grande interesse. Poco prima di partire per Roma scrisse la sua più importante opera filosofica, Nova de Universis Philosophia, salutata al suo apparire – 1591 – come la creazione di un genio, ma respinta e stigmatizzata dalle autorità ecclesiastiche. Fra le altre sue opere principali vanno anche citati i Paralleli militari, apparsi nel 1594. Patrizi appartenne a quella “élite” di italiani per i quali gli orizzonti erano sempre troppo ristretti, e troppo limitati i campi aperti alle loro attività. Essi tendevano ad elevarsi sino ai vertici del sapere umano per conseguire una più ampia visione del loro molteplice lavoro. Nel 1578 si occupò anche di opere idrauliche, e presentò al Bentivoglio uno studio per separare le acque del Reno da quelle del Po. Nello stesso tempo approfondì la musica teorica e, in merito alla musica greca – come gli riconobbe Zenatti nella sua opera Francesco Patrizi, Orazio, Ariosto e Torquato Tasso – scrisse “meglio di Galileo, di Gaffuri e Valgurio”. Tentò tutte le strade del sapere, avido di percorrere quelle che non erano state ancora battute. Cercò di riformare la filosofia e la matematica, la poesia e la storia, la botanica, la fisica, e l’arte della guerra. Fornì importanti contributi allo studio dei fenomeni naturali. Gli si attribuisce il merito di averli per primo osservati con una penetrante originalità, ed è considerato un innovatore nello studio della luce, in quello del flusso e del reflusso delle acque, nella teoria del movimento della terra, nella ricerca del sistema riproduttivo delle piante. Di grandissima importanza la sua Nova de Universis Philosophia (1591), elaborata per combattere l’aristotelismo e la scolastica, per affermare nella sua pienezza il platonismo. È uno di quei lavori che si collocano alla soglia dei tempi moderni e che, chiudendo con il passato, segnano un momento luminoso nella storia della civiltà italiana. È la prima grande opera che precede il glorioso rinnovamento della scienza italiana che si realizzò al tempo di Galileo e continuò nel secolo XVII. Questa opera, tormentata e non usuale, divisa in quattro parti, “Panaugia” o della luce; “Panarchia” o del principio delle cose; “Pampsichya” o dell’anima; “Pancosmia” o del mondo, conserva ancora oggi la sua grandiosa architettura ed egli, negli spazi ancora oscuri per la sua epoca, fa apparire splendidi squarci di luce. Si può ben dire che il neoplatonismo che rinnoverà l’Italia trova la sua forza principale in Patrizi. Già ai suoi tempi, Francesco Patrizi, venne onorato come un grande Italiano. Secondo il Rossi, un biografo del XVII secolo, fu il più dotto di tutti gli italiani della sua epoca.
Scriveva volutamente in italiano i dialoghi sull’arte Della Poetica per cooperare al trionfo di questa lingua sul latino. E nella prefazione sostiene la prevalenza del “volgare” rispetto all’esclusivismo della lingua dotta e latina degli umanisti. Posizione culturale che gli procurò un onore al quale teneva molto: far parte dell’Accademia della Crusca dove entrò nel 1587. Le desolanti condizioni nelle quali, allora, si trovava l’Italia, sotto il giogo di tanti stranieri, incapace di sollevarsi e di prendere con la forza delle armi il proprio posto di nazione viva e potente, angustiava Patrizi al pari di Machiavelli, di Guicciardini, del Castiglione, e di altri scrittori italiani del Cinquecento. Scrisse i suoi lavori sull’esercito romano e sull’arte militare pur sapendo di avventurarsi in un campo dove non era competente, ma sperava che l’Italia, apprendendo l’esercizio delle armi e seguendo l’esempio degli antichi, potesse tornare quello che era stata durante l’epoca romana: libera e grande.
JUAN DE VALDÉS
Juan de Valdés (1500-1541), fratello di Alfonso che fu segretario di Carlo V e che vide il “sacco di Roma” del ’27 come punizione divina, nacque da una famiglia di modeste condizioni di ebrei convertiti (il fratello della masdre fu arso sul rogo), studiò all’Università di Alcalà de Henares, che era aperta alla cultura umanistica; lesse con grande passione i testi di Erasmo da Rotterdam, che elogiò nel suo scritto Dialogo de doctrina cristiana (1529). In virtù di quello scritto, l’Inquisizione avviò un processo ai suoi danni, inducendolo ad intraprendere la via dell’esilio, che lo portò dapprima a Roma (presso la corte di Clemente VII) e poi, negli anni Trenta, a Napoli, dove visse in isolamento fino alla morte. Con la sua riflessione teologico-filosofica, Valdés contribuì a dare energia concettuale a quel movimento passato alla storia sotto il nome di alumbradismo spagnolo, soprattutto grazie alle innumerevoli opere che egli compose in quegli anni (Alfabeto christiano, Cento e dieci divine considerationi, commenti ai Salmi, ai vangeli e alle lettere di Paolo, le cosiddette Dimande et risposte). A rendere autonoma la dottrina di Valdés tanto da quelle cattoliche quanto da quelle riformate era innanzitutto l’irrinunciabile presupposto secondo cui l’accesso ai “grandisimos secretos de Dios” non proveniva dai testi scritturali, ma da una particolarissima illuminazione dello spirito (da cui il nome del movimento: alumbrados, ossia illuminati), senza la quale i testi non sono altro che una “fioca candela” del tutto incapace di orientare il penoso cammino del cristiano. Detto altrimenti, il contatto coi testi sacri non è culturale, ma avviene piuttosto per illuminamento divino (alumbramento): non è un caso che, contro questa concezione, tuonerà da Ginevra Calvino, scorgendo in essa una potente quanto inaccettabile negazione del sola scriptura. Per chiarire il rapporto coi testi sacri, Valdés ricorre ad una metafora (e il linguaggio immaginifico è un tratto portante del suo stile): cercare di capire i misteri divini limitandosi alla lettura razionale dei testi sacri è come avventurarsi in una foresta nel cuore della notte, muniti soltanto di una candela. La vera luce, che consente di muoversi agevolmente nella foresta, è quella rivelata nel cuore da Dio. Da questo presupposto scaturisce la conseguenza per cui il cristianesimo dev’essere inteso non già come “scienza”, bensì come “esperienza”, ossia come percorso di acquisizione della Verità “attraverso una rivelazione divina che le imprime il sigillo di un’indelebile certezza interiore e l’arricchisce di coinvolgenti valenze emotive” (Massimo Firpo). A sua volta, da questa spiccata insistenza sull’esperienza soggettiva, scaturisce un’altra importantissima conseguenza: non ha alcun senso rimanere vincolati ad una presunta ortodossia religiosa, ad un’autorità normativa imprescindibile, proprio perché diversi sono i livelli di conoscenza ed esperienza concessi a ciascun credente dagli imperscrurabili disegni di Dio. Secondo Valdés, infatti, la Chiesa, nella misura in cui è un’istituzione visibile e gerarchicamente ordinata, può solamente giudicare “lo exterior” e pertanto pretendere un’obbedienza meramente formale in relazione a prassi e a riti cerimoniali, senza però arrogarsi il diritto di giudicare le coscienze e di imporre ad esse rigidi dogmi. Proprio perché l’illuminazione interiore degli uomini si dispiega secondo modalità e per gradi diversi, è impossibile pretendere di raccogliere tutti sotto un’unica dottrina: per spiegare questo punto cardinale della sua riflessione, Valdés ricorre ad un’immagine alquanto efficace, mutuata direttamente dal filosofo Mosè Maimonide. Immaginiamo un palazzo rispetto al quale alcuni uomini si trovano nei giardini, altri all’ingresso, altri ancora all’interno; similmente, rispetto alla casa del Signore, alcuni si trovano già all’interno, avendo ricevuto una potente illuminazione divina; altri sono ancora fuori, e altri ancora si aggirano in prossimità dell’ingresso. Ciò non significa, tuttavia, che chi non è ancora entrato nel palazzo debba essere trattato come un eretico: al contrario, scrive Valdés, “non sono stranieri nel divino palazzo ancora quelli che stanno guardandolo da fuori”, alla luce del fatto che tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza, a patto che si abbandonino con fiducia alla misericordia di Dio veicolata dal sacrificio della Croce. E proprio in forza di questi diversi gradi di verità in cui ciascuno si trova a seconda dell’illuminazione del suo spirito, Valdés compone i suoi scritti rinunciando ad ogni sistematicità rigorosa, ad ogni spunto polemico, ad ogni inflessione dottrinaria, proprio perché il suo non è un sistema, e dunque non ha nemici dottrinali da combattere: quel che egli intende tracciare, secondo il titolo di una sua opera, è l’alfabeto cristiano, col quale maturare via via sempre nuove esperienze di fede e nuove illuminazioni. Quali sono allora i criteri oggettivi di verità, se a ciascuno lo spirito dà illuminazioni diverse? Non c’è forse il rischio di una deriva soggettivistica e relativistica? Valdés risponde significativamente che, non essendoci alcuna autorità che possa legittimamente giudicare e governare le coscienze, i cristiani avranno opinioni diverse e tutte ugualmente valide e accettabili, senza che si possa imporre a tutti una sola verità. Nella misura in cui “il cristianesimo non è una dottrina, ma una forma di dottrina”, ogni dogmatismo è messo al bando: e, con ciò, è anche esclusa la possibilità di fondare un’altra Chiesa, che sia alternativa a quelle esistenti e, al pari di esse, incardinata su dogmi imprescindibili. Con un’immagine splendida oltreché straordinariamente efficace, Valdés diceva che, come le erbe di un campo sono diverse fra loro e, ciò non di meno, fanno parte dello stesso campo, allo stesso modo i credenti sono tutti nel medesimo regno (il Paradiso) anche se nutrono opinioni e fedi diverse. Proprio sulla scia di queste convinzioni, Valdés poteva sostenere che l’Inferno non esiste. In questo senso, coi suoi scritti, il filosofo spagnolo invita alla prassi del “nicodemismo”, ossia della simulazione programmatica, assunto come tecnica pedagogica e incentrata sulla convinzione che non si debbano scandalizzare gli uomini che sono ancora deboli nella fede (ossia quelli che non sono ancora entrati nel palazzo). Ricorrendo ancora una volta ad un’immagine, Valdés sostiene che ogni cristiano è come un cieco che sta gradualmente riacquistando la vista e che, in forza di ciò, non può pensare che le prime ombre che vede siano la verità: bisogna allora avanzare un po’ alla volta, partendo dalla “giustificazione per fede”, e procedendo agli altri punti dottrinali. Verso il basso, il nicodemismo è allora volto a non fornire in una sola volta tutte le verità agli ancora “deboli nella fede”, optando per una graduale illuminazione; verso l’alto, invece, il nicodemismo diventa un legittimo schermo di simulazione e dissimulazione contro l’intolleranza delle Chiese dominanti e intolleranti, a protezione della “paz de la consciencia” e dell’assoluta libertà interiore che la fonda. Non è un caso che, fedele alla prassi di nicodemismo, Valdés, nelle sue lezioni, accompagnasse i suoi discepoli un po’ alla volta, leggendo con loro, gradatamente, Calvino e Lutero. Proprio il pensiero di Valdés, di questo “impareggiabile maestro di coscienze” (Massimo Firpo), con l’incredibile diffusione che ebbe, impedisce di leggere la Riforma italiana del Cinquecento come mera propaggine di quella luterana: contro Valdés si scatenerà la macchina sanguinaria dell’Inquisizione, che in lui scorgeva un “grande heretico de varie heresie e inventore di nove openioni erronee” che avevano “infectato […] tutta Italia”. Una curiosità piuttosto interessante è che, se nel resto dell’Europa l’Età della Ragione porterà nomi indissolubilmente legati all’idea di un’illuminazione (Illuminismo in Italia, Aufklärung in Germania, Enlightenment in Inghilterra, ecc), in Spagna si parlerà invece genericamente di Ilustración, proprio perché l’idea dell’illuminazione sarà sempre connessa al movimento degli alumbrados. Un’altra curiosità è che, nel 1545-1546, Cosimo de’ Medici farà affrescare da Jacopo Pontormo la basilica di San Lorenzo a Firenze col Catechismo di Valdés; ma l’opera di Pontormo sarà distrutta nel 1638, un po’ per il logorio delle pareti, un po’ per i mutati gusti e per la mutata sensibilità: l’opera sarà rifatta dal Bronzino, in sintonia coi canoni della Controriforma.
GIOVANNI BOTERO
“Perche spetta anco al Prencipe la guerra, deve aver piena notitia delle cose militari, della qualità d’un buon Capitano, d’un buon soldato, del modo di farne scelta, di schierarli, di avvalorarli, e delle scienze che sono quasi ministre dell’arte militare; della Geometria, Architettura, e di tutto ciò che si appartiene alle mecaniche; nel che fu eccellentissimo Giulio Cesare. Non voglio però, ch’egli attenda a queste cose, come ingegniero o artefice, ma come Prencipe; cioé che n’habbia tanta notitia, che sappia discernere il vero dal falso, e ‘l buono dal reo; e di molte cose proposte sappia sceglierne la migliore”. (Della Ragion di Stato)
INTRODUZIONE
A cura di Gigliana Maestri
BOTEROGiovanni Botero nasce a Bene Viagienna, vicino Cuneo, probabilmente nel 1544. Ancora giovanissimo, entra nella Compagnia di Gesù, compie i suoi studi in varie città italiane, e viene poi mandato ad insegnare retorica in Francia, dapprima a Billom, in seguito a Parigi. Dal momento che per ben due volte gli viene negata la professione dei voti, forse anche a causa del suo carattere non facile, chiede di essere dimesso dalla Compagnia, ed entra a servizio di Carlo Borromeo. Dopo aver svolto una missione in Francia per conto del duca di Savoia Carlo Emanuele I, egli diventa precettore del giovane Federico Borromeo, con il quale si reca a Roma nel 1586. È richiamato a Torino nel 1599, in qualità di precettore dei tre figli di Carlo Emanuele. Ottiene poi il titolo di abate di San Michele della Chiusa, ed è anche primo segretario e consigliere dei Savoia. Muore nel 1617.
Botero scrive molti libri e di vario genere: trattati, biografie di personaggi famosi, apologie, prediche e poesie. Tuttavia, la sua opera più nota è Della ragion di stato, pubblicata in dieci volumi nel 1589. Si possono anche ricordare: Delle cause della grandezza e della magnificenza delle città, le Relazioni universali, De regia sapientia, Relazione della repubblica veneziana, I capitani, Detti memorabili di personaggi illustri.
Come si è ricordato, la sua opera più popolare è Della ragion di stato. Qui, Botero cerca di conciliare la politica con i precetti etico-religiosi della fede cattolica, in netta polemica con Machiavelli. Tuttavia, al di là di questa scelta teorica, priva di originalità perché perfettamente in linea con lo spirito della Controriforma, egli si distingue in quanto, nella sua riflessione politica, quando si sofferma sulla vita degli Stati, attribuisce molto rilievo a quegli aspetti geografici ed economici, quindi “mondani” e concreti, che influiscono sull’esistenza delle nazioni e delle città. Ad esempio, egli sostiene che i centri urbani della nostra penisola sono più grandi di quelli degli altri paesi europei, perché vi risiede la nobiltà, che invece all’estero tende a vivere prevalentemente in campagna. Evidentemente, Botero si concentra sulle particolarità regionali e nazionali, e manifesta anche interesse, oltre l’ambito europeo, per società non cristiane.
Più in generale, egli appare avverso a qualsiasi forma d’intellettualismo utopistico, e, nel descrivere gli uomini e le loro vicende, il suo atteggiamento è decisamente realistico, grazie anche alle sue notevoli doti d’osservatore. Complessa, e a tratti controversa, appare la sua personalità, da cui emerge una sincera devozione religiosa, unita però ad un conformismo talora eccessivamente ostentato.
LA RAGION DI STATO
È difficile dare in poche pagine un riassunto completo della Ragion di Stato, piena com’è di lunghe digressioni su questo o quell’aspetto della politica regia, con frequenti richiami a esempi storici, presentati nel modo più opportuno per confortare la tesi dell’autore. Si occupa dei commerci, delle fortificazioni, dei mezzi adatti ad imbrigliare gli eretici, riguardo ai quali osserva acutamente che “il cambiare religione può esser di qualche utile a un particolare ed è contro il bene pubblico, quindi avviene che una città libera abbraccia più facilmente l’eresia che un principe assoluto”: consiglia ai governanti di cercare all’esterno un diversivo per i contrasti interni: “la Spagna è in somma quiete perché si è impiegata in guerre straniere e in imprese remote nelle Indie e nei Paesi Bassi…. La Francia, stando in pace con gli stranieri, se rivolta contro sé stessa e gli animi sono pieni di furore e di rabbia”; raccomanda il possesso di colonie oltremare per dare terre e pane al sopravanzo della popolazione; e, contro l’opinione dominante ai suoi tempi, vuole che le imposte regie colpiscano proporzionatamente tutte le proprietà dei privati non siano personali, ma reali, cioè non su le teste, ma su i beni, altrimenti tutto il carico delle taglie cadrà sopra de’ poveri, come avviene ordinariamente, perché la nobiltà si scarica sopra la plebe e le città grosse sopra i contadini “l’agricoltura dev’essere favorita” e si deve “far conto della gente che s’intende di migliorare e fecondare i terreni e di quelli i cui poderi sono eccellentemente coltivati”, perciò da lode ai Duelli di Milano che scavando canali irrigatori “hanno arricchito sopra ogni credenza quel felicissimo contado”: è avverso alle milizie mercenarie, che “vendono a guisa di mercatanti e di bottegai di poca fede l’opera loro piena di infinita tara di mille paghe morte o truffate, o di gente a buon mercato e perciò di poco valore e mal condizionata”: si dilunga sull’arte militare, sulla scelta delle armi per i cavalieri ed i fanti….
La Ragion di Stato e le Aggiunte che ad essa tennero dietro: Della eccellenza dei grandi capitani; Della neutralità; Della reputazione del Principe; oltre alle Relazioni universali che il Botero, veniva pubblicando sui vari Stati di Europa, quasi ad illustrazione ed a commento delle sue teorie di governo, gli valsero fama e considerazione grandissima, non solo a Roma. nell’ambito della Corte pontificia, ma presso i principali potentati nazionali e stranieri; tanto che il Duca Carlo Emanuele volle chiamarlo a Torino, per affidargli l’educazione dei suoi tre figli, ancora giovinetti. Giovanni Botero, da buon suddito, non esitò ad obbedire e benché forse gli pesasse un poco di perdere la sua cara indipendenza e di interrompere i suoi studi prediletti, tornò in Piemonte dopo quindici anni di assenza, e si accinse con zelo coscienzioso ad assolvere il compito che gli avevano assegnato. Egli del resto aveva sempre professato che “un privato non può l’opera e il saper suo meglio impiegare che in servire o di consiglio o di aiuto a quegli a cui Dio ha la cura dei popoli e l’amministrazione delle città confidato”. Ora la sorte gli offriva l’occasione di porre in atto questo suo principio preparando e plasmando per le responsabilità del comando la mente ed il carattere di futuri sovrani. Alla corte di Carlo Emanuele, il nuovo precettore visse circa quattro anni e seppe così bene accattivarsi l’affezione dei principi e la fiducia del Duca, che quando nel 1603 i suoi allievi dovettero partire per la Spagna, invitati a passare qualche tempo alla corte del Re Filippo III. egli fu scelto per accompagnarli. Il soggiorno durò quasi tre anni e si sarebbe forse prolungato, se la tragica sorte del principe Filippo, rimasto vittima di una epidemia di vaiolo, non avesse indotto il Duca padre a richiamare presso di sé i due superstiti. Vittorio Amedeo e Filiberto. Dopo il ritorno in Piemonte l’illustre precettore che fra le cure pedagogiche e di corte non perdeva di vista la politica e dalla Spagna aveva mandato a Torino molte informazioni preziose, fu promosso alle cariche onorevoli e ambite di Consigliere e Primo Segretario dei Duchi di Savoia. E non furono vane sinecure: ché il Sovrano teneva in alta stima il senno e l’esperienza dell’Abate Botero, e lo consultava spessissimo sugli affari di Stato. Aveva allora molta carne al fuoco, l’ambizioso Signore montanaro che vedeva lontano, grande ed alto, e pensava all’Impero, ed ai Regni di Macedonia e di Cipro, alla Provenza ed alla Lombardia come alle splendide possibili poste di una grande partita! Di tutto ciò trattava col Primo Segretario negli intimi colloqui a palazzo, o per lettere; e discuteva se colui familiarmente anche di storia e di letteratura, sottoponendo al suo esame e al suo giudizio gli scritti in versi e in prosa di cui si dilettava nei momenti di svago. Anche il Botero aveva ripreso a scrivere e diede fuori in quegli anni alcune aggiunte alle sue Relazioni; e un’opera sui Principi Cristiani, “ove nelle azioni di ottimi e valorosissimi Re la pratica e l’uso di essa ragione di Stato quasi pittura al suo lume si scorge”; a cui segue una storia della Casa Sabauda dai tempi di Beroldo fìno al Duca regnante. Dello stesso periodo sono un trattato didattico sui Grandi Capitani: un Discorso sull’Eccellenza della Monarchia in cui riprende e illustra le idee che già sappiamo, ed un Discorso della Nobiltà, in cui mostra di anteporre l’aristocrazia militare a quella civile o togata “perché la toga non è così efficace e pronta all’operare come la spada in tagliare i nodi gordiani e le difficoltà che si sogliono nelle alte imprese attraversare” ; ed ancora poemetti e dissertazioni diverse, sempre in lode del Duca e del Piemonte, produzioni di gusto secentesco per la ricerca preziosa dei concetti, ma tuttavia eleganti ed aggraziate. Il suo ultimo scritto politico è del 1611: il Discorso sopra la lega contro il Turco, alla cui testa sognava il suo Signore, breve lavoro che tradisce in qualche punto la grave età dell’autore, già più che settantenne.
ANDREA CESALPINO
A cura di Gigliana Maestri
Andrea Cesalpino (1519-1603), esponente dell’aristotelismo, insegna medicina e botanica a Pisa; in seguito, viene chiamato alla corte papale in qualità di medico di Clemente VIII. La sua opera più importante s’intitola Quaestiones peripateticae; si possono ancora segnalare: il trattato De plantis, un’opera di medicina come lo Speculum artis medicae Hippocraticum, e la Daemonum investigatio peripatetica (1580).
In quanto aristotelico, Cesalpino ritiene che non ci si debba tanto preoccupare di ripetere la dottrina di Aristotele, quanto piuttosto di svilupparla adeguatamente in base ad una riflessione critica più aggiornata, portandola, per così dire, all’altezza dei tempi. Perfettamente in linea con i padovani, egli insiste sull’autonomia dello studio della natura, che non deve confondersi con la metafisica. Alla dottrina di Aristotele, secondo la quale ogni essere vivente può esclusivamente derivare da un altro essere vivente, Cesalpino preferisce la teoria della “generazione spontanea”, pur ammettendo di non riferirla alla prima creazione di tutti gli enti, ma esclusivamente alla loro successione.
Cesalpino attribuisce poi ad Aristotele la dottrina dell’animazione universale, dalla quale ricava il principio dell’unità dell’universo. Nella spiegazione della vita umana, egli applica proprio questo principio, perché, aderendo al pensiero aristotelico, considera il cuore la sede fondamentale e centrale della vita, in polemica con la dottrina platonica, secondo la quale tre sono i centri dell’esistenza biologica: cervello, cuore e fegato. Coerentemente con queste posizioni, anche in medicina Cesalpino sostiene una teoria cardiocentrica, che lo conduce ad osservare dettagliatamente certe funzioni del cuore, con particolare interesse per la piccola circolazione del sangue. In generale, quale studioso di medicina, egli ritiene che si debba sempre lavorare unendo esperienza e ragione.
Nel suo trattato dedicato alla botanica, Cesalpino abbandona completamente la tradizionale classificazione delle piante, fondata sulla radice del loro nome, per sostituirla con una nuova classificazione, basata sulle funzioni fondamentali della vita vegetativa. Tale scelta risponde al criterio di cui si è detto, ossia alla volontà di unire sempre, nelle sue indagini, esperienza e ragione.
Nella Daemonum investigatio peripatetica, Cesalpino si pone il problema di stabilire se certi poco comuni sintomi di malattia siano attribuibili a cause soprannaturali. Egli ritiene che non si possa rispondere a questo quesito basandosi su principi medici, perché, per la medicina, è impossibile una comunione fra mondo divino e mondo sublunare. Secondo la tradizione galenica, l’anima coincide con il calore nativo; tuttavia, se si abbandona il territorio della medicina per accostarsi a quello della filosofia, occorre ammettere che l’intelletto umano ha qualcosa di divino, e che la materia prima, in quanto animata, partecipa della divinità. In altre parole, un’entità divina permea tutto, sebbene con diversa intensità, per cui, a parere del filosofo, non esiste una dicotomia fra mondo sublunare e mondo celeste.
In quest’opera, Cesalpino ammette l’esistenza dei “demoni”, e stabilisce anche il posto che spetta loro nella gerarchia naturale, ponendoli nella “sfera ignea”; nonostante Aristotele non abbia mai dato indicazioni in tal senso, tuttavia, per Cesalpino, è possibile fare una simile supposizione perché “ignis” può essere usato nel significato di “aether”. A suo parere, è anche perfettamente lecito, sul piano filosofico, tentare di comprendere in che modo i demoni agiscano nel mondo, perché, come si è detto, egli non pone una netta dicotomia fra realtà sublunare e realtà sopralunare (dicotomia che invece era centrale nel pensiero di Aristotele); inoltre, ritiene che, in base all’esperienza, molte opere di “stregoneria” non possano essere ricondotte al concatenamento causale che costituisce l’ordine della natura. Pertanto, Cesalpino sostiene che l’azione dei demoni è spiegabile se consideriamo che il loro intelletto è in parte speculativo e in parte pratico: in quanto speculativo, non può causare nulla, in quanto pratico può costituire il principio di molte azioni soprannaturali. Cesalpino sembra invece non apprezzare troppo l’eccessivo rilievo che alcuni pensatori del suo tempo attribuiscono agli astri, nel tentativo di spiegare fenomeni apparentemente “miracolosi”.
LUIS DE MOLINA
A cura di Alessandro Sangalli
Personalità di spicco della scolastica spagnola del Cinquecento, Luis de Molina fu anche uno dei più controversi pensatori della storia del cattolicesimo. Sulla base di precise tesi teologiche e filosofiche, elaborò una sua propria dottrina che puntava alla conciliazione del libero arbitrio con la prescienza divina e la predestinazione. Oltre al lavoro in campo teologico, dedicò molto tempo anche a temi politici e morali, interrogandosi in particolare sulla legittimazione del potere e dell’autorità politica, sulla schiavitù e su questioni economiche.
1. Vita e opere
MOLINALuis de Molina nacque a Cuenca, in Spagna, nel settembre del 1535, da una famiglia di nobile lignaggio. Nella sua città natale apprese la lingua latina, apprezzando in modo particolare Cicerone, Vergilio e Nepote. Appena sedicenne, nel 1551, si recò all’Università di Salamanca per studiare Legge e Diritto: interruppe tuttavia gli studi giuridici l’anno successivo, quando fu accolto come novizio nel collegio di Alcalà dalla Compagnia di Gesù. Per circa dieci anni, si dedicò allo studio della filosofia e della teologia vivendo tra Lisbona, Coimbra e Évora, fino a quando venne ordinato sacerdote nel 1561. Tra il 1563 e il 1567, fu Maestro delle Arti a Coimbra, ma a partire dal 1568 gli fu affidata la cattedra di Sagrada Teología all’Università di Évora, dove ottenne sempre ampio successo di pubblico. La peste che nel 1577 colpì la città e la scarsissima affluenza di studenti di quel periodo, permisero a Molina di dedicare del tempo alla stesura dei cinque volumi del De iustitia et iure (opera postuma, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1614).
Nel 1584 si ritirò definitivamente dall’insegnamento e si trasferì a Lisbona, per occuparsi della composizione delle sue opere: in questo periodo, scrisse la notissima Concordia, titolo con cui solitamente si indica lo scritto Liberi arbitrii cum gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione et reprobatione concordia. Questo lavoro, uscito nel 1588, è in realtà solo una parte di un’opera maggiore, intitolata Commentaria in primam divi Thomae partem e pubblicata solo nel 1592 a Cuenca, città dove Molina aveva fatto ritorno dal Portogallo l’anno precedente. Nel 1600, ricevette un incarico come professore al Colegio Imperial di Madrid, città dove morì il 12 ottobre dello stesso anno.
2. La Concordia: grazia e libertà
La stesura della Concordia procurò a Molina violenti attacchi, soprattutto da parte degli ambienti domenicani: l’opera ottenne l’imprimatur del Tribunale dell’Inquisizione portoghese solo dopo alcune correzioni e innumerevoli difficoltà. La pubblicazione di questo scritto diede il via alla cosiddetta polemica de auxiliis, che si infiammò nel 1595, quando il domenicano Domingo Bañez rispose al gesuita Molina con la Apología de los hermanos dominicos: i due teologi si accusarono reciprocamente di eresia; il nostro fu tacciato di pelagianesimo, mentre Bañez fu accusato di aver scritto opere di stampo luterano e calvinista. Solo nel 1607, dopo la morte di entrambi i contendenti, una commissione istituita a Roma dieci anni prima da papa Clemente VIII – la Congregatio de auxiliis – stabilì che nessuno dei due testi era da considerarsi portatore di dottrine eretiche.
Secondo Molina, anche dopo il peccato originale, la natura umana è rimasta immutata: l’uomo, come essere naturale, è assolutamente libero e totalmente indeterminato fra bene e male. Ciò che l’uomo ha perso peccando sono i doni e le virtù sovrannaturali di cui Dio l’aveva dotato, passando così da uno stato di comunione con il trascendente ad uno stato puramente naturale. Quindi, l’uomo può compiere il bene naturale senza bisogno della grazia, ma col solo concorso generale di Dio; per quanto riguarda la salvezza eterna, invece, l’efficacia delle sua azioni dipende ancora dalla grazia divina: nemmeno la fede nella rivelazione, che è il primo passo verso la salvezza, è un atto di pura volontà, ma richiede la vocazione divina della grazia.
Ciononostante, l’efficacia della grazia dipende anche dalla volontà dell’uomo che riceve l’auxilium divino. La cooperazione umana è necessaria affinché la grazia divina sia efficace. Benché con le buone opere in quanto tali non sia possibile esigere o meritare la grazia, chi in vita con le sue forze fa il possibile riceve in ogni caso l’auxilium di Dio. A tal proposito, Piero Martinetti scrive molto chiaramente che «Dio non accieca e non indurisce i cuori, ma non illumina e non salva se non chi vuole essere illuminato e salvato» (La libertà, cap. I; corsivi miei). L’azione della grazia non è un impulso irresistibile che determina necessariamente il volere umano (come accade, ad esempio, per il giansenismo), ma un’illuminazione, un aiuto, un’attrazione che volge “lo sguardo” della volontà verso il bene, lasciandola nello stesso tempo libera di scegliere se compierlo o meno: detto altrimenti, l’efficacia della grazia divina dipende in ultima analisi dalla libera volontà dell’uomo, che ha il potere di decidere se accogliere o non accogliere l’illuminazione di Dio. Secondo Molina, «si dice libero quell’agente che, pur essendo posti tutti i requisiti dell’agire, può agire o non agire»: egli riconosce, dunque, il fatto che per agire occorrano dei moventi, cosicché la libertà non nasce mai, per così dire, da un punto zero; al contrario, devono esservi le cause che producono l’azione senza tuttavia essere determinanti. In tal maniera, l’uomo mantiene la sua facoltà (agostiniana) di far sì che le cause diventino attive e producano un effetto oppure di far sì che rimangano inattive. Ogni azione pertanto ha sempre i suoi moventi, cosicché non sono mai io a causare le mie azioni (ed è questa una concessione al determinismo di Lutero), ma ciononostante sono libero di lasciare che tale causa agisca, il che significa fare una cosa oppure un’altra. Se ne evince che, in siffatta ottica, il libero arbitrio altro non è se non il sospendere alla radice un meccanismo deterministicamente procedente. Per difendere la Provvidenza, poi, senza perciò seppellire la libertà, Molina ricorre ad uno scaltro quanto brillante espediente: il “concorso simultaneo”, per cui ogni evento scaturisce dalla intima cooperazione di ben due cause. La prima corrisponde all’intervento di Dio (che di tutte le cose è autore), la seconda riguarda invece l’azione di un agente creato: pertanto, da un lato Dio è il principio della causalità e, in questo senso, è autore di tutto ciò che avviene, ma, dall’altro lato, quale sia la causa specifica che si attiva in un dato momento, ciò dipende dall’intervento di una creatura. Dunque, per i fatti fisici l’azione della creatura è sempre data da un corpo naturale che non può agire altrimenti da come agisce: così il fuoco riesce a scaldare la pietra perché vi è la causalità generale garantita da Dio e, in aggiunta, la specifica proprietà di bruciare peculiare del fuoco. Nel caso dei fatti morali, poi, da una parte c’è sempre l’influsso di Dio come causa generale, ma, dall’altra, c’è la libera volontà dell’uomo, che può applicare la causalità divina o lasciarla inoperante. Ad esempio, se siamo indotti per passione a compiere un delitto, da un lato c’è la possibilità di essere causa di tal delitto (e ciò deriva da Dio), dall’altro però come causa seconda io posso decidere se rendere operante tale causalità (e compiere il delitto) o renderla inattiva (astenendomi dal compiere il delitto).
3. Il problema della prescienza e della predestinazione
È stato detto che, per farsi un’idea dei contenuti dell’Accordo tra il libero arbitrio e i doni della grazia, tenendo conto della divina prescienza, della provvidenza, della predestinazione e del castigo, sia sufficiente leggere il titolo dell’opera, il quale ben rivela il nocciolo problematico di tutto il sistema teologico del nostro autore. La difficoltà più grande che Molina dovette affrontare – e qui risiede la grandezza della sua opera – fu proprio quella di riuscire a conciliare la sua teoria della grazia e del libero arbitrio con i dogmi della prescienza e dell’onnipotenza di Dio. Se, infatti, con la sua concezione del rapporto grazia-libertà Molina «non si scosta dal semipelagianesimo scolastico […], l’originalità sua sta invece nel tentativo di accordare questa relativa indipendenza della volontà con l’onniscienza e la volontà assoluta di Dio» (P. Martinetti, La libertà, cap. I).
La visione di Molina sembra infatti contrastare con il dogma cristiano secondo il quale Dio, dall’alto della sua onniscienza, possiede una conoscenza assolutamente perfetta ed infallibile delle future azioni umane. Infatti, delle due, l’una: o godo del libero arbitrio, e allora Dio non sa cosa farò domani, in quanto le mie scelte dipendono solamente da me; o Dio conosce tutto ab aeterno, e quindi il sentirmi libero è solo una mia illusione, essendo già ogni cosa preordinata e predeterminata. Tuttavia, secondo il nostro autore, è possibile attribuire a Dio una previsione sicura dei contingenti futuri senza intaccare la libertà umana: esiste infatti in Dio, accanto alla scienza di intelligenza (con la quale egli conosce tutte le possibilità incluse nella sua potenza) e alla scienza di visione (con la quale conosce le sue libere creazioni), una forma di sapere che sta in mezzo a questi due, una scienza media tramite la quale egli conosce cosa faranno gli esseri liberi, senza che questo annulli la loro libertà di fare o di non fare. Una sorta di comprensione profonda (Martinetti la definisce «divinazione misteriosa») delle nature create, grazie alla quale Dio vede chiaramente, pur non basandosi su alcuna connessione necessaria tra antecedenti e conseguenti causali, cosa faranno gli uomini liberi nell’infinita varietà delle circostanze possibili. Per quanto possa sembrare un concetto di difficile comprensione, Molina, in un passo della Concordia, si esprime in modo così esplicito da non lasciare spazio a conflitti interpretativi: «servato integro iure libertatis arbitrii creati, Deus certissime cognoscit futura contingentia». Mutatis mutandis, è un po’ come se, conoscendo a fondo il carattere e la personalità di un nostro caro amico, fossimo in grado di prevedere con certezza le sue azioni di fronte ad ogni situazione possibile: naturalmente, questo tipo di prescienza non necessita le azioni del nostro amico, che rimane assolutamente libero e indeterminato.
È evidente come, con l’introduzione della scientia media, Molina abbia totalmente escluso l’azione necessitante della prescienza divina e sia in qualche modo riuscito a salvare la cooperazione grazia-libertà. Nel suo sistema, tuttavia, rimangono oscillazioni ed ambiguità non indifferenti. Perché Dio concede la grazia agli uomini pur sapendo che essa non è sufficiente a far guadagnare loro la salvezza? Se, in sostanza, la grazia non funziona senza la buona volontà dell’uomo, si deve concludere che l’uomo “completa” un’azione che Dio da solo non può compiere? E ancora, possiamo in questa prospettiva parlare di un Dio dotato di un’assoluta onnipotenza? Non possiamo che rifugiarci ancora una volta nelle conclusioni di Martinetti, che a proposito del nostro autore scrive: «la tendenza fondamentale della sua dottrina è semipelagiana; ma le preoccupazioni dogmatiche lo traggono a cercare una conciliazione forzata con l’agostinismo. In realtà egli non riesce che ad insistere ora sull’uno ora sull’altro dei termini da conciliare: sì che, nonostante le sue evidenti simpatie per la causa della libertà umana, l’uno dei due termini è sempre in realtà, con alterna vicenda, sacrificato all’altro» (La libertà, cap. I)
4. La filosofia politica: il De iustitia et iure
Se dal punto di vista teologico l’opera più importante di Molina è la Concordia, per quanto riguarda il pensiero filosofico-politico ci si deve sicuramente riferire al De iustitia et iure, scritto in cui lo spagnolo espone in cinque volumi le sue teorie di argomento politico, giuridico ed economico. La Iustitia è composta da numerosi trattati e da più di 700 dispute etiche e giuridiche: in tutti questi testi è evidente l’influenza che la tradizione aristotelica e tomistica hanno avuto nella formazione del pensiero politico di Molina.
La linea aristotelica è particolarmente forte nella descrizione dell’origine naturale della società civile: l’istintivo impulso di soddisfazione dei bisogni naturali porta infatti gli uomini a riunirsi spontaneamente in società, garantendosi così un miglior tenore di vita rispetto alla condizione selvaggia. L’uomo come animale sociale e la politica come dimensione naturale della vita umana erano già cardini della Politica aristotelica. A questi Molina aggiunge – a mo’ di giustificazione del potere coercitivo dello Stato – l’eventus peccati, ovvero l’effetto del peccato originale.
Per quanto riguarda lo statuto del potere politico, si può dire che Molina sia un portavoce di un pensiero democratico, che insiste, senza però idealizzarlo, sul valore della libertà individuale. Il popolo, conferendo l’autorità di cui è padrone ai propri governanti, non rinuncia definitivamente ad essa, ma la rende inattiva pur lasciandola intatta ed integra. In termini moderni è come se la mettesse in stand-by: rimane perciò valido il diritto di resistenza ad un governante ingiusto, principio in base al quale Molina arriva a legittimare anche il tirannicidio. Questo stesso espediente concettuale è utilizzato anche per regolare i rapporti tra Stato e Chiesa: il Papa non ha diritto di intervenire in questioni temporali (eccezion fatta nel suo Stato), ma esistono alcune circostanze pratiche particolari nelle quali il pontefice guadagna questo diritto d’intervento “riattivando” quell’autorità lasciata finora inutilizzata.
Molina affronta inoltre un’altra grande varietà di questioni: dai problemi morali sollevati dalla guerra e dalla schiavitù a quelli squisitamente economici riguardanti la tassazione, il libero mercato, la politica monetaria e la regolazione dei prezzi. Date le circostanze storiche in cui visse il nostro autore, le sue riflessioni circa la pratica della schiavitù risultano essere particolarmente interessanti. Come i suoi predecessori aristotelici, egli è convinto che la schiavitù sia, in determinati casi, moralmente giustificabile ed eticamente accettabile: coloro che la giustizia ha condannato a morte possono essere legittimamente resi schiavi tramite una commutazione della pena; i prigionieri di guerra stranieri catturati in una guerra giusta (cioè non di aggressione, ma difensiva) possono essere ridotti in schiavitù a titolo di risarcimento danni; un adulto perfettamente capace di intendere e volere può in modo lecito vendere se stesso come schiavo. Ciò nondimeno, egli a Lisbona si espresse più volte contro la tratta degli schiavi neri tra Africa, Europa ed America, definendola «ingiusta e crudele» e preannunciando per coloro che la praticavano l’eterna dannazione, fossero essi venditori o compratori.
ÉTIENNE DE LA BOÉTIE
LA VITA
Étienne de La Boétie nasce il 1° novembre 1530 a Sarlat, cittadina del Périgord.
Rimasto orfano in giovane età, è allevato dallo zio e da questi avviato agli studi.
Nel 1553, dopo aver ottenuto la Laurea in Giurisprudenza all’università di Orleans, ottiene la carica di consigliere al parlamento di Bordeaux. Trascorsi quattro anni, la stessa carica è conferita a Michel de Montaigne, con il quale sorgerà un forte legame, la cui testimonianza migliore è data dallo stesso Montaigne negli Essais, in cui il capitolo “dell’amicizia” è quasi totalmente dedicato al ricordo di La Boétie, e contiene, in appendice, la pubblicazione di 29 sonetti composti da quest’ultimo.
È questo in Francia il periodo delle guerre di religione tra cattolici e ugonotti, contraddistinte dalla violenta repressione di questi ultimi. A tale repressione partecipa attivamente anche il parlamento di Bordeaux, con numerose condanne a morte di presunti eretici.
In questo clima, a La Boétie, la cui contrarietà a una simile politica è testimoniata dalla sua scarsa partecipazione all’attività del parlamento, viene affidata una missione di riconciliazione religiosa presso Caterina dei Medici, reggente al trono per Carlo IX, all’epoca decenne.
Nello svolgimento della sua missione, La Boétie stringe amicizia con il cancelliere Michel de L’Hosptial, il quale, condividendo la politica di riconciliazione della regina, gli chiede di farsene interprete presso il parlamento di Bordeaux, nel quale trova la collaborazione di Montaigne.
Il successo nello svolgimento di questo compito gli valse il ruolo di mediatore in alcuni conflitti religiosi, mansione nello svolgimento della quale ottenne altri risultati positivi.
La sua adesione alla politica della regina è ribadita nelle Mémoire sur l’Edit de Janvier, in cui La Boétie denunciava gli errori della repressione violenta, e si dichiarava favorevole ad un cattolicesimo riformato, nel quale cattolici e protestanti potessero convivere.
Proprio quando la sua carriera politica era in forte ascesa, La Boétie si ammalò gravemente, ed all’età di 33 anni morì tra le braccia di Montaigne, ed invocandone il nome, ed affidandogli nel proprio testamento il compito di pubblicarne le opere.
Compito che Montaigne assolve per le poesie e le traduzioni di Senofonte e Plutarco curate da La Boétie; ma che invece non esegue per le opere di carattere politico, compresa la più nota: Il Discorso sulla Servitù Volontaria.
IL DISCORSO SULLA SERVITÚ VOLONTARIA
Il breve scritto Il discorso sulla servitù volontaria (circa trenta pagine) fu composto da La Boétie, secondo Montagne, a soli 16 anni (in un edizione precedente dei suoi Essais, Montaigne indica 18), ma più probabilmente nel 1552-53.
Fu fatto circolare ampiamente da La Boétie, tanto che lo stesso Montaigne afferma di averlo letto prima di conoscerne personalmente l’autore.
Il Discorso sarà pubblicato, anziché da Montaigne, nella raccolta di scritti antimonarchici Memorie degli Stati di Francia sotto Carlo IX, con il titolo Contr’uno con cui divenne noto.
Questa pubblicazione non è del tutto fedele, ma contiene alcune interpolazioni e inserimenti, dei quali la prova maggiore è fornita dalla citazione della Franciade di Ronsard pubblicata nove anni dopo la morte di La Boétie. Secondo alcuni storici, questi inserimenti sarebbero opera dello stesso Montaigne; tanto che lo storico francese Armingaud, ai primi del ‘900, arriva a sostenere che il testo sia interamente opera di Montaigne. Ipotesi non condivisa dalla maggior parte dei suoi colleghi; la paternità dell’opera rimane così attribuita a La Boétie.
Il testo costituì un punto di riferimento inizialmente per l’opposizione calvinista alla monarchia cattolica, successivamente per la opposizione contro l’Ancien Régime che scaturì nella Rivoluzione Francese, in seguito per la protesta repubblicana contro la Restaurazione attuata al congresso di Vienna, ed infine per la politica socialista e rivoluzionaria dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ed in particolare per la sua corrente libertaria.
La carica libertaria del Discorso è stata dunque utilizzata per la critica di regimi tra loro molto diversi, dalla monarchia feudale fino allo stato borghese liberale, testimoniando così di conservare la sua validità in ogni tempo, compreso l’attuale, rivolgendosi contro la tirannia in sé, indipendentemente dalle forme storiche che essa assume.
Il Discorso si fonda su due pilastri. Il primo, che dà il titolo all’opera, è costituito dall’idea che la tirannia non sia imposta, ma consensualmente accettata dal popolo, il quale si trova quindi in una situazione di servitù volontaria, ossia accetta volontariamente di sottomettersi al tiranno. La Boétie critica dunque la concezione classica della filosofia politica, ancora oggi molto diffusa, che considera le catene della servitù unidirezionali, e dunque il problema posto da questa semplicisticamente risolvibile attraverso la rottura delle catene stesse; ottenuta la quale, gli individui sarebbero automaticamente liberi, come se solo la volontà malefica del sovrano fosse causa della loro sorte, alla quale essi non contribuiscono in alcun modo.
La Boétie, al contrario, afferma che, accanto al naturale e innato desiderio di libertà, vi sia negli uomini anche un oscuro desiderio di servire:
«è davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio. […] Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né parenti, né mogli né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma di uno solo […] Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? […] Dunque quale vizio mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?».
Il carattere volontario della servitù è dimostrato dal fatto che basterebbe desiderare essere liberi per diventarlo:
«questo tiranno solo, non c’è bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo, è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù. Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla. Non occorre che il paese si preoccupi di fare niente per sé, a patto di non fare niente contro di sé. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano o piuttosto si fanno tiranneggiare, poiché smettendo di servire ne sarebbero liberi. È il popolo che si assoggetta, che si taglia la gola e potendo scegliere fra l’essere servo e l’essere libero, lascia la libertà e prende il giogo; che acconsente al suo male, o piuttosto lo persegue. […] se per avere la libertà basta desiderarla, se c’è solo bisogno di un semplice atto di volontà, quale popolo al mondo potrebbe valutarla ancora troppo cara, potendola ottenere solo con un desiderio […] ?».
Il popolo è dunque complice del proprio asservimento:
«Colui che tanto vi domina non ha che due occhi, due mani, un corpo, non ha niente di più dell’uomo meno importante dell’immenso ed infinito numero delle nostre città, se non la superiorità che gli attribuite per distruggervi. Da dove ha preso tanti occhi, con i quali vi spia, se non glieli offrite voi? Come può avere tante mani per colpirvi, se non le prende da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, da dove li ha presi, se non da voi? Come fa ad avere tanto potere su di voi, se non tramite voi stessi? Come oserebbe aggredirvi, se non avesse la vostra complicità? Cosa potrebbe farvi se non foste i ricettatori del ladrone che vi saccheggia, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi?».
Come è possibile, quindi, si chiede La Boétie, che gli uomini accettino di sottomettersi al tiranno?
Innanzi tutto questa domanda porta La Boétie ad allargare il concetto di tirannia. Tiranno non è semplicemente l’Uno della monarchia assoluta, ma qualsiasi corpo politico che elimini il carattere pubblico del potere per utilizzarlo in modo da imporre agli altri la propria volontà ed i propri interessi; indipendentemente dal modo in cui questo potere è ottenuto, fosse anche attraverso il suffragio popolare.
«Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. Chi lo ha acquisito per diritto di guerra si comporta in modo tale da far capire che si trova, diciamo così, in terra di conquista. Coloro che nascono sovrani non sono di solito molto migliori, anzi essendo nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano con il latte la natura del tiranno, e considerano i popoli che sono loro sottomessi, come servi ereditari; e, secondo la loro indole di avari o prodighi, come sono, considerano il regno come loro proprietà. Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo […] è strano di quanto superino gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino di crudeltà, non trovando altri mezzi per garantire la nuova tirannia che estendere la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà, che, per quanto vivo, gliene si possa far perdere il ricordo. A dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche differenza, ma non ne vedo affatto una possibilità di scelta; e per quanto i metodi per arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare è quasi sempre simile».
Tornando alla domanda di cui sopra, La Boétie elenca i mezzi attraverso i quali i sovrani suscitano la volontà di servire, per ottenere il consenso necessario ad ogni regime, ancorché tirannico.
Il primo di questi mezzi è l’abitudine:
«certamente tutti gli uomini, finché conservano qualcosa di umano, se si lasciano assoggettare, o vi sono costretti o sono ingannati […] È incredibile come il popolo, appena è assoggettato, cade rapidamente in un oblio così profondo della libertà, che non gli è possibile risvegliarsi per riottenerla, ma serve così sinceramente e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che non abbia perduto la libertà, ma guadagnato la sua servitù. È vero che, all’inizio, si serve costretti e vinti dalla forza, ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno volentieri quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così che gli uomini che nascono sotto il giogo, e poi allevati ed educati nella servitù, senza guardare più avanti, si accontentano di vivere come sono nati, e non pensano affatto ad avere altro bene né altro diritto, se non quello che hanno ricevuto, e prendono per naturale lo stato della loro nascita. Non si può dire che la natura non abbia un ruolo importante nel condizionare la nostra indole in un senso o nell’altro; ma bisogna altresì confessare che ha su di noi meno potere della consuetudine: infatti l’indole naturale, per quanto sia buona, si perde se non è curata; e l’educazione ci plasma sempre alla sua maniera, comunque sia, malgrado l’indole. I semi del bene che la natura mette in noi sono così piccoli e fragili da non poter sopportare il minimo impatto di un’educazione contraria; si conservano con più difficoltà di quanto si rovinino, si disfino e si riducano a niente». Benché dunque l’indole umana sia libera, l’abitudine ha sugli individui effetti maggiori che non la loro indole, e così essi accettano la servitù se sono sempre stati educati come schiavi: «La natura dell’uomo è proprio di essere libero e di volerlo essere, ma la sua indole è tale che naturalmente conserva l’inclinazione che gli dà l’educazione».
Il secondo mezzo, essendo il primo alla lunga insufficiente, consiste nell’abbrutimento del popolo. La servitù di per sé porta a un infiacchimento dell’individuo, ed i tiranni, accorgendosene, operano per incrementare tale effetto. Innanzi tutto ostacolando la diffusione della cultura, giacché i libri e l’istruzione contribuiscono più di ogni altra cosa, secondo La Boétie, a diffondere la consapevolezza di sé e l’odio per la servitù. Ma soprattutto questo risultato è ottenuto attraverso una strategia da tempo nota come panem et circences:
«i teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i quadri ed altre simili distrazioni poco serie, erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia. Questi erano i metodi, le pratiche, gli adescamenti che utilizzavano gli antichi tiranni per addormentare i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli, istupiditi, trovando belli quei passatempi, divertiti da un piacere vano, che passava loro davanti agli occhi si abituavano a servire più scioccamente dei bambini che vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati, imparano a leggere».
Quanto al panem:
«I tiranni elargivano un quarto di grano, un mezzo litro di vino ed un sesterzio; e allora faceva pietà sentir gridare: “Viva il re!” Gli zoticoni non si accorgevano che non facevano altro che recuperare una parte del loro, e che quello che recuperavano, il tiranno non avrebbe potuto dargliela, se prima non l’avesse presa a loro stessi».
Un altro strumento è rappresentato dall’atomismo sociale: il potere tirannico fa di tutto per impedire qualunque forma di aggregazione e comunicazione sociale tra coloro che hanno conservato la passione per la libertà. Le uniche associazioni consentite sono quelle che non contestano la tirannia, o che la sostengono.
Gli ultimi due strumenti indicati da La Boétie sono i più importanti. In primo luogo, egli considera tutti i meccanismi volti a creare il massimo consenso possibile intorno alla persona del tiranno.
Tra questi meccanismi, La Boétie considera la pratica di presentarsi al pubblico «il più tardi possibile, per insinuare nei popoli il dubbio che fossero in qualche cosa più che uomini». In secondo luogo la «favola» dell’origine divina del re, dalla quale deriva la credenza nelle sue capacità taumaturgiche.
Nella misura in cui questa credenza viene meno, diviene importante l’altro meccanismo considerato da La Boétie: quello di presentarsi, da parte del tiranno come rappresentante del popolo e fautore dell’interesse generale:
«gli imperatori romani non dimenticarono neanche di assumere di solito il titolo di tribuno del popolo, sia perché quella era ritenuta sacra, sia perché era stata istituita per la difesa e la protezione del popolo, e sotto la tutela dello Stato. Così si garantivano che il popolo si fidasse di più di loro, come se dovesse sentirne il nome e non invece gli effetti. Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso discorso sul bene pubblico e sull’utilità comune».
Il tiranno arriva così a rappresentare l’unità del popolo, e questo si lascia affascinare dal «nome di Uno», appunto perché simboleggia il popolo stesso riunificato sotto il fantasma della propria unità e finalmente liberato dalla propria pluralità.
Infine La Boétie considera lo strumento che egli stesso definisce il fondamento della tirannia. Si tratta della sua stratificazione gerarchica:
«non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno, che si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui […]. Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e fanno con questi seicento quello che fanno col tiranno. Questi seicento ne tengono seimila sotto di loro, che hanno elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle province, o la gestione del denaro pubblico […].Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà che, non seimila, ma centomila, milioni, si tengono legati al tiranno con quella corda […]. Insomma che ci si arrivi attraverso favori o sotto favori, guadagni e ritorni che si hanno sotto i tiranni, si trovano alla fina quasi tante persone per cui la tirannia sembra redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita».
La Boétie è dunque ben lungi dall’attribuire il desiderio di servire ad un presunto carattere irrazionale delle folle, od alla stupidità popolare. Al contrario, il fondamento della tirannia è assolutamente razionale, essendo dato da un meccanismo che diffonde gerarchicamente il potere e, per suo tramite, la ricchezza, dando ad un certo numero di individui buone ragioni per obbedire.
Il secondo pilastro su cui si regge il Discorso è dato dalla contrapposizione tra la servitù e lo stato di libertà. Quest’ultimo non solo è storicamente anteriore al primo, che sarebbe frutto di un Malencontre, ma è anche naturale:
«credo che sia fuori dubbio che, se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, seguaci della ragione e servi di nessuno. […] di sicuro, se mai c’è qualcosa di chiaro ed evidente nella natura, che è impossibile non vedere, è che la natura, ministro di Dio, la governatrice degli uomini, ci ha fatti tutti della stessa forma, e come sembra, allo stesso stampo, perché possiamo riconoscerci reciprocamente come compagni o meglio come fratelli. E se, dividendo i doni che ci faceva, ha avvantaggiato nel corpo o nella mente gli uni più degli altri, non ha inteso per questo metterci al mondo come in recinto da combattimento, e non ha mandato quaggiù né i più forti né i più furbi come briganti armati in una foresta, per tiranneggiare i più deboli. Ma, piuttosto, bisogna credere che la natura dando di più agli uni e di meno agli altri, abbia voluto lasciar spazio all’affetto, perché avesse dove esprimersi, avendo gli uni potere di dare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. […] non bisogna dubitare che siamo naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni, e a nessuno può venire in mente che la natura abbia messo qualcuno in servitù, dopo averci messo tutti insieme. […] Se ne deve concludere che la libertà è un dato naturale, e per ciò stesso, a mio avviso, che non solo siamo nati in possesso della nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla».
Nel difendere questa concezione naturale della libertà, La Boétie delinea una società fondata sulla libertà e sull’uguaglianza, contrapposta alla dominazione, e realizzata attraverso una relazione sociale antiteca a questa: l’amicizia. I disonesti non sono amici ma complici, non si amano ma si temono. Al contrario, l’amicizia «ha il suo vero terreno di coltura nell’eguaglianza, che non vuole mai contravvenire alla regola, anzi è sempre uguale». Al di là della concezione naturalistica della libertà, La Boétie basa il suo ideale di società su di una relazione istituita di amicizia che consenta il massimo sviluppo possibile di libertà ed uguaglianza.
In conclusione, il Discorso, benché scritto 450 anni fa, conserva ancora oggi un carattere fortemente attuale. Oltre che per i suoi aspetti teorici, la forza di quest’opera consiste nell’affermare contro ogni tirannia il diritto alla disobbedienza civile: «siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi».
Facendo attenzione che ciò non sia per alcuni il pretesto per instaurare una nuova tirannia, diversa nella forma ma identica nella sostanza, di modo che “tutto cambi affinché nulla cambi”. A costoro è giusto che non arrida il successo in quanto «non bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere imprese malvagie ».
Questo è il messaggio che La Boétie ci manda dal suo testo, in nome della libertà, contro ogni tirannia.
LUTERO e ERASMO
Le figure di Erasmo e Lutero sono legate a quello che fu probabilmente il dibattito teologico più importante della storia . Martin Lutero , figlio di un contadino che aveva fatto qualche soldo col duro lavoro del minatore , era nato nel 1483 ad Eisleben , nel distretto sassone della Turingia ; si era diplomato in lettere e frequentava i corsi di diritto dell’ Università di Erfurt , allorchè un’ improvvisa decisione , che alcuni studiosi , sulla base delle stesse dichiarazioni di Lutero , spiegano con la violenta scossa psicologica , provocata dal pericolo corso per la caduta di un fulmine durante una passeggiata campestre , lo portò nel convento degli eremiti agostiniani di Erfurt . Amato e protetto dal vicario generale degli agostiniani tedeschi , Giovanni Staupitz , il nuovo monaco non fu per essi un confratello agevole : dall’ atavico fondo contadino frate Martino ricavava un continuo , ossessionante timore del diavolo e così , il suo tormentato genio religioso si concentrava su una tensione spasmodica nell’ unico , fondamentale problema della salvazione personale . Arrovellandosi su tale problema , Lutero finì col risalire al pensiero di Agostino e , grazie al suo fortissimo sentimento della peccaminosità dell’ uomo , si fermò sull’ Agostino dell’ ultimo periodo , a quello dell’ aspra polemica anti-pelagiana , tutta accentrata intorno ai grandi temi del peccato , della grazia e della predestinazione . In questo periodo ( 1510-1511 ) cade anche un suo viaggio a Roma , dove fu mandato per patrocinare alcuni interessi del suo convento ; in quel soggiorno di 4 settimane nella sede del papato , Lutero fu colpito dalla scandalosa ignoranza e superstizione del clero romano e dalla mondanità dei cardinali . Bisogna però dire che la situazione stessa della Germania di Lutero erano piuttosto favorevoli per far scaturire una riforma : la Germania del Cinquecento era una realtà frammentaria , in cui i grandi principati regionali cercavano di evolvere verso stati nazionali ; vi erano uno sterminio di ” feudi ” indipendenti e la Chiesa si affermava sotto forma di piccoli principati ecclesiastici : le grandi famiglie , quando volevano sistemare i loro figli , li facevano nominare vescovi di una città , sborsando grandi quantità di denaro . Quella di Lutero era una religiosità molto cupa e drammatica , dove , sulla scia di Agostino , fortissimo era il senso del peccato e il suo viaggio a Roma non gli recò alcun conforto . Divenuto dottore in teologia e iniziato l’ insegnamento nel 1513 , trovò la soluzione al problema che lo assillava mentre commentava per gli studenti le Lettere di san Paolo , e soprattutto quella ai Romani , dove proprio nel primo capitolo si poteva leggere questa frase : ” il giusto vivrà della fede ” . Da allora il senso del cristianesimo mutò radicalmente ai suoi occhi : inutile era lo sforzo per ottenere la propria salvezza attraverso le buone opere , attraverso l’ impossibile adempimento della legge di Dio , perchè troppo radicale é la malvagità umana . Proprio la dottrina della giustificazione costituisce l’ elemento centrale della teologia luterana ; essa risponde alla domanda ” che cosa deve fare il singolo individuo per essere salvato dalla perdizione ? ” ovvero ” che cosa deve fare per essere giusto di fronte a Dio ? Al tempo di Lutero non esisteva propriamente una dottrina ufficiale sulla giustificazione , approvata cioè da un canone di un concilio ecumenico ; la risposta che dà Lutero alla domanda é essenzialmente questa : ” l’ uomo non può fare nulla per salvarsi , perchè tutto ciò che fa é dettato dalla sua malvagità ” . Il motivo stesso per cui il cristiano si comporta bene e compie opere buone é peccaminoso : infatti lo fa per paura dell’ Inferno , non per vero amore di Dio ; prendiamo ad esempio un goloso che cerchi di trattenersi nel mangiare : egli non lo fa per amore di Dio , ma per paura di essere dannato . Più i desideri sono repressi e più si fanno sentire : seguire le regole cristiane a suo avviso non é sufficiente per la salvezza dell’ anima : sente l’ esigenza di avere regole sempre più rigide . Le opere sono totalmente inutili per la salvezza e sono una manifestazione della malvagità umana ; la salvezza la si può ottenere , secondo Lutero , ” sola fide ” , solo tramite la fede , sulla scia di quanto aveva detto san Paolo : le opere non potranno mai dare la salvezza all’ uomo . l’ uomo può solo il male e quindi l’ unico mezzo a sua disposizione per salvarsi é la fede ; prima del peccato originale l’ uomo aveva il libero arbitrio , ossia aveva la possibilità di scegliere tra bene e male : la ragione umana , secondo Lutero , prima del peccato originale , poteva arrivare a verità in non-contrapposizione con la fede e con la verità divina , in quanto il logos umano altro non é che un barlume del Logos divino , ossia della seconda persona della Trinità , come aveva detto Agostino , ma con il peccato originale la ragione umana si é corrotta e non può far altro che essere serva del male : l’ arbitrio dell’ uomo é secondo Lutero servo del male e non potrà mai scegliere il bene . Seguendo la convinzione della corruzione della ragione umana , Lutero arriverà a definire Aristotele , che rappresentava la ragione umana per eccellenza , ” caprone puzzolente ” . Una posizione ufficiale della Chiesa non c’ era , tuttavia vi era già stata una polemica a riguardo mossa da Agostino contro Pelagio : Pelagio finiva per ammettere che le forze dell’ uomo sono di per sè insufficienti per la salvezza e se Dio fosse solo giusto non potrebbe far altro che condannare l’ uomo , ma dato che é anche misericordioso , Dio concede una sorta di ” bonus ” , di premio all’ uomo regalandogli la salvezza . Secondo Agostino , Pelagio sbagliava clamorosamente perchè pareva ammettere che Dio fosse obbligato a dare la grazia all’ uomo , che non se l’ era meritata : é come se l’ uomo fosse artefice della propria salvezza e di conseguenza il cristianesimo diventa inutile . Agostino , pur avendo più volte sostenuto il libero arbitrio , arrivò a sostenere la predestinazione , che viene ripresa in toto da Lutero : dopo il peccato originale l’ uomo é diventato una ” massa damnationis ” e non può più compiere il bene e quindi salvarsi ; l’ unica via di salvezza rimastagli é la fede in Dio , la fede nel fatto di non poter compiere opere buone e la fede nel fatto che Dio non terrà in conto il suo peccato originale e lo salverà . Non a caso Cristo é l’ ” agnello di Dio , che toglie i peccati dal mondo ” prendendoli sulle sue spalle e sacrificandosi . La rottura definitiva con la Chiesa avverrà a causa dello scandalo delle indulgene : Papa Leone X , per poter ricostruire la basilica di S. Pietro , aveva emanato una bolla che concedeva ai peccatori che versassero una certa somma , la remissione delle pene : i peccati degli uomini sarebbero stati dunque trasformati in marmi , colonne , lusso sacro . In Germania , poi , l’ iniziativa papale si era trasformata in una vera e propria operazione bancario – finanziaria , caratterizzata dalla frase ” quando la moneta suona nella cassetta , l’ anima salta in Paradiso ” ; la Chiesa , tuttavia , era alquanto ambigua a riguardo delle indulgenze perchè non spiegava se fosse perdono degli sbagli o condono delle pene . Il 31 ottobre 1517 , Lutero affiggeva alla porta della cattedrale di Wittenberg 95 tesi che , denunziando lo scandalo delle indulgenze e gli abusi pratici del tempo , investivano l’ essenza teologica del peccato , della penitenza , dell’ indulgenza . La remissione dei peccati a pagamento scatenò davvero l’ ira di Lutero ; curiosamente , però , non fu tanto l’ estrema corruzione della Chiesa la causa della sua ira , quanto piuttosto il fatto che secondo la Chiesa Cristo e i Santi avessero accumulato una quantità immensa di meriti , che non solo bastarono loro per accedere al Paradiso , ma furono pure d’ avanzo : la Chiesa immaginava quindi una specie di ” banca ” dei meriti accumulati da Cristo e dai Santi , di cui la Chiesa poteva disporre a suo piacimento . Per Lutero l’ uomo non può avere meriti , e quindi i santi sono santi perchè hanno avuto fede e non perchè hanno avuto meriti . Il gesto del 1517 , che noi siamo portati a considerare come audace , non aveva in realtà nulla di rivoluzionario o insolito : era nella tradizione accademica del tempo ( era da poco stata inventata la tipografia ) l’ affiggere simili tesi e invitare alla pubblica discussione ; ma il sentimento della Germania , che vedeva in Lutero un eroe nazionale , era così eccitato e l’ ostilità contro lo sfruttamento della Chiesa romano era così viva , che attorno a lui sorse immediatamente una opinione pubblica favorevole . La Chiesa romana non rimase con le mani in mano e nel 1520 fu lanciata la bolla ” Exsurge domine ” minacciante Lutero di scomunica se non avesse ritirato entro breve termine le sue affermazioni ; ma nel dicembre di quell’ anno fu pubblicamente bruciata dal riformatore , che rompe così ogni rapporto con las Chiesa cattolica . L’ anima della Germania pulsava ormai all’ unisono con lui e il legato pontificio era costretto a scrivere a Roma : ” i nove decimi della Germania gridano : viva Lutero e , pur non seguendolo , i rimanenti fanno coro per gridare : a morte Roma ” . Ma quali erano queste tesi così scandalose e innovatrici di Lutero ? Egli si scagliò contro la figura del papa , che a suo avviso non aveva alcun diritto di sostituirsi al giudizio di Dio , e tuonò anche contro i vescovi e all’ apparato ecclesiastico che faceva da intermediario tra Dio e l’ uomo : perchè al cristiano va solo dato il pane , mentre al prete anche il vino ?Il Medioevo era ormai finito e si stava ormai diffondendo la scrittura , quindi non vi era più alcun bisogno di qualcuno che leggesse per il popolo analfabeta il testo sacro : ciascuno , secondo Lutero , può leggere da solo il testo sacro , senza che nessuno glielo spieghi perchè esso si auto-esplica perchè é come se fosse presente lo Spirito Santo ad aiutare il credente nella comprensione della Bibbia : questo farà sì che tutto il mondo che aderirà alla riforma luterana sarà più alfabetizzato rispetto a quello cristiano , che non doveva sforzarsi ad imparare a leggere per conoscere i testi sacri . Lutero sovvertì radicalmente anche la concezione dei sacramenti , riassumibile in questi termini : i sacramenti non sono compiuti mentre vengono impartiti , ma in quanto si presta fede ad essi . La continua moltiplicazione le ha portati fino a sette , ma se guardiamo bene si riducono ad uno solo : l’ accettazione attraverso la fede delle promesse di Dio . Senza il primato della fede , i sacramenti si riducono a ” sacrileghe superstizioni di opere ” . Lutero , pertanto , conserva solo quei sacramenti nei quali é evidente che siamo noi ad accogliere ciò che Dio ci offre , mentre verranno aboliti o riformati quelli dove noi crediamo di compiere un’ opera buona perchè venga accettata da Dio . Lutero respingeva dunque come ritualistici e insignificanti l’ estrema unzione e la cresima . Ma anche al matrimonio toccava la stessa sorte : cosa c’ entra prendere moglie con la parola della divina promessa ? Il matrimonio é una cerimonia piena di sacralità presso ogni popolo , ma non per questo diventa sacramento . La stessa critica radicale viene mossa nei confronti dell’ ordinamento dei sacerdoti : tutti gli uomini sono consacrati sacerdoti per il solo fatto di essere battezzati . La distinzione tra clero e laici non ha nessun fondamento nel nucleo della fede cristiana e i preti possono essere solo dei ministri , dei funzionari delle comunità di fedeli , eletti con il compito di insegnare e predicare . Ma nessuno può intromettersi nel mio rapporto con la parola divina , dice Lutero : perciò i due principi luterani , il sacerdozio universale e il libero esame delle Scritture , sono strettamente connessi tra loro . Ma da tutto ciò deriva anche che per Lutero gli ordini monastici vanno ugualmente aboliti e così pure qualunque tipo di voto , come i pellegrinaggi . Il primato della fede conduce Lutero a diffidare di tutto ciò che tende a realizzare il cristianesimo in una forma di vita eccezionale , si tratti anche del più puro ascetismo e misticismo monacale . Le opere dei frati e dei preti non differiscono in niente ” dalle fatiche del contadino che lavora i campi o della donna che attende alle faccende di casa ” . Anzi , il monachesimo che invita alla perversione dell’ ozio e dell’ accattonaggio va del tutto contro l’ esaltazione della vita laboriosa che Lutero veniva scoprendo : l’ uomo deve sposarsi , avere figli , lavorare , produrre , adempiere al proprio ufficio , qualunque esso sia . E perciò il divieto di matrimonio dei sacerdoti dovrà essere abolito come contro natura . I veri sacramenti sono altri ; l’ eucarestia prima di tutto : Lutero accettava la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino , ma condannava come assurde le spiegazioni filosofiche fondate sulla dottrina di un pagano come Aristotele e perciò la tesi della transustanziazione veniva fatta cadere e lo stesso vocabolo era giudicato ” mostruoso e frutto di fantasia ” . Il significato della messa veniva a cambiare sostanzialmente : la messa non é un sacrificio , non é un’ offerta a Dio , le preghiere sono solo un accessorio ; essa é solo la fede nella promessa e il resto é stimolo all’ empietà . Quanto alla confessione , Lutero afferma che osservare la folla dei propri peccati é deprimente e non é in grado di portare pentimento : ciò che conta é solo la fede nella promessa del perdono . Compito del confessore non é di cancellare i peccati , ma di dare conforto . Il battesimo , infine , non é il rito che lava il peccato , ma il simbolo della morte e della resurrezione . Il messaggio rivoltoso di Lutero tende ad assumere istanze politiche : egli si rende conto che da solo non può farcela e deve trovare qualcuno che appoggi le sue tesi : i suoi messaggi vennero visti come rivoluzionari sul piano politico , sebbene non fosse affatto sua intenzione scatenare una rivolta politica . Lutero potè scegliere se cercare l’ appoggio dei re e dei principi tedeschi , che volevano anch’ essi allontanarsi dalla Chiesa romana non tanto per motivi religiosi , quanto piuttosto per diventare politicamente indipendenti e magari formare uno stato : liberarsi della Chiesa romana significava anche impadronirsi di tutti i suoi beni in Germania : conventi , chiese e altro ; lutero poteva poi cercare l’ appoggio dei cavalieri ( Ritten ) , ossia la piccola nobiltà propensa per un ritorno al feudalesimo e infine i contadini , che vedevano nelle teorie di Lutero ( e soprattutto nel sacerdozio universale e nel libero esame ) una forma di uguaglianza ; a loro avviso dall’ uguaglianza spirituale si sarebbe arrivati all’ uguaglianza sociale ed economica ; tra i contadini vi era poi una fascia più moderna che aspirava alla proprietà privata . Lutero alla fine decise di schierarsi con i principi e con i re , che in fondo erano quelli che guardavano avanti verso lo stato moderno e avevano più potere , e arrivò a condannare i cavalieri e i contadini . Lutero non era un politico , ma dovette tuttavia cercare nella politica qualche forte alleato che lo appoggiasse : non volle mai dare al suo messaggio valenza politica , ma solo spirituale . In ” La libertà del cristiano ” Lutero sostiene che il cristiano é libero nell’ interiorità ma schiavo esteriormente ; con il suo messaggio Lutero é convinto di aver liberato il cristiano , ma solo nella sua interiorità : l’ umanità é una massa di dannati dove il male impera : é una concezione alquanto pessimistica che vedeva la presenza del diavolo nel mondo . Per Lutero il potere politico deriva direttamente da Dio , pur essendo consapevole che non sempre i principi si comportano rettamente : bisogna quindi punire chi va contro il potere politico , che é voluto da Dio : i contadini , quindi , che si ribellavano , andavano secondo Lutero soppressi ; si schierò contro di loro in maniera radicale invitando i principi a massacrarli senza pietà . Complessivamente , si può dire che senz’ altro Lutero risente degli influssi della cultura rinascimentale , pur essendo la Germania una realtà piuttosto periferica : l’ idea di riformare la Chiesa e la concezione del cristianesimo tornando alle origini e depurandolo da tutto ciò che gli era stato aggiunto nei secoli é di per sè moderna , rinascimentale ; moderna é anche l’ idea di prediligere l’ interiorità rispetto all’ esteriorità .
ERASMO
ERASMOErasmo nacque nella notte dal 27 al 28 ottobre 1469 a Rotterdam . Sua madre , Margherita , era figlia di un medico di Zevenbergen , vicino a Breda , a 40 km circa da Rotterdam . Il padre , Gerardo , era di Gouda , piccola città nei pressi di Rotterdam , ed era un prete vincolato dal voto di celibato : la nascita di Erasmo é pertanto illegittima . Erasmo frequentò le scuola a Gouda , poi fu corista ad Utrecht e infine il padre lo mandò alla famosa scuola del capitolo di San Lebuino a Deventer . All’ incirca quando nasceva Lutero , ad Erasmo moriva la madre di peste e poco dopo morì di peste anche il padre . La morte dei suoi genitori lascerà in Erasmo un orrore per le malattie in genere e la peste in particolare , orrore testimoniatoci da lui stesso nei suoi scritti , dove racconta di essersi più volte spostato verso luoghi dove la peste non era arrivata . A 18 anni visita il convento degli agostiniani a Steyn dove , cedendo anche lui come già aveva fatto il fratello , alle interessate insistenze dei tutori che non vedevano l’ ora di liberarsi di loro per mettere le mani con più facilità sulle sostanze del padre , nel 1488 pronuncia i voti solenni ed il 25 aprile 1492 é ordinato sacerdote . Nel 1493 entra al servizio di Enrico di Bergen , vescovo di Cambrai e , al suo seguito , soggiorna a Bergen a Bruxelles ed a Mechelen , finchè riesce ad ottenere il permesso di andare a studiare all’ Università di Parigi . A Parigi fa importanti conoscenze e nel 1496 torna a Cambrai . Mentre Lutero sarà attratto dalla mistica cristiana e da Agostino , Erasmo sarà invece interessato al Valla e agli studi umanistici . Passerà gran parte della sua vita in terra straniera : a Venezia , in Inghilterra , in Olanda , a Roma . L’ impressione che farà Roma su di lui é fortissima , ma antitetica rispetto a quella che fa su Lutero : Erasmo scopre infatti soprattutto la Roma classica , Lutero quella papale , corrotta come non mai . Sul piano culturale , Erasmo esprime la cultura di quell’ alta società del suo tempo che ha i mezzi tecnici ( denaro e tipografia ) per dar corpo al suo sogno umanista : diffondere le scritture tra il popolo . Nell’ anno 1516 , durante l’ estate e l’ autunno , Erasmo fu molto occupato . Era appena stato nominato consigliere di Carlo re di Spagna ( e futuro imperatore ) e , in ringraziamento della nomina , compose per lui l’ ” Institutio principis christiani ” . Quest’ opera non fu il solo lavoro al quale Erasmo si dedicò durante l’ estate : in quei mesi , infatti , egli attese alla pubblicazione del suo Nuovo Testamento greco-latino , edizione che ebbe risonanza davvero mondiale ; Lutero invece tradusse in tedesco la Bibbia e questo fatto ebbe valenze nazionali in Germania . Nello stesso tempo parecchi impegni di lavoro lo costrinsero a spostarsi di continuo e non bisogna quindi stupirsi se gli passò inosservata una lettera che Lutero gli aveva fatto recapitare : in essa vi erano alcune critiche alla sua traduzione latina del Nuovo Testamento ; Erasmo la riceve il 19 ottobre : Lutero muove critiche all’ interpretazione erasmiana del pensiero di san Paolo ( tanto caro a Lutero ) , e cioè proprio la questione di fondo che 8 anni dopo avrebbe costituito il fulcro della disputa sul libero o servo arbitrio . Sostanzialmente Lutero accusava Erasmo di non aver capito la teologia paolina , specie per quel che riguardava la giustificazione per fede . Erasmo non rispose , ma é molto probabile che non avvertisse la profondità e la serietà di fondo delle obiezioni luterane : preso dal turbine della sua attività in quell’ operosa fine d’ anno le scambiò , probabilmente , per sottigliezze letterarie . Perciò Lutero poteva scrivere a Giovanni Lang ( predicatore ad Erfurt e traduttore della Bibbia ) che le cose umane importano ad Erasmo assai più delle divine . In quello stesso anno , il 31 ottobre , Lutero affigge le 95 tesi alla porta della cattedrale , ed Erasmo , una volta conosciutele , si trovò d’ accordo con Lutero , ma reputò che non fosse opportuno di parlare di quei ” bubboni ” e temette per la mancanza di moderazione da parte del frate rivoltoso . Tuttavia nella storia dei rapporti Erasmo-Lutero c’é una prima fase nella quale il riformatore ricerca l’ amicizia di Erasmo e spera , forse , di indurlo a schierarsi dalla sua parte . Il 28 marzo 1519 Lutero scrive per la prima volta direttamente ad Erasmo invitandolo ad essere ” attore ” nel grande dramma che sta per iniziare e lo chiama ” nostro ornamento e nostra speranza ” , riconscendo in lui la paternità della Riforma , almeno per quel che riguarda sia la lotto contro le superstizioni sia il promuovimento degli studi filologici ed esegetici . La risposta di Erasmo é un omaggio alla non violenza . In realtà la posizione di Erasmo nel non voler essere ” attore ” di un violento rivolgimento di cose finì , di fatto , per essere non quella di ” spettatore ” del dramma ( come pure proclamava di voler essere ) , ma di fautore del papato . ” la vera natura della parola di Dio é di suscitare continuamente una rivoluzione nel mondo … voler soffocare la rivoluzione é voler cacciare dal mondo la parola di Dio ” dice Lutero . Tuttavia Erasmo , se é vero che non vuole essere catalogato come luterano , é altrettanto vero che non vuole neppure essere definito anti-luterano : egli é pienamente consapevole della corruzione della Chiesa . Nel frattempo Lutero viene scomunicato e la Chiesa cerca di farlo ” sparire ” , ma egli , con l’ aiuto di Federico di Sassonia , riesce a non farsi prendere : Erasmo arriverà perfino a scrivere a Leone X in difesa di Lutero : conduce una strenua battaglia in nome della pace religiosa e della tolleranza . Ma se Erasmo non aderì al Luteranesimo non fu certo solo perchè vedeva nel frate rivoltoso una figura poco moderata : per Erasmo , a differenza di Lutero , il centro del cristianesimo é la carità ; va poi detto che Erasmo era troppop razionalista per concepire la ragione come strumento della fede , come arma di lotta e non abbastanza razionalista per condurre fino in fondo quell’ esame critico della ragione che farà di Cartesio il laicizzatore del libero esame : in fin dei conti Erasmo rimane un ” sorpassato ” a cui manca un temperamento : troppo tiepido per la fede , fu anche troppo tiepido per la ragione e rimase un compiaciuto degli studi letterari quando già il compiacersi di questi studi costituiva un estetismo e non più un mezzo di liberazione e di trasformazione della realtà .
IL LIBERO E IL SERVO ARBITRIO
Tra i tanti viaggi compiuti da Erasmo c’é anche quello a Basilea , dove soggiornerà per ben 8 anni ( dal 1521 al 1529 ) : in questo rifugio neutrale Erasmo si decide a scrivere contro Lutero , cedendo anche , e forse soprattutto , alle insistenze dei papi Leone X e Adriano VI . Anche il nuovo papa Clemente VII lo incoraggia a scrivere per la fede : la lettera é datata 3 aprile 1524 ed il papa non sa ancora che già dalla fine del 1523 Erasmo ha mandato ad Enrico VIII d’ Inghilterra il brogliaccio di un’ opera sul libero arbitrio . Chi , invece , sospetta qualcosa é Lutero che il 15 aprile scrive ad Erasmo invitandolo a rimanere quel che é sempre stato , uno ” spettatore ” neutrale . Ma ormai Erasmo si é deciso , ma perchè ? Probabilmente perchè ” si illuse che fosse ancora possibile salvare la pace con la moderazione , la saggezza e la benevolenza , pur essendo intimamente convinto che nessuna delle due opinioni in contrasto poteva esprimere compiutamente la verità e che l’ odio restringe la visuale e acceca gli animi ” . Nello scegliere l’ argomento per la sua disputa con Lutero Erasmo vide giusto : la questione del libero o del servo arbitrio é fondamentale per la causa della riforma . Di ciò Lutero stesso gli dà atto dicendo : ” qui é il perno della nostra discussione ; qui si trova il nodo del problema : ciò che noi cerchiamo di sapere é questo : cosa può il libero arbitrio ? Che cosa subisce ? Quali sono i suoi rapporti con la grazia divina ? ” . Il ” De libero arbitrio ” comparve a Basilea tra il 2 e il 5 settembre 1524 . Giunsero subito ad Erasmo le congratulazioni di Enrico VIII , del Vives , di Giorgio di Sassonia , del Gattinara e di molti altri : tuttavia , l’ impressione che si ha leggendo quest’ opera é piuttosto deludente . Erasmo ha colto nel segno indicando nel libero arbitrio ( o nel servo arbitrio ) il fulcro del problema , la pietra angolare sulla quale si innalza l’ edificio dell’ Umanesimo ( o della Riforma ) , ma sembra non esservisi impegnato molto . O , almeno , scrive con pacatezza , senza calore , con ordine , ma senza entusiasmo . La sua padronanza di sè sembra più una difesa d’ ufficio , compiuta per dovere , che un’ arringa appassionata compiuta per convinzione . Non che Erasmo non fosse assolutamente convinto della verità del libero arbitrio : sembra piuttosto non convinto della necessità di dover perdere tempo , sottraendolo ai suoi studi , per portare simili questioni in piazza , costrettovi da Lutero che ha fatto della religione una questione , appunto , di piazza . Probabilmente non era affar suo trattare d’ un simile argomento . Il problema poteva e doveva essere affrontato in sede filosofica , con rigore e penetrazione di logica stringente ; invece l’ opera di Erasmo non é che un’ elencazione di passi con i quali si richiama all’ autorità della Scrittura , della Chiesa e della tradizione anche se poi si cerca di avviare più che una discussione , una distinzione sui poteri della libertà umana . Ma la stessa autorità della Scrittura é richiamata senza un supporto od una impalcatura teologica e , per ciò stesso , perde molto del suo valore . E’ stato giustamente osservato che , anche da parte cattolica , si é riconosciuto che la posizione erasmiana sul problema del libero arbitrio é più eretica della stessa posizione luterana . Il problema del libero arbitrio é un problema che si può affrontare non già richiamandoci all’ autorità della Chiesa o dei concili , ma all’ autorità della ragione . Senonchè Erasmo chiama in causa l’ autorità della ragione solo in nome del buon senso comune . L’ argomento avrebbe richiesto una tempra di filosofo , ma purtroppo non ci fu che un letterato a prenderla in mano . La reazione di Lutero non si fece attendere . Già il primo novembre scrive a Spalatino ( solerte cancelliere di Federico di Sassonia ) dicendosi disgustato del ” De libero arbitrio ” ed il 12 dello stesso mese preannunzia al suo amico e collaboratore Nicolas Hausmann che risponderà ad Erasmo . Tuttavia non può rispondere subito : i primi mesi del 1525 lo vedono impegnato nella polemica contro Carlostadio , poi deve occuparsi delle conseguenze sulla vita della chiesa della fine della guerra dei contadini ed infine il 23 giugno si sposa con Katharina von Bora . E’ solo nell’ autunno del 1525 che può mettersi al lavoro : una sua lettera all’ amico Hausmann ed una a Spalatino ci informano che é impegnato a scrivere contro Erasmo : siamo nel fine settembre 1525 . Il 31 ottobre un’ altra sua lettera a Spalatino annunzia che ben presto il suo lavoro contro Erasmo sarà finito . Il ” De servo arbitrio ” appare a Wittenberg , infatti , a fine dicembre . Lutero mise tutto se stesso nella realizzazione di quest’ opera che , fra tutte , gli fu sempre particolarmente cara . Il suo compito fu agevolato dalla stessa mancanza di struttura filosofica dell’ opera di Erasmo : infatti il ” De servo arbitrio ” é , più che un lavoro di teologia sistematica , un lavoro di teologia biblica . In questo lavoro la padronanza di sè di Lutero é più apparente che effettiva : in realtà , sotto una veste che formalmente vuole sembrare oggettiva e distaccata , brucia uno spirito ardente ed infiammato . Lutero pronuncia davvero un’ arringa appassionata in difesa della causa per la quale ha optato mediante una scelta di fede che rende ai suoi occhi tutto chiaro e convincente . La fede é , proprio a riguardo al problema del libero arbitrio o servo arbitrio , categoria gnoseologica e non psicologica soltanto : ecco perchè il problema , in Lutero , ha una forza di convinzione che , purtroppo , non ha in Erasmo , dove il soggiacente scetticismo e la mancanza di capacità filosofica rende tutto più morbido ed attutito , comunque meno probante . Lutero sta ad Erasmo come Agostino sta a Girolamo . D’ altronde non é per caso che Erasmo ha sempre dichiarato la sua simpatia per il traduttore della Bibbia e la sua diffidenza per il vescovo di Ippona : é affinità elettiva tra letterati che gli ispira la simpatia ed é la sua insensibilità filosofica che gli detta la diffidenza . Il Libero arbitrio di Erasmo si articola in quattro parti : 1 ) una introduzione nella quale l’ autore si richiama alla Disputa di Lipsia tra Carlostadio ed Eck ed alla Assertio di Lutero contro la bolla di Leone X . 2 ) Una esposizione di testi a favore del libero arbitrio . 3 ) Una esposizione dei testi contro il libero arbitrio . 4 ) L’ indicazione di una ” via media ” tra le opposte tesi . Il succo di Erasmo é il seguente : con il peccato originale la libertà del volere umano non é stata distrutta ma solo viziata . Pur dopo il peccato rimane nell’ individuo la libertà ( o grazia , come la chiama Erasmo ) naturale di alzarsi , sedersi , andare , venire , parlare , tacere e fare tutte quelle attività che , comunque , non riguardano il problema della sua personale salvezza . C’ é poi la grazia preveniente od operante che é la capacità di disprezzare se stessi e la propria condotta : siamo perciò in grado di avere resipiscenze ; di pentirci e di decidere una nuova linea di condotta . A questo punto interviene la grazia cooperante la quale , a parere di Erasmo , ci fa fare ciò che abbiamo deciso di fare e infine c’é la grazia che conduce a buon fine le nostre determinazioni e ci sorregge per tutto il cammino del ravvedimento fino alla compiuta santificazione . Sembrerebbe pertanto che senza la grazia non siamo neanche capaci di provare disprezzo per noi stessi e di iniziare una conversione di vita . In realtà il linguaggio di Erasmo é molto sfumato , quasi equivoco : se é vero che senza la grazia nulla possiamo intraprendere , condurre avanti e concludere per la nostra salvezza ( Erasmo infatti parla di grazia perveniente ed operante , di grazia cooperante e di grazia che conduce a buon fine ) é pur anche vero che questa grazia sollecita , trascina e conclude e proprio per questo presuppone una decisione dell’ uomo che liberamente risponda alle sollecitazioni , cooperi con Dio , e , sia pure con l’ aiuto di Dio , concluda ciò che ha deciso e iniziato . Emerge costante in tutta l’ opera la preoccupazione dell’ umanesimo evangelico , che di fronte allo scatenarsi delle passioni , vuole salvaguardare l’ autonomia della ragione , la libertà e la dignità dell’ uomo . Viene però da pensare proprio a riguardo del generoso tentativo dell’ umanesimo evangelico , al detto di Cristo : ” chi vorrà salvare la sua vita la perderà ; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio , la troverà ” . Nello sforzo di centrare l’ uomo su tutta la vita , i valori , la cultura , l’ umanesimo evangelico fallì e fu travolto . Proprio nel negare che l’ uomo potesse di per sè essere centro di vita e di luce sul cammino della civiltà e nell’ affermare con forza che l’ uomo vive solo di riflesso e per riflesso della grazia di Dio , Lutero getta invece le basi di tutta una nuova cultura , di una nuova civiltà , di una nuova storia che non si può dire abbia negatodel tutto i valori che Erasmo voleva salvaguardare , anzi : li ha fatti nascere proprio nel negarli , li ha fatti risplendere proprio nel metterli all’ ombra della sola gloria di Dio . Il servo arbitrio di Lutero , l’ unico lavoro nel quale , insieme al ” Catechismo ” , egli vorrà ancora riconoscersi quando gli si proporrà nel 1537 una edizione completa delle sue opere , é un poderoso trattato costituito dalle seguenti parti : a ) Prefazione , nella quale giustifica il ritardo con il quale risponde ad Erasmo . b ) Prima parte dove discute sugli argomenti di Erasmo in favore del libero arbitrio . c ) Seconda parte , dove prende in esame gli argomenti erasmiani contro il servo arbitrio . d ) Terza parte in cui confuta il libero arbitrio . Questa divisione non é del testo originale luterano , anche se ne riproduce la successione naturale delle parti : é la divisione che si trova nella edizione francese di Labor et fides ed é stata condotta sulla edizione weimariana per alleggerirne la troppa fitta successione delle pagine . Concludiamo questa introduzione osservando che Lutero , proprio nel rifiuto della tradizione dei padri e nell’ affermazione energica del ” sola Scriptura ” ( che vuol poi dire libero esame , esame cioè assai più libero senza gli impedimenti delle varie interpretazioni patristiche , conciliari , scolastiche e papali ) , viene di fatto ad affermare la vera dignità dell’ uomo singolo che é capace di intendere la parola di Dio . Perquanto il vero umanista , nella giusta ed unica prospettiva storica in cui veramente l’ uomo può essere visto , é Lutero e non Erasmo . Tuttavia Erasmo merita un giudizio più benevolo di quello che fin qui siamo stati più volte costretti a dare . Erasmo non é stato profeta nel suo tempo perchè l’ umanità , che nel suo lungo e pur breve cammino sembra essere allo stadio infantile , se non é guidata da una mano salda e forte , si perde per strada e si smarrisce . Dunque Erasmo parla di diverse grazie , quella naturale , che di fatto é la possibilità di scegliere tra il bene e il male , e quella ” vera ” secondo la quale Dio darebbe ad alcuni uomini la fede senza la quale non si può essere salvati . Per Erasmo la fede é quella condizione grazie alla quale l’ uomo può scegliere tra bene e male . Erasmo in questo differisce nettamente da Lutero perchè a suo avviso nell’ ambito della fede si può scegliere tra bene e male . Lutero nel libero arbitrio dice : ” Se il discernimento del bene e del male e la stessa volontà di Dio fossero stati nascosti all’ uomo , non si sarebbe potuto imputargli una cattiva scelta ” . Ma una cosa su cui Erasmo faceva particolarmente leva erano i comandamenti : se l’ uomo non fosse libero di scegliere tra bene e male , perchè mai Dio gli avrebbe dato dei comandamenti da seguire ? Ma Lutero ha una risposta pronta : i comandamenti non sono stati dati all’ uomo perchè li seguisse , infatti non potrà mai seguirli visto che é schiavo del male , ma per portare l’ uomo alla disperazione di se stesso ( Lutero dice : ” … ha per scopo di strappar l’ uomo al suo torpore , onde prenda atto della sua impotenza ” o ancora : ” quanto fu stolto Cristo ad aver versato il suo sangue per procurarci questo Spirito , dato che esso non ci é necessario visto che anche senza di lui siamo capaci di osservare i comandamenti ! ” ) : nel vedere la propria impotenza nel rispettare i comandamenti , l’ uomo arriva alla disperazione , alla sfiducia e questo lo porta alla fede : uno dei motti più importanti di Lutero era ” desperatio fiducialis ” : Lutero é ostile alle opere perchè esse danno all’ uomo l’ illusione di poter raggiungere con le sue forze la salvezza . Tutto il processo della desperatio , spiega Lutero , é comunque dipendente dalla grazia divina : é Dio che porta l’ uomo dalla desperatio alla fede : vi é l’ idea di una predestinazione , ossia che nella massa dei dannati Dio sceglie alcuni uomini a cui dare la grazia della fede . Si potrebbe contestare a Lutero un’ ipotetica ingiustizia divina : perchè dà la fede solo ad alcuni ? Ma Dio é giusto e misericordioso : giusto perchè condanna tutti gli uomini e misericordioso perchè ne salva alcuni . Ciò su cui Erasmo puntava molto nella sua polemica erano le opere : se non servono a nulla , visto che l’ uomo le fa solo per suo egoismo , a che serve compierle ? Ma Lutero non dice che non vadano compiute : per lui le opere buone sono l’ effetto della salvezza ; Lutero é senz’ altro influenzato dalla frase di Matteo : ” dai frutti li riconoscerete ” . Quindi per Lutero le opere sono buone o cattive a seconda che siano opere di fede o no : il giusto farà le opere non per guadagnarsi la salvezza , ma solo per la gloria di Dio , per ringraziarlo di aver concesso ad alcuni la salvezza . Come già accennato , Erasmo vedeva nella carità il fulcro del cristianesimo e nella sua opera dice : ” a me pare che la fede debba la sua origine ed il suo sviluppo alla carità , così come quest’ ultima lo deve alla fede ” . Per Erasmo senza il libero arbitrio sarebbe impossibile spiegare le questioni della giustizia e della misericordia divina : come potrebbe Dio giudicare l’ uomo se egli potesse solo commettee il male ? Non avrebbe senso . Lutero , di fatto , finiva per accusare Erasmo di semi-pelagianesimo perchè gli pareva che stando a ciò che diceva Erasmo l’ uomo potesse raggiungere la salvezza con le sue forze , compiendo buone azioni : Erasmo replica a quest’ accusa dicendo che senz’ altro Pelagio ” finisce poi per dare al libero arbitrio più di quel che conviene ” e che in fin dei conti agostino , nella sua disputa con Pelagio é stato ” meno giusto nei riguardi del libero arbitrio di quello che era prima ” , ossia di quando in un primo tempo aveva sostenuto il libero arbitrio . Sostenere il servo arbitrio , o meglio , negare il libero arbitrio in modo radicale , secondo Erasmo , e pretendere che tutto si faccia per necessità , dichiarando che Dio opera in tutti gli uomini non solo le opere buone , ma anche le malvagie porta alla conseguenza che l’ uomo non ha alcun titolo ad essere considerato come l’ autore delle sue buone opere e non si può neppure considerarlo come l’ autore delle malvagie . Questa conclusione che sembra chiaramente attribuire a Dio ingiustizia e crudeltà é assolutamente ineccepibile e facilmente smontabile : noi non possiamo permetterci di giudicare Dio , anche se punisce apparentemente senza motivo , ma dobbiamo approvare tutto ciò che fa , persuadendoci del fatto che tutto ciò che Dio fa é inevitabilmente buono . Lutero si schiera contro il libero arbitrio dicendo : ” ma tutto ciò che non é fatto dalla grazia di Dio non può essere buono . Dal che ne segue che il libero arbitrio , privato della grazia di Dio , non é libero , ma prigioniero e schiavo del male , dato che non può , da solo , volgersi verso il bene ” . Se poi la Scrittura , come sostiene Erasmo , é oscura , allora , sostiene Lutero , é impossibile trovarvi una definizione precisa del libero arbitrio . Il fatto che l’ uomo dica ” se voglio ” , ” se faccio ” , ” se intendo ” e così via non dimostra l’ esistenza secondo Lutero del libero arbitrio in quanto sono parole ” umane ” , ossia hanno un senso convenzionale convenuto tra gli uomini : é chiaro che con Dio tutto questo non c’entra proprio niente : le realtà celesti son ben diverse da quele terrestri . Lutero , poi , contesta le numerose interpretazioni figurate e simboliche delle Scritture , di cui Erasmo si é ampiamente servito per dimostrare l’ esistenza del libero arbitrio nelle Scritture : ” tutti gli errori delle Scritture non provengono dalla semplicità dei termini , ma dal fatto che si trascura questa semplicità e che si aggiungono interpretazioni figurate partorite dai cervelli dei commentatori ” . Lutero critica aspramente ancora una volta le opere compiute dall’ uomo non per amore di Dio , ma per puro egoismo : ” non c’é nulla di più disonesto e più sacrilego agli occhi di Dio che le azioni compiute non per la gloria di Dio , ma per strappargli quella gloria nel modo più empio ed attribuirsela ” .
GIOVANNI CALVINO
Giovanni Calvino nacque nel 1509 a Noyon, nel nord della Francia. Studiò alle università di Parigi, Orléans e Bruges e divenne un ammiratore di *Erasmo e dell’Umanesimo. Egli stesso nel 1532 pubblicò un’opera di cultura umanistica (un commento al De clementia del filosofo latino Seneca), che tuttavia non ebbe l’impatto sperato. Più o meno in questo stesso periodo Calvino si convertì:
Poiché ero così fortemente devoto alle superstizioni del papato da non essere facilmente districato da un così profondo abisso di fango. Dio, mediante una conversione improvvisa alla docilità, domò e diede una struttura ricettiva alla mia mente, troppo ostinata per gli anni che aveva.
Si dedicò immediatamente allo studio della teologia. Nel 1533 fu accomunato a un discorso d’inaugurazione, moderatamente protestante, del nuovo rettore dell’Università di Parigi, Nicholas Cop. Calvino dovette abbandonare la città in tutta fretta. L’anno dopo, diversi “placards”, manifesti violentemente polemici contro la messa, furono affissi in varie parti di Parigi — uno addirittura sulla porta della camera da letto reale, se la notizia è affidabile! Il rè, Francesco I, s’infuriò e lanciò un energico attacco contro gli evangelici. Calvino lasciò la Francia per stabilirsi a Basilea, dove continuò a studiare e a scrivere.
Entro l’estate del 1535 aveva completato la prima stesura della sua Christiance religionis institutio (Istituzione della religione cristiana).
Ma la sua pacifica vita di studio era destinata a durare poco. Nel 1536, mentre era in viaggio per Strasburgo, a causa di guerre locali, fu costretto a cambiare strada e a fare tappa a Ginevra — “la più significativa deviazione nella storia europea”, come ha detto qualcuno. Ginevra aveva appena aderito alla Riforma, anche se in parte per motivi politici, vita Calvino fu grandemente rispettato, anche se i suoi desideri non furono sempre assecondati. Morì nel 1564.
Calvino non è stato trattato bene dal mondo della stampa. Egli stesso, nel 1559, scrisse che “mai un uomo fu assalito, punzecchiato e dilaniato dalla calunnia” quanto lui. Tali parole si sarebbero dimostrate più profetiche di quanto egli avesse mai pensato! Calvino è stato incolpato per la dottrina della predestinazione — così chiaramente insegnata da *Agostino, dalla maggior parte dei teologi medievali e da tutti i riformatori. Certo, Calvino la accentuò in qualche misura, ma non più di quanto avevano fatto alcuni teologi medievali, come Bradwardine. Egli è poi denigrato per la parte che ebbe nell’esecuzione dell’eretico Serveto (il quale rinnegava la dottrina della Trinità) — eppure i suoi contemporanei l’approvarono quasi all’unanimità, e molti di quelli che oggi sono considerati santi (come Tommaso Moro) perseguitarono gli eretici molto più crudelmente di lui.
Calvino dev’essere giudicato sulla base del contesto dei suoi tempi. Egli è accusato di essere stato il “dittatore di Ginevra” — in realtà, anche all’apice del suo potere, l’autorità che egli esercitò fu principalmente di ordine morale anziché legale; inoltre, prima di poter pubblicare i propri libri, Calvino doveva ricevere l’approvazione dal Consiglio municipale. Ovviamente, egli non era perfetto: si rendeva conto da solo di avere un carattere irascibile. Era intollerante e prendeva per scontato il fatto che l’opposizione al suo insegnamento non era altro che un’opposizione alla Parola di Dio — una pecca, questa, comune a tanti altri dei suoi tempi e dei nostri. In una certa misura, la responsabilità della cattiva fama di Calvino sarebbe da attribuirsi ai suoi discepoli, che spesso sconvolsero l’attento equilibrio della sua teologia rendendo primaria e fondamentale la dottrina della predestinazione, quando invece Calvino fu attento a mantenerla nel suo giusto àmbito. Calvino trasformò Ginevra. A tal punto che il riformatore scozzese John Knox la dichiarò “la più perfetta scuola di Cristo sulla terra, dai giorni degli apostoli a oggi. Io ammetto che altrove Cristo è veramente predicato; ma da nessuna parte ho mai visto una religione e delle pratiche così autenticamente riformate”. Ciò fu senz’altro l’effetto della rigida disciplina di Calvino, il quale, a quelli che non amavano tale disciplina, riservò questo suggerimento: “Farebbero bene a costruirsi una città dove poter vivere a loro piacimento, visto che non vogliono vivere qui, sotto il giogo di Cristo”. Poteva essere, tuttavia, anche la conseguenza di un massiccio afflusso in città di profughi francesi e di altre nazioni, attirati soprattutto dalla loro ammirazione di Calvino.
L’interesse primario di Calvino restò sempre quello per la sua patria (la Francia), e molti di coloro che andavano a Ginevra ritornavano in patria come pastori delle sempre più numerose chiese protestanti francesi. Ai fini della loro istruzione, e rifacendosi al sistema educativo che aveva conosciuto a Strasburgo, Calvino fondò un’Accademia, vera e propria antesignana della moderna università di Ginevra. Calvino dichiarò — e in parte aveva ragione — di avere un amore naturale per la brevità. Ciononostante, fu uno degli autori più prolifici nella storia della chiesa. La sua produzione sarebbe stata considerevole per uno studioso a pieno tempo — eppure Calvino la realizzò inserendola in un ritmo di vita che avrebbe logorato, come minimo, un paio d’uomini di calibro inferiore al suo. A parte le molte responsabilità che ebbe a Ginevra, Calvino fu senz’altro il più importante leader della rete internazionale di chiese riformate. Le sue lettere possono dare corpo a molti tomi, e l’elenco dei loro destinatari costituirebbe un vero e proprio annuario dell’Europa della Riforma.
Calvino scrisse molti trattati polemici: numerosi erano quelli indirizzati contro l’Anabattismo. Ma ancor più importanti furono i suoi attacchi al Cattolicesimo romano. Nel 1539, durante l’esilio di Calvino da Ginevra, il cardinale Sadoleto scrisse ai ginevrini esortandoli a ritornare all’ovile romano. La lettera fu fatta pervenire a Calvino, ed egli, in un solo giorno, scrisse una Responsio ad Sudateti epistulam (Risposta a Sadoleto) in latino. Si tratta di una delle sue opere migliori. Fece pubblicare anche gli Atti delle prime sessioni del •Concilio di Trento — accompagnati da un Antidoto. Calvino fu capace di una satira pungente quanto quella di Erasmo, come si può notare nel suo Trattato delle reliquie (lett. Ammonizione in cui si dimostra quanto gioverebbe alla cristianità un inventario dei corpi e delle reliquie dei santi).
Di nuovo, consideriamo quanti frammenti [della croce] siano sparpagliati qua e là per il globo. La semplice enumerazione di quelli che io ho registrato riempirebbe senz’altro un grosso volume. Non vi è città, per quanto piccola, che non abbia un frammento, e ciò, non soltanto nella chiesa principale, ma anche nelle chiese parrocchiali. Non vi è abbazia, per quanto povera, che non ne abbia un campione. In alcuni luoghi esistono frammenti più grossi, come a Parigi nella Santa Cappella, o a Poitiers e a Roma, dove si dice che un crocifisso di una certa grandezza sia interamente formato da essi. In breve, se tutti i pezzi rintracciabili fossero radunati insieme, formerebbero un bei carico per una nave, benché l’Evangelo affermi che una sola persona fu in grado di portarla [la croce]. Che sfrontatezza, quindi, riempire tutto il mondo di frammenti che richiederebbero più di trecento uomini per trasportarli!… Non contenti, poi, di imporsi ai rozzi e agli ignoranti, mostrando un pezzo di legno comune come se fosse il legno della croce, essi l’hanno in effetti dichiarato degno di adorazione. Questa dottrina è assolutamente diabolica Trattato delle reliquie
Calvino, pur essendo personalmente contrario, si trovò costretto a scrivere anche contro i luterani. Due pastori luterani, Westphal e Hesshusius, attaccarono la sua dottrina della Cena del Signore, ed egli replicò. Alla fine, abbandonò la controversia con una certa tristezza, perché si considerava un discepolo di *Lutero. Non tutti i trattati di Calvino furono di natura polemica. Uno dei migliori è II piccolo trattato sulla Santa Cena, che espone il suo insegnamento in un modo conciliatorio, come la “via di mezzo” fra Zwingli e Lutero. Per tutto il tempo che rimase a Ginevra, Calvino predicò in maniera costante. Dal 1549 in poi, i suoi sermoni furono stenografati. Un certo numero di essi fu pubblicato durante il xvi secolo; tutti gli altri (che costituivano la parte più numerosa) furono conservati, sempre in forma stenografata, nella biblioteca di Ginevra. Ma, incredibilmente, finirono per essere venduti a peso nel 1805, con il risultato che un buon 75% di essi andò perso! Attualmente sono in fase di pubblicazione quelli che sono rimasti. Calvino scrisse commentari su molti libri della Bibbia — dalla Genesi fino a Giosuè, poi i Salmi, tutti i libri profetici (tranne Ezechiele capp. 21- 48), e tutto il Nuovo Testamento (eccetto II e ili Giovanni e Apocalisse). I commentari di Calvino, spesso basati su sue lezioni o predicazioni precedenti, sono fra i pochissimi libri scritti prima del secolo scorso che abbiano ancora valore per la comprensione del significato del testo (rispetto a quelli che ai nostri giorni potrebbero essere letti più per l’edificazione che per la luce che gettano sul testo biblico). Calvino è l’unico autore in assoluto che appartenga senza ombra di dubbio sia alla categoria dei migliori teologi sia a quella dei migliori commentatori.
Calvino è meglio noto per la sua opera intitolata Istituzione della religione cristiana (comunemente chiamata Y Istituzione). Mentre egli era ancora in vita, ve ne furono quattro edizioni principali in latino. La prima fu quella del 1536. La lunghezza della pubblicazione era quella tipica di un libro tascabile: constava di sei capitoli, i primi quattro dei quali seguivano il modello dei catechismi di Lutero. All’ultimo momento, Calvino aggiunse una lunga dedica al rè, Francesco I, che perseguitava gli evangelici francesi tacciandoli di anabattisti. Calvino presentò la sua opera al re come un’apologia o difesa della dottrina evangelica. La seconda edizione, che apparve nel 1539, era tre volte più lunga della prima. Quella successiva, del 1543, non è che fosse molto più lunga, ma rifletteva senz’altro l’influenza di Bucero e del soggiorno di Calvino a Strasburgo. L’edizione definitiva fu quella del 1559 ed era circa cinque volte più lunga della prima. Calvino affermò: “Non mi sentivo soddisfatto finché l’opera non fosse stata sistemata nell’ordine in cui compare ora”. Accanto a queste quattro edizioni in lingua latina vi furono delle traduzioni in francese, per lo più fatte da Calvino stesso. L”Istituzione non era un semplice trattato teologico — era una “somma di pietà” (tale era il frontespizio dell’edizione del 1536), in vista dell’edificazione del popolo francese. Le edizioni in lingua francese sono importanti per la storia dello sviluppo della lingua, dato che nessun’altra opera di un simile spessore era mai apparsa prima in francese.
Qual era lo scopo dell’Istituzione Calvino stesso lo illustrò nella prefazione all’edizione del 1539. Poiché credeva nella brevità, non volle invischiarsi in lunghe discussioni teologiche nei suoi commentari.
Trattò invece questo tipo di argomenti nell’Istituzione, che è dunque da considerare un ausilio accanto ai commentari e uno strumento di preparazione allo studio della Bibbia stessa. Quando si studia Calvino, è questo il modello che si dovrebbe seguire. Quando si fa uso dei commentari, si può consultare l’Istituzione per avere indicazioni teologiche; quando si legge l’Istituzione, si possono consultare i commentari (o dei sermoni) per giungere a una spiegazione più dettagliata dei brani della Scrittura citati.
. Quasi tutta la somma della nostra sapienza, quella che, tutto considerato, merita di essere reputata vera e completa sapienza, si compone di due elementi e consiste nel fatto che, conoscendo Dio, ciascuno di noi conosca anche sé stesso. Del resto, benché questi punti siano vicendevolmente uniti da olti legami, non è sempre agevole discernere quale preceda e sia causa dell’altro. In primo luogo, infatti, nessuno può guardare a sé stesso senza subito volgere il suo sentimento a Dio, da cui riceve vita e vigore… Questa sventurata rovina in cui ci ha ridotto la rivolta del primo uomo ci costringe a levare in alto gli occhi… Solo turbati dalle nostre miserie ci volgiamo a considerare i beni di Dio, e non possiamo volgerci a lui seriamente, se non dopo aver cominciato a essere insoddisfatti di noi stessi… D’altra parte, è noto che l’uomo non perviene mai alla conoscenza pura di sé stesso fino a quando non abbia contemplato la faccia di Dio e da essa sia sceso a guardare sé stesso. Infatti, a causa dell’orgoglio radicato in noi, ci sentiamo sempre giusti e completi, savi e santi, fin quando non siamo convinti da argomenti evidenti della nostra ingiustizia, impurità, follia e immondezza. Ora, non ne siamo convinti se gettiamo lo sguardo solamente sulle nostre persone e non pensiamo insieme anche a Dio, il quale è la sola regola a cui bisogna confrontare e allineare questo giudizio… E poiché intorno a noi non vi è nulla che non sia coperto e sfigurato da molte macchie, lo spirito ci è chiuso e come limitato dalle profanazioni di questo mondo; di sorta che, quanto non è completamente brutto come il resto, ci piace come se fosse purissimo. Istituzione della religione cristiana 1:1:1-2
E opportuno ricordare quanto abbiamo detto fin qui: Dio, nell’ordinarci mediante la Legge quanto è da fare, ci minaccia, se sgarriamo minimamente, col giudizio della morte eterna e così ci imbriglia come se dovesse saettare sul nostro capo. Se guardiamo a noi stessi e consideriamo solamente quel che abbiamo meritato e di quale condizione siamo degni, non ci rimane neppure un briciolo di speranza: come povera gente respinta da Dio, siamo affranti in dannazione, poiché l’osservare la Legge come richiesto, non solo è per noi difficile, ma oltrepassa le nostre forze e le nostre facoltà. In terzo luogo, abbiamo dichiarato che esiste un solo mezzo per sottrarci a una calamità così disastrosa e trarci fuori: Gesù Cristo essendo il Redentore, per mano del quale il Padre celeste, pietoso verso di noi secondo la sua misericordia infinita, ci ha voluti soccorrere, afferriamoci a questa misericordia con una fede ferma e affidiamoci a essa con una speranza costante per perseverare. Istituzione della religione cristiana 3:2:1
Di fronte al segno visibile occorre dunque saper vedere di quale realtà è rappresentazione e da chi ci è offerto. Il pane ci è dato, unitamente all’ordine di mangiarlo, come raffigurazione del corpo di Gesù Cristo; e a darlo è Dio stesso, verità assoluta e immutabile. Dato che egli non può ingannare ne mentire, ne consegue che realizza tutto ciò che dice. Se dunque nella Cena il Signore ci annuncia visivamente la comunione col corpo e sangue di Gesù Cristo, quello che riceviamo è realmente il corpo e sangue di Cristo. In caso contrario, se cioè non ci desse che pane e vino, noi mangeremmo il pane e berremmo il vino riconoscendo, certo, che il suo corpo e il suo sangue ci sono nutrimento e bevanda, ma la realtà spirituale sarebbe inesistente. Se così fosse, egli avrebbe istituito questo mistero per ingannarci?… Tutti riconosciamo dunque che, quando riceviamo il sacramento nella fede, secondo le indicazioni del Signore, siamo resi partecipi della sostanza del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Come questo avvenga è da alcuni più chiaramente percepito e illustrato che da altri. In sintesi, possiamo dire che dobbiamo evitare ogni interpretazione carnale [cioè, la posizione luterana] e perciò innalzare i nostri cuori verso il ciclo e non pensare che il Signore Gesù sia degradato al punto da essere rinchiuso in elementi corruttibili [cioè, “in, con e sotto” il pane e il vino]. D’altra parte, non si deve sminuire l’efficacia di questo mistero e occorre perciò pensare che questo avviene per opera segreta e misteriosa di Dio e che il suo Spirito costituisce il mezzo che rende possibile questa partecipazione [al corpo e al sangue di Cristo], che definiamo perciò spirituale. Il Piccolo trattato sulla Santa Cena 16,60
MACHIAVELLI
LA VITA , LE OPERE E IL CONTESTO STORICO
Nel 1512 quando ormai aveva più di quarant’anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1496, da antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè tutta l’attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa col rogo l’avventura savonaroliana) , ottenendo l’incarico di segretario della seconda Cancelleria . Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e della nostra indipendenza e lo scontro , sul nostro territorio , delle due nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò numerose volte (nel 1500, nel 1504 , nel 10 e nell’11 ) , tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme , le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia , l’inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI , che aspirava alla creazione di un forte stato nell’Italia centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze . Presso il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell’ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l’energia, l’audacia, le capacità diplomatiche di questo signore “molto splendido e magnifico” che diverrà poi quasi l’incarnazione del suo principe . D’altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni , perchè, dopo l’improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III , fu inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all’elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua ” ultima ruina ” . In quella occasione , e in una successiva legazione nel 1506 , il Machiavelli potè anche rendersi conto del temperamento del nuovo papa , dell’energia e del ” furore ” che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni . Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che , dal 1506 in poi , negli intervalli fra una legazione e l’altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse l’esperienza di Machiavelli. I problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell’ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra l’ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo . E’ del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose dall’ alto di una ricchissima esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ) , sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli , poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni , sino al 1520 , e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze ) , di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ) , di andare come ambasciatore presso la ” repubblica degli Zoccoli ” , cioè presso il capitolo dei Frati minori di Carpi . Solo nel 1526 gli venne affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle mura , preposti alla difesa di Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte. Morì tra il 20 e 22 giugno 1527. Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritirò in una villa presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l’oste, il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell’osteria e scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: “e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro”. E’ dalle meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro “vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell’antichità, che nascono quasi d’un sol getto (fra il 1512 e il 1520) le grandi opere machiavelliane : il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, i dialoghi Dell’arte della guerra, la Vita di Castruccio Castracani, La Mandragola . Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscenza più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma profondo, e non soltanto – come accadeva al Castiglione e al Bembo – nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi all’antico non significa evadere dal presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione storico-politica concreta, quella dell’italia nei primi decenni del sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell’utile diversa e distinta dalla categoria della morale l’elemento caraterizzante del pensiero machiavelliano: Non già che il problema dell’autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del principe dedicato a coloro “che per scelleranza sono venuti al Principato” con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all’esaltazione del Valentino – ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi delitti – o al capitolo XVIII della sressa opera dove si pone il problema se i principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando do Agatocle il Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la “virtù” – sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di “energia” e “capacità” – con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non manifesta più dubbi. La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la “ruina” di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l’accusa di immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del “fine che giustifica i mezzi” che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell’autonomia di una rispetto all’altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la “realtà effettuale” italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l’interesse del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del “principe nuovo” come la sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi fra l’ elogio del Valentino e la condanna di Cesare . Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato , dei suoi ordinamenti migliori . Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe , fino all’ affermazione che il popolo é ” più prudente , più stabile e di migliore giudizio che un principe ” e che ” se i principi sono superiori a’ popoli nello ordinare le leggi , formare vite civili , ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate ” . Così Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi l’ argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere costituito , quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i cittadini come individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città – stato e sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente ” nella prosa e nello stile stesso ” del segretario fiorentino , in ” questo tipo nuovo e liberale di prosa ” in cui la sintassi ” é già consapevole della sua libertà ed individualità ” e il ” ragionamento a piramide degli scolastici ” cede il posto al ” ragionamento a catena ” della prosa scientifica moderna . Il lettore ha costantemente l’ impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a un laborioso processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni . La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge , di frequente , con un ” tu ” perentorio e aggressivo , a farsi compagno e sodale del suo autore , lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo . In tal senso la prosa di Machiavelli é eminentemente moderna . E quando d’ improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario fiorentino s’ impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera , il lettore ha la sensazione di assistere al germinare di un’ intuizione nuova preparata e resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale , si sente partecipe della gioia della scoperta e , al tempo stesso , stupito della semplicità rivoluzionario della medesima . Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà mortificante , la ” ruina d’ Italia ” , nelle sue istituzioni comunali o signorili , nei costumi dei suoi principi , nell’ avvilimento del popolo . Di qui il pessimismo della sua intelligenza , quel contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco , impastato di bassi appetiti , di astuzie meschine , di stupidità e di ingordigia che sta al fondo della Mandragola , il capolavoro del teatro del ‘500 . Egli , però , ha compreso l’ importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in Europa , sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e corrotta .
IL PENSIERO POLITICO E FILOSOFICO
Machiavelli non è un puro teorico , inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire ” in laboratorio ” : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica , in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà , modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l’ Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica , in quanto l’ Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura , anzichè su eserciti ” cittadini ” , che soli possono garantire la fedeltà , l’ ubbidienza , la serietà di impegno ; ma anche crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque si sono molto affievoliti , tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile , e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall’ antica Roma , l’ amore per la patria , il senso civico , lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico , l’ orgoglio e il senso dell’ onore , e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario , che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna , senza reagire e senza lottare . Perciò , come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi nel 1494 , gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola . Per Machiavelli l’ unica via d’ uscita da una così straordinaria ” gravità de’ tempi ” é un principe dalla straordinaria ” virtù ” , capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costtruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini . A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli , la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese . Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il senso . Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente , poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione particolare , cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza , Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale , a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore , quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario , ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica . Concordemente Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica : innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza , distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell’ agire dell’ uomo , come l’ etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente l’ autonomia del campo dell’ azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche , e l’ agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè , nell’ analisi dell’ operato di un principe , valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E’ una teoria di sconvolgente novità , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale . Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali ” che non si sono mai visti essere in vero ” . Proclama infatti di voler andar dietro alla ” verità effettuale della cosa ” anzichè all’ ” immaginazione di essa ” , proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un’ opera ” utile a chi la intenda ” , fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell’ aderenza alla ” verità effettuale ” : proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall’ indagine sulla realtà concreta , empiricamente verificabile , mai da ssiomi universali e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali . L’ esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi . Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente ” esperienza delle cose moderne ” e ” lezione delle antique ” . In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati , dell’ informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l’ uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo , come non variano il corso del sole e delle stelle . Per questo ha fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l’ esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale . Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l’ agire degli antichi può essere di modello . Per lui gli uomini ” camminano sempre per vie battute da altri ” , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell’ imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l’ imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella politica . Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell’ agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell’ uomo come essere morale : l’ uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosofiacamente le cause , non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà . Gli uomini sono ” ingrati , volubili , simulatori e dissimulatori , fuggitori de’ pericoli , cupidi di guadagno ” e dimanticano più facilmente l’ uccisione del padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l’ interesse materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non deve nè può ” fare in tutte le parti la professione di buono ” perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere ” non buono ” laddove lo richiedano le necessità dello Stato . Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un vcentauro , ossia un essere metà uomo e metà animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla parola data o l’ uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue istituzioni ; allo stesso modo i ” buoni ” moralmente sarebbero ” cattivi ” politicamente perchè non ucciderdo e non compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera ” cattivo ” chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri , non il bene o il male , ma l’ utile o il danno politico . E’ interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno , invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E’ solo lo Stato che può costituire un rimedio alla malvagità dell’ uomo , al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre . Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di verità , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di salvezza , ma solo ed esclusivamente come ” instrumentum regni ” , ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di governo che meglio compendia in sè l’ idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchice dell’ uomo . Il principato é per Machiavelli una forma d’ eccezione e transitoria , indispensabile solo in certi momenti , come quello che l’ Italia sta vivendo ai suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha istituzioni stabili e durature .
IL RAPPORTO VIRTU’ – FORTUNA
In Machiavelli si delineano due concezioni della virtù : la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei momenti di eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabili istituzioni dello Stato, eche non è meno eroica della prima, come dimostrano tanti esempi della storia di Roma, dove rifulse la virtù di semplici cittadini. Machiavelli ha comunque una visione eroica dell’agire umano. In lui viene a confluire quella fiducia nella forza dell’uomo, che era stata patrimonio della civiltà comunale (si pensi a Boccaccio), ed era stata poi ereditata e consapevolmente teorizzata dalla civiltà umanistica. Ma, proprio sulla scorta di questa tradizione di pensiero, Machiavelli sa bene che l’uomo nel suo agire ha precisi limiti, e deve fare i conti con una serie di fattori a lui esterni, e che non dipendono dalla sua volontà. Questi limiti assumono il volto capriccioso e incostante della fortuna. E’ questo un altro grande tema della civiltà umanistico-rinascimentale , che fa anch’esso la sua comparsa sin da Boccaccio . E’ il frutto di una concezione laica e immanentistica, che mette tra parentesi la presenza nel mondo della provvidenza , intesa come disegno divino indirizzato consapevolmente a un fine, e porta in primo piano il combinarsi di forze puramente casuali, accidentali, svincolate da ogni finalità trascendente. Dalla tradizione umanistica Machiavelli eredita la convinzione che l’uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna. Egli ritene che essa sia arbitra solo della metà delle cose umane, e lasci regolare l’altra metà agli uomini. Vi sono per Machiavelli vari modi in cui l’uomo può contrapporsi alla fortuna. In primo luogo essa può costituire “l’occasione” del suo agire, la “materia” su cui egli può imprimere la “forma” da lui voluta. La “virtù” del singolo e l’ “occasione” si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l’occasione adatta per affermarle, e viceversa l’occasione resta pura potenzialità se un politico “virtuoso” non sa approfittarne. L’occasione può anche essere una condizione negativa, che serve di stimolo ad una virtù eccezionale. Scrive Machiavelli nei capitoli VI e XXVI del Principe che occorreva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell’Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perchè potesse rifulgere la “virtù” di grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro. In secondo luogo la “virtù” umana si impone alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti quieti l’abile politico deve prevedere i futuri rovesci, e predisporre i necessari ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena. Si fronteggiano così, nel pensiero di Machiavelli, due forze gigantesche, la fortuna incostante , volubile , e la virtù umana , che è in grado di contrastarla, imbrigliarla, impedirle di far danno, piegarla ai propri fini. La “virtù”di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico, ricavate, come sappiamo, sia dall’esperienza diretta sia della “lezione” della storia passata; in secondo luogo dalla capacità di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situaziuoni, il mutare dei rapporti di forza, l’incidenza degli interessi dei singoli ; infine la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato: la “virtù” del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche , che conferma che nel pensiero machiavellano teoria e prassi non vadano mai disgiunte. Ma vi è ancora un terzo mondo teorizzato da Machiavelli per opporsi alla fortuna, e quindi un’altra dote che concorre a determinare la “virtù” umana: il “riscontrarsi” con i tempi, cioè la duttilità nell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano, alle varie situazioni, ai vari contesti in cui si è obbligati ad operare. Ad esempio, in certe occasioni occorre agire con cautela e ponderatezza, in altre con impeto e ardimento, in certi casi occorre l’astuzia della volpe, in altri la forza del leone. E qui compare una nota pessimistica: questa duttilità è una dote altamente auspicabile, ma quasi mai si ritrova negli uomini, che non sanno variare il loro comportamento secondo le circostanze , perchè , se hanno sempre avuto buon esito nell’ operare in un certo modo , difficilmente sanno adattarsi a ricorrere a moduli diversi ; per cui i politici avranno buon esito solo se le circostanze saranno conformi alle loro doti naturali : cioè la statistica , se sarà cauto e prudente , avrà successo solo se si troverà ad agire in circostanze che esigono prudenza , ma se i tempi variassero , ed esigessero decisioni pronte ed audaci , egli non saprebbe certamente adattarsi ed andrebbe in rovina . Come si vede Machiavelli reintroduce così , pessimisticamente , un fattore di casualità che sfugge al controllo dell’ uomo .
” IL PRINCIPE ” ( TESTO INTEGRALE )
Il 10 dicembre 1513 , dall’ esilio dell’ Albergaccio , Machiavelli annunciava all’ amico Vettori di aver composto un ” opuscolo de principatibus ” , in cui si trattava ” che cosa é principato , di quale spetie sono , come e’ si mantengono , perchè e’ si perdono ” . L’ indicazione fissa il momento in cui l’ opera può dirsi compiuta , ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta , se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai ” Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio ” . Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione tra luglio e dicembre 1513 , in una stesura di getto , mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de’ Medici e probabilmente anche il capitolo finale che , nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l’ Italia dai ” barbari ” , sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato . Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente nel corso del 1513 e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello , che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana . il Principe é un’ operetta molto breve , scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di pensiero . Si articola in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei titoli in latino come era usanza dell’ epoca . La materia é divisa in diverse sezioni . I capitoli I – XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo , conferendogli forza e stabilità . Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti , aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe ( capitolo III ) o del tutto nuovi ( capitoli IV – V ) ; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ( capitoli IV – V ) , oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui si propone come esempio il duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà ” bene e male usata ” : la prima é quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l’ esclusivo vantaggio del tiranno . Nel capitolo IX si affronta il principato ” civile ” , in cui cioè il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell’ XI si tratta dei principati ecclesiastici , in cui il potere é detenuto dall’ autorità religiosa , come nel caso dello Stato della Chiesa . I capitoli XII – XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l’ uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ) , abituale nell’ Italia del tempo , perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza , per lui , la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie , su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa . I capitoli XV – XXIII trattano dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici . E’ questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla ” verità effettuale della cosa ” : poichè gli uomini sono malvagi , avidi , mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad essere ” non buono ” , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincerà saranno sempre considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l’ esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani , nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati . La causa per lo scrittore é essenzialmente l’ ” ignavia ” dei principi , che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l’ intuizione ) e porvi i necessari ripari . Di qui scaturisce naturalmente l’ argomento del capitolo XXV , il rapporto tra virtù e fortuna , cioè la capacità , che deve essere propria del politico , di porre argini alle variazioni della fortuna , paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati . L’ ultimo capitolo , il XXVI , é , come accennato , un’ appassionata esortazione ad un principe nuovo , accorto ed energico , che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l’ Italia dai barbari .
Indice ragionato |
|
– Lettera a Francesco Vettori – Dedica – Al magnifico Lorenzo de’ Medici |
|
I – Di quante ragioni sieno e’ principati, e in che modo si acquistino |
|
IV – Per qual ragione el regno di Dario, il quale da Alessandro fu occupato, non si ribellò da’ suoi successori dopo la morte di Alessandro |
|
VI – De’ principati nuovi che s’acquistano con le armi proprie e virtuosamente |
|
VII – De’ Principati nuovi che s’acquistano colle armi e fortuna di altri |
|
VIII – Di quelli che per scelleratezze sono pervenuti al principato |
|
IX – Del Principato civile |
|
X – In che modo si debbino misurare le forze di tutti i principati |
|
XI – De’ Principati ecclesiastici |
|
XII – Di quante ragioni sia la milizia, e de’ soldati mercenari |
|
XV – Di quelle cose per le quali li uomini, e specialmente i principi, sono laudati o vituperati |
|
XVI – Della liberalità e della parsimonia |
|
XX – Se le fortezze e molte altre cose, che ogni giorno si fanno da’ principi, sono utili o no |
|
XXI – Che si conviene a un principe perché sia stimato |
|
XXII – De’ secretari ch’e’ principi hanno presso di loro |
|
XXIII – In che modo si abbino a fuggire li adulatori |
|
XXIV – Per qual cagione li principi in Italia hanno perso li Stati loro |
|
XXV – Quanto possa la fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere |
|
XXVI – Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de’ barbari |
FRANCESCO GUICCIARDINI
Francesco Guicciardini nacque da nobile famiglia nel 1483 a Firenze. Dopo aver compiuto studi umanistici e giuridici, nel 1508 sposò Maria Salviati, appartenente a una famiglia di antica nobiltà, che ne rafforzò l’influenza politica. Ebbe una serie di incarichi da parte dello Stato fiorentino, per conto dapprima della Repubblica, poi dei Medici. Questo primo periodo di attività politica va dal 1508 al 1516 ed è segnato da importanti incarichi pubblici: dal 1511 al 1513 Guicciardini fu ambasciatore in Spagna presso re Ferdinando il Cattolico e nel 1514 e 1515 ebbe posizioni di primo piano nell’amministrazione di Firenze. Risalgono a questo periodo le Storie fiorentine, che abbracciano il periodo compreso fra il 1378 e il 1509, e soprattutto il Discorso di Logrogno, uno scritto di teoria politica ove Gucciardini sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica fiorentina, proponendo un sistema affine a quello veneziano. Tra il 1516 al 1527 Guicciardini lavora per la curia pontificia, al servizio dei papi Medici: prima Leone X, poi Clemente VII. E’ lui a tessere le iniziative che portano alla lega di Cognac contro Carlo V. Di questo periodo è il Dialogo del reggimento di Firenze, in due libri, ultimati nel 1526. Guicciardini immagina una discussione svoltasi a Firenze nel 1494, due anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico. Gli interlocutori sono il padre dello scrittore, Piero, Paolantonio Soderini e Pier Capponi, tutti ferventi repubblicani, a cui si contrappone il vecchio Bernardo del Nero, legato al partito mediceo. Quest’ultimo, partendo da un’impietosa analisi dei fatti e non da idee preconcette, dimostra ai tre amici quanto illusoria sia la loro fede repubblicana, sostenendo che il regime democratico presenta più numerosi e gravi difetti di quello monarchico. Bernardo ammette tuttavia la difficoltà di restaurare il potere mediceo nelle circostanze presenti, proponendo in alternativa alla costituzione democratica un governo misto, che preveda un gonfaloniere a vita, un Consiglio Grande per l’elezione dei magistrati, un senato per la preparazione delle leggi e per la trattazione degli affari di maggiore importanza. Emerge sin d’ora la convinzione che in politica non si possono dare delle regole assolute, teorie generali o dottrine sistematiche valide in ogni tempo ed in ogni luogo. Un terzo breve periodo coincide con la restaurazione della Repubblica a Firenze dopo il sacco di Roma, fra il 1527 e il 1530. Costretto alla vita privata per aver servito i Medici, Guicciardini scrive in propria difesa tre orazioni: Consolatoria, Accusatoria, Defensoria. Ritiratosi a Roma, completa la composizione dei Ricordi e compone, nel 1529, le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio. Attraverso un’analisi precisa e rigorosa dell’opera di Machiavelli, Guicciardini cerca di dimostrare che i suoi ragionamenti, in apparenza così serrati e convincenti, sono in realtà infondati ed arbitrari. Il dissenso non si riferisce solo a singoli aspetti della trattazione, ma investe più a fondo, e in generale, i fondamenti stessi della filosofia della storia, su cui Machiavelli basava il suo pensiero. La storia romana non conserva, per Guicciardini, nessun valore esemplare, dal momento che non ci sono, nella storia, leggi e modelli assoluti, che permettano di comprendere e di valutare la realtà. La visione del mondo che ne deriva risulta cosi tutta relativa e frammentaria, senza più riuscire a ricomporsi nella totalità di un sistema teorico capace di offrire criteri certi ed indiscutibili. I Ricordi accompagnano vari periodi dell’attività di Guicciardini diplomatico e uomo politico, nutrendosi di questa lunga e complessa esperienza. Di qui il carattere dell’opera (il titolo significa propriamente “cose da ricordare” e quindi, per estensione, “pensieri”, “riflessioni”), che muove dalla realtà per affrontare, con un pessimismo amaro e disilluso, problemi più generali. Si tratta di riflessioni che possono offrire un utile insegnamento ma che non hanno, tuttavia, una validità assoluta, in quanto la realtà non obbedisce a leggi universali, conservando un andamento sempre mutevole e imprevedibile. Di qui deriva anche la struttura del libro, in cui i “ricordi” si susseguono indipendentemente l’uno dall’altro, senza fondersi in un quadro complessivo e unitario, dando vita a una specie di “anti-trattato”, in quanto rinunciano a una compiutezza sistematica e totalizzante del discorso. Dopo la caduta della Repubblica di Firenze e la restaurazione del potere mediceo (1530), Guicciardini rientrò a Firenze, ricoprendo varie mansioni per conto dei Medici e di papa Clemente VII, ma dopo il 1534, il nuovo papa Paolo III non gli affidò più incarichi di rilievo. D’altronde il nuovo duca, Cosimo de’ Medici, diffidava dell’atteggiamento antimperiale di Guicciardini, cosicché nel 1537 egli preferì ritirarsi nella villa presso Arcetri (Firenze), dove lavorò alla Storia d’Italia, la sua opera più vasta e impegnativa. Morì nel 1540 senza aver potuto rivedere la redazione definitiva dell’opera. Scritta fra il 1537 e il 1540, la Storia d’Italia abbraccia gli avvenimenti compresi fra il 1492 (anno della morte di Lorenzo il Magnifico) e il 1534 (anno della morte di Clemente VII), comprendendo i fatti più luttuosi della storia recente – dalla calata di Carlo VIII (1494) al sacco di Roma (1527) – in cui si consuma la “ruina d’Italia”, che rappresenta in centro di interesse principale dell’autore. L’opera muove da un’impostazione storiografica nuova e moderna, che supera decisamente l’angusta prospettiva municipale della storiografia tradizionale: lo sguardo dello storico esce ormai dai confini di Firenze per abbracciare le vicende dell’Italia nel suo insieme, a loro volta inserite e spiegate nel quadro della grande politica europea, in cui la nostra penisola svolgeva un ruolo allo stesso tempo secondario, e tuttavia tragicamente rilevante.
Bibliografia
Storie fiorentine (1508-1510)
Diario di Spagna (1512)
Discorso di Logrogno (1512)
Relazione di Spagna (1514)
Consolatoria (1527) : è un discorso rivolto a se stesso, in cui cerca di dimostrare i motivi che ha per non rattristarsi.
Oratio accusatoria (1527) : immagina di essere un fantomatico accusatore di tutte le colpe possibili (e anche oltre), in uno stile declamatorio e populista.
Oratio defensoria (1527) : è il vero stile di Guicciardini: secco, scientifico ed efficace, con cui smonta una ad una le accuse che si era appena inventate. Quest’ultima orazione appare mutilata nella forma in cui ci è giunta.
Del reggimento di Firenze Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio (1528)
Ricordi (1512-1530)
Le cose fiorentine (1528-1531)
Storia d’Italia (1537-1540) : La Storia d’Italia dal 1490 (morte di Lorenzo il Magnifico, e discesa in Italia di Carlo VIII di Francia), al 1534 (dopo il sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi, morte di papa Clemente VII), scritta da un protagonista “alto funzionario e consigliere di tre papi”, con ambizioni di classicismo (si ispirava ai commentarii di Cesare), ma con una grande modernità.
Il pensiero e il confronto con Machiavelli
La grande, infamante accusa che il Guicciardini muove al Machiavelli è di essere un “utopista” invece che un “realista”. Sul piano teorico, il confronto con le posizioni di Machiavelli è condotto soprattutto nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio, scritte intorno al 1529 in due libri e rimaste incompiute. In esse Guicciardini sottopone ad analisi minuta singole affermazioni o particolari nuclei teorici di Machiavelli. Si tratta di riflessioni volte piuttosto a criticare e decostruire il pensiero di Machiavelli che ad avanzare proposte alternative o a costruire un diverso sistema concettuale. Nonostante la comune visione laica, fondata sulla “realtà effettuale”, mentre Machiavelli, in una prospettiva classicistica, tende a “parlare generalmente” e a stabilire regole universali basandosi anche sulla lezione della storia, Guicciardini rimane ancorato a un empirismo assoluto e radicale: egli crede solo all’esperienza e alla necessità di giudicare caso per caso, in quanto ogni evento o fenomeno storico è unico e irripetibile e non può quindi essere analizzato a partire da categorie astratte e universali. Machiavelli, inoltre, pur consapevole del limite opposto dalla Fortuna all’agire umano, crede tuttavia nella storia come costruzione razionale e umana e trova nella virtù il fondamento e la legittimazione della libertà dell’uomo e della sua capacità attiva ed energica di costruire e modificare la storia secondo i suoi fini e i suoi progetti. La meditazione del Guicciardini parte, invece, dal riconoscimento amaro dell’incapacità, da parte del singolo, di riuscire a modificare il corso degli eventi e di ridurli in schemi razionali. C’è in lui la coscienza di un’estrema complessità e irrazionalità del reale, che non si lascia esaurire da nessuna formula. Vano è dunque pretendere di stabilire norme generali d’azione, dato che una realtà sempre imprevedibile sconvolge gli schemi in cui vorremmo costringerla. Alla virtù del Machiavelli egli sostituisce pertanto la “discrezione”, che è la capacità di analizzare e comprendere i fatti singoli nelle loro infinite sfumature, per poter inserire la propria azione nel loro corso tumultuoso, senza venirne travolti, salvaguardando il proprio “particulare”, cioè il proprio interesse, i propri scopi e progetti. Si può in certo modo affermare che, nel suo pensiero, la Fortuna vinca la virtù, e la fiducia rinascimentale nella capacità costruttiva dell’uomo nel mondo appaia ormai in declino. Questo spiega perché Guicciardini si dedichi esclusivamente alla storiografia, intesa come ricostruzione e comprensione a posteriori degli eventi e delle loro cause, rifiutando la forma del trattato politico, inteso, come in Machiavelli, come codificazione di un sistema organico di leggi e norme universali finalizzate a guidare e sostenere l’azione politica di costruzione della storia. Anche il Guicciardini, come il Machiavelli, crede che l’uomo sia un fenomeno della natura soggetto a leggi fisse ed immutabili, ma, a differenza del grande amico, ritiene che l’uomo sia naturalmente portato più al bene che al male e se fa nella realtà più spesso il male che il bene, ciò è dovuto al fatto che le tentazioni sono tante e la coscienza umana debole, ma ancora di più al fatto che proprio facendo il male l’uomo riesce più facilmente e più spesso a realizzare il proprio tornaconto. Questo tornaconto personale, che il Guicciardini chiama “particulare”, è in effetti la molla che fa scattare tutte le azioni umane: esso il più delle volte corrisponde al benessere materiale, al potere, ma può anche nobilitarsi corrispondendo all’interesse dello Stato, alla gloria, alla fama. Per realizzare il “particulare”, sia in senso politico che in senso domestico, non è possibile rifarsi alla storia e trarre insegnamenti da fatti già accaduti per risolvere i fatti del presente, perché nella storia i fatti non si ripetono mai: anche quando una circostanza presente sembra riflettere un episodio della storia passata, in effetti la situazione attuale è ben diversa, diversi essendo gli uomini che si trovano ad affrontarla. Quindi non c’è da sperare in una scienza della politica, ma contare esclusivamente sulla propria “discrezione”, cioè una qualità innata nell’uomo, ma che solo pochi posseggono in misura rilevante, che fornisce la capacità di intuire di volta in volta la scelta da operare, la strada da percorrere, per realizzare il proprio vantaggio e difendersi dai pericoli della vita. Però se la storia non può darci leggi universali di comportamento, la nostra esperienza personale può bene affinare in noi la “discrezione”. E l’uomo deve attenersi esclusivamente al suo rapporto contingente con la realtà, perché è vana e semplice esercitazione mentale il volersi interessare di cose soprannaturali ed invisibili. E nel rispetto di questa considerazione, egli condivide col Machiavelli la necessità di badare solo alla “verità effettuale”, ma della situazione italiana contemporanea dà una valutazione diversa: per luì non è possibile fare dell’Italia di quel tempo uno stato unitario, e propende invece per una confederazione di piccoli stati, possibilmente retti a repubblica ma governati comunque da “savi”. Egli è contrario al potere temporale dei papi (anche se li servì per proprio tornaconto) e condivide col Machiavelli il desiderio di vedere l’Italia liberata dagli stranieri. Significativo a tal riguardo è il seguente pensiero del Guicciardini: “Tre cose desidero vedere innanzi della mia morte; ma dubito, ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinata nella città nostra; l’Italia liberata da tutti e barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi preti”. Non è un caso che il Guicciardini – a differenza del Machiavelli – fece una notevole carriera politica. Ma chi è stato più “premiato” dalla storia? Chi dei due ha potuto beneficiare di una maggiore realizzazione storica dei propri ideali? Si può forse dire che il Guicciardini fosse più “realista” del Machiavelli quando pensava di potersi opporre, con le sole risorse del papato o di una Lega provvisoria dei maggiori Stati italiani, alla potenza di nazioni come la Spagna o la Francia? Era forse più realista del Machiavelli quando rifiutava l’idea di costituire un esercito non mercenario? Nella fattispecie la politica del Guicciardini ha avuto più successo di quella del Machiavelli, ma non si può dire che abbia avuto anche più ragioni. L’ideale del Machiavelli, relativo all’unificazione nazionale, non è forse fallito anche per l’opposizione di politici miopi come il Guicciardini? Chi ricordiamo oggi più volentieri: il passionale lungimirante Machiavelli o il freddo calcolatore Guicciardini? La prospettiva di lungo periodo ha dato ragione al Machiavelli, anche se il rifiuto ostinato, trisecolare, di accettare il suo ideale, ha fatto regredire così tanto l’Italia, rispetto ad altre nazioni europee, che ancora oggi ne risentiamo. Se poi volessimo fare i sofisti, dovremmo mettere in discussione anche il valore contestuale del presunto “realismo” del Guicciardini, quello che lui praticava nell’ambito ristretto delle circostanze particolari, dei casi specifici. Egli infatti s’è sempre comportato come un aristocratico, lontano dalle masse popolari: ad es., quando ha cercato di spiegarsi i motivi della profonda crisi di Firenze, ne ha attribuita la responsabilità ai grandi personaggi della politica, alle rivendicazioni dei ceti subalterni, alla sfortuna… E’ forse questo il vero “realismo”? Si può essere allo stesso tempo “realisti” e “opportunisti”? L’opportunismo di chi pensa solo al “particulare” è forse una garanzia di vero successo? Il suo unico trattato teorico-politico è il Dialogo del reggimento di Firenze, composto tra il ’21 e il ’25. In esso Guicciardini auspica per Firenze un governo “misto”, sul modello di quello oligarchico-veneziano, che superi i difetti della signoria e del regime repubblicano. Prevede due magistrature formate dai rappresentanti delle famiglie più illustri e più ricche, aventi al vertice un gonfaloniere nominato a vita. L’aristocrazia che Guicciardini difendeva era quel ceto di magnati, astuti e intelligenti, che avevano saputo assumere il controllo dei traffici commerciali e delle industrie, alleandosi con la nuova borghesia mercantile e finanziaria. Per lui questa classe era la sola ad essere esperta nell’arte di governare, sia a livello politico-amministrativo che militare. Guicciardini è un politico conservatore: guarda con sospetto e diffidenza i tumulti popolari (ad es. quello dei Ciompi), l’assolutismo del principe e ritiene irrealizzabile l’idea di uno Stato nazionale. La sua preoccupazione principale è quella di conservare i vecchi istituti comunali e corporativi. I Ricordi politici e civili: sono oltre 400 pensieri di natura politica e morale, di varia lunghezza, composti tra il ’25 e il ’30, destinati ad esser letti dai familiari e dai discendenti (pubblicati, come molte altre sue opere, solo verso la metà dell’Ottocento). In essi Guicciardini ribadisce il principio rinascimentale dell’autonomia della politica, totalmente separata dalla religione e dalla morale; sostiene che la storia è un prodotto degli uomini, non della provvidenza, anche se la fortuna ha una parte rilevante nelle vicende degli uomini. Gli uomini che fanno la storia sono quelli che hanno intelligenza, forza, astuzia, abilità, autorità. Il popolo non fa “storia”. Gli avvenimenti storici sono indecifrabili se riferiti a uno schema teorico predefinito col quale li si vorrebbe interpretare. Nella storia le eccezioni, le circostanze fortuite, particolari, i necessari “distinguo” rendono impossibile una comprensione globale o generale della realtà. I fatti vanno compresi nelle loro circostanze particolari, caso per caso. La virtù che il politico deve possedere, a tale scopo, è la discrezione, che è la capacità di discernere con acume, sulla base dell’esperienza, i singoli fatti (prevale dunque l’analisi sulla sintesi). In questo senso il Guicciardini si oppone al Machiavelli: non accetta il richiamo costante agli antichi (perché secondo lui il passato non può aiutarci a vivere il presente, non essendoci una concatenazione logica dei fatti storici), né apprezza lo sforzo di trarre dalla storia delle leggi universali. I fatti non possono essere ricondotti entro una visione unitaria, né si può risalire dal particolare al generale: il futuro resta imprevedibile. Di qui il forte pessimismo intellettuale del Guicciardini, che si manifesta anche nella concezione dell’uomo: a suo giudizio, infatti, la natura umana è fondamentalmente incline al male, almeno nel momento stesso in cui accetta di vivere in società. E questa inclinazione è immutabile. Alla politica idealista e di ampio respiro del Machiavelli, Guicciardini oppone una politica che lui definiva “realista” ma che sarebbe meglio definire “opportunista”: la politica di quel diplomatico, esperto nell’arte di negoziare e consigliare, molto attento al proprio “particulare”, cioè alla propria dignità, reputazione e carriera politica (ad es. in religione egli avrebbe voluto farsi luterano, ma restò cattolico; odiava il clericalismo, ma si era adattato a servire il papato). Per “particulare” non si deve intendere il tornaconto materiale. Nelle Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1530), Guicciardini contesta che l’unificazione nazionale sia un obiettivo preferibile all’equilibrio tra le varie entità politiche esistenti e sostiene invece che l’autonomo sviluppo delle varie città e signorie, oltre ad essere causa di benessere economico, corrisponde meglio alle antiche consuetudini degli italiani. L’opera più importante, sul piano storiografico, è la Storia d’Italia, in 20 volumi, composta tra il ’36 e il ’39. E’ il capolavoro di tutta la storiografia del ‘500. Tratta gli avvenimenti che vanno dalla discesa di Carlo VIII alla morte di Clemente VII. E’ l’unica ch’egli compose espressamente per la pubblicazione. Guicciardini è il primo che raccoglie in un quadro le vicende di tutta Italia, ed è anche il primo che pone a fondamento della narrazione documenti autentici e originali: di qui la sua pretesa imparzialità. La differenza principale fra la sua storiografia e quella del Machiavelli la si riscontra anche nel giudizio che dà della Repubblica fiorentina. Mentre il Machiavelli aveva ricercato nelle passate vicende della città le prove della fragilità del piccolo stato corporativo rispetto alle nazioni europee emergenti; il Guicciardini invece addebitava il declino della città alle passioni e agli errori di singoli e famosi personaggi, vissuti negli ultimi 40 anni, oppure alle pretese delle classi più popolari o addirittura all’influsso negativo della fortuna.
I “Ricordi”
I “Ricordi” sono una nutrita raccolta di pensieri ed appunti sparsi, raccolti da Guicciardini. Massime morali e consigli politici si mescolano in un’opera che manca della sistematicità de “Il Principe” o della stessa “Storia d’Italia” del Guicciardini. Vivamente polemico contro lo stato della chiesa, sotto cui ha servito in alte cariche per molti anni, Guicciardini è stato bollato da De Sanctis per la sua ipocrisia, tesa solo al raggiungimento del proprio “particulare”. Queste sono le principali tematiche affrontate nei “Ricordi”:
VI – La discrezione e l’ingratitudine
L’uomo non può dominare gli eventi, perciò è impossibile dare consigli d’azioni universalmente valide, dettare principi generali e assoluti. Non resta che prender le cose per il loro verso, giudicandole caso per caso, nelle loro infinite sfumature. E’ evidente qui il contrasto con Machiavelli.
XI – L’ingratitudine
C’è nel Guicciardini un senso di nostalgia per gli uomini nobili e puri.
XV, XVI, XVII – Le ambizioni umane
I ricordi furono scritti dopo il ritiri alla vita politica, dopo, cioè, la sua esistenza e tutto il suo lungo prodigarsi gli apparivano nella luce amara dell’insuccesso e della vanità. Alla fine di questo pensiero il prevalente tono pessimistico passa in secondo piano: il desiderio dell’onore e della gloria appare una necessità imprescindibile dell’animo umano. Anche questo è un pensiero autobiografico come quello contenuto nel 15.
XXVIII – La corruzione del clero
La critica del Guicciardini non riguarda in alcun modo il contenuto della religione cattolica, ma si appunta sulla corruzione morale delle gerarchie ecclesiastiche assai evidente in quei tempi, da cui prese le mosse la protesta di Martin Lutero. L’autorità della Chiesa che il Guicciardini vorrebbe vedere sminuita è quella politica, che egli avverte in netto contrasto con gli ideali veri del cristianesimo. Ma Guicciardini mette le mani avanti: “Non combattete mai con la religione, né con le cose che pare che dependono da Dio; perché questo obietto ha troppa forza nella mente degli sciocchi”. (Ricordi, 31)
XXX – La fortuna
Guicciardini afferma, al contrario di Machiavelli, che un sovrano potrebbe salire al trono unicamente grazie alla fortuna a lui favorevole. La fortuna quindi è molto più importante della virtù propria di ogni uomo.
XXXII – L’ambizione
Guicciardini divide l’ambizione in negativa e positiva. Negativa quando, per realizzare i propri progetti chi detiene il potere non si fa scrupolo di calpestare i valori fondamentali dell’uomo (la coscienza, l’onore, l’umanità).
XXXVI, XXXVII – Le relazioni sociali
L’uomo nelle relazioni politiche-sociali deve sapersi porre: la dissimulazione e la menzogna possono servire come strumento utile alla realizzazione dei propri scopi.
XLIV – L’essere e l’apparire
La famiglia deve saper educare il proprio figlio e dargli una buona morale.
LX, LXI – Le “Varie nature degli uomini”
Guicciardini avverte l’estrema complessità del reale e l’impossibilità dell’uomo di dominarlo pienamente, di imprimervi il suggello della propria razionalità; e avverte inoltre l’estrema precarietà del nostro vivere.
Giudizi su Guicciardini
BATTAGLIA (Da Mitografia): “Agli idoli esclusivi dello stato e del principe, in cui il Machiavelli impegnava tutto il reale, il Guicciardini sostituisce il ritmo stesso della storia e della vita e, insieme, dilata la prospettiva all’intera società umana. Il mondo storico e psicologico del Machiavelli, alla fine, può risultare molto semplice e quasi elementare; mentre la realtà del Guicciardini si rivela quanto mai complessa e problematica. Il suo realismo è più autentico, anche se meno generoso.
Leopardi ha detto: “Il Guicciardini è forse il solo storico tra i moderni che abbia e conosciuto molto gli uomini e filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della natura umana, e non piuttosto a una certa scienza politica, separata dalla scienza dell’uomo e per lo più chimerica.”
S’introduce, nel sistema del Guicciardini, il principio della vita e dell’esperienza che sono fatte di compromessi, di espedienti, di controlli lenti e guardinghi, d’infinite circospezioni e simulazioni. E’ questa nuova scienza dell’uomo ad amareggiare il lettore, che vuol sentirsi illuso, e a fare invece del Guicciardini uno dei più grandi scrittori di realismo, senza dubbio il più responsabile rivelatore del disinganno moderno.”
“Mentre il Machiavelli sente la vita e la realtà come una perenne sfida, per il Guicciardini si tratta di una logorante resistenza, che assai spesso mozza il fiato e concede scarse e ingrate soddisfazioni.”
“Forse la maggiore suggestione che ispira la pagina di Guicciardini è che la sua analisi non si limita al campo della politica, ma investe tutta la dimora umana.”
LA “SOSPENSIONE”
“… nessuna cosa è sì trista che non abbia del buono; nessuna sì buona che non abbia del tristo: donde nasce che molti stanno sospesi.” Questa sospensione è il destino dell’uomo e della storia, è l’anima dell’esperienza.
BATTAGLIA (da Le Epoche):
1. Relazione fra Guicciardini e la scuola del realismo toscano. Come Machiavelli.
2. Le “Osservazioni” al Machiavelli: Il Machiavelli non vede le persone, ma i tipi, non considera i fatti ma i loro schemi. Al contrario Guicciardini si immerge nelle cose, le saggia ad una ad una nel loro spessore, le rispetta per se stesse.
Il fatto è che Machiavelli s’interessa di storia per verificare il suo sistema, mentre Guicciardini ha la disponibilità del vero storico (cioè quella apertura e rispetto verso gli eventi, che non vanno forzati o mutilati o gonfiati).
Machiavelli aveva lo stato e il Principe come idoli esclusivi della sua meditazione e alla fine può apparire perfino semplice ed elementare rispetto alla stima complessa e problematica che del reale fa il Guicciardini.
Rifiutandosi di schematizzare bene e male, coscienza e interesse, utile e dannoso (rifiutandosi di dire per regola che tutti gli uomini sono così o così, che chi si comporta così necessariamente otterrà il tale risultato), egli cerca di liberare la dottrina del Machiavelli da quello che di meccanico e automatico essa ha.
PASQUINI (Da Introduzione ai Ricordi): “Frutto del crollo di ogni illusione politica e di una coatta rinuncia alla milizia politica, i Ricordi del 1530 rivelano davanti alla realtà lo sguardo disincantato e lucido del moralista di razza. Non è un caso che nei momenti in cui la storia si richiamerà a certi eterni princìpi della psicologia e del comportamento umano ritorneranno i temi e le parole stesse dei Ricordi…”
“un laborioso itinerario ha condotto Guicciardini a fondare, nei Ricordi, un nuovo genere letterario, quasi senza precedenti nella letteratura occidentale. In Italia purtroppo i Ricordi non faranno scuola… diversamente in Francia: Montaigne, La Rochefoucauld, Pascal, la Bruyère e B. Graciàn in Spagna e Francis Bacon in Inghilterra.”
“la vera differenza tra Machiavelli e Guicciardini sta fra il senso della misura, connaturato in Guicciardini e gli estremismi ideologici del Machiavelli.”
“Pare, insomma, che si rinnovi tra i due l’antinomia Dante – Petrarca. Machiavelli è della specie di Dante… che giunge senza correggersi alla stesura definitiva ; Guicciardini di quella del Petrarca, la razza degli incontentabili, alla ricerca dell’espressione suprema, insostituibile .
“Proprio dal Machiavelli può prendere le mosse uno studio dei motivi conduttori dei Ricordi.” . Allo sporadico relativismo del Machiavelli qui si oppone un relativismo integrale, per finire col senso di una fatalità dell’errore umano o dell’imperfezione terrena, che approda a una percezione intrepida del “limite” esistenziale. Con ciò giungiamo all’immagine più autentica del Guicciardini, che pure convive con altre (addirittura col desanctisiano uomo del Guicciardini)”… “Ma il Guicciardini più grande è quello che scuote da sé il ‘particulare’, la diplomazia, il senso del limite per affisarsi con sguardo incommosso sui grandi temi dell’esistenza, ormai “pervenuto a rendersi conto del complesso gioco delle vicende e delle passioni umane” (Fubini). Allora denuncia ogni mistificazione di libertà (66) o boria di cultura (47), sviluppa antichi temi cristiani sulla violenza del tempo e la lenta consunzione delle cose terrene (34, 71, 139), tesse un elogio non erasmiano della pazzia (136, 138) o scruta, precorrendo Leopardi, l’angoscia esistenziale dell’intelligenza (60). Infine attinge il sublime con tre ricordi (160, 161, 189) che interrogano il mistero della morte vicina, che gli uomini non avvertono quasi, per un’energia di conservazione intrinseca alla vita, a garantirne i ritmi eterni.”
SAPEGNO: “Questo rinchiudersi del Guicciardini nel solitario culto del suo ‘particulare’ con tutti gli accomodamenti e i compromessi morali che esso comporta, spiega il senso di antipatia che… doveva suscitare… Ma occorre riconoscere che c’è qualcosa di grande in questa affermazione assoluta e consequenziaria… dell’utile individuale, perseguito … non per desiderio di guadagno e ambizione di onori, ma per una sorte di fermissima convinzione e col tormento di chi talvolta amerebbe illudersi…”.
“La sua norma è di non cozzare mai contro il muro della realtà e di non andare in cerca dell’impossibile… L’atteggiamento del ribelle, del profeta, dell’eroico difensore delle cause perdute… non fa per lui. Dietro questa amara saggezza sta un fondo di dura esperienza personale, di fatica, di sfiducia, di malinconia.”
“L’elogio del particulare è stato troppo spesso frainteso…: è certo che molti uomini non cognoscono bene quale sia l’interesse suo… Non si deve arbitrariamente separare la dottrina del particulare da questo alto senso dell’onore, che ne costituisce il fondamento supremo e la ragione intima.”
UGO GROZIO
IL GIUSNATURALISMO
Con il termine “giusnaturalismo” – che deriva dal latino ius , diritto e natura – ci si riferisce alla dottrina secondo cui il diritto ha un fondamento naturale indipendente dall’ autorità politica che emana la singola legge e le conferisce una determinata configurazione storica o positiva. Nell’antichità e nel Medioevo, periodi nei quali il giusnaturalismo trovò espressione soprattutto nello stoicismo, nella Patristica agostiniana e nella Scolastica tomista, la “natura” in cui si trova inscritto il diritto è lo stesso ordine ontologico e teologico del mondo. Nel Sei-Settecento il giusnaturalismo assume una forma moderna – cui corrisponde la più esatta denominazione di “scuola del diritto naturale” – nella quale il diritto viene fondato non più sulla natura in generale, ma su quella umana in particolare, e quindi sulla ragione. Il diritto naturale perde il carattere metafisico-teologico (e quindi oggettivo, inscritto nelle stesse cose), per diventare diritto razionale (e quindi soggettivo, non nel senso di variare da individuo a individuo, poichè la ragione è unica, ma di essere proprio soltanto del soggetto umano) . L’università della ragione permetteva così di di individuare diritti naturali fondamentali e inalienabili per tutti gli uomini; mentre l’ autorità della ragione come fonte di conoscenza vera conferiva al giusnaturalismo una incisiva funzione critica nei confronti delle legislazioni storicamente realizzate. Il diritto positivo che nasce dalla costituzione dello Stato e dall’esercizio della sovranità potrà infatti essere una specificazione di quello naturale, oppure una sua integrazione nelle questioni per esso indifferenti, ma in nessun caso potrà entrare in contraddizione con esso, negando i diritti fondamentali dell’ uomo. Al giusnaturalismo moderno sono strettamente connesse le teorie dello stato di natura e del contratto sociale. In primo luogo, se il diritto ha un fondamento naturale, esso deve fare riferimento a uno stato di natura (reale o ideale) che preceda la costituzione della società civile. In secondo luogo, in quanto opposta allo stato naturale, la società civile (o Stato) esprime una condizione artificiale e convenzionale, nascendo da un patto o contratto. Quest’ultimo contiene in sè due momenti (che possono essere intesi in senso logico o cronologico): un patto di unione (pactum unionis) con cui gli individui stabiliscono di entrare in una società politica e un patto di sudditanza (pactum subjectionis) con cui essi si sottomettono a un’ autorità sovrana, definendo contemporaneamente la forma di governo in cui si dovrà esprimere (monarchia, aristocrazia, democrazia). Al cuore della tradizione giuridico/politica dell’Occidente, troviamo la contrapposizione tra il “positivismo giuridico” e il “giusnaturalismo”. Il primo è quella concezione secondo cui le norme che organizzano la convivenza sono il frutto della volontà di chi è superiore, ossia di chi ha il potere di fatto; in questo senso, non vi sono mala in se, ma vi sono soltanto mala quia prohibita. Per il giusnaturalismo, oltre alle leggi prodotte dalla volontà di chi comanda, vi sono anche leggi naturali, che sono superiori alle prime e da cui anzi queste ultime dovrebbero discendere (nel caso in cui si oppongano ad esse, diventa legittima la ribellione, secondo certe correnti di pensiero) tali leggi per natura sono designate dai Greci con l’espressione agrafoi nomoi
, ovvero “leggi non scritte”. Per meglio intendere questa distinzione che sta al cuore della tradizione giuridica dell’Occidente, possiamo guardare all’Antigone di Sofocle: lo scontro tra Antigone e il sovrano Creonte per la sepoltura del caduto in battaglia simboleggia appunto uno scontro tra leggi naturali e leggi positive (oltrechè, nella lettura hegeliana, uno scontro tra famiglia e Stato), nella misura in cui Creonte proibisce la sepoltura sulla base delle leggi da lui fatte valere, mentre Antigone ad esse si oppone in nome di una legge non scritta anteriore e più alta di quella di Creonte.
IL PENSIERO DI GROZIO
Il punto nodale nel passaggio dal giusnaturalismo classico a quello moderno è dato dalla riflessione filosofica dell’olandese Ugo Grozio (Huig Van Groot), nato a Deft nel 1583 e morto a Rostock nel 1645. Nel suo De jure belli ac pacis (Il diritto della guerra e della pace), del 1625, che rappresenta il vertice del suo pensiero, egli fonda il diritto esclusivamente sulla ragione umana. Il punto di partenza del suo discorso sta nell’identificazione di ciò che è naturale con ciò che è razionale, identificazione fondata sull’assunto che la natura dell’uomo è la ragione. Su di essa, è fondato il diritto naturale, che è appunto il comando della ragione che indica il valore o il disvalore morale di un’azione mostrando l’accordo o il disaccordo di essa con la natura razionale dell’uomo. Le azioni prescritte dalla ragione sono obbligatorie di per se stesse, e dunque sarebbero buone anche nel caso in cui Dio non vi fosse o – come credevano gli Epicurei – non si curasse delle vicende umane. In realtà, esse sono comandate o vietate da Dio appunto perché sono razionali o irrazionali di per se stesse, mentre le azioni che sono oggetto del diritto positivo umano e divino diventano lecite o illecite solo in virtù delle leggi che gli uomini o Dio stabiliscono. Ciò che è conforme alla natura razionale dell’uomo, è giusto e moralmente necessario; ciò che invece se ne discosta è necessariamente ingiusto e riprovevole. La morale e il diritto trovano quindi una giustificazione razionale autonoma, la quale non dipende più da alcuna fondazione di tipo metafisico o teologico: con un’affermazione divenuta celebre, Grozio asserisce che il diritto naturale conserverebbe la sua validità anche se, per assurdo, Dio non esistesse. Ma in realtà non può esservi alcuna divergenza tra le indicazioni della ragione e la volontà divina: ciò che è prscitto dal diritto naturale presenta lo stesso grado di necessità delle proposizioni matematiche e deve pertanto essere voluto anche da Dio Grozio ammette la teoria contrattualistica secondo la quale ogni comunità umana è fondata su un patto originario. Tuttavia egli rigetta la tesi di Althusius secondo cui la sovranità spetterebbe soltanto al popolo: Grozio ritiene infatti possibile che il contratto abbia potuto trasferire la sovranità dal popolo al principe, ma non esclude che tale trasferimento sia stato fatto a determinate condizioni, che il principe è tenuto a rispettare. Se non le rispetta, il contratto si dissolve e il popolo acquista il diritto di resistenza ai voleri del principe. Come vi è un diritto naturale, così esiste una religione naturale, fondata anch’essa sulla sola ragione. Questa religione è interamente vera, comune a tutte le età e si riduce a quattro princìpi: a) Dio esiste ed è uno; b) Dio non si identifica con le cose visibili, ma è superiore ad esse; c) Dio governa e giudica tutte le cose umane; d) Dio è l’artefice di tutte le cose naturali. A questi princìpi fondamentali, le singole religioni positive aggiungono altre nozioni che non hanno lo stesso fondamento razionale. Anche la religione cristiana, pertanto, non può essere creduta in base ad argomenti naturali, ma solo sul fondamento storico della resurrezione e dei miracoli. Ne deriva che non si può punire come delitto l’eresia religiosa. Bisogna tenere a mente che Grozio stesso era stato condannato al carcere a vita, nell’Olanda calvinista, per essersi professato arminiano, ossia seguace di Giacomo Arminio, un aspro critico della dottrina della predestinazione. Solo la fortunosa evasione dal carcere e la fuga in Francia rese possibile a Grozio di scrivere le sue opere e di farsi alfiere in Europa dei princìpi di libertà e tolleranza che ispireranno più tardi il tedesco Samuel Pufendorf (1632-1694) ed altri numerosi sostenitori del giusnaturalismo.
BALDESAR CASTIGLIONE
VITA E OPERE
Nato a Casatico (Mantova) nel 1478, studiò a Milano alla scuola di Merula e di Calcondila. Nel 1499 tornò a Mantova al servi zio di Francesco Gonzaga. Nel 1504-1513 fu alla corte di Urbino, presso Guidubaldo da Montefeltro e Francesco Maria della Rovere. Nel 1513 fu ambasciatore a Roma dove conobbe Raffaello. Rientrato a Mantova nel 1516, rimasto vedovo, si fece prete. Fu nominato nel 1527 nunzio apostolico a Madrid. Dopo il saccheggio di Roma del 1527, fu accusato ingiustamente dal papa di non aver saputo prevedere l’evento. Morì a Toledo nel 1529, di febbre pestilenziale. Si occupò soprattutto di politica e diplomazia, ma anche di letteratura. Scrisse l’egloga Tirsi (1506), il prologo alla “Calandria” di Bibbiena (1513), rime latine e italiche. Ci resta di lui anche un grosso epistolario. La sua fama è legata a Il libro del cortigiano, trattato in quattro libri in forma dialogica. Scritto nel 1513-18, fu pubblicato nel 1528. Nel signorile ambiente della corte di Urbino si svolgono, in quattro serate, dei dialoghi in cui si disegna l’ideale figura del perfetto cortigiano: nobile di stirpe, vigoroso, esperto del le armi, musico, amante delle arti figurative, capace di comporre versi, arguto e sottile nella conversazione. Tutto il suo comportamento doveva dare impressione di grazia e eleganza. Simile a lui la perfetta “dama di palazzo”. Entrambi liberi dalle passioni amorose e devoti di quell’amore, da Castiglione stesso sperimentato per Isabella Gonzaga, che trapassa dalla bellezza fisica al la contemplazione della bellezza morale, che trascende l’umano. Trattato edonistico tendente a ricamare un ideale di vita, nel momento in cui altre erano le regole seguite dai prìncipi sia nella pratica quotidiana che in quella volta alla conquista e all’ampliamento del potere (vedi Machiavelli), nel momento in cui cioè era esclusa qualsiasi possibilità di direttiva o di inter- vento da parte di altri che non fosse il singolo signore nel disporre della morale e della prassi politica. E non a caso scritto da un funzionario vissuto a contatto con gli ambienti del nord Italia (più difficile sarebbe stato per un fiorentino, in quegli stessi tempi, occuparsi di un campo come questo), dove il fenomeno della signoria era consolidato da più tempo. Non un trattato solo di comportamento, anche se non mancano echi dei trattati quattrocenteschi del genere, ma stilizzazione di quella società aristocratica che nei fatti si mostrava poi, necessariamente, diversa e contraddittoria. Serve così a comprendere non una realtà d’epoca, ma le aspirazioni di una classe a una vita contraddistinta da un elegante ordine razionale, una idea di bellezza che desse alla vicenda terrena un significato superiore ed eterno. Il trattato ebbe immediata e generale fortuna in Europa. E servì da modello, anche come prosa. Benché non conforme ai precetti di Bembo anche nella prosa si espone nel “Cortigiano” un ideale di compostezza armoniosa: elevatezza di impianto generale, ricca e fluida, pieghevole a registri diversi di scrittura, tonalità, colore.
IL PENSIERO
Pienamente inquadrato in quell’ormai sorta modernità, che si è svincolata dalla metafisica e dalla religione, convertendosi – come nota Hegel – dal cielo alla terra, il pensiero di Baldesar Castiglione presenta un profondo rilievo filosofico, soprattutto se opportunamente inserito nel contesto culturale in cui è maturato: l’interesse metafisico per che cosa sia realmente l’uomo è stato congedato e surclassato dalla nuova e antimetafisica categoria dell’utile e del mondano, dell’individuale di contro all’universale. Tratto saliente del pensiero moderno (che è e rimane antimetafisico) è, in campo pratico, l’assunzione di una riflessione mirante a calcolare gli interessi terreni e mondani della collettività, e non stupisce dunque che all’origine del moderno vi siano non già trattati, bensì manuali, quale è Il principe di Machiavelli o Il cortegiano di Baldesar Castiglione: ci troviamo cioè di fronte a guide pratiche, che segnano il mutato indirizzo di pensiero. Se per Machiavelli il fine a cui è orientata ogni nostra azione è la preservazione di se stessi, in Castiglione la preservazione diventa “cortegiania”, ossia il soggiornare a corte piacendo al principe, ed anch’egli esorta il lettore ad una riflessione di calcolo: Machiavelli ci invita a fare come gli arcieri prudenti (Il principe, cap. VI), che calcolano con precisione la traiettoria delle frecce, scagliandole tanto più in alto quanto più è distante il bersaglio; Castiglione, invece, esorta il suo apprendista cortigiano ad un calcolo analitico e sistematico, a cui non sfugga nulla di ciò che deve essere fatto e detto: “consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e ‘l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosí con queste avvertenzie s’accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir vole” (Il cortegiano, II, 7). Castiglione, dunque, teorizza quale debba esser l’arte di chi sta a corte descrivendola anzitutto come arte della conversazione: il compito del “cortegiano” è infatti primariamente quello di piacere al principe e la conversazione è appunto uno degli strumenti per generare tale piacevolezza, il torneare con motti ingegnosi, il dispiegare facezie, arguzie e giochi di parole, inscenando un “gioco ingegnoso” che permetta di conversare amabilmente. E tale conversazione è distinta dall’oratoria del filosofo platonico/metafisico: “né io voglio che egli parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle, secondo il tempo”; non è un caso che uno dei protagonisti de “Il Cortegiano” sia Pietro Bembo, il più grande petrarchista rinascimentale, depositario della concezione platonica dell’amore: egli – nell’opera di Castiglione – rappresenta il tipico metafisico e si avventura in un discorso platonizzante, finchè non è interrotto da Cesare Gonzaga, che lo mette in guardia facendogli cortesemente notare che a parlare in maniera così elevata si rischia di far la fine di Icaro, al quale – volando troppo vicino al sole – si sciolse la cera delle ali e di conseguenza precipitò in mare. Bembo, nel suo argomentare metafisico, pare quasi “astratto e fuor di sé” ed incarna l’universal ragione metafisica in contemplazione del mondo intelligibile, e – non a caso – di lui si dice stava con lo sguardo fisso verso l’alto – quasi rimirasse i cieli iperuranici -, “come stupido”, fino a che la signora Emilia non lo afferra per il vestito e, scossolo, lo fa tornare in sé dicendo scherzosamente: “guardate, signor Pietro, che con questi pensieri rischiate che l’anima si separi dal corpo”. Al di là dell’inevitabile effetto comico della scena, vi è un evidente richiamo del filosofo, perso dietro ai sogni di un visionario in preda di un attacco di delirante metafisica, a ritornare coi piedi per terra, saldamente fissi sul vero mondo. Nelle parole di Emilia (che simboleggiano quelle di Castiglione) si scorge quell’invito a rivolgersi dal cielo alla terra che è tipico dell’età moderna, un volgersi dal sublime al mediocre, pienamente consapevoli dei propri limiti intrinseci: dalle speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se stesse senza giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare mirante ad un piacevole stare insieme, ed è appunto in questo che consiste il vivere in società quale Castiglione lo intende. La conversazione così concepita diventa forma di mediazione di conflitti, un discorrere accademico vagliando i diversi punti di vista per poter in tal maniera risolvere i conflitti tra individui e aspirare ad una pacifica conciliazione. Emerge vivamente il carattere tentativo/ipotetico/congetturale che ha assunto il conversare in età moderna, un discorrere formulando ipotesi, discutendole e, in ultima battuta, trovando la mediazione che le concili: proprio in ciò risiede il tratto distintivo della convivenza sociale, affidata al tatto, così come nel buio si tasta ciò che ci circonda per trovare la strada. Lo stesso Montaigne, in età rinascimentale, quando intitola la sua opera Saggi fa riferimento all’etimologia del termine, legato al “saggiare” ciò che ci circonda, così come si saggia un terreno per appurare che non ceda sotto il nostro peso. Per questa via, il male e il bene metafisicamente intesi come assoluti cedono il passo a ipotesi e a punti di vista che, senza arrogarsi la pretesa di sapere con certezza, vengono a confronto pacificamente. In un contesto di questo genere è allora fondamentale, secondo Castiglione, la “sprezzatura”: “e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”. In pochi (forse anzi nessuno) posseggono la “cortegianeria” naturalmente, giacchè in pochi son dotati dell’arte di inanellare piacevolmente motti di spirito e giochi di parole, ed è per questo ch’essa dev’essere acquisita con arte; ma se è frutto di uno sforzo e deve presentarsi come graziosa, ne segue che lo sforzo che la produce deve essere celato, perché esso non è piacevole a vedersi: la sprezzatura è appunto l’arte di celare l’arte, l’artifizio di dissimulare la simulazione, il far comparire la grazia ma non lo sforzo che l’ha prodotta. In altri termini, la grazia deve diventare come una seconda natura e in chi non la possiede per natura (cioè nella maggioranza dei casi) essa è frutto di calcolo e di simulazione, ma ciononostante deve apparire come se fosse dote naturale. Come esempio tipico di sprezzatura possiamo addurre il caso dell’attore; a tutti noi pare un pessimo attore quello in cui è palese lo sforzo che compie di recitare, ossia quello in cui ci accorgiamo che sta recitando; ci sembra invece un ottimo attore quello che impersona la parte come se fosse la sua vera natura. Per raggiungere la sprezzatura, però, sono possibili due diverse vie, teorizzate – in epoche diverse e posteriori a Castiglione: da un lato, Diderot – nel suo Il paradosso dell’attore – sostiene l’assoluta freddezza dell’attore, asserendo che questi è tale nella misura in cui è freddamente distaccato dai personaggi che impersona; è tale freddezza, infatti, la risorsa che gli permette di celare lo sforzo che egli compie per impersonificare quella data parte. La seconda via è quella percorsa in Russia da Stanislawsky, il quale sosteneva che si diventa ottimi attori solamente se ci si cala nei personaggi impersonificati, identificandosi con essi e in essi scomparendo, a tal punto confondendosi da nascondere lo sforzo che si compie per imitarli. Il contrario della sprezzatura è l’ “affettazione”, che altro non è se non il fallimento della sprezzatura stessa, lo sforzo di essere graziosi che non riesce a celarsi. L’esempio che Castiglione adduce in merito è quello del ballerino che danza “con tanta attenzione che di certo pare vada enumerando i passi”, senza riuscire ad introiettare lo sforzo di esser piacevole. L’affettato è, in altri termini, colui che vuole piacere ma non vi riesce ed è perciò tenuto lontano dalla corte nello stato di natura, impacciato nella sua assenza di grazia; egli, manifestando un evidente ed esasperato sforzo di autocontrollo, rivela un non ancora avvenuto autocontrollo, dimostra di volersi controllare ma di non essere ancora capace a farlo senza darlo a vedere. Letteralmente, “stare a corte” significa “corteggiare”, “fare la corte”, ovvero seguire il principe intrattenendolo ovunque egli si rechi, facendo cerchia intorno al potere: sicchè la corte, per un verso, è il luogo segreto in cui si esercita il potere e, per un altro verso, è il luogo aperto, festivo e solare in cui si pratica la rappresentazione dello stare a corte: è, per dirla diversamente, il potere che da un lato viene esercitato e dall’altro inscena se stesso, cercando in tal maniera la propria legittimazione; ma esso è anche tale da modificare sempre più sensibilmente la convivenza, poiché da una parte la corte legittima – mascherandolo – il proprio potere, ma dall’altra – indossando tale maschera – tempera e modifica il proprio potere stesso. E così la corte rinascimentale segnala un accentramento del potere (il che è centrale per il futuro passaggio all’assolutismo), ma si configura anche come accentramento di consuetudini: “la vita del principe è legge e maestra dei cittadini e forza è che dei costumi di quello dipendano quelli di tutti gli altri”, scrive Castiglione, e tale vita di corte – così concepita – si presenta con tutte le caratteristiche della cortesia. Qualche decennio dopo, Torquato Tasso comporrà dei trattati di divulgazione filosofica che costituiscono un autentico compendio umanistico/rinascimentale: in uno di questi, significativamente intitolato Il malpiglio ovvero della corte – egli riprende temi di Castiglione, arrivando a scrivere quanto segue: “le virtù non tutte ugualmente né sempre si manifestano, ma la magnificenza, la liberalità e quella che si chiama cortesia è dipinta coi più fini colori che abbia l’artificio della corte e del cortegiano; parimenti la virtù del conversare, l’affabilità e la piacevolezza”. La cortesia compendia tutte le virtù ed è l’arte del conversare piacevolmente (in netta antitesi con lo scontro verbale dei singoli); essa si forma a corte e si diffonde gradualmente nella società civilizzandola. Il conciliare il principe si sposta così al conciliare i cittadini fuori dalla corte: si deve dunque in ogni caso esser piacevoli e schivare la noia, ma la corte si intrattiene perché si trattiene; emerge cioè sempre più l’arte del padroneggiarsi, giacchè nella misura in cui ci si domina ci si risulta scambievolmente piacevoli e ci si trattiene. Nel Seicento, La Bruyére dirà che “un uomo che sa la corte è padrone dei propri gesti, dei propri occhi, del proprio volto”, ossia sa perfettamente come condursi su quel palcoscenico che è la vita; ma è a corte che si sviluppa la capacità di smussare le differenze e di incorporare le conflittualità, presentandole sotto l’egida dell’etichetta e del protocollo capaci di armonizzare ogni cosa; ed è lì che la forza bruta viene sostituita da quella trattenuta e dissimulata, ed è appunto in ciò che possiamo scorgere la funzione civilizzatrice della cortesia. Ancora La Bruyére sintetizza: “la corte è come un palazzo di marmo: voglio intendere che essa è composta di uomini ben duri ma politi”; come si evince dal testo, la spigolosità degli individui a corte non è eliminata, ma solamente polita, ovvero trattenuta per convenzione; e un poco alla volta le buone maniere diffusesi a corte si divulgheranno nella società e fra i cittadini, producendo quel fenomeno che è l’urbanità, cui è opposta la villania, ovvero l’atteggiamento del villano che sta lontano dalla città e dalle buone maniere. La civiltà, insomma, prende a svilupparsi sul modello della corte, ingerendone le usanze e i costumi: ne è prova lampante il fatto che la civiltà moderna è la civiltà delle cosiddette buone maniere, trasferitesi dalla corte alla città. E come il discorso di Machiavelli non valeva solo per il principe, ma per ogni cittadino, ugualmente quello di Castiglione non è rivolto solo al cortigiano, ma anzi ci invita tutti a diventare cortigiani, ad esser piacevoli con gli altri, intrattenendo la malagrazia e la spiacevolezza dell’egoistica individualità di ciascuno di noi, individualità che la cortesia reprime e dissimula: ma si tratta di qualcosa che si spinge oltre all’ipocrita dissimulare, giacchè si realizza una reale smussatura dell’aggressività, e ciò si attua grazie all’operare dell’arte della cortesia. La funzione civilizzatrice della corte è ribadita da Monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo. Overo de costumi, in cui scrive (XVI): “e queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell’acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini”. Anche per Giovanni della casa la cortesia non elimina, ma ammorbidisce la servitù e la signoria, rendendole più vivibili, proprio come l’acqua ammorbidisce certe erbe in essa immerse.
MONSIGNOR GIOVANNI DELLA CASA
VITA E OPERE
A cura di Giuseppe Bonghi
GIOVANNI DELLA CASALa famiglia dei Della Casa ha le sue origini nel Mugello, la vallata del Sieve nella parte alta alle falde degli Appennini, che in quella zona venivano chiamati “Alpi degli Ubaldini” al confine tra la Romagna e la Toscana, a una trentina di chilometri o poco più da Firenze sulla vecchia via per Faenza. Il Mugello, ricco di borghi e di castelli, nel Medioevo era in gran parte Signoria della famiglia degli Ubaldini; ma era anche la terra di molte altre notabili famiglie fiorentine. Il nome deriva da una località detta la Casa, e un ramo del casato sarà chiamato “da Pulicciano”, dal nome del castello omonimo del Mugello. E veniamo allo stemma: “Alzarono per arme i Signori della Casa un Ulivo verde sopra un monte dello stesso colore in campo d’argento; come si vede in molti luoghi, e fra gli altri, nell’antiche sepolture fabbricate da loro in varie Chiese di questa Città (Firenze, ndr); cioè in Santa Croce nel 1327., e in S. Maria Novella intorno al medesimo tempo; e nella più moderna di S. Croce del 1428. e nelle due di San Lorenzo restaurate dal Padre del nostro Giovanni: sicchè pare che non mutassero mai l’Insegna loro gentilizia, non ostante che quella famiglia non sia stata esente da quelle vicende, che obbligarono molte altre nobili casate a cambiare, non che l’arme, eziandio il cognome”. (Notizie intorno alla vita ed alle opere di M. Giovanni Della Casa, Scritte dal Sig. Abate Gio. Battista Casotti Accademico Fiorentino, e poste in fronte alla Edizione fatta in Firenze da Giuseppe Manni l’anno 1707.)
Proprio in Mugello (molto probabilmente: c’è anche una teoria che lo vorrebbe nato a Firenze o addirittura in Bologna) nacque Giovanni Della Casa da Pandolfo, figlio di Giovanni Della Casa e di Marietta Rucellai, e da Lisabetta figlia di Gianfrancesco di Filippo de’ Tornabuoni e di Lisabetta Alamanni cugina del poeta Luigi Alamanni, poeta di grande fama nella prima metà del Cinquecento. Giovanni fu il primogenito di sei figli: gli seguirono prima Francesco (nato nel 1505 forse a Roma dove morì nel 1541 dopo aver sposato due anni prima Cosa de’ Girolami, sorella di un Raffaello Girolamo duce e Principe della Repubblica Fiorentina) e poi quattro femmine (tre secondo il citato Casotti): Agnoletta, Marietta, Lisabetta e Dianora; tutte andarono spose a nobiluomini fiorentini di chiara fama e un figlio di Dianora (andata sposa a Luigi Rucellai), Annibale, Ecclesiastico e vescovo di Carcassonne, fu nominato erede universale.
Costretto a fuggire dal Mugello, il padre portò Giovanni a Bologna, dove lo lasciò per trasferirsi a Roma, come attestato da uno Strumento del 29 gennaio 1504. Qui lo raggiunse il figlio e qui morì il 19 giugno 1510 Lisabetta che fu sepolta nella Chiesa di San Gregorio. I primi studi, stando a quel che scrive lo stesso Casa in Ad Germanos ( … quella Città mi fu nutrice e mi erudì fin da bambino), li compì a Bologna, e da Roma vi ritornò per studiarvi prima di trasferirsi a Firenze. Qui, dove suo padre aveva fatto ritorno certamente prima del 1524, frequentò le lezioni di Ubaldino Bandinelli, Suddecano fiorentino e poi Vescovo di Montefiascone, ricordato con affetto nel Galateo, e definito, in una lettera del 1532 a Ludovico Beccadelli, “persona di molto discorso e di ottimo giudicio, e pratico”, e infine pianto in una triste Elegia che troviamo fra le sue opere latine in cui lo definisce l’Onor dell’Italia. A Bologna fu mandato per seguire i corsi di diritto, ma l’amicizia ivi contratta con alcuni vivaci ingegni Ludovico Beccadelli, Carlo Gualteruzzi, Giovan Agostino Fanti e forse Francesco Maria Molza, con il quale avrebbe istituito in seguito più stretti legami a Roma) e ancor più la nativa disposizione per gli studi letterari, lo indussero a frequentare le lezioni di Pietro Pomponazzi e, con vero e proprio entusiasmo, quelle di Romolo Amaseo, docente di retorica e poesia nell’Università bolognese.
Nel 1526, rompendo con il diritto e con i progetti e gli schemi mentali del padre, fuggì da Bologna e si ritirò con l’amico Beccadelli in Mugello, per dedicarsi, lontano da ogni distrazione, all’approfondita lettura delle opere di Virgilio e di Cicerone. Nel 1527 si recò a Padova (dove rimase fino al 1529) per apprendervi il greco, che studiò sotto la guida di Benedetto Lampridio, maestro, in tale disciplina, anche del Berni. Avvalendosi della mediazione del Lampridio e di Trifone Gabriele entrò allora in rapporto con il Bembo. Nel 1528 pubblicò a Venezia le Terze rime (ristampate poi presso Curtio Navo nel 1538), l’opera che avrebbe contribuito non poco a vanificare, per il contenuto osceno, la sua futura aspirazione al cappello cardinalizio (quando, in un’età assai mutata per i rigori della riforma cattolica, certi trascorsi non sarebbero apparsi proprio irrilevanti). Fu a Roma nel 1529 e a Firenze (dove ottenne il titolo di “Chierico fiorentino” e il canonicato nella chiesa di San Niccolò) nel 1530-’31.
Tra la fine del 1531 e la primavera del ’32 soggiornò a Padova, frequentandovi le lezioni di greco e di latino del famoso maestro Lazzaro Buonamici. Non trovandosi peraltro a proprio agio in quell’ambiente fortemente influenzato dalla spiritualità di uomini quali il Priuli, il Pole e il Contarini, ritornò a Roma, dove, ad eccezione di brevi parentesi – come quella toscana, dovuta alla malattia e alla morte del padre (1533), restò fino al 1540.
Seguono gli anni più spensierati e gaudenti della sua vita (1532-’34), nel corso dei quali, con gli amici Molza, Firenzuola e Berni, frequentò l’Accademia de’ Vignaiuoli. Furono anche gli anni in cui scrisse non pochi altri componimenti licenziosi, conquistandosi una certa fama e anche il favore di illustri personaggi, quali il Cardinale Alessandro Farnese, che verrà eletto Papa col nome di Paolo III nel 1534 e che molta parte avrà nella sua vita, avvalendosi anche dell’amicizia e della presenza del Molza.
Proprio in questi anni, comunque la sua vita prese un indirizzo preciso, con la realizzazione di un suo progetto di carriera ecclesiastica. Progetto assecondato, oltre che dall’assunzione degli ordini minori, dalle attestazioni di pentimento per la vita libertina, ricorrenti in alcune sue lettere scritte tra il 1534 e il 1536, nel periodo in cui si diede seriamente agli studi ecclesiastici affiancandoli a quelli umanistici. E certi risultati non si fecero attendere. Ottenuto l’ufficio di chierico della Camera Apostolica il 12 marzo 1537, si accostò, al cardinale Alessandro Farnese. Si colloca in questo contesto la composizione del trattatello misogino in latino ciceroniano Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda, notevole non solo per dottrina e per stile, ma per la riproposizione del tema del pentimento già riscontrato nelle lettere.
Gli venne affidato allora nel 1540 da Paolo III, l’ufficio a Firenze di Commissario Apostolico per le decime, che lo impegnò in varie missioni (svolte con scrupolo e talora anche con durezza) in tutto il territorio fiorentino. E a Firenze l’11 febbraio 1540, oltre ad assolvere ai suoi compiti di esattore, fu ammesso, insieme ad altri illustri personaggi, all’Accademia Fiorentina che proprio in quel giorno lesse e approvò i Capitoli della sua costituzione, decidendo di chiamarsi non più Accademia Fiorentina degli Umidi, ma semplicemente Accademia Fiorentina, sotto gli auspici del Gran Duca Cosimo de’ Medici. In questo periodo s’interessa anche dell’educazione dei nipoti (i figli della sorella Dianora), in particolare di Annibale, cui è forse indirizzato il Galateo.
All’inizio del 1542 lo ritroviamo a Roma, con l’intento di proseguire la sua carriera ecclesiastica e il 27 marzo viene nominato Chierico della Camera Apostolica. Nello stesso periodo gli viene conferito anche l’incarico di curatore della riscossione del sussidio feudale e dei censi di Roma, e, subito dopo, quello di tesoriere pontificio. Il 2 aprile 1544, per i buoni uffici dei cardinali Bembo, Cervini, Del Monte e Farnese, gli viene assegnata la sede arcivescovile di Benevento, dalla quale resterà tuttavia lontano anche dopo la sanzione dell’obbligo della residenza per i vescovi da parte del Concilio di Trento. Le sue ambizioni erano altre. E l’occasione per metterle alla prova gli venne offerta appena quattro mesi dopo, con la nomina di Nunzio Apostolico a Venezia (agosto 1544; in una lettera del 3 agosto già ne parla il Cardinal Bembo in una lettera a Girolamo Quirino): nell’incarico succedeva al patrizio bolognese Mosignor Luigi Beccatelli nominato Vicario di Roma.
L’incarico, particolarmente delicato per i non facili rapporti in materia giurisdizionale fra Curia romana e Venezia, gli consentì di mettere in luce le sue qualità diplomatiche e la sua assoluta dedizione al Pontefice. Difese infatti con energia il diritto del clero ad essere giudicato dai tribunali ecclesiastici, vigilò sul buon andamento del Concilio di Trento, iniziato nel 1545, contrastò con grande determinazione il diffondersi delle idee protestanti. Introdusse a tale scopo a Venezia, nel 1547, il tribunale della Santa Inquisizione e fu incaricato di istruire insieme al Patriarca di Venezia il processo contro Pier Paolo Vergerio il Giovane, vescovo di Capodistria accusato di eresia, che tuttavia non accettò di sottoporsi a un giudice non ancora in possesso degli ordini sacri e gli rinfacciò i trascorsi giovanili attestati dalle terzine burlesche: il Vergerio, sdegnato e intimorito, abbandonò l’Italia ritirandosi in Germania. Sempre nel 1547 fu adoperato dal Papa a sollecitare i Veneziani a stringere un’alleanza col Papa e coi Francesi dopo il caso di Piacenza.
In propria difesa e a ribadire le accuse eli eresia egli pubblicò allora la Dissertatio versus Paulum Vergerium e il carme latino Ad Germanos. Nel 1546 aveva composto invece il trattatello De officiis inter potentiores et tenuiores amicos forse volgarizzato con il titolo Trattato degli uffici communi tra gli amici superiori e inferiori, dettato da quella stessa disposizione, moralistica e didascalica, ch’è all’origine del Galateo. All’esperienza politico-diplomatica della sua nunziatura a Venezia e più in particolare al proposito di indurre la Serenissima a schierarsi con la coalizione di principi organizzata contro Carlo V e la Spagna da Paolo III, è legata l’Orazione per la lega (pubblicata soltanto nel 1667), in cui un fervido antispagnolismo, sorretto, a ben vedere, da un non meno fervido amor di patria, trova modo di esprimersi in una forma solenne, di stampo ciceroniano e boccacciano.
Nel maggio del 1548, fatto ritomo a Roma, pubblicò il primo Indice dei libri proibiti, ottemperando alle deliberazioni del Concilio tridentino. Non fu però compreso – si può immaginare con quanto disappunto dopo tanto adoperarsi – tra i cardinali nominati nel corso dello stesso anno da Paolo III, che morirà il 10 novembre 1549 e verrà sepolto in San Pietro in un mausoleo opera di Guglielmo Della Porta. Successore di Paolo III fu Giovan Maria de’ Ciocchi del Monte che venne eletto l’8 febbraio 1550 e assunse il nome di Giulio III; nel 1550 scrive l’Orazione a Carlo V imperadore per la restituzione della città di Piacenza, in appoggio delle mire di Ottavio Farnese che con Paolo III prima e Giulio III poi, pur con qualche contrasto, aveva formato un ducato di Parma che avrà vita per circa due secoli.
Il nuovo Pontefice è ostile al Cardinal Farnese, tradizionale protettore del Della Casa, che fu perfino costretto ad allontanarsi da Roma per evitare guai maggiori. Anche il Casa, dopo aver venduto il suo Chiericato di Camera per diciannovemila scudi d’oro, dopo aver fatto il suo testamento, andò via da Roma. Il testamento, rogato il 30 Maggio 1551, lascia vari legati alle sorelle e ai nipoti e istituisce, come abbiamo detto, il nipote Annibale Rucellai, figlio della sorella Dianora, erede universale in sostituzione dell’altro nipote, Orazio fratello dello stesso Annibale, che, sposato con Camilla Guicciardini, sarà avo di quel Rucellai che rimarrà celebre per gli Orti Oricellari di cui parlerà Francesco Redi nel suo Ditirambo di Bacco ed Arianna. Giulio III, dopo avergli revocato la nunziatura veneta, lo deluse poi nelle sue aspettative offrendogli la nunziatura in Francia. Il Della Casa si ritirò, allontanandosi da Roma,
Di là dove per ostro e pompa d’oro
Fra genti inermi ha perigliosa guerra,
Fuggo io mendico e solo, e di quella esca
Ch’i’ bramai tanto, sazio, a queste querce
Ricorro, vago omai di miglior cibo,
Per aver posa almen questi ultimi anni.
Così spiega il suo allontanamento da Roma e dalla vita pubblica ed ecclesiastica il Casa, ritirandosi a vita privata, soggiornando dapprima a Venezia (l551-1553) e quindi in una solitudine non priva del conforto degli studi, nell’Abbazia di Nervesa sul Montello, presso Treviso (1552). Qui compose il Galateo e molte e delle sue rime più belle (1553-1556), notevoli, oltre che per certi esiti tematici connessi al ripensamento della sua biografia, per la peculiarità di una tecnica – quella dell’enjambement – rappresentativa di una svolta, stilistica e di gusto nella storia del nostro petrarchismo cinquecentesco. È in questo periodo che scrive anche una Vita Petri Bembi, morto il 18 gennaio 1547, che era stato un amico oltre che un modello per la sua attività letteraria e per la carriera ecclesiastica, pur senza raggiungere, come Bembo, mai il cardinalato, un’operetta costruita secondo il consueto schema dell’elogio classico e umanistico; e una Vita Gasparis Contareni, la biografia dell’amico Contarini, nella quale pone una particolare attenzione alle qualità diplomatiche del nobile veneziano.
Ma la fama del Casa non diminuì lontano da Roma, anzi si estese ancora di più, tanto che il nuovo pontefice Paolo IV Carafa, eletto dopo il brevissimo pontificato di Marcello II, lo invitò, sempre per consiglio del Cardinale Alessandro Farnese, di nuovo a Roma nell’aprile del 1555 con l’incarico di Segretario di Stato della Santa Sede. L’invito, a quanto pare fu piuttosto un ordine, perché il Casa ne avrebbe fatto volentieri a meno, non solo perché le condizioni della corte papale diventavano sempre più burrascose, ma soprattutto perché la sua salute (soffriva di gotta) negli ultimi anni si era andata sempre più aggravando. Il Casa diviene così il consigliere privato del Papa insieme a Silvestro Aldobrandini e tale era la sua importanza che tutti avrebbero giurato sulla sua nomina a cardinale.
Ma la delusione, già provata nel 1548 per non essere stato incluso nella lista dei nuovi cardinali nominati, divenne cocente la mattina del 20 dicembre, quando seppe che non era nel numero dei sette nuovi Cardinali. La meraviglia fu generale, ma della mancata promozione non si appurarono veramente le cause; in alcuni dispacci fra i regnanti del tempo si adombrò l’ipotesi, come afferma il citato Casotti, che il Papa non volle nominare cardinale nessuno di coloro che gli erano stati proposti, e la nomina del Casa era stata caldeggiata, oltre che dai Farnese, addirittura dal re di Francia. La tesi del Casotti è supportata da una lettera scritta dai cardinali di Loreno e di Tornone al re di Francia il 21 Dicembre 1555 e pubblicata fra le Lettere e Memorie di Stato, raccolte da Messer Guglielmo Ribier, e stampate a Blois l’anno 1666 in fol. a c. 620. Nella stesso lettera, afferma ancora il Casotti, è contenuta la promessa fatta dal Papa al Re di promuovere Monsignor della Casa alla prima creazione di Cardinali, dopo di aver già udite ed esaminate tute le accuse dedotte contra di lui: Et pour cela, Sire, il s’est resolu, comme il nous a prié de vous escrire, s’estant fait cette promotion, de faire (Cardinaux) a la premiere Messieurs de S. Papoul (questi era Bernardo Salviati, che fu poi il secondo dei tre cardinali di questa famiglia) et de la Case… Ma alla nuova nomina di Cardinali, che avverrà il 15 Marzo 1557, il Della Casa non sarà presente.
La mancata nomina aggravò le sue già precarie condizioni di salute; queste lo costrinsero ad accettare l’invito del Cardinale Giovanni di Pierantonio de’ Ricci, detto il Cardinale di Montepulciano, che lo ospitò in uno dei suoi palazzi romani. E a Roma, ma secondo altri a Montepulciano, morì alle ore 21 del 14 novembre 1556. Sulla sua tomba, nella nobile cappella dei Rucellai nella chiesa di S. Andrea della Valle in Roma, fu posto questo Epitaffio:
D. O. M.
JOANNI CASAE
ARCHIEPISCOPO. BENEVEN.
CUJUS. SINGULAREM
IN OMNI. VIRTUTUM. AC
DISCIPLINARUM. GENERE
EXCELLENTIAM
IMMORTALIBUS. ILLUSTREM
MONUMENTIS
AEMULA. NECQUICQUAM
POSTERITAS. ADMIRATUR.
HORATIUS. ORICELLARIUS
AVUNCULO. OPTIME MERITO
POSUIT.
Quasi due anni dopo, nel 1558, a cura di Erasmo Gemini De Cesis, ultimo segretario del Della Casa, vide la luce a Venezia coi tipi di N. Bevilacqua, la prima edizione delle opere del nostro autore, col titolo Rime e prose di Monsignor Giovanni Della Casa, comprendente le Rime, l’Orazione a Carlo V e il Galateo; questa edizione verrà poi accresciuta e corretta nella pubblicazione del Giunti del 1564 e migliorate ancora nella pubblicazione del 1598. L’edizione del ’58 era stata per un po’ tenuta in sospeso proprio per l’avvenuta morte del Casa.
IL PENSIERO
Il trattato del Cinquecento (1550 – 1555) Galateo overo de’ costumi di Monsignor Giovanni della Casa, sulla “buona creanza” e sul corretto comportamento, ha influenzato i costumi di gran parte della società occidentale degli ultimi secoli. Il termine “galateo” deriva da Galeazzo (Galatheus) Florimonte, il vescovo di Sessa che ha suggerito a Monsignor Giovanni della Casa la stesura del trattato. Il libro, che ebbe un largo successo sia in Italia che all’estero, attraverso la voce narrante di un vecchio “idiota” (come è scritto nel titolo completo dell’opera :Trattato di Messer Giovanni Della Casa, nel quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovinetto, si ragiona dei modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo ovvero dei costumi), vale a dire un illetterato che vuole consigliare un giovane, espone tutti quei comportamenti da evitare quando ci si trova in compagnia o in pubblico, suggerendo allo stesso tempo la giusta tenuta di condotta. Seguendo il precetto del rispetto della personalità altrui, il vecchio illetterato mette in guardia il suo allievo da comportamenti che possano sembrare sprezzanti (come la trasandatezza nel vestire) verso gli altri; lo invita nella conversazione a non affrontare argomenti sia troppo frivoli sia troppo complessi perché potrebbero tediare l’uditorio; suggerisce di evitare le moine e i consigli non richiesti; insegna come comportarsi a tavola, come vestirsi, insomma non tralascia nessun aspetto del vivere sociale. Vengono esposte norme sul modo di vestirsi, enumerati tutti i gesti e le cose spiacevoli da evitarsi; è riprovato lo scherno, la beffa, la parola che morde e offende; si suggeriscono i modi del parlare, si consigliano i vocaboli da usare e quelli da evitare. Insomma, biasimando ogni eccesso, l’autore incarna il culto della proporzione proprio del Rinascimento. Ad esempio, così egli si esprime circa le buone usanze a tavola (III):
“Percioché non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma eziandio il ridurle nella imaginazione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone. E perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; né pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata, conciosiaché la cagione per la quale egli se le lava rappresenti nella imaginazion di coloro alcuna bruttura. E per la medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instanzia, pure accostandocela al naso e dicendo:
– Deh, sentite di grazia come questo pute! -;
anzi doverebbon dire:
– Non lo fiutate, percioché pute -.
E come questi e simili modi noiano quei sensi a’ quali appartengono, così il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre et il fregar ferro spiace agli orecchi, e deesene l’uomo astenere più che può. E non sol questo; ma deesi l’uomo guardare di cantare, specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme; dalla qual cosa pochi sono che si riguardino, anzi, pare che chi meno è a ciò atto naturalmente più spesso il faccia. Sono ancora di quelli che, tossendo e starnutendo, fanno sì fatto lo strepito che assordano altrui; e di quelli che, in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel viso a’ circonstanti; e truovasi anco tale che, sbadigliando, urla o ragghia come asino; e tale con la bocca tuttavia aperta vuol pur dire e seguitare suo ragionamento e manda fuori quella voce (o più tosto quel romore) che fa il mutolo quando egli si sforza di favellare: le quali sconce maniere si voglion fuggire come noiose all’udire et al vedere. Anzi dee l’uomo costumato astenersi dal molto sbadigliare, oltra le predette cose, ancora percioché pare che venga da un cotal rincrescimento e da tedio, e che colui che così spesso sbadiglia amerebbe di esser più tosto in altra parte che quivi, e che la brigata, ove egli è, et i ragionamenti et i modi loro gli rincrescano”.
Il Galateo di Della Casa si inquadra perfettamente nell’epoca rinascimentale, di cui è figlio, ossia in quell’epoca in cui centrale è l’invito tutto moderno a rivolgersi dal cielo alla terra (abbandonando le poco note regioni della metafisica e della religione), un volgersi dal sublime al mediocre, pienamente consapevoli dei propri limiti intrinseci: alle speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se stesse senza giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare mirante ad un piacevole stare insieme, ed è appunto in questo che consiste il vivere in società quale Della Casa (e con lui molti altri autori di quest’età) lo intende. Le ambiziose pretese onnicomprensive della metafisica e della religione cedono il passo al più modesto tentativo di imparare a comportarsi bene, in modo tale da risultare graditi alla società di cui si fa parte. La ragione, da onnicomprensiva che era nell’età d’oro della metafisica, assume ora, nell’età moderna, nuove colorazioni: essa diventa ragione calcolatrice e dubitante, rinunciataria delle grandi verità e conquistatrice dei quelle piccole, quali appunto possono essere il sapersi comportare in conformità con le buone maniere. Per Machiavelli il fine a cui è orientata ogni nostra azione è la preservazione di se stessi: in Castiglione la preservazione diventa “cortegiania” e in Della Casa trapassa in “galateo”. Il libro di Della Casa non è il solo a trattare la tematica del galateo e delle buone maniere: l’altro grande autore che se ne occupa è Baldesar Castiglione, col suo celebre Il cortegiano, opera in cui egli insegna come comportarsi a corte, come piacere al principe servendosi abilmente del motteggio e, insomma, come far proprie le buone maniere. A tal proposito, Castiglione aveva escogitato lo stratagemma della sprezzatura, ossia dell’arte di nascondere l’arte (“usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”): dal canto suo, Della Casa opta per la codificazione di un galateo, ossia di un insieme di norme e principi da seguire per risultar graditi alla società; già Cicerone, nel De officis, aveva abbozzato una serie di regole da seguire per possedere il decorum: e l’età rinascimentale eredita quella tradizione ricca di humanitas che trovava nell’Arpinate il proprio vertice indiscusso. La funzione civilizzatrice della corte, lumeggiata a più riprese da Castiglione, è ribadita da Monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo. Overo de’ costumi, in cui scrive (XVI):
“E queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell’acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini”.
Anche per Giovanni della casa la cortesia non elimina, ma ammorbidisce la servitù e la signoria, rendendole più vivibili, proprio come l’acqua ammorbidisce certe erbe in essa immerse. Bisogna ammansire la belva che ciascuno di noi potenzialmente, ossia si devono porre le passioni sotto la guida della ragione calcolatrice: e a ciò provvede il galateo, che smussa le nostre punte più estreme, ammorbidendoci, levigandoci e rendendoci civili. Eppure Della Casa si muove in un ambito ben più modesto rispetto a quello di Castiglione: la sua affermazione della superiorità della ragione non ha né lo slancio né il vigore né l’ampiezza ideologica che troviamo nei grandi autori del Rinascimento; e lo stesso studio che egli conduce intorno alle buone creanze si risolve in una minuta, scoppiettante e piacevole casistica che tuttavia non approda all’edificazione ideale e organica, né rievoca un mondo di bellezza superiore. Ciò non toglie, in ogni caso, che non vi sia opera di Della Casa in cui non si avverta tale nostalgia per un mondo eccelso andato perduto (e questo è un topoV dell’età moderna): nell’Ariosto dell’Orlando furioso, in Pulci e in Poliziano tale nostalgia si appuntava sull’antico mondo cavalleresco, in cui a trionfare erano i valori più autentici; in Della Casa, invece, pare vivissima la nostalgia per un mondo perfetto e ideale, fatto di equilibrio e di armonia, di bellezza e di luce, di contro allo squallido mondo reale, con le sue meschinità e la sua vita quotidiana “aspra e noiosa”, da cui è impossibile evadere se non in via fittizia (e da ciò deriva la delusione e la mestizia che accompagnano costantemente gli scritti di Della Casa, comprese le “rime”).
JEAN BODIN
Gli sviluppi della monarchia francese in senso assolutistico trovarono l’ appoggio di alcuni scrittori ( di formazione giuridica ) , che assumevano il punto di vista politico come prioritario rispetto alle questioni religiose , sociali e giuridiche : per questo essi vennero indicati con il termine piuttosto sprezzante di ” politiques ” . Tra questi il più importante é senz’ altro Jean Bodin ( 1530 – 1596 ) , autore di un famoso trattato , Sei libri sullo Stato ( 1576 ) , poi diffuso anche in latino ( 1586 ) . Il 1576 è un anno estremamente fecondo per il giurista francese, sia sul piano pratico, con l’elezione a deputato del terzo stato di Vermandois agli Stati Generali di Blois, dove prende posizione per la riconciliazione e per la pace religiosa, che su quello teorico: pubblica infatti un’opera di teoria politica di straordinario valore: Les six livres de la’ Rèpublique (I sei libri della Repubblica). Quest’opera viene scritta in volgare (francese), e non in latino, di modo che possa essere letta da tutti. Bodin si esprime così: «Ho intrapreso questo mio discorso sullo Stato (…) in lingua volgare, sia perché la sorgente della lingua latina è ormai esaurita (…) sia per essere compreso meglio da quelli che sono veri Francesi». È un’opera che richiede un consenso ampio, e ha carattere d’urgenza: infatti, scrive Bodin, usando l’antica similitudine tra lo Stato e l’imbarcazione: «Ora che la tempesta si è messa a tormentare il vascello del nostro Stato con tale violenza che i capitani e i piloti sono tutti ugualmente stanchi e sfiniti dalla niuturna fatica, è necessario che i passegeri stessi intervengano a prestare soccorso. Per “salvare la barca” dello stato, non basta un discorso oratorio, semplicemente brillante,”poiché né le malattie degli uomini né quelle degli Stati si curano con lo splendore delle parole» Occorre invece approfondire la questione generale del potere: a chi deve appartenere il massimo potere in una situazione in cui gli interessi privati e di fazione rischiano di travolgere tutto? Per rispondere a tale domanda, occorre un’opera di teoria politica. Questo intendono essere I sei libri. Il trattato di Bodin affronta un concetto determinante, che fonda la gestione unificata del potere da parte dello Stato, in una società che si vuole coesa e ordinata: la sovranità. “Per sovranità” scrive Bodin, “si intende quel potere assoluto e perpetuo ch’è proprio dello Stato”. Bodin in questo modo stabilisce il fondamento giuridico che garantisce la totale autonomia della dimensione pubblica rispetto a quella privata, giustifica perciò la necessità di una suprema autorità che si ponga al di sopra dei sudditi. Per Bodin «la monarchia pura assoluta è lo stato più sicuro e, senza confronto, il migliore di tutti». La democrazia invece oltre a disperdere il potere è anche rischiosa per via del progetto egualitario che l’accompagna («non c’è odio più grande nè vi sono inimicizie più radicali di quelle che si creano tra gli uguali»). “Lo Stato è il governo giusto di più famiglie e di ciò che è loro comune, con potere sovrano”. La comunità politica è quindi un governo giusto, cioè ordinato, conforme a certi valori morali di ragione, giustizia; lo Stato si identifica nel governo, il governo giusto è quello che soddisfa il bene dei cittadini e contemporaneamente anche il bene dello Stato, bene comune e individuale convergono; la famiglia è il punto di partenza, la cellula madre e il modello della comunità politica ben ordinata, è una componente naturalistica, la prima istituzione. La sovranità è la forza coesiva, unificatrice della comunità politica, lo Stato non esiste se non c’è un potere sovrano la sovranità. Il potere sovrano è perpetuo, la sovranità cioè ha una durata ininterrotta e non limitata. Oltre che perpetua la sovranità è anche assoluta, il sovrano deve essere sciolto dall’autorità delle leggi, è lui stesso che fa o disfa le leggi, il sovrano è il vertice, colui che non ha pari nello Stato e dipende completamente da se stesso, il suo potere non è temporaneo né delegato. Le prerogative del sovrano sono di fare o annullare le leggi, dichiarare guerra o siglare la pace, regolare i rapporti dei singoli (amministrazione della giustizia), imporre i tributi (sistema fiscale), nominare i magistrati, titolari delle varie funzioni pubbliche. Bodin, contrario a qualunque tipo di governo misto, distingue i vari tipi di governo ed esclude categoricamente la possibilità di dividere le prerogative della sovranità per costituire uno Stato aristocratico o popolare, le prerogative della sovranità sono indivisibili. La monarchia è il governo naturale, la forma di Stato in cui la sovranità assoluta risiede in un solo principe, è solo nella monarchia che la sovranità assoluta con le sue prerogative indivisibili trova una garanzia di durata e un appoggio vigoroso. Solo la monarchia infine assicura maggiori garanzie alla scelta delle competenze. La monarchia di Bodin non è però un sistema tirannico, al di sopra delle leggi del sovrano si trovano infatti le leggi di natura, riflesso della ragione divina. Il sovrano deve rispettare quindi la libertà naturale dei sudditi e la loro proprietà. Non si tratta di una sovranità illimitata, senza leggi morali, è una monarchia assoluta ma non arbitraria, che permette anche un consiglio permanente, gli Stati generali e provinciali come organi di consultazione, ma anche corporazioni, comunità, forme di associazione intermedia tra lo Stato e i sudditi, che non devono sconfinare nella sfera dell’autorità del sovrano. Bodin è considerato un teorico dello Stato moderno.
MICHEL DE MONTAIGNE
BREVE PRESENTAZIONE
Con Montaigne lo scetticismo torna in auge e rivela una novità di motivi perchè é considerazione realistica e revisione critica dei problemi della cultura contemporanea. Michel de Montaigne nasce il 1533 nel castello avito di Montaigne, nel Perigord, studia diritto in gioventù e in seguito ricopre cariche pubbliche a Bordeaux; ma a partire dal 1571 si ritira nel suo castello a vita privata, lontano dalle lotte politiche e religiose che insanguinano la Francia dei suoi tempi e, salvo brevi interruzioni, attende alla redazione e all’accrescimento dei suoi Essais, fino alla morte, che lo coglie nel 1592. Nei suoi rapporti familiari e sociali Montaigne ha applicato con implacabile egoismo la massima stoica, che troviamo nel suo scritto Essais (I,38): “la vera solitudine si può godere anche nelle città e nelle corti dei re; ma la si gode meglio stando appartati… Bisogna aver donne, figli, beni e soprattutto salute, se si può; ma non bisogna attaccarvisi in modo che la nostra felicità ne dipenda: bisogna riservarsi un dietrobottega tutto proprio, tutto indipendente, in cui possa riporsi la nostra vera libertà e il nostro principale e solitario rifugio”. Vi é qualcosa di ascetico in questa maniera di vivere, ma é un ascetismo mondano, che ben si distacca nel suo fine da quello medioevale. Non vi é una filosofia ben definita e compatta nel Montaigne: nei lunghi anni del lavoro di redazione, il suo pensiero si é venuto orientando in modo sempre diverso, passando dallo stoicismo all’epicureismo e infine allo scetticismo. Ma, al di sopra di ogni spirito di sistema, Montaigne interessa la storia del pensiero come il maggior esponente della crisi del neoclassicismo umanistico. Se nel Rinascimento non erano mancate delle proteste contro il feticismo per l’antichità e qualcuno aveva perfino capovolto il criterio della valutazione comparativa tra i classici e i moderni, facendo dei primi l’espressione dell’ infanzia, dei secondi quella della maturità dello spirito, nessuno al pari di Montaigne ha saputo ricondurre l’antichità al comune livello umano. E ha fatto questo seguendo spregiudicatamente i suoi autori nei loro ragionamenti, nelle loro opere, spregiudicatamente giudicando, ad esempio, un Cicerone o un Platone: “la licenziosità del tempo mi scuserà questa sacrilega audacia di stimare che anche i dialoghi di Platone si trascinano per le lunghe e che la loro materia é troppo soffocata”. Così, a spregio egli ha il gusto retorico, particolarmente in voga ai suoi tempi: l’educazione umanistica non ha avuto per fine di farci buoni e saggi, “non ci ha insegnato a seguire e ad abbracciare la virtù e la prudenza, ma ce ne ha impartite le radici grammaticali e le etimologie; noi sappiamo declinare la virtù, ma non amarla”. Di sapore accentuatamente stoico é invece il suo disprezzo per la morte, che gli suggerisce alcune delle considerazioni più profonde e vissute degli Essais: “la premeditazione della morte é premeditazione della libertà. Chi ha appreso a morire, ha disappreso a servire; non c’é nulla di male nella vita per chi ha ben compreso che la privazione stessa della vita non é un male”. Inoltre, quella sua indifferenza per la vita sociale é espressione di un atteggiamento conservatore: “è dubbio se vi sia profitto nel mutamento di una legge ricevuta, quale che sia: perchè una costituzione é come una costruzione di vari pezzi uniti insieme con un tal legame che é impossibile rimuovere uno senza che tutto il corpo ne risenta. Io per me sono disgustato delle novità, qualunque faccia esse abbiano”. Per Montaigne non é lecito fare una stabile e dommatica professione di non sapere: la formula perfetta non é quella degli antichi “io non so”, ma “che so io?”. Non abbiamo nessuna comunicazione col vero essere delle cose: chi si ostina a voler attingere l’essere, fa come chi volesse, nel pugno, stringere l’acqua, che, più la stringi e più scorre dappertutto.
PIETRO POMPONAZZI
Primo e principale fautore dell’alessandrismo fu Pietro Pomponazzi (1462-1524). Di famiglia agiata, nasce a Mantova nel 1462. A sedici anni si iscrive (1484) all’Università di Padova, dove frequenta la lezioni di metafisica del domenicano Francesco Securo da Nardò, le lezioni di medicina di Pietro Riccobonella e quelle di filosofia naturale di Pietro Trapolino, laureandosi come Magister Artium nel 1487. Dal 1488 al 1496 è professore di filosofia nello stesso ateneo e ottiene la cattedra di filosofia naturale dopo la morte del suo maestro Nicoletto Vernia (1420-1499), massimo esponente dell’averroismo locale, di spirito laico e spregiudicatio sino alla miscredenza. A Padova pubblica il trattato De maximo et minimo, in polemica con le teorie di Guglielmo Heytesbury. Passa poi a Carpi nel (1496) per insegnare logica alla corte di Alberto Pio, principe di Carpi, seguendolo nel (1498) nel suo esilio a Ferrara e restandovi fino al (1499). Nel frattempo, nel 1497, sposa a Mantova Cornelia Dondi, dalla quale ha due figlie. Morto il Vernia, e succeduto a lui nel 1499, il Pomponazzi rimane poi vedovo nel (1507) e si risposa con Ludovica di Montagnana. Chiude lo studio di Padova nel 1509 e si trasferisce a Ferrara dove redige un commento al De anima aristotelico. Questo avviene in seguito all’occupazione di Padova nel giugno 1509 da parte della Lega di Cambrai nella guerra con la Repubblica veneziana. Quando Venezia rioccupa la città il mese dopo, le lezioni universitarie vengono sospese ed egli, con altri insegnanti, lascia la città trasferendosi, come si è visto, a Ferrara su invito di Alfonso I d’Este per insegnare nella locale università. Chiusa anche questa nel 1510, si trasferisce fino al 1511 a Mantova e dal 1512 all’università di Bologna. Nuovamente vedovo, si risposa con Adriana della Scrofa. A Bologna scrive le opere maggiori, il Tractatus de immortalitate animae, il De fato e il De incantationibus, oltre a commenti delle opere di Aristotele, conservati grazie agli appunti dei suoi studenti. Il Tractatus de immortalitate animae, del 1516, in cui sostiene che l’immortalità dell’anima non può essere dimostrata razionalmente, fece scandalo: attaccato da più parti, il libro è pubblicamente bruciato a Venezia. Denunciato dall’agostiniano Ambrogio Fiandino per eresia, la difesa del cardinale Pietro Bembo gli permette di evitare terribili conseguenze ma nel 1518 è condannato da papa Leone X a ritrattare le sue tesi. Pomponazzi non ritratta ma si difende con la sua Apologia del 1518 e con il Defensorium adversus Augustinum Niphum del 1519, una risposta al De immortalitate libellus di Agostino Nifo, in cui sostiene la distinzione tra verità di fede e verità di ragione. Queste controversie gli impediscono di pubblicare due opere che aveva completato nel 1520: il De naturalium effectuum causis sive de incantationibus e i Libri quinque de fato, de libero arbitrio et de praedestinatione, pubblicati postumi rispettivamente nel 1556 e 1557, con alcune modifiche, a Basilea, da Guglielmo Gratarol. Evita ogni problema teologico pubblicando nel 1521 il De nutritione et augmentatione, il De partibus animalium nel 1521 e il De sensu nel 1524. Malato di calcoli renali, stende il proprio testamento nel 1524 e muore l’anno dopo. Secondo i suoi allievi Antonio Brocardo ed Ercole Strozzi egli si sarebbe suicidato. Per Aristotele l’anima è l’atto (entelechia) primo di un corpo che ha la vita in potenza, è la sostanza che realizza le funzioni vitali del corpo. Tre sono le funzioni dell’anima: la funzione vegetativa per la quale gli esseri vegetali, animali e umani si nutrono e si riproducono; la funzione sensitiva per la quale gli esseri animali e umani hanno sensazioni e immagini; la funzione intellettiva, per la quale gli esseri umani comprendono. L’intelletto è la capacità di giudicare le immagini fornite dai sensi. L’atto dell’intendere si identifica con l’oggetto intellegibile, cioè con la sostanza dell’oggetto, ossia con la verità. Aristotele distingue l’ intelletto potenziale o possibile o passivo, che è la capacità umana di intendere, dall’ intelletto attuale o attivo o agente, che è la luce intellettuale. Quest’ultimo contiene in atto tutti gli intellegibili, e agisce sull’intelletto potenziale come – l’esempio è di Aristotele – la luce mostra, mette in atto i colori che al buio non sono visibili ma pure esistono e dunque sono in potenza: l’intelletto agente mette in atto le verità che nell’intelletto potenziale sono soltanto in potenza. L’intelletto agente è separato, non composto, impassibile, per sua essenza atto…separato, esso è solo quel che è realmente, e questo solo è immortale ed eterno. Che ne è dunque dell’anima? Nella Metafisica Aristotele dice solo che “Bisogna esaminare se la forma esista anche dopo la dissoluzione del composto; per alcune cose nulla lo impedisce, come, ad esempio nel caso dell’anima, ma non dell’anima nella sua interezza, bensì dell’intelletto, poiché è forse impossibile l’esistenza separata dell’anima intera”. L’aristotelismo a Padova si era diviso in due correnti fondamentali, gli averroisti e gli alessandrini, seguaci questi delle interpretazioni aristoteliche di Alessandro di Afrodisia. Averroè, secondo una concezione influenzata dal platonismo, sosteneva l’unicità e la trascendenza non solo dell’intelletto agente, ma anche dell’intelletto potenziale, che per lui non appartiene ai singoli uomini ma è unico e comune all’intera specie umana. . La dottrina di Alessandro mantiene l’unicità dell’intelletto agente, che egli fa coincidere con Dio, ma attribuisce a ciascun uomo un intelletto potenziale individuale, mortale insieme con il corpo. Infine, va ricordato che per Tommaso d’Aquino nell’uomo è presente un’unica anima per sua natura (simpliciter) immortale, ma per un certo aspetto (secundum quid) mortale, in quanto anche legata alle funzioni più materiali dell’essere umano. Il Trattato dell’immortalità dell’anima, terminato il 24 settembre 1516 ed edito a Bologna il 6 novembre 1516, trae spunto da una discussione con il domenicano Girolamo Raguseo il quale, avendo il Pomponazzi sostenuto che la teoria di Tommaso sull’anima non si accorda con quella aristotelica, lo aveva pregato di provare le sue affermazioni mediante prove puramente razionali. “Fecero bene gli antichi a porre l’uomo tra le cose eterne e quelle temporali, cosicché egli, né puramente eterno né semplicemente temporale, partecipa delle due nature e stando a metà fra loro, può vivere quella che vuole. Così, alcuni uomini sembrano dei perché, dominando il proprio essere vegetativo e sensitivo, sono quasi completamente razionali. Altri, sommersi nei sensi, sembrano bestie. Altri ancora, uomini nel vero senso della parola, vivono mediamente secondo la virtù, senza concedersi completamente né all’intelletto e né ai piaceri del corpo.” L’uomo dunque, “è di natura non semplice ma molteplice, non determinata ma bifronte (ancipitis), media fra il mortale e l’immortale” e questa medietà non è il provvisorio incontro di due nature, una corporea e l’altra spirituale, che si divideranno con la morte, ma è la dimostrazione della reale unità dell’uomo: “La natura procede per gradi: i vegetali hanno un poco di anima, gli animali hanno i sensi e una certa immaginazione…alcuni animali arrivano a costruirsi case e a organizzarsi civilmente tanto che molti uomini sembrano avere un’intelligenza molto inferiore alla loro…vi sono animali intermedi fra la pianta e la bestia, come la spugna…della scimmia non sai se sia uomo o bruto, analogamente l’anima intellettiva è media fra il temporale e l’eterno.” Polemizza con Averroè che ha scisso dalla naturale unità umana il principio razionale da quello sensitivo e con Tommaso d’Aquino, rilevando che l’anima, essendo unica, non può avere due modi di intendere, uno dipendente e un altro indipendente dalle funzioni del corpo; la dipendenza dell’intelligenza dalla fantasia, che dipende a sua volta dai sensi, lega l’anima indissolubilmente al corpo e ne fa seguire lo stesso destino di morte. È capovolta la tesi fondamentale di Tommaso: per Pomponazzi l’anima è per sé mortale e secundum quid, in un certo senso, immortale, e non il contrario, perché “nobilissima fra le cose materiali e al confine con le immateriali, profuma di immortalità ma non in senso assoluto” (aliquid immortalitatis odorat, sed non simpliciter). E ricorda che per Aristotele l’anima non è creata da Dio ma generata perché sono il sole e lo stesso uomo a generare l’uomo. Riguardo al problema del rapporto fra ragione e fede, per Pomponazzi solo la fede, non le ragioni naturali, può affermare l’immortalità dell’anima e “coloro che camminano per le vie dei credenti sono fermi e saldi”, mentre per quanto attiene i problemi etici che la mortalità dell’anima potrebbe suscitare, afferma che per comportarsi virtuosamente non è affatto necessario credere all’immortalità dell’anima e alle ricompense ultraterrene, perché la virtù è premio a sé stessa e chi afferma che l’anima è mortale salva il principio della virtù meglio di chi la considera immortale, perché la speranza di un premio e il terrore della pena provoca comportamenti servili contrari alla virtù. Il Tractatus provocò clamore e polemiche alle quale rispose nel 1518, ribadendo le sue tesi con l’Apologia, dove nel primo libro risponde alle critiche amichevoli del suo allievo e futuro cardinale Gaspare Contarini e negli altri due al domenicano Vincenzo Colzade e all’agostiniano Ambrogio Fiandino. Nel 1519 replica con il Defensorium adversus Agostinum Niphum alle critiche di Agostino Nifo, professore di filosofia nell’università di Padova. Nel 1520 il medico mantovano Ludovico Panizza avrebbe chiesto a Pomponazzi se possono esserci cause soprannaturali di eventi naturali, in contrasto con le affermazioni di Aristotele, e se si debba ammettere l’esistenza di demoni, come sostiene la Chiesa, anche per spiegare molti fenomeni che si sono verificati. Per Pomponazzi “dobbiamo spiegare questi fenomeni con cause naturali, senza ricorrere ai demoni…è ridicolo lasciare l’evidenza per cercare quello che non è né evidente né credibile”. D’altra parte, poiché l’intelletto percepisce dati sensibili, un puro spirito non potrebbe esercitare un’azione qualunque su qualcosa di materiale: gli spiriti non possono entrare in contatto con il nostro mondo; “in realtà vi sono uomini che, pur agendo per mezzo della scienza, hanno prodotto effetti che, mal compresi, li hanno fatti ritenere opera di santi o di maghi, com’è successo con Pietro d’Abano o con Cecco d’Ascoli…altri, ritenuti santi dal volgo che pensava avessero rapporti con gli angeli…erano magari dei mascalzoni…io credo che facessero tutto questo per ingannare il prossimo”. Ma, a parte casi di incomprensione o di malafede, è possibile che fenomeni mirabolanti abbiano la loro causa nell’influsso degli astri: “È assurdo che i corpi celesti, che reggono tutto l’universo…non possano produrre effetti che di per sé sono nulla considerando l’insieme dell’universo”. Cause naturali, comunque, secondo la scienza del tempo: il determinismo astrologico governa anche le religioni: “al tempo degli idoli non c’era maggior vergogna della croce, nell’età successiva non c’è nulla di più venerato…ora si curano i languori con un segno di croce nel nome di Gesù, mentre un tempo ciò non accadeva perché non era giunta la Sua ora”. Ogni religione ha i suoi miracoli “quali quelli che si leggono e si ricordano nella legge di Cristo ed è logico, perché non ci possono essere profonde trasformazioni senza grandi miracoli. Ma non sono miracoli perché contrari all’ordine dei corpi celesti ma perché sono inconsueti e rarissimi”. Nessun fenomeno ha dunque cause non naturali: l’astrologo che abbia colto la natura delle forze celesti, può spiegare tanto le cause di fenomeni che sembrano soprannaturali che realizzare opere straordinarie che il popolino considererà miracolose solo perché incapace di individuarne la causa. L’ignoranza del volgo è del resto sfruttata da politici e da sacerdoti per tenerlo in soggezione, presentandosi ad esso come personaggi straordinari o addirittura inviati da Dio stesso. Se tali sono le forze che governano il mondo, se anche i fenomeni soprannaturali hanno una spiegazione nell’esistenza di forze naturali così potenti, esiste ancora una libertà nelle scelte individuali dell’uomo? In Dio, conoscenza e causa delle cose coincidono e dunque egli è veramente libero; l’uomo si esprime invece in un mondo dove tutto è gia determinato. Rifiutato il contingentismo di Alessandro di Afrodisia, che salva la libertà umana criticando gli stoici per i quali non esiste né contingenza né libertà umana, Pomponazzi è costretto dalla sua concezione strettamente deterministica, ove tutto è regolato da forze naturali superiori all’uomo, a propendere per l’impossibilità del libero arbitrio:”…l’argomento è per me difficilissimo. Gli stoici sfuggono facilmente alle difficoltà facendo dipendere da Dio l’atto di volontà. Per questo l’opinione stoica appare molto probabile”. Nel cristianesimo c’è maggiore difficoltà a risolvere il problema del libero arbitrio e della predestinazione: “Se Dio odia ab aeterno i peccatori e li condanna, è impossibile che non li odi e non li condanni; e questi, così odiati e reietti, è impossibile che non pecchino e non si perdano. Che rimane, allora, se non una somma crudeltà e ingiustizia divina, e odio e bestemmia contro Dio? E questa è una posizione molto peggiore di quella stoica. Gli stoici dicono infatti che Dio si comporta così perché la necessità e la natura lo impongono. Secondo il cristianesimo il fato dipende invece dalla cattiveria di Dio, che potrebbe fare diversamente ma non vuole, mentre secondo gli stoici Dio fa così perché non può fare altrimenti”. Chiamato anche Peretto per la piccola statura, secondo Matteo Bandello (Novelle, III, 38) Pietro Pomponazzi “era un omicciolo molto piccolo, con un viso che nel vero aveva più del giudeo che del cristiano e vestiva anco ad una certa foggia che teneva più del rabbi che del filosofo, e andava sempre raso e toso; parlava anche in certo modo che parea un giudeo tedesco che volesse imparar a parlar italiano”. Ma lo storico Paolo Giovio dirà che egli “esponeva Aristotele e Averroè con voce dolce e limpidissima; il suo discorso era preciso e pacato nella trattazione, mobile e concitato nella polemica; quando poi giungeva a definire e a trarre le conclusioni, era così grave e posato che gli studenti dai loro posti potevano annotarsi le spiegazioni”. Per nulla tenero con gli uomini di chiesa, “isti fratres truffaldini, domenichini, franceschini, vel diabolini” riassumeva il suo spirito ironico e motteggiante consigliando “alla filosofia credete fin dove vi detta la ragione, alla teologia credete quel che vogliono i teologi e i prelati con tutta la chiesa romana, perché altrimenti farete la fine delle castagne” ma fu serio e senza compromessi nelle sue convinzioni scrivendo nel De fato che “Prometeo è il filosofo che, nello sforzo di scoprire i segreti divini, è continuamente tormentato da pensieri affannosi, non ha sete, non ha fame, non dorme, non mangia, non spurga, deriso, dileggiato, insultato, perseguitato dagli inquisitori, ludibrio del volgo. Questo è il guadagno dei filosofi, questa la loro ricompensa”. Epperò i filosofi sono per lui “come Dei terreni, tanto lontani dagli altri come gli uomini veri lo sono dalle figure dipinte” e lui sarebbe pronto, per amore della verità, anche a “ritrattare quel che ho detto. Chi dice che polemizzo per il gusto di contrastare, mente. In filosofia, chi vuol trovare la verità, dev’essere eretico”.
BERNARDINO TELESIO
Nella seconda metà del Cinquecento alla fallacia filosofica di una antropomorfizzata e finalizzata all’uomo si oppone la filosofia naturalistica di Bernardino Telesio (1509-1588). Nato a Cosenza, egli studiò e si addottorò a Padova. Sulla sua formazione ebbe grande influenza l’ aristotelico Vincenzo Maggi: ciò spiega il fatto che il legame tra il pensiero di Telesio e la tradizione aristotelica sia alquanto stretto; del resto la sua opera principale, De renum natura iuxta propria principia (1565-1585), in molti luoghi assume l’aspetto di un commentario alla Fisica di Aristotele , pur contenendo molti spunti di critica nei confronti del filosofo greco. Il titolo dell’opera fondamentale di Telesio è programmatico: la natura deve essere studiata e interpretata secondo i principi ad essa propri, senza fare ricorso a modelli precostituiti ed estrinseci. L’autonomia della natura dal mondo umano trova così un’esplicita sanzione , comportando il rifiuto sia delle concezioni antropomorfiche – anche se non viene escluso il concetto di sensibilità universale, che può apparire come l’estensione alla natura di una proprietà specificamente umana -sia delle tendenze volte a interpretare il mondo e i suoi fenomeni secondo categorie logiche o metafisiche predeterminate. La nuova considerazione della natura intesa come oggetto di studio e approfondimento da parte dell’uomo e della scienza. Una natura, cioè, non considerata più come terreno della manifestazione delle forze divine, quasi uno specchio pallido dell’immagine di Dio, da rispettare e venerare; bensì vista cone un mondo dotato di leggi proprie che l’uomo deve rispettare e conoscere per poter condurre a proprio servizio. Tale nuova considerazione della natura venne anticipata nell’opera di Telesio, intitolata La natura secondo i propri principi, la quale staccandosi dalla visione magica, affermò che l’uomo non deve imporre i suoi schemi a priori alla natura, ma deve scoprirne umilmente le leggi interne che ne regolano la vita e che sono sconosciute al più. L’accusa rivolta alla scienza del passato fu, dunque, di essere stata boriosa e superba, incurante della vera realtà del mondo fisico: essa ingabbiò nei dogmi della teologia i fenomeni naturali, precludendosi una loro vera comprensione. Nel nuovo panorama culturale mutò lo scenario concettuale: L’intellettuale, amante e cultore di una sapienza del tutto umana, si propose di indagare il mondo e le sue singole parti, poiché ognuna di esse se correttamente osservata, manifesterà la propria grandezza e la propria indole. Simili concetti, seppure contenuti in una prospettiva ancora semplicistica, sono comunque importanti, perché si distaccano dalla visione teologica della natura e spianano la strada verso la scienza moderna, che farà proprio il precetto metodologico di non guardare alla natura con schemi concettuali astratti e metafisici, bensì di analizzarla secondo i suoi principi e le sue specifiche leggi. Secondo Telesio i filosofi che lo hanno preceduto, troppo fiduciosi in se stessi, non si sono accontentati di osservare correttamente le cose come sono in realtà, ma hanno proiettato su di esse caratteristiche e proprietà che erano reali soltanto nel loro pensiero: lungi dall’essere oggettivamente fondata, la loro concezione della natura era una fittizia creazione intellettuale. I principi che regolano dall’interno la vita della natura sono tre. Nell’universo operano infatti due princìpi agenti – il caldo e il freddo – che sono in grado di percepire e di essere percepiti. Ma il caldo e il freddo necessitano di un terzo principio, questa volta passivo, su cui esercitare la loro azione: la massa corporea ovvero la materia. Né le nature agenti né la massa corporea sono sostanza, in quanto né le une né le altre possono sussistere di per sé (ed è questo il significato etimologico del termine sostanza). Da un lato, i princìpi agenti non possono operare se non sulla materia, poichè nessun principio incorporeo – come sono il caldo e il freddo – può produrre un effetto senza infondersi in qualcosa di materiale. D’altro lato, la massa corporea, di per sé inerte e informe (e quindi unica), è stata creata da Dio per essere formata, e continuamente trasformata, dalle due nature agenti. I tre princìpi – caldo, freddo e massa corporea – non sono quindi mai separati. Le nature agenti sono tutt’uno con la massa corporea alla quale ineriscono e non ci sarà mai nessuna parte di nessun essere che sia soltanto corpo o soltanto principio attivo, ma qualunque particella di qualunque ente – anzi, perfino un punto – risulta composta di tutti e tre i princìpi in una indissolubile unità. La sostanza, secondo Telesio, consiste proprio in questa unità dell’essere e riveste dunque un carattere non già statico, ma dinamico. Essa dà infatti origine a una continua vicenda di generazione, di corruzione e di rigenerazione, nella quale pullula il divenire degli esseri particolari. In altri termini, la sostanza è il dispiegarsi della vita della natura. L’unico limite che Telesio pone all’autonomia della natura e dei suoi princìpi stà nel fatto che il mondo naturale è opera di Dio. Tuttavia, dopo l’atto creativo, la divinità non interferisce più nello sviluppo dei fenomeni naturali, ma si limita a garantire la regolarità delle leggi a cui essi obbediscono. In questo senso, Telesio rimprovera ad Aristotele di aver circoscritto e lòimitato l’azione di Dio, facendone il motore del cielo, mentre più giusto sarebbe stato estendere l’attività divina a ogni aspetto dell’universo, sia pure sempre attraverso la mediazione dei princìpi intrinseci alla natura. In questo modo il rigoroso naturalismo di Telesio non gli impedisce ampie aperture al provvidenzialismo teologico. Il solo atto con cui Dio trascende l’ordine naturale – che per il resto, come si è visto si limita a garantire – consiste nell’infusione nell’uomo dell’anima spirituale, cioè di una sostanza divina e immortale, che fa dell’essere umano un soggetto di vita religiosa, distinguendolo con ciò dalle altre creature meramente naturali. A queste l’uomo è invece accomunato dalla presenza in lui di uno spirito corporeo , che non è forma del corpo come l’anima aristotelica , ma una realtà che sussiste di per sè. Esso è un principio fisiologico autonomo, “prodotto dal seme” e quindi di natura materiale, che presiede ai processi della vita organica. In ciò è evidente l’influenza del pensiero medico precedente : tuttavia Telesio rifiuta la tradizione galenica , predominante nella medicina del tempo, la quale distingueva tre tipi di spirito – naturale, vitale e animale – situati rispettivamente nel fegato, nel cuore e nel cervello, e insiste invece energicamente sull’unità dello spirito corporeo e sulla sua collocazione nel cervello, dal quale esso irraggia la sua azione su tutto l’organismo. L’unità della sostanza che, come si è visto sopra, determina la vicenda dei fenomeni naturali si riflette dunque sull’unità dello spirito che presiede alla vita del singolo individuo. Attraverso lo soirito corporeo è anche resa possibile la sensibilità dell’uomo. La sensazione consiste infatti nella percezione simultanea dell’azione che gli oggetti esterni esercitano sul soggetto e della modificazione soggettiva che essa produc e nello spirito corporeo. Telesio attribuisce una preminenza assoluta alla conoscenza sensibile rispetto all’intellezione e al ragionamento. In virtù della sua immediatezza, infatti, essa sola consente di stabilire un rapporto diretto con l’oggetto di conoscenza.- L’intellezione si origina invece dal raccordo di una sensazione, mentre il ragionamento è un procedimento attraverso ilquale ci si accosta per “similitudine” a ciò che momentaneamente non è percepibile con i sensi. La sensibilità , tuttavia, non è una prerogativa dell’uomo e degli esseri tradizionalmente considerati animati. Essa è propria della natura in generale, poichè di essa, come si è visto, sono dotati anche i princìpi della natura. Questa sensibilità universale, diffusa appunto in tutto l’universo, è ciò che garantisce l’omogeneità tra uomo e natura, rendendo così possibile una fondata conoscenza del mondo naturale da parte dell’essere umano. In altri termini, se l’uomo può conoscere con certezza i princìpi che guidano i processi naturali è perchè egli è partecipe di quella stessaensibilità universale che, in forme diverse, rebde possibile la configurazione del caldo e del freddo con la massa corporea. Filosofia naturale e dottrina della conoscenza sono quindi in Telesio i due aspetti della stessa realtà.
GIORDANO BRUNO
LA VITA E LA CONDANNA
Giordano Bruno ( il suo vero nome era Filippo Bruno , ma assunse quello di Giordano entrando nell’ ordine domenicano ) , ebbe una vita piuttosto movimentata : nato nel 1548 a Nola , presso Napoli ( dove studiò e ricevette una prima formazione di stampo aristotelico ) , prese i voti , ma ben presto i suoi dubbi sulla dottrina trinitaria e su quella dell’ incarnazione lo misero in contrasto con gli ambienti ecclesiastici . Allontanatosi da Napoli nel 1576 , iniziò a peregrinare per l’ Europa : prima a Ginevra , poi a Tolosa e a Parigi ( ove godè il favore di Enrico III ) , dove ebbe inizio la sua produzione filosofica ; quindi in Inghilterra ( ove fu anche accolto dalla regina Elisabetta ) , dove insegnò ad Oxford e in questo periodo effettuò la stesura dei dialoghi italiani e di alcune opere latine . Ritornato a Parigi , nuovi contrasti con gli ambienti universitari legati alla tradizione aristotelica lo costrinsero a trasferirsi in Germania , dove insegnò a Marburgo , Wittemberg e Francoforte e completò le opere latine . Accettata infine l’ ospitalità del nobile veneziano Giovanni Mocenigo , nel 1592 fu da questi denunciato all’ Inquisizione e fatto arrestare per i suoi dubbi sulla funzione della religione e i sospetti di eterodossia gravanti sulle sue dottrine . In un primo tempo riuscì ad evitare la condanna con una parziale ritrattazione , ma nel 1593 fu trasferito all’ Inquisizione di Roma e , dopo sette anni di carcerazione , fu condannato a bruciare sul rogo a Campo dei Fiori ( Roma ) il 17 febbraio del 1600 : l’ imputazione mossagli fu di dubitare della trinità , della divinità di Cristo e della transustanziazione , di voler sostituire alle religioni particolari la religione della ragione come religione unica e universale e di affermare che il mondo é eterno e che vi sono infiniti mondi . Giordano Bruno é uno di quei pensatori diventati famosi per via di vicende in parte estranee alla loro filosofia ; é uno di quelli che ha avuto vicende ” disgraziate ” , é un martire del pensiero , un pò come Socrate : fu infatti processato dalla Chiesa cattolica e infine condannato a bruciare sul rogo . Giordano Bruno fu di carattere particolarmente irrequieto e , come detto , fin dall’ inizio non si sentì convinto da alcune verità dogmatiche della chiesa cattolica e finì per abbandonare i voti e distaccarsi dalla chiesa cattolica . Durante le sue peregrinazioni arrivò a simpatizzare per la causa calvinista per ovvi motivi : gli sembrò essere una protesta ai danni della chiesa cattolica nella sua dimensione istituzionale ; del calvinismo colse quindi soprattutto il messaggio ” liberatore ” . Comunque poi abbandonò questa simpatia per il calvinismo e , paradossalmente , tornò indietro sui suoi passi accettando alcuni valori della dottrina cattolica . Da notare che il suo processo é durato diversi anni , il che testimonia che l’ inquisizione romana non era poi così efferata e malvagia come si può pensare , a differenza di quella spagnola . Dove e quando potevano i giudici della chiesa romana cercavano delle vie di compromesso : c’ era una ” buona volontà ” nella chiesa cattolica che trovava qualche appiglio nelle posizioni di Giordano Bruno : fu lui che non ebbe alcuna intenzione di rinunciare ai principi di fondo della sua ” dottrina ” e quando si trovò al momento della decisione finale preferì morire ma mantenere le sue posizioni . Ci doveva pur essere qualcosa che poteva dare adito a un confronto e a un dialogo con la chiesa cattolica se ci misero quasi otto anni a ucciderlo : la parziale accettazione del cattolicesimo , sulla base essenzialmente di posizioni averroistiche : anche con la fede si può raggiungere la verità , sebbene si tratti di una verità di second’ ordine rispetto a qella filosofica , una verità insomma destinata alla massa , al volgo . Giordano Bruno , comunque , era convinto che le religioni potevano essere buon strumento per far acquisire alla ” massa ” alcune verità , magari meno precise e più discutibili , e soprattutto potevano essere strumento di controllo delle masse ; é evidente che Giordano Bruno rientra pienamente nell’ aristocraticismo intellettuale propugnato da Averroè . E’ ovvio che questo per i giudici dell’ inquisizione non bastava per salvarlo , ma in fin dei conti poteva essere un buon punto di partenza per una sorta di trattativa . Dovendo poi scegliere tra le religioni , quella che maggiormante si confaceva alle istanze di Giordano Bruno era il cattolicesimo e non certo il calvinismo , per vari motivi : innanzitutto quella di Calvino era essenzialmente una protesta e non solo intellettuale ( come voleva Giordano Bruno ) , ma anche ” fisica ” : il calvinismo divenne vero e proprio strumento di guerra e di disordine ed é quindi comprensibile che Giordano Bruno preferisse il cattolicesimo , che se non altro si prefigurava come strumento di pace . In più Giordano Bruno non poteva accettare l’ idea della predestinazione tipica del calvinismo : principio ispiratore della filosofia di Bruno é proprio la libertà e l’ idea di essere predestinati dall’ eternità non lasciava ad essa grande spazio . Fatte queste premesse , é ovvio comunque che la Chiesa si comportò con Bruno ( e con molti altri ) in modo subdolo e riprovevole , condannando a morte una persona solo perchè sostenitrice di idee diverse ; qualunque cattolico non può non riconoscere la meschinità di questa condanna , di questo gesto che ben sintetizza l’ atteggiamento della Chiesa nel corso della storia ; altri fulgidi esempi di questo scempio cattolico sono il Savonarola e il pugliese Cesare Vanini , in un certo senso precursore dell’ illuminismo . Ben diverso é poi l’ esito del processo di Bruno rispetto a quello di Galilei : Bruno é condannato , Galileo abiura , ossia firma un documento dove c’é scritto che le sue teorie sono false e viene così salvato . Galileo é stato più volte criticato perchè pur di salvare la pelle ha fatto per così dire ” marcia indietro ” , rinunciando alle sue teorie . In realtà c’é una questione di fondo : la diversità degli atteggiamenti di questi due intellettuali , Giordano Bruno e Galilei , nasce non solo da diversità caratteriali , ma anche dagli ambiti di interesse dei due . Galilei é uno scienziato più che un filosofo : questo é significativo perchè la filosofia può aver bisogno di martiri perchè in qualche modo é una verità soggettiva , che va vissuta , non é un fatto meramente teoretico ; non é la verità matematica , inconfutabile e solida : detto in altri termini , di Galilei ci ricordiamo malgrado la sua figura , ma Bruno , se avesse abiurato , avrebbe senz’ altro avuto meno importanza nella storia del pensiero . Non a caso questi personaggi ” martiri ” come Socrate , Anassagora sono tutti personaggi per i quali la testimonianza che hanno dato diventa un elemento della loro filosofia : Socrate aveva ben ragione a suo tempo a dire di non poter fare ” marcia indietro ” perchè sarebbe stato come negare tutto ciò che per una vita intera aveva sostenuto . Invece ha ugualmente ragione Galilei a dire il contrario , tant’ é che si racconta che uscito dal tribunale dove aveva firmato il documento di abiura scalciasse contro la terra dicendo : ” eppur si muove ! ” , che é come dire : ” io ho firmato il documento , sono salvo e posso proseguire i miei studi , però la verità da me sostenuta continua ad essere vera : la Terra continua a muoversi anche se io ho effettuato questa scelta ! ” . In un certo senso Galilei ha fatto bene ad agire così perchè tanto le sue verità sono emerse nonostante la condanna e inoltre , dopo il documento di abiura , ha scoperto nuove verità che non avrebbe potuto scoprire se messo sul rogo . Questo non sarebbe certo stato valido per Socrate o per Bruno ; egli é diventato simbolo della libertà di pensiero , un simbolo strano si dovrebbe aggiungere , in quanto c’é spesso stato chi di lui ha fatto un eroe laico , il che é vero fino ad un certo punto : é vero che é andato contro alla chiesa cattolica , però poi il contenuto della sua filosofia é tutto fuorchè laico . In modo simile a Socrate , Bruno preferì terminare la propria esistenza in modo eroico e coerente piuttosto che rinnegare i suoi ideali e condurre una vita che avrebbe perso di significato : “Ho lottato, é molto: credetti poter vincere ( ma alle membra venne negata la forza dell’animo ), e la sorte e la natura repressero lo studio e gli sforzi. E’ già qualcosa l’essersi cimentati; giacchè vincere vedo che é nelle mani del fato. Per quel che mi riguarda ho fatto il possibile, che nessuna delle generazioni venture mi negherà; quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un’imbelle vita . ” ( De monade, numero et figura ) .
L’ INFINITA’ DELL’ UNIVERSO
Esaminiamo ora i contenuti veri e propri della sua filosofia : Bruno é uno strenuo sostenitore della infinità dell’ universo ; uno degli aspetti della rivoluzione scientifica fu la rivoluzione astronomica , ossia le nuove teorie sulla struttura dell’ universo . Con Copernico dalla teoria geocentrica si passò a quella eliocentrica , un radicale cambiamento di punto di vista : certe cose non potevano essere spiegate guardando dalla Terra , e così Copernico passò ad esaminare dal Sole , cambiando appunto il punto di vista . E’ importante l’ impatto che ebbe sul mondo questa teoria : ci fu chi la rifiutò perchè faceva letteralmente paura perchè dava il senso di perdita di punti di riferimento : da Aristotele in poi si era abituati all’ idea di un mondo finito posto al centro dell’ universo con punti di riferimenti assoluti . Con Copernico non si arriva ad affermare l’ infinità del mondo , ma si vengono a ” scardinare ” alcuni punti di riferimento , primo fra tutti la centralità della Terra . Molte persone videro subito nelle teorie di Copernico qualcosa che faceva traballare non solo la Terra ma anche l’ uomo , che non era più il centro ; con Copernico i centri di rotazione diventano due : il Sole é centro di rotazione dei pianeti e la Terra é centro di rotazione della Luna ; per la prima volta non c’era più un centro assoluto e ammettere due centri é un primo passo per arrivare a dire che di centro non ce n’é proprio nessuno ! Son tutte cose che psicologicamente fan paura alla gente comune . Ci fu anche chi accolse positivamente l’ ipotesi copernicana , essenzialmente per due motivi : scientificamente era più vera e quindi Galilei non tarderà ad accettarla , poi chi la accettò , come Bruno , non per motivi scientifici ( basti pensare che quando Bruno ne parla nelle sue opere pare avere le idee un pò confuse a riguardo : ha sì compreso le linee essenziali del pensiero di Copernico , ma non perfettamente ) , bensì per motivi sociologici : gli interessa esattamente ciò che impauriva gli altri ; prende la teoria copernicana come punto di partenza e non di arrivo , cioè a differenza di Copernico stesso che ( ricordiamolo ) aveva negato l’ infinità dell’ universo , Bruno accetta la teoria come punto di partenza per ammettere l’ infinità dell’ universo . Ma come faceva la teoria copernicana a consentire l’ infinità dell’ universo ? Ammettere due punti di rotazione é un primo passo verso l’ ammissione di più punti di riferimento assoluti e in qualche modo già questo lascia intravedere la possibilità di una infinitezza : quale era il ragionamento di Aristotele per dire che il mondo é finito ? Diceva : se prendo una penna e la lascio cadere va per terra , verso il suo luogo naturale ; dalla presunta constatazione dell’ esistenza di moti e di luoghi naturali allora deve esistere un centro assoluto : perchè ci siano un alto e un basso assoluti ci deve essere un mondo finito ; se il mondo fosse infinito non ci sarebbero alto e basso , diceva Aristotele . Copernico quindi aveva posto le premesse per dimostrare la infinitezza del mondo . Poi c’é un’ altra faccenda : l’ universo aristotelico é finito e piuttosto piccolo : la distanza tra la Terra e il cielo delle stelle fisse ( la ” pelle ” del mondo ) era circa due – tre , magari anche dieci volte quella che separa la Terra dal Sole . Invece Copernico deve fare i conti con un’ obiezione , quella dell’ inesistenza dell’ effetto di parallasse : supponiamo di ammettere la teoria aristotelica che vuole la Terra ferma : il cielo delle stelle fisse si muove e la Terra sta ferma . Se ci muoviamo nell’ ambito della teoria Copernicana la Terra si muove intorno al Sole : i rivali di Copernico lo criticavano perchè se fosse stato vero ciò che diceva lui noi dovremmo vedere ( per l’ effetto di parallassi ) le stelle in modo diverso a seconda delle stagioni , ossia a seconda di come é orientata in quel momento la Terra intorno al Sole , ma visto che ciò non accade , allora la Terra é ferma : a quei tempi infatti si era arrivati a capire che il cielo delle stelle fisse fosse fermo e se quindi la Terra fosse stata in continuo moto si sarebbe dovuto vedere il cielo delle stelle fisse ” muoversi ” , o meglio , cambiare di posizione . Copernico fu quindi costretto a dire che l’ effetto di parallassi c’ era ma era talmente piccolo che non si vedeva e quindi dovette aumentare la grandezza dell’ universo , la distanza Terra-stelle fisse : la Terra si muove , diceva Copernico , e l’ effetto di parallassi c’é , solo he il cielo delle stelle fisse é così distante da noi che manco ce ne accorgiamo . Copernico continuava sì a riconoscere finito l’ universo , ma esso diventava comunque enormemente più grande , in altre parole apriva la strada per il mondo infinito . Bruno non fa altro che sfruttare queste considerazioni per dire che il sistema copernicano é giusto e per sostenere positivamente l’ infinità dell’ universo . Quello che per i più era segno di smarrimento e perdita di riferimenti , per Bruno diventa punto di partenza per una visione liberatoria dell’ universo : l’ universo finito per lui sarebbe stato troppo piccolo per lasciare spazio alla libertà dell’ uomo : l’ universo finito fisicamente per Bruno é una casa ma anche una gabbia , quello infinito non può più essere una casa ma neanche più una gabbia e questo a Bruno piace . L’ idea del mondo infinito dà l’ idea di un’ infinita libertà umana . Comunque Bruno propone anche argomentazioni scientifiche a supporto dell’ infinitezza del mondo , che ricalcano quanto già avevano detto Ockham e Cusano : Ockham aveva detto che il mondo é finito , ma che nella sua onnipotenza Dio avrebbe potuto farlo infinito ; Cusano in modo un pò ambiguo ( doveva essere compatibile col cristianesimo ) diceva che la causa infinita non può che estrinsecarsi in un effetto infinito e diceva anche che il mondo é infinito nel senso che é somma infinita di enti finiti . Invece Bruno dirà una volta per tutte che l’ universo é infinito proprio perchè effetto di una causa infinita ; non solo , ma se esaminiamo la questione in termini cusaniani , ossia se il centro dell’ universo può essere identificato con qualsiasi punto dell’ universo stesso ( dato che la concezione dell’ universo come contrazione di Dio conduce Cusano a vedere in esso la stessa infinità di Dio ) , la sua circonferenza , cioè il suo confine , non può essere determinato ed esso si estende in misura ugualmente indeterminata da ogni lato : quindi la caratteristica principale dell’ universo non é il suo confine , ma la sua illimitatezza , e se esso si estende all’ infinito , così anche la vita che in esso pullula si propaga all’ infinito : per Bruno ci sono due generi di corpi nel cosmo , i soli e le terre : i primi luminosi ed ignei , le seconde cristalline o acquee e lucide : il fatto che noi vediamo solo i soli ( ossia le stelle ) e non le terre , dipende esclusivamente dal fatto che gli uni son grandi e le altre , molto minori , son rese invisibili dalla distanza . Non c’ é altra diversità di natura e di dignità tra gli astri : ” si noi fussimo ne la luna o in altre stelle , non sarreimo in loco molto dissimile a questo , e forse in peggiore ” ( La cena de le Ceneri ) . Comuni a tutti gli astri sono il movimento , i motori , la materia e lo spazio in cui si muovono . Il loro moto é circolare . Infiniti sono i soli e infinite le terre : credere che esistano solo i pianeti che già conosciamo é come credere che esistano solo gli uccelli che passano davanti alla propria finestra ! Con le sue affermazioni Bruno sapeva bene di andare a finire nel panteismo ( ossia che Dio e il mondo sono la stessa cosa ) , ma il suo rapporto con la religione era ben diverso da quello di Cusano , che lavorava all’ interno della Chiesa stessa . Se Bruno nutre grandi simpatie per la teoria copernicana , che apre le porte all’ infinitezza del mondo , egli non può che disapprovare le dottrine di Aristotele per diversi motivi : in primo luogo Bruno é un umanista e tipica dell’ Umanesimo é l’ avversione nei confronti dello Stagirita in quanto filosofo preferito dei Medioevali ; in secondo luogo Aristotele aveva strenuamente sostenuto la finitezza dell’ universo ; nel De immenso , composto in Inghilterra nel 1583, Bruno , difendendo l’ infinitezza dell’ universo , designa Aristotele come ” il Sofista ” , anzichè ” il Filosofo ” come erano soliti chiamarlo i Medioevali : proprio come i sofisti , che partendo dal presupposto che la parola può tutto , dimostravano le cose più strampalate e distanti dal vero , così Aristotele ( che sempre nel ” De immenso ” Bruno definisce ” ministro della stoltezza ” ) dimostra la finitezza dell’ universo . Nella Cena delle ceneri (Inghilterra, 1584) Bruno critica le tesi del teologo luterano Osiander, che, nella prefazione anonima al De revolutionibus orbium coelestium, sostiene che il modello astronomico eliocentrico non ha valore fisico e cosmologico, essendo soltanto un’ipotesi astronomica, modello geometrico utile per spiegare congetturalmente i fenomeni celesti. Questa interpretazione, sostenuta dai professori inglesi calvinisti, riduce il contrasto della teoria con la lettera della Sacra Scrittura. Contro di essa Bruno afferma la verità fisica e cosmologica dell’eliocentrismo, tentando di mantenersi su di un piano esclusivamente filosofico, non volendo affrontare la questione (teologica) della concordanza tra eliocentrismo e Bibbia. Nella Cena la critica si indirizza innanzitutto contro le premesse filosofiche del geocentrismo. Vengono presi di mira i capisaldi della fisica aristotelica , allo scopo di confutare gli argomenti tradizionali contro il movimento della terra: Bruno perviene a principi quali quello di relatività dei movimenti e di inerzia. Detto questo , Bruno cerca di spiegare che rapporto c’é tra universo e Dio : si serve dell’ esempio della statua , già usato da Aristotele . Il rapporto tra Dio e il mondo é lo stesso rapporto che c’é tra lo scultore e la statua : se io guardo la statua , essendo essa effetto dello scultore , io conoscendo la statua conosco in qualche misura anche lo scultore ; ma non lo conosco totalmente perchè nella statua ci mette una parte di sè , non tutto se stesso : rimane una parte che é inconoscibile . Bruno fa anche una distinzione tecnica tra due parole , nella sua opera ” Della causa principio ed uno ” . C’é differenza tra dire causa e dire principio : causa é quando qualcosa produce restando fuori dalla cosa prodotta ( ” ciò che concorre alla produzione delle cose esteriormente , ed ha l’ essere fuor de la composizione ” ) , principio é quando qualcosa é parte di ciò che ha prodotto ( ” ciò che intrinsecamente concorre alla costituzione della cosa e rimane nell’ effetto ” ) : per esempio nelle famose quattro cause di Aristotele , la causa materiale e quella formale sono principi perchè generano la cosa e ne fanno parte ; quella efficiente no perchè sta fuori dalla cosa prodotta . Lo scultore in questo senso é causa e principio contemporaneamente perchè agisce dall’ esterno , ma qualcosa di sè all’ interno della statua lo lascia . Lo stesso discorso vale per il rapporto Dio – mondo : il mondo é l’ effetto di Dio . Dio ha prodotto nel mondo e in qualche modo é quindi presente nel mondo , nulla impedisce tuttavia di pensare che Dio non si sia ” esaurito ” nel creare il mondo : mantiene una sottile distinzione Dio-mondo . Il mondo é sì un’ estrinsecazione di Dio , ma ciò non significa che Dio sia tutto solo nel mondo . Però Bruno faceva questa aggiunta : come filosofo posso conoscere solo ciò che Dio ha messo di sè nel mondo : nel mondo colgo la presenza di Dio . Non posso però , come per la statua , conoscere tutto Dio , posso conoscere come Dio si é espresso nell’ universo . Non posso conoscere Dio in sé , ma posso conoscerlo come presente nel mondo : si parla di ” Deus super omnia ” e ” Deus insitus omnibus ” : l’ idea di un Dio che sta sopra all’ universo ma che vi sta anche dentro . Allora Bruno diceva che quello che é Deus super omnia l’ uomo non può conoscerlo ( a meno che Dio non glielo voglia far sapere tramite verità rivelate , alle quali peraltro Bruno non pare dare molto peso ) ; come filosofo posso conoscere Dio solo nella misura in cui si é calato nell’ universo : questo consente a Bruno di poter dire che non si può parlare del Dio che non si é calato nell’ universo : non può ( perchè la ragione non può arrivare a tanto ) e non vuole ( perchè non nutre interesse per la questione ) . Bruno ammette che Dio esista come super omnia , ma fino a che punto il suo discorso era sincero ? Probabilmente era solo una scusa quella che il Dio super omnia non lo si può conoscere e quindi non se ne può parlare perchè forse Bruno credeva solo in quello insitus omnibus .
BRUNO , PLOTINO , CUSANO E GLI STOICI
Esaminiamo le differenze tra gli atteggiamenti di alcuni pensatori in qualche modo ” vicini ” a Giordano Bruno per quel che riguarda le idee filosofiche : quella di Plotino , quella di Cusano , quella degli Stoici e quella di Bruno sono infatti tutte filosofie con forti tendenze immanentistiche o addirittura panteistiche , pur con varie differenze e sfumature tra loro . La filosofia di Plotino si reggeva su un equilibrio tendenzialmente instabile perchè aveva aspetti sia trascendenti ( le idee ) , sia immanenti ( le cose sensibili , riflesse dall’ anima ) : egli per descrivere il rapporto Dio-mondo si serviva della metafora della fonte : Dio é la sorgente che genera le cose sensibili ( che sono il corso d’ acqua ): la fonte é radicalmente altra cosa dal ruscello e quindi c’é la trascendenza , ma il legame ruscello – fonte é davvero stretto , indisgiungibile : per qualche verso la fonte si identifica nel ruscello , é presente in esso : non c’é il rapporto creazionistico che separa creatore e creatura ( e che é il fondamento stesso del Cattolicesimo ) e ciò che viene ” emanato ” dalla fonte é sempre legato alla fonte stessa . Il risultato é che c’é un equilibrio instabile tra immanenza e trascendenza . Cusano , dal canto suo , riprendendo queste teorie , accentua la trascendenza perchè insiste sul concetto di ” contrazione ” , ossia il concetto che gli serve a mantenere netta la distinzione tra mondo ( massimo contratto ) e Dio ( Massimo assoluto ) ; in altre parole Cusano rende Plotino compatibile al cristianesimo e al creazionismo , introducendo il concetto di contrazione . Giordano Bruno fa in un certo senso lo stesso lavoro , ma in senso contrario : certamente recupera parecchi elementi cusaniani , per esempio la coincidentia oppositorum con tutte le sue articolazioni ; però c’é una grande differenza tra i due : mentre Cusano , infatti , porta Plotino in una direzione ( la trascendenza ) , Bruno lo porta in quella opposta , ossia verso l’ immanenza . Per dirla con uno slogan , Bruno é Cusano senza la contrazione , cioè tende a ridurre al minimo , fino ad eliminare la differenza tra creato e creatore e a creare il rapporto di creazione : Dio é causa ma é anche principio , ossia é una causa che resta ” dentro ” a ciò che causa . C’ é sì in Bruno sullo sfondo l’ idea di un Dio trascendente , come detto , ma lui di fatto non se ne occupa perchè convinto che per l’ uomo sia impossibile occuparsi di un qualcosa che non può assolutamente conoscere ( con la ragione ) . Questo , tra l’ altro , permette di effettuare un collegamento Bruno – Telesio : Telesio scrisse l’ opera ” La natura spiegata secondo i suoi principi ” dove diceva che é vero che ci sarà un Dio che crea la natura , ma non importa : a lui interessava studiare la natura e non Dio . E’ esattamente il discorso che fa Bruno , in chiave più religiosa : può darsi che ci sia un principio soprannaturale , ma io non me ne occupo . Magari c’é un Deus super omnia , ma non é oggetto di filosofia , tutt’ al più di fede . L’ unico Dio che veramente c’é per l’ uomo , e ancora di più per il filosofo , é il mondo , il Deus insitus omnibus . Cusano diceva ” in Dio ci sono determinate cose , nel mondo ci sono ma in maniera diversa , non più assoluta ” : la Trinità c’é in Dio e c’é anche nel mondo sotto forma dei tre momenti in cui si articola il moto . Bruno invece dice che tutto ciò che si può affermare di Dio lo si può affermare anche del mondo , perchè essi finiscono per essere la stessa cosa . In Bruno poi c’é anche qualcosa di stoico : é infatti il tipico autore umanista che recupera tutto ciò che non sia aristotelico e che quindi recupera pure gli stoici . La sua , infatti , é certamente come quella stoica una concezione immanentistica ; c’é anche nella tradizione stoica l’ idea che libertà e necessità coincidano : la vera libertà umana per loro non é il libero arbitrio , ossia il poter scegliere questo invece di quello , ma la capacità dell’ uomo di adattarsi alla razionalità del tutto ( il Logos ) , farsi governare dalla propria natura intrinseca . Gli stoici ammettono la coincidenza degli opposti , perchè dire che necessità e libertà , che sono due concetti antitetici , coincidano significa proprio effettuare una identificazione degli opposti . Ma ci sono anche diversità tra Bruno e stoici : la posizione stoica é panenteistica ( Dio é dappertutto ) , ma non panteistica : il mondo non si identifica totalmente con Dio , é la forma del mondo che si identifica con Dio ; per loro la forma e la materia sono uniche e la forma é proprio il Logos , o Dio che dir si voglia : Dio é dappertutto perchè in ogni cosa c’é la forma , la quale é espressione del Logos . Invece in Bruno questa distinzione é assente : in Bruno non c’é Dio che si identifica con la forma e accanto la materia ; in Bruno non c’é opposizione materia – forma e quindi la sua attenzione é totalmente rivolta al mondo , che si identifica con Dio ; quella di Bruno é quindi una concezione radicalmente panteistica perchè tutto il mondo é Dio , non solo nei suoi aspetti formali , ma anche in quelli materiali . Motivi plotiniani sono anche coglibili nel De umbris idearum : egli muove dal presupposto neoplatonico dell’ inconoscibilità dell’ essenza divina , a cui tuttavia l’ uomo si avvicina , come l’ ombra , partecipe della luce e delle tenebre , si avvicina alla luce : dal quale presupposto si svolgono i due processi opposti del descensus da Dio all’ uomo e del conseguente ascensus mistico dall’ uomo a Dio : nel De umbris idearum compare la famosissima asserzione ” umbra profunda sumus ” ; le idee vengono analizzate in rapporto alle ombre e in se stesse. Di qui si sviluppa un’arte della memoria. La conoscenza umana è strutturalmente umbratile, non può conoscere la verità, guardare in faccia Dio (questo tema verrà ripreso e ribadito nel De la Causa, per cui della divina sustanza nulla possiamo conoscere se non per modo di specchio, ombra o enigma; e nei Furori: non possiamo vedere Dio se non come in ombra e specchio). Vediamo platonicamente la realtà come l’ombra che si proietta sul fondo della caverna, alla quale volgiamo le spalle sin dalla nascita. Le idee umane, ombre dell’eterna idea, possono essere pensate, e ricordate, solo se rivestite di forme sensibili, adeguate ai nostri sensi. Esse sono un ponte tra luce e tenebre, e consentono di cogliere l’unità della realtà e gli intimi legami da cui essa è permeata. Dal punto di vista delle idee, non vi è alcun aspetto della realtà che non abbia valore, esse connettono infatti i massimi e i minimi. Si dà così (contro i peripatetici) scienza del singolare e del particolare. Bruno stravolge qui la tradizione filosofica occidentale attraverso il tema dell’ombra: in ambito gnoseologico, ontologico, cosmologico. Dal nesso ombra-luce, nei dialoghi italiani scaturiscono l’universo, la differenza tra Dio e universo, tra infinità e infinità. Sul piano etico della natura umbratile si svilupperà, attraverso il tema del limite, l’eroico furore. Nel De Umbris compare anche il tema ermetico dei Mercuri inviati dagli dei, con i quali Bruno finirà per identificarsi. L’ars memoriae si concentra sull’idea secondo cui nell’universo è presente e operante una trama di intrecci, combinazioni, acquisibile tramite un sapere operativo in grado di conoscere e trasformare. Vi è un profondo nesso tra mnemotecnica e magia. Questa stessa ars memorie ricompare poi nel Cantus Circaeus, in forma di compendio (e che con alcuni tagli ricompare nell’Ars reminiscendi pubblicata in Inghilterra). È inoltre alla base del rinnovamento religioso e politico dello Spaccio e della Cabala. Una crisi della memoria, in rapporto all’umbratilità, si sviluppa come scissione all’interno della natura, tra essere e apparire. . Nel Cantus circaeus affiora il tema della crisi che travaglia il mondo. Circe osserva come si siano rotte le leggi della natura, la giustizia e la virtù siano venute meno. Si è spezzato alla radice il nesso tra essere e apparire (nesso che verrà ristabilito nel De la causa in senso ontologico e cosmologico, e nello Spaccio in senso storico e “religioso”), tra l’essere e i caratteri con cui l’essere si manifesta. Circe si accinge a ristabilire l’armonia tra essere e apparire, tra anima e corpo. Trasforma dunque gli uomini in quello che essi effettivamente sono, e li priva delle armi essenziali al loro malefico dominio. Ridotti a bestie, restano senza lingua e senza mano, senza gli strumenti con cui avevano spezzato le leggi naturali e l’armonia: ciò che appare (i caratteri) coincide con ciò che è. Dall’analisi dei caratteri manifesti è quindi possibile individuare l’uomo (il tipo) che si cela sotto le forme animali. L’esempio del porco (che, secondo il Mocenigo, durante il processo a Bruno rappresenta il papa), è comprensibile tramite una presentazione mnemotecnica dei suoi caratteri. Ma questa forma di neoplatonismo , acquisito dalla tradizione e scevro di importanti novità , é la parte meno originale del pensiero bruniano . Interessante é invece la commedia il Candelaio , nella quale Bruno avvia una riflessione generale sulla civiltà umana . Come ciascun mondo nell’ universo é centro e circonferenza , così per similitudine ogni uomo é strumento di un unico infinito che lo condiziona , ma che é a sua volta condizionato dalla realizzazione all’ infinito di ciascuna potenzialità umana . L’ uomo cosciente di ciò realizza con successo le sue capacità infinite nella creazione artistica , o nell’ azione finalizzata al bene comune . Nell’ idea di civiltà umana guidata da Dio , sono infiniti anche i possibili sviluppi di ciascun uomo verso una rinnovata convivenza pacifica ed é ” infinitamente infinito ” il bene che l’ uomo può raggiungere imitando nel mondo le operazioni di Dio nella natura . Inoltre il Candelaio riprende il motivo del tempo , della crisi e delle idee . Qui Bruno scrive: ” Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente, uno, simile e medesmo “. Questa è la filosofia che “aggrandisse” l’animo. La vicissitudine universale è un alternarsi di luce e tenebre, di ignoranza e sapienza. Emerge ancora il ruolo dell’ombra. In essa è radicata la felicità del sapiente, non quella del furioso. L’eroico furore è invece il rovesciamento esatto di questa consapevolezza dello scioglimento della crisi, di questa felicità e sapienza. Il furioso si pone infatti su un estremo, su un oltre, forzando il limite entro cui si salda la virtù del saggio.
IL SUPERAMENTO DEI DUALISMI
Stabilito che Bruno é più panteista di tutti gli altri filosofi esaminati e che di Plotino accentua soprattutto l’ immanenza della realtà , dobbiamo ora vedere il rapporto tra Dio e cose , tra l’ infinito e il finito : é il classico problema presente fin dalle origini della filosofia del rapporto uno – molti . In Bruno uno e molti finiscono per essere la stessa cosa perchè il principio é tutto interno al mondo ; ma allora che rapporto intercorre tra il principio e le cose che da esso si articolano ? Per capirlo possiamo fare riferimento ad un’ immagine che propriamente é di Spinoza , il quale é un filosofo che si richiama palesemente al panteismo bruniano ; si capisce che non é un’ immagine di Bruno perchè é ” matematica ” e in fin dei conti l’ uso che fa Bruno della matematica é puramente ” magico ” : non a caso il suo processo comincia con l’ accusa da parte del nobile veneziano che lo ospitava e pare che egli lo abbia denunciato per dispetto , in quanto Bruno gli aveva promesso di insegnargli la magia – matematica , ma lui era insoddisfatto degli insegnamenti . Al di là di questa vicenda personale , é interessante notare l’ interessamento di Bruno per la magia , ossia la capacità di trasformare la realtà . Nel De Monade numero et figura tra numeri e figure si stabilisce un nesso organico che permette di conoscere la realtà trasformandola: tramite caratteri immagini e sigilli, tramite le strutture che regolano il ritmo. Conoscere i rapporti numerici e le figure geometriche significa individuare le proprietà delle cose, capire il loro significato nell’ordine del mondo, poter agire (e agire effettivamente) sulle cose . Però da un passo di Bruno emerge che cosa egli effettivamente intendesse per magia ; il passo dice : ” grande magia sarebbe quella di uno che fosse in grado di passare dall’ unità alla molteplicità e dalla molteplicità all’ unità ” . La magia é da lui intesa come capacità di cogliere i meccanismi secondo i quali l’ unità si articola nella molteplicità , e la molteplicità é tutta ” ricomposta ” nell’ unità . Si tratta del vecchissimo problema che risale alle origini della filosofia : già Talete diceva che il principio fosse l’ acqua e in qualche modo doveva spiegare in che senso essa poteva diventare tutte le cose e in che senso tutte le cose erano acqua : come possono l’ uno e il molteplice collegarsi tra loro ? Bruno affrontava la questione sfruttando teorie pitagoriche, ma questo non riusulta particolarmente interessante . Torniamo ora all’ immagine di Spinoza che ben spiega la questione : é un’ uso metamatematico , alla Cusano : ” il mondo e tutte le sue articolazioni ( i modi ) derivano dall’ unica sostanza divina come le proprietà del triangolo derivano dall’ essenza del triangolo ” : questa immagine che di non bruniano ha solo l’ uso metamatematico é particolarmente significativa perchè fa capire come il passaggio dall’ uno al molteplice non implichi un ” uscir fuori ” del molteplice dall’ uno : il passaggio dall’ uno ai molti era sempre stato visto come un esteriorizzarsi dell’ uno : per esempio , in Plotino quando l’ essere usciva dall’ Uno manteneva pur sempre un legame con esso , un ” peduncolo ” , tuttavia la fonte non era il ruscello ; stesso discorso valga per Cusano ; invece pensiamo al triangolo e alle sue proprietà e ai suoi teoremi : ragionando sull’ essenza del triangolo , per dire , posso arrivare a dimostrare che la somma degli angoli interni vale 180 gradi . Allora é chiaro che dall’ unica essenza del triangolo faccio venir fuori cose che erano implicite ; in fondo é l’ idea cusaniana dell’ esplicazione e della complicazione : tutto é complicato nell’ essenza del triangolo e poi si esplica sotto forma di teoremi , proprietà , ecc . Però una diversità rispetto a Cusano c’é : la contrazione di fatto non c’é , non c’é un uscir fuori , un distaccarsi del mondo rispetto a Dio : i teoremi non stanno mica fuori dal triangolo , mica escono fuori da lui ; in Cusano invece era come se con la complicazione ci fosse quasi un’ altra cosa , diversa dal massimo assoluto . Gli enti singoli e finiti che compongono l’ universo ( che poi é Dio ) non sono altro che manifestazioni individuali dell’ unica sostanza divina : già per gli stoici le cose erano modi di manifestarsi dell’ unica forma , sostanza divina ( il Logos ) . Quella di Bruno é quindi , in modo radicale , una concezione monistica : non ci sono tante sostanze , ma una sola , che di fatto é Dio e si identifica con il mondo . Quelle che noi chiamiamo comunemente sostanze sono solo ” articolazioni ” interne dell’ unica sostanza ( così come le proprietà del triangolo sono articolazioni del triangolo stesso ) : é il triangolo che esiste , non le sue proprietà ; esse esistono solo come proprietà del triangolo , hanno cioè esistenza ” parassitaria ” proprio come gli accidenti aristotelici ( il giallo , il bello , il grosso ) che per esistere hanno bisogno di una sostanza alla quale riferirsi ( un libro , un cavallo , una casa ) . Solo che per Aristotele gli accidenti erano riferiti alle singole sostanze , mentre per Bruno sono le cose ad essere accidenti , singole manifestazioni dell’ unica sostanza . Il che implica , tra l’ altro , la negazione della morte , che non esiste : Bruno riprende le posizioni eleatiche , che vedevano la morte come aggregazione e disgregazione : la morte esiste solo come trasformazione dell’ unica sostanza . Uno potrebbe dire che magari sarà anche vero che la morte é solo disgregazione , ma comunque questo non ci garantisce due cose : il permanere della vita e della coscienza . Per Bruno però il mondo non é un mondo inerte e meccanicistico , bensì é un mondo vivente : é vero che per lui non esiste la sopravvivenza individuale , ma in realtà propriamente non é morto perchè ciascuno di noi di fatto non é una sostanza , é solo un manifestarsi dell’ unica sostanza , in secondo luogo perchè la materia di cui siamo fatti quando moriamo si trasforma in altro : nessuna materia é inerte e quando moriamo lasciamo comunque spazio ad una materia che continua ad essere viva , perchè tutto é vivo . Bruno crede , da buon platonico , al concetto di anima del mondo : il mondo é un grande essere vivente , anzi , in fin dei conti é l’ unico essere vivente : infatti tutti quelli che noi chiamiamo enti non esistono come sostanze , ma come manifestazioni dell’ unica sostanza che é il mondo e quindi Dio . In altre parole , noi non consideriamo un dito come essere vivente , ma lo consideriamo come organo facente parte di un unico essere vivente , il corpo umano . Questo é il nostro modo di pensare : in un certo senso Bruno concepisce tutta la realtà come viva e tutti gli enti come manifestazioni dell’ unica sostanza , come se ciascun ente fosse un dito dell’ unico corpo vivente che é il mondo . Perchè queste manifestazioni della realtà , che noi chiamiamo enti , si chiamano invece modi ? Perchè dovendo dire quale é la differenza tra il Dio – universo ( l’ unica vera sostanza ) e le singole cose , Bruno dice questo : ” sia l’ universo sia le singole cose possiedono tutto l’ essere ” : le cose per Bruno propriamente rispetto all’ universo sono qualcosa di più che una parte , sono un modo di manifestarsi di essa : non é che l’ universo ha tutto l’ essere e che le cose ne abbiano ” pezzetti ” ; Bruno insiste che ogni cosa ha in sè tutto l’ essere , ciò che ogni singola cosa non possiede in sè sono tutti i modi di manifestarsi dell’ essere , che invece sono posseduti dall’ universo ( da Dio ) . In altri termini non ci sono cose con più essere e altre con meno essere : l’ essere o c’é o non c’é ; in ogni singola cosa c’é tutto l’ essere : é una concezione parmenidea ; c’é infatti una frase nel poema di Parmenide in cui si dice : ” l’ essere non é di più qua e di meno là ; l’ essere che c’é c’é tutto ” . Per non cadere nell’ eleatismo più totale , che finisce per bloccare tutto quanto ( perfino il movimento , la molteplicità ) Bruno arriva a dire : se ogni ente ha in sè tutto l’ essere ( come l’ universo stesso ) , é altrettanto vero che ogni ente ha solamente un modo dell’ essere , mentre tutti i modi sono presenti solo nell’ universo che é appunto somma di tutti i modi . L’ universo ha tutto l’ essere e tutti i modi di essere , ogni ente ha tutto l’ essere , ma non tutti i modi di essere : un ente é solo una manifestazione particolare dell’ essere . Esaminiamo ora meglio la questione del monismo bruniano , monismo che innanzitutto significa avere a che fare con un’ unica sostanza ( l’ universo ) ; però significa che oltre ad essere una numericamente , la sostanza é una qualitativamente : é un monismo qualitativo strettamente connesso alla differenza che c’é tra la filosofia bruniana e quella cusaniana : il rapporto Bruno – Cusano abbiamo visto che in fin dei conti consiste in una presa da parte di Bruno della filosofia cusaniana e nella estirpazione del concetto di contrazione ( cosa che porta Bruno ad eliminare ogni differenza tra Dio e il mondo ) , per cui ciò che Cusano poteva attribuire a Dio , Bruno può attribuirlo al mondo , che infatti si identifica con Dio ; la definizione tipicamente cusaniana di coincidenza degli opposti che attribuiva a Dio , Bruno la allarga all’ intero mondo , il che significa che tutta una serie di dualismi che nella tradizione aristotelica era particolarmente forte , tende a sparire ; é quindi un monismo anche nel dire che le coppie di aspetti opposti caratteristici della realtà vengono superati . Il dualismo più caratteristico era sempre stato quello materia – forma , che a sua volta dava vita a quello potenza – atto ; sono proprio loro ad essere superati : gli apparenti opposti non sono più tali e materia e forma finiscono per essere la stessa cosa : vuol dire che in Bruno la materia cessa di essere realtà inerte per diventare un qualcosa di vivo e produttivo ; in Aristotele la materia era totalmente inerte e per assumere aspetti e per muoversi doveva assumere la forma : la materia era passiva , la forma attiva . In Bruno invece la materia diventa attiva e le forme non sono cose che si aggiungono alla materia per trasformarla ; le forme per Bruno emergono dalla materia stessa ; ricorda vagamente i logoi spermatikoi degli stoici , con questa differenza però : i logoi spermatikoi erano forme particolari che di volta in volta emergevano dall’ unica forma generale ( il Logos ) ; per gli stoici é vero che esiste un’ unica forma e un’ unica sostanza ( e quindi sono anche loro monisti quantitativamente ) , ma sotto l’ aspetto dei dualismi sono fedeli ad Aristotele : c’é materia e forma ; in Bruno invece non é così , non c’é più differenza materia-forma : é la materia stessa che fa emergere le forme perchè non é statica , ma é ” viva ” ( infatti é Dio stesso ) : la materia é già forma di per sè perchè é vita , é sensibilità . Il mondo di Bruno é un mondo vivente e Bruno in fin dei conti é un ilozoista ( ule , materia , + zoo , vivere , = materia vivente ) : é ilozoista anche più dei presocratici , perchè essi concettualmente non vedevano distinzioni tra vita e materia , ossia non erano ancora riusciti a distinguere effettivamente e due cose . L’ idea di attribuire vita alla materia é quindi tipicamente bruniana . La materia é viva e divina ; Bruno si richiama ad un pensatore minore del Medioevo , Davide di Dinantes , il quale fu condannato dalla Chiesa perchè sosteneva l’ identificazione tra Dio e materia , tramite un ragionamento : se la materia é potenza ( con la confusione di potenza come forza al posto di potenza come poter essere , come di fatto intendeva Aristotele ) allora essa é Dio stesso , che per definizione é potenza ( la prima persona della Trinità é infatti la Potenza ) . Anche potenza e atto in Bruno finiscono per essere lo stesso : la potenza diventa lei stessa capace di creare l’ atto ( come la materia si dà la forma ) : Dio é la materia e la materia é Dio . Questa idea della materia viva e divina fa tra l’ altro cadere la distinzione tipicamente aristotelica tra motore e mobile : per Aristotele tutto ciò che si muove deve per forza essere mosso da altro ( omne movens ab alio movetur ) perchè la materia é pura passività ; con Bruno invece la materia diventa viva e quindi i motori non sono estrinseci , ma intrinseci : ogni corpo é mosso dal principio intrinseco ” che é l’ anima propria ” . Che l’ universo non abbia un estrinseco motore risulta dalla considerazione che esso é infinito ; quindi il moto compete solo alle sue parti , cioè ai singoli astri , ma non al tutto , che é immobile : l’ universo , che guardato dal punto di vista dei particolari infiniti esseri che lo compongono é sede del movimento e del divenire , in sè invece é unico , immobile ; una cosa per essere in moto si deve spostare da un punto A ad uno B , ma l’ universo nel suo insieme non potrà muoversi perchè non ha luogo in cui trasferirsi in quanto é già lui l’ insieme di tutti i luoghi ; esso accoglie , nella sua identità impassibile e immutevole , i contrasti e le vicende degli esseri : il mondo non ha divenire , ma le cose divengono nel mondo . Viene quindi a mancare ogni ragione di porre un motore unico nel mondo . E’ questa un’ innovazione importantissima sul piano metafisico perchè in questo modo viene tolto a Dio , il tradizionale motore immobile dell’ aristotelismo , il compito di imprimere dall’ alto e dall’ esterno il movimento al mondo e viene invece l’ idea della divinità a trasformarsi in un principio intrinseco e immanente dell’ animazione cosmica . Tra l’ altro il riconoscere che Dio e il mondo sono lo stesso e che la materia e la forma , in un certo senso , sono lo stesso , implica anche il superamento del dualismo libertà – necessità : assumono per Bruno come per gli stoici lo stesso significato ; in Bruno c’é l’ idea che ciò che l’ uomo deve fare é riconoscere la sua appartenenza al tutto . E’ particolarmente evidente questo in una filosofia come quella di Bruno : esistiamo come aspetto di un’ unica sostanza e l’ errore clamoroso che può commettere l’ uomo é di credere di esistere come realtà staccata e indipendente dalle altre : si deve cercare di concepirsi come parte del tutto , o meglio , come manifestazione del tutto . E’ un modo particolare per realizzare quella cosa che da Platone in poi é stata definita la ” omoiosis theo ” che significa ” diventare simile a Dio ” , assimilarsi a Dio : é il tentativo dell’ uomo di diventare un Dio ; per Bruno l’ uomo , come ogni altro ente , é già Dio ( perchè manifestazione dell’ unica sostanza che é proprio Dio ) , deve solo riconoscerlo : diventare Dio non é altro che riconoscere di essere Dio per Bruno . Come per gli stoici , si deve riconoscere ciò che già si é : Nietzsche diceva ” come si diventa ciò che si é ” e ciò che insegna Bruno é proprio questo : basta sapere ciò che si é . C’é un ultimo dualismo importantissimo che viene da Bruno superato : si tratta del dualismo mondo celeste – mondo sublunare , mondi che per Aristotele erano in netta contrapposizione . Questo dualismo Bruno lo nega , Copernico lo afferma : questo , tra l’ altro , spiega come la filosofia tenda sempre ad arrivare prima della scienza : fino al 1800 la teoria atomistica , per esempio , non era scientifica , ma era già stata elaborata in termini metafisici da Democrito e da Epicuro ; l’ infinità dell’ universo é stata prima pensata da Bruno , che é un filosofo , e poi riconosciuta scientificamente ( ed oggigiorno é stata messa in dubbio ) . Un’ immagine che ben spiega l’ infinitezza dell’ universo e la sensazione di finitezza che tuttavia ne deriva é quella della foresta , di cui Bruno si avvale nel De immenso : se mi trovo in una foresta immensa ( diciamo pure infinita ) in qualunque luogo io mi trovi ho l’ impressione di essere al centro , perchè nell’ infinito il centro é dappertutto . Al parziale superamento scientifico del dualismo mondo sublunare-mondo celeste si arriverà dopo qualche decennio , Bruno ci é arrivato in senso metafisico , con la coincidenza degli opposti . Dire che ci sono due materie radicalmente diverse che compongono l’ una il mondo terrestre e l’ altra quello celeste , vuol dire che esiste una materia corruttibile e una materia incorruttibile ; per Aristotele poi le stelle erano attaccate al cielo delle stelle fisse . Bruno nega i dualismi e l’intero universo é fatto dalla stessa materia , da Dio . E’ poi interessante notare il fatto che Bruno recuperi oltre a Parmenide anche Eraclito , perchè vede la materia come un continuo divenire , in continuo moto . L’ immagine della foresta poi va vista come duplice dimostrazione : in primis dimostra la non certezza dei punti di riferimento ; poi fa capire che pure l’ idea del cielo delle stelle fisse é un’ illusione ottica : ci pare che oltre il cielo delle stelle fisse non ci sia più niente , ma in realtà il mondo continua all’ infinito ; proprio come nell’ immensa foresta ci sembra sempre di essere al centro e in una realtà finita perchè all’ orizzonte per via di un’ illusione ottica ci sembra che gli alberi finiscano , ma in realtà continuano ; in questo modo la ” molesta turba del Sofista potrà ritenere che ciò che é espresso dai sensi sia la verità ” , ossia penserà che l’ universo sia finito facendo lo stesso ragionamento di quando ci si trova in un’ immensa foresta : si pensa sempre di essere al centro . Allo stesso modo se noi fossimo su un altro pianeta ci sembrerebbe di essere al centro dell’ universo . Il mondo di Bruno é assolutamente omogeneo nella sostanza e le stelle stesse non sono collocate tutte alla stessa distanza , ma in profondità : nella foresta infinita , guardando all’ orizzonte , ci sembrerà che tutti gli alberi siano allineati sul fondo e non disposti in profondità ; la stessa cosa vale per le stelle , che per lo stesso effetto ci sembrano tutte allineate sullo stesso piano , ma che in realtà sono disposte in profondità . Quelle che noi chiamiamo costellazioni perdono allora di significato perchè ai nostri occhi risultano stelle allineate , ma in realtà sono disposte in profondità le une rispetto alle altre .
LA MORALE E IL MITO DI ATTEONE
Esaminiamo ora la morale di Bruno , cui gira intorno tutta la sua filosofia : sia la concezione cosmologica ( l’ infinità del mondo ) sia quella metafisica ( l’ unità e il superamento dei dualismi ) sono tutte cose funzionali all’ atteggiamento etico bruniano , che viene ben riassunto in una famosa espressione : l’ eroico furore . Che cosa significa quest’ espressione ? Traduce e reinterpreta la concezione dell’ amore platonico , che era piuttosto diffusa all’ epoca . Il termine ” furore ” va inteso come ” pazzia ” ( pensiamo all’ ” Orlando furioso ” di Ariosto all’ incirca di quegli stessi anni ) e Platone stesso aveva insistito sul fatto che l’ eros fosse una follia , anche se positiva . Se furore vuol dire follia , eroico va letto in un duplice significato : anche qui Bruno riprende un gioco di parole e una falsa etimologia di cui si era già servito Platone : questi aveva notato l’ analogia tra eros ed eroe . Nel mondo greco classico , poi , eroe era non solo l’ uomo valoroso , ma anche la semi-divinità ( gli eroi in fondo erano anche dei semi-dei ) ; Platone nel Simposio insisteva sul fatto che Eros fosse un semi-dio ; eroico vuol quindi dire sia eroico nel senso di valoroso ma anche nel senso di erotico per Bruno . Ma cosa sono gli eroici furori ? Sono la tendenza mistica propria dell’ uomo , che ha compreso certe realtà , all’ omoiosis theo ( assimilazione a Dio ) . In Bruno l’ omoiosis theo assume caratteri differenti rispetto a quelli assunti in Platone nel Teeteto : Bruno riprende dalla tradizione platonica l’ idea dell’ avvicinarsi sempre di più a Dio fino ad ” indiarsi ” , come dice Dante , diventare quasi una sola cosa con Dio ; riprende poi da Platone ( pensiamo alla biga alata , che per muoversi necessita dell’ auriga ma anche del cavallo bianco ) l’ idea che lo strumento di questo ” indiarsi ” sia contemporaneamente un fatto di ragione e di intelligenza da un lato ma anche di volontà e di amore dall’ altro . Quello che é nuovo in Bruno é la concezione di quel Dio a cui l’ uomo é invitato ad assimilarsi ; é ovvio che l’ assimilazione vari a seconda di come si intenda Dio : questo slancio di amore e di intelligenza ( ma anche di libertà , visto che l’ universo é infinito ) naturalmente Bruno lo intendeva in modo diverso da quello in cui potevano intenderlo i cristiani , con la loro concezione di divinità ben diversa da quella bruniana . Da notare che accanto agli ” Eroici furori ” Bruno scrive un’ altra opera , forse meno famosa , intitolata ” Lo spaccio della bestia trionfante ” , dove spaccio sta per ” cacciata ” : la bestia rappresenta il più grande dei vizi che l’ uomo possa avere , l’ accidia ( l’ agire poco , l’ essere inattivi ) : per Bruno quest’ atteggiamento va dissipato . Lo Spaccio della bestia trionfante è costituito da cinque dialoghi che si svolgono tra gli dei convocati da Giove per liberare i cieli dalle bestie che hanno dato il nome alle costellazioni e che simboleggiano le false virtù, vecchi valori da trasvalutare. Giove colloca al primo posto tra le virtù la dea Verità, accanto alla quale sta una dea dal duplice nome: Provvidenza e Prudenza. Provvidenza in quanto propria del divino, Prudenza in quanto umana capacità di concordare e conciliarsi col divino. L’Ocio – l’Ozio e la rassegnazione sono i vizi più gravi, che rendono l’uomo simile ai bruti, sono i mali, la “bestia” che deve essere spacciata, cioè scacciata, dal mondo – scacciato dai cieli per far posto alla Sollecitudine, esalta se stesso e l’età dell’oro. All’ozio Giove preferisce però, facendo l’elogio dell’attività umana e dello sviluppo della civiltà, la Sollecitudine. Essa ha due volti: l’intelletto e le mani, strumenti attraverso i quali l’uomo può affiancare Dio nella sua opera di trasformazione e vivificazione della natura. Si tratta di un elogio dell’ homo faber , dell’uomo come artefice del proprio destino . Ritornando agli Eroici Furori , c’é un pò un paradosso nell’ omoiosis theo di Bruno perchè il suo é un discorso di radicale immanentizzazione ( é panteista ) e di conseguenza é come se Dio fosse il mondo intero ( deus sive natura ) e quindi già noi fossimo Dio : come facciamo ad identificarci con un Dio che siamo già noi ? Allora che cosa significa identificarsi in Dio se già lo siamo ? Significa un qualcosa di piuttosto simile a ciò che intendevano gli stoici : in sostanza il problema é ” diventare ciò che si é ” , rendersi conto di essere Dio perchè finchè non ce ne rendiamo conto é come se non lo fossimo . Non a caso Bruno arrivava a far coincidere , sulla scia degli stoici , libertà e necessità , facendo così venir meno il libero arbitrio ( cosa che può sembrare strana in un autore che tanto esalta la libertà nell’ infinitezza del mondo ) ; la verità é che per lui la libertà coincide con la necessità , e si identifica in essa : la libertà che dà Bruno é quella che rende l’ uomo filosofo praticamente identico a Dio . E’ evidente che lo stato di libertà e necessità presente nella divinità come coincidenza degli opposti ci deve essere anche nell’ uomo ( che é un modo di essere della divinità ) ; ma il problema é prendere atto di ciò che é già vero in noi e solo quando ce ne renderemo conto raggiungeremo l’ omoiosis theo : é un amore intellettuale verso Dio , ma anche intelligente . La vera differenza tra Bruno e stoici é che per loro la passione va eliminata ( apatheia ) mentre invece Bruno é il filosofo della passione , é platonico a tutti gli effetti . Naturalmente la filosofia di Bruno é fortemente religiosa ( fu condannato proprio perchè la sua filosofia era religiosa ) ma di che tipo di religiosità si tratta ? Bruno nutre grande simpatia per la religione egizia , sebbene ai suoi tempi se ne sapesse ben poco ( i geroglifici non erano ancora stati interpretati correttamente ) . In particolare Bruno , che é un umanista a tutti gli effetti , descriverà il Rinascimento servendosi dell’ immagine di una pianta amputata , ma non ancora morta ; il tronco é ancora vivo e dopo secoli bui ( il Medioevo ) ricomincia a germogliare : le radici per Bruno non sono tanto costituite dal mondo latino e greco , quanto piuttosto da quello egizio . Bruno era attratto dal mondo egizio soprattutto perchè le divinità egizie erano terioantropomorfiche ( nello stesso tempo umane e animali ) ; lui vedeva ciò come una rappresentazione simbolica delle sue stesse idee : era convinto dell’ identità Dio – natura , ma anche natura – uomo e quindi Dio – uomo : questi tre aspetti sono quindi ai suoi occhi la stessa cosa e l’ omoiosis theo realizza proprio questa identità . Questa idea é poi ben espressa nell’ interpretazione che Bruno dà dell’ antico mito di Atteone ; era una mania piuttosto diffusa ai suoi tempi quella di rileggere in chiave filosofica con interpretazioni allegoriche i miti antichi , cambiandone anche la gerarchia assiologica : il significato del mito di Atteone era fortemente negativo , ma Bruno lo stravolge e lo rende positivo . Bruno compone un sonetto immaginato scritto da un personaggio del dialogo e dopo il sonetto prova a raccontare il mito : racconta di questo cacciatore , Atteone , che inoltrandosi in una selva fitta e difficile da percorrere arriva ad un laghetto e vede la dea Diana nuda che fa il bagno ; per questo motivo viene punito e trasformato in cervo e a questo punto i suoi cani , non riconoscendolo , lo inseguono e lo sbranano . Evidentemente il significato originario del mito era fortemente negativo : ben emerge il tema dell’ ” ubris ” , ossia della tracotanza , dell’ uomo che fa un qualcosa che lo colloca su un piano che non é il suo , su un piano eccessivo : per uno sfondamento dei limiti viene punito . Invece Bruno lo legge diversamente perchè nulla é più positivo che lo sfondare i limiti , espandersi liberamente all’ infinito : legge ogni elemento del mito reinterpretandolo : Atteone é l’ uomo ( più precisamente il filosofo ) ; i cani sono di due tipi , alcuni più agili ma meno forti , altri più forti ma meno agili , e rappresentano due aspetti delle facoltà umane , la volontà e l’ intelletto ; la metafora della caccia é poi tipica per descrivere la filosofia , quasi come se si andasse a caccia del sapere ( già Platone l’ aveva usata ) . Atteone ( il filosofo ) insegue la preda ( che é la natura ) : é il filosofo che ricerca l’ essenza della natura ; ma la selva non é facile da attraversare e non tutti possono farcela ( emerge la concezione aristocratica che Bruno ha del sapere , derivatagli dall’ averroismo ) ; ad un certo punto il filosofo incontra la dea Diana , che incarna la natura e che si rispecchia nello stagno : la dea che si rispecchia simboleggia la divinità che si rispecchia nella natura : Bruno riprende un’ espressione già usata da san Paolo secondo la quale la divinità può essere letta ” per speculum ” , come attraverso lo specchio della natura . Il filosofo avendo inseguito la natura la vede nella sua nudità , nella sua essenza e lui stesso ne é trasformato ( infatti il cervo incarna anch’ esso la natura ) . I cani si rivolgono contro di lui , cioè i suoi pensieri prima rivolti ad una natura concepita come esterna finiscono per rivolgersi contro lui stesso finchè non viene da essi catturato , l’ uomo arriva cioè a capire che lui , la natura e la divinità sono la stessa cosa . In altre parole significa che l’ uomo che ricerca la natura trova la divinità e alla fine scopre che questa natura – divinità non é altro che lui stesso . Il mito rappresenta tutta la filosofia bruniana , l’ identità Dio – natura – uomo che c’é sempre stata e sempre ci sarà , ma spetta alla filosofia portare l’ uomo a rendersene conto , quasi come se non si realizzasse pienamente se non scoperta dall’ uomo . Il mito diventa quindi fortemente positivo , perchè rappresenta l’ uomo che arriva al traguardo del processo conoscitivo . Come accennato , si tratta di un percorso non per tutti fattibile , nel quale bisogna attraversare luoghi ” visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini ” ; solo gli uomini superiori alla massa potranno farcela . Tuttavia , in contrasto con questa posizione antidemocratica é l’ intuizione bruniana del progresso umano : é un’ intuizione che , congiunta alla sua rivendicazione della libertà di pensiero costatagli la vita , fa dell’ antidemocratico Bruno un uomo nuovo e lo eleva a simbolo della democrazia , della libertà . Egli infatti , in toni fortemente umanistici di passione per la società presente , afferma in risposta a quelli che svalutano il presente rivendicando una fantastica età dell’ oro : ” ne l’ età de l’ oro per l’ ocio gli uomini non erano più virtuosi che al presente le bestie … Or essendo tra essi … nate le difficultadi , risorte le necessitadi , sono acuiti gli ingegni , inventate le industrie , scoperte le arti ; e sempre di giorno in giorno , per mezzo de l’ egestade , dalla profundità de l’ intelletto umano si eccitano nove e maravigliose invenzioni . Onde sempre più e più per le sollecite ed urgenti occupazioni allontanandosi dall’ esser bestiale , più altamente s’ approssimano a l’ esser divino ” ( Spaccio de la bestia trionfante ) . Non l’ autorità degli antichi regge gli uomini nei loro ordinamenti e li ” approssima a l’ esser divino ” , ma la loro volontà di avanzare , di progredire: la tematica del progresso affiora anche ne “La cena delle ceneri” in cui compare un vivace dialogo tra il passatista Prudenzio, sostenitore della superiorità degli antichi, con Teofilo, che invece sostiene che il sapere stia nel presente più che nel passato e nel futuro più che nel presente; egli é un alter ego di Giordano Bruno e, come si può evincere dal suo nome, ha dalla sua la divinità (teofilo vuol dire “caro alla divinità”), ossia l’intero universo. In modo opposto allo Spaccio de la bestia trionfante , la Cabala del cavallo Pegaseo , incentrata nel concetto di asinità, rovescia l’idea della praxis, del rinnovamento come valorizzazione delle opere e della magia. Essa è uno specchio deformante. Bruno propone (sullo stile dell’ erasmiano Elogio della follia) un elogio dell’asinità, il preciso rovesciamento dei valori presentati nello Spaccio. Si rovescia il nesso tra sapienza e “stoltizia”, tra scienza e fede, tra tenebre e luce, tra età dell’oro e civiltà. Le tesi dell’Ozio vengono osannate, tramite un lessico cristiano e riformato in un testo intrecciato alle citazioni bibliche. L’allegoria è piegata a sostenere le tesi di chi l’aveva criticata in virtù della “lettera”. In un gioco di specchi, la prospettiva dello Spaccio è capovolta. Si passa al primato dell’ignoranza. Ma di un’altra ignoranza si farà l’elogio (non di quella ociosa) nei furori, dell’ignoranza che si oppone alla sapienza. Qui l’asinità si rovescia, con una tecnica erasmiana, in una sua critica, e delle filosofie asinine. In effetti si rovescia in un aspetto costitutivo della vicissitudine.
TOMMASO CAMPANELLA
IL PENSIERO DI CAMPANELLA
Nato a Stignano che all’epoca era nella contea di Stilo [1], in provincia di Reggio Calabria, Campanella fu un ragazzo prodigio. Figlio di un calzolaio povero ed illetterato, prese gli Ordini Domenicani non ancora quindicenne, con il nome di frà Tommaso in onore di San Tommaso d’Aquino. Studiò teologia e filosofia con diversi maestri. Subito dopo, cambiò idea sull’ortodossia aristoteliana e fu attratto dall’empirismo di Bernardino Telesio (1509 – 1588), il quale gli insegnò che la conoscenza è sensazione e che tutte le cose naturali ne possedevano. Campanella scrisse la sua prima opera, Philosophia sensibus demonstrata (Filosofia dimostrata dai sensi), pubblicata nel 1592, difendendo Telesio. Nello stesso anno subì un processo da parte del suo stesso ordine e tra il 1594 e il 1595 venne inquisito e torturato a Padova e Roma. Il processo inquisitoriale si concluse con l’abiura e la condanna per sospetto veemente di eresia da parte della Congregazione del Sant’Uffizio. A Napoli venne in contatto con l’astrologia, i riferimenti astrologici infatti sarebbero diventati una caratteristica costante nei suoi scritti. Le concezioni non ortodosse di Campanella – specialmente in contrasto con l’autorità di Aristotele – lo portarono in conflitto con la Chiesa. Denunciato all’Inquisizione e citato presso il Sant’Uffizio a Roma, fu confinato in un convento fino al 1597. Dopo la sua liberazione, Campanella tornò in Calabria, e si fece portatore di una cospirazione contro il potere spagnolo a causa della quale fu ordinata la chiusura, per decreto del vicario Pedro di Toledo, dell’Accademia Cosentina. Lo scopo di Campanella era quello di formare una società basata sulla comunità dei beni e delle mogli (in somiglianza allo stato ideale di Platone), poiché, sulle basi delle profezie di Gioacchino da Fiore e sulle sue osservazioni astronomiche, predisse l’avvento di una catastrofe che avrebbe rinnovato il mondo dello spirito nell’anno 1600. Tradito da due compagni cospiratori, fu preso ed incarcerato a Napoli. Fingendo problemi mentali riuscì a fuggire la pena di morte, ma fu condannato all’ergastolo. Campanella trascorse 27 anni in prigione a Napoli. Durante la prigionia scrisse le sue opere più importanti: “La Monarchia di Spagna” (1600), “Aforismi Politici” (1601), “Atheismus triumphatus” (1605-1607), “Quod reminiscetur” (1606?), “Metaphysica” (1609-1623), “Theologia” (1613-1624), e la sua opera più famosa, La città del sole (1623), in cui vagheggiava l’instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale). Egli addirittura intervenne nel primo processo contro Galileo Galilei con la sua coraggiosa “Apologia di Galileo” (1616). Fu infine scarcerato nel 1626, grazie a Papa Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV di Spagna. Campanella fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il Sant’Uffizio, e fu liberato definitivamente nel 1629. Visse per cinque anni a Roma, dove fu il consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche. Nel 1634 però, una nuova cospirazione in Calabria, portata avanti da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l’aiuto del Cardinale Barberini e dell’ambasciatore francese de Noailles, fuggì in Francia, dove fu benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII. Protetto dal Cardinale Richelieu, e finanziato dal Re, passò il resto dei suoi giorni al convento parigino di Saint-Honoré. Il suo ultimo lavoro fu un poema che celebrava la nascita del futuro Luigi XIV (Ecloga in portentosam Delphini nativitatem). Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea(materia). Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una gnoseologia essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l’esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus additus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus abitus’, che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d’Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus additus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum). Secondo Campanella, i tre principi, materia, caldo e freddo, di cui è composta la natura, sono frutto della creazione divina. Questo Dio però, a differenza del Dio di Telesio, che non si interessava del mondo, si manifesta continuamente nel mondo, attraverso le tre primalità: Potenza, Sapienza e Amore. A queste tre primalità si contrappongono quelle che noi chiamiamo le ‘potenze negative’, che possono variamente combinarsi alle primalità nell’ambito delle varie forme della magia che secondo Campanella governa tutte le cose del mondo. Essa fa orientare l’opera divina verso il bene oppure può contrastare l’opera divina, a seconda che sia una magia divina, cioè una manifestazione di Dio, o una magia diabolica, quindi che contrasta l’opera di Dio; esiste poi una magia umana, che può essere sia di discendenza divina che di discendenza diabolica. Come si manifesta questa magia? La magia si manifesta attraverso delle sensazioni, che possono essere negative o positive: sensazioni che l’uomo coglie, e che gli fanno capire di essere parte integrante di un ordine universale; tuttavia, nonostante sia parte di questo ordine, può opporsi a tale ordine, e se si oppone all’ordine universale la magia è negativa, se invece si armonizza, ovvero cerca di seguire l’ordine universale, allora la magia è positiva. In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Poiché però, affermando questo, Campanella poteva essere condannato per eresia, forse per sfuggire alla condanna egli sostenne che religione cristiana è l’unica religione positiva, poiché è imposta dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali. Campanella fu autore anche di una importante opera di carattere utopistico, ovvero La Città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopistica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V sec. a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell’utopismo campanelliano è da annoverare anche la Nuova Atlantide di Bacone. L’utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone; però è importante mettere in evidenza che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli esalta realtà concreta o effettuale, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di concreto metodo di governo della cosa pubblica. Significato e senso politico del pensiero di T.Campanella sfuggono ad ogni cliché ed interpretazione storiografica in cui lo si è finora relegato. Riamangono tuttora aperti molti aspetti della sua ricerca intellettuale, estremamente articolata e con sfaccettature a volte contraddittorie, per riconfigurarsi nella sua complessa molteplicità, lontano dal settarismo idealista come dalle ristrettezze di una duplice teocratica rivisitazione cattolica, da una antistorica visione laica come da un’ angusta ideologia marxista. L’incertezza è già evidente nell’interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell’opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale. Per Silvio Spaventa il Campanella è il “filosofo della restaurazione cattolica”, in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco De Sanctis: “Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo”[2] Non sfugge qui una contaminazione che riconduce a Platone e Tommaso Moro e può far pensare al futuro socialismo scientifico di Karl Marx.
RIASSUNTO DELLA CITTA’ DEL SOLE
UNA SOMMARIA DESCRIZIONE DELLA CITTA’ : Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte, il quale è tanto, che la città fa due miglia di diametro e più, e viene ad essere sette miglia di circolo; ma, per la levatura, più abitazioni ha, che si fosse in piano. La città è distinta in sette gironi grandissimi, nominati dalli sette pianeti, e s’entra dall’uno all’altro per quattro strade e per quattro porte, alli quattro angoli del mondo spettanti; ma sta in modo che, se fosse espugnato il primo girone, bisogna più travaglio al secondo e poi più; talché sette fiate bisogna espugnarla per vincerla. Ma io son di parere, che neanche il primo si può, tanto è grosso e terrapieno, ed ha valguardi, torrioni, artelleria e fossati di fuora.
I REGGITORI DELLA CITTA’ : Un Principe Sacerdote tra loro, che s’appella Sole, e in lingua nostra si dice Metafisico: questo è capo di tutti in spirituale e temporale, e tutti li negozi in lui si terminano. Ha tre Principi collaterali: Pon, Sin, Mor, che vuol dir: Potestà, Sapienza e Amore. Il Potestà ha cura delle guerre e delle paci e dell’arte militare; è supremo nella guerra, ma non sopra Sole; ha cura dell’offiziali, guerrieri, soldati, munizioni, fortificazioni ed espugnazioni. Il Sapienza ha cura di tutte le scienze e delli dottori e magistrati dell’arti liberali e meccaniche, tiene sotto di sé tanti offiziali quante son le scienze: ci è l’Astrologo, il Cosmografo, il Geometra, il Loico, il Rettorico, il Grammatico, il Medico, il Fisico, il Politico, il Morale; e tiene un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il popolo ad usanza di Pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze. (…) Il Amore ha cura della generazione, con unir li maschi e le femine in modo che faccin buona razza; e si riden di noi che attendemo alla razza de cani e cavalli, e trascuramo la nostra. Tien cura dell’educazione, delle medicine, spezierie, del seminare e raccogliere li frutti, delle biade, delle mense e d’ogni altra cosa pertinente al vitto e vestito e coito, ed ha molti maestri e maestre dedicate a queste arti. Il Metafisico tratta tutti questi negozi con loro, ché senza lui nulla si fa, ed ogni cosa la communicano essi quattro, e dove il Metafisico inchina, son d’accordo.
COMUNISMO DI BENI E DI AFFETTI : Tutte cose son communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare cosa alcuna. Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l’amor proprio; ché, per sublimar a ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo potente; o avaro ed insidioso ed ippocrita, si è impotente. Ma quando perdono l’amor proprio, resta il commune solo.
L’EDUCAZIONE : E s’allevan tutti in tutte l’arti. Dopo gli tre anni li fanciulli imparano la lingua e l’alfabeto nelle mura, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano e insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e scapigli, fin alli sette anni, e li conducono nell’officine dell’arti, cosidori, pittori, orefici, ecc.; e mirano l’inclinazione. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle scienze naturali, tutti; ché son quattro lettori della medesima lezione, e in quattro ore tutte quattro le squadre si spediscono; perché, mentre gli altri si esercitano col corpo, o fan gli pubblici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi tutti si mettono alle matematiche, medicine ed altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e concorrenza; e quelli poi diventano offiziali di quella scienza, dove miglior profitto fanno, o di quell’arte meccanica, perché ognuna ha il suo capo. Ed in campagna, nei lavori e nella pastura delle bestie pur vanno a imparare; e quello è tenuto di più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono di noi, che gli artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli, che null’arte imparano e stanno oziosi e tengon in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica.
LA GIUSTIZIA : Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci son scritte tutte le quiddità delle cose in breve: che cosa è Dio, che cosa è angelo, che cosa è mondo, stella, uomo, ecc., con gran sale, e d’ogni virtù la diffinizione. E li giudici d’ogni virtù hanno la sedia in quel loco, quando giudicano, e dicono: “Ecco, tu peccasti contra questa diffinizione: leggi”; e così poi lo condanna o d’ingratitudine o di pigrizia o d’ignoranza; e le condanne son certe vere medicine, più che pene, e di soavità grande.
LA RELIGIONE : Sommo sacerdote è il Sole; e tutti gli offiziali son sacerdoti, parlando delli capi, ed offizio loro è purgar le conscienze. Talché tutti si confessano a quelli, ed essi imparano che sorti di peccati regnano. E si confessano alli tre maggiori tanto li peccati propri, quanto gli strani in genere, senza nominare gli peccatori, e li tre poi si confessano al Sole. Il quale conosce che sorti di errori corrono e sovviene alli bisogni della città e fa a Dio sacrifizio ed orazioni, a cui esso confessa li peccati suoi e di tutto il popolo publicamente in su l’altare, ogni volta che sia necessario per amendarli, senza nominar alcuno. E così assolve il popolo, ammonendo che si guardi in quelli errori, e confessa i suoi in publico e poi fa sacrifizio a Dio, che voglia assolvere tutta la città ed ammaestrarla e difenderla.
UN SACRIFICIO INCRUENTO : Il sacrifizio è questo, che dimanda al popolo chi si vol sacrificare per gli suoi membri, e così un di quelli più buoni si sacrifica. E ‘l sacerdote lo pone sopra una tavola, che è tenuta da quattro funi, che stanno a quattro girelle della cupola, e, fatta l’orazione a Dio che riceva quel sacrifizio nobile e voluntario umano (non di bestie involuntarie, come fanno i Gentili), fa tirar le funi; e questo saglie in alto alla cupoletta e qui si mette in orazione; e li si dà da magnare parcamente, sino a tanto che la città è espiata. Ed esso con orazioni e digiuni prega Dio, che riceva il pronto sacrifizio suo; e così, dopo venti o trenta giorni, placata l’ira di Dio, torna a basso per le parti di fuore o si fa sacerdote; e questo è sempre onorato e ben voluto, perché esso si dà per morto, ma Dio non vuol che mora.
LA PREGHIERA : L’orazioni si fan alli quattro angoli del mondo orizzontali, e la mattina prima a levante, poi a ponente, poi ad austro, poi a settentrione; la sera al riverso, prima a ponente, poi a levante, poi a settentrione, poi ad austro.
IL SOLE : Onorano il sole e le stelle come cose viventi e statue di Dio e tempi celesti; ma non l’adorano, e più onorano il sole. Nulla creatura adorano di latria, altro che Dio, e pero a lui serveno solo sotto l’insegna del sole, ch’è insegna e volto di Dio, da cui viene la luce e ‘l calore ed ogni altra cosa. Pero l’altare è come un sole fatto, e li sacerdoti pregano Dio nel sole e nelle stelle, com’in altari, e nel cielo, come tempio; e chiamano gli angeli buoni per intercessori, che stanno nelle stelle, vive case loro, e che le bellezze sue Dio più le mostro in cielo e nel sole, come suo trofeo e statua.
L’IMMORTALITA’ : Tengono per cosa certa l’immortalità dell’anima, e che s’accompagni, morendo, con spiriti buoni o rei, secondo il merito. Ma li luoghi delle pene e premi non l’han tanto per certi; ma assai ragionevole pare che sia il cielo e i luochi sotterranei. Stanno anche molto curiosi di sapere se queste sono eterne o no. Di più son certi che vi siano angeli buoni e tristi, come avviene tra gli uomini, ma quel che sarà di loro aspettano avviso dal cielo. Stanno in dubbio se ci siano altri mondi fuori di questo, ma stimano pazzia dir che non ci sia niente, perché il niente né dentro né fuori del mondo è, e Dio, infinito ente, non comporta il niente seco.
IL PECCATO ORIGINALE : Essi confessano che nel mondo ci sia gran corruttela, e che gli uomini si reggono follemente e non con ragione; e che i buoni pateno e i tristi reggono; (…). Dal che argomentano che ci sia stato gran scompiglio nelle cose umane(…)i; ma confessano che l’età del mondo succedono secondo l’ordine di pianeti(…). E questa nostra età par che sia di Mercurio, si bene le congiunzioni magne l’intravariano, e l’anomalie han gran forza fatale. Finalmente dicono ch’è felice il cristiano, che si contenta di credere che sia avvenuto per il peccato d’Adamo tanto scompiglio, e credono che dai padri a’ figli corre il male più della pena che della colpa.
UN AUSPICIO EUROCENTRICO : Se questi, che seguon solo la legge della natura, sono tanto vicini al cristianesimo, che nulla cosa aggiunge alla legge naturale si non i sacramenti, io cavo argumento di questa relazione che la vera legge è la cristiana, e che, tolti gli abusi, sarà signora del mondo. E che pero gli Spagnuoli trovaro il resto del mondo, benché il primo trovatore fu il Colombo vostro genovese, per unirlo tutto ad una legge; e questi filosofi saran testimoni della verità, eletti da Dio.
SUAREZ
A cura di Alberto Manicone
Francisco Suarez, Doctor Eximius, pio ed eminente teologo, come lo denominò Paolo V, nacque a Granada, il 5 gennaio, 1548 e morì a Lisbona il 25 settembre 1617. Entrò nell’ordine dei gesuiti a Salamanca, il 16 giugno, 1564; e in questa città studiò filosofia e teologia dal 1565 a 1570 e fu ordinato nel 1572. Insegnò filosofia ad Avila e Segovia (1571), e successivamente, teologia ad Avila e Segovia (1575), Valladolid (1576), Roma (1580-85), Alcalá (1585-92), Salamanca (1592-97) e Coimbra (1597-1616). Tutti i suoi biografi dicono che fu un eccellente religioso uso alla pratica della mortificazione, laborioso, modesto e dedito alla preghiera. Godette di tale fama di saggezza, a tal punto che Gregorio XIII assistette alla sua prima conferenza a Roma; Paolo V lo invitò a confutare gli errori del re James d’Inghilterra e desiderò trattenerlo presso di sè, per approfittare della sua erudizione. Filippo II lo mandò all’università di Coimbra per dare prestigio a quell’istituzione e quando Suárez visitò l’università di Barcellona, i dottori dell’università gli vennero incontro con le insegne delle loro facoltà. I suoi scritti sono caratterizzati da profondità, da penetrazione,da chiarezza espositiva e testimoniano l’eccezionale conoscenza del loro autore dei Padri,sia di autori eretici che ecclesiastici. Bossuet disse che le scritture di Suárez contenevano tutta la filosofia scolastica; Werner afferma che se Suárez non è il primo teologo della sua età, è, senza dubbio, fra i primi; Grotius stesso riconosce in lui uno dei più grandi teologi e profondi filosofi e Mackintosh lo considera uno dei fondatori del diritto internazionale. Nella scolastica,egli fondò una sua propria scuola, il “Suarismo”, i cui più importanti principi caratteristici sono:
1. il principio d’individuazione degli esseri nella loro propria concreta realtà;
2. la pura potenzialità della materia;
3. il singolare come l’oggetto di una cognizione intellettuale diretta;
4. una distinzione non concettuale fra l’essenza e l’esistenza degli esseri generati;
5. la possibilità di una sostanza spirituale soltanto numericamente distinta da un’altra;
6. l’ambizione per l’unione ipostatica come la colpa degli angeli caduti;
7. l’Incarnazione del Verbo, anche se Adamo non avesse peccato;
8. la solennità del voto solo nel diritto ecclesiastico;
9. il sistema del Congruismo che modifica il Molinismo tramite l’introduzione di circostanze soggettive, così come dello spazio e del tempo, propizie all’azione della Grazia Efficace e con la predestinazione ante previsa merita;
10. la possibilità di difendere la medesima verità sia con la scienza che con la fede;
11. la credenza nella divina autorità contenuta in un atto di fede;
12. la produzione del corpo e del sangue di Cristo tramite la transustanziazione come costituzione del sacrificio eucaristico;
13. la grazia finale della Santissima Vergine maria superiore a quella degli angeli e dei santi uniti.
I “codici di Suarez” sono stati adottati in parecchie università – Valladolid, Salamanca (1720), Alcalá (1734) – . Carlo III soppresse quei codici in tutti i suoi domini tramite un decreto regio del del 12 agosto1768 e proibì l’uso di autori gesuiti, e quindi di Suárez, nell’istruzione. È evidente, dice il cardinale Gonzalez, che, in tanti volumi scritti da Suárez, si possono trovare alcuni argomenti di poca utilità, la cui l’importanza pratica o scientifica non è in proporzione al tempo ed allo spazio che Suárez dedica a loro. Inoltre egli fu accusato di essere in qualchemodo vago. Il suo libro De Defensione Fidei fu bruciato a Londra dal comando reale e fu proibito dal Parlamento di Parigi (1614) in quanto conteneva dottrine contrarie al potere sovrano. È particolarmente importante, poiché rappresenta il culmine in oltre trecento anni di Aristotelismo scolastico, ed i suoi lavori furono considerati caratteristici dai primi moderni. Era poco più vecchio di una generazione rispetto a Bacone e Galileo ed era precisamente la specie di filosofo contro cui essi reagivano: sulla questione degli universali ha tentato di tracciare una via di mezzo fra il realismo inclinato panteisticamente di Duns Scoto ed il nominalismo estremo di Ockham. L’unica unità vera e reale nel mondo delle esistenze è l’individuo; asserire che l’universale esiste separatamente ex pane ridurrebbe gli individui a meri accidenti di una forma indivisibile. Suarez sostiene che, benchè l’umanità di Socrate non differisca da quella di Platone, tuttavia non costituiscono l’arido realizzarsi di una stessa umanità; Ci sono tante unità formali (in questo caso, umanità) quanti individui e questi individui non costituiscono un effettivo, ma soltanto un’unità essenziale o ideale (ita ut plura individua, quae dicuntur esse ejusdem naturae, non sint unum quid vera entitate quae sit in rebus, sed solum fundamentaliter vel per intellectum). L’unità formale, tuttavia, non è una creazione arbitraria della mente, ma esiste in natura rei ante omnem operationem intellectus. In teologia, Suarez si fissò alla dottrina di Luis Molina, il celebre professore gesuita di Evora. Molina provò a riconciliare la dottrina della predestinazione con la libertà della volontà dell’essere umano dicendo che la predestinazione è conseguente alla prescienza divina della libera determinazione del volere degli uomini, quindi in nessun modo sono influenzati da tale predestinazione. Suarez ha tentato di riconciliare questa visione con le dottrine più ortodosse dell’efficacia della grazia e dell’elezione speciale, affermando che, sebbene tutti prendono parte ad una grazia assolutamente sufficiente, qui è assegnata agli eletti una grazia così adatta alle loro disposizioni e circostanze particolari che essi infallibilmente, benchè allo stesso tempo abbastanza liberamente, si sottomettono alla sua influenza. Questo sistema mediatore è stato conosciuto col nome di congruismo; Suarez è probabilmente più importante, tuttavia, come giurista filosofico che come teologo o metafisico. Nel suo vasto lavoro, Tractatus de legibus ac deo legislatore, è in qualche modo il precursore di Grozio e di Samuel Pufendorf. Benchè il suo metodo sia interamente scolastico, Grozio parla di lui in termini di profondo rispetto. La posizione fondamentale del lavoro è che tutto il potere legslativo così come quello paternale è derivato da Dio e che l’autorità di ogni legge si risolve in Lui. Suarez confuta la teoria patriarcale del governo e del diritto divino dei re fondata sulle dottrine popolari di quel tempo in Inghilterra ed in parte nel continente. La natura del potere non appartiene a nessun uomo ma ad una moltitudine di uomini; ed il motivo è evidente, poiché tutti gli uomini nascono uguali. È stato precisato che questo si concilia bene con la politica dei gesuiti della svalutazione del reale mentre esalta la prerogativa papale. Suárez pubblicò il suo primo lavoro, De Deo Incarnato, ad Alcalá, nel 1590; pubblicò altri dodici volumi, l’ultimo dei quali (De Defensio Fidei) scritto contro il re dell’Inghilterra, venne pubblicato a Coimbra, nel 1613. Dopo la sua morte, i gesuiti del Portogallo pubblicarono altri dieci volumi del suo lavoro, fra 1619 e 1655. Di tutti questi lavori, sono state fatte due edizioni differenti (la prima, a Venezia e la seconda a Parigi). L’importanza di Suarez è inoltre data dal fatto che, col suo celebre scritto sulle Dispute metafisiche (Disputationes Metaphysicae) del 1597, esercitò un’influenza decisiva sulla cultura filosofica a lui successiva e in particolare su Christian Wolff e sullo stesso Kant. In questo scritto, Suarez va sostenendo l’esistenza di una teoria dell’ente in generale, divisa in due parti: c’è la “metafisica generale”, che si occupa degli oggetti in generale e dei loro caratteri comuni (ad esempio l’identità: l’oggetto x è quello che è perché è se stesso e non un altro); e c’è la “metafisica speciale”, che si occupa di oggetti specifici e speciali: Dio, l’anima, il mondo. Da ciò derivano la teologia razionale, la psicologia razionale e la cosmologia razionale di cui scrive Wolff e i cui rispettivi oggetti (Dio, anima, mondo) Kant qualifica come “idee” della ragion pura. Le Dispute metafisiche furono pubblicate a Salamanca nel 1597: è un’opera veramente imponente divisa in 54 questioni, in due grossi volumi in folio (25-26 dell’edizione generale; ristampa anastatica Hildelheim 1965). Costantino Esposito, che ha pubblicato la prima traduzione italiana delle prime tre Disputazioni Metafisiche (Rusconi, 1996) precisa quanto segue:
«Resta il fatto che le Disputazioni hanno continuato a essere lette e a lasciare la loro impronta e il loro linguaggio, passando per così dire illese anche attraverso la rottura di quel nesso con la teologia cattolica da cui pure avevano tratto la loro origine. Ma si potrebbe anche osservare che proprio esse hanno costituito uno dei canali attraverso cui questa tradizione teologica è stata trasmessa, in modo naturalizzato o secolarizzato (…) nella filosofia moderna. Descartes (…) studia quest’opera nel collegio gesuitico di La Flèche e l’utilizzerà nelle sue Meditationes, Leibniz la leggerà appena sedicenne, “come fosse un romanzo” (…); Grozio lo considererà un filosofo e un teologo di ineguagliabile penetrazione; Berkeley valorizzerà nel suo Alcifrone il concetto suarziano della conoscenza divina in rapporto a quella umana; e il giovane Vico si chiuderà letteralmente “un anno in casa” per venire a capo della “Metafisica” di padre Suárez. Fino a Schopenhauer, che cita spesso le Disputationes…».
Heidegger stesso (per influsso di Brentano) prende quest’opera in seria considerazione, e vede in essa un momento determinante della filosofia moderna. Nel 1929 Heidegger scriveva addirittura: «Il significato di questo teologo e filosofo non viene affatto apprezzato nella misura in cui tale pensatore meriterebbe». Suárez aveva sostenuto la necessità di occuparsi della metafisica in funzione della teologia; ma aveva cercato di svolgere una trattazione della metafisica stessa in modo sistematico e in maniera autonoma. Proprio all’inizio delle Disputationes scrive:
«Come non è possibile arrivare a essere un valente teologo, senza aver prima gettato dei solidi fondamenti metafisici, per lo stesso motivo ho sempre pensato che, prima di scrivere commentari teologici (…), valesse la pena prima pubblicare quest’opera (…). In quest’opera assumo la parte del filosofo (…)»
Nel fare questo, Suárez (staccandosi da Tommaso e dalla sua concezione dell’essere come perfezione assoluta e atto, e avvicinandosi piuttosto a Scoto) punta sul concetto di essere inteso come connotazione generale comune a tutte quante le cose; quindi intende il concetto astratto di essere in senso “univoco” e “semplice” (conceptus simplicissimum) in cui rientra la totalità delle cose, senza eccezioni, compreso Dio stesso. In tal modo, la metafisica diventa “ontologia” in senso stretto, e di conseguenza si configura come un tipo di discorso sull’essere nettamente separato dalla teologia. Suárez distingue, poi, una «metafisica generale» da una «metafisica speciale». La prima si occupa dell’essere in generale e delle sue proprietà comuni (trascendentali); la seconda si occupa invece dei vari tipi di enti, distinguendo l’«ente increato» dagli «enti creati», gli «enti immateriali» dagli «enti materiali». Già il Gilson ben rilevava che Suárez codifica la svolta della metafisica appunto nel senso di ontologia generale, e scriveva:
«Si fa uso oggi liberamente del termine Ontologia (…). Non è tuttavia senza interesse notare che questo termine è relativamente moderno, poiché (…) appare per la prima volta nel XVII secolo. Queste modifiche di terminologia non sono in genere prive di senso filosofico. Ci si può domandare, segnatamente, se l’essenzializzazione dell’essere (…) non abbia avuto come effetto di provocare la rottura della filosofia prima e, dissociando la teologia naturale, scienza dell’Essere in quanto Essere, da una filosofia prima imperniata sulla nozione astratta dell’essere, di liberare una Ontologia pura da ogni compromissione con l’essere attualmente esistente. Francesco Suárez, dal canto suo, non è arrivato fino a qui, ma ha imboccato questa strada, e la sua influenza ha avuto molto peso nel movimento che doveva condurre a questa dissociazione finale».
GIACOMO ZABARELLA
A cura di Gigliana Maestri
ZABARELLAGiacomo (o Jacopo) Zabarella nasce a Padova nel 1533, in una famiglia di antica nobiltà: da suo padre Giulio, infatti, eredita il titolo di conte palatino. Dopo un’educazione rigorosamente umanistica, entra all’Università patavina dove ottiene il dottorato in filosofia nel 1553, anche se, a differenza di molti suoi contemporanei studiosi di filosofia naturale, non consegue alcun titolo accademico in medicina. La sua carriera universitaria, completamente svolta a Padova, ha inizio nel 1563 o 1564, dapprima con l’insegnamento della logica e in seguito con quello della filosofia naturale. Particolarmente celebre è la controversia che lo oppone a Francesco Piccolomini e Bernardino Petrella a proposito della struttura logica della scienza, e dell’ordine secondo la quale essa viene acquisita. Zabarella muore a Padova nel 1589.
Noto esponente dell’aristotelismo, egli scrive una serie di commenti ad opere dello Stagirita quali gli Analitici secondi, la Fisica e il De anima. Molto rilevanti appaiono i suoi studi di logica, che vengono tutti pubblicati sotto il titolo di Opera logica; compone poi dei trattati di filosofia naturale, raccolti nel De rebus naturalibus.
Come commentatore delle opere aristoteliche, Zabarella manifesta un atteggiamento critico. Ritiene che un buon interprete debba sempre mantenersi fedele alle dottrine e al metodo espositivo del suo maestro, rispettando il rigore filosofico dei testi anche a scapito dell’eleganza formale; tuttavia, sostiene che tale fedeltà non implica necessariamente un’adesione alle dottrine commentate. La sua conoscenza del greco gli permette poi di leggere i testi aristotelici in lingua originale.
Zabarella è soprattutto noto grazie ai suoi studi di logica, che costituiscono la parte più originale del suo pensiero. Richiamandosi alla distinzione, tipicamente aristotelica, fra artes e scientiae, egli sostiene che la logica non è una scienza e neppure un’arte, ma si configura invece come uno strumento tecnico a servizio delle arti e delle scienze, uno strumento il cui scopo consiste nel distinguere il vero dal falso. Zabarella ritiene che non si debba mai creare confusione tra le funzioni logiche, che riguardano l’attività mentale, e i diversi aspetti della realtà; pertanto, pensa che i termini logici debbano essere usati esclusivamente come strumenti del pensiero, per indicare i nostri concetti ma non le cose reali.
Il filosofo si pone anche il problema della corretta metodologia da impiegare in ambito scientifico, individuando un “metodo risolutivo” ed un “metodo compositivo”: il primo parte dall’esame dei fenomeni per risalire alla ricerca delle cause; il secondo, invece, partendo dall’esame mentale della causa, giunge alla spiegazione scientifica del fatto sensibilmente percepito. Legato alla dimostrazione fornita dal “metodo risolutivo” è il processo dell’induzione, attraverso il quale l’intelletto umano è in grado di distinguere l’universale nascosto nel particolare, e la cui utilità fondamentale consiste nello scoprire principi che sono naturalmente conosciuti, anche se non immediatamente evidenti.
Zabarella propone poi una combinazione dei metodi risolutivo e compositivo, dando luogo al cosiddetto “metodo del regresso”, in base al quale dapprima il filosofo naturale inferisce l’esistenza della causa dall’effetto conosciuto, poi, in un secondo momento, partendo dalla causa inferisce l’effetto. Secondo gli aristotelici del Rinascimento, tale metodo consente un incremento del sapere nelle scienze teoretiche.
Per quanto riguarda la psicologia, Zabarella insiste molto sullo stretto legame esistente fra l’anima e il corpo, e rifiuta la dottrina dell’unità dell’intelletto. Le sue ricerche sulla filosofia della natura sono in genere considerate poco interessanti in quanto prive d’originalità, dal momento che restano legate allo studio delle “qualità”, secondo la tradizione aristotelica. Occorre piuttosto rilevare l’influsso del suo pensiero sugli aristotelici tedeschi protestanti, soprattutto a partire dal tardo Cinquecento fino ad arrivare ai primi decenni del XVII secolo. Anche il rinnovato interesse per la Scolastica, manifestatosi nelle Isole Britanniche all’inizio del Seicento, deve molto alle opere di Zabarella, il cui pregio consiste nella chiara e sistematica interpretazione della logica e della fisica di Aristotele.
GIAMBATTISTA DELLA PORTA
A cura di Gigliana Maestri
DELLA PORTA Giambattista Della Porta nasce a Vico Equense, vicino Napoli, nel 1535. Compie i suoi studi a casa, dove ha anche l’opportunità di partecipare a frequenti discussioni riguardanti argomenti scientifici. Viaggia molto in Italia, Francia e Spagna, e fonda l’Accademia dei Segreti (Academia secretorum naturae), dedicata allo studio della natura, e chiusa dall’Inquisizione nel 1578. Nel 1579 Della Porta si reca a Roma, dove entra a servizio del cardinale Luigi d’Este, grazie al quale ha l’opportunità di frequentare la corte del duca Alfonso II d’Este a Ferrara. A causa del suo lavoro per il cardinale, vive anche a Venezia. Stringe rapporti con Tommaso Campanella, Paolo Sarpi e Galileo Galilei; muore a Napoli nel 1615.
La sua opera più importante è la Magia naturalis sive de miraculis rerum naturalium; nel De refractione espone le proprietà rifrangenti delle lenti, accusando poi Galileo di plagio per la costruzione del cannocchiale, mentre in realtà Della Porta non ha tratto conseguenze tecnico-pratiche dalle sue osservazioni. Affida gli studi di fisiognomica al De umana physiognomonia, precorrendo l’opera di J. K. Lavater, mentre nel De spiritalibus descrive, con due secoli d’anticipo, una macchina a vapore. Il De furtivi litterarum notis è dedicato alla crittografia, e l’Ars reminiscendi alla mnemotecnica. Della Porta è anche autore di commedie: fra le più famose si possono segnalare Olimpia, La fantesca, I due fratelli rivali e L’astrologo.
I suoi interessi sono vasti: si occupa infatti di medicina, demonologia, chiromanzia, magnetismo, astrologia e meccanica; inoltre, progetta la camera oscura e la lanterna magica. Come si è detto, la sua opera più importante è però la Magia naturalis: pubblicata per la prima volta nel 1558 in quattro libri, in seguito viene ampliata fino a comprenderne venti, tutti riuniti in unico volume nel 1584. Questo volume ottiene un successo davvero notevole, tanto da essere tradotto dal latino nelle principali lingue europee. Per quanto riguarda la sua forma, l’opera è molto simile a quei “libri dei segreti” estremamente popolari in quest’epoca. Non a caso, essa tratta dei più svariati argomenti quali, ad esempio, cosmologia, geologia, medicina, veleni, ottica, cosmetici per donne, magnetismo, distillazione e metallurgia. Il libro può essere quindi definito come un curioso misto di ricette, osservazioni ed esperimenti, frutto degli studi non soltanto dell’autore ma anche degli altri suoi colleghi dell’Accademia dei Segreti.
Al di là dei singoli temi di cui si è detto, è importante ricordare che il libro di Della Porta esalta la magia naturale, considerandola una scienza suprema, il complemento e la parte pratica della filosofia della natura. Il suo compito consiste infatti nel far conoscere le forze occulte del mondo naturale, e nell’insegnare, per mezzo della loro applicazione, a compiere quelle opere che i profani ritengono prodigiose, ma che invece sono soltanto il mezzo attraverso cui l’uomo aiuta il compimento dei processi della natura. Secondo Della Porta, non bisogna confondere la magia naturale con quella “diabolica”, basata su incantesimi ed evocatrice di fantasmi e demoni.
Per quanto riguarda la sua concezione del cosmo, egli ritiene che la materia sia il substrato fisico delle cose concrete e identifica le “forme” con l’anima del mondo; crede inoltre che l’universo sia ordinato secondo una precisa gerarchia di cui Dio è il vertice supremo.
Notevole è anche, come si è ricordato, il suo interesse per la “fisiognomonia”, l’arte di interpretare gli stati dell’anima in base alla struttura del corpo, e, in modo particolare, dal volto degli uomini. In questo senso, i suoi studi sono stimolati dalle osservazioni svolte in campo medico, grazie alle quali ha modo di analizzare la struttura fisica e i lineamenti del viso di molti pazienti. Della Porta muove dal concetto dell’unità dell’universo, e dall’idea della simpatia o antipatia che legano tutte le cose, per affermare l’unione dell’anima con il corpo; in tal modo, costruisce una scienza che, come egli stesso afferma, “impara da segni che sono fissi nel corpo et accidenti che trasmutano i segni, a investigar i costumi naturali dell’animo”.
GIROLAMO FRACASTORO
Girolamo Fracastoro nasce a Verona intorno al 1478. Di famiglia nobile, studia all’Università di Padova, dove è allievo di Pietro Pomponazzi, e si laurea nel 1502. Amico di Copernico, dapprima insegna logica a Padova, e successivamente si pone al seguito del generale Liviano, in qualità di medico e di poeta. Muore nel 1553.
Nel poema Syphilis sive de morbo gallico, che risale al 1530, Fracastoro usa per primo il termine “sifilide” per indicare la lue, che si diffonde a Napoli a partire dal 1495, in seguito all’assedio posto dal sovrano francese Carlo VIII. Nel suo poema, la figura mitologica del pastore Sifilo, che provoca l’ira degli dèi e quindi viene colpito da una terribile malattia contagiosa, è soltanto un pretesto per descrivere la lue e i rimedi con i quali egli ritiene possa essere curata: il mercurio e il “guaiaco” o legno sacro.
Nel 1546, Fracastoro pubblica il suo capolavoro in materia di medicina: De contagione et contagiosis morbis et curatione libri tres. Nell’opera, sviluppata in base ad una visione filosofica essenzialmente empedoclea, egli descrive i modi attraverso i quali le infezioni si diffondono: per “contatto diretto”, per “fomiti”, come, ad esempio, avviene attraverso gli indumenti, e “a distanza”, come nei casi del vaiolo e della peste. Il De contagione ha il grande pregio di essere un’opera “moderna”, nel senso che qui Fracastoro ammette, in un’epoca in cui non sono ancora conosciuti i microbi, l’esistenza di particelle invisibili o “seminaria”, responsabili della diffusione rapida delle infezioni. Da questo punto di vista, egli può essere considerato il fondatore della moderna epidemiologia.
Fracastoro si occupa anche di filosofia, di ottica e di astronomia. A tale proposito occorre ricordare una raccolta di opere, edita nel 1555 a Venezia, che, oltre ai testi di medicina, comprende: Homocentricorum sive de stellis liber, un trattato sulle sfere omocentriche dedicato a Paolo III, di cui l’autore è anche stato medico; De causis criticorum dierum, riguardante i giorni critici della malattia; Turrius sive de intellectione, dialogo di carattere gnoseologico; Fracastorus sive de anima, dialogo di argomento psicologico; Naugerius sive de poetica, riguardante appunto la poetica; De sympathia et antipatia rerum, un testo di filosofia naturale.
In qualità di astronomo, sembra che egli, insieme a Pietro Apiano, sia stato il primo a scoprire che le code delle comete si presentano lungo la direzione del Sole, anche se in un verso opposto ad esso.
Per quanto riguarda la sua riflessione sulla poetica, si può affermare che il dialogo Naugerius sia senz’altro uno dei libri più famosi del Cinquecento sull’argomento in questione. Qui l’autore considera aristotelicamente la poesia come rappresentazione universale, anche se, nell’affrontare il suo discorso, si avvale di molti elementi di origine platonica. La poesia non è intesa come “finzione”, ma si configura come l’atto attraverso il quale l’idea è intuita nella sua bellezza visibile. Inoltre, viene riconosciuta la libertà dell’artista nel trasporre la bellezza universale, interna agli oggetti, in forme sensibili.
Nel De sympathia et antipatia, Fracastoro sostiene che tutte le cose del mondo, sia l’uomo sia la natura, sono tra loro connesse da una forza naturale e universale: si tratta della “simpatia” della parte per il Tutto, e del Tutto per la parte. Tale forza non è intesa dall’autore in senso spirituale, ma fisico e naturale, ossia alla luce della teoria atomistica: sono “flussi di atomi”, infatti, a stabilire le relazioni tra le cose, per cui nessuna azione può avvenire senza contatto. In altre parole, l’autore sostiene l’attrazione delle “cose simili” e la “repulsione” delle “cose dissimili”. Su questa base, Fracastoro è pronto a giustificare la cosiddetta “magia naturale”, fondata sul concetto di “attrazione fisica”, mentre respinge decisamente la magia demoniaca.
Sul piano metodologico, egli rifiuta la spiegazione dei fenomeni attraverso “cause occulte”, perché ritiene che il ricorso a tali cause sia un atteggiamento indegno di un vero filosofo. A suo parere, occorre sempre un esame attento dei “fatti” in modo da elaborare, a partire da questi, ampie generalizzazioni induttive. In base a tali convinzioni, Fracastoro respinge l’astrologia e il pitagorismo, in quanto è convinto che essi interpretino i fatti in maniera arbitraria; in realtà, afferma il filosofo, in tutte le nostre indagini è necessario attenersi alla descrizione e alla misurazione dei fenomeni.
In ambito gnoseologico, Fracastoro si mostra interessato alla spiegazione del funzionamento dell’intelletto. In questo senso, egli riprende e sviluppa la tradizione dei “filosofi terministi” della fine del Trecento e del Quattrocento, che avevano proposto attente analisi delle diverse forme dell’esperienza sensibile, in maniera particolare a proposito di prospettiva e di ottica.
PARACELSO
Figlio di un medico, Paracelso nasce nel 1493 a Einsiedeln, nel cantone svizzero di Schwyz. In realtà, il suo vero nome è Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim; tuttavia, egli stesso lo muta in Philippus Aureolus Paracelsus Theophrastus Bombastus: l’appellativo “Paracelsus” costituisce un probabile riferimento al grande medico romano Aulo Cornelio Celso, vissuto nel I secolo, considerato uno dei padri della medicina antica, e noto anche per la sua notevole cultura in ogni ambito del sapere. La scelta di tale appellativo da parte dello scienziato svizzero sembra indicare la sua volontà di incarnare completamente la figura del “medico perfetto”, esperto in ogni ramo dello scibile in quanto iniziato al segreto ultimo dell’intera realtà.
Sono davvero poche le notizie certe a proposito della biografia di Paracelso, dal momento che la sua controversa figura ha dato luogo a numerose leggende. Si sa che viaggia a lungo per l’Europa, e che studia a Basilea e forse anche a Ferrara. Fra il 1514 e il 1515, oppure intorno al 1520, Paracelso si trova in Tirolo insieme al banchiere tedesco Sigismund Fugger, esperto alchimista. Qui ha l’opportunità di studiare le miniere, le caratteristiche dei minerali e le malattie dei minatori. Si tratta di un’esperienza estremamente importante, perché proprio in quanto alchimista Paracelso offre i suoi migliori contributi alla medicina.
Nel 1526, a Basilea, egli riesce a salvare la gamba malata di un libraio famoso in tutta Europa, Johann Froben, ritenuto inguaribile dalla medicina ufficiale. Basandosi su quella che egli stesso chiama “medicina spagirica”, Paracelso cura il libraio con terapie naturali e conservative. Un principio fondamentale di questo genere di medicina è la separazione tra “cause prime” e “cause seconde” della malattia: in breve, a Paracelso non interessano tanto i sintomi, quanto piuttosto l’individuo nella sua “interazione” con il mondo esterno.
Grazie alla guarigione di Froben, Paracelso inizia ad insegnare alla Facoltà di Medicina di Basilea. Secondo la leggenda, egli avrebbe bruciato pubblicamente i libri di Galeno e di Avicenna, procurandosi così l’allontanamento dall’Università. Al di là di questi racconti più o meno fantasiosi, occorre ricordare che Paracelso è anche autore di numerose opere, fra le quali si possono citare: Undici trattati sull’origine, le cause, i segni e la cura delle singole malattie (1520); Tre libri di chirurgia (1528); La grande chirurgia (1536); Paramirum (1562-75); Paragranum (1565). Muore a Salisburgo nel 1541.
A proposito dell’arte medica, egli è convinto che si debbano derivare “le cose dalla natura, non dall’autorità ma dall’esperienza propria”; in altri termini, Paracelso rifiuta l’approccio dogmatico allo studio e alla pratica della medicina. Si pensa che egli sia tra i primi ad occuparsi del cosiddetto “ballo di San Vito”, e che, sul piano della scienza moderna, abbia il merito di isolare l’idrogeno, di scoprire l’etere solforico e di negare che l’aria sia un “corpo semplice”.
Per comprendere le novità introdotte da Paracelso in campo medico, occorre rilevare il suo spiccato interesse per l’alchimia, definita una “scienza di trasformazioni” e, a suo parere, comprendente tutte le tecniche chimiche o biochimiche. Egli considera il corpo umano come un sistema chimico, in cui svolgono un ruolo centrale i due principi tradizionali degli alchimisti, il mercurio e lo zolfo, cui aggiunge anche il sale. Su queste basi, rifiuta la dottrina secondo la quale la salute o la malattia dipendono dall’equilibrio o dal disordine dei quattro umori fondamentali, e sostiene invece che la reale causa delle malattie sia da ricercare nello squilibrio dei tre principi chimici sopra enunciati: il mercurio, che è comune a tutti i metalli, lo zolfo, che costituisce il principio della combustibilità, e il sale, che egli ritiene principio di immutabilità e di resistenza al fuoco. Date queste premesse, secondo Paracelso la salute può essere ristabilita attraverso medicinali di natura minerale, e non più di natura organica. Inoltre, egli sostiene che le malattie sono processi specifici per i quali occorrono rimedi altrettanto specifici, mentre, in questo periodo, molti pensano che esistano rimedi, contenenti parecchi elementi, efficaci per tutte le patologie.
Le giustificazioni addotte da Paracelso a sostegno delle sue “novità” appaiono, nella prospettiva della scienza moderna, decisamente inammissibili. A suo parere, infatti, la malattia è specifica in quanto ogni cosa appartenente alla natura è un ente autonomo, e perché Dio, che crea le cose dal nulla, le crea come semi in cui “è inerente sin dall’inizio lo scopo del loro uso e della loro funzione”. La forza interna ai vari semi, e che ne stimola la crescita, viene denominata da Paracelso “Archeo”. Si tratta di un principio vitale, di uno “spirito della vita” che organizza la materia. In altre parole, egli pensa che l’intera realtà sia pervasa e animata da un principio spirituale che si articola in molte forze, dette “arcani”; la perfetta rispondenza fra l’organismo umano e l’universo è la causa per cui le forze presenti nel secondo agiscono direttamente sul primo.
Evidentemente, la medicina di Paracelso è mescolata ad elementi filosofici, teologici, alchimistici e astrologici. Tuttavia, egli ha offerto un contributo fondamentale alla sua disciplina, perché dal complesso delle sue idee si è sviluppato un programma di ricerca fondato sulla nozione del corpo umano inteso come sistema chimico.
Vale la pena ricordare che molti hanno subito la sua influenza o hanno esaltato in diversi modi la sua figura, e fra questi si possono segnalare: Shakespeare, forse Spinoza, Goethe, O. Spengler, F. Gundolf, C. F. Meyer, R. Steiner, E. Pound, Carl Gustav Jung.