LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E IL 1600
“Penso, dunque sono” (Cartesio, Discorso sul metodo)
INTRODUZIONE
Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze, che investe non soltanto l’acquisizione di singole conoscenze, ma soprattutto il metodo scientifico adottato. Da una scienza fortemente asservita alla tradizione filosofica aristotelico – scolastica si passa alla formazione della scienza moderna , la quale progressivamente afferma la propria autonomia dalla filosofia e dalla teologia ed elabora procedure metodologiche che la caratterizzano in maniera specifica. A questa grande trasformazione , principiata essenzialmente nel campo dell’ astrologia , si suole dare il nome di rivoluzione scientifica . Si tratta comunque di un’ epoca della storia del pensiero in cui é complesso distinguere la dimensione scientifica da quella filosofica : il rapporto filosofia – scienza predominante in questo periodo si intreccia in una duplice maniera ; da un lato alcune modificazioni apportate alla concezione del mondo saranno a tal punto radicali da coinvolgere l’ immagine globale del mondo e non solo quella degli scienziati : già in Bruno l’ accettazione e l’ ampliamento della dottrina copernicana avevano un significato che andava ben oltre lo scientifico e arrivavano ad interessare da vicino l’ ambito filosofico . L’ altra maniera in cui in questo periodo filosofia e scienza si intrecciano é epistemologica : la scienza moderna é novità non solo per i contenuti che propone , ma anche per il modo in cui arriva ad elaborarli . Il problema fondamentale allora diventa essenzialmente metodologico , e parlando di metodologia scavalchiamo l’ ambito scientifico per entrare in quello filosofico . La filosofia della scienza non é la scienza ( infatti non é necessario essere filosofi per essere scienziati ) , ma la riflessione sul valore della scienza non é certo ambito scientifico , bensì filosofico : quando uno scienziato esamina il metodo scientifico ecco che allora in quel momento non é più scienziato , ma é filosofo . Per esempio , non rientrano tanto nel campo di interesse filosofico i contributi scientifici di Galileo Galilei , quanto piuttosto la sua riflessione sul metodo scientifico da lui coscientemente applicato nell’ elaborare le teorie . L’ epistemologia é quindi quella branca della filosofia che si occupa delle riflessioni sui metodi scientifici . Soffermiamoci ora sul concetto di rivoluzione scientifica : perchè ad un certo punto della storia si tira in ballo un concetto così forte , che implica certamente l’ idea di un cambiamento radicale ? Il concetto di ” rivoluzione scientifica ” é stato elaborato soprattutto da uno studioso di origini ungheresi di nome Thomas Kuhn ; egli nel 1960 circa scrisse un libro in cui prendeva in esame le rivoluzioni scientifiche studiando anche quella del 1500 – 1600 . Kuhn vivendo nel 1900 vive in un’ epoca che ha già alle spalle una tradizione scientifica e che la concepisce in termini cumulativi , ossia gradualmente , come se le conoscenze scientifiche crescessero a poco a poco grazie ad aggiunte e a ritocchi in itinere ; ogni scienziato é come se elaborasse un pezzetto , un tassello da aggiungere alla scienza : dà cioè il suo contributo alle conoscenze già presenti , magari effettuando qualche correzione ; si procede quindi in termini cumulativi . Quello che Kuhn ha individuato é che la scienza procede in fasi ” normali ” , ossia cumulative , dove ciascun scienziato dà il suo contributo aggiungendo un tassello alle conoscenze già presenti , ma anche in fasi ” rivoluzionarie ” , ossia quando certe nuove scoperte che si vanno accumulando risultano incompatibili con quello che Kuhn chiama paradigma scientifico di una determinata epoca . Il paradigma scientifico di un’ epoca é la struttura generalissima della concezione del mondo dell’ epoca stessa ed esso ” salta ” quando vengono apportate novità inconciliabili con il paradigma stesso e si hanno allora le fasi rivoluzionarie , nelle quali troviamo chi si schiera in difesa del vecchio paradigma e chi in difesa del nuovo . Quella del 1500 – 1600 non é l’ unica rivoluzione scientifica : un’ altra é maturata all’ inizio del 1900 che ha segnato il passaggio dalla fisica classica ( galileiana ) a quella contemporanea ( quantistica e relativistica ) , che diventa un ” quadro ” più ampio nel quale trova tuttavia spazio anche la fisica classica . La rivoluzione scientifica del 1500 – 1600 inizia con la rivoluzione astronomica e con Copernico , che ha effettuato un radicale cambiamento di punto di vista , sostenendo l’ eliocentrismo a svantaggio del geocentrismo , proprio perchè le cose viste dal Sole trovavano spiegazioni più soddisfacenti ; ma l’ aspetto più importante di questa rivoluzione astronomica é dato dalle conseguenze che essa ha avuto sul pensiero della gente , impaurita oltremodo da queste novità : certo non si poteva rimanere indifferenti di fronte a tali innovazioni , che portavano alla perdita di ogni punto di riferimento ; la Terra che era sempre stata ritenuta al centro dell’ universo , viene ora proclamata uno dei tanti pianeti ( probabilmente neanche il più importante ) e l’ uomo non é più al centro del creato ; già la scoperta dell’ America aveva messo in crisi da un certo punto di vista l’ Europa , che veniva a contatto con civiltà diverse e antiche di cui ignorava l’ esistenza : ecco che l’ Europa stessa non era più il centro della Terra , ma comunque la Terra era pur sempre il centro dell’ universo ; nel 1600 viene a cadere anche questa certezza e vi é davvero una perdita di ogni punto di riferimento ; il cristianesimo stesso non era più un punto di riferimento e si era sfasciato con la rivoluzione intrapresa da Lutero . Ma ciò che soprattutto distingue la scienza moderna dall’attività scientifica esercitata nell’Antichità e nel Medioevo è il carattere quantitativo . La precedente tradizione scientifica, infatti, in accordo con la filosofia aristotelica di cui era mancipia, si proponeva la ricerca della ” forma ” essenziale dei fenomeni , e si esauriva pertanto in un’analisi meramente qualitativa , anche perchè non possedeva gli strumenti idonei per effettuare misurazioni precise e in fin dei conti dire che una cosa era calda o fredda ( in modo qualitativo ) era più efficace che non scervellarsi in misurazioni che non potevano essere corrette ; l’ intuizione che la quantificazione della realtà fisica fosse fondamentale l’ avevano già avuta i pitagorici e Platone stesso , ma non avevano avuto successo proprio perchè privi di un armamentario strumentale portante : é inutile dire che la realtà é fatta di quantità se non sono in grado di quantificare , perchè finirò per fare come i Pitagorici , che , non potendo fare della matematica un uso effettivo , finirono per provare a cogliere delle somiglianze tra le caratteristiche dei numeri e quelle della realtà ( per esempio per loro il numero due corrispondeva al genere femminile , il tre al maschile , il cinque al matrimonio perchè 3 + 2 = 5 ) ; nella migliore delle ipotesi arriverò ad un uso analogico come quello di Platone o di Cusano , dove mi servirò della matematica non in senso scientifico , ma come primo passo per cogliere realtà metafisiche ( Cusano usava la matematica per dimostrare l’ inattingibilità di Dio , per esempio ) . Con il metodo scientifico vero e proprio oltre a dire che la realtà é misurabile e fatta di quantità arrivo proprio a misurarla quantitativamente e supero così il sistema qualitativo aristotelico , che tuttavia in assenza di strumenti per misurare era migliore : pensiamo a quando Aristotele diceva che tutta la realtà derivava dal caldo , dal freddo , dal secco e dall’ umido o quando invece Platone , in modo molto raffinato e piacevole , diceva invece che tutto derivava dai solidi regolari ( ed Epicuro stesso lo criticava ) ; era ovviamente più efficace l’ interpretazione di Aristotele . Il nuovo metodo scientifico poggia quindi sul presupposto che l’essenza delle cose è inattingibile o comunque esula dalle finalità della scienza , la quale deve invece indagare i rapporti tra le cose ed esprimerli attraverso una misurazione oggettiva e universalmente comunicabile . Per questo nella nuova scienza diventa indispensabile l’uso della matematica . Il riconoscimento dell’importanza della matematica non è certamente una novità dell’età moderna . Ma nel mondo antico e medioevale questa disciplina era stata studiata prevalentemente come scienza astratta, che per sua natura non poteva essere applicata all’analisi dei fenomeni naturali. La sua utilizzazione era per lo più limitata a quegli ambiti nei quali si faceva riferimento a rapporti puramente ideali (come nella musica) o a una sostanza per definizione incorruttibile e dotata di movimenti uniformi (come nella astronomia aristotelica ) . Quando veniva applicata alla natura – come nelle scuole pitagorica ( proprio i Pitagorici avevano per primi sostenuto che ” il numero é il principio di tutte le cose ” e avevano ravvisato come caratteristica comune a tutti gli enti la misurabilità ) e platonica – essa aveva la funzione di evidenziare una struttura metafisica soprasensibile, quindi qualcosa che andava al di là del fenomeno naturale. Nella scienza moderna la matematica – anche grazie agli sviluppi dell’algebra – diventa invece uno strumento metodologico per quantificare i fenomeni naturali come oggetti specifici della ricerca scientifica (anche se nei suoi primi esponenti , in Galilei e soprattutto in Keplero , l’uso strumentale della matematica si associa ancora a residui di impostazione pitagorico – platonica ) . La matematica nel 1500 – 1600 invece ha essenzialmente due funzioni : da un lato viene usata come strumento di indagine della realtà , dall’ altro essa diventa modello metodologico anche per cose non strettamente quantificabili : una cosa é dire ” affermo che il mondo fisico é fatto di quantità e lo indago servendomi della matematica ” ( ed é quello che fanno tutti gli scienziati ) , un’ altra cosa ( più strettamente filosofica ) é dire ” se il metodo di ragionamento della matematica funziona così bene in ambiti matematici , perchè non provare ad usarlo anche fuori dagli ambiti matematici ( per esempio in ambiti politici , metafisici , ecc. ) ? ” . Nel 1500 – 1600 si afferma il meccanicismo , che è l’immediata conseguenza della quantificazione della scienza : la connessione necessaria con cui in matematica le diverse proporzioni geometriche o le diverse operazioni aritmetiche e algebriche discendono le une dalle altre diventa in fisica la necessità con cui la causa è connessa con l’effetto . Solo in questa maniera posso arrivare a leggi fisiche . In altri termini il meccanicismo , come dice Cartesio , consiste nel ridurre tutto ad estensione e movimento , eliminando dal modo di indagare la realtà ogni riferimento agli aspetti qualitativi e badando solo a quelli quantitativi , riducibili a quantità , perchè gli altri o non esistono o preferisco non prenderli in considerazione . Misurabile é quindi l’ estensione , il movimento ; non potrò indagare le qualità ( i colori , i sapori , gli odori , ecc . ) . L’ immagine che meglio descrive il mondo visto in chiave meccanicistica é quella del tavolo da biliardo che ben spiega come la causalità venga ridotta a urti tra corpi ( il mondo é un insieme di enti materiali che si urtano ) , facendo così venir meno il complesso apparato delle quattro cause di Aristotele ; in paricolare nella tradizione aristotelica l’analisi qualitativa della natura era strettamente connessa con la prospettiva finalistica . Però non scompaiono tutte e 4 le cause aristoteliche perchè parlando di urti tra corpi é evidente che si parla anche di causa efficiente ( l’ urto ) e causa materiale ( ciò che si urta é pur sempre un corpo ) . Non vengono invece più prese in considerazione la causa formale , che era quella che esaminava soprattutto le qualità ( le forme ) , e soprattutto quella finale ( gli urti non avvengono certo in vista di un fine ) perchè non possono essere oggetto di un’ indagine quantitativa . Anziché in termini di ” cause finali “, la nuova scienza interpreterà quindi le connessioni tra i fenomeni come ” cause efficienti ” e meccaniche . Nella scienza moderna, la connessione tra la causa e l’effetto non viene tuttavia determinata soltanto dallo strumento matematico, ma sottoposta anche a verifica empirica . C’ é chi dice che Galileo , a differenza di Aristotele , osserva la natura : quest’ affermazione é sbagliatissima perchè forse é Aristotele ad osservare ancora più di Galileo la natura , ma la vera differenza tra i due sta nel fatto che Aristotele si appoggia sull’ esperienza di più di Galileo ; quello che Aristotele non fa é l’ esperimento , ossia un’ esperienza fatta in una situazione controllata e quindi misurabile ; se vedo cadere delle cose l’ esperienza di tipo aristotelico mi dice che ci sono oggetti che tendono al loro luogo naturale , al limite può dirmi che tendono ad aumentare di velocità man mano che precipitano ; ma quest’ esperienza non mi dice di quanto aumenta la velocità in un determinato tempo . Ma perchè quindi Aristotele si basa solo sull’ esperienza , mentre Galileo anche sull’ esperimento , ossia l’ esperienza controllata ? Ad Aristotele interessano i dati qualitativi – i corpi pesanti vanno verso il basso ; al limite può interessargli sapere che ci sono corpi che vanno più velocemente , altri più lentamente – ma non gli interessano dati quantitativi ( quanto ci mette a cadere un oggetto , per esempio ) proprio perchè non ha i mezzi per misurare ; invece Galileo può misurare con l’ esperimento , può quantificare ; Aristotele non ha i mezzi perchè non gli interessa , ma é anche vero il contrario , ossia non gli interessa perchè non ha i mezzi . Accanto alla matematica, la sperimentazione è il secondo mezzo a cui i nuovi scienziati fanno metodicamente ricorso . L’esperimento , inoltre , il quale ( come detto ) consiste nella riproduzione artificiale di processi naturali in condizioni di massima osservabilità , deve servirsi di strumenti di indagine e di misurazione sempre più raffinati (ad es. orologi, cannocchiali, telescopi, barometri) . Si stabilisce quindi una stretta connessione tra scienza e tecnica , sia nel senso che il progresso della scienza dipende sempre più dal progresso tecnologico che appronta gli strumenti necessari alla ricerca, sia nel senso che , all’inverso , si afferma la consapevolezza delle potenzialità pratiche del sapere scientifico , destinato a consentire un sempre più ampio dominio sulla natura : é un rapporto biunivoco nel senso che un maggiore sviluppo tecnologico permette alla scienza di conseguire risultati più apprezzabili , ma un maggiore sviluppo scientifico consente la creazione di strumenti sempre più precisi ; lo si può vedere bene in Galileo : é solo grazie al telescopio che dimostra certe verità astronomiche , ma é solo grazie ad alcune conoscenze di ottica geometrica che riesce a costruire ( non ad inventare ) telescopi particolarmente raffinati . Ma a caratterizzare il 1600 , più di ogni altra cosa , sono la matematica e la profonda fiducia nella ragione umana : a Galileo sorge il dubbio che in realtà il mondo sia fatto solo di quantità e che le qualità siano solo delle manifestazioni soggettive delle quantità sui nostri organi di senso ; tuttavia quello di Galileo é solo un sospetto : a lui non interessa più di tanto risolvere la questione e poi non ha prove razionali per farlo : egli é comunque certo che anche ammettendo l’ esistenza delle qualità , si debbano esclusivamente esaminare le quantità in quanto misurabili rigorosamente ( con la matematica ) . Ma tutti i pensatori del 1600 prenderanno il sospetto di Galileo per trasformarlo in realtà : esistono solo le quantità e il mondo é come una tavola da biliardo , ossia un insieme di urti casuali . Si tratta tuttavia di un passaggio non del tutto legittimo e logico quello dal sospetto galileiano alla certezza . Se ci addentriamo maggiormente nel 1600 , il secolo della matematica , scopriamo che le più importanti tematiche dibattute sono tre : 1) rapporto tra res cogitans e res extensa : Cartesio arriva alla certezza di esistere dal cogito ergo sum : se nutro dei dubbi vuol dire che penso e se penso vuol dire che esisto ; egli però conclude di esiste esclusivamente come sostanza pensante , come pensiero : arrivato alla conclusione di esistere proprio perchè dotato di pensiero , egli fa un passo avanti dicendo di esistere solo come pensiero ; la realtà pensante e spirituale ( res cogitans ) risulta quindi radicalmente separata dalla materia ( res extensa ) , riconducibile ad estensione e movimento ; se però sono due realtà incompatibili e nettamente diverse , come dice appunto Cartesio , come mai quando decido con il pensiero di muovere un braccio esso si muove effettivamente in termini fisici ? Cio deve essere un rapporto tra res extensa e res cogitans e le spiegazioni fornite da Cartesio , più che risolvere il problema , tendono ad ampliarlo ulteriormente . 2 )Innatismo ed empirismo , una questione gnoseologica : l’ innatismo consiste nel dire che la conoscenza , almeno in parte , non si fonda sull’ esperienza , ma é qualcosa di innato , di cui disponiamo già quando nasciamo ; di questo parere era stato Platone stesso e nel 1600 si fa portavoce di queste teorie , ad esempio , il tedesco Leibniz ; l’ empirismo consiste invece nel ricondurre ogni conoscenza all’ esperienza , secondo la tradizionale formula nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu ; secondo gli empiristi quando nasciamo la nostra mente é una tabula rasa , priva di conoscenze , che va riempita con le esperienze di ogni giorno ; Aristotele la pensava esattamente così e nel 1600 , ad esempio , l’ inglese Locke si farà portavoce di questa teoria . 3 )Dibattito politico : tante sono le posizioni e tanti gli esponenti , influenzati dal contesto storico in cui vivono : vi sarà chi sosterrà tesi liberali , come Locke , chi propugnerà tesi monarchiche , come Hobbes , e così via .
NICOLA COPERNICO
A Nikolaus Koppernigk ( 1473 – 1534 ) , latinizzato in Nicola Copernico , di origini polacche spetta il grande merito di aver rimosso una , e forse la più importante , delle ipotesi astronomiche tradizionali : la centralità della Terra nel sistema dell’ universo . Egli , proprio prima di morire , avrebbe fatto pubblicare la sua opera più importante , il ” De rivolutionibus orbium celestium ” nella quale avanza la tesi eliocentrica , la più caratteristica di quelle da lui esposte . L’ intera opera é dedicata al papa di allora , Paolo III : dal suo testo emerge in primo luogo che Copernico non é stato un grande osservatore del cielo , nel senso che a differenza di Brahe , per esempio , egli non ha fatto nuove osservazioni dei fenomeni celesti rispetto a quelle che aveva già a disposizione , ma si é limitato a prendere atto dei dati osservativi . Altra considerazione che va subito fatta é che Copernico sembra non sbilanciarsi troppo nel testo su un fatto estremamente importante che segnerà il destino del copernicanesimo negli anni a venire : e cioè se la sua teoria vada interpretata come pura e semplice ipotesi geometrico – matematica , oppure realtà fisica . Il contrasto tra fisica e geometria é piuttosto forte ed era già emerso a riguardo di Aristotele ( fisico ) e di Tolomeo ( matematico ) : il fisico ( Aristotele ) quando dice che ci sono un tot di sfere che distano un tot l’ una dall’ altra intende dire che il mondo é proprio fatto così ; invece quando il matematico ( Tolomeo ) descrive quello che per lui é il mondo intende dire questo : se noi ipotizziamo una serie di movimenti come quella che vi presento otterremo un risultato di movimenti uguale a quello che noi vediamo : in pratica é la soluzione di un problema geometrico ; come quando si ha un problema complesso del genere : vi disegno il movimento , voi ipotizzate un insieme di movimenti circolari e uniformi che mi dia questo moto qui . In Copernico non risulta molto esplicito se lui credesse che il mondo fosse come diceva essere ( come per Aristotele ) oppure fosse semplicemente un’ ipotesi matematica ( come per Tolomeo ) . Tuttavia sembra per vari aspetti che egli fosse effettivamente convinto di ciò che diceva e credeva che il mondo fosse per davvero così ; non così convinto , però , da non lasciare adito ad ambedue le interpretazioni . E’ poi interessante notare che , dal momento che l’ atto editoriale della pubblicazione del ” De rivolutionibus orbium celestium ” avvenne in settimane in cui Copernico era in fin di vita , esso non fu pubblicato da lui , bensì da un pastore protestante ( siamo negli anni della Riforma ) che tra l’ altro aggiunse al testo una introduzione nella quale dava l’ interpretazione geometrica al copernicanesimo : egli risolse a modo suo il problema dell’ interpretazione scegliendo l’ interpretazione geometrica ; il che é abbastanza ovvio . Infatti , il copernicanesimo 50 anni dopo la morte del suo autore , fu condannato dalla Chiesa quando Galileo se ne fece portavoce : come mai ? E’ strana la questione : Copernico scrive questo libro , lo dedica a un’ autorità religiosa ( il papa ) e non viene condannato per ben 50 anni , circolando liberamente in ambienti cattolici e protestanti ; poi , improvvisamente , quando Galileo ne diventa portavoce , viene emessa la condanna . La risposta sta proprio in questa vicenda delle due possibili interpretazioni del copernicanesimo ( geometrica e fisica ) : il copernicanesimo si diffonde facilmente perchè visto in chiave geometrica , ma sarà condannato nel momento in cui sarà visto in chiave fisica : d’ altronde la condanna era inevitabile perchè le dottrine copernicane erano incompatibili con alcune affermazioni della Bibbia : Copernico propugna l’ eliocentrismo , ma nella Bibbia troviamo scritto che Giosuè ordina al Sole di fermarsi ( il Sole quindi deve essere in movimento per potersi fermare , e non immobile come diceva Copernico ) . Questo , in aggiunta ad altre affermazioni , rende incompatibile il cristianesimo alla dottrina copernicana intesa in termini fisici e non geometrici : vista in chiave geometrica , al contrario , é compatibilissima perchè si dice che Copernico non ci ha insegnato che il mondo va in un determinato modo , ma che se ipotizzassimo quei movimenti da lui proposti otterremmo dei risultati , per quanto riguarda i moti dei pianeti , uguali a come ci appaiono alla vista : può sembrare una sottigliezza , ma in realtà é di fondamentale importanza . Tuttavia , come accennato , é assai probabile che Copernico fosse convintissimo che il mondo andasse come diceva lui e che non fosse solo un’ ipotesi geometrica , ma questo non lo si può evincere dai suoi testi : gioca in modo ambiguo e quindi per 50 anni il suo libro può circolare anche in ambienti universitari : é interessantissimo ricordare che nelle università , un pò come ai giorni nostri , ci fossero degli argomenti obbligatori e altri facoltativi , dove si poteva scegliere tra più possibilità ( per esempio ai giorni nostri si può scegliere se leggere un libro al posto di un altro ) ; ebbene all’ epoca ( prima della condanna ) nei programmi di astronomia si poteva scegliere se portare il sistema ( geocentrico ) tolomaico o quello copernicano ( eliocentrico ) proprio perchè entrambi rendono conto sul piano geometrico dell’ apparenza dei fenomeni : i fenomeni così come li vediamo sono infatti spiegabili sia con il sistema tolemaico sia con quello copernicano . Il sistema Copernicano verrà condannato proprio quando si preferirà alla tesi geometrica quella fisica , ossia quando Galileo osserverà col telescopio e non si potrà più giocare sulle interpretazioni : le osservazioni facevano vedere nel vero senso della parola le verità copernicane , che diventavano così veritiere sul piano fisico . A quel punto la Chiesa non potè più stare zitta : fino ad allora era stata tenuta a bada con l’ interpretazione geometrica , ma con le osservazioni si passa bruscamente a quella fisica , solida ed inconfutabile . Interessanti sono le argomentazioni che adduce Copernico a dimostrazione della sua teoria eliocentrica : come detto , non fa nuove osservazioni , ma prende quelle già esistenti e le fa sue , cercando di trovare una spiegazione valida per spiegare i moti che si vedono . Scelse la teoria dell’ eliocentrismo per il semplicissimo motivo che , esaminando la situazione , la dottrina eliocentrica gli parve più semplice e meno laboriosa rispetto a quella geocentrica : in pratica , implicitamente , egli accetta l’ idea del ” rasoio ” di Ockham ( scegliere sempre la strada più semplice , tagliando via ciò che é superfluo ) , del risparmio di energia ” esplicativa ” : anche l’ ipotesi del geocentrismo propugnata da Tolomeo era valida , ma risultava agli occhi di Copernico troppo complicata : invece lui fa questo ragionamento : facendo girare tutto quanto intorno al Sole e con un unico epiciclo ( ossia un altro centro di rotazione ) , la Luna , si riescono a risolvere tutti i problemi di apparenza , senza ricorrere a tutte quelle sfere e a quelle complicazioni ( quali la velocità angolare ) a cui era dovuto ricorrere Tolomeo ; Copernico , tra le varie cose , può permettersi di mantenere la velocità dei movimenti costante ( a differenza di Tolomeo ) . Dobbiamo però apportare una correzione : si suole parlare di ” Rivoluzione copernicana ” , il che ha un fondo di verità perchè in effetti si cambia totalmente la prospettiva generale da cui guardare l’ universo ( non più la Terra , ma il Sole ) , tuttavia il concetto di rivoluzione va in qualche misura ridimensionato , valutando il fatto che per molti aspetti Copernico era un conservatore a tutti gli effetti . Certo non é conservatore quando propone la teoria eliocentrica ( che ha molto di rivoluzionario ) , tuttavia lo é quando cerca disperatamente di trovare agganci nelle teorie passate , per potersi ricollegare alla tradizione : egli scopre che alcuni astronomi pitagorici dell’ antichità avevano già avanzato ipotesi di eliocentrismo , per esempio Archita ; già lo stesso Platone , nel ” Timeo ” , aveva sostenuto il movimento rotatorio della Terra ; Copernico , invece , scopre tre movimenti della Terra i cui due principali sono 1 ) il movimento di RIVOLUZIONE , ossia il moto della Terra intorno al Sole ; 2 ) il movimento di ROTAZIONE , ossia il moto della Terra sul suo stesso asse . Quindi Copernico cerca in ogni modo di riallacciarsi alle tesi degli antichi ; va poi detto che il concetto di rivoluzione indica un cambiamento rapido e radicale : quella scientifica é senz’ altro una rivoluzione , ma i suoi protagonisti sono legati ad aspetti che al giorno d’ oggi definiremmo tutto fuorchè scientifici : Giordano Bruno , in un ambito non propriamente scientifico , fa tuttavia scoperte importanti , quali la posizione in profondità delle stelle , pur tuttavia muovendosi in un ambito dove la magia é predominante : lo stesso vale anche Copernico . Per argomentare a favore dell’ eliocentrismo egli si serve sì di argomentazioni di carattere matematico – scientifico , ma tuttavia si serve anche di citazioni e di argomenti non scientifici : per esempio , riprende quanto diceva Platone nella ” Repubblica ” , ossia che il Bene sta al mondo delle idee come il Sole sta al nostro mondo : in Platone questa era essenzialmente una metafora , ma i Neoplatonici la reinterpretano : il Sole é il simbolo fisico di Dio . Copernico riprende questa dottrina e dice che come la divinità é il centro metafisico della realtà , così il Sole é il centro fisico della realtà . Questa teoria richiama esplicitamente quella di Plotino della candela , dove Dio ( l’ Uno ) era il propagarsi della luce . Entrano poi in gioco altre considerazioni : se il Sole é la lanterna dell’ universo , é chiaro che Dio l’ abbia posto al centro : perchè un lume , infatti , illumini nel miglior modo possibile una stanza bisogna collocarlo al centro . Una parte delle argomentazioni che portano Copernico all’ eliocentrismo é interessante notare come esulino dall’ ambito scientifico per coinvolgere quello filosofico . Copernico risulta poi conservatore per altri aspetti : Aristotele diceva che i moti fossero circolari e uniformi perchè il movimento che meglio imita l’ eternità del primo motore ( Dio ) é quello circolare ( che ritorna sempre su se stesso ) : Copernico riprende le teorie aristoteliche e non quelle tolomeiche ( che con la velocità angolare ammetteva movimenti non propriamente circolari ) : si mantiene in sintonia con la tradizione : il movimento dei cieli deve essere circolare : é più conservatore dello stesso Tolomeo ! C’ é poi un altro aspetto per cui Copernico é conservatore : le sfere di cui egli parla sono reali a tutti gli effetti ( come era per Aristotele ) e non a carattere geometrico , come era per Tolomeo ; il titolo stesso della sua opera é ” De rivolutionibus orbium celestium ” , che non significa come qualche volta si intende superficialmente ” le rivoluzioni dei corpi celesti ” dove gli orbi sarebbero i pianeti , ma significa letteralmente ” le rivoluzioni delle sfere celesti ” ; cioè Copernico é pienamente convinto come lo era Aristotele che le sfere che trascinano i pianeti non siano orbite di tipo geometrico ( come invece sosteneva Tolomeo ) , ma vere e proprie sfere costituite da materia : é un aspetto assolutamente centrale nell’ ambito della questione . Come mai per Aristotele le sfere dovevano essere costituite di materia ? Per diversi motivi : in primo luogo per Aristotele il vuoto non esiste , la materia é ovunque e quindi i pianeti sono trascinati dalle sfere come dei ” chiodi ” fissati sulle sfere : giarando le sfere giarano anche i ” chiodi ” . In secondo luogo c’ é da dire che noi siamo abituati all’ idea che i pianeti girino intorno al Sole sostanzialmente nel vuoto ; per fare quest’ ammissione ci serviamo delle leggi di Newton e di Galileo nel senso che loro hanno scoperto essenzialmente due cose : da un lato che esiste una forza che attrae i corpi verso un centro gravitazionale ; questa scoperta é di Galileo , il quale aveva scoperto la legge di caduta dei gravi ; tuttavia verrà generalizzata da Newton nel momento in cui scoprirà che non solo sulla Terra i corpi sono attratti e attraggono tutti gli altri corpi secondo una determinata legge . Poi da un lato abbiamo la forza gravitazionale dei pianeti sul Sole e quella del Sole sui pianeti : siamo attratti dalla Terra ma a sua volta la Terra é attratta da noi , anche se ci interessa molto di più il primo aspetto . Quindi c’é una duplice forza : quella del Sole sui pianeti e quella dei pianeti sul Sole . Poi Galileo ha scoperto che il moto rettilineo dei corpi permane finchè non interviene una forza esterna a modificarne il movimento ; in altre parole se lanciassimo un oggetto , se non ci fossero forze impedienti ( quali la forza di gravità ) , esso continuerebbe eternamente a muoversi in linea retta verso l’ infinito ; naturalmente non succede perchè c’ é la forza di gravità : pensiamo ad una palla di cannone sparata : per un certo periodo procederà poi , con un movimento a ” parabola ” tenderà a ricadere : ovviamente ( come intuì Galileo ) se imprimo all’ oggetto lanciato una certa forza percorrerà ( ad esempio ) 100 metri prima di cadere ; se gliela imprimo ancora maggiore farà 1 chilometro e se gliela imprimo ancora più forte finirà per fare il giro della Terra , ossia tornerà al punto di partenza ( da dove l’ avevo lanciato ) e continuerà : questo é esattamente il moto dei pianeti . Il pianeta non é altro che una sorta di proiettile sparato lungo la tangente dell’ orbita dei pianeti intorno al Sole : immaginiamo un cannone che spari tangente a quest’ orbita ; il pianeta é un ” proiettile ” sparato con tale forza da equilibrare la forza di gravità che tenderebbe ad attrarre il pianeta verso il Sole : se il pianeta fosse immobile cadrebbe dritto sul Sole , se non ci fosse la forza di gravità del Sole il pianeta prenderebbe la tangente e andrebbe nell’ infinito ; ma visto che ci sono tutte e due si curva e comincia a girare intorno al Sole . Questo per dire che grazie a queste nozioni noi non abbiamo bisogno di qualcosa che ” tenga su ” i pianeti : essi stanno su senza un corpo che li sostenga . Aristotele e Copernico queste nozioni non le avevano e l’ unico modo a loro disposizione per fare muovere i pianeti era immaginarli fissati sulle sfere ( come un mappamondo di cristallo ) . Tolomeo non aveva di questi problemi perchè non aveva una prospettiva fisica , ma geometrica : non gli importava di che cosa fossero fatte le sfere e cosa consentisse alla ” macchina ” di stare su perchè la sua era una macchina puramente geometrico – matematica : così come quando diciamo che il cilindro é dato dal ruotare su se stesso del rettangolo non ci curiamo di che cosa sia a far girare ( o a far star su , o di che cosa sia fatto ) il rettangolo , così Tolomeo non si preoccupa di come stia su la sua ” costruzione ” : non dice ” l’ universo é così ” , bensì ” é come se l’ universo fosse così ” : é una costruzione puramente mentale . Questo tra l’ altro dimostra che Copernico in fin dei conti fosse convinto che l’ universo fosse come diceva in termini fisici ( e non puramente geometrici ) , altrimenti avrebbe ragionato in modo più simile a Tolomeo che non ad Aristotele : dà un’ immagine fisica dell’ universo ; in assenza del principio di inerzia , era obbligato ad ammettere l’ esistenza di sfere solide e materiali ; e ipotizzando sfere solide quanto diceva Tolomeo non poteva che sembrargli assurdo in quanto il sistema degli epicicli prevede l’ incrocio e l’ attraversamento di sfere ; ma se le sfere sono materiali questo é impossibile . In realtà anche Copernico si serve del concetto di epiciclo affermando che la luna é epiciclo rispetto alla Terra : qualcuno potrebbe dire che il sistema copernicano , come quello tolemaico , ha degli epicicli , però ( a differenza di quello tolemaico che ne aveva una miriade ) ha il vantaggio di averne uno solo ( la luna ) : però il sistema tolemaico é geometrico ( é una costruzione mentale ) e di epicicli potrebbe averne anche centomila , quello copernicano invece é fisico ( dice che il mondo é effettivamente così ) : Tolomeo ( é bene ricordarlo ) aveva ipotizzato il suo sistema partendo dalla domanda : ” cosa devo fare per ipotizzare il movimento dei pianeti che vediamo ? ” e aveva immaginato una serie di moti che , messi insieme e in rapporto , potessero dare effettivamente quel movimento : é come la risoluzione di un problema geometrico . L’ introduzione anche di un solo epiciclo , ma in ambito fisico ( e non geometrico ) rende assai fragile l’ intero sistema copernicano : se le sfere sono solide , come può esserci l’ incrocio e l’ attraversamento di due sfere ? Tra l’ altro , uno dei presupposti della fisica aristotelica destinato a ” saltare ” con la rivoluzione scientifica era quello dei cosiddetti ” moti naturali ” : per lui c’ erano luoghi naturali e moti naturali ; ci sono corpi che vanno verso l’ alto e corpi che vanno verso il basso , quindi questi corpi hanno luoghi naturali ; per alcuni il luogo naturale é verso il basso ( il centro della Terra ) , per altri esso é verso l’ alto ( la ” periferia ” dell’ universo ) : terra e acqua tendono al basso , fuoco e aria verso l’ alto . Conclusione del ragionamento aristotelico é la finitezza dell’ universo : solo in un universo finito , infatti , ci può essere un unico centro e quindi un basso e un alto generale . Tutto questo ragionamento , ritenuto inconfutabile per secoli , comincia a traballare nel momento in cui si arriva a dire che il centro non é più uno , ma sono due : il sistema aristotelico prevede un solo centro perchè solo con un centro tutto il sistema può reggere ; ma con Copernico i centri diventano due : il Sole é centro di rotazione della Terra , ma la Terra é il centro di rotazione della luna . Era vero anche in Tolomeo , ma il suo era un ragionamento puramente geometrico , Copernico invece parla in termini fisici . Ci si arriva a chiedere : ma il centro dell’ universo allora quale é ? L’ aspetto per cui Copernico é più rivoluzionario , potremmo dire , non é neanche l’ eliocentrismo , ma sono quegli aspetti per cui l’ eliocentrismo da lui proposto entra in contrasto con altri aspetti tradizionali del suo stesso pensiero : così facendo ha aperto la porta ad una serie di reazioni a catena nate dalle contraddizioni interne del suo sistema : non possono stare insieme concetti quali la materialità delle sfere e l’ epiciclo , per esempio ; e allora tantissimi pensatori muoveranno critiche e proporranno il loro sistema correggendo quello copernicano . Copernico ammette le sfere solide e materiali che muovendosi trascinano con sè tutti i pianeti : ma il problema di fondo é come facciano a muoversi . Aristotele , per esempio , risolveva la questione dicendo : c’ é il primo motore ( Dio ) , le sfere si muovono in modo circolare per imitare l’ eternità di Dio e trascinano con sè i pianeti . Copernico , con un’ argomentazione più metafisica che fisica , dice invece che il moto naturale di un oggetto sferico é quello di girare , e quindi é ovvio che le sfere celesti ( enti materiali e sferici ) girino : tutto questo ragionamento , tra l’ altro , ci permette di capire che egli credeva che il mondo fosse davvero come diceva lui ; altrimenti che motivo avrebbe avuto di chiedersi , come aveva fatto Aristotele , in che modo girassero le sfere ? La critica più immediata che gli muovono i suoi avversari é quella dell’ effetto di parallasse : supponiamo di ammettere la teoria aristotelica che vuole la Terra ferma : il cielo delle stelle fisse si muove e la Terra sta ferma . Se ci muoviamo nell’ ambito della teoria Copernicana la Terra si muove intorno al Sole : i rivali di Copernico lo criticavano perchè se fosse stato vero ciò che diceva lui , noi dovremmo vedere ( per l’ effetto di parallassi ) le stelle in modo diverso a seconda delle stagioni , ossia a seconda di come é orientata in quel momento la Terra intorno al Sole , ma visto che ciò non accade , allora la Terra é ferma : se la Terra fosse stata in continuo moto ( intorno al Sole ) si sarebbe dovuto vedere il cielo delle stelle fisse ” muoversi ” , o meglio , cambiare di posizione . Copernico fu quindi costretto a dire che l’ effetto di parallassi c’ era ma era talmente piccolo che non si vedeva e quindi dovette aumentare la grandezza dell’ universo , la distanza Terra – stelle fisse : la Terra si muove , diceva Copernico , e l’ effetto di parallassi c’é , solo he il cielo delle stelle fisse é così distante da noi che manco ci accorgiamo dell’ effetto di parallassi . Copernico continuava sì a riconoscere finito l’ universo ( e anche per questo aspetto é un conservatore ) , ma esso diventava comunque enormemente più grande , in altre parole apriva la strada per il mondo infinito . Se l’ universo é enormemente grande ( e non c’ é più un centro ) , chi non mi dice che esso sia infinito ? Giordano Bruno prenderà le tesi di Copernico come punto di partenza per dimostrare l’ infinitezza del mondo . Il ” conservatorismo ” di Copernico , però , finisce per entrare in contraddizione : Aristotele aveva dimostrato la finitezza del mondo basandosi su un unico centro di rotazione ( e aveva senso : se c’ é un centro , un alto e un basso generale , allora il mondo deve essere finito ) ; Copernico invece mantiene l’ idea di finitezza del mondo ( attenendosi alla tradizione ) pur avendo ammesso l’ esistenza di due centri di rotazione ( distaccandosi dalla tradizione ) , il che non ha nessuna logica .
TYCHO BRAHE
Tycho Brahe ( 1546 – 1601 ) nasce in Danimarca ed é autore di un ” De mundi aetherei recentioribus phaenomenis ” ( 1588 ) nel quale propone una soluzione intermedia tra il sistema tolemaico e quello copernicano . Esaminiamo nel dettaglio i contributi che ha dato non solo all’ astronomia ma anche all’ aspetto fisico dell’ universo . Se Brahe viene solitamente un pò trascurato , lo dobbiamo a Galileo ( il quale conosceva benissimo il sistema di cui Brahe si faceva portavoce ) che nel ” Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo Tolemaico e Copernicano ” critica a Brahe quella che lui ritiene una sintesi mal riuscita dei sistemi precedenti ; in effetti che Brahe si sia essenzialmente limitato ad effettuare una sintesi degli altri sistemi é vero ; tuttavia dobbiamo precisare che egli , a differenza dello stesso Copernico , fu un grandissimo osservatore del cielo . Non solo , probabilmente egli fu il più grande osservatore del cielo ad occhio nudo mai esistito ; pochi anni dopo sarà infatti introdotto il telescopio . Brahe , tuttavia , non si limita a fare una sintesi degli altri sistemi senza apportare novità : egli dà nuove interpretazioni ed effettua osservazioni innovative . Interessantissima é senz’ altro l’ osservazione che fece di una cometa apparsa nel 1577 : tradizionalmente le comete costituivano problematiche agli astronomi perchè mettevano a rischio l’ immutabilità del sistema propugnata da Aristotele , il quale aveva sostenuto che l’ elemento costitutivo del mondo celeste , l’ etere , rendesse immutabile il sistema ; é noto che le comete siano fattori ” variabili ” : ora ci sono , ora non ci sono . In realtà gli astrologi avevano risolto il problema aggirandolo e sostenendo che le comete non fossero fenomeni astrologici , bensì metereologici : non avvengono nel mondo celeste , ma in quello sublunare ( quello al di sotto della luna , cioè il nostro ) ; così era risolto il problema : le comete sono fenomeni variabili , ma che avvengono nel nostro mondo e quindi non mettono a rischio il sistema del mondo celeste . Di sfuggita possiamo ricordare che solo Seneca negò che fossero fenomeni metereologici , sostenendo la loro appartenenza al mondo celeste . Galileo , invece , era convinto che fossero fenomeni metereologici , della nostra atmosfera . Brahe , dal canto suo , grazie ad accurate osservazioni , arriva a dire che le comete sono fenomeni astronomici ; il che comporta inevitabilmente che nel cielo possano esservi delle ” novità ” ( infatti le comete , come detto , sono fenomeni che ora ci sono , ora non ci sono ) . Ma questa non é la sola conseguenza : se le comete sono fattori astronomici , allora é necessario che nel loro tragitto ” taglino ” le orbite ( o sfere ) dei pianeti . L’ osservazione empirica di Brahe testimonia quindi che le orbite non sono solide e materiali come sostenevano Aristotele e Copernico . Ma se le orbite non sono materiali , che cosa sono ? Brahe le definisce come ” traiettorie ideali e immateriali ” , sulla scia di quanto diceva Tolomeo . Un’ altra importante novità apportata da Brahe é la seguente : egli osservava nel cielo alcune ” stelle nuove ” , ossia stelle che prima non si vedevano ( o si vedevano con difficoltà ) e che nell’ arco di un giorno diventavano luminosissime per poi sparire in fretta : si tratta di esplosioni , in seguito alle quali le stelle muoiono . Questo dimostra che nel cielo , così come nel nostro mondo , possono apparire e scomparire delle cose : l’ inevitabile conseguenza alla quale arriva Brahe é che non vi é differenza qualitativa tra mondo sublunare e mondo celeste : il nostro mondo , costituito dai quattro elementi aristotelici ( terra , acqua , aria e fuoco ) é assolutamente uguale in termini qualitativi a quello celeste , composto di etere . E’ interessante notare che negli stessi anni anche Giordano Bruno era arrivato a dimostrare l’ uguaglianza qualitativa tra il nostro mondo e quello celeste ; Brahe vi arriva grazie a constatazioni empiriche , Giordano Bruno sulla base di ragionamenti metafisici che lo portavano alla negazione di ogni forma di dualismo ( e quindi anche alla negazione del dualismo mondo sublunare – mondo celeste ) . Ritornando al discorso della cometa : Brahe arriva a dire , grazie ad accurate osservazioni , che essa non taglia solo le orbite , ma il suo non é un movimento circolare , bensì ovale : é importante quest’ affermazione di Brahe perchè in fondo il sistema in vigore ai giorni nostri ci dice che il mondo é eliocentrico ( come diceva Copernico ) ma le orbite sono ellitticche ( come dirà Keplero ) , il che significa che Brahe aveva avuto valide intuizioni . La vera novità introdotta da Brahe é che per lui non tutti i moti del cielo sono circolari : certo , egli continua a riconoscere il moto circolare dei pianeti , ma non riconosce quello delle comete , che lui chiama ” ovale ” , ossia a cerchio deformato ( e non ellitticco , come dirà Keplero ) . Nell’ elaborare il suo sistema , che é passato alla storia con il nome di ” sistema ticonico ” , Brahe é vincolato da una duplice esigenza : egli riconosce la validità del sistema copernicano ( sa infatti che funziona meglio rispetto a quello geocentrico ) che per la sua semplicità aveva riscosso grande successo all’ epoca e vorrebbe mantenere questo sistema , tuttavia vuole evitare di imbattersi nelle critiche che venivano generalmente mosse al sistema copernicano : in primo luogo era incompatibile con la Bibbia ( la quale afferma che il Sole é in moto ) , in secondo luogo andava contro il senso comune dire che la Terra , che noi vediamo irrimediabilmente ferma , ruota intorno al Sole ( solo con Galileo il paradosso sarà risolto ) : ancora oggi siamo abituati a dire che il Sole tramonta o sorge , ma in realtà é fermo e siamo noi che ci spostiamo . Infine Brahe non voleva andare contro la tradizione aristotelica , che voleva la Terra ferma al centro dell’ universo finito . Quindi Brahe , pur riconoscendo la validità del sistema copernicano , non se la sente di andare contro questi tre principi e dà vita ad un sistema ibrido , dove possiamo ravvisare l’ incontro tra copernicanesimo e aristotelismo : voleva prendere il meglio , ma in realtà non fa che creare un sistema che non ha i vantaggi nè dell’ uno nè dell’ altro : non é nè semplice ( come quello copernicano ) nè tradizionale ( come quello aristotelico ) . Egli vuole mantenere la Terra ( T ) al centro dell’ universo ( evitando così le 3 critiche sopra elencate ) . Intorno alla Terra ( T ) fa girare il Sole ( S ) , con un’ orbita grande , e la Luna ( L ) , con un’ orbita più piccola . Fin qui siamo assolutamente nell’ ottica aristotelica .
Dopo di che , però , Brahe fa girare intorno al Sole ( S ) tutti gli altri pianeti . Essi , naturalmente , gli girano intorno secondo orbite di dimensioni diverse ; l’ ordine di grandezza delle orbite , comunque , rimaneva lo stesso ammesso da Copernico , escludendo la questione della Terra ( T ) . Alcuni gireranno con orbite più vicine al Sole , altri con orbite più distanti : Mercurio ( M ) e Venere ( V ) girano vicini al Sole ; Marte ( MA ) e Giove ( G ) girano distanti . Mercurio ( M ) girerà sulla sua orbita ( colorata in viola ) ; la Terra ( T ) non gira intorno al Sole ( S ) , ma tuttavia rispetto ad esso si trova nella stessa posizione che ammetteva Copernico : é vero che la Terra non gira intorno al Sole ( come invece era per Copernico ) e solo gli altri pianeti girano intorno ad esso , ma tuttavia le distanze reciproche tra i vari pianeti e il Sole e anche tra Terra stessa e Sole sono le stesse ipotizzate da Copernico ; solo che lui faceva girare tutti i pianeti intorno al Sole , Brahe no . Ci sono Mercurio ( M ) e Venere ( V ) che gli girano intorno da vicino , poi la Terra ( che non gira intorno al Sole ) , e infine pianeti più distanti dal Sole rispetto a quanto lo é la Terra che tuttavia ruotano intorno al Sole ( e non alla Terra ) ; essi sono Giove ( G ) e Marte ( MA ) .
Ricapitolando : la Terra sta ferma al centro e intorno a lei gira la Luna ( L ) e anche il Sole ( S ) ; intorno al Sole girano tutti gli altri pianeti , nello stesso ordine in cui li collocava Copernico , cioè due , Marte ( MA ) e Giove ( G ) , con orbita di raggio maggiore alla distanza Terra – Sole , e altri due , Venere ( V ) e Mercurio ( M ) , di raggio minore alla distanza Terra – Sole . E’ sostanzialmente un sistema di epicicli ( anche se grandissimi ) alla Tolomeo : per esempio , per delineare l’ orbita di Venere ( V ) dovremo immaginare che Venere ruota intorno al Sole ( S ) il quale é trascinato intorno alla Terra ( T ) . I pianeti Marte ( MA ) e Giove ( G ) nel loro tragitto passeranno anche , per così dire , alle spalle della Terra . Il sistema di Brahe non fa altro che dare , sebbene in modo diverso , lo stesso risultato di quello di Copernico e inoltre non va contro i principi della Bibbia , della tradizione e del senso comune perchè la Terra rimane immobile al centro dell’ universo . Per la prima volta nell’ ambito di un sistemma fisico ( e non geometrico : se fosse stata solo un’ ipotesi geometrica non si sarebbe infatti preso la briga di porre la Terra al centro ) le orbite non sono più materiali , ma diventano ” traiettorie ideali ” : non solo le orbite delle comete , ma anche quelle dei pianeti . Ammettere che le orbite sono traiettorie geometriche e non enti fisici comporta un problema : se non ci sono le orbite fisiche , cosa tiene su i pianeti ? Aristotele , per esempio , diceva : c’ é il primo motore ( Dio ) , le sfere si muovono in modo circolare per imitare l’ eternità di Dio e trascinano con sè i pianeti . Copernico , con un’ argomentazione più metafisica che fisica , diceva invece che il moto naturale di un oggetto sferico é quello di girare , e quindi é ovvio che le sfere celesti ( enti materiali e sferici ) girino . Se le sfere non ci sono , allora tutto si complica : i pianeti si muovono su orbite geometriche che continuano ad essere ritenute circolari ( fatta eccezione per le comete ) . Questo problema di fatto Brahe non lo affronta , ma lo lascia in eredità al suo discepolo Keplero , il quale arriverà a dire che il Sole ha un’ anima e una forza magnetica , ossia attrae a sè gli altri pianeti , impedendo loro di disperdersi nell’ universo .
GIOVANNI KEPLERO
Giovanni Keplero , nato a Weil presso Stoccarda nel 1571 e morto in estrema povertà a Ratisbona nel 1630 , fu prima aiutante e poi , dal 1601 , successore di Brahe nella carica di astronomo imperiale . Con Keplero la connessione tra matematica e astronomia diventa molto più stretta di quanto non lo fosse negli astronomi che lo avevano preceduto . Con lui , infatti , la matematica non fornisce più soltanto uno schema geometrico per la costruzione del sistema astronomico , ma gli strumenti necessari per definire con precisione le leggi che regolano i moti celesti . Come nel collega Copernico , anche in Keplero sono commiste nel modo più bizzarro fantasticherie pitagoriche ed escogitazioni astrologiche ad osservazioni e a calcoli astronomici : egli si muove su terreni non solo scientifici , ma anche metafisici . Keplero é famoso soprattutto per le tre leggi , ancor oggi ritenute sostanzialmente valide : é contemporaneo di Galileo , ma é più ” moderno ” di lui perchè ipotizzerà delle orbite ellitticche e non circolari come invece diceva Galileo . Prima di approdare alle tre leggi , Keplero scrive un’ opera intitolata ” Mysterium cosmographicum ” ( 1597 ) ; già il titolo , ” il mistero della descrizione del mondo ” , come del resto il titolo di un’ altra sua opera , intitolata ” Harmonices mundi ” ( 1619 ) , ossia le ” armonie del mondo ” si richiama fortemente alla tradizione pitagorico – platonica : i pitagorici soprattutto avevano ipotizzato l’ esistenza dell’ armonia , per esempio in ambito musicale , o anche i movimenti regolari e armonici del cosmo : armonia va letta nel senso di ” precisione ” metafisica dell’ universo . Alla base del pensiero pitagorico – platonico c’ é proprio l’ idea dell’ armonia e della precisione del cosmo . La parola mysterium , poi , evoca anche la tradiziona neoplatonica , con i suoi misteri difficilmente comprensibili : ricordiamoci che Keplero stesso era un astrologo , faceva gli oroscopi . E’ strano pensare che quello che può essere considerato il fondatore della scienza moderna fosse un astrologo . Ora , delineato il quadro generale in cui opera Keplero , torniamo alla sua prima opera , il ” Mysterium cosmographicum ” , che é solitamente un pò trascurata dai libri di scienze perchè dà del mondo un’ immagine che non é poi quella delineata dall’ astronomo svedese in un secondo tempo , ma é un pò ” superata ” . Keplero in quest’ opera parte dalla convinzione pitagorico – platonica dell’ esistenza nel mondo di un misterioso ordine matematico che va scoperto . Egli accetta il sistema copernicano ( e non quello ticonico ) e quindi nella sua mente é radicata l’ idea che il Sole sia al centro e che tutto il resto ( Terra compresa ) ruoti attorno ad esso . A questo punto lui , partendo dal presupposto ( e quindi non da constatazioni empiriche ) che ci deve essere un ordine matematico nell’ universo , si pone il problema di cercare quest’ ordine : si tratta di trovarlo in quanto c’ é di sicuro . Ha il presupposto metafisico dell’ esistenza di un ordine . Tra l’ altro Keplero ( da buon cristiano ) ipotizzava che il rapporto tra il Sole , il cielo delle stelle fisse e lo spazio intermedio fosse il corrispondente fisico del rapporto trinitario della divinità : sullo sfondo ci sono considerazioni cusaniane ( l’ universo rispecchia Dio in modo fisico ) : il Sole é la rappresentazione fisica della prima persona ( Dio padre ) ; il cielo delle stelle fisse é la rappresentazione della seconda persona ( Dio figlio ) in quanto riflesso del Sole ; come lo Spirito Santo é ciò che unisce Padre e Figlio , così lo spazio intermedio tra Sole e cielo delle stelle fisse é ciò che li separa ma anche ciò che li unisce . Questo per notare la forte presenza in Keplero non solo di speculazioni pitagorico – platoniche , ma anche cristiane . Da un lato Keplero ha osservazioni empiriche che gli descrivono le orbite dei pianeti , dall’ altro ha le convinzioni pitagorico – platoniche dell’ esistenza di un ordine tra le orbite , un rapporto reciproco . Quindi cerca di mettere insieme le osservazioni empiriche con le convinzioni filosofiche e avanza delle ipotesi e propone rapporti geometrici per spiegare il rapporto tra le dimensioni delle varie orbite . In un primo tempo ci prova nelle maniere più semplici ( come dice lui ) ipotizzando rapporti di tipo puramente aritmetico : se un orbita é uguale a uno le altre saranno il doppio , il triplo , il quadruplo . Tuttavia non é soddisfatto e i rapporti ipotizzati non corrispondono con i dati osservativi ; alla fine ne trova uno che lo soddisfa particolarmente sul piano del calcolo e anche sul piano filosofico : parte dall’ orbita della Terra considerata pari a uno ; dopo di che prende i 5 solidi regolari ( con le facce uguali ) individuati da Platone nel Timeo : 4 erano gli elementi empedoclei e il quinto era la forma strutturale dell’ universo . Prova a inscrivere e a circoscrivere nella sfera della Terra uno dei solidi regolari : ne avrò uno inscritto e un altro circoscritto . Rispetto al solido inscritto inseriremo dentro un’ altra sfera che sarà rispetto ad essa circoscritta e sarà più piccola di quella di partenza ; viceversa al solido circoscritto circoscriveremo un’ altra sfera che sarà quindi più grande di quella di partenza : il gioco andrà avanti finchè non si esauriranno i solidi ; le sfere in gioco saranno complessivamente 6 . Così otterremo le sei sfere che delineano l’ orbita della Terra intorno al Sole e le altre 5 orbite sono le orbite degli altri 5 pianeti ( dal più piccolo al più grande , la sfera di Saturno é circoscritta al cubo , mentre la sfera di Giove é inscritta in esso e circoscrive a sua volta il tetraedro , nel quale é inscritto Marte , che circoscrive il dodecaedro , e così via fino alla sfera di Mercurio ) ; ovviamente la dimensione di queste sfere ( e non dei pianeti ) sarà definita : é un calcolo molto complesso , ma da esso si ottengono risultati precisi . Keplero scopre che le dimensioni delle sfere calcolate con i suoi calcoli corrispondono esattamente con quanto dimostra l’ osservazione empirica : prendendo come unità di misura la Terra , é vero che le dimensioni delle orbite di Venere e di Mercurio ( le due più piccole ) e quelle di Giove , Saturno e Marte ( le più grandi ) risultano effettivamente di quelle dimensioni lì . Keplero é piacevolmente stupito di aver finalmente trovato ciò che stava cercando ; e da questo deduceva l’ esistenza dell’ ordine . Ma dobbiamo precisare la questione : essendo le osservazioni empiriche meno precise di quelle di oggi , una corrispondenza approssimativa con questi calcoli era più facile da trovare ; e poi , soprattutto , va notato che Keplero é partito dal presupposto che ci fossero queste corrispondenze matematiche e poi le ha cercate disperatamente in tutti i modi e , come si suol dire , chi cerca trova . A forza di combinare tutti i calcoli é ovvio che sia arrivato al risultato desiderato : ad esempio , é vero che ci sono i 5 solidi regolari , ma comunque non é stabilito l’ ordine in cui disporli , così potrò giocare a mio piacimento ; é piuttosto facile , in fondo , mettersi a tavolino e provare tutti i calcoli possibili finchè non si trova quello più soddisfacente . Tornando ora alle 3 leggi di Keplero , 2 di esse sono elaborate nell’ ” Astronomia nova ” ( 1609 ) : 1 ) le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei due fuochi . Come detto , Keplero accetta in linea di massima il sistema copernicano , ma non la circolarità delle orbite : le orbite diventano ellittiche . Come mai proprio le ellissi ? Keplero vive nel 1600 , gli anni in cui si sviluppa l’ arte barocca : in seguito alla riforma protestante , la Chiesa , di fronte alle richieste dei protestanti di ridurre l’ esteriorità del culto , non fa altro che accentuarla , introducendo appunto l’ ellisse , che dà l’ impressione di irregolarità , pur essendo regolare . In un’ ellisse non ci vuole un solo ” fulcro ” come in un cerchio , ma due . Il disegno qua sotto può chiarire ciò che Keplero intendesse :
La somma delle due distanze dal punto P ai due fuochi ( S e T ) deve essere costante . La novità del discorso di Keplero sta appunto nel fatto che l’ orbita non é più circolare , ma ellitticca ( la circolarità continuerà comunque a sopravvivere e sarà ancora condivisa da Galileo ) . Chiaramente un’ ellisse non può essere fisica e quindi le orbite per Keplero non sono materiali : crolla la fisica aristotelica che voleva i moti circolari . Anche con l’ ellissi comunque siamo di fronte ad una regolarità , ma più complessa della circolarità : passa attraverso non alla costanza del raggio , ma di una somma . E’ una regolarità ” dinamica ” : le distanze dal punto P dal Sole ( S ) variano continuamente e non secondo una casualità , ma sempre in modo che la somma sia costante . Sono i rapporti a rimanere costanti e non le cose . La seconda legge dice : 2 ) la velocità orbitale di ciascun pianeta varia in modo tale che una retta congiungente il Sole e il pianeta percorre , in eguali intervalli di tempo , eguali porzioni di superficie dell’ ellisse .
Osservando il nuovo disegno ( tenendo comunque in considerazione quello precedente ) , si può sintetizzare la legge in modo un pò più grossolano dicendo che il segmento che unisce il Sole al pianeta ( P ) spazza aree uguali in tempi uguali ; se supponiamo di prendere un’ unità di tempo x , in successive unità di tempo x il pianeta P si muoverà in modo apparentemente irregolare , ora percorrerà spazi minori , ora maggiori , come indicato nel disegno : si può tratteggiare la linea che unisce il Sole alle diverse posizioni percorse dal pianeta P . Da notare che i punti occupati dal pianeta non sono disegnati tutti alla stessa distanza gli uni dagli altri , perchè quando il pianeta é più vicino al Sole va più velocemente , quando é più lontano va più lentamente . Le figure disegnate sono delle specie di triangoli e quindi la base di questi triangoli varia : più si é vicini al Sole e più é larga ( perchè nello stesso tempo il pianeta percorre più spazio ) , più si é distanti dal Sole e più é stretta ( perchè nello stesso tempo percorre meno spazio ) ; quanto più é larga la base , tanto é minore l’ altezza del triangolo ; quindi questi ” triangoli ” hanno tutti aree uguali , perchè in ogni unità di tempo ( come recita la legge ) vengono spazzate aree uguali . E’ evidente la presenza di una costante : il moto é quindi in qualche modo regolare . Per mantenere costanti questi triangoli , il punto P deve cambiare continuamente velocità : é irregolare apparentemente ; cambiano continuamente due cose per farne restare una costante , ossia per avere l’ area costante bisogna cambiare continuamente l’ altezza e la base dei triangoli . Se con la prima legge saltava la circolarità dei movimenti , con la seconda salta la costanza della velocità . La terza legge Keplero la espone negli ” Harmonices mundi ” e dice che 3 ) i quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti sono nello stesso rapporto dei cubi delle rispettive distanze dal Sole . In poche parole dice che più un pianeta é lontano e più é lento ; il periodo di rivoluzione mi dice quanto ci impiega un pianeta a fare il giro intorno al Sole : dire che i tempi di rivoluzione sono legati alle distanze medie dal Sole , vuol dire che il pianeta più é vicino e più é veloce , più é lontano e più é lento : Mercurio sarà più veloce , Venere un pò meno , la Terra ancora meno , Marte meno ancora e così via per tutti i pianeti . Occorre fare due osservazioni : a ) c’ é rapporto tra distanza e velocità , ma non é un rapporto diretto , bensì tra quadrato della velocità e cubo della distanza : ancora una volta é un rapporto di tipo ” barocco ” , che implica una regolarità complessa e dinamica . b ) La terza legge di Keplero dice in fondo ciò che diceva già la seconda : sia pure in maniera diversa , ambedue dicono che quanto più un pianeta é vicino al Sole , tanto più andrà velocemente e viceversa ; solo che la seconda lo dice rispetto al singolo pianeta man mano che si allontana o si avvicina , la terza a proposito dei differenti pianeti . Già Brahe aveva fatto scoperte che imponevano il problema della causa del movimento dei problemi ( se le orbite non sono materiali , che cosa tiene su i pianeti ? ) ; Keplero prova a spiegare in due modi come i pianeti si muovano e stiano su : la prima spiegazione é di ispirazione platonica e più tradizionale : Platone nel Timeo parlava di anime dei corpi celesti . I pianeti per lui erano esseri viventi , vere e proprie divinità . Essi hanno regolarità di moto , dove c’ é moto c’ é vita , dove c’ é regolarità c’ é intelligenza , quindi i pianeti sono vivi e intelligenti ; non a caso i pianeti li chiamiamo ancora oggi con il nome di divinità . Keplero modifica questa posizione : più un pianeta é vicino e più é veloce ed ipotizza l’ esistenza di una forza magnetica o analoga a quella del magnete ( già Talete aveva fatto interessanti osservazioni sul magnete : ” é vivo perchè si muove ” ) . Da un’ idea animistica si va sfumando verso una forza fisica : nel Sole per Keplero c’ é una forza magnetica capace di legare a sé i pianeti perchè non si disperdano nell’ universo , quasi come una corda che lega a sè i pianeti . A questo punto egli modifica i suoi presupposti platonici ( i pianeti sono animati ) e dice che solo il Sole ha l’ anima perchè gli serve per dare il punto di partenza all’ intero sistema . Tutti i movimenti derivano dal Sole , che é l’ unico corpo animato . Il Sole , in quanto animato , ruota su se stesso e così facendo si muove sul proprio asse ( in modo regolare ) senza essere mosso da nessun altro corpo e fa muovere gli altri pianeti . Per Keplero il Sole é il riflesso di Dio padre nel mondo fisico : così come Dio é centro del mondo metafisico , il Sole é centro del mondo fisico . E’ proprio perchè ruota su se stesso , avendo l’ anima e la forza magnetica , che trascina i pianeti ; i pianeti più vicini vengono trascinati con più forza rispetto a quelli più distanti perchè avvertono di più la forza magnetica : si riallaccia alla seconda e alla terza legge in ambito fisico . Il Sole é quindi l’ unico pianeta animato e dotato di forza magnetica che influisce i pianeti mettendoli in moto e tirandoseli dietro ; quando sono più vicini sono trascinati di più , quando sono più lontani sono trascinati di meno . Keplero é a metà strada tra animismo e forza fisica ; a far prevalere definitivamente la forza fisica sarà Newton .
CESARE CREMONINO
Cesare Cremonino (1550-1631) è rappresentante del tardo aristotelismo padovano, si proclamava aristotelico (fu chiamato Aristoteles redivivus) secondo l’interpretazione di Alessandro D’Afrodisia (II sec. d. C.), ma ci teneva a non confondersi con i seguaci pedissequi del filosofo greco, e la visione aristoteliche è integrata in modo eclettico con dottrine neoplatoniche, averroistiche, tomistiche o scotiste che riflettono l’esigenza di avere basi concrete empiriche nell’analisi filosofica. Il suo interesse è per la fisica speculativa, cioè per la filosofia della natura. Tale naturalismo si pone in modo non religioso. La filosofia è un separatum opus rispetto alla teologia. La prima deve ricorrere unicamente a spiegazioni e a mezzi naturali, rifiutando il sovrannaturale come area di non propria competenza. Per Cremonino il mondo sublunare si contrappone nettamente al mondo celeste. Il problema è svolto nell’ambito della dottrina ilemorfica: è un principio attivo, il calidum innatum, che opera la sintesi di corpo e anima, materia e forma. Il cielo è corpo organico di materia ed anima informante (che ama e desidera Dio), con in sé il principio del proprio moto (automovimento), ha valenza quasi teologica, governa il mondo, è la prima causa efficiente dell’ordine naturale, è principio di legalità-unità-razionalità dell’ordine cosmico. Cremonino polemizza con Averroè circa la dottrina della doppia verità, identificando filosofia e teologia, nel senso che riduce tutto a filosofia (speculativa e della natura). Si oppone alla concezione averroistica dell’unità dell’intelletto, considerando l’intelletto stesso come la differenza specifica degli uomini di fronte agli animali e tra loro.
Secondo Schiamone, Cremonino è assolutamente insensibile allo spirituale e a suo avviso nel sublunare il principio unificante dei quattro elementi è il calore innato, fonte di vita, non corporeo ma celeste, deputato a mediare tra anima e corpo, con sede nel cuore da cui si diffonde per tutto il corpo, determinando la seguente catena (secondo l’interpretazione alessandrinista): calore innato – nutrizione – generazione – animazione. Il calore innato non è altro che il calore dei temperamenti (di cui parla Galeno), dovuto a mescolanza di elementi che compongono il corpo, mescolanza causata dal movimento dei Cieli. Da essi dipende dunque la natura dell’anima nella sua singolarità. Da qui l’interpretazione di tutta la realtà come panpsichismo. Non vi è quindi posto per l’immortalità dell’anima, né per la spiritualità. Nel Tractaus de Paedia Cremonino compie una sinderesi tomista in funzione non morale bensì teoretica. Paedia è la facoltà di conoscere le condizioni costitutive della scienza, è l’habitus dei fondamenti del sapere, con valore metodologico, gnoseologico, pedagogico (tratto dalla paideia
greca). Essa è anteriore e fondante rispetto alla logica e rispetto all’esperienza Dio è svuotato di ogni contenuto (non ha nozioni, Deus est veritas immobilis), non influisce su fatti particolari o contingenti, trascende ogni nostra possibilità di comprensione (assoluta aseità), non è creatore del mondo (visione epicureo/lucreziana), neppure può essergli attribuita libertà, la quale implica mutamento. I suoi attributi non sono definibili, se non in negativo: non può essere creatore, in quanto tale azione sarebbe estrinseca; non può essere causa efficiente del mondo (muove solo come causa finale, come oggetto di desiderio: appunto per tale aspetto finalistico del desiderio, non può che “muovere” ciò che ha un’anima, vale a dire i cieli). Dio e le intelligenze celesti possono muover i cieli solo attraverso questa anima informate, che ama e desidera Dio. Famoso più per la vena discorsiva delle sue lezioni e per il fascino personale che per suoi scritti, Cremonino è anche descritto come consultato e ammirato da principi e re, che volevano averne il ritratto, ma pare che le lezioni, una volta stampate, caddero subito di pregio e vennero dimenticate. Bisogna tener conto della sua fama dovuta se non altro al fatto che ha insegnato per quarant’anni a Padova, con punte di quattrocento alunni per anno. Ha avuto quindi un uditorio di almeno cinquemila persone diventate successivamente medici o comunque elementi intellettuali inseriti nella società italiana ed europea. Dopo la pubblicazione del Nuncius Sidereus di Galileo, molti si aspettavano da parte di Cremonino una netta presa di posizione secondo gli schemi della tradizione fisica aristotelica, ma C. non si pronunciò “non volendo provare cose di cui io non ho cognizione alcuna, né l’ho vedute”, secondo l’espressioni riferite da Paolo Gualdo in una lettera a Galileo (Padova 1611). Riflettendo il pensiero concreto di Aristotele, Cremonino evidenzia più volte il ruolo dell’induzione:
“Ordo vero resolutivus incipit a fine et ipsius habita praecognitione progreditur ad ea consideranda per quae talis finis haberi possit” [il metodo risolutivo parte dal dato e – fondandosi sulla sua conoscenza – procede alla considerazione dei principi che rendono possibile il dato stesso]
Pur nell’ambito di schemi filosofici ormai non adatti all’indagine sulla natura, Cremonino fu – al pari di Galileo – uno degli intellettuali che tennero viva la discussione sui problemi della razionalità dello spirito e della ricerca umana.
Parallela all’attività di insegnamento del Cremonino è quella letteraria, che delinea un orizzonte teorico di tipo razionalistico se non illuministico. Ad esempio, nella commedia Le nubi (collocabile tra il 1603 e il 1611) egli delinea le seguenti tematiche: dimensione sociale della cultura, difesa della cultura laica contro le deformazioni tomistico-gesuite, libertà di coscienza, uguaglianza sociale, condanna della magia, mondo arcadico visto come contrapposizione al clima di oppressione contemporaneo, esaltazione dell’ingegno umano, riferimento alla scienza che viene dall’esperienza (“Son le cose il buon libro / che deue studiarsi”). Si inquadra in quest’ottica l’aspra polemica condotta da Cremonino contro i Peripatetici dell’epoca, accusati di travisare il testo aristotelico e di fraintenderlo in più punti:
“Io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo egli riceverebbe me tra i suoi seguaci […], molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni detto suo vero per vero, vanno esplicando dai suoi testi, concetti che mai non gli sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le grandi novità scoperte in cielo dov’egli affermò quello essere inalterabile et immutabile perché niuna alterazione vi si era allora veduta, indubitabilmente egli, mutando opinione, direbbe ora il contrario” (Lettera a Liceti).
Se Aristotele tornasse in vita – ci suggerisce Cremonino – muterebbe le sue errate opinioni circa l’immutabilità del mondo sopralunare, fatta definitivamente crollare dalle scoperte scientifiche di Galileo.
GALILEO GALILEI
LA VITA , LE OPERE E IL PROCESSO
Galileo Galilei é lo scienziato che più di ogni altro ha contribuito alla riformulazione delle basi metodologiche della scienza moderna . Nello stesso tempo le sue innovazioni non interessano soltanto l’ambito tecnico-scientifico , ma hanno importanti risvolti filosofici : in base ad esse risulta notevolmente ridimensionata l’ influenza del pensiero aristotelico sulla filosofia moderna e , contemporaneamente , viene definito un nuovo rapporto tra filosofia e scienza , da un lato , e filosofia e religione , dall’altro . Con buona ragione la “rivoluzione scientifica”del Cinque-Seicento è stata talvolta ricondotta alla “rivoluzione galileiana”. Nato a Pisa nel 1564 , egli vi studia matematica sotto la guida di ostilio Ricci , a sua volta allievo di Nicolò Tartaglia , uno dei più illustri matematici del Cinquecento . A soli ventidue anni pubblica un’operetta sulla bilancetta idrostatica – La bilancetta era appunto il titolo dello scritto – in cui appare evidente l’influenza di Archimede , che già nell’Antichità aveva applicato la geometria allo studio della meccanica e dell’idrostatica e le cui opere erano state recentemente tradotte . Nel 1589 è nominato lettore di Matematica presso lo Studio ( l’ università ) di Pisa : l’anno successivo scrive il De motu , in cui riprende la dottrina medievale di Buridano dell’impetus , prima embrionale formulazione – ancora in forma qualitativa – del principio di inerzia . Dal 1592 insegna matematica a Padova , dove rimarrà fino al 1610 : in una lettera posteriore ricorderà questi diciotto anni come i migliori della sua vita . Qui redige alcune opere di architettura militare e di fisica , tra cui il trattato Le meccaniche . Entra in contatto con l’ambiente aristotelico padovano ( soprattutto con Cesare Cremonini ) e con alcuni esponenti del mondo culturale veneziano ( come Paolo Sarpi , l’autore dell’ Istoria del Concilio tridentino , e Giovan Francesco Sagredo , un nobile veneziano che diventerà suo discepolo ) . Risale a questi anni la costruzione del cannocchiale . Certamente Galilei non lo inventa , ma utilizza informazioni che gli erano pervenute dall’ Olanda e più in particolare dai suoi espertissimi artigiani . E’ tuttavia suo merito averlo perfezionato tecnicamente , trasformandolo in in un vero e proprio strumento scientifico . Servendosi del cannocchiale , infatti , egli realizza le sue importanti scoperte astronomiche. Pubblicate nel Sidereus Nuncius del 1610 , esse resero Galilei immediatamente famoso in tutto il mondo . Forte di questa fama , nello stesso 1610 , Galilei viene chiamato a Pisa con la nomina di “matematico e filosofo primario” del granduca di Toscana , nonchè “matematico primario” dello Studio pisano senza l’ obbligo di insegnamento : l’ elevato stipendio e la libertà da ogni impegno didattico (egli vive difatti a Firenze) gli consentono di concentrarsi esclusivamente sulla ricerca : escono alcune opere importanti : il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua ( 1612 ) , l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari ( 1613 ) , il Discorso sul flusso e sul riflusso del mare ( 1616 ) , in cui si tenta di dimostrare la teoria copernicana ricorrendo al fenomeno delle maree . Proprio per questa sua difesa delle dottrine copernicane – che già alla fine del 1612 erano state dichiarate eretiche dai domenicani – Galilei viene denunciato al Sant’ Uffizio , sempre ad opera di un domenicano : pr difendersi dall’accusa Galilei scrive una famosa lettera a Cristina di Lorena , madre del granduca , in cui sostiene che la Bibbia si occupa non di problemi scientifici , ma di questioni morali e religiose . Nel febbraio 1616 il Sant’Uffizio condanna la teoria copernicana e Galilei viene ammonito a non difenderla con i suoi scritti . Egli si astiene pertanto dall’ occuparsi pubblicamente della questione copernicana e studia invece il fenomeno delle comete , da lui erroneamente ritenute , nel Saggiatore ( 1623 ) , un semplice effetto di rifrazione ottica . L’ ascesa al soglio pontificio dell’ amico cardinale Maffeo Barnerini , con il nome di Urbano VIII , incoraggia tuttavia Galilei a scrivere nuovamente sulla questione proibita , pubblicando nel 1632 il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , tolemaico e copernicano . Per difendersi da ulteriori accuse , egli nell’opera prospetta la dottrina copernicana come una semplice ipotesi matematica (contrariamente a quanto aveva fatto prima , quando ne aveva sostenuto la verità reale ) ed evita di pronunciarsi a favore di una delle due alternative. Comunque le preferenze di Galilei per la teoria copernicana sono così manifeste , e così mal condotto è il suo tentativo di affermare la propria neutralità , che ai suoi avversari è facile denunciarlo nuovamente all’ Inquisizione . E’ interessante notare come la teoria copernicana , risalente a 50 anni prima di Galileo , per un lungo periodo non sia stata assolutamente condannata e solo quando se ne fa portavoce Galileo la Chiesa tuona contro : il motivo di questa pacifica convivenza tra Chiesa e dottrina copernicana , la quale comunque minacciava le Scritture sostenendo l’ eliocentrismo , visto che nella Bibbia c’ é scritto che si ordinò al Sole di fermarsi , é essenzialmente questo : la teoria copernicana non si capiva bene se fosse un modello ” geometrico ” oppure una realtà fisica : in altre parole Copernico era stato piuttosto ambiguo , senza effettivamente rivelare se lui sostenesse che il mondo fosse davvero come lo ipotizzava o se la sua fosse solo una ipotesi . Galilei invece , avvalendosi dell’ apporto del telescopio , dimostra che la teoria copernicana non é un’ ipotesi geometrica , ma é realtà fisica : é vero che la Terra gira intorno al Sole e non sta ferma ! Tuttavia , a conclusione del processo Galilei , costretto a riconoscere la propria colpevolezza per salvarsi la vita , fu condannato all’abiura : ” con cuor sincero e fede non finta , abiuro , maledico e detesto li suddetti errori et heresie ” ; tuttavia , pare che uscendo dal tribunale abbia detto ” eppur si muove ! ” , riferito alla Terra , che lui sosteneva in movimento , ma che aveva dovuto ammettere farma con l’ atto di abiura . E’ ben diverso l’ atteggiamento e il processo a cui viene sottoposto Galileo rispetto a quello di Giordano Bruno : Bruno é condannato al rogo , Galileo abiura , ossia firma un documento dove c’é scritto che le sue teorie sono false e viene così salvato . Galileo é stato più volte criticato perchè pur di salvare la pelle ha fatto per così dire ” marcia indietro ” , rinunciando alle sue teorie . In realtà c’é una questione di fondo : la diversità degli atteggiamenti di questi due intellettuali , Giordano Bruno e Galilei , nasce non solo da diversità caratteriali , ma anche dagli ambiti di interesse dei due . Galilei é uno scienziato più che un filosofo : questo é significativo perchè la filosofia può aver bisogno di martiri perchè in qualche modo é una verità soggettiva , che va vissuta , non é un fatto meramente teoretico ; non é la verità matematica , inconfutabile e solida : detto in altri termini , di Galilei ci ricordiamo malgrado la sua figura , ma Bruno , se avesse abiurato , avrebbe senz’ altro avuto meno importanza nella storia del pensiero . Non a caso questi personaggi ” martiri ” come Socrate , Anassagora sono tutti personaggi per i quali la testimonianza che hanno dato diventa un elemento della loro filosofia : Socrate aveva ben ragione a suo tempo a dire di non poter fare ” marcia indietro ” perchè sarebbe stato come negare tutto ciò che per una vita intera aveva sostenuto . Invece ha ugualmente ragione Galilei a dire il contrario , tant’ é che si racconta che uscito dal tribunale dove aveva firmato il documento di abiura scalciasse contro la terra dicendo : ” eppur si muove ! ” , che é come dire : ” io ho firmato il documento , sono salvo e posso proseguire i miei studi , però la verità da me sostenuta continua ad essere vera : la Terra continua a muoversi anche se io ho effettuato questa scelta ! ” . In un certo senso Galilei ha fatto bene ad agire così perchè tanto le sue verità sono emerse nonostante la condanna e inoltre , dopo il documento di abiura , ha scoperto nuove verità che non avrebbe potuto scoprire se messo sul rogo . Questo non sarebbe certo stato valido per Socrate o per Bruno . I processi galileiani in realtà sono 2 : il primo avviene in seguito alla pubblicazione del Sidereus Nuncius , nel quale informa appunto delle sue scoperte astronomiche ( e dimostra la verità della teoria copernicana ) tramite il telescopio ; con questo processo però non si arriva a condannare Galileo , bensì la dottrina copernicana che venendo riconosciuta valida in ambito fisico va contro i principi della Chiesa . Tuttavia insieme a questa condanna vi é anche un ammonimento rivolto a Galileo con il quale gli si caldeggia di non sostenere più queste dottrine ” pericolose ” e lui obbedisce perchè é e vuole rimanere un ” buon cristiano ” per tutta la vita . Va senz’ altro detto che se egli riprende la dottrina copernicana , lo fa solo perchè ha molti amici che svolgono attività nell’ ambito della Chiesa e che gli consigliano teologicamente come difendere le sue dottrine ; questo dimostra come anche nella Chiesa vi fossero , accanto alle personalità più retrograde , anche uomini innovatori e pronti ad accogliere le novità . Tra i suoi amici c’ é il sopracitato cardinale Maffeo Barberini , che in quegli anni viene nominato papa col nome di Urbano VIII . A Galileo pare proprio questo il momento migliore per tornare sulla questione copernicana ; papa Urbano VIII , però , non é d’ accordo che Galileo chiami la sua opera ” Sulle maree ” e lo convince a rinominarla ” Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , tolemaico e copernicano ” ; il titolo proposto dal papa é addirittura altisonante e mette sì in mostra la dottrina copernicana , ma comunque tira in ballo anche il sistema tolemaico – aristotelico , che era quello più classico e favorito dalla Chiesa . La parola ” dialogo ” , poi , implica un aperto dibattito tra due personaggi , uno che difende la teoria copernicana e l’ altro quella tolemaica , con un terzo personaggio che fa da ” arbitro ” . Il titolo ” Sulle maree ” era più pericoloso perchè Galileo era erroneamente convinto che le maree fossero date , anzichè dall’ attrazione esercitata dalla Luna sulle masse d’ acqua della Terra ( come peraltro aveva dimostrato Keplero ) , dalla combinazione di movimento rotatorio e rivoluzionario della Terra attorno al Sole e questo implica che la Terra non sia ferma e quindi stravolge il sistema tolemaico . Nonostante la pubblicazione spalleggiata dal papa , la censura non può tollerare l’ opera e allora Galileo é costretto all’ abiura , la quale é accompagnata dalla condanna al carcere a vita , la quale viene tuttavia trasformata negli arresti domiciliari . Così egli può trascorrere il resto della sua vita nella sua casa di Arcetri , nei pressi di Firenze , assistito dalla figlia , aiutato nelle ricerche dagli allievi e venerato da coloro che venivano a incontrarlo anche da molto lontano . Nel 1638 scrive i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze . Muore nel 1642 .
IL CANNOCCHIALE – TELESCOPIO
Innanzitutto va detto che Galileo Galilei propriamente non é un filosofo , ma uno scienziato ; tuttavia quando egli si pone problemi metodologici egli si spoglia delle vesti di scienziato per assumere quelle di filosofo ; e soprattutto dei problemi metodologici ci si deve occupare in ambito filosofico . Va poi detto che se é vero che la sua riflessione metodologica é filosofica , é altrettanto vero che alcune scoperte scientifiche sono importanti e arrivano ad interessare la filosofia stessa . Ad esempio , nel ” Sidereus Nuncius ” Galilei ci descrive le sue osservazioni tramite il cannocchiale , o , meglio , il telescopio . Telescopio e cannocchiale concettualmente sono la stessa cosa : sono entrambi dati dalla combinazione di lenti concave e lenti convesse in modo tale da ingrandire gli oggetti lontani ; le lenti convesse ingrandiscono , ma solo da vicino ; é solo tramite l’ apporto di quelle concave che si può ingrandire ciò che é lontano . La differenza tra cannocchiale e telescopio consiste nel fatto che con il primo si osservano esclusivamente realtà presenti sulla Terra ( anche se magari molto distanti ) , con il secondo invece si possono arrivare ad osservare realtà che non sono sulla Terra : astri , pianeti , stelle … La differenza non é solo quantitativa ( con il cannocchiale posso vedere meno cose , con il telescopio di più ) , ma anche qualitativa : ciò che vedo col cannocchiale , per quanto distante possa essere , lo potrò sempre verificare empiricamente : se osservo una casa in lontananza posso avvicinarmici e verificare se davvero ciò che vedevo col cannocchiale era vero . Col telescopio non ci può essere ( siamo nel 1600 ) verifica empirica : ciò che vedo sulla Luna , per esempio , devo prenderlo per buono , senza poterlo verificare di persona . A noi pare una cosa ovvia che ciò che vediamo in un telescopio o in un cannocchiale é effettivamente così , ma ai tempi di Galileo no . In altre parole , Galileo non ha inventato il cannocchiale , ma il telescopio perchè per primo ha creduto a ciò che vedeva al di fuori della Terra ; il cannocchiale diventa cioè telescopio nel momento in cui con esso osservo realtà che non posso verificare empiricamente . Ha cioè perfezionato uno strumento elaborato in modo un pò grossolano da artigiani olandesi ( molto abili nel produrre lenti ottiche ) ; negli stessi anni Keplero , con cui Galilei era in contatto , aveva elaborato una teoria ottica per capire quale precisa combinazione di lenti usare per un ingrandimento preciso . Gli artigiani olandesi e Keplero facevano contemporaneamente e separatamente due ” pezzi ” che Galileo ha il merito di aver unificato . La grande intuizione di Galileo fu infatti quella di mettere insieme questi due ” pezzi ” ( dopo aver convocato alcuni artigiani in grado di farlo ) , ossia di creare un rapporto ( biunivoco ) tra scienza e tecnica , cosa peraltro tipica della rivoluzione scientifica : é un rapporto biunivoco nel senso che un maggiore sviluppo tecnologico permette alla scienza di conseguire risultati più apprezzabili , ma un maggiore sviluppo scientifico consente la creazione di strumenti sempre più precisi . Operazione simile a quella del cannocchiale Galileo la compì nel dimostrare la legge di caduta dei gravi , della quale ci occuperemo in seguito . Emerge poi nella elaborazione del telescopio un aspetto che avrà modo di emergere più volte in Galilei , ossia quelle che lui chiama ” le sensate esperienze e le certe dimostrazioni ” , dove sensate sta per ” sensibili ” e certe sta per ” dimostrazioni rigorose ” , di tipo matematico . Queste due espressioni vanno intese come la prima formulazione del metodo della scienza moderna , il quale si avvale non solo di calcoli matematici , non solo di osservazioni fisiche , ma di tutte e due le cose insieme .
GALILEO E ARISTOTELE
E’ senz’ altro vero che Galileo si contrappone agli aristotelici prediligendo lo studio della natura alla lettura di libri , ma non é vero che si contrappone all’ aristotelismo in generale . Lo studio della scienza all’ epoca era sostanzialmente studio di libri , senza verifiche e confronti sulla natura : ad esempio prima di Galileo l’ anatomia dell’ uomo la si studiava sui libri e non dissezionando i corpi , effettuando cioè l’ autopsia ; ci si limitava a leggere i libri del medico Galeno , di età romana : si dava più importanza a ciò che si vedeva scritto che non a quello che si vedeva di persona : già Leonardo da Vinci notò come ai suoi tempi ( siamo prima di Galileo ) si preferisse il richiamo all’ autorevolezza degli scrittori importanti alla constatazione empirica personale . E’ curioso come nel ” Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo , tolemaico e copernicano ” ad un certo punto compaia un aristotelico di nome Simplicio al quale il personaggio portavoce della teoria copernicana fa notare razionalmente tramite una serie di passaggi come l’ eliocentrismo funzioni perfettamente ; Simplicio risponde che sono affermazioni bellissime e non esiterebbe ad accettarle se Aristotele non avesse detto il contrario . E’ evidente come Galileo voglia qui sottolineare , tra l’ altro , come ai suoi tempi ad opporsi all’ eliocentrismo non fosse solo la Chiesa , ma anche la tradizione aristotelica ( oltre al senso comune : pare infatti ovvio a tutti noi che viviamo sulla Terra di essere al centro dell’ universo e che la Terra stia ferma ) . Però la polemica galileiana é rivolta non ad Aristotele ( come invece aveva fatto Giordano Bruno ) , ma agli aristotelici della sua epoca , che stimano ” il filosofare non tendere ad altro che al non si lasciar persuader mai altra opinione che quella d’ Aristotile ” ( vedi Simplicio ) ; d’ altronde Galileo é pienamente consapevole di come gli aristotelici del 1600 siano altra cosa rispetto al maestro Aristotele : sa benissimo che a differenza degli aristotelici del 1600 , che badano solo ai libri cartacei , Aristotele é interessatissimo all’ esperienza : ” Aristotele deride quelli che lasciano l’ esperienze sensate , per seguire un discorso che può essere fallacissimo ” . Sarà invece Bacone a non fare differenza tra Aristotele ed aristotelici . Galileo invece afferma in risposta agli aristotelici che lo accusano di non prestar fede ai libri di Aristotele che se Aristotele potesse rivivere sceglierebbe senz’ altro lui come suo discepolo e non tutti loro , eccessivamente legati ad una cultura ” libresca ” : ” … ma gli ingegni vulgari timidi e servili , che altrettano confidano , sopra l’ autorità di un altro , quando vilmente diffidan del proprio discorso , pensando potersi di quella fare scudo , nè più oltre credon che si estenda l’ obbligo loro , che a interpretare , essendo uomini , i detti di un altr’ uomo , rivolgendo notte e giorno gli occhi intorno ad un mondo dipinto sopra certe carte , senza mai sollevargli a quello vero e reale , che , fabbricato dalle proprie mani di Dio , ci sta , per nostro insegnamento , sempre aperto innanzi ” . In effetti Aristotele era molto più vicino a Galileo che non agli aristotelici del 1600 come modo di operare questi ultimi , invece di avvalersi dell’ esperienza sensibile e della ragione ( che secondo Galileo ha ” podestà assoluta ” ) , si affaticano solo ” per salvar il testo d’ Aristotile , come che il filosofare altro non sia che il solo procurar d’ intender questo libro e sottilizzar per difenderlo dalle sensate e manifeste esperienze e ragioni in contrario ” . In effetti Aristotele era un grandissimo e attentissimo esaminatore della natura e ne sono prova le sue opere biologiche e ” se a questi secoli fosse vivo , cangerebbe molte sue opinioni ” ; anzi , non é scorretto affermare che Aristotele seguisse l’ esperienza ancora di più di quanto fa Galileo .
LA LEGGE DI CADUTA DEI GRAVI
Si ricorda spesso la leggenda secondo la quale Galileo , per dimostrare la sua legge di caduta dei gravi , sarebbe salito sulla torre di Pisa e avrebbe fatto cadere oggetti di materiale diverso per verificare la fondatezza delle sue teorie . Noi sappiamo con certezza che questo ” racconto ” é falso ed é solo una leggenda non solo per mancanza di prove storiche , ma anche perchè se l’ avesse fatto non avrebbe verificato le sue teorie : un esperimento del genere avrebbe dato infatti ragione ad Aristotele , che sosteneva che i corpi cadono con una proporzionalità diretta con il proprio peso ( più un corpo é pesante e più cade velocemente ) . Tuttavia noi oggi sappiamo che aveva ragione Galileo : il peso non c’ entra niente con la velocità di caduta dei gravi : cadono tutti con la stessa velocità , che é proporzionale non al peso , ma al tempo trascorso da quando il moto é iniziato ( se lancio un oggetto , prima va lento e poi aumenta col passare del tempo la velocità ) . Dunque per Galileo la velocità di caduta é proporzionale non al peso , ma al tempo trascorso nella caduta . Gli oggetti cadono tutti con la stessa velocità ; però se facciamo cadere una palla di piombo e un batuffolo di cotone ci accorgiamo subito che non cadono alla stessa velocità e pare quindi aver ragione Aristotele e non Galileo ; questo dimostra che l’ esperienza comune dà ragione ad Aristotele : egli quindi é davvero stato un grande osservatore della natura . Se Galileo fosse quindi salito sulla Torre di Pisa e avesse fatto cadere una palla di piombo e un batuffolo di cotone per dimostrare che il peso non conta avrebbe fatto fiasco . Galileo ha ragione solamente in considerazioni particolarissime , ideali : la legge di caduta dei gravi galileiana vale esclusivamente nel vuoto ; nel vuoto sì che i corpi cadrebbero tutti alla stessa velocità . Quando non c’ é il vuoto é ovvio che un oggetto meno pesante occupa più spazio in proporzione al peso e occupando più spazio c’ é un attrito maggiore nella caduta : 1 Kg di piombo cade prima di 1 Kg di cotone secondo Aristotele ; cadendo devono spostare l’ aria : 1 Kg di piombo deve spostarne poca , c’ é meno attrito e quindi arriva prima ; 1 Kg di cotone occupa più spazio ( ci vuole tantissimo cotone per arrivare ad 1 Kg ! ) , c’ é più attrito con l’ aria , e quindi arriva dopo rispetto al piombo . Questo perchè c’ é l’ aria : se fossimo nel vuoto toccherebbero terra insieme . Tutto il discorso insegna che l’ osservazione pura e semplice non dà mai ragione a Galileo perchè a lui non interessa l’ osservazione casuale , ma quella controllata in sistuazioni particolarissime : un’ osservazione ideale . In altre parole gli interessa l’ esperimento , ossia un’ esperienza fatta in una situazione controllata e quindi misurabile ; se vedo cadere delle cose l’ esperienza di tipo aristotelico mi dice che ci sono oggetti che tendono al loro luogo naturale , al limite può dirmi che tendono ad aumentare di velocità man mano che precipitano ; ma quest’ esperienza non mi dice di quanto aumenta la velocità in un determinato tempo . Ma perchè quindi Aristotele si basa solo sull’ esperienza , mentre Galileo anche sull’ esperimento , ossia l’ esperienza controllata ? Ad Aristotele interessano i dati qualitativi – i corpi pesanti vanno verso il basso ; al limite può interessargli sapere che ci sono corpi che vanno più velocemente , altri più lentamente – ma non gli interessano dati quantitativi ( quanto ci mette a cadere un oggetto , per esempio ) proprio perchè non ha i mezzi per misurare ; invece Galileo può misurare con l’ esperimento , può quantificare ; Aristotele non ha i mezzi perchè non gli interessa , ma é anche vero il contrario , ossia non gli interessa perchè non ha i mezzi . Accanto alla matematica, la sperimentazione è il secondo mezzo a cui i nuovi scienziati fanno metodicamente ricorso . L’esperimento , inoltre , il quale ( come detto ) consiste nella riproduzione artificiale di processi naturali in condizioni di massima osservabilità , deve servirsi di strumenti di indagine e di misurazione sempre più raffinati (ad es. orologi, cannocchiali, telescopi, barometri) . Si stabilisce quindi la già citata connessione tra scienza e tecnica .L’ esperienza di ogni giorno darebbe ragione ad Aristotele , ma Galileo sente l’ esigenza di ridurre l’ esperienza a condizioni ideali e rigorosamente determinabili , di eliminare tutti i fattori di disturbo rispetto al fenomeno che deve essere studiato . Però l’ esperienza comune non ci mette mai di fronte al fenomeno che dobbiamo studiare nella sua purezza : é sempre mescolato ad altri fenomeni : se devo studiare la caduta dei gravi , essa non é un fenomeno puro perchè c’ é l’ attrito ; sarebbe puro se fatto nel vuoto o comunque ( visto che all’ epoca il vuoto non era realizzabile ) in condizioni che almeno si sforzino di ridurre al minimo quegli elementi di disturbo che tendono appunto a non farci vedere l’ oggetto della nostra indagine nella sua purezza . Allora l’ esperienza di Aristotele é concreta , sempre intrecciata ad altri fenomeni che disturbano , mai pura : non é esperimento , ma esperienza , semplice osservazione della natura . L’ esperimento é quello di Galileo , dove si riproduce una determinata situazione , un determinato fenomeno in condizioni che cercano di eliminare ciò che disturba per poter studiare in condizioni di purezza . L’ esperienza come la vorrebbe Galileo , però , non esiste mai in natura : ecco il paradosso della scienza galileiana . Se al giorno d’ oggi siamo abituati a pensare che il mondo descrittoci da Galileo sia quello vero , preciso , é altrettanto vero che Aristotele ci descrive il mondo così come lo vediamo ogni giorno . Quello che dice la scienza galileiana non succede mai perchè nel nostro mondo non ci sono le condizioni giuste ( vedi il vuoto ) : possiamo arrivare ad una conclusione paradossale : il mondo descritto da Galileo é un mondo puramente ideale , che esiste solo nella sua testa . E’ un mondo ideale al quale il nostro mondo concreto risulta avvicinarsi più o meno a seconda dei casi ; é evidente che quanto appena detto evoca fortemente il platonismo : Platone aveva infatti parlato di un mondo ideale , delle idee perfette , immutabili ed uniche contrapposto ad un mondo sensibile ( il nostro ) , pallida copia di quello ideale . Anche per Galilei in fondo é così : nel nostro mondo le cose non sono mai ” perfette ” come le propone Galileo . D’ altronde già l’ amore per le ” certe dimostrazioni ” , ossia per la matematica é di forte ispirazione platonica : ” non entri chi non sa la matematica ” c’ era scritto all’ ingresso dell’ accademia platonica . Un quesito su cui gli studiosi si sono molto arrovellati nel tempo é se Galileo preferisse le ” sensate esperienze ” o le ” certe dimostrazioni ” ; si é arrivati alla conclusione che egli preferisse le ” certe dimostrazioni ” , le verità matematiche . Come mai ? Cerchiamo di capire tramite un esempio concreto . Ritorniamo sulla legge di caduta dei gravi : in generale il metodo galileiano funziona così : si elabora un’ ipotesi matematica ( in termini di rapporti matematici tra le varie grandezze prese in esame ) su come funzionano i fenomeni , si cerca con un esperimento ( ossia un’ esperienza controllata e rigorosa ) di verificare se questa ipotesi corrisponde alla realtà fisica ; si avanza l’ ipotesi che i corpi cadano secondo un’ accelerazione per cui la velocità é proporzionale al tempo trascorso ( v = t ) . Si può vedere con un calcolo piuttosto semplice che gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi ( v = t , ma v é spazio su tempo , ossia s/t ; quindi v = t diventa s/t = t che é s = t al quadrato ) . Galileo si pone una domanda : come posso verificare la caduta dei gravi ? Per verificare Galileo in primo luogo si avvale della pars destruens , con la quale confuta ( distrugge ) le posizioni ” vecchie ” in contrasto con quelle da lui sostenute : fa alcuni esperimenti mentali ( ossia esperimenti non svolti materialmente , bensì nella mente di chi lo effettua ; vengono svolti solo nella mente soprattutto perchè spesso non sono verificabili concretamente ) ; deve confutare la tesi aristotelica secondo la quale i corpi cadono a velocità diverse a seconda del loro peso . Fa questo ragionamento : supponiamo di avere due oggetti di peso diverso , che secondo Aristotele dovrebbero toccare terra in momenti diversi ; proviamo ad unire insieme i due pesi ottenendo un corpo unico : con che velocità cadranno questi due corpi legati insieme ? Secondo Aristotele essendo più pesante il nuovo corpo ( perchè somma dei due ) andrà più veloce di quello più pesante dei due da solo ; ma é anche vero che il più leggero ridurrà la velocità di quello più pesante : si dovrà fare una media tra i due . Con questa dimostrazione per assurdo si dimostra che si dovrebbero avere due velocità diverse , per un verso una maggiore rispetto a quella dei due corpi precedenti da soli , per un altro una velocità intermedia tra le due : quindi l’ ipotesi aristotelica che sia il peso a determinare la velocità di caduta si smentisce da sé : l’ ipotesi del padre della logica viene così smentita da Galileo con un ragionamento logico . Altro tipo di esperimento mentale che Galileo propone per confutare le tesi aristoteliche della velocità di caduta legata al peso é il seguente : si vuole dimostrare che la differenza di velocità é dovuta alla presenza di un mezzo denso ( l’ aria , per esempio ) e che nel vuoto questa differenza si annullerebbe ; ma il vuoto non lo si può realizzare : allora Galileo deve ovviare servendosi di mezzi con densità diversa : per esempio si può scegliere di far cadere i nostri oggetti di peso diverso nell’ aria , nell’ acqua e nell’ olio ; ci si accorge subito che cadono sì con velocità diverse , ma se aumentiamo la densità del mezzo ( non più l’ aria ma l’ olio , per esempio ) , ci si accorge che questa differenza di velocità di caduta aumenta : più il mezzo é denso e più la differenza tra le velocità di caduta di oggetti di peso diverso aumenta ; é ovvio : più c’ é attrito e più l’ oggetto leggero ci mette ad atterrare . Se con il più denso ( l’ olio ) la differenza di velocità é grandissima , se con l’ intermedio ( l’ acqua ) é minore e se infine con l’ aria é minima , posso estrapolare ( da una seguenza di dati che possiedo ne tiro fuori uno che non possiedo ) qualcosa . Se la differenza di velocità diminuisce col diminuire della densità , posso arrivare ( con dati verificati ) ad estrapolare un dato che non avrò mai sperimentalmente : la caduta di corpi di pesi diversi nel vuoto ( che ha densità zero ) . Emerge quindi una cosa fondamentale : Galileo si fonda in parte sulla esperienza , e molto di più su dati matematici , sul costruire mentalmente un mondo ( inesistente nella realtà ) in cui i dati dell’ esperienza risultano purificati . Esaminiamo ora la pars costruens , ossia in che modo Galileo , distrutte le tesi dell’ avversario , costruisce le sue : elabora un ‘ ipotesi in termini matematici , suggerita in qualche modo dall’ esperienza ma non derivante da essa : questo dimostra che nella costruzione della scienza l’ elemento creativo é assolutamente fondamentale ; quasi mai dalla pura e semplice raccolta di dati vengono fuori verità : esse emergono solo grazie all’ atto creativo , ossia la formulazione di una ipotesi . Posso osservare la natura finchè voglio , ma non mi verrà mai fuori da sola l’ ipotesi galileiana sulla caduta dei gravi ; dall’ osservazione della natura posso avere stimoli , ma devo dire ” proviamo ad immaginare che la legge sia questa ” : si deve inventare avvalendosi dei suggerimenti che la natura ci fornisce ; certo non avrebbe potuto inventare l’ ipotesi opposta : la velocità di caduta dei gravi dimuisce col tempo . Certo poteva anche inventare diversamente e dire che la velocità aumenta coll’ aumentare dello spazio percorso ( e peraltro lo fece , ma poi si corresse ) . Ritornando all’ ipotesi che la velocità dipende dal tempo di caduta : si formula un’ ipotesi , ma non é verificabile direttamente ( la velocità non é quasi mai verificabile direttamente ) ; dire che la velocità é proporzionale al tempo non é verificabile direttamente , ma lo é la sua conseguenza matematica ( il teorema : l’ affermazione derivata matematicamente dall’ ipotesi ) : l’ ipotesi é che la velocità sia proporzionale al tempo , il teorema é quello , matematicamente derivato dall’ ipotesi , che dice che gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi . Questo teorema é sì verificabile ; quindi Galileo valuta se questa teoria é verificata dall’ esperimento ( e non dall’ esperienza : devo infatti misurare le grandezze ) ; fa quindi il famoso esperimento del piano inclinato : doveva misurare i tempi per percorrere un certo spazio e gli spazi percorsi ; deve rendere misurabile e quindi fa avvenire la caduta non in verticale ( sarebbe difficilissimo misurarla ) ma su un piano inclinato artificialmente creato ( maggior lentezza ) ; questo piano inclinato su cui é stato tracciato un carretto su cui far scorrere una biglia di bronzo deve essere il più liscio possibile per ridurre l’ attrito ( eliminarlo é impossibile ; Galileo vuole renderlo trascurabile ) . Dopo di che misura con gli imprecisi strumenti ( non si scendeva sotto il secondo , che si misurava coi battiti cardiaci ) di allora il tempo e lo spazio : constata che il teorema ( non l’ ipotesi che la velocità é proporzionale al tempo ) dello spazio percorso proporzionale al quadrato dei tempi é vero : in un secondo la biglia avrà percorso una distanza x ; in due secondi una distanza x elevata a potenza , e così via . Galileo ritiene di poter dire che se il teorema é stato verificato , allora le premesse ( l’ ipotesi ) era vera ; se la conseguenza é vera , allora anche la premessa é vera , dice Galileo . Ma secondo i sillogismi aristotelici se la conseguenza é vera non é detto che anche la premessa sia vera ( le rane sono vegetali , i vegetali sono verdi quindi le rane sono verdi : la conseguenza é giusta , ma la premessa no ! ) . In effetti in logica é un grave errore credere che da conseguenza vera derivi premessa vera ; ma Galileo opera in ambito matematico : nelle espressioni algebriche , per esempio , guardando il risultato finale che spesso i libri danno si può capire se l’ espressione é stata svolta correttamente ; però si può arrivare al risultato anche con procedimenti sbagliati ( ed é la critica logica che si muove a Galileo ) : ma in matematica ( a differenza che in logica ) le probabilità di arrivare a un risultato giusto svolgendo scorrettamente sono bassissime ; e lo stesso vale per Galileo : avendo a che fare con quantità , é praticamente nulla la possibilità che si arrivi al giusto partendo dallo sbagliato . Dalla verifica del teorema che gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi impiegati posso quindi argomentare la veridicità dell’ ipotesi che la velocità é proporzionale al tempo .
IL METODO SPERIMENTALE
Riassumiamo il metodo sperimentale galileiano : preparato il terreno con una pars destruens , si parte dall’ esperienza attraverso la formulazione di un’ ipotesi ( formulata in termini matematici , di rapporti che legano dinamicamente due fenomeni : anche quando i fenomeni mutano il rapporto rimane costante ) , poi si passa alla verifica sperimentale ( si tolgono gli elementi di disturbo per poter effettivamente misurare in termini matematici ) , se possibile si dimostra subito l’ ipotesi , altrimenti si dimostra il teorema ( che é la conseguenza matematica dell’ ipotesi ) ; dalla verifica del teorema si considera dimostrata l’ ipotesi e quindi la legge . E se il teorema non fosse un dato verificato ? Dovremmo eliminare l’ ipotesi e cercarne un’ altra ? Ma Galileo fa un’ affermazione apparentemente sconcertante : ” sì e no ” ; l’ ipotesi sul piano fisico é evidentemente da scartare , non corrisponde a come funziona il mondo ; però per Galileo essa continuerebbe a rimanere valida sul piano matematico . Mettiamo il caso che l’ ipotesi di prima non sia stata correttamentre dimostrata ; dell’ ipotesi risultata indimostrata ( perchè indimostrato il teorema ) resterebbe vero che in un mondo ” uniformemente accelerato ” gli spazi percorsi saranno proporzionali al quadrato dei tempi .Una cosa é la realtà fisica , un’ altra é la realtà matematica . D’ altronde Galileo , grande ammiratore di Archimede , aveva studiato la sua legge dei moti spiraliformi : gli spazi successivi occupati da un corpo che si muove in modo spiraliforme . Galileo faceva giustamente notare che il fatto che in natura non esistano moti spiraliformi non toglie validità alle leggi di Archimede . E’ un pò la stessa questione del sistema tolemaico : fisicamente é senz’ altro sbagliato , ma matematicamente quadra perfettamente . Nell’ ammettere che le realtà matematiche corrette non debbano per forza essere corrette fisicamente , emerge ancora il platonismo di Galileo : Galileo attribuisce come aveva fatto Platone valore autonomo alla coerenza interna delle teorie , quasi come se il moto uniformemente accelerato esistesse in un’ altra realtà ( il mondo delle idee , avrebbe detto appunto Platone ) . La dimensione delle certe dimostrazioni in Galileo finisce per essere più importante rispetto a quella delle sensate esperienze . E’ interessante quello che Galileo ci dice sulla costruzione del telescopio in una lettera : anche qui finiscono per risultare più importanti le certe dimostrazioni ; non descrive affatto dei concreti tentativi come avrebbero potuto fare gli artigiani olandesi ; Galileo invece ci descrive un puro e semplice ragionamento su quali risultati si sarebbero potuti ottenere da una determinata combinazione di lenti concave e lenti convesse . Quello che descrive nella lettera é un puro e semplice calcolo mentale : anche su questo piano prevalgono le certe dimostrazioni . Poi , sempre riguardo alla questione del telescopio , quando guarda sulla Luna e vede cose di cui non può avere una verifica empirica , ecco allora che ritorna in gioco il concetto già trattato della estrapolazione ( da dati disponibili ricavarne uno che non si ha ) : infatti non appena Galileo arrivò a dichiarare pubblicamente ciò che aveva visto in cielo , la prima cosa che gli obiettarono fu : ” la lente ha deformato la realtà ; ciò che dici non é vero ! ” ; poi ci furono obiezioni più sottili , per esempio ci fu chi disse ” ciò che vedi é vero , ma può essere interpretato in modo diverso ” . Galileo per difendersi da coloro che dicevano che ciò che vedeva era falso , un errore della lente dovette appunto ricorrere all’ estrapolazione , che implica il ricorso all’ esperienza , ma fino ad arrivare ad un limite che si colloca oltre l’ esperienza stessa . Per usare l’ estrapolazione con il telescopio si deve prima osservare qualcosa verificabile concretamente : faccio osservazioni e poi le verifico andando ad esaminare l’ oggetto in questione di persona ; ciò che avevo visto col telescopio era effettivamente vero . Poi ripeterò l’ operazione con un oggetto più distante di quello esaminato prima e vedrò che effettivamente ciò che vedo col telescopio corrisponde alla realtà perchè posso verificare di persona ; aumenterò sempre più la distanza degli oggetti presi in esame . A questo punto posso fare un’ estrapolazione : se quello che osservo a 10 , 20 , 100 metri é vero quando poi vado a verificarlo concretamente , che cosa mi impedisce di credere che quello che vedrò alla distanza Terra – Luna non sia anch’ esso vero ? E’ lo stesso ragionamento della densità con l’ olio , l’ acqua e l’ aria .
L’ OSSERVAZIONE DEI PIANETI
Una volta costruito il telescopio , Galileo osservò come prima cosa la Luna ; in particolare vide l’ alba e il tramonto sulla Luna : osservò la metà chiara ( quando vediamo la ” mezzaluna ” ) e la metà scura e si accorse che laddove terminava la parte chiara c’ erano puntini scuri e laddove terminava la parte scura c’ erano puntini chiari : interpretò questa cosa in modo corretto , come l’ alba e il tramonto : quando sorge il Sole sulla Terra le prime cose illuminate sono le montagne ; quando ancora su tutto il resto regna il buio , sulle vette delle montagne arriva già il sole ; viceversa , quando tramonta il sole , prima arriva il buio sulle montagne e poi arriva anche su tutto il resto . Le chiazze scure nella parte chiara e le chiazze chiare nella parte scura della Luna erano quindi delle montagne : anche sulla Luna , quindi , ci sono le montagne come sulla Terra . Questa osservazione é estremamente importante perchè fa cadere definitivamente l’ idea di matrice aristotelica dell’ eterogeneità tra mondo sublunare ( il nostro , costituito dai 4 elementi : terra , acqua , aria , fuoco ) e mondo celeste ( quello al di sopra del nostro , costituito dall’ etere , un materiale incorruttibile ) : la Luna , per definizione , doveva essere perfettamente sferica , priva di irregolarità per poter imitare la perfezione divina . Invece quello che vedeva Galileo era che la Luna , come la Terra , era fatta di materiale irregolare ed imperfetto ; qualche anno prima anche Giordano Bruno , non per vie scientifiche , bensì per vie metafisiche , era arrivato allo stesso risultato . Poi Galileo osserva le fasi di Venere ; come la Luna , Venere presenta fasi : vedere le fasi di Venere equivale a vedere la verità del sistema copernicano perchè di fatto esse testimoniano che Venere gira intorno al Sole e non alla Terra . Se l’ osservazione della Luna fa cadere la diversità tra mondo terrestre e mondo sublunare , l’ osservazione delle fasi di Venere fa vedere che quella di Copernico non era un’ ipotesi matematica come quella di Tolomeo , ma una verità fisica . A partire da questo momento la Chiesa non può far altro che condannare la teoria copernicana , che pur da 50 anni era stata accettata . La terza osservazione che fa Galileo sono i satelliti di Giove : sono un altro indizio a favore del sistema copernicano perchè ciò che era stato contestato in qualche maniera a tale sistema é che esso introduceva in maniera assurda dal punto di vista aristotelico due centri di rotazione ( il Sole rispetto ai pianeti , la Terra rispetto alla Luna ) : se il mondo é finito come dice Aristotele ( e come tra l’ altro continua a credere anche Galileo , che peraltro é ancora convinto della circolarità dei moti ) , come fanno ad esserci due centri ? In un mondo finito ci dovrebbe essere un centro solo . Ma Galileo osserva che Giove é centro di rotazione dei suoi satelliti ; quindi oltre al Sole , almeno un altro centro di rotazione deve esserci . Quarta osservazione é quella della Via Lattea ( Galassia ) , la striscia bianca osservabile in cielo : puntando il telescopio vede che in realtà si tratta di stelle e ne deduce che le stelle non possono essere tutte alla stessa distanza , fissate sul cielo delle stelle fisse ( come diceva Aristotele ) , ma che sono disposte in profondità le une rispetto alle altre : anche qui Giordano Bruno c’ era già arrivato in maniera metafisica . Per alcuni versi Galileo però rimane arretrato come modo di pensare : pur avendo ammesso che i centri di rotazione sono più d’ uno egli continua a sostenere la finitezza dell’ universo ( a differenza di Bruno che dall’ idea di 2 centri di rotazione non aveva esitato a concludere che il mondo fosse infinito ) ; continua inoltre , rimanendo fedele ad Aristotele , a sostenere che le orbite dei pianeti sono circolari , e non ellittiche ( come aveva detto Keplero ) o ovali ( come aveva detto Brahe ) . Poi Galileo osservò anche le macchie solari , spesso interpretate come fenomeni che avvenivano non sul Sole , ma dati dalla combinazione di effetti dell’ atmosfera terrestre . Lui osserva che anche lì avvengono delle cose , come aveva fatto con la Luna .
SCIENZA E SCRITTURA
Esaminiamo ora il rapporto tra la Sacra Scrittura e la scienza ; dobbiamo innanzitutto dire che Galileo era e si sentiva un buon cristiano e il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa fu ben diverso rispetto a quello di Giordano Bruno . Egli , a differenza del Nolano , é convinto della verità della Chiesa e non deve assolutamente ” sconfessare ” . Fu a partire dal novembre 1612 che la teoria copernicana venne proclamata eresia e anche le posizioni di Galileo vennero attaccate : sostenere l’ eliocentrismo significava indubbiamente mettere in discussione la veridicità delle Scritture ; c’ é infatti un passo nella Bibbia in cui Giosuè ordina al Sole di fermarsi ; se il Sole deve fermarsi é ovvio che é concepito in movimento ed é però altrettanto ovvio che questo é in contrasto con la teoria copernicana che lo vuole fermo al centro dell’ universo . Galileo dovette così intraprendere la difesa delle sue teorie e lo fece in alcune lettere in cui affrontava la questione del rapporto scienza – Scrittura . Le sue sono e rimangono comunque posizioni ortodosse , di rispetto per la Chiesa . Galileo deve riuscire a fondare l’ autonomia della ricerca scientifica , sciogliendola dal vincolo delle Scritture : il pensiero di Galileo é pervaso dalla convinzione che scienza e Scrittura abbiano un’ unica fonte . Già Agostino , uno dei padri della Chiesa , sosteneva che il Logos fosse l’ origine sia della ragione , sia della rivelazione e anche della creazione ; riprendendo in parte queste idee di fondo Galileo arriva a dire che scienza e Scrittura hanno un’ unica origine , quella divina . In altre parole , ciò che l’ uomo scopre nella natura non può essere in contrasto con la rivelazione : il libro della Scrittura e quello della natura finiscono per essere la stessa cosa , quasi come se Dio volesse comunicare con l’ uomo tramite la rivelazione e in più tramite tutto ciò che ci circonda : é come se Dio si fosse rivelato a noi parallelamente con questi due libri , quello della Scrittura e quello della natura . Tuttavia risulta stridente la contraddizione tra natura e Scrittura nel caso della teoria copernicana , da Galileo sostenuta e dimostrata autentica : la Scrittura mi dice che il Sole ruota intorno alla Terra , la natura mi dice invece che é la Terra a girare intorno a lui . Galileo cerca di risolvere il problema sottolineando come gli obiettivi del libro della Scrittura e quelli del libro della natura siano diversi . Il libro della natura ci insegna come é fatto il mondo , il libro della rivelazione ( la religione ) ci mostra invece come comportarci per ottenere la salvezza dell’ anima : il libro della natura é latore di un messaggio teoretico , quello della Scrittura di un messaggio etico – religioso . Non a caso Galileo ripeteva sempre : ” la Scrittura non ci insegna come vada il Cielo , ma come si vada in Cielo ” . Essendo diversi gli obiettivi , spiega Galileo , é evidente che la Bibbia per perseguire il suo abbia dovuto adattarsi alla mentalità delle persone dell’ epoca per rivelare l’ onnipotenza divina : se a quei tempi si pensava che il Sole girasse intorno alla Terra , per mostrare l’ onnipotenza di Dio bisognava dire che egli era in grado di fermare il Sole . Non ha un valore teoretico quest’ asserzione , ma solo etico : non mi dice come é il mondo , vuole solo dimostrare come Dio possa tutto . D’ altronde nella Bibbia ci sono altre espressioni che fanno ben intendere come le finalità siano quelle di mostrare la potenza di Dio e non di spiegare come effettivamente sia il mondo ; la figura stessa di Dio nella Scrittura é antropomorfica : si parla dell’ occhio di Dio , della mano di Dio : non mi si vuol dire che Dio ha gli occhi o le mani ! La Scrittura arriva perfino a dire che Dio si pente : un pentimento presume un errore , ma é impossibile che Dio commetta errori . Quello della Bibbia , per Galileo , é un messaggio che non va preso alla lettera . Anche il non prendere alla lettera la Bibbia é comunque ortodosso e non va contro la Chiesa : la Bibbia , é risaputo , può essere letta con significati diversi e con diverse interpretazioni , lo faceva notare già Origene . Quindi quando si dice che Dio fa fermare a Giosuè il Sole , si vuole solamente sottolineare l’ onnipotenza divina e non la struttura architettonica dell’ universo . E’ Dio che si é adattato al linguaggio degli uomini di allora ( che non sapevano che il Sole non girasse intorno alla Terra ) per farsi capire . Va senz’ altro ricordato che Galileo scrisse le lettere in cui difendeva le sue teorie avvalendosi dell’ aiuto di alcuni teologi cristiani , rappresentanti delle fasce più moderne del Cattolicesimo ; sfruttò i loro suggerimenti per sostenere le sue posizioni contro la Chiesa più retrograda . Del rapporto di Galileo con la Scrittura ce ne parla lui stesso : ” Se bene la Scrittura non può errare , potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori in vario modo : tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo , quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole , perché così vi apparirebbero non solo diverse contraddizioni , ma gravi eresie e bestemmie ancora ; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e mani e piedi e occhi , e non meno effetti corporali e umani , come d’ ira , di pentimento , d’ odio , e anco talvolta l’ obblivione delle cose passate e l’ ignoranza delle future … Stante , dunque , che la Scrittura in molti luoghi é non solamente capace , ma necessariamente bisognosa d’ esposizioni diverse dall’ apparente significato delle parole , mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ ultimo luogo ” . Sembra quindi che Galileo si sia difeso correttamente e abbia dimostrato di non essere un eretico , ma ciononostante la Chiesa continuò ad essergli ostile . Come mai ? Dobbiamo ricordarci che siamo nel pieno della Controriforma : dopo l’ affermarsi del Protestantesimo e del Calvinismo in seguito , la Chiesa rispose alla Riforma luterana con una Controriforma dove si chiudeva ancora di più nelle sue posizioni . Ebbene , alla Chiesa cattolica non andava giù che Galileo si intromettesse in questioni religiose , vedeva in lui una specie di Protestante , che applicava la teoria propugnata da Lutero del libero esame : la figura del prete che legge le Scritture é inutile ; ognuno é libero di esaminarle e di interpretarle da sé ( e questo contribuì moltissimo all’ alfebitizzazione dei paesi protestanti a discapito di quelli cattolici ) . Per quel che concerne invece il rapporto di Galileo con l’ altro testo all’ epoca ritenuto inconfutabile , ossia il testo di Aristotele , va detto che qui le cose cambiano notevolmente : se in Galileo non c’é rifiuto per la Scrittura , c’ é però rifiuto per l’ autorità dei testi aristotelici . Si tratta di un rifiuto all’ autorità di Aristotele , non ad Aristotele ; un rifiuto rivolto soprattutto agli aristotelici del 1600 , che vivono in un mondo ” di carta ” e che antepongono all’ esperienza l’ autorità di Aristotele .
IL LIBRO DELLA NATURA
Spesso si dice che Galileo si contrappone agli aristotelici della sua epoca perchè mentre loro leggono il libro di carta , lui legge il libro della natura , scritto in caratteri matematici : ” io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi ; ma perchè é scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto , non può esser da tutti letto : e sono i caratteri di tal libro triangoli , quadrati , cerchi , sfere , coni , piramidi ed altre figure matematiche , attissime per tal lettura ” . Per poter interpretare questo libro e leggerlo , come per qualsiasi altro libro , bisogna imparare l’ alfabeto . L’ alfabeto in cui questo particolare libro é scritto é l’ alfabeto matematico ; se prima di leggere questo libro fisico che é la natura bisogna conoscere l’ alfabeto della matematica , allora per Galileo prima di studiare la fisica bisogna studiare la matematica . E’ un’ ottima rappresentazione del rapporto che Galileo ha instaurato tra matematica e fisica , rapporto che é sostanzialmente quello in vigore ai giorni nostri . Ma quest’ affermazione del libro della natura risulta ambigua perchè può significare due cose ; Galileo riprende essenzialmente idee platonico – pitagoriche ; l’ idea che il libro della natura sia scritto in caratteri matematici era ben presente nel Timeo di Platone : c’ erano i 4 elementi fondamentali ( terra , acqua , aria e fuoco ) apparentemente si distinguono in termini qualitativi , ma in realtà nella loro radice profonda si distinguono in termini quantitativi : ciò che distingue un elemento da un altro é la forma geometrica delle particelle di quell’ elemento . La forma del fuoco era piramidale : il fuoco brucia apparentemente per caratteri qualitativi , ma in realtà per caratteri quantitativi : la fiamma é fatta a forma di piramide spigolosa e proprio perchè spigolosa ci dà l’ impressione di bruciare . La novità di Platone rispetto ad Empedocle che aveva elaborato questo sistema dei 4 elementi e ad Aristotele che verrà dopo , é che per lui queste manifestazioni qualitative sono apparenti , esteriori , ossia nascondono le manifestazioni più profonde , quelle quantitative . Il fuoco é diverso dalla terra perchè ha forma geometrica diversa : l’ uno é piramidale , l’ altra cubica , dice Platone . Da un certo punto di vista Platone aveva preso quest’ idea da Democrito , che aveva detto che ci sono qualità che esistono ” fusei ” ( per natura ) e ” nomo ” ( per convenzione ) ; la forma e la dimensione degli atomi per lui sono quantitative e oggettive ( ” fusei ” ) , ossia esistono di per sé ; quelle che invece chiamiamo qualità ( sapore , odore , colore ) per lui sono l’ effetto qualitativo sui nostri organi di senso di queste quantità : esistono solo per convenzione , come effetto soggettivo sui nostri organi di senso . Ora la posizione di Democrito , quella di Platone e quella di Galileo sembrano uguali ; pare che tutti e tre vogliano dire che ciò che esiste per davvero nella realtà sono le forme geometriche . Però in Galileo non é chiarissimo ( probabilmente perchè non era neanche chiarissimo nella sua testa , visto che esulava un pò dai suoi interessi ) se é convinto che nella realtà esistano solo gli aspetti quantitativi e che gli aspetti qualitativi siano solo la manifestazione esteriore e coglibile soggettivamente di queste quantità , oppure se é convinto che le caratteristiche quantitative sono le uniche analizzabili in termini matematici ( e quindi rigorosi ) e sono quindi le uniche cose da prendere in considerazione . Sono due affermazioni diversissime : posso limitarmi a dire che nel mondo esistono alcune caratteristiche quantitative e altre qualitative ; le uniche studiabili in termini matematici saranno ovviamente quelle quantitative . Siccome solo la matematica consente di dare interpretazioni rigorose della realtà ( leggi fisiche ) e solo le cose quantitative possono essere oggetto d’ esame della matematica , studierò solo le cose quantitative . Gli altri aspetti della realtà non mi interessano , non li tengo in conto perchè tanto non sono oggetto di misurazioni rigorose . Spesso Galileo sembra dire semplicemente questo , senza avvicinarsi così alle tesi di Platone e Democrito , senza cioè sostenere che esistano solo le quantità e che le qualità siano solo un’ apparenza superficiale . E’ ben diverso dal dire che la realtà é fatta solo di aspetti quantitativi . Nel caso esistessero , comunque , le caratteristiche qualitative Galileo le escluderebbe senz’ altro dal suo ambito di indagine . Quando per esempio studia la gravità , dice ( ammettendo quindi che esistano le cose qualitative ) di non porsi il problema di sapere cosa sia la gravità ; sarebbe un’ indagine qualitativa della realtà la ricerca dell’ essenza della gravità ; Aristotele aveva proprio agito così , in termini qualitativi : lui non si é mai posto il problema di trovare in termini quantitativi la legge matematica in base alla quale le cose cadono , bensì si chiedeva cosa fosse la gravità : e rispondeva dicendo che essa non é altro che la tendenza naturale dei corpi a raggiungere il loro luogo naturale . Egli esamina la realtà ma non formula leggi scientifiche . Galileo fa l’ opposto : non si occupa di che cosa sia la gravità ( dice di non voler ” tentare l’ essenza ” , trovare l’ essenza ) , ma come si comporta , la sua legge di comportamento . La differenza di atteggiamento tra Galileo e Aristotele viene generalmente sottolineata dicendo che Galileo non si chiede nè il cosa nè il perchè , ma il come ; Aristotele invece si chiedeva proprio questo : che cosa é e perchè si comporta così ? Ed in fondo queste due domande finivano per essere la stessa cosa : nella teoria delle quattro cause infatti Aristotele si chiedeva per 4 volte perchè ; ma 2 di questi perchè finivano per essere ” che cosa ? ” ; quando si chiedeva la causa materiale ( ” di cosa é fatto ? ” ) e quella formale ( ” che forma ha ? ” ) , si chiedeva contemporaneamente cosa e perchè . Galileo invece vuole sapere il come ; apparentemente é una ricerca più superficiale di quella aristotelica , ma non é così : si cerca di scoprire la legge matematica del comportamento . Per lui non é importante sapere che cosa sia il peso , ma sapere che i corpi pesanti si muovono secondo una determinata legge matematica . E da Galileo in poi le leggi fisiche non dicono il che cosa e il perchè , ma il come : nelle leggi dei gas non mi si dice che cosa é un gas e perchè agisce così , ma solo come si comporta : a temperatura costante volume e pressione sono inversamente proporzionali ( per esempio ) : al comportamento di una grandezza corrisponde quello di un’ altra : c’ é solo il come . Altre volte però Galileo sembra abbracciare tesi meccanicistiche ; il meccanicismo é il vedere il mondo come puramente quantitativo . Le caratteristiche oggettive saranno in futuro dette primarie ; le soggettive secondarie . Per sostenere la tesi che esistano solo caratteristiche quantitative Galileo usa l’ esempio del solletico : se si fa solletico con una piuma , nessuno penserebbe che il solletico potrebbe esistere fuori dal corpo che prova il solletico ; é evidente che la piuma dà il solletico ; la piuma lo dà e chi lo subisce lo sente : non é una caratteristica della piuma , bensì del corpo che subisce ! E le qualità per Galileo sono la stessa cosa : sono quantità che in noi generano sensazioni qualitative . In realtà si é fatto notare che quando fa quell’ esempio dice ” vo pensando che ” : mentre é certo che sul piano metodologico bisogna tenere in considerazione solo le caratteristiche quantitative , sul piano metafisico gli viene un sospetto dettato dal fatto che mentre non riesco ad immaginare che le caratteristiche quantitative esistano senza le cose cui si riferiscono , invece le qualità sì : riesco ad immaginare il giallo senza immaginare ciò cui si riferisce , un’ illusione . E’ solo un sospetto che tutto sia in termini quantitativi ; è un sospetto che però non riesce a dimostrare del tutto . E’ certo che vadano studiate solo le caratteristiche quantitative , ma gli viene il sospetto dal solletico , dal fatto che certe caratteristiche si possono separare dall’ oggetto , che effettivamente il mondo sia fatto di caratteri matematici . Si era accorto di un possibile controsenso tra due affermazioni che lui fa : una volta detto che non ” tenta le essenze ” diventa contradditorio fare affermazioni metafisiche : se voglio esaminare solo il come , mi contraddico se esamino come sia fatta la realtà : solo in termini quantitativi ? O anche in termini qualitativi ? Quello che in Galileo é solo un’ osservazione metodologica e un sospetto metafisico , diventa un’ affermazione definitiva metafisica in Cartesio , Hobbes e così via ; l’ immagine del mondo nel 1600 sarà essenzialmente meccanicistica . C’ é una grossa differenza : per Galileo il meccanicismo é un metodo di indagine , un meccanismo metodologico , il come approcciare con la realtà . Non é del tutto lecito il passaggio da meccanicismo metodologico a meccanicismo metafisico – ontologico : non c’ é un passaggio logico che porti a dire che il metodo corretto di indagare la realtà sia l’ uso delle caratteristiche quantitative e che quindi esse sono le uniche che esistano . Sarebbe vero il contrario : se sapessi che la realtà é fatta in termini puramente matematici , allora potrei dire che l’ unica materia per studiarla é la matematica : i platonici e i pitagorici la pensavano così . Per dirla in una frase sola , dalla scienza galileiana é derivata una metafisica meccanicistica .
IL PRINCIPIO DI INERZIA
Galileo intuì il principio di inerzia , che sarà poi formulato adeguatamente da Cartesio . Il principio di inerzia mi dice che se conferisco movimento ad un corpo , esso tende a tenere quel moto all’infinito : questo significa che sia quiete sia moto sono stati : se un oggetto si muove quindi ciò che va spiegato è perchè si fermi : dovrebbe per il principio di inerzia proseguire in quel moto all’infinito . Bisogna quindi spiegare il mutamento di stato (da moto passa ad inerzia) . Per Aristotele invece non va spiegata la quiete ma il movimento , che è una forma di cambiamento : è un passaggio da potenza ad atto : la penna è qui ma potrebbe essere lì ; la sposto ed ecco che è lì . Il mutamento-movimento per Aristotele richiede una causa , é un passaggio da potenza ad atto : la penna che sta qui in potenza potrebbe essere lì ; ce la porto e da lì in potenza diventa lì in atto . Per noi va invece spiegata l’accelerazione , il cambiamento di velocità . Il lancio della penna mi spiega che acquista un movimento teoricamente infinito ; per Aristotele è normalissimo che la penna dopo un pò cada ( per lui é anormale che per un pò salga ! ) : essa tende al suo luogo naturale : quello che per lui va spiegato è perchè per un pò essa tenda a salire . Per Aristotele la quiete è uno stato , il movimento un mutamento (ed i mutamenti vanno spiegati) . Per noi sono entrambe stati . Anche qui abbiamo una prova in favore di quanto Aristotele fosse osservatore della realtà ( più di Galileo stesso ) : infatti la realtà a riguardo della penna sembra proprio dare ragione a lui e non a noi . Ritornando a Galileo , egli , come noi , sostiene che quiete e moto siano due stati . Per Aristotele il movimento era uno dei tanti mutamenti e in quanto tale andava spiegato ; la quiete invece era anche per lui uno stato e in quanto tale riteneva che non andasse spiegato : é lo stato naturale delle cose ai suoi occhi . Noi oggi sappiamo ( come Galileo aveva già intuito ) che quando lanciamo per aria una penna , la poniamo in un nuovo stato ( il movimento ) ; il cambiamento non sta nel movimento , ma nell’ accelerazione . Potremmo considerare la quiete , in altre parole , come un movimento particolare ( movimento zero , per esempio ) . La penna ferma per Aristotele é in uno stato , ma lanciandola c’ é un cambiamento , giustificato dalla spinta che si imprime alla penna : per lui é l’ aria che trascina per un pò in aria la penna ; esauritasi la ” forza ” dell’ aria essa torna a cadere al suo luogo naturale . Da Galileo in poi viene considerato stato qualsiasi moto rettilineo uniforme ; la quiete é appunto un caso di moto rettilineo uniforme con velocità zero . La penna é ferma : é nello stato di quiete . Certo che con la mano imprimo un mutamento , ma esso si identifica non con il movimento , bensì con l’ accelerazione , ossia il mutamento di velocità : quello di cui la mano che lancia é causa non é il movimento , ma il passaggio da uno stato ( di moto rettilineo con velocità zero ) ad un altro stato ( il moto rettilineo uniforme ); questo nuovo stato secondo il principio di inerzia é destinato ad andare avanti in eterno , finchè qualcosa non intervenga a modificarlo . Per Aristotele era difficile spiegare come la penna per un pò potesse salire in aria invece di correre subito al luogo naturale ; per noi invece ciò che é difficile spiegare é perchè dopo un pò essa cada invece di proseguire eternamente nel suo moto , in altre parole perchè dopo un pò lo stato di moto rettilineo uniforme viene modificato in senso opposto dalla forza di gravità . Questo principio di inerzia formulato in modo embrionale da Galileo servirà poi a Newton per spiegare come i pianeti possano stare su da soli se le orbite non sono materiali come le concepiva Aristotele , bensì sono traiettorie ideali come le concepiva Brahe : questo era un problema delicato e difficile e certo l’ interpretazione di Keplero secondo la quale il Sole ha un’ anima che attrae a sè i pianeti come il magnete attrae il ferro non poteva convincere più di tanto . A risolvere la questione una volta per tutte sarà appunto Newton , che opererà anche lui come Galileo nel 1600 : mettendo insieme le scoperte di Galileo ( il principio di inerzia e la gravità , che però Galileo pensava fosse valida solo sulla Terra e non universalmente ) , Newton arriverà a dire che i pianeti stanno su e girano intorno al Sole perchè sparati a velocità talmente grande da non riuscir più ad atterrare , vincendo così la forza di gravità che tenderebbe a farli schiantare al suolo : in altre parole , il Sole attira i pianeti come il centro della Terra attira la penna ( forza di gravità ) ; invece di schiantarsi sul Sole che lo attira ( come fa la penna attirata dal centro della Terra ) il pianeta gira intorno grazie al principio di inerzia ( moto uniformemente accelerato ) e non si allontana , ma gira intorno al Sole perchè sente comunque la forza di gravità che esso esercita . Newton combinando principio di inerzia e forza di gravità spiegherà quindi come i pianeti stanno su senza ricorrere ad orbite materiali . Ma come arrivò Galileo a formulare il principio di inerzia ? Vi arrivò sempre lavorando sul piano inclinato : osservò che mettendo sul famoso canaletto una biglia di bronzo lanciata ad una certa velocità , se lanciata in salita andrà progressivamente diminuendo di velocità ; viceversa , lanciata alla stessa velocità in discesa avrà un progressivo aumento di velocità . Chiaramente si accorse di come la accelerazione ( se mandata in discesa ) e la decelerazione ( se mandata in salita ) fossero tanto maggiori o minori a seconda dell’ inclinazione del piano . Con il classico processo di estrapolazione ( ricavare un dato sconosciuto tramite dati conosciuti ) arrivò ad ipotizzare che in assenza assoluta di declinazione o inclinazione del piano ( ossia in assenza di un fattore di disturbo che intervenga ) la biglia dovrebbe proseguire all’ infinito nel moto in cui la si mette . E’ un esperimento mentale e non verificabile concretamente in primis perchè ci vorrebbe un piano infinito per dire che la biglia prosegue in quel moto all’ infinito ; e poi occorrerebbe un piano con attrito zero . Immaginando però un piano infinito e con attrito zero , allora si può capire come la biglia proseguirebbe all’ infinito a rotolare .
LA RELATIVITA’ CLASSICA
Con un esperimento mentale simile a quello con cui argomentò in favore del principio di inerzia , Galileo dimostrò anche il principio della relatività classica secondo la quale i movimenti vanno sempre analizzati relativamente al sistema di cui fanno parte . Si serve di un esperimento mentale non tanto perchè nella realtà sarebbe impossibile materialmente dimostrare ciò che dice ( come era per il principio di inerzia dove gli sarebbe occorso un piano infinito ) , quanto piuttosto perchè nella realtà le cose non andrebbero esattamente come lui dice . L’ esperimento mentale di cui si avvale é famoso in tutto il mondo : si tratta dell’ esperimento del ” gran navilio ” come lo definisce lui , ossia della grande barca ; oltre ad essere interessantissimo sul piano scentifico – filosofico , é anche importante sul piano letterario : Galileo é infatti il fondatore di un genere letterario , chiamato ” prosa scientifica ” : esprime argomenti scientifici con un periodare armonioso e leggiadro , di fronte al quale il lettore non può non entusiasmarsi , soprattutto se accosta il genere galileiano a quello degli altri scrittori del 1600 , che tendevano ad adottare un fraseggio pesante e ridondante . Il passo , estratto dal ” Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , tolemaico e copernicano ” , é il seguente : ” Riserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio , e quivi fate d’ aver mosche , farfalle e simili animaletti volanti ; siavi anco un gran vaso d’ acqua , e dentrovi de’ pescetti ; sospendasi anco in alto qualche secchiello , che a goccia a goccia vadia versando dell’ acqua in un altro vaso di angusta bocca , che sia posto a basso : e stando ferma la nave , osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza ; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi ; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto ; e voi , gettando all’ amico alcuna cosa , non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa , quando le lontananze sieno eguali ; e saltando voi , come si dice , a piè giunti , eguali spazii passerete verso tutte le parti . Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose , benchè niun dubbio ci sia che mentre il vasello sta fermo non debbano succeder così , fate muover la nave con quanta si voglia velocità ; ché ( pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là ) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti , nè da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma … ” . Se siamo sotto coperta ( ossia se non vediamo fuori ) e facciamo degli esperimenti dei movimenti che la nave sia ferma o che si muova noi non ce ne accorgiamo ( purchè il movimento sia rettilineo uniforme ) ; in realtà poi non é esattamente così e Galileo lo sapeva benissimo altrimenti al posto di un esperimento mentale avrebbe lavorato concretamente in una nave materiale . Non é che quando la nave é in moto i pesci contenuti nella boccia rimangano schiacciati contro la parete ; le mosche , allo stesso modo , non rimarrano spiaccicate sul fondo e le gocce che fuoriescono dal recipiente non sobbalzeranno fuori in modo anomalo ; se ci sono due persone che si lanciano un oggetto ( una palla , per esempio ) , non é che quello più sul fondo faccia più fatica a lanciare la palla ! Sia che il sistema ( la nave , in questo caso ) sia fermo , sia che si muova chi é presente in esso non può accorgersi di ciò che capita al di fuori del sistema , non si può accorgere del movimento assoluto rispetto all’ esterno : i moti é come se rientrassero tutti nel sistema in riferimento . Questa dimostrazione é di fondamentale importanza : il sistema copernicano , infatti , era criticato dalla Scrittura ( e Galileo mostra come in realtà il contrasto sia solo apparente ) , dall’ autorità di Aristotele ( e Galileo rifiutava questa autorità ) e soprattutto dal senso comune : se la Terra girasse intorno al Sole , dicevano gli avversari di Copernico e di Galileo , noi dovremmo per forza accorgercene . Dovremmo , per esempio , sentire l’ aria in faccia come quando si va a cavallo . E’ molto più vicino al senso comune dire che la Terra sia ferma che non che si muova : a tutti , infatti , pare ferma . Galileo si difende da questa obiezione mossagli tramite l’ esempio del ” gran navilio ” : la Terra , come il ” navilio ” , va considerata come sistema chiuso ; noi che vi abitiamo siamo chiusi dall’ atmosfera terrestre e percepiamo le cose come le si percepiscono in un sistema chiuso ( come se fossimo sotto coperta in una nave ) . Così come le mosche nella cabina della nave non rimangono spiaccicate sul fondo nè tantomeno si accorgono che la nave é in movimento , così ( per esempio ) gli uccelli sulla Terra non si accorgono che essa gira e possono volare senza essere tirati indietro dal girare del nostro pianeta . Per dimostrare la teoria della relatività classica , Galileo si avvale anche di un altro esperimento mentale e ” geometrico ” , quello della pietra lanciata dalla cima di una torre : secondo il modo comune di pensare ( quello aristotelico ) , se fosse vera la dottrina copernicana ( che la Terra gira e il Sole sta fermo ) , se dalla torre lasciamo cadere la pietra , quest’ ultima dovrebbe cadere un pochino più indietro rispetto alla torre perchè nel momento in cui la pietra non sta più in mano a me che sono sulla torre la quale poggia sulla Terra ( che é in movimento ! ) , allora essa improvvisamente non avrebbe più motivo di seguire me che sono sulla torre che é mossa dalla Terra che si muove : mentre io , la torre e la Terra giriamo la pietra dovrebbe rimanere al di fuori dalla questione perchè non a contatto con la Terra che gira e dovrebbe cadere al suolo , ma mentre cade , la torre , la Terra e io che sono sopra ci spostiamo e quindi la pietra risulterebbe cadere più indietro rispetto alla torre : in altre parole la Terra e tutto ciò che le sta sopra gira e va avanti ; la pietra no perchè sospesa in aria non é a contatto con l’ intero sistema . Tutto questo perchè nella tradizione aristotelica non ci sono il principio di inerzia e quello della relatività classica , che mi dice un’ altra cosa : la pietra che si sta muovendo con me , che mi sto muovendo con la torre , che si sta muovendo con la Terra , avrà la stessa velocità di rotazione dell’ intero sistema : sarà sì attratta verso il centro della Terra , ma avrà lo stesso movimento mio , della torre e della Terra : la pietra ci segue in ” orizzontale ” e secondo questo ragionamento dovrebbe cadere alla base della torre e non più indietro . In realtà però la pietra non solo non cade indietro , ma cade leggermente avanti rispetto alla torre perchè in base al principio di inerzia quando lascio cadere la pietra , essa dovrebbe cadere alla base , però dobbiamo tenere in considerazione la cosiddetta velocità angolare . La velocità lineare di oggetti che hanno medesima velocità angolare muta a seconda della distanza di questi oggetti dal centro . Per cui la velocità lineare non é identica tra la base della torre e l’ altezza : l’ arco di circonferenza spazzato tra le basi é minore rispetto a quello spazzato dalle cime delle due torri ( la seconda torre rappresenta la prima che si é spostata con il girare della Terra ) . La velocità lineare mia ( che sono in cima alla torre ) e della pietra ( che é in mano mia ) é un pò maggiore rispetto a quella della base della torre perchè siamo più lontani dal centro della Terra ( il centro di rotazione ) ; in una situazione ideale , lasciando cadere la pietra che ha velocità lievemente maggiore rispetto alla base della torre , allora la pietra ( che secondo il principio di inerzia dovrebbe continuare indefinitamente in questo percorso ) , compie una parabola e cade un pò più avanti perchè si é mossa più velocemente rispetto alla base della torre in quanto più distante dal centro della Terra .
FRANCESCO BACONE
LA VITA , LE OPERE E LE INNOVAZIONI
Sulla figura di Francis Bacon ( italianizzato in Francesco Bacone ) son corse le più disparate voci : si volle che fosse figlio naturale della regina Elisabetta e che fosse il segreto autore delle opere attribuite a Shakespeare . Egli nasce a Londra il 22 gennaio 1561 dal lord guardasigilli della regina Elisabetta . Studia a Cambridge , per poi trascorrere alcuni anni a Parigi al seguito dell’ ambasciatore di Francia . Tornato in patria riesce a intraprendere la carriera politica , conseguendo incarichi e onori sempre più elevati , grazie anche alla sua totale spregiudicatezza , che gli consentì , per esempio , di diventare accusatore pubblico del suo protettore , incriminato e mandato a morte per tradimento . Divenne avvocato generale nel 1607 , procuratore generale nel 1613 , lord guardasigilli nel 1617 e , infine , lord cancelliere nel 1618 , funzione che gli consentiva di presiedere le principali corti di giustizia . Ma nel 1621 la fortuna gli voltò le spalle : accusato di aver ricevuto denaro da una delle parti che doveva giudicare , dovette riconoscersi colpevole di corruzione , fu sospeso dalle funzioni e condannato , a discrezione del re , a un’ ammenda e al carcere . Grazie al favore di cui ancora godeva presso la corona , riuscì ad aver condonate entrambe le pene , ma dovette ritirarsi a vita privata , finchè lo sorprese la morte nel 1626 . Tra le prime opere importanti di Bacone vanno ricordati i Saggi ( 1597 ) e il Temporis partus masculus ( 1602 ) , nel quale rivelò un atteggiamento culturale che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita : la critica alla tradizione filosofica antica ( con l’ esclusione di Democrito ) e medioevale , e l’ appello sulla costruzione di un nuovo sapere scientifico . Altre sue opere non trascurabili sono : Sull’ utilità e il progresso del sapere umano e divino ( in lingua inglese , 1605 ) , i Cogitata et visa ( 1607 ) , la Redargutio philosophiarum ( 1608 ) , il De sapientia veterum ( 1609 ) . Nel 1620 egli pubblica la sua opera più nota , il Novum Organum , che già nel titolo rivela la volontà di essere una nuova logica che si oppone al vecchio Organum di Aristotele . L’ opera é redatta in forma di aforismi , che dovevano preludere forse a un ampliamento successivo . Infatti , il Novum Organum si presenta come la seconda parte di una vasta opera , intitolata significativamente Instauratio magna scientiarum , che sarebbe dovuta essere divisa in sei parti . Di essa Bacone pubblica tuttavia soltanto , oltre al Novum Organum , la parte preliminare ( la prefazione e il piano dell’ opera ) e , nel 1623 , la prima parte , costituita dalla traduzione latina ampliata dello scritto sull’ utilità e il progresso del sapere del 1605 : De dignitate et augmentis scientiarum . Agli ultimi anni della sua vita appartiene anche La nuova Atlantide , che si inserisce nel filone utopico già intrapreso da Tommaso Moro e da Campanella . Nel quadro della rivoluzione scientifica che si svolge tra 1500 e 1600 si può anche inserire la figura di Francis Bacon , italianizzato in Francesco Bacone . Bisogna tuttavia precisare che questa riconduzione non é giustificata dalla scoperta di un metodo nel quale ( come nel caso di Galileo ) si ritrovino i principi delle moderne procedure scientifiche . Il metodo baconiano , se condivide con quello galileiano l’ esigenza di una sapiente combinazione di esperienza e ragionamento , é totalmente privo di quel legame con la matematica e con l’ analisi quantitativa dei fenomeni che costituisce una delle condizioni imprescindibili della scienza moderna . Sotto questo aspetto , anzi , Bacone é ancora ampiamente legato all’ analisi formale e qualitativa dei fenomeni , cioè a una procedura d’ indagine che rappresenta uno dei maggiori portati di quella tradizione aristotelico – scolastica che egli peraltro combatte con tutte le sue forze . La contiguità di Bacone con la nuova temperie culturale e scientifica determinatasi in quegli anni é piuttosto rappresentata dalla sua consapevolezza , assai moderna , del valore e della possibilità della scienza . Di una scienza , inoltre , che non é più intesa in chiave puramente teoretico – conoscitiva , ma é proiettata sull’ attività pratica e trova nella tecnica il suo naturale complemento . Per alcuni versi , quindi , Bacone ha le istanze della rivoluzione scientifica , per altri egli é da essa lontanissimo : é vicino alla rivoluzione nel momento in cui sente l’ esigenza di trovare un metodo di indagine azzerando il pensiero tradizionale : se la ricerca , a partire dai Presocratici , non ha funzionato , allora é per via della sua stessa impostazione : bisogna mettersi a monte della ricerca stessa , come peraltro fa lo stesso Galilei . Il ” discorso sul metodo ” ( per dirla alla Cartesio ) di Bacone é indubbiamente il Novum Organum . Bacone risulta essere ancora più legato alla rivoluzione scientifica per quel che riguarda il carattere operativo della scienza : la scienza é legata alla tecnica e la tecnica é legata alla scienza nel senso che un maggiore sviluppo tecnologico permette alla scienza di conseguire risultati più apprezzabili , ma un maggiore sviluppo scientifico consente la creazione di strumenti sempre più precisi ; la conoscenza per Bacone vale nella misura in cui consente all’ uomo di operare sulla natura per migliorare le condizioni di vita dell’ uomo stesso . Viene così a cadere la concezione del sapere per il sapere , ossia del sapere come valore autonomo , del sapere che non serve a nulla e proprio perchè privo del legame di servitù é il più nobile dei saperi , come sosteneva Aristotele : per Bacone non é così : un sapere inutile va scartato perchè non serve per il legame che Bacone sostiene tra benessere dell’ umanità e scienza . Molti studiosi hanno sostenuto di poter definire Bacone come precursore della rivoluzione industriale del 1700 : certo , lui vive nel 1600 , un’ epoca ancora diversa da quella in cui si svilupperà la rivoluzione industriale , ma é significativo il fatto che lui sia inglese ( la rivoluzione partirà proprio da lì ) : nel 1600 l’ attività produttiva in Inghilterra si sta sviluppando sempre più e si fanno anche sentire gli influssi del Calvinismo , una religione ” capitalista ” , che vede nel produrre e nel guadagnare una forma di preghiera verso Dio e vede invece in chi non riesce a produrre e ad arricchirsi un nemico , un fallito ( a differenza del Cattolicesimo ) . Bacone va collocato nel contesto della rivoluzione scientifica perchè , tra le varie cose , sente l’ esigenza dell’ esperimento , ossia l’ osservazione controllata . Ricapitolando , Bacone é vicino alla rivoluzione scientifica perchè sente l’ esigenza dell’ esperimento , di un metodo , e del sapere per produrre . Ma ciò che lo allontana dalla rivoluzione scientifica é il totale rifiuto della matematica : pensiamo a Galileo o a Keplero , che erano arrivati a formulare leggi fisiche in termini matematici ; già Platone e i Pitagorici sentivano l’ esigenza di avvalersi della matematica . Bacone invece si colloca a riguardo su un ramo parallelo , un ramo secco per molti aspetti : teorizza molte cose sulla scienza , su come procedere , ma non fa alcuna scoperta : Galileo , servendosi della matematica , arriva invece a scoprire la legge di caduta dei gravi , il principio di inerzia , il principio della relatività classica e molti altri . Senza la matematica Bacone , che pur fa grandi teorizzazioni , non arriva a scoprire nulla : in altre parole , la scienza , senza matematica , é in un vicolo cieco . Indubbiamente la scienza degli anni e dei secoli a venire preferirà il metodo matematico di Galileo e ancora oggi la fisica la si studia abbinata alla matematica . Tuttavia se Bacone rifiuta la matematica ha le sue buone ragioni e non lo fa per presa di posizione : egli conduce una serrata polemica contro tutti i metodi strettamente logici e astratti con cui si era indagata la natura ; la sua polemica é essenzialmente rivolta alla logica aristotelica , ai suoi occhi incapace di fare presa sulla realtà . Poi accomuna la matematica alla logica perchè gli pare che anch’ essa si muova su un terreno che esula dalla realtà , un terreno troppo astratto e ideale . Egli partendo da una critica alla logica aristotelica e alla matematica in quanto troppo astratte , finisce però per arrivare ad aderire a posizioni essenzialmente aristoteliche : rifiutando la matematica non può esaminare gli aspetti quantitativi della realtà e finisce quindi per esaminare quelli qualitativi , come a suo tempo aveva fatto Aristotele . Dobbiamo però dire in difesa di Bacone che nella scienza non esiste solo il metodo matematico – quantitativo : certo nella rivoluzione scientifica esso é predominante , tuttavia nel 1700 finirà per prevalere la chimica e nel 1800 – 1900 la biologia e la psicologia . Ora , é chiaro che nella fisica ( 1600 ) la matematica é fondamentale , ma é altrettanto chiaro che nella biologia e nella psicologia non lo é ! In altri termini , non tutta la scienza é fatta di matematica . Certo il 1600 é il secolo della matematica ; ci si accorge di come essa funzioni benissimo per spiegare la fisica e si finisce per estendere l’ uso della matematica in tutti i campi , pensando che anche lì possa andare bene : la politica ( Hobbes ) , la filosofia ( Cartesio ) … La ricerca di Bacone é incentrata sulla raccolta di dati e anche qui egli si discosta da Galileo , il quale aveva preferito le intuizioni e le formulazioni , e si avvicina ad Aristotele che ogni mattina si recava in spiaggia dalle reti dei pescatori a raccogliere dati e ad esaminare la fauna e la flora marina : non a caso Aristotele era una sorta di biologo e , come detto , la biologia non si serve poi tanto del metodo matematico , ma lascia spazio a quello qualitativo . Oggi la raccolta dati é tipica dell’ etologia e della zoologia , per esempio . Bacone é in fondo una specie di naturalista , che si dedica molto alla raccolta dati .
LA POLITICA E LA NUOVA ATLANTIDE
Parallelamente all’ indagine scientifica e alla pubblicazione dei numerosi libri , Bacone , come accennato , intraprende anche la carriera politica ottenendo buoni risultati finchè non arriva l’ accusa di corruzione e l’ allontanamento dalla politica stessa . Le vicende politiche di Bacone sono importanti e ci fanno capire come nella valutazione di un politico si debbano scindere gli aspetti politici da quelli etici , che pur si intrecciano : conviene esaminarli separatamente . La politica di un uomo é buona o cattiva indipendentemente dal fatto che l’ uomo sia eticamente buono o cattivo : può essere onesto eticamente e disonesto politicamente , o viceversa ; chiaramente le due cose in qualche modo si intrecciano . Questo discorso vale per Bacone : é stato evidentemente un politico corrotto , ma un uomo dalle idee politiche positive . Le sue idee politiche emergono soprattutto dall’ ultimo suo libro , la Nuova Atlantide . E’ un testo che va inserito nel genere letterario dell’ Utopia ( ou + topos = luogo che non c’ é ) tipicamente rinascimentale : pensiamo a Tommaso Moro , autore di ” Utopia ” , o a Campanella , autore de ” La Città del Sole ” . Bacone prende palesemente spunto dal mito di Atlantide , l’ isola beata improvvisamente affondata per via della tracotanza dei suoi cittadini , narrato da Platone nel Crizia . E’ senz’ altro interessante notare come Bacone prenda spunto da Platone ( da cui prenderà a prestito anche il mito della caverna ) pur non apprezzandolo affatto . In altre parole , Bacone scrive in polemica con Aristotele il Novum Organum in cui propone una nuova logica , e scrive in polemica con Platone la Nuova Atlantide in cui tratteggia un nuovo stato ideale . Platone a capo del suo stato aveva messo i filosofi , Campanella un sacerdote , Bacone pone invece gli scienziati : si tratta di un’ utopia tecnocratica nella quale , come per Platone , a governare sono i sapienti , ma di differente rispetto a Platone vi é proprio la concezione di sapiente : per Bacone i sapienti non sono i filosofi , bensì gli scienziati , dotati non di un sapere ” inutile ” ( come i filosofi , con il loro sapere per il sapere ) , ma di un sapere pratico , ossia capace di trasformare la realtà e assicurare una vita migliore all’ intera umanità . Sono gli scienziati a detenere il potere e a promuovere il bene dei cittadini . Si tratta comunque di un’ utopia differente anche rispetto a quelle di Tommaso Moro e Campanella , che si ispiravano a motivi morali e sociali : il tema centra della Nuova Atlantide , invece , é da cercarsi nel potere che deriva all’ uomo dalla scienza . Il fine della ricerca scientifica stessa é ” l’ allargamento dei confini dell’ impero umano ” attraverso la conoscenza delle cause e dei moti delle cose . Al centro dell’ intera società utopica , comunque , Bacone mantiene la famiglia , la cui prosperità diventa un affare di stato , quasi come a dire che questo grande progetto utopico deve essere realizzato ( sebbene si tratti solo di un’ utopia ! ) partendo dal privato , dai piccoli amori domestici , per poi coinvolgere , estendersi e trasformarsi in universale . Bacone allontanato dalla vita politica , non può far altro che rifugiarsi in una costruzione statale che sa bene inattuabile , ma che egli desidera : da qui emerge come pur essendo un uomo politico corrotto egli abbia ideali sublimi quali il benessere dell’ intera umanità . Bacone immagina di approdare a Bensalem ( questo é il nome della città sull’ isola ideale ) in seguito ad un naufragio , quasi come se nel suo reale naufragio politico fosse approdato ad una visione meravigliosa : non si tratta di un naufragio causato per un atto di hybris o per un errore umano : il mare , l’ antica immagine della minaccia , va qui inteso come ciò che separa la beata isola di Bensalem dal resto del mondo , corrotto e governato da non-scienziati e , ovviamente , in questo caso il naufragio é un qualcosa di altamente positivo , che porta Bacone e i suoi compagni di viaggio a contatto con una cultura più avanzata , una civiltà che conosce tutte le altre , ma dalle altre non é conosciuta e che ha sempre saputo ( e intende continuare a farlo) rimanere ” pura ” , non traviarsi , come invece hanno fatte tutte le altre ; proprio per questo in un primo tempo si mostra riluttante ad accogliere e a far sbarcare gli stranieri , ma poi non esita ad aiutare l’ intero equipaggio . Non a caso uno degli ” ambasciatori ” che si reca sulla nave di Bacone e dei suoi compagni dice : ” Non sbarcate , nessuno di voi ; anzi , affrettatevi a lasciare queste rive entro sedici giorni … Da parte nostra non mancheremo a nessun dovere pietoso ” . E’ una società radicalmente diversa rispetto a quelle allora conosciute , ma tuttavia ha qualcosa in comune : le lingue che si parlano a Bensalem , ad esempio , sono il greco , l’ ebraico , il latino e lo spagnolo ; la divinità che essi adorano é la stessa . Tutto ciò che gli abitanti di Bensalem si vedono intorno lo attribuiscono a Dio , lo vedono come vera signacula Creatoris : gli scienziati che reggono la città possono estendere il loro dominio sulla realtà , trasformarla , alterarla , imitarla , riprodurla , soltanto in quanto la conoscono secondo verità , secondo il suggello su di essa imposto da Dio ; il mondo stesso é agli occhi di Bacone a totale disposizione dell’ uomo ( ” Il mondo é stato fatto per l’ uomo , e non l’ uomo per il mondo ” si racconta che egli fosse solito dire al suo cameriere ) . Bensalem é un qualcosa di più che una semplice città , pare quasi essere un gigantesco laboratorio scientifico all’ aria aperta in cui ” il fine dell ‘ istituzione é la conoscenza delle cause , movimenti e forze interne alla natura , e l’ estensione dei confini del potere umano ad ogni cosa possibile ” , dove si fanno preparati medicinali , si riproducono i fenomeni atmosferici , si generano artificialmente gli insetti , si depura l’ acqua salata per renderla dolce , si prolunga la vita dell’ uomo , si elaborano strumenti tecnici all’ avanguardia , si edificano torri altissime ( addirittura mezzo miglio di altezza ) , si creano pozioni e acque nutrientissime , si sperimentano sugli animali ogni sorta di veleni per meglio provvedere alla salute del corpo umano … il tutto senza l’ apporto della matematica . Si possono però muovere due critiche alla costruzione statale di Bacone : 1 ) non é una democrazia ; 2 ) la politica non é fatta solo di scelte tecniche come pare intenderla Bacone nella Nuova Atlantide : se si ha al governo un medico , per dire , ed egli con le sue competenze tecniche proibisce il fumo da medico avrà senz’ altro agito benissimo , ma non é detto che da politico abbia agito altrettanto bene : sono due aspetti in fin dei conti piuttosto distinti la tecnica e la politica . In Bacone é fortissima la convinzione che il governo stesso debba essere in mano agli scienziati , i quali devono governare in funzione del benessere dei cittadini . La scienza cui Bacone fa riferimento non é certo quella di matrice aristotelica che vedeva nel sapere in sè un valore : la scienza , per valere qualcosa , deve essere orientata all’ azione , deve poter avere influssi sulla realtà stessa , apportando modifiche e innovazioni utili per l’ uomo . Ma perchè questo avvenga non basta che ci siano scienziati al lavoro : essi devono proprio essere i capi dello Stato , devono avere pieno potere politico , proprio come nella città utopica di Bensalem : al potere non sono i filosofi di Platone , interamente proiettati nel mondo delle idee e nell’ osservazione del Bene , bensì gli scienziati che operano a tutti gli effetti sulla realtà . E’ vero che Bensalem é e rimane un’ utopia , tuttavia a partire da fine 1600 cominciarono a nascere le Accademie Scientifiche , organizzazioni a cavallo tra il pubblico e il privato di filosofi e scienziati che collaborano per il miglioramento del mondo operando sulla realtà : é evidente che questo sia in qualche modo derivato dal progetto utopico di Bacone , che quindi non é poi rimasto del tutto solo sulla carta , ma ha trovato un campo di applicazione nella realtà . Nasce proprio l’ idea che il sapere non sia frutto di un singolo individuo , ma un fatto cumulativo , una collaborazione tra scienziati del presente , del passato e del futuro : il lavoro del singolo scienziato non é altro che un singolo tassello da aggiungere all’ intera indagine scientifica , vista appunto come la somma di tutti i contributi di tutti gli scienziati che furono , che sono e che saranno . Ancora oggi la scienza é sostanzialmente concepita così . A Bensalem funziona proprio così , come una grande cooperativa di scienziati che fanno un lavoro di equipe per garantire il benessere di tutti . Per questo aspetto Bacone é senz’ altro moderno : il lavoro del singolo ha senso solo se in un contesto più ampio . A noi questo pare ovvio , ma all’ epoca non lo era affatto . Si può anche fare un paragone tra scienza moderna e magia : la magia é un sapere volto a mutare la realtà , é lo stravolgimento totale del sapere per il sapere aristotelico . Ma la vera differenza tra magia e scienza moderna sta nel fatto che la prima concepisce la scienza , il sapere per potere come dote di un solo individuo dalle qualità eccezionali ( il mago ) , superiore a tutti gli altri uomini , che insegna segreti all’ apprendista stregone prestando attenzione che essi non trapelino e non vengano conosciuti dal resto della società : non a caso il mago scrive in un linguaggio ermetico , per non farsi capire dal popolo ( anche Eraclito in fondo concepiva così il sapere ) : il sapere deve rimanere nelle mani di pochi eletti ; il mago non é parte integrante di una comunità scientifica che coopera per il benessere di tutti . La scienza moderna vede invece il sapere come un bene collettivo ( non da nascondere ) , che non può derivare dal talento di un singolo individuo e che per di più deve poter essere verificato da tutti : quasi una comunione del sapere . Questo ci permette anche di osservare come per Bacone il sapere non derivi dall’ intelligenza eccezionale del singolo : c’ é una grande rottura con il passato ; tutte le conoscenze in medicina venivano ricondotte all’ intelligenza eccezionale di Ippocrate e di Galeno : per Bacone non é così ; per arrivare al sapere non occorrono grandi intelligenze , ma basta procedere con metodo ( e non con grandi intuizioni dei singoli ) : occorrono piccoli passi compiuti da tante persone . Il raggiungimento del sapere allora diventa un lavoro di equipe , realizzabile solo usando un metodo e collaborando . Non a caso Bacone scriveva molto in Inglese proprio per far arrivare a tutti il suo sapere e non ad una cerchia ristretta di persone .
LA ” INSTAURATIO MAGNA ” E IL ” NOVUM ORGANUM “
Esaminiamo ora il pensiero di Bacone attraverso le sue opere ; nel Temporis partus masculus ( ” Il parto maschile del tempo ” ; maschile perchè i maschi erano preferiti alle femmine in quanto in grado di sottoporsi a sforzi fisici maggiori nel lavorare le terre ) Bacone si addentra nella questione di come la scienza debba essere un lavoro di equipe e possa arrivare solo col passare del tempo . Non a caso egli diceva sempre ” veritas filia temporis ” ; a noi pare ovvio che le verità vengano acquisite un pezzo alla volta nel corso del tempo , ma all’ epoca tanto ovvio non era ; é solo col passare del tempo che il sapere umano può aumentare perchè si acquisiscono in continuazione nuove verità e così un uomo della preistoria dovrà partire se non da zero quasi ; un uomo del medioevo avrà già invece sulle spalle molte conoscenze ed esperienze , ma un uomo del 1600 ne avrà ancora di più e quindi potrà avanzare nelle scoperte : c’ é un vero e proprio accumularsi del patrimonio scientifico . Per gli antichi e per i medioevali la perfezione era nel passato ( si parlava di età dell’ oro , guardando con rimpianto ad un’ epoca ormai finita ) : dalla perfezione originale , l’ uomo era degenerato e decaduto ; i medioevali per esprimere ciò che intendevano si servivano di una metafora : ” noi siamo dei nani in confronto agli antichi , che invece sono dei giganti ” . Bacone riprende questa metafora per stravolgerne il significato : sarà anche vero che noi siamo dei nani ( ammettendo che gli antichi fossero meglio di noi ) , ma siamo nani sulle spalle di giganti e finiamo quindi per essere più alti noi dei giganti stessi : noi , ammettendo di essere a loro inferiori , abbiamo il vantaggio di poter vedere più lontano , di avere accumulato e fatto tesoro delle verità da loro scoperte : partiamo avvantaggiati . Ecco allora che Bacone capovolge il luogo comune che gli antichi siano meglio dei moderni : un’ altra metafora usata dai medioevali e non solo per argomentare in favore di un presunto stato di inferiorità dei moderni rispetto agli antichi era : ” gli antichi sono i venerandi e saggi anziani , noi moderni siamo gli inesperti bambini ” ; anche qui Bacone capovolge la metafora per dimostrare la superiorità dei moderni : i bambini sono gli antichi , che avevano sulle spalle una mole inferiore di conoscenze , noi moderni siamo invece gli anziani , carichi di esperienza e sapere . Emerge quindi come la verità sia figlia del tempo , ossia matura con il trascorrere degli anni e con l’ accumularsi delle conoscenze . Il tempo per Bacone non é più ciò che fa dimenticare , come invece era per Platone : per Platone l’ intera vita umana non era altro che un rimpiangere e uno sforzarsi di ricordare ciò che si era un tempo , nell’ Iperuranio , quando l’ anima non era ancora stata calata nel corpo ; per Bacone é l’ opposto : l’ uomo é saldamente proiettato verso il futuro e il progresso ; non c’ é più sapere nel passato che nel presente ; anzi , per Bacone il sapere sta più nel presente che nel passato e più nel futuro che nel presente . Prendiamo ora in esame il Novum Organum ; la raccolta di opere logiche di Aristotele si chiamava Organum ; Bacone intitola la sua opera logica Novum Organum proprio per presentare al mondo una nuova logica , radicalmente alternativa rispetto a quella di Aristotele . Va notato come il Novum Organum in realtà fosse stato concepito come la seconda parte di un’ opera a carattere enciclopedico intitolata Instauratio magna ( la grande costruzione del sapere ) che sarebbe dovuta essere in sei parti . La prima parte era intitolata De dignitate et augmentis scientiarum e si trattava la storia della scienza , poi si parlava del metdo con cui fare scienza e infine il progresso della scienza . Quando nel 1700 i filosofi illuministi scriveranno l’ Enciclopedia si richiameranno apertamente a Bacone per diversi motivi : in primo luogo anche loro saranno in favore di un sapere scientifico – tecnologico volto a far vivere meglio tutti ; inoltre il carattere dell’ Enciclopedia sarà divulgativo : proprio come insegnava Bacone , il sapere va trasmesso a tutti e non deve essere nelle mani di pochi . Però ci sono anche nette differenze tra Enciclopedia illuministica e Instauratio magna di Bacone : l’ Instauratio magna non era una struttura per voci , bensì sembrava più essere una ” summa ” medioevale , una specie di trattato sull’ intero universo : Bacone vuole trattare tutto di tutto , ma in fin dei conti finisce per non fare neanche una scoperta scientifica di rilievo ; Galileo , invece , non si cimenterà mai nello scrivere opere enciclopediche che trattino tutti i problemi dell’ universo : lui scrive su problemi specifici che gli si presentano al momento : qui sì che si vede la differenza tra scienziato moderno ( Galileo ) , che si pone problemi concreti e singoli e indaga con metodo , e Bacone , che fa invece discorsi troppo generali che finiscono poi per non calarsi mai nel particolare e per non portarlo a scoperte scientifiche . Uno dei temi principali e più ricorrenti del 1600 é il metodo : Cartesio , per esempio , sarà in quegli anni autore di un ” Discorso sul metodo ” ; e la seconda parte della Instauratio magna di Bacone , ossia il Novum Organum , delinea il nuovo metodo baconiano , diviso in due parti , la pars destruens , con la quale si confutano ( si distruggono ) le tesi contrapposte , e la pars construens , con la quale si avanzano le proprie tesi , dopo essersi liberati il campo con la pars destruens . Anche quest’ idea dell’ abbattere con una pars destruens le tesi in contrasto con quelle che si vogliono affermare é piuttosto tipico del 1600 : occorre abbattere a partire dalle fondamenta l’ antico edificio del sapere per poi costruire su fondamenta più stabili ; se le ricerche degli antichi non hanno portato alla verità , allora il loro errore consisteva proprio nel metodo con cui hanno indagato . Così fa Bacone : propone un nuovo metodo , una nuova logica ( radicalmente diversa da quella aristotelica ) e una nuova società utopica ( nettamente diversa da quella di Platone ) : la pars destruens baconiana é costituita dalla cosiddetta teoria degli idola : egli é convinto che siano presenti nella mente umana certe convinzioni , potremmo dire pregiudizi , che limitano la possibilità di conoscere in modo oggettivo la realtà ; per Bacone in fondo la mente umana non é altro che uno specchio che riflette ciò che c’ é nella realtà : ma deve essere uno specchio liscio , senza pregiudizi , altrimenti finisce per deformare la realtà : sono proprio i pregiudizi che portano la mente umana a deformare la realtà , ossia ad intenderla in modo diverso da come é effettivamente . Da notare che in qualche modo in Italiano la parola ” riflessione ” implica l’ idea della realtà che si riflette nello specchio della nostra mente . Il compito della pars destruens di Bacone é proprio quello di estirpare questi pregiudizi , ossia i giudizi dati a priori : in lui é presente la convinzione che l’ uomo sia indotto ad anticipare la natura con i pregiudizi , ossia a poter pensare di conoscere la natura ancor prima di averla esaminata : per essere interpretata , ovviamente , la natura va osservata in modo accurato e senza pregiudizi . I pregiudizi Bacone li chiama idola , trascrizione del greco ” eidolon ” , che può essere tradotto tanto con ” simulacro ” quanto con ” idolo ” : tuttavia la dizione idolo é da preferirsi perchè suggerisce come questi pregiudizi siano rappresentazioni , immagini preconcette che si sovrappongono a quelle vere , quasi come dei veri e propri fantasmi immaginativi . La parola idolo suggerisce inoltre che noi uomini é come se tendessimo a venerare e ad accettare senza porci problemi questi fantasmi immaginativi : idolo nel linguaggio religioso é un falso dio costruito dall’ uomo , ma che nella realtà non trova corrispondenza . Bacone individua quattro tipi di idola che ci impediscono di avere con la natura un approccio puro : 1 ) idola tribus ( pregiudizi della tribù , dell’ umanità ) : si tratta di pregiudizi radicati non nella mente di una o più persone , ma nella mente dell’ intera razza umana : non c’ é uomo che non li abbia . Il più importante degli idola tribus é senz’ altro la fallibilità dei sensi : noi siamo tutti convinti che la nostra sensibilità non possa ingannarci : questo é un pregiudizio insito nella mente di tutta l’ umanità ; Bacone invece sostiene che i sensi possano ingannarci ; così quando vediamo un remo immerso in acqua ci sembra spezzato per un effetto ottico , chi non ci dice che , così come con il remo , i sensi non ci ingannino sempre ? Un altro grande pregiudizio tribus , dell’ umanità , é la tendenza a vedere un principio d’ ordine anche dove esso non é presente : noi costruiamo , coi nostri pregiudizi , degli ordini nella nostra mente e poi abbiamo la pretesa di attribuirli al mondo esterno : siamo convinti a priori che ci debba essere un ordine nel cosmo ; Keplero all’ incirca in quegli anni orienta la sua ricerca scientifica alla ricerca di un ordine cosmico , partendo dal presupposto che esso vi sia ; più in generale , l’ intera filosofia non era forse nata come tentativo di trovare un unico principio che stesse dietro all’ intero realtà ? Pensiamo a Talete che l’ aveva ravvisato nell’ acqua o ad Eraclito che l’ aveva scovato nel fuoco : prevale in noi la convinzione che al di là delle cose molteplici e diverse ci debba essere un principio unificatore . Bacone non é di questo parere : si tratta solo di un nostro pregiudizio l’ essere convinti che ovunque vi sia un ordine ! 2 ) Idola specus ( della caverna ) , con un fortissimo richiamo a Platone e al suo mito della caverna : da notare ancora una volta come Bacone si richiami a filosofi antichi ma solo in termini negativi : egli non li apprezza perchè convinto che il loro metodo d’ indagine fosse totalmente sbagliato . Il mito della caverna era il compendio della filosofia platonica : gli uomini , incatenati sul fondo della spelonca , vedevano proiettate sul fondo immagini deformate della realtà . Per Bacone la caverna é la mente di ciascuno di noi : ogni singola mente , sebbene vi siano pregiudizi presenti in tutte le menti ( gli idola tribus ) , ha la sua specificità e tende a vedere la realtà a modo suo ; ci sono persone che , per esempio , tendono maggiormente a notare le differenze tra le cose , mentre ce ne sono altre che tendono a vedere le analogie tra le cose : ciascuno forza la realtà in una direzione , seguendo la sua inclinazione naturale . Detto così , però , sembrerebbe che gli idola specus fossero innati nella mente di ciascuno ; tuttavia , Bacone fa notare come in realtà possano essere radicati nella mente di una persona anche a causa dell’ educazione che ha ricevuto e del contesto in cui ha vissuto : che uno tenda più a vedere le differenze che non le analogie tra le cose può essere innato ; tuttavia può anche derivargli dal fatto che in famiglia gli abbiano insegnato a ragionare così . Ciò non toglie però che anche gli idola specus debbano essere eliminati in quanto pericolosi pregiudizi . E’ senz’ altro evidente la differenza tra idola tribus ( dell’ intera umanità ) e idola specus ( delle singole persone ) : probabilmente Bacone deve essere arrivato a questa concezione partendo dalla celebre frase di Protagora ” l’ uomo é misura di tutte le cose ” : questa espressione viene generalmente interpretata in una duplice maniera : a ) l’ uomo in quanto tale ( il genere umano ) conosce le cose come gli appaiono e non può fare altrimenti ; b ) ogni singolo uomo vede le cose a modo suo e in modo diverso da tutti gli altri . Fatta questa distinzione , appare evidente come Bacone abbia voluto separare questi due concetti presenti entrambe nella frase ” l’ uomo é misura di tutte le cose ” introducendo appunto il concetto di idola tribus , l’ uomo in quanto tale ( il genere umano ) conosce le cose come gli appaiono e non può fare altrimenti , e idola specus , ogni singolo uomo vede le cose a modo suo e in modo diverso da tutti gli altri . 3 ) Idola fori ( del foro , del mercato ) : é probabilmente la scoperta più interessante e innovativa ( soprattutto per l’ epoca ) di Bacone . Si chiamano idoli del mercato perchè hanno a che fare con il linguaggio ; Bacone fa notare una cosa per noi ovvia , per gli uomini del suo tempo innovativa : nel linguaggio esiste sempre una discrepanza tra le parole ed i significati ad esse attribuiti . In altre parole , se tutti sanno che si parla in conseguenza di come si pensa , forse non tutti sanno che é vero anche l’ opposto , che si pensa in conseguenza di come si parla : ecco allora che sorge il rischio di commettere errori di pensiero derivanti da errori di linguaggio . Il primo rischio evidente é quello di inventare parole che non trovino corrispondenza nella realtà : parole prive di senso , che non designano nulla di nulla , ma che col passare del tempo sono passate ad esistere : ecco allora che Bacone cita parole come ” primo mobile ” , ” sfere planetarie ” : nei cieli non esistono le sfere cristalline , però a forza di parlarne é passata la convinzione che esistano . E’ evidente la critica mossa ad Aristotele , che aveva inventato tali parole , dando nomi a cose che non esistono . Bacone cita anche ” elemento del fuoco ” : il fuoco non é un elemento , una cosa , bensì é un processo ( di combustione ) : dei classici 4 elementi di Empedocle ( terra , acqua , aria , fuoco ) , l’ acqua , la terra e l’ aria sono effettivamente elementi , ma il fuoco no ! A forza però di dire ” elemento fuoco ” é passata la convinzione che il fuoco sia un elemento : ecco che l’ errore di linguaggio diventa errore di pensiero . Ma gli idola fori comportano un rischio ancora più grande di questo : le parole , infatti , fa notare Bacone , non sempre ritagliano in modo corretto la realtà ; la funzione delle parole é di permetterci di comunicare , esse , cioè , definiscono , raccolgono in sè le cose cui ci si vuole riferire : ma se uso parole che ritagliano male la realtà finisco per ragionare in modo scorretto . Bacone cita a proposito la parola ” umido ” , che comprende l’ acqua quanto gli altri liquidi : tuttavia , se uno dice ” umido ” subito pensiamo tutti all’ acqua . Persone diverse in contesti diversi intendono una parola in modo diverso gli uni dagli altri : le parole devono come minimo essere usate con lo stesso significato ! Tutto questo implica che uno degli scopi principali della filosofia é analizzare il significato delle parole : Bacone non a caso é inglese . Già dal Medioevo si colgono specifiche correnti e direzioni filosofiche a seconda delle nazioni : così come i costumi dei popoli cominciano sempre più a differenziarsi , anche le filosofie si differenziano di nazione in nazione . Gli Inglesi tendono per lo più ad occuparsi di scienza e linguaggio , e Bacone ne é un fulgido esempio : tuttavia già nel Medioevo c’ erano stati personaggi quali Guglielmo da Ockham , interessatissimo al significato delle parole , o Ruggero Bacone ( appassionato di alchimia e scienza ) . Ancora oggi gli Inglesi sono alquanto all’ avanguardia nello studio del linguaggio e della scienza : si é convinti che si debba rendere il linguaggio il più rigoroso possibile per non cadere in errori di ragionamento simili a quelli indicati da Bacone . 4 ) Idola theatri ( del teatro ) : si chiamano così perchè sono i pregiudizi indotti dalle diverse scuole filosofiche che Bacone , per sottolineare la loro lontananza dalla realtà , assimila a favole che vengono idealmente rappresentate sulla scena teatrale : se uno ha studiato una dottrina filosofica , finisce poi per interpretare l’ intera realtà in base a quella dottrina , convinto che la realtà sia interamente interpretabile con una dottrina : questo é il pregiudizio . Queste dottrine diventano come sfondi artificiali che sostituiscono al mondo vero un mondo artificiale realizzato a tavolino dai filosofi . Dobbiamo subito notare una cosa dopo aver esposto la pars destruens : il linguaggio di Bacone é strano , ricco di parole evocative , atipiche per uno scienziato e per un filosofo : sono parole che sanno quasi di magia ( idola , specus , tribus … ) ; in effetti Bacone risulta ancora legato alla tradizione alchemica con il suo linguaggio misterioso , ermetico : certo , é uno scienziato moderno , che rende pubblico il suo sapere , che collabora con gli altri scienziati e che mira al benessere dell’ umanità , ma da questo punto di vista rimane ancora qualche residuo magico in lui . Va subito specificata un’ altra cosa : Bacone é pienamente convinto che i pregiudizi ( idola ) non siano insormontabili : é possibile estirparli dalla mente degli uomini : sono come dei filtri , delle lenti colorate che ci fanno vedere la realtà in modo diverso da come é effettivamente ; tuttavia , se queste lenti per Protagora e anche per Kant non possono essere rimosse , per Bacone non é così : é possibile rimuoverle e vedere il mondo come effettivamente é . Dopo la pars destruens inizia quella costruens : Bacone per costruire le sue teorie si serve soprattutto del metodo induttivo ( da tanti particolari arrivare all’ universale ) ; egli critica il metodo deduttivo ( dall’ universale al particolare ) di Aristotele , ma ne biasima anche quello induttivo : in fin dei conti mira a contestare in generale l’ intero metodo aristotelico . Bacone parla anche di vera induzione ( ossia la sua ) e falsa induzione , riferendosi apertamente a quella aristotelica : l’ induzione di Aristotele , spiega Bacone , non era altro che un processo assurdo e farraginoso , nel quale si partiva da casi particolarissimi , raccolti in modo disordinato e casuale , per poi passare a verità generali e per poi dare origine a verità intermedie ( quelli che Bacone chiama assiomi medi ) ; facciamo un esempio classico : Aristotele parte dal caso particolare , esaminando un tot di animali presi a caso : constata che essi sono mortali , quindi arriva a dire che tutti gli animali sono mortali ; poi passa alla verità generalissima , ossia che tutti gli uomini sono mortali , e infine approda ad una verità intermedia , meno generale della precedente : tutti gli uomini sono mortali : arriva ad una verità intermedia passando in modo assurdo tramite una verità generalissima . La vera induzione per Bacone deve essere graduale e metodica , dove le verità generalissime finiscono per non essere mai raggiunte : a lui interessano quelle intermedie perchè il sapere é potere , deve poter far presa sulla realtà ed é evidente che le verità troppo generali finiscono per andare oltre la realtà , per sganciarsi da essa . Per conoscere e operare sulla natura servono le verità intermedie , le regole della natura , in ultima istanza le leggi fisiche : voglio sortire questo effetto sulla natura , quindi devo avvalermi di questa causa . Le verità troppo generali non fanno presa sulla realtà , finiscono per essere teoricamente vaghe e praticamente inapplicabili . Il passare da verità generalissime a verità intermedie non é altro che un’ assurdità agli occhi di Bacone perchè non fa altro che aumentare la probabilità di errore . Il vero punto di arrivo allora non sono più le verità generali , ma quelle intermedie ( gli assiomi medi ) , che mi danno regole di comportamento dei fenomeni e non si staccano troppo dalla realtà : esse sono le leggi fisiche . E’ evidente che l’ idea di lavorare con un metodo non può che comportare l’ idea di usare l’ esperimento , sebbene Bacone non lo intenda affatto come quantificazione dei dati osservativi proprio perchè egli non approva la matematica , in quanto essa , come la logica aristotelica , é una verità troppo generale e distaccata dalla realtà . L’ idea di esperimento , comunque , é presente in Bacone nel momento in cui egli si accorge dell’ inutilità di limitarsi a fare osservazioni empiriche : l’ esperienza , da sola , non porterà mai alla verità , ma solo ad un futile accumulo di casi particolari : ecco allora che Bacone sente l’ esigenza dell’ esperimento , che però non intende come aveva fatto Galileo , bensì tende a vederlo come esperienza organizzata con metodo ( seppur senza quantificazioni ) . Nel Novum Organum , scritto in forma di aforismi che risentono della tradizione alchemica , compare un’ interessante metafora : Bacone paragona i tre tipi di scienziati esistenti ( quelli che fanno solo esperienze , quelli che non ne fanno , e quelli che fanno esperienze miste a rielaborazioni ) a tre tipi di insetti ( anche se in realtà il ragno non é un insetto : ma lui non lo sapeva ) : gli scienziati che si limitano ad osservare la realtà , ossia a fare esperienza , raccogliendo caterve di singoli casi , senza tuttavia giungere alla verità ( proprio perchè non usano l’ esperimento ) sono paragonati alle formiche , che per tutta la buona stagione accumulano materiale : anche gli scienziati empirici , in fondo , si limitano ad accumulare materiale osservativo , convinti che da esso possa derivare la verità . Gli scienziati che non fanno esperienze , ma lavorano solo in modo astratto , svolgendo esperimenti mentali , senza mai confrontarsi con la natura , sono paragonati ai ragni , che , con un processo tutto interno a se stessi , fabbricano belle ragnatele complesse , con le quali possono facilmente catturare gli sprovveduti : così questi scienziati fanno percorsi interamente mentali e hanno la pretesa che ciò che hanno nella loro testa sia la verità della natura ; essi costruiscono delle belle ” ragnatele ” mentali e gli sprovveduti finiscono per cadere in trappola , credendo a quanto essi dicono . Bacone accusa Aristotele stesso di essere un ” ragno ” , quasi come se Aristotele esperienze non ne avesse fatte … In realtà , Bacone confonde Aristotele con gli aristotelici dei suoi tempi , che vivevano in un ” mondo di carta ” , evitando le esperienze e si limitavano a difendere strenuamente le tesi del maestro : Galileo stesso li accusa , ma non accusa invece Aristotele , sapendo che in fondo egli fu il re dell’ esperienza . Infine ci sono gli scienziati che fanno incetta di dati osservativi e che in più li rielaborano con la propria testa , arrivando così alle verità : essi sono paragonati alle api , che raccolgono materiali , li rielaborano e producono il miele : così questi scienziati , dopo un’ accurata raccolta dati , sentono l’ esigenza di rielaborarli con metodo e di produrre il mellifluo sapere . Questa degli insetti non é la sola metafora presente nel Novum Organum : Bacone ne usa anche un’ altra , particolarmente significativa e interessante : quella dei pesi : lo scopo del metodo non é quello di mettere le ali all’ intelletto , liberandolo e facendolo volare liberamente ; anzi , lo scopo del metodo é quello di mettere pesi all’ intelletto umano , impedendogli di volare troppo facilmente verso le conclusioni : lo scienziato deve muoversi con ponderazione e giudizio , con i piedi di piombo sembra quasi suggerire la metafora , che , tra l’ altro , suggerisce anche come la scienza debba procedere per Bacone non tanto grazie alle capacità straordinarie dei singoli e delle loro intelligenze , quanto piuttosto grazie all’ impiego di un metodo preciso e valido . Si tratta ora di definire questo metodo quale sia : il metodo di Bacone ha diverse fasi : la prima fase é la storia naturale , ossia l’ osservazione dei fenomeni naturali ( il termine storia deriva dalla radice greca id- del verbo orao , che significa ” vedere ” : la storia naturale consiste proprio nel descrivere i fenomeni naturali osservati ) ; il sapere umano per Bacone é distinguibile in tre parti : a ) la storia ( che si fonda sulla memoria ) ; b ) la poesia ( che si fonda sull’ immaginazione ) ; c ) filosofia ( che si fonda sulla ragione ) : la scienza naturale non é altro che una branca della filosofia e parte dalla storia naturale , ossia l’ osservazione e la descrizione dei fenomeni naturali ; ma in che cosa consiste questa storia naturale ? Nella raccolta di dati dell’ esperienza e nella rielaborazione di questi dati con la ragione ; rielaborare con la ragione significa catalogare con metodo il materiale raccolto ; riorganizzare secondo un metodo per Bacone significa riorganizzare con le tre tavole , ossia con tre elenchi ragionati di esperienze fatte : non é un’ elencazione casuale e disordinata . Quali sono queste tre tavole ? 1 ) tavola della presenza ; 2 ) tavola dell’ assenza ; 3 ) tavola dei gradi . Bacone si pone essenzialmente alla ricerca della forma di una determinata natura , ossia l’ essenza di un determinato fenomeno : per arrivare a questo egli riduce un fenomeno la cui essenza é ignota ad un fenomeno la cui essenza é nota , passando tramite le tre tavole : ad esempio , Bacone esamina l’ essenza del calore : cerca un fenomeno a cui il calore possa essere ricondotto ; ecco allora che nella tavola della presenza mette tutti quei casi in cui il calore si presenta : il sole , il fuoco , lo sfregamento , ecc. Il sole e il fuoco , a loro volta , sembrano suggerire un collegamento tra calore e luce . Certo nella tavola di presenza si mettono anche cose legate al calore ma non legate alla luce : per esempio lo sfregamento o la pelliccia . Bacone arriva anche a dire che le sensazioni di freddo intenso sono analoghe a quelle di caldo intenso : quando mettiamo le mani nella neve abbiamo una sensazione analoga a quando le mettiamo nell’ acqua calda . Dopo di che , si passa alla tavola dell’ assenza , il cui vero nome sarebbe tavola dell’ assenza in prossimità : significa che nella tavola dell’ assenza non vanno inseriti tutti i casi nel quale il fenomeno calore é assente , anche perchè sarebbe quasi impossibile , bensì vanno inseriti solo quei casi che presentano analogie con quelli già citati nella tavola della presenza : esaminando l’ essenza del calore , Bacone mette nella tavola dell’ assenza la luna , che presenta analogie col sole ( gli é cioè in prossimità come caso ) , che già aveva messo nella tavola della presenza : é luminosa pure lei , ma non ha il calore : di conseguenza il rapporto calore – luce vacilla ; allora esamina il rapporto calore – sfregamento ( ossia calore – movimento ) e scopre che in fondo é quello vero : il calore é riducibile al movimento delle particelle dell’ oggetto caldo . E’ interessante notare come Bacone si trovi di fronte ad un serio problema con l’ induzione , un problema logico : se faccio un’ induzione su un limitato numero di casi , c’ é il rischio che il numero dei casi non presi in considerazione mi smentisca : esamino un tot di uomini , vedo che prima o poi muoiono e dico che gli uomini sono mortali : passo da casi particolari ad universale : ma io ho esaminato 100 , 200 , magari anche un milione di uomini : ma chi mi dice che tra tutti quelli che non ho esaminato non ce ne siano di immortali ? Per assurdo , potrei anche esaminare tutti gli uomini presenti sulla faccia della terra più quelli finora esistiti e dire : tutti gli uomini sono mortali . Ma questa non sarebbere più un’ induzione in fin dei conti ; e poi , comunque , anche osservando che tutti gli uomini finora esistiti sono morti , non potrò mai dire che tutti gli uomini sono mortali perchè non potrò mai esaminare gli uomini che ancora non sono nati : ecco allora che il metodo dell’ induzione comporta seri problemi ; in realtà Bacone non affronterà questo problema e lo lascerà in eredità al 1800 . Egli , però , cerca di porre rimedio a questa aporia dell ‘ induzione , per far sì che , anche se limitata a casi particolari , abbia valenza generale : ecco allora che l’ induzione di Bacone esamina una miriade di casi particolari e non li raccoglie a caso : ecco allora che i dati dell’ esperienza vengono organizzati con metodo , arrivando così ad una sorta di esperimento senza la matematica , potremmo dire : un esperimento che consiste nell’ esaminare i casi dopo averli ordinati con metodo : ritornando alla teoria del calore , dopo aver constatato che non é riconducibile alla luce perchè se é vero che il sole é caldo e luminoso , é anche vero che la luna é luminosa ma non calda , Bacone prende in considerazione l’ ipotesi che derivi dallo sfregamento ( dal movimento ) . Ecco allora che si passa alla tavola dei gradi , nella quale si inseriscono le cose rispondendo alla domanda ” esiste qualcosa che cresce al crescere del calore o che diminuisce al diminuire del calore ? ” Se sì , allora sarà dimostrata l’ ipotesi che calore e movimento siano connessi . Questa tavola dei gradi fa subito venire alla mente la proporzionalità ( diretta e indiretta ) , tipica delle leggi fisiche : però per Bacone questi gradi non sono concepiti in termini quantitativi , come era per Galileo , che si chiedeva ” al variare di x , di quanto varia y ? ” : a Bacone non interessano le quantità , ma le qualità : gli basta sapere che un fenomeno cresce o diminuisce al crescere o al diminuire di quello preso in esame : non gli interessa di quanto cresca o diminuisca . La seconda parte del metodo , dopo quella delle tavole , é quella dell’ organizzazione , che consente di avanzare ipotesi : la prima ipotesi che si avanza Bacone la definisce la prima vendemmia , con la quale si raccolgono i primi frutti : certo , non si tratta ancora della verità , ma solo di un’ ipotesi ( la prima di tante ) . Da notare che finora il metodo baconiano é stato costituito solo di esperienza e non di esperimento , seppur c’ é stata la raccolta dati in modo ordinato . Anche in Bacone , come pure in Galileo , emerge l’ atto creativo , il salto della mente umana : certo , si tratta di un salto notevolmente inferiore rispetto a quello previsto da Galileo , ma é sempre un salto : in Bacone c’ é un lavoro metodico che porta alle ipotesi e non si parte subito con l’ intuizione galileiana . Dopo di che , subentra la verifica delle ipotesi : ecco che entrano in gioco gli esperimenti ( che Bacone definisce istanze prerogative ) , senza i quali non si possono verificare le ipotesi ; esistono ben 27 tipi di questi esperimenti . Il termine istanza prerogativa , tradotto letteralmente , significa esempio privilegiato ; dunque con la pars construens si raccolgono i dati con le 3 tavole e si superano le due aporie già citate dell’ induzione ( se esamino un pò di casi e generalizzo c’ é il rischio che i casi non esaminati mi smentiscano ; ma se esamino tutti i casi presenti non é più un’ induzione ) per poi arrivare alla prima vendemmia , ossia la prima ipotesi sulla forma della natura ricercata : questa prima vendemmia , come detto , é solo il punto di partenza e non di arrivo : per arrivare alla conclusione del processo bisogna verificare che l’ ipotesi ( la prima vendemmia ) sia corretta ; ecco allora che entra in gioco l’ esperimento , inteso non tanto come esperienza controllata e misurata in termini matematici , quanto piuttosto come esempio privilegiato ( istanza prerogativa ) . Per Bacone , infatti , l’ esperimento non é altro che un esempio privilegiato , selezionato e ricostruito : la natura ci fornisce solo esperienze alla rinfusa che non ci porteranno mai a verità e a leggi fisiche : spetta a noi trasformare l’ esperienza in esperimento . Per spiegare il concetto Bacone ricorre ad un’ immagine di tipo giuridico ( all’ epoca era in vigore la pratica della tortura ) : egli concepisce l’ esperimento come una tortura nei confronti della natura , come un obbligare la natura a dirci delle cose utili : essa infatti tende solitamente a darci solo spunti , esperienze casuali ; bisogna instaurare un vero e proprio interrogatorio sotto tortura dove si costringe la natura a dirci ciò che ci serve . Talvolta Bacone ricorre addirittura all’ immagine del far violenza sessuale alla natura , vista come donna . In un certo senso l’ atteggiamento di Bacone risulta ambiguo perchè , altrove , egli dice che la natura la si può comandare solo servendola , ossia senza imporle leggi non sue e interpretazioni forzate : lo scopo umano é dominare la natura , ma l’ unico modo per riuscirvi é servirla , procurandosi così gli strumenti per operare su di essa ; ma con le metafore giudiziarie appena citate sembra dire qualcosa di ben diverso , suggerendo un dominio brutale e forzato . Se Bacone é il profeta della rivoluzione industriale del 1700 per quel che riguarda la concezione del sapere finalizzato a produrre , egli lo é anche quando sostiene che l’ uomo debba dominare completamente la natura , violentandola e trattandola da donna : infatti é proprio a partire dalla rivoluzione industriale che verrà invertito il rapporto uomo-natura : fino ad allora l’ uomo era dominato dalla natura e non poteva far altro che servirla ; ma a partire dal 1700 il rapporto viene stravolto : é l’ uomo che domina ( spesso senza criterio ) la natura . Come dicevamo ci sono 27 tipologie di istanze prerogative e , a livello di curiosità , vanno senz’ altro ricordate le istanze magiche : in Bacone l’ idea di magia continua a permanere , ma in modo differente rispetto a quanto poteva essere in un Giordano Bruno : Bacone é legato alla magia essenzialmente per la concezione che ha del sapere ( il sapere per potere ) e per il linguaggio di cui si serve ( gli idola tribus , per esempio ) . Ma che cosa sono queste istanze magiche ? Sono casi in cui una causa minima ha un effetto clamoroso , immenso tanto da parere magico ed inspiegabile , quando cioè il rapporto causa-effetto é sproporzionato e desta stupore . Questo non significa che Bacone metta fra le istanze magiche effetti inspiegabili ; egli , tanto per fare un esempio , avrebbe senz’ altro messo tra le istanze magiche la bomba atomica , dove da una reazione del nucleo scaturisce un effetto straordinario . Più interessanti risultano invece le istanze fruttifere e quelle lucifere ; le istanze fruttifere sono quegli esperimenti che portano immediatamente dei frutti , ossia che hanno un’ immediata utilità pratica . Le istanze lucifere invece sono quegli esperimenti che non portano subito dei frutti , ma portano la luce , ci illuminano , ci danno delle conoscenze teoretiche senza risultati pratici . Ci si può aspettare che Bacone , profeta della rivoluzione industriale , preferisse le istanze fruttifere , che danno un sapere immediatamente utile , ma non é così : egli finisce per preferire le istanze lucifere , quelle che danno conoscenze teoretiche prive di immediata applicabilità pratica : per capire a fondo perchè Bacone le preferisse facciamo un esempio matematico , sebbene la matematica esuli dal campo di interesse di Bacone : ai tempi degli antichi greci é vero che c’ erano conoscenze matematiche di utilità pratica ( istanze prerogative ) : per esempio il sapere contare poteva servire per fare acquisti ; ma é altrettanto vero che ce n’ erano altre che non avevano pressochè alcuna applicabilità pratica ( istanze lucifere ) : pensiamo al teorema di Talete o di Pitagora : nessuno poteva immaginare che questi teoremi potessero avere un’ applicabilità pratica , eppure li formularono . Poi a migliaia di anni dai Greci questi teoremi privi di applicabilità pratica sono tornati utili anche dal punto di vista pratico : pensiamo all’ ingegneria moderna , che non ci sarebbe se non ci fossero state le conoscenze matematiche dei Greci , che però allora erano pressochè inutili . Così ragiona anche Bacone : anche quando si é convinti che il sapere valga solo come operativo , non si può tuttavia sapere quali conoscenze saranno utili in futuro , bensì si sanno solo quelle utili al momento . Così Bacone arriva a dire che le istanze lucifere sono più preziose delle fruttifere perchè possono avere un valore nel futuro e possono portare al progresso ancora più di quelle fruttifere . D’ altronde se ci si limitasse a fare solo scoperte fruttifere ( utili nell’ immediato ) saremmo ancora all’ età della pietra o poco più . In altre parole , il succo della distinzione baconiana tra le due forme di istanze , fruttifere e lucifere , é questo : é più importante un esperimento in grado di darmi conoscenze nuove piuttosto che uno che mi dia conoscenze pratiche senza allargarmi il campo del sapere . Tra le 27 tipologie di istanze prerogative , risultano poi interessanti le instantia crucis ( le istanze dell’ incrocio ) : il nome di queste istanze deriva dal fatto che lungo le strade , laddove vi erano dei bivi , venivano posti dei cartelli stradali a forma di croce che lo segnalavano . Si perviene alle istanze dell’ incrocio quando , dopo la prima vendemmia , ci si trova con in mano due ipotesi apparentemente entrambe valide : l’ unica cosa da fare é attuare un nuovo esperimento che escluda una delle due ipotesi e che indichi la strada giusta . Bacone fa un esempio interessante , riguardante un problema sul quale , all’ incirca negli stessi anni , si arrovella anche Galileo : il peso deriva da una forza di attrazione della Terra o é una caratteristica intrinseca dei corpi ? Se fosse una caratteristica intrinseca dei corpi allora cadrebbe la distinzione tra massa e peso ; a parità di massa , infatti , il peso varia a seconda di dove ci si trovi ( sulla Terra , sulla Luna … ) ; ma se il peso non dipende dall’ attrazione , allora si pesa sempre allo stesso modo ovunque , quindi peso e massa coincidono . Bacone per scartare una delle due ipotesi fa un esperimento piuttosto significativo , più che altro concettuale : immaginiamo di avere due orologi meccanici sincronizzati tra loro , uno a peso e uno a molla ; immaginiamo poi di allontanarci sempre più dal centro della Terra o di avvicinarci sempre più ( salendo su monti o scavando sotto terra ) : a questo punto , allontanandoci o avvicinandoci sempre più al centro della Terra , i due orologi , da sincronizzati che erano in partenza , non lo saranno più perchè quello a molla funzionerà allo stesso modo ovunque si trovi , quello a peso , invece , varierà nel suo funzionamento e si comporterà diversamente a seconda che ci allontaniamo o ci avviciniamo al Centro della Terra perchè sentirà sempre di più ( se ci avviciniamo ) o sempre di meno ( se ci allontaniamo ) l’ attrazione verso il centro della Terra . Grazie a questo esperimento Bacone sceglie la via dell’ attrazione : il peso dipende dall’ attrazione esercitata dal centro della Terra , proprio come arriva a dire anche Galileo . La differenza tra i due scienziati – filosofi é che , mentre Galileo ci arriva in termini quantitativi , Bacone ci arriva invece in termini qualitativi : nel suo esperimento non troviamo un solo dato quantitativo . L’ indagine stessa di Bacone mira a scoprire la forma , l’ essenza delle cose ( Galileo invece diceva di non voler ” tentare l’ essenza delle cose ” ) . Ma Bacone sa bene come la parola forma rievochi la tradizione aristotelica e allora spiega che ciò che lui intende con forma é tutt’ altra cosa rispetto a ciò che intendeva Aristotele : Bacone ricercando la forma dà leggi di comportamento dei fenomeni ( accostandosi così alla rivoluzione scientifica ) ; tuttavia egli non cerca leggi fisiche espresse in termini matematici , bensì in termini qualitativi . Quando poi sostiene che la sua concezione di forma sia radicalmente diversa da quella di Aristotele cade in errore : Bacone dice che la sua forma si distingue da quella di Aristotele perchè in movimento , sempre dinamica e in grado di spiegare i fenomeni . Bacone avrebbe avuto ragione a dire che la sua forma é diversa da quella degli aristotelici del 1600 , che vedevano la forma come qualcosa di stabile e non mutevole . Ma in fin dei conti la vera forma di Aristotele é più vicina a quella di Bacone di quanto ci si possa immaginare : sia Bacone sia Aristotele , infatti , concepiscono la forma come essenza qualitativa delle cose ( Galileo , invece , rinuncia alle qualità per esaminare le quantità ) . Bacone invece riprende in tutto e per tutto da Aristotele il verum scire est scire per causas : sempre Galileo si era riproposto di non esaminare il cosa e il perchè ma il come . Bacone , poi , nella forma distingue tra schematismo latente ( come é fatta una cosa ) e processo latente ( come funziona una cosa ) ; in ultima istanza questi due aspetti sono la statica e la dinamica : lo schematismo mi dice la struttura nascosta da un punto di vista statico ; il processo , invece , non mi dice come é fatto , ma come funziona : non sono altro che la causa formale e la causa efficiente di Aristotele . Per Aristotele la forma aveva una duplice valenza : in un corpo , ad esempio , mi diceva la struttura del corpo ( come sono organizzati i tessuti muscolari , per esempio ) e in più era il principio dinamico che faceva funzionare l’ intero organismo ( l’ anima ) : in fondo é lo stesso che dice Bacone con lo schematismo e il processo . Non é quindi sbagliato dire che Bacone é più vicino al suo acerrimo nemico Aristotele di quanto non lo fossero gli aristotelici del 1600 .
RENATO CARTESIO
Cartesio opera come scienziato e filosofo per tutta la prima metà del 1600 e ha grande importanza non solo in ambito filosofico e scientifico , ma pure letterario : é infatti considerato insieme a Pascal il fondatore della prosa francese ; caratteristiche del suo stile sono la chiarezza e la linearità , caratteristiche che finiranno poi per influenzare anche l’ illuminismo . Non é affatto sbagliato dire che il linguaggio di Cartesio é il linguaggio della ragione illuministica per diversi motivi . Innanzitutto l’ epoca in cui vive Cartesio é stata definita l’ età del razionalismo , ossia l’ età dell’ indiscussa onnipotenza della ragione umana : é evidente come vi siano analogie con l’ illuminismo , che prende il nome proprio dai lumi della ragione . Tuttavia tra razionalismo e illuminismo possono essere ravvisate anche differenze : il 1600 é l’ epoca in cui si riscopre , dopo un lungo periodo di svalutazione durato tutto il medioevo , la ragione umana e come ogni scoperta appena fatta vi é la tendenza ad entusiasmarsi troppo e a non vederne i limiti : ecco allora che nel 1600 i filosofi ripongono tutta la loro fiducia nella ragione in modo acritico , senza domandarsi se essa abbia dei limiti o meno . Nel 1700 , invece , dopo cento anni che questa riscoperta é stata introdotta , ci si comincia a chiedere se la ragione abbia dei limiti o meno : certo l’ illuminismo é figlio del razionalismo in quanto si predilige la ragione ad ogni altro strumento di indagine , ma l’ approccio con la ragione stessa risulta diverso , più ponderato e critico . Ma a questo punto sembra che con l’ illuminismo si ritorni al medioevo perchè in fondo già San Tommaso , che nutriva grande fiducia nella ragione , si era chiesto fin dove potesse arrivare . La vera differenza tra illuminismo e medioevo é che mentre per il medioevo la ragione é limitata da Dio stesso , per l’ illuminismo i limiti della ragione sono imposti dalla ragione stessa : questo lo posso conoscere , quest’ altro no . Locke , filosofo preilluminista , definisce la ragione come una candela che ci illumina il cammino ; é sì l’ unica luce che possa illuminarci il cammino , ma rimane comunque una luce fioca , che non può tutto . E’ anche interessante la metafora di cui si avvale il più grande filosofo illuminista , Kant , nella Critica alla ragion pura , che dice di aver istituito il tribunale della ragione : la ragione é contemporaneamente sia giudice sia imputato : si vedono i limiti e si dà un giudizio , ma a dare il giudizio é proprio colei che é accusata , la ragione . Ecco allora che per gli uomini del 1700 la ragione non é più un qualcosa di illimitato come era per gli uomini del 1600 , ma é tuttavia l’ unico mezzo a nostra disposizione per conoscere la realtà . Cartesio dal canto suo ha grande fiducia nella ragione umana ed é caratterizzato da quell’ eccessivo entusiasmo tipico dei filosofi del 1600 ; l’ opera che può essere considerata compendio di tutta la sua filosofia é il Discorso sul metodo , che tuttavia presenta diverse contraddizioni e aporie : numerosi risultano i passaggi del suo ragionamento che presentano difficoltà e possono essere oggetto di critica . Malgrado questo e forse anche per questo , l’ impostazione filosofica di Cartesio é stata predominante per mezzo secolo circa : tutta la filosofia successiva sarà un tentare di risolvere i problemi da lui lasciati in sospeso o affrontati erroneamente . Cartesio viene spesso definito il fondatore del meccanicismo moderno , ossia il vedere il mondo come una grande macchina , come l’ urtarsi di palle da biliardo su un tavolo : Cartesio non fa altro che riprendere quanto già aveva detto Galileo , che oscillava tra un meccanicismo metodico ( nel mondo ci sono qualità e quantità , ma io posso e devo esaminare in termini matematici solo le quantità ) e ontologico ( esistono solo quantità e le qualità non sono altro che il manifestarsi soggettivo di cose oggettive ) . Cartesio opta per il meccanicismo ontologico , preferendo l’ idea che esistano solo quantità . Questo passaggio di Cartesio , che accompagnerà tutta la filosofia del 1600 , in realtà , non é propriamente legittimo , sebbene egli cerchi di argomentare in suo favore : Galileo stesso , pur avendo avuto il dubbio che tutto sia fatto solo di quantità , non l’ aveva dimostrato un pò perchè non c’ era riuscito e un pò perchè non gli interessava ( lui esaminava il come e non il che cosa e il perchè ) . Il Discorso sul metodo non é l’ unico testo di Cartesio e non é neanche il più importante : basti pensare che gli stessi argomenti esposti in modo anche più approfondito li troviamo nelle Meditazioni metafisiche , che tra l’ altro diedero adito a un dibattito internazionale : da tutta Europa vennero spedite lettere a Cartesio , che non rinunciò a rispondere , nelle quali gli si muovevano obiezioni e gli si mostravano incongruenze presenti nelle sue teorie ( Hobbes stesso ebbe modo di scrivergli ) . Tuttavia il libro di Cartesio più letto da sempre é il Discorso sul metodo per la sua estrema chiarezza e linearità ( non é un testo particolarmente difficile ) e per la sua brevità : in esso Cartesio fa un riassunto generale e complessivo di tutta la sua filosofia , cosa piuttosto rara per un pensatore . La storia stessa del Discorso sul metodo é piuttosto curiosa : infatti non era stato pensato come libro indipendente , bensì come prefazione a una raccolta di tre saggi scientifici su tre argomenti specifici , saggi che al giorno d’ oggi vengono raramente pubblicati . Questo discorso sul metodo però aveva una valenza ben superiore di quella di prefazione e Cartesio in fondo lo sapeva benissimo ; infatti non si tratta di un semplice Discorso sul metodo , ma di un testo ricco di argomenti e di significati : certo vi é anche un’ ampia indagine sul metodo , atteggiamento peraltro diffusissimo all’ epoca ( già Galileo e Bacone avevano fatto qualcosa del genere ) : in Cartesio e in molti altri pensatori del 1600 é radicata la convinzione che il problema fondamentale della ricerca della verità fino ad allora sia stato un fallimento proprio perchè il metodo usato era fallimentare : per arrivare alla verità occorre mettersi a monte della ricerca e chiedersi in che modo effettuarla , con che metodo : senza metodo infatti non sarà mai possibile acquisire verità alcuna . Quest’ idea del fare discorsi sul metodo é tipica del 1600 come pure del 1700 , dove però più che il problema del metodo ci si porrà quello gnoseologico ( indagare sugli strumenti conoscitivi ) . Però in sostanza il problema di fondo rimane sempre quello : bisogna mettersi a monte della ricerca per esaminare gli strumenti con cui condurre la medesima . Kant si porrà la domanda : che cosa posso conoscere ? Tuttavia nel Discorso sul metodo affiorano anche altre tematiche , quali l’ autobiografia spirituale di Cartesio stesso : é tipico del pensiero moderno l’ interessamento per l’ interiorità ; non a caso si é soliti fare iniziare l’ età moderna con Petrarca che si richiamava esplicitamente ad Agostino e alle sue Confessioni per avviare una ricerca interiore . La celebre frase di Agostino che riassume il tutto é : ho cercato due cose , l’ anima e Dio . Anche Cartesio in fondo nel discorso sul metodo svolge un’ indagine interiore , sostenendo che prima ancora che cercare la verità occorra cercare il metodo con cui cercarla : l’ indagine del soggetto diventa la premessa dell’ intera ricerca : prima di avviare la ricerca devo indagare all’ interno della mia personalità per trovarvi un metodo adatto . Sempre a proposito dell’ interiorizzazione é bene ricordare che con la fine del medioevo e con l’ inizio del 1500-1600 si era diffusa sempre più la lettura silenziosa ( interiore ) , l’ interiorizzazione del tempo e dello spazio e altre cose del genere che devono senz’ altro aver dato il loro contributo . E’ quindi evidente che nel Discorso sul metodo ci sia questo atteggiamento autobiografico perchè in fondo per trovare il metodo bisogna esaminare il soggetto ; ciò che al massimo può essere curioso é che ci sia un’ autobiografia come premessa per una raccolta di saggi scientifici . Ritornando al testo del Discorso sul metodo , dopo aver detto che esso ha essenzialmente tre valenze ( 1 indagine sul metodo 2 riassunto della filosofia cartesiana 3 autobiografia spirituale ) , entriamo nel dettaglio : il libro é diviso in 4 parti , di cui la prima e la quarta risultano più semplici per via del loro carattere discorsivo . Cartesio esordisce affermando che la ragione é uguale in tutti gli uomini , ma diverso é l’ uso che gli uomini ne fanno . Con questa affermazione Cartesio pare essere un precursore dell’ illuminismo a tutti gli effetti : gli illuministi diranno infatti che esiste un’ unica ragione uguale sempre e ovunque . Però , se esaminata più approfonditamente , l’ affermazione di Cartesio é diversa da quella degli illuministi : se qualcuno fa più strada nella ricerca della verità é perchè conduce la propria ragione meglio di altri : ecco che emerge l’ importanza di cercare e trovare un metodo per poter condurre la propria ragione perchè senza di esso é destinata a fare davvero poca strada ; come Bacone , anche Cartesio sostiene che alla verità non si arriva per le straordinarie potenzialità intellettive dei singoli , ma per il metodo che si adotta . In presenza di una ragione uguale per tutti é proprio il metodo che ciascuno ha che porta a risultati diversi . Cartesio , in modo quasi timido e titubante , fa notare che se é il metodo ciò che conta e che conduce alla verità , ebbene lui ne ha trovato uno che a suo avviso funziona piuttosto bene e che intende proporre agli uomini : non vuole imporlo , ma solo proporlo , dicendo che a lui é parso efficace , ma ad altri può sembrare inefficace . Egli propone quindi il suo metodo come un qualcosa fatto a misura per lui e che forse non a tutti andrà bene , ma in realtà é ovvio ( tanto più che l’ ha pensato in termini matematici ) che Cartesio volesse dare al suo metodo una valenza universale , pur non volendo imporlo brutalmente . Poi racconta di aver studiato in un collegio di Gesuiti che gli hanno impartito le prime conoscenze : dice che sono state conoscenze interessanti , ma ne sottolinea i limiti : non gli hanno fatto acquisire una conoscenza chiara e sicura , non gli hanno cioè dato evidenze : proprio il concetto di evidenza é basilare in Cartesio e ha due valenze , 1 ) di conoscenza chiara e lineare , 2 ) di conoscenza espressa in termini rigorosi e fondati . Dice di aver appreso molte cose interessanti nella sua gioventù , ma tutte di dubbia utilità , volte solo a stupire il prossimo : quello che non gli hanno dato é stata proprio quella conoscenza sicura che egli brama di ottenere . La filosofia e la matematica hanno grandi limiti agli occhi di Cartesio : la prima gli pare una disciplina che rende chi l’ acquista in grado di sbalordire gli ascoltatori tramite ragionamenti spericolati e sopraffini , mentre la seconda gli sembra essere utile solo per risolvere qualche problema pratico limitato . Ciò che intende fare Cartesio é dare un nuovo senso alla matematica e alla filosofia cercando di integrarle a vicenda : la filosofia infatti si occupa del mondo reale ma ha il limite di non avere un metodo rigoroso con cui indagare , la matematica ha un metodo rigoroso di indagine ma é legata ad un mondo inesistente , puramente ideale , quasi come un gioco di intelligenza su di un mondo che non c’ é . In altre parole , la filosofia si occupa in modo non rigoroso di cose reali , la matematica si occupa in modo rigoroso di cose non reali . Ecco che allora il problema consiste nell’ accostarle e nel riuscire ad integrarle e Cartesio prova a risolvere il problema partendo dai limiti di entrambe . Dal momento che gli studi libreschi compiuti in gioventù l’ hanno deluso , Cartesio decide di acquisire nuove conoscenze mettendosi in viaggio : siamo nel bel mezzo della guerra dei trent’ anni ed egli si arruola con l’ intento di girare il mondo . Ma rimane alquanto deluso anche da questa seconda esperienza e arriva a questa conclusione : il mondo merita di essere girato quel tanto che ci porta a capire che non é il mondo a darci nuove conoscenze . Certo da un paese all’ altro i costumi dei popoli cambiano , ma il vero arricchimento conoscitivo cui Cartesio perviene dopo questo peregrinare per l’ Europa é che non é nel mondo che si può scoprire la verità . Se non é dai libri nè dal mondo che si può arrivare alla verità , come vi si può arrivare ? Cartesio giunge alla conclusione che l’ unico modo per arrivare ad una conoscenza valida ed esauriente é svolgere un’ indagine interiore , scavando dentro se stessi : ecco allora che risulta evidente il richiamo ad Agostino , il quale , come detto , sosteneva di aver ricercato due cose , l’ anima e Dio . Certo gli obiettivi che si prefiggono Cartesio e Agostino sono molto diversi tra loro : Agostino intendeva arrivare a Dio , Cartesio invece vuole approdare ad una fondazione di una metafisica utile per la fondazione di un discorso scientifico : egli parte dall’ io , passa attraverso Dio e arriva al mondo esterno . Durante la guerra dei Trent’ anni , agli inzi dell’ inverno , trova un posto tranquillo dove può ragionare e riflettere in pace : ecco che scava dentro di sè e trova il metodo , che propone senza imporre : non vuole stravolgere le tradizioni in vigore e passare per sovversivo ; si limita a raccontare della sua esperienza personale , di come gli sia capitato di trovare un metodo a suo avviso soddisfacente , dopo aver rinunciato agli insegnamenti scolastici e al peregrinare per il mondo . Nel suo ragionare di impostazione agostiniana scopre le regole di questo suo metodo strepitoso e capisce che bisogna azzerare totalmente il sapere antico , che non é riuscito a portare alla verità , pur senza sovvertire la tradizione . Nel suo metodo cerca di recuperare e assimilare due degli insegnamenti che aveva ricevuto ma che da soli non potevano bastare : la filosofia e la matematica , che devono assolutamente essere integrate , in modo da potersi completare a vicenda . Ecco allora che , come un’ illuminazione , gli balenano per la testa le 4 regole del metodo : 1 ) non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale : apparentemente sono cose ovvie , ma se ci pensiamo bene Cartesio sta dicendo qualcosa di davvero innovativo : bisogna entrare nell’ ottica di accettare solo ciò che ci appare evidente e inconfutabile , senza accettare qualsiasi cosa che possa essere messa anche lontanamente in dubbio : pare qui evidente l’ influenza su Cartesio dello scetticismo antico ; come molti altri autori di quegli anni ( a partire dal Rinascimento ) Cartesio aborre dalla tradizione aristotelica ( tipica soprattutto del medioevo , di un’ epoca buia secondo gli uomini del 1500 ) per riprendere tutto ciò che non é aristotelico . Cartesio dice quindi che tutto ciò che non é evidente va scartato ; ma se non ho certezze , arriverò a comportarmi come faceva Pirrone , il quale , visto che non aveva certezze , si faceva mordere dai cani e investire dai cavalli nella convinzione che , in assenza di certezze , ciò potesse essere un bene . Ecco che Cartesio deve comprendere come ci si debba comportare quando non si hanno certezze , nel tempo in cui non sono ancora state trovate : certo egli non arriva a formulare teorie estremistiche quali quelle propugnate da Pirrone , ma arriva a dare le regole per una morale provvisoria : finchè non vengono trovate le evidenze inconfutabili su cui si deve fondare la vera morale , bisogna attenersi alla morale provvisoria , che esamineremo meglio in seguito . Ora il vero problema é trovare qualcosa di davvero inconfutabile su cui non si possa nutrire dubbio alcuno : basterebbe trovare anche una sola cosa di indubitabile , ma dovrebbe essere indubitabile nel vero senso della parola : in questo modo si avrebbe il primo vero mattone stabile per costruire il nuovo edificio del sapere , stabile e non vacillante , come invece si era rivelato quello degli antichi : l’ edificio del sapere degli antichi agli occhi di Cartesio é fatiscente e altamente instabile e l’ unico modo per approdare ad un sapere certo é abbattere questo edificio per costruirne uno nuovo su fondamenta più sicure ; si tratta ora di trovare il primo mattone davvero solido per dare il via alla costruzione . Proprio nel dubbio consiste l’ atto dell’ abbattimento della costruzione antica che non si é mai rivelata stabile : ma questo dubitare e buttar giù l’ edificio del sapere classico non va visto in termini negativi , anzi , é il punto di partenza per un sapere davvero valido e certo . In prospettiva Cartesio spera di poter costruire una conoscenza valida anche per la morale dell’ uomo , essendo convinto che da una piena conoscenza delle cose possano derivare i comportamenti che occorre assumere . Ma nella fase in cui l’ antico edificio del sapere viene abbattuto e si fanno i progetti per costruire quello nuovo , l’ uomo dove deve andare ad abitare ? Finchè non c’ é il sapere certo , l’ uomo come deve comportarsi ? Ecco allora che Cartesio costruirà una morale provvisoria , ossia una serie di regole non razionali , ma ragionevoli , dettate non dalla ragione ma dal buon senso . In questo mettere in dubbio ogni cosa Cartesio ne salverà una sola , come vedremo meglio più avanti : resta ora da chiarire se davvero egli credesse a ciò che diceva ; in altri termini , davvero Cartesio ha messo in dubbio in cuor suo tutto quanto , compresa l’ esistenza del mondo fisico e la validità delle verità matematiche ? Davvero crede di poter dubitare che 2 + 2 = 4 ? La risposta é insita nella distinzione tra dubbio psicologico ( non so effettivamente se sia così o no ) e dubbio metodico ( sono convinto che le cose stiano così , ma non so dimostrarlo razionalmente , e anzi , provandoci potrei addirittura metterle in dubbio ) . E’ evidente che il dubbio di Cartesio sulle verità matematiche e sul mondo fisico sia di tipo metodico : egli é convinto che il nostro mondo esista e che 2 + 2 = 4 , come d’ altronde lo siamo tutti . Tuttavia Cartesio avanza la curiosissima ipotesi del genio maligno : chi non ci dice che siamo stati creati da un genio malvagio che impiega tutta la sua onnipotenza per ingannarci , per farci credere che 2 + 2 = 4 , per farci prendere per certe cose false ? Senz’ altro é un’ ipotesi non ragionevole , ma molto interessante . Senz’ altro Cartesio non credeva all’ esistenza del genio malvagio ( e arriverà infatti anche a negarla in termini razionali ) , resta ora da capire perchè egli avanzi quest’ ipotesi . Egli lo fa essenzialmente perchè é sua intenzione riformare la conoscenza in termini assolutamente certi e inconfutabili , é come se volesse abituarsi a non prendere nulla per certo , bensì a sottoporlo ad un’ accurata indagine della ragione . E’ solo dubitando di tutto che si arriverà ad una certezza davvero indubitabile ed evidente , sulla quale poggerà un sapere certo ; a proposito di evidenza , Cartesio introduce due concetti per spiegarla : chiarezza e distinzione . Un’ idea é chiara quando é autotrasparente , quando la contemplo e mi risulta subito manifesta in tutti i suoi aspetti : la contemplo e la concepisco perfettamente nella sua globalità , senza che nulla mi resti oscuro . Un’ idea distinta deve essere appunto distinta , separata da tutte le altre idee : si deve manifestare isolata e proprio per questo meglio coglibile . Quindi una cosa é evidente quando é chiara e distinta . Ma quale é lo scopo di questo dubbio metodico ? Per comprendere immaginiamo di avere nelle nostre conoscenze aree bianche ( cose che conosciamo ) , aree grige ( cose che conosciamo imperfettamente ) e aree nere ( cose che non conosciamo ) : con il suo dubitare esasperato Cartesio finisce proprio per arrivare a considerare nere tutte le aree grige : tutto ciò che non é evidente , certo , inconfutabile , va scartato senza esitazione . In altre parole , Cartesio scambia la quantità con la qualità : si priva di un sacco di certezze e di cose ovvie spostando le conoscenze dell’ area grigia all’ area nera , ma questa perdita quantitativa é tutta a favore della qualità : avrò meno certezze , ma quelle che avrò saranno salde e insmontabili ; da qui si deve ripartire per costruire il nuovo sapere . Ritornando alle altre regole del metodo : 2 ) dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente ; 3 ) condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l’un l’altra ; queste due regole le affrontiamo insieme perchè presentano analogie e uno stretto rapporto di parentela : sono di chiara derivazione algebrica e geometrica . Quando siamo di fronte ad un problema complesso il metodo migliore per risolverlo é suddividerlo , smontarlo in passaggi semplici fino ad arrivare a verità semplicissime ma inconfutabili . Una volta fatto questo , avendo cioè smontato il problema in tante piccole parti , lo si deve ricomporre con le tante piccole verità ottenute : é chiaramente lo stesso procedimento di un’ espressione algebrica e ciò cui Cartesio si riferisce sono le parentesi tonde , quadre e graffe che isolano passaggi semplici facenti parte del tutto . I singoli passaggi sono semplici , basta non fare errori di distrazione e nel rimontare il problema e il gioco é fatto : così bisogna agire con i pensieri . 4 ) Fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla : l’ errore classico che si può commettere in un’ espressione algebrica é quello del segno , ossia mettere un segno invece di un altro : ma é un errore non dovuto ad una carenza mentale , bensì ad una dimenticanza , un errore di memoria potremmo dire : quello che Cartesio vuole dire con questa quarta regola é di fare una revisione dopo aver suddiviso il problema in piccole parti e , svolte , averle rimesse insieme per evitare di fare errori di dimenticanza , proprio come in un’ espressione algebrica . Ecco allora che una volta risolto il problema che ci eravamo prefissi di risolvere , non dobbiamo fermarci , bensì dobbiamo controllare di non aver tralasciato nulla e di non aver commesso errori . Con gli esempi di tipo matematico Cartesio non intende dire che il suo metodo consiste nel risolvere ogni problema della vita con i numeri , anche perchè sarebbe assurdo ; vuole invece suggerirci di usare il metodo che usiamo in matematica per modellare qualsiasi altro ragionamento . Che la matematica potesse andare benissimo come strumento di indagine della realtà fisica l’ avevano già sostenuto Galileo e tanti altri scienziati del 1500 – 1600 ; Cartesio condivide in pieno l’ idea di esaminare in termini rigorosi ( quindi matematici ) la realtà fisica , ma fa ancora un passo avanti : dice che il mondo é fatto esclusivamente di quantità e per questo l’ unico mezzo per studiarlo e interpretarlo é la matematica , la forma di ragionamento più efficace e rigorosa di cui disponiamo . Ecco allora che Cartesio porta alle estreme conseguenze ciò che in Galileo era solo un dubbio : le qualità non esistono nella realtà , sono solo modi di manifestarsi delle quantità sui nostri sensi : quelli che noi chiamiamo odori non sono altro che atomi con una loro forma specifica che vanno a urtare i nostri organi sensoriali dandoci le sensazioni qualitative e soggettive degli odori . Ma Cartesio fa un ulteriore passo avanti , dicendo che la matematica va impiegata per esaminare il mondo fisico , ma il metodo matematico deve invece essere usato dappertutto , perfino nei pensieri : Cartesio nota come la matematica abbia portato l’ uomo a risultati apprezzabili più di qualsiasi altra scienza : se la matematica funziona così bene , perchè non estendere l’ intero metodo matematico alla realtà ? E dire metodo matematico non significa dire che si debba usare la matematica ( i numeri ) per spiegare ogni cosa ( sarebbe infatti assurdo provare a dimostrare l’ esistenza di Dio in termini matematici ) , bensì dobbiamo applicare il metodo matematico , come prescrivono la seconda e la terza regola del metodo cartesiano : ogni problema va scomposto in tante parti più semplici e poi ricomposto per poter così arrivare alla verità . Ogni nostro pensiero , secondo Cartesio , per essere condotto in modo preciso deve essere impostato e risolto con il metodo matematico ; ecco allora che nel 1600 verrà usato il metodo matematico perfino in politica e in metafisica . Ma quali sono gli strumenti di cui l’ uomo dispone per avvalersi di questo metodo matematico e , più in generale , della sua ragione ? Cartesio ravvisa essenzialmente tre strumenti : 1 ) intuizione ; 2 ) dimostrazione ; 3 ) sensazione ; l’ intuizione e la dimostrazione sono due metodi di inferenza ( ossia di passaggio da un’ idea all’ altra ; idea per Cartesio é qualsiasi oggetto della mente ) : le inferenze sono immediate ( 2 + 2 = 4 ) o mediate ( una sfilza di numeri complessi = 3 ) ; dire che 2 + 2 = 4 é un’ inferenza ( il segno = mi fa passare immediatamente dall’ idea 2 + 2 a quella 4 ) : non appena accosto le due idee ( 2 + 2 e 4 ) , vedo immediatamente che sono la stessa cosa , senza doverci ragionare sopra : non occorre un vero e proprio ragionamento , ma un colpo d’ occhio mentale . Nelle inferenze mediate ( un’ espressione lunghissima uguale a un numero , per esempio ) c’ é l’ identità tra le due idee , ma non é immediatamente coglibile , occorre un ragionamento e non basta più il colpo d’ occhio mentale ; é solo col ragionamento ( e non con l’ intuito immediato ) che arrivo a scoprire che effettivamente c’ é identità tra le due idee : vi arrivo dopo una lunga serie di passaggi , ossia dopo una dimostrazione . Ma ogni dimostrazione , fa notare Cartesio , deriva da un’ intuizione . In altre parole , il problema che si pone Cartesio é di arrivare a conoscenze evidenti , assolutamente inconfutabili : l’ intuizione a noi dà l’ idea di qualcosa di arazionale , che si può capire anche senza essere dimostrato , una sorta di sesto senso . Ma nel vocabolario filosofico non é questo il significato della parola intuizione : essa deriva da un verbo latino che propriamente significa vedere : intuire quindi é vedere un verità con gli occhi della mente : pensiamo a Platone e al mondo intellegibile delle idee . Abbiamo un’ intuizione quando ci troviamo di fronte a verità immediatamente coglibili ( 2 + 2 = 4 ) : vengono accostate due idee divise dall’ uguale e si coglie subito che sono la stessa cosa , senza ragionare . Però quando abbiamo espressioni complesse non possiamo cogliere immediatamente la verità dell’ idea di destra e di quella di sinistra : occorre una dimostrazione , ma una dimostrazione non é altro che una catena di intuizioni ; ecco allora che lo scopo del metodo é di ottenere la risoluzione delle dimostrazioni in intuizioni , il che equivale a seguire la seconda regola del metodo , quella che dice di dividere i problemi complessi in problemini semplici : devo scomporre il problema finchè non ottengo microproblemi elementari ( potremmo definirli atomi ) intuitivi . Ed é esattamente quello che facciamo per risolvere espressioni algebriche complesse . Allora avrò solo più fasi intuitive che sommate danno la dimostrazione . E va detto che la validità delle singole intuizioni si trasmetterà alla complessiva dimostrazione , purchè si applichi la quarta regola del metodo , quella che prescrive di revisionare quanto fatto : ho diviso il problema in tanti problemini , li ho svolti intuitivamente , poi li ho riuniti per risolvere il problema iniziale : devo però stare attento a non commettere errori . Gli errori non possono nè mai potranno derivarci dall’ intuizione : che 2 + 2 = 4 lo sanno tutti e nessuno la penserebbe diversamente ; come risolvere l’ espressione ( che non é altro che un insieme di operazioni quali 2 + 2 = 4 ) non tutti lo sanno . L’ errore pertanto non nascerà mai nel fare 2 + 2 , ma potrà nascere quando ricostruisco il problema ridotto in tanti problemini svolti correttamente : potrò ad esempio sbagliare e scrivere – 4 anzichè + 4 : ecco allora che l’ errore non é altro che uno svarione della nostra memoria , una dimenticanza . Di per sè , infatti , applicando le regole del metodo e scomponendo tutti i problemi in problemi più semplici , coglibili con l’ intuizione , e evitando gli errori di memoria ( comunemente detti di distrazione ) non si dovrebbe mai sbagliare e si dovrebbero riuscire a risolvere allo stesso modo i problemi più semplici e i più complessi . Ma entra anche in gioco la prima regola del metodo : non dobbiamo prendere nulla per buono , bensì dobbiamo accettare solo ciò che é evidente . Ma che cosa é evidente ? Per noi é evidente ciò che ci é testimoniato dai sensi : il quaderno é blu e così via . Per Cartesio no , egli riprende in un certo senso la tradizione scettica e dice che i sensi possono ingannarci ; per Cartesio l’ evidenza é propria del pensiero razionale e trova nella matematica il suo punto più elevato . Per capire che cosa Cartesio intendesse per fallacia dei sensi , serviamoci dell’ esempio del chiliogono , il poligono di mille lati : una figura geometrica semplice , quale il triangolo , possiamo sia pensarla ( ossia avere in mente la definizione e il concetto : un poligono di tre lati ) sia immaginarlo ( ossia vedere un triangolo disegnato nella nostra testa come lo vediamo su un foglio di carta ) ; però man mano che moltiplichiamo i lati del poligono si apre la forbice pensiero-immaginazione : quando arriverò al chiliogono saprò sempre pensarlo perfettamente ( é un poligono a mille lati : sono chiarissimi i concetti di mille , di poligono e di lati , chiari alla pari che nel triangolo ) , ma non più immaginarlo , ossia costruirlo mentalmente . In altri termini , tutto quanto é presente nel concetto di chiliogono é chiarissimo per noi ( ci é chiaro allo stesso modo in cui é chiaro a Dio ) e ci é anche chiarissima la distinzione di questo poligono di mille lati rispetto a uno di 999 lati ; ma l’ immagine , il disegno mentale che abbiamo di un chiliogono é differente da quella di un poligono a 999 lati ? Certamente no ; anzi , addirittura se li vedessimo raffigurati su un muro non coglieremmo distinzioni . Il chiliogono immaginato non é nè chiaro nè evidente , mentre quello pensato é sia chiaro sia evidente : ecco allora che i sensi ci ingannano ( non cogliamo la differenza ” fisica ” tra chiliogono e poligono a 999 lati ) e l’ evidenza é solo della ragione ( saprò sempre concettualmente che cosa é un chiliogono ) . Una volta determinati questi precetti , Cartesio li applica alla matematica : la geometria é asservita all’ immaginazione , egli dice , fondata non sul calcolo e sull’ astrazione , ma sull’ empirico , tant’ é che a volte per dimostrare che il raggio é metà del diametro lo si dimostra piegando in due il foglio di carta sul quale é stata disegnata la circonferenza ; per Cartesio in geometria si deve impiegare l’ algebra , ossia le quantità fisiche vanno unite a quelle astratte ; ecco allora l’ importanza di Cartesio come matematico : gli dobbiamo infatti l’ invenzione del piano cartesiano , che non é altro che un’ applicazione delle sue idee , ossia di unire fisico ad astratto . Ma Cartesio vuole applicare la matematica , o meglio , il metodo matematico , che gli pare essere il più efficace , sull’ intera realtà . D’ altronde egli porta i ragionamenti di Galileo alle estreme conseguenze , arrivando a dire che il mondo fisico é fatto in termini meccanicistici , in termini di estensione e movimento : ecco che se il mondo é fatto di quantità , allora la matematica e il suo metodo andranno benissimo per esaminarlo ! E’ ovvio che se il mondo fisico va visto come un insieme di quantità ( le qualità sono solo modi di manifestarsi soggettivi delle quantità ) sarà pienamente risolvibile con formule matematiche . Tutto questo ha poi un’ importante conseguenza : se si può indagare il mondo fisico con la matematica , allora il mondo fisico é potenzialmente evidente proprio perchè la matematica non sbaglia mai ( che 2 + 2 = 4 é vero sempre e neanche Dio potrebbe cambiarlo ) . Cartesio arriverà comunque ad ammettere l’ esistenza di un mondo spirituale , nel quale non rientrano le quantità : diventa chiaramente assurdo usare la matematica in un mondo spirituale e mettersi , per dire , a misurare e a pesare le anime ; tuttavia , pur non potendosi usare la matematica , si può comunque usare il metodo matematico . Cartesio col metodo matematico arriverà a mettere il primo mattone inconfutabile per costruire l’ edificio del sapere : scomponendo i problemi , non prendendo nulla per certo , facendo revisioni egli arriverà alla certezza di esistere come entità pensante ( res cogitans ) ; da qui , sempre muovendosi su basi matematiche , egli arriva ad alcune intuizioni : Dio e il mondo fisico ; nel dire che penso , dunque esisto , evidentemente non si possono usare numeri o formule matematiche , tuttavia il metodo matematico sì e Cartesio lo usa : prende per buono solo ciò che é evidente ( di esistere come soggetto pensante ) . In altre parole , Galileo aveva detto che si possono indagare in termini rigorosi ( matematici ) solo le quantità ; Cartesio dice che esistono solo le quantità e che comunque il metodo matematico va usato proprio perchè é il migliore in ambiti anche non propriamente fisici ( la spiritualità o la metafisica , ad esempio ) . Cartesio é convinto che ci si debba comportare in modo conforme a come é il mondo , ossia l’ etica deve derivare dalla conoscenza , in altre parole essa é l’ ultima delle scienze perchè il come comportarsi ci deve derivare da come é fatto il mondo . Tuttavia , finchè il nuovo edificio del sapere fondato sull’ evidenza non é ancora stato costruito , dove si deve andare ad abitare ? Come bisogna comportarsi finchè non si sa con certezza come é fatto il mondo ? Sì , perchè se sul piano teoretico l’ etica é l’ ultima delle scienze , sul piano concreto essa é la prima . Mentre non si sa come sia il mondo e quindi come ci si debba comportare seguendo la ragione , cosa si deve fare ? Si era posto lo stesso problema lo scettico Pirrone , il quale , non sapendo che cosa fosse bene e che cosa male si faceva mordere dai cani e investire dai carri ; Cartesio certamente non intraprende la strada di Pirrone , bensì dà delle regole per una morale provvisoria , dettata non dalla ragione , ma dal buon senso : finchè la ragione non mi dice come devo comportarmi , devo attenermi a queste regole , anche perchè sarebbe assurdo fare come Pirrone o addirittura non comportarsi proprio ( il che , tra l’ altro , é impossibile perchè se anche decido di non comportarmi e mi chiudo in casa , mi sto già comportando in qualche modo ) ; queste regole di morale provvisoria che Cartesio dà consistono essenzialmente nel non stravolgere la tradizione , attenersi agli usi , ai costumi e alla religione in vigore nel proprio paese , evitando gli estremismi e optando per l’ aurea via di mezzo ; ecco che qua pare evidente l’ influsso di Aristotele , che predicava la mesothes ( la moderazione ) ; se devo scegliere tra bianco e nero , Cartesio consiglia di scegliere grigio perchè così , se anche il giusto sarà il nero , non avrò mai sbagliato del tutto . Ma in realtà c’ é una differenza tra Aristotele e Cartesio : per Aristotele la mesothes era il frutto di un accurato esame della ragione , per Cartesio la via di mezzo é solo un precetto del buon senso valido fin tanto che la ragione non mi insegnerà come é fatto il mondo e da lì potrò dedurre come comportarmi : non é la ragione a dirmi di evitare gli estremismi , ma il buon senso ; magari poi , invece , la ragione potrà insegnare diversamente . Ecco che emerge la personalità mite e pacata di Cartesio , un uomo che voleva evitare di andare contro chicchesia e che prescriveva di seguire la tradizione per non creare disordini ; in un certo senso , sempre restando nella metafora dell’ edificio del sapere fondato sull’ evidenza , le regole della morale provvisoria sono come case provvisorie ( containers ) in cui abitare finchè la ragione non mi dia il palazzo del sapere evidente . Se la prima regola della morale provvisoria prescrive di abbracciare posizioni moderate , la seconda prescrive invece di portare fino in fondo ciò che si é intrapreso senza demordere , una sorta di autocoerenza : non dobbiamo interrompere ciò che abbiamo iniziato per fare qualcos’ altro , ma dobbiamo essere coerenti con noi stessi e assumerci le nostre responsabilità . La metafora usata da Cartesio per esprimere il concetto é quella della foresta : immaginiamoci di esserci persi in una foresta e di non avere certezze su dove sia la via d’ uscita : l’unica cosa da fare é scegliere una strada seguendo gli indizi e l’ istinto e proseguire su quella strada finchè non si arriva all’ uscita della foresta ; l’ errore consiste proprio nel cambiare strada di continuo senza mai portare a termine quella iniziata . Ecco che prima che il nuovo palazzo del sapere venga costruito , siamo come in un bosco in cui non abbiamo certezze e la cosa migliore da fare é scegliere una strada e non abbandonarla fino alla fine . La terza regola della morale provvisoria presenta molte analogie con le filosofie ellenistiche : prescrive di cercare di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo ; in sostanza , prescrive di evitare lo scontro con la realtà : ciò che da noi dipende é solo la nostra interiorità ; non c’ é nulla di cui siamo interamente padroni se non dei nostri pensieri , dice Cartesio : non potrò mai cambiare il mondo , ma potrò cambiare il mio atteggiamento nei confronti del mondo : potrò , ad esempio , cambiare i miei desideri scegliendo di mantenere solo quelli realizzabili . In altre parole occorre rendersi conto che il mondo va così e non lo si può cambiare , però possiamo cambiare il nostro rapporto con lui , adeguandoci e non scontrandoci con esso : gli Stoici usavano una metafora efficace a riguardo del mondo e dell’ uomo : l’ uomo é un cane legato al carro ( che é il mondo ) : l’ uomo intelligente segue il carro e non oppone resistenza , l’ uomo sciocco oppone resistenza e tira in direzione opposta rispetto al carro , con il risultato che viene portato dal carro come tutti gli altri cani e soffre ancora di più . In altre parole la terza regola della morale provvisoria può essere sintetizzata nelle parole dello stoico Epitteto : Non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena . La quarta parte del discorso sul metodo é dedicata alle questioni metafisiche : Cartesio parte dall’ io , passa per Dio e arriva al mondo esterno ; in altre parole per Cartesio le cose più certe , in ordine dalla più certa alla meno certa , sono : l’ esistenza di lui stesso come res cogitans , l’ esistenza di Dio e quella del mondo fisico . Il punto di partenza su cui si fonda la metafisica cartesiana , di netta matrice matematica , é il dubbio : non a caso si può accostare l’ andamento del pensiero di Cartesio a quello di Agostino , anche lui attentissimo a non prendere nulla per buono ; Agostino era riuscito ad uscire dal dubbio scettico in questo modo : é vero che posso dubitare di ogni cosa , ma devo per forza ammettere di esistere come soggetto dubitante ; da questa unica verità Agostino entrava in contatto con la Verità divina e il gioco era fatto . Cartesio agisce in modo simile : il suo obiettivo é abbattere l’ edificio traballante del sapere per edificarne uno solido : tutto ciò di cui non abbiamo certezza assoluta dobbiamo scartarlo allo stesso modo di ciò di cui non abbiamo neanche una vaga conoscenza ; anche cose che siamo abituati a prendere per buone ma di cui non abbiamo certezza vanno eliminate alla pari di quelle di cui non sappiamo nulla . Ecco che allora si mette tutto in dubbio , ma é un dubbio strano , quasi paradossale : finchè Cartesio , sulle orme degli Scettici , mette in dubbio le cose testimoniate dai sensi si può essere d’ accordo ; Cartesio fa notare come i sensi ci ingannino al massimo , più che in ogni altra occasione , nel sonno quando ci pare di star facendo qualcosa anche se in realtà stiamo dormendo o quando ci troviamo in situazioni assurde e paradossali . Tuttavia Cartesio fa notare che anche nei sogni , nei momenti in cui i sensi ci ingannano di più , anche se ci troviamo in mondi inesistenti e in situazioni fantastiche le verità matematiche rimangono sempre quelle : potrò trovarmi in un’ isola inesistente su un pianeta inesistente , ma che 2 + 2 = 4 é vero anche nei sogni ! Questo dimostra come l’ evidenza dell’ intelletto sia maggiore di quella dei sensi ( vedi l’ esempio del chiliogono ) ; tuttavia Cartesio non si ferma qui , ed ecco che arriviamo all’ assurdo ; chi mi dice di non essere stato creato da un genio malvagio che mi ha costruito tale da ingannarmi anche su cose che credo certe ? Ossia , chi non mi dice che questo genio malvagio non mi abbia creato convinto che 2 + 2 = 4 , ma in realtà 2 + 2 = 5 ? Chiaramente é un’ ipotesi molto tirata , oseremmo dire ridicola , alla quale ovviamente Cartesio non credeva , ma che comunque , sul piano filosofico – concettuale , non può essere esclusa ! Certo , sul piano della certezza empirica siamo tutti convinti che non sia così , ma sul piano concettuale l’ ipotesi del genio cattivo non può essere esclusa a priori . Mettere in dubbio perfino le certezze matematiche significa che , una volta trovato qualcosa di indubitabile , l’ edificio del sapere poggerà su fondamenta davvero stabili ; in altre parole , Cartesio vuole evitare che nel suo edificio del sapere rimangano ” tarli ” che possano in un secondo tempo far vacillare l’ edificio e dubita davvero di tutto . Sul fatto che i sensi possano ingannarci Cartesio poteva anche dubitare davvero , ma sul fatto che 2 + 2 = 4 é totalmente da escludere che egli dubitasse : il primo é un dubbio psicologico , il secondo metodico ; in altre parole , sul fatto che i sensi ingannino egli dubita , sul fatto che la matematica inganni egli vuole dubitare . Tuttavia , quando arriverà al nuovo edificio del sapere Cartesio riprenderà le cose su cui aveva dubitato e alcune saranno dimostrate valide altre erronee ; in altri termini col suo metodo Cartesio tutto ciò che non é chiaro lo mette in zone nere ; quando arriva ad una certezza bianca , riprende il tutto e certe cose le fa diventare bianche , altre le lascia nere . E Cartesio arriva ad una certezza davvero inconfutabile : se dubito vuol dire che penso e se penso vuol dire che esisto : cogito , ergo sum . Tuttavia non mancarono le critiche mosse a questa verità apparentemente inconfutabile ed é bene ricordarne soprattutto 3 : la prima critica mossa a Cartesio é di plagio . Lo si accusava in sostanza di non aver scoperto nulla di nuovo con il cogito ergo sum , bensì di aver solamente ripetuto ciò che già aveva detto parecchi anni prima Agostino . Cartesio non tardò a rispondere a questa critica dicendo che era vero che in fin dei conti diceva lo stesso di Agostino , ma che lui c’ era arrivato per conto suo , senza neppure leggere Agostino ! Anzi , gli faceva piacere che qualcun’ altro fosse arrivato alle sue stesse conclusioni perchè ciò significava che il suo era un ragionamento lineare cui tutti gli uomini potevano pervenire . Resta però da chiarire se Cartesio fosse sincero quando diceva di non aver plagiato Agostino , anzi , di non averlo neppure mai letto . Gli studiosi di oggi sono propensi essenzialmente per una via di mezzo : Cartesio era solito frequentare ambienti di frati agostiniani e quindi quelle teorie dovevano ronzargli nelle orecchie , doveva già averle sentite dire da qualcuno ed ecco che finì per assorbirle e farle sue inconsciamente , pur senza aver mai letto Agostino . D’ altronde il punto d’ arrivo di Cartesio e di Agostino é simile , come simile é il metodo , ma diverso é l’ obiettivo : Agostino intende fondare una teologia salda , Cartesio vuole fondare una metafisica meccanicistica . La seconda critica mossa a Cartesio era di aver derivato il cogito ergo sum da un sillogismo , ma di averlo espresso , paradossalmente , in forma non sillogistica . Ecco che , gli si faceva notare , se il sillogismo é espresso per intero regge , ma se vengono occultati dei passaggi ( come si accusava Cartesio di aver fatto ) non regge più ! In realtà il sillogismo completo doveva essere : tutto ciò che pensa esiste ; io penso ; dunque esisto . In altre parole , Cartesio prende per certo senza dimostrare che il fatto di pensare implichi una esistenza ; Cartesio ha tolto dal cogito ergo sum la premessa maggiore ( tutto ciò che pensa esiste ) e così il cogito ergo sum , la prima pietra dell’ evidenza per costruire il nuovo edificio del sapere , si rivelerebbe instabile . Ma Cartesio fa notare che il rapporto tra pensare ed esistere é immediatamente intuibile , non deve essere mediato da ragionamenti ( sillogismi ) ; é immediato e subitamente coglibile al pari della verità che 2 + 2 = 4 . Nessuno oserebbe pensare che 2 + 2 non é uguale a 4 così come nessuno oserebbe pensare che ciò che pensa non esiste . La terza critica mossa a Cartesio é che in realtà lui presenta il cogito ergo sum come punto di partenza per la conoscenza certa , ma in realtà a fondamento della conoscenza vanno posti i principi logici ( identità : A = A ; contraddizione A non é = non A ; del terzo escluso A o é A o non é A ) . Cartesio risponde che tutto dipende dai punti di vista ; i principi logici su cui dovrebbe fondarsi la conoscenza stando agli avversari di Cartesio in un certo senso fondano la conoscenza perchè mi dicono che cosa una cosa é e che cosa non é , ma non mi garantiscono l’ esistenza della cosa ! In altre parole , i principi della logica vanno benissimo per ragionare e indagare , ma per essere certo degli oggetti su cui indagare occorre il cogito ergo sum . Sarebbe infatti assurdo indagare con i principi logici qualcosa di cui non si é nemmeno certi se esista o meno ! Prima bisogna appurarsi se esista ( con il cogito ergo sum ) e poi bisogna indagare ( con la logica ) . Dopo il cogito ergo sum , Cartesio fa un passaggio di enorme importanza per la metafisica , ma di dubbia stabilità : é uno dei passi più contestati e meno solidi di Cartesio . Una volta detto che esisto con il cogito , resta da chiarire che cosa sono ; dopo il quod est del cogito ergo sum bisogna passare al quid est ; il fatto di pensare ha portato Cartesio all’ evidente certezza di esistere come cosa pensante ( res cogitans ) : da qui Cartesio deduce di esistere come pensiero , ossia come anima . Però Cartesio non ha del tutto ragione : perchè dire che esisto per il fatto di pensare non significa che io esista solo come entità pensante . Sicuramente come entità pensante esisterò , ma magari non solo come entità pensante : magari avrò un corpo , un’ esistenza materiale e non solo spirituale come anima . L’ errore di Cartesio in altri termini sta nel passare da una cosa che pensa a una cosa pensante , che come unica caratteristica ha il pensare . Dell’ esistenza del mio corpo non ho certezza ( il cogito ergo sum mi dimostra l’esistenza intellettuale ) , ma non ho neanche certezza dell’ inesistenza del corpo per dire che sono un pensiero senza corpo ! Perchè mai devo essere un pensiero invece che un essere materiale che pensa ? Questa é l’ aporia cartesiana , il non prendere nulla per certo , neanche l’ esistenza del proprio corpo , per poi finire col prendere per certa l’ inesistenza del proprio corpo ! Sempre nel 1600 Locke da buon cristiano riprenderà le tesi di Cartesio ma non accetterà l’ esistenza come pensiero , bensì dirà di avere il pensiero , ma di non essere pensiero ; egli dice di avere la convinzione di possedere un corpo perchè così dice il cristianesimo . Cartesio non sa ancora dell’ esistenza di un mondo fisico ( non l’ ha ancora dimostrato ) , ma distingue tra res cogitans ( la cosa pensante ) e res extensa ( la sostanza estesa ) ; so di esistere come sostanza pensante ( non so nulla del mio corpo ) , ma ho concepito separatamente la sostanza pensante . Non so ancora se esista una sostanza estesa , ma se arriverò a dimostrare che essa esiste , avendo potuto concepire la sostanza pensante perfettamente diversa e distinta da quella estesa , avrò un mondo fatto di due realtà nettamente distinte dove la caratteristica della res cogitans sarà il pensiero , quella della res extensa l’ estensione . In altre parole , Cartesio sa di esistere come res cogitans ( come pensiero ) , non é certo che la res extensa esista , ma se esiste sarà totalmente purificata dalla spiritualità così come la res cogitans é totalmente altra cosa dalla res extensa . Tutto questo discorso metafisico e spirituale porta Cartesio ad una metafisica meccanicistica , che vuole la materia totalmente diversa dallo spirito . In altri termini , Cartesio con la questione della res cogitans dà una fondazione a priori del meccanicismo , elimina cioè dal mondo fisico tutto ciò che non risulta riconducibile ad aspetti quantitativi : nel mondo quantitativo tutto é ridotto ad estensione ( la parte occupata dalla materia ) e movimento ( gli spostamenti nello spazio dell’ estensione ) . La fondazione meccanicistica di Cartesio , dicevamo , é a priori perchè afferma il carattere meccanicistico proprio perchè opposto alla realtà spirituale . La res cogitans é nettamente diversa dalla res extensa e di conseguenza il mondo materiale ( che é caratterizzato dalla materia , la res extensa ) sarà privo di spiritualità . La grande novità introdotta da Cartesio e che va ben al di là della tradizione aristotelica , é che Aristotele non aveva spaccato in due il mondo come invece fa Cartesio ; per lo Stagirita tutto ( tranne Dio , l’ anima e le intelligenze celesti ) é fatto di sinoli ( unione di materia e forma ) ; dire che l’ intero mondo é fatto di sinoli non significa affatto dire che vi sono due sostanze , una materiale e una immateriale accoppiate : anzi , la separazione di materia e forma in un sinolo é solamente concettuale e anche un ente semplicissimo , quale una pietra , é sinolo di materia e forma . In altre parole sinolo é una sostanza che allo stesso tempo é materia e forma . Non a caso un essere animato é tale nella misura in cui é sinolo di materia e forma . Per Platone invece sì che vi sono due sostanze diverse che si accoppiano momentaneamente e questo lo porta inevitabilmente all’ immortalità dell’ anima , che invece in Aristotele può difficilmente essere giustificata : l’ anima per Platone é qualcosa di radicalmente diverso dal corpo e mentre per Aristotele una volta che il corpo muore anche l’ anima non può che perire perchè si rompe il sinolo corpo , per Platone invece l’ anima , una volta morto il corpo , vive meglio da sola . Sotto questo aspetto Cartesio é decisamente platonizzante : per lui in primo luogo il mondo é costituito da realtà animate e realtà inanimate o , per essere più netti , di realtà di pura materia e di realtà di puro spirito ; ecco quindi che Cartesio si distacca decisamente dalle posizioni monistiche rinascimentali di Giordano Bruno , che vedeva ogni ente come sostanza fatta di materia e forma ( che finivano per identificarsi ) . Il mondo di Cartesio é fortemente dualistico : da un lato troviamo la res extensa ( la materia ) , pura , senza forma , senza spirito , movimentata ed estesa e dall’ altro lato troviamo la res cogitans , che é l’ esatto contrario della res extensa : é senza estensione ed é puramente spirituale . Cartesio , sulle orme di Platone , dice che nell’ uomo queste due realtà totalmente diverse sono momentaneamente accoppiate . Dire che sono totalmente diverse e accoppiate solo momentaneamente implica l’ immortalità dell’ anima , cosa che Cartesio , da buon cristiano , sosterrà strenuamente . Quella di Cartesio si potrebbe definire metafisica meccanicistica ma non materialistica , visto che accanto alla materia c’é anche la spiritualità . Ma la cosa strana é che il fondamento di questa metafisica é a priori : dubito , penso e quindi esisto come res cogitans ; ma Cartesio fa un passo avanti : dal fatto che esisto e sono una cosa che pensa ( ho intuito di esistere proprio dal fatto di pensare ) Cartesio arriva a concludere di essere sostanza pensante , sostanza la cui caratteristica fondamentale é il pensiero : detto in altri termini , Cartesio non si limita a dire che abbiamo il pensiero , bensì dice che siamo soltanto pensiero . Secondo Cartesio dal fatto che possiamo cogliere in modo evidente ( chiaro e distinto ) la nostra esistenza intellettuale , deriva inevitabilmente che siamo sostanze la cui essenza é il pensiero . Abbiamo anche parlato di res extensa contrapposta a res cogitans , ma in realtà Cartesio non é ancora arrivato a dimostrare l’ esistenza della res extensa , del mondo materiale : ha solo dimostrato ( o meglio intuito immediatamente ) che intellettualmente esistiamo ( cogito ergo sum ) . Ma quando Cartesio dice che esistiamo come pensiero che cosa intende con la parola ” pensiero ” ? Egli non intende soltanto l’ attività intellettuale ( matematica , geometria , ecc . ) ma anche quella mentale ( percepire i colori , ad esempio ) . Questo permette di capire come il suo ragionamento ( apparentemente assurdo ) in fondo sia sensato . Cartesio é certo dell’ esistenza dell’ io ma anche delle idee che percepisco ( dove idea sta per ogni qualsivoglia contenuto della mente : tanto pensare un triangolo quanto percepire il colore blu ) proprio perchè vengono percepite dal mio intelletto il quale , a differenza dei sensi , si fa ingannare ben più difficilmente ; ma il problema che si pone Cartesio é se dietro alle idee che cogliamo esistano anche le cose reali : se vedo un libro blu e percepisco il colore blu nella mia mente sono certo che il blu esista , ma non sono affatto certo che esista il libro ! Dicendo di essere res cogitans Cartesio arriva a dire che tutto ciò che percepisco esiste ma esiste solo come contenuto del mio pensiero , non é detto che esista anche nella realtà . L’ esistenza delle idee delle cose materiali é certa ; quel che non é certa é l’ esistenza delle cose materiali di cui percepiamo le idee . Quindi Cartesio non sa ancora se il mondo materiale esista ( le idee delle cose materiali però esistono ) ; in qualità di res cogitans egli é convinto della propria esistenza ( come soggetto pensante ) ; non sa se il mondo esiste ma se esiste , comunque , esisterà per forza come res extensa perchè essa é l’ opposto della res cogitans ; Cartesio ha già dimostrato che il pensiero , lo spirito é totalmente depurato dalla materia e quindi a sua volta la materia sarà totalmente depurata dallo spirito : distinguendo una cosa resta distinta anche l’ altra . Cartesio ha dimostrato l’ esistenza del pensiero nella sua purezza , non sa se la materia esista , ma se esiste egli é convinto che vada concepita come estensione e movimento , assolutamente libera e indipendente dal pensiero . In realtà Cartesio sembra aver intrapreso un grossolano circolo vizioso : decide di fondare la sua argomentazione sull’ evidenza , vede che funziona e decide di prendere sempre come criterio di verità solo l’ evidenza ( chiarezza + distinzione ) : sceglie di usarla , dice che la sua dimostrazione é andata bene con l’ evidenza e da ora in avanti userà quella ; ma in realtà é andata bene perchè l’ ha scelta di proposito lui ! Naturalmente non mancarono le obiezioni e lui fece notare comunque che in realtà non c’ é bisogno di concepire astrattamente il concetto di evidenza per cogliere la verità del fatto di esistere : é immediata e intuitiva : penso e per forza devo esistere ; sono certo di pensare e quindi di esistere anche senza far appello all’ evidenza . Però ciò che ha portato Cartesio a prendere per buona la verità ” penso dunque esisto ” é stata proprio l’ evidenza di questa verità , chiara e distinta ; e allora Cartesio da lì in poi ha scelto di affidarsi all’ evidenza : prenderà per buone solo le cose chiare ed evidenti . Il percorso della metafisica cartesiana é antitetico rispetto a quello dell’ empirismo tradizionale : si parte dall’ io , si arriva a Dio e poi si torna al mondo sensibile . Ne consegue che Cartesio per dimostrare l’ esistenza di Dio non potrà far perno sul mondo sensibile ( come invece faceva , ad esempio , Tommaso con le sue 5 prove ) visto che non ne ha ancora dimostrata l’ esistenza , bensì dovrà dimostrare l’ esistenza di Dio in base all’ io . Tuttavia Cartesio può anche permettersi di usare le idee delle cose sensibili : non sa se il mondo esista , però le idee del mondo presenti nella sua testa devono per forza esistere come contenuto del suo pensiero ; nel 1900 il filosofo Edmund Husserl userà i concetti di noesis e noema : noesis é l’ azione del pensiero noema é l’ oggetto del pensiero ; penso a un triangolo : l’ atto di pensare é noesis , il triangolo pensato é noema . Ebbene Cartesio si può avvalere per dimostrare l’ esistenza di Dio sia della noesis sia dei noemata , entrambi presenti nel pensiero di me che esisto appunto come pensiero ( res cogitans ) . La dimostrazione Cartesiana é così riassumibile : se dubito non sono perfetto perchè ciò che é perfetto non può dubitare ; ma non posso concepire il concetto di imperfezione se non in base a quello di perfezione ; se sono imperfetto e posseggo l’ idea della perfezione , essa deve derivare da qualcosa che sta al di fuori di me che sono imperfetto : Dio . E’ il dubbio del cogito ergo sum che mi mette di fronte alla coscienza della mia imperfezione : se dubito é ovvio che non sono perfetto : ma per concepire l’ imperfezione bisogna conoscere anche la perfezione : come farei infatti a definire imperfetta una cosa senza sapere che cosa invece é perfetto ? In altre parole l’ effetto non può essere più grande della causa : io che sono imperfetto non posso causare a me stesso come effetto il concetto di perfezione : ci deve essere un ente che non sono io e che é perfetto che mi dia l’ idea di perfezione . Questa dimostrazione sembra molto astratta , ma in realtà c’ é un nucleo esistenziale : l’ uomo non soffre solo nel momento in cui muore ( come fanno gli animali ) , ma per tutta la sua vita perchè non fa che pensare alla morte ; l’ uomo é in altri termini costretto e capace a soffrire molto di più rispetto agli altri animali : non ha solo la paura , ma anche l’ angoscia . In realtà queste considerazioni le farà poi Pascal , ma tuttavia in Cartesio sono sullo sfondo : riflettiamo sulla nostra finitezza e sulla nostra imperfezione e questo ci fa soffrire ; questa nostra finitezza che sentiamo é una sorta di prova dell’ esistenza di Dio , anzi , più che una prova un argomento , fondato sul fatto stesso di sentire la nostra imperfezione ; sentire la propria imperfezione vuol dire avere l’ idea di perfezione ( Dio ) ed é segno del destino ultraterreno dell’ uomo : l’ uomo non é realizzato nel corpo , che é imperfetto e finito , ma nell’ anima , che é infinita e immortale . Qualcosa di simile era già presente a suo tempo in Platone : l’ uomo non é sapiente nè ignorante , ma si trova in uno stato di medietà che lo colloca a metà strada tra animali e dèi . In realtà ci fu qualcuno che fece notare che l’ argomentazione usata da Cartesio per dimostrare l’ esistenza di Dio non funzionava : noi finiti abbiamo l’ idea di infinito quindi l’ infinito ( Dio ) deve averci dato quest’ idea . Ma tra infinito e idea di infinito c’ é una bella differenza , così come c’ é una bella differenza tra qualsiasi cosa e l’ idea stessa di quella cosa : un libro ha un tasso di essere ben superiore rispetto all’ idea di libro . Si obiettò a Cartesio che in realtà lui confondeva l’ idea di infinito con un’ idea infinita : l’ infinito per definizione é infinito , ma l’ idea di infinito no , proprio perchè é un’ idea , un segno finito . E’ un grave errore parlare dell’ idea di infinito come dell’ infinito stesso . Cartesio fece notare che effettivamente tra idee e cose c’ é una bella differenza ontologica : le idee hanno una x in meno di essere rispetto alle cose di cui sono idee proprio perchè le cose hanno essenza ed esistenza reale , le idee hanno essenza ma non esistenza reale . Ma nel caso dell’ infinito tutto cambia proprio perchè siamo nell’ infinito : Cartesio intendeva dire che é vero che il cavallo ontologicamente pesa di più dell’ idea di cavallo , ma é altrettanto vero che l’ idea di infinito ( pur essendo un’ idea ) ontologicamente pesa di più del cavallo ( e di qualsiasi altra cosa finita ) . Ma in realtà bisogna ammettere che Cartesio non aveva ragione perchè una cosa é l’ infinito , un’ altra l’ idea di infinito : l’ infinito é effettivamente infinito , l’ idea di infinito é finita proprio perchè é un segno , un’ idea . Ma Cartesio non si limita a fornire una sola prova dell’ esistenza di Dio , bensì ne fornisce tre . La seconda prova presenta analogie con la prima poichè si fonda anch’ essa sull’ idea di perfezione che abbiamo noi che siamo imperfetti . Cartesio si domanda quale é la causa , ossia che cosa crea noi che non siamo perfetti . Le possibilità sono due : o ci creiamo da soli , siamo cioè causa di noi stessi , oppure siamo creati da qualcosa a noi esterno . Ma ciò che porta Cartesio a dire che non possiamo esserci creati da noi , bensì dobbiamo essere stati creati da qualcosa di esterno é che se fossimo noi stessi la causa di noi stessi , ci saremmo creati perfetti , ma perfetti non siamo perchè dubitiamo , quindi ci deve aver creato qualcosa a noi esterno : Dio . E’ evidente che nessuno , potendosi creare e avendo l’ idea di perfezione insita nella sua testa , sarebbe così stupido da crearsi imperfetto , da non incarnare l’ idea di perfezione nel suo corpo ed é quindi ovvio che non siamo noi stessi a crearci . La differenza tra le due prove dell’ esistenza di Dio finora citate é che la prima spiega la causa dell’ idea di perfezione , la seconda la causa della nostra esistenza : in entrambi i casi l’ artefice é Dio . In tutti e due i casi comunque si parte da effetti per risalire a cause ( l’ idea di perfezione chi l’ ha causata in noi ? la nostra esistenza chi l’ ha causata ? ) ; sono tutte e due prove a posteriori , che partono dall’ esistenza di qualcosa per risalire all’ esistenza di qualcos’ altro ; nessuna delle due parte dall’ esistenza del mondo ( anche perchè Cartesio non sa ancora se esso esista ) , bensì partono dall’ io , che é di evidente esistenza ( cogito , ergo sum ) . Tuttavia si può accennare al fatto che non mancarono anche in questo caso le obiezioni mosse a Cartesio : gli si faceva notare che lui diceva che non ci siamo creati altrimenti ci saremmo attribuiti perfezione assoluta ( ma non l’ abbiamo : il fatto di dubitare implica imperfezione ) ; ma gli avversari dicevano : ” e perchè non potrebbe essere che abbiamo tanta potenza da crearci , ma non abbastanza da darci la perfezione ? ” : in altre parole si sosteneva che noi potremmo avere la potenza di crearci ma non di darci la perfezione . Ma Cartesio ribatteva ( e a ragion veduta ) che se uno avesse così tanta potenza da crearsi , ossia di passare dal nulla all’ esistenza , allora avrebbe anche la potenza per darsi la perfezione : ci vuole ben più potenza per crearsi che non per darsi la perfezione ! Il passaggio dal nulla all’ essere é di gran lunga più difficile e richiede molta più potenza rispetto a quello dall’ imperfezione alla perfezione : se son così potente da darmi esistenza , non mi mancherà di sicuro la potenza per darmi la perfezione . L’ unico essere che si dà esistenza e perfezione é proprio Dio , spiega Cartesio . La terza prova dell’ esistenza di Dio fornita da Cartesio é una rivisitazione della prova ontologica di Anselmo da Aosta : l’ idea di perfezione deve per forza avere esistenza ; l’ essere perfettissimo , per essere tale , non può mancare di esistenza , diceva Anselmo . Cartesio però riproponeva la prova anselmiana in termini matematizzati : l’ esistenza di Dio deriva dalla sua essenza come le proprietà del triangolo derivano dalla definizione di triangolo . Si può notare come tutte e tre le prove cartesiane dell’ esistenza di Dio partono dall’ idea di perfezione insita nella nostra mente ; dall’ idea di perfezione poi si risale a una causa perfetta : nel momento in cui si dimostra l’ esistenza di Dio si dimostra anche la sua perfezione : dico che sono imperfetto e ho l’ idea di perfezione ; deve avermela trasmessa qualcosa di perfetto e ci deve quindi essere qualcosa di perfetto : Dio esiste ed é perfetto . Con questa asserzione Cartesio si mantiene , tra l’ altro , fedele alla tradizione cristiana che vuole Dio perfetto ; anche a noi pare ovvio che la divinità , per definizione , sia perfetta , ma in realtà nell’ antichità non era così : gli dèi non erano affatto perfetti ( già solo il fatto di essere non uno ma tanti implica imperfezione ) : tuttavia il Dio che intende Cartesio é qualcosa di ben distinto da quello cristiano : può essere maggiormente accostato al ” motore immobile ” aristotelico , garante dell’ ordine e nulla più , che non al Dio cristiano , con cui l’ uomo può parlare e che deve essere pregato . Tra l’ altro dimostrare che Dio esiste ed é perfetto consente a Cartesio di tornare sui suoi passi e dimostrare sbagliata l’ ipotesi del genio maligno : se Dio é perfetto é buono e se é buono non usa la sua onnipotenza per ingannarmi e di conseguenza le verità matematiche e le altre evidenze vanno prese per buone . Ecco allora che Cartesio arriva alla fondatezza delle regole del metodo : le regole erano evidenti , ma non pienamente accettabili perchè potevano essere frutto di un genio cattivo che me le faceva sembrare evidenti anche se in realtà non lo erano ; ma questo genio maligno non c’ é , quindi le regole del metodo sono evidenti e vanno accettate . Un Dio buono ci fa percepire ciò che percepiamo in modo evidente effettivamente come é , senza ingannarci . L’ annullamento dell’ ipotesi del genio maligno , però , non comporta che tutte le cose su cui Cartesio aveva dubitato diventino automaticamente certe e accettabili : si devono accettare solo le verità evidenti , chiare e distinte ( le verità matematiche , tipo 2 + 2 = 4 , e la fisica matematizzata ) mentre le cose non chiare e non distinte non vanno accettate perchè é vero che non c’ é il genio cattivo ad ingannarmi , ma posso io stesso ingannarmi : le testimonianze dei sensi continuano ad essere incerte . Tuttavia , tornando alla metafora delle aree bianche e nere , adesso dalla parte bianca cominciano ad affluire nuove cose : prima c’ era solo il cogito ergo sum , adesso si aggiungono anche le verità matematiche e quelle della fisica matematizzata : oltre al 2 + 2 = 4 si può anche accettare come evidente il mondo fisico nella misura in cui é riducibile in termini matematici . Dopo essere partito dall’ io e passato per Dio , Cartesio arriva al mondo esterno ( che aveva messo scetticamente in dubbio ) , con il vantaggio di poter tranquillamente prendere per buone le cose evidenti senza temere il genio maligno . Sorgono due problemi relativi al mondo esterno : 1 ) esiste ? 2 ) se esiste , come é fatto ? Che caratteristiche ha ? Cartesio deve dimostrare l’ esistenza del mondo esterno , sapendo già , nel caso esista , che esso sarà fatto esclusivamente di estensione e movimento ( res extensa ) . Cartesio fa questo ragionamento : il mondo esterno si manifesta a noi indipendentemente dalla nostra volontà ( vedo cosa la realtà mi offre e non cosa voglio io ) ; il mondo lo vediamo quindi passivamente : esso esiste in modo esterno e indipendente da noi ; sarebbe un genio maligno a farci credere con evidenza che il mondo esiste indipendentemente quando in realtà non esiste ( il genio maligno nella sua onnipotenza potrebbe mandare nella nostra testa immagini virtuali di un mondo inesistente nella realtà ) ; ma il genio maligno non esiste quindi le sensazioni ci derivano effettivamente da un mondo a noi esterno ed indipendente che esiste . Ma per Cartesio dire che il mondo esiste non vuol dire che esso esista come lo percepiamo perchè dobbiamo essere certi solo delle cose che ci si rivelano con l’ evidenza : del mondo esisterà con certezza ciò che percepiamo con evidenza e noi con evidenza percepiamo solamente le caratteristiche oggettive , ossia le quantità , e non quelle soggettive ( le qualità ) : le quantità sono coglibili in modo evidente , tramite la matematica che é la forma di pensiero più evidente . Non a caso , se cerco di concepire la forma geometrica di una realtà fisica , le sue quantità sono chiare e distinte ( evidenti ) : la forma ( ossia l’ estensione geometrica ) fa parte delle verità matematiche . La percezione di una qualità invece ( ad esempio un colore ) non potrà mai essere evidente : se voglio comunicare ad una persona la forma parallelepipedo , se lei sa cosa é e io le do le misure avrà chiarissima nella sua mente l’ essenza di ciò che le ho detto ; ma se invece voglio comunicarle un colore ( ad esempio il giallo ) una vaga idea ce l’ avrà per forza , ma non saprà mai con evidenza che cosa intendo : penserà , per dire , ad un’ altra tonalità rispetto a quella da me pensata . Ecco allora che nelle qualità la confusione impera : le qualità non sono nè esprimibili nè comunicabili in forma rigorosa . Già Galileo si era trovato di fronte a questo problema ed aveva finito per considerare vero ciò che é oggettivamente coglibile ( quantità ) , falso ciò che é soggettivamente coglibile ( qualità ) . Ora Cartesio sa che il mondo esterno esiste e sa anche che é fatto esclusivamente di movimento ed estensione , proprio perchè la materia é simmetricamente opposta allo spirito : dicendo che nello spirito non ci potrà mai essere materia , non ha fatto altro che dire che nella materia non ci potrà mai essere spirito e quindi il mondo fisico sarà senza spiritualità . Allora con Cartesio salta decisamente l’ idea aristotelica del mondo come unione di materia e forma ( i sinoli ) e si afferma un mondo di tre sostanze : res divina , res cogitans e res extensa . Però una volta detto che Dio esiste e non ci inganna , non é stato con questo spiegato se tutto ciò che ci circonda e che percepiamo é vero . Ma spetta all’ uomo stesso stabilire ciò che va preso come vero e ciò che va scartato servendosi del criterio dell’ evidenza che , annullata l’ ipotesi del genio cattivo , é lo strumento di indagine più efficace . Dio ci ha dato gli strumenti , non ci inganna e quando ci dà cose evidenti possiamo accettarle sicuri . Però é solo a noi stessi che spetta prendere per buone esclusivamente le cose evidenti e stare in guardia da quelle non evidenti . Ed ecco allora che per Cartesio l’ errore dipende non dall’ intelletto , ma dalla volontà . Galileo faceva notare che l’ estensione della conoscenza divina é molto più grande della nostra , ma negli ambiti matematici ciò che noi sappiamo lo sappiamo in modo del tutto uguale a Dio : che 2 + 2 = 4 lo sappiamo esattamente come Dio . Le verità matematiche che l’ uomo conosce , certamente inferiori rispetto a quelle conosciute da Dio , sono però totalmente evidenti , le conosciamo alla pari di Dio . Le verità evidenti ( del tipo 2 + 2 = 4 ) l’ uomo le conosce alla pari di Dio ; nelle verità evidenti la differenza di conoscenza tra Dio e uomo non é qualitativa ( 2 + 2 = 4 lo so io come Dio ) , ma quantitativa ( Dio conosce molte più verità evidenti rispetto all’ uomo ) . Allora l’ errore non dipende dalla limitatezza dell’ intelletto umano ( che 2 + 2 = 4 lo colgo alla pari di Dio ) , ma dalla sua volontà di affermare cose di cui non ha evidenza . Quando l’ uomo afferma cose di cui ha l’ evidenza non sbaglia mai . L’ errore nasce da una discrepanza dell’ intelletto limitato e della volontà illimitata : voglio affermare cose di cui non posso avere l’ evidenza e così sbaglio . Ecco allora che il sapere umano sarà anche limitato , ma assolutamente certo . Per Dio tutte le verità sono certe e coglibili immediatamente , per l’ uomo no , proprio perchè il suo intelletto é limitato : delle qualità non potrà mai avere certezza e il modo per non sbagliare consiste nel lasciarle perdere . L’ ignoranza umana dipende dalla limitatezza dell’ intelletto che non può conoscere tutto , ma l’ errore dipende dalla volontà che vuole affermare cose di cui non ha conoscenza evidente . Nella quinta parte del Discorso sul metodo Cartesio affronta il principale obiettivo del suo discorso : la fondazione di una fisica rigorosamente meccanicistica , ridotta ad estensione e movimento . Propone un breve riassunto di quanto aveva già scritto nel trattato sul Mondo , che in realtà era per lo più incentrato sul problema della luce : dal problema della luce Cartesio aveva costruito tutto un discorso di fisica : il Sole la trasmette , i pianeti la ricevono , l’ uomo ne é spettatore . Il ricondurre tutto all’ estensione implica alcune importanti conseguenze : in primo luogo l’ assenza del vuoto . Cartesio é un personaggio cauto e timoroso e si trova sempre a dover conciliare le teorie di cui é convinto con ciò che l’ autorità sostiene ; egli é profondamente convinto della verità della dottrina copernicana che vuole il Sole al centro dell’ universo , ma teme di andare contro la Chiesa e così finisce per sostenere la teoria copernicana facendo finta di non sostenerla . Che cosa é per Cartesio il movimento ? Egli definisce il movimento di una determinata parte di materia come una traslazione da una vicinanza di determinate parti di materia alla vicinanze di altre determinate parti di materia . Qualche decennio dopo Cartesio arriveranno le grandi scoperte di Newton ; Newton concepirà lo spazio come un grande contenitore nel quale sono contenute le cose e gli oggetti . Newton é convinto che lo spazio esista oggettivamente fuori di noi e indipendentemente sia dal nostro ruolo di percepire sia dall’ esistenza delle altre cose . Togliendo dallo spazio tutte le cose e tutti i soggetti pensanti , per Newton ( e così anche per noi ) lo spazio continuerebbe ad esistere . Lo spazio é dunque il luogo dove stanno le cose , ma dove potrebbero benissimo anche non stare le cose . Se anche togliessimo tutto resterebbe sempre e comunque lo spazio . Cartesio invece la pensa in modo del tutto diverso : concependo la materia in termini meccanicistici e estensivi , egli non può che arrivare a negare il vuoto così come l’indipendenza dello spazio dalle cose che lo occupano . Per Cartesio l’ estensione é sinonimo di spazio ; la materia é sinonimo di estensione , quindi la materia é sinonimo di spazio . In fondo già Platone a suo tempo aveva espresso qualcosa di molto simile con il concetto di kòra . Se la materia é lo spazio , ne consegue che il vuoto non esiste perchè sarebbe uno spazio senza contenuto fisico ; uno spazio senza cose che lo occupino , questo sarebbe il vuoto ; ma per Cartesio lo spazio é la materia , quindi non ci sarà mai spazio senza materia e di conseguenza non ci sarà mai il vuoto . Nel 1600 il dibattito sull’ esistenza del vuoto é stato sentitissimo : sarà in questi anni che si farà l’ esperimento con il mercurio e la baccinella . Cartesio dal canto suo arriva a negare l’ esistenza del vuoto , non in termini empirici , ma metafisici . Dall’ inesistenza del vuoto deriva una particolare concezione del movimento : noi immaginiamo lo spazio come una realtà assoluta e nell’ immagine newtoniana non c’ é nulla che ci impedisca di immaginare lo spazio privo di cose ( il vuoto ) ; il movimento viene quindi da Newton concepito come spostamento di un oggetto da una parte dello spazio ad un’ altra . Ma nella concezione cartesiana tutto cambia : neppure concettualmente si può ipotizzare uno spazio vuoto e quindi non si può definire il movimento come spostamento da qui a lì ; se un libro lo spostiamo da qui a lì , Newton dice che nello spazio si sposta da una parte all’ altra ; per Cartesio invece significa che il libro viene traslato dalla vicinanza di alcune parti di materia alla vicinanza di altre parti di materia : sposto il libro dal tavolo al muro ; quindi ( secondo Cartesio ) viene traslato dalla vicinanza alla materia del tavolo alla vicinanza della materia del muro . Quali conseguenze ha questa concezione del movimento ? Cartesio quando descrive la genesi del mondo fisico sarà molto influenzato da questa concezione del moto : ipotizza che il mondo fisico si sia generato tramite vortici di materia ; in un certo senso l’ attuale movimento dei pianeti intorno al Sole é un residuo di quell’ antico moto vorticoso che aveva portato alla creazione del mondo . Tra i pianeti e il Sole , poi , non può esserci il vuoto perchè esso , come dimostrato , non esiste : tutto lo spazio é occupato da materia . Cartesio ammette quindi la teoria copernicana : il Sole é al centro e i pianeti trascinati dal vortice gli ruotano attorno ; ma Cartesio , per sfuggire a possibili censure della Chiesa , dice che non si può affatto sostenere che i pianeti ruotino intorno al Sole : il movimento é traslazione da materia a materia : immaginiamo un lavandino con lo scarico aperto : l’ acqua viene risucchiata e si creano vortici che coinvolgono dei pezzetti di carta galleggianti ( che rappresentano i pianeti ) : ma non sono i pezzi di carta a muoversi , bensì é l’ intero vortice che li sposta tutti insieme e la vicinanza di materia sempre quella é . Questa spiegazione di Cartesio dell’ origine del mondo di impostazione anassimandrea é più che altro un gioco di parole per tenere buona la dottrina copernicana senza uscire troppo allo scoperto . Ma questa assenza di vuoto implica un’ altra conseguenza : Cartesio spiega che i pianeti sono trascinati dai vortici e rifiuta radicalmente ogni sorta di azione a distanza , rifuggendo dalle teorie di Galileo e Keplero : quest’ ultimo soprattutto aveva ipotizzato che il Sole attirasse a sè i pianeti grazie ad una specie di attrazione paragonabile a quella esercitata dal magnete . Newton non farà altro che unificare le leggi di Keplero e quelle di Galileo per formulare la legge di gravitazione universale , che in fin dei conti , certamente depurate da residui di concezioni animistiche , implicano l’ azione a distanza : i pianeti sparati a velocità elevatissime uscirebbero dalle orbite se non sentissero la forza di gravità che li tiene ancorati al Sole . Quando Keplero ammette l’ animismo e l’ azione a distanza , Cartesio li rifiuta entrambi , Newton riprende l’ azione a distanza . Ma perchè Cartesio rifiuta l’ azione a distanza ? E’ il meccanicismo di Cartesio che prescrive di evitare l’ azione a distanza : l’ unica cosa che esista é la materia come estensione e movimento : l’ unica cosa che si possa ipotizzare é il movimento per contatto . Non a caso l’ immagine del mondo presente nella mente di Cartesio é assai simile ad un tavolo di biliardo dove tutto ciò che é mosso é mosso per contatto . Cartesio vuole abolire tutto ciò che dà un’ impostazione qualitativa e spirituale della realtà . Non c’ é spazio per nulla che possa anche lontanamente dar sentore di concezioni animistiche e non a caso l’ ilozoismo ( la vita della materia ) é spesso stata dimostrata servendosi dell’ esempio del magnete che muove non per contatto diretto . Cartesio vuole proprio sradicare queste concezioni di sapore ilozoistico , che fino a pochi anni prima di lui erano all’ ordine del giorno : pensiamo a Giordano Bruno che diceva che la materia é viva e divina . Keplero viene prima dell’ affermarsi di concezioni meccanicistiche della realtà , Cartesio vive in un’ epoca in cui il meccanicismo non si é ancora pienamente affermato e dichiara guerra agli ilozoisti arrivando ad evitare tutto ciò che sa anche lontanamente di animistico , come l’ azione a distanza . Newton invece si muove in un contesto in cui il meccanicismo si é pienamente affermato e può anche permettersi di accettare l’ azione a distanza pur rifuggendo da concezioni animistiche : la Terra non si muove perchè attirata dall’ anima del Sole ( come diceva Keplero ) , ma per la combinazione di un moto rettilineo uniforme e di uno uniformemente accelerato . D’ altrone Cartesio con il suo meccanicismo radicale non poteva neanche spiegare che un oggetto cade perchè attirato dalla forza di gravità , ma doveva ricorrere a bizzarre interpretazioni : una penna cade al suolo perchè sente una sorta di pressione esercitata dall’ alto dall’ infinita quantità di materia sopra di noi . Non si tratta di un processo di attrazione a distanza , ma di un processo di schiacciamento vero e proprio . All’ epoca di Newton il meccanicismo non ha più bisogno di difendersi strenuamente e estremisticamente e può in qualche senso tornare ad ammettere fenomeni quali l’ azione a distanza , che , tra l’ altro , é ben lungi dall’ essere animistico , già solo per il fatto che é esprimibile in termini matematici . Ecco allora che anche Newton resta fedele al meccanicismo e al metodo matematico di Cartesio . Cartesio era convintissimo che il mondo fosse davvero come lo pensava lui ( movimento ed estensione ) , così come era convinto che il suo Metodo fosse il migliore : era altresì convinto che il mondo avesse avuto una genesi , ma , da persona cauta e moderata , non imponeva le sue teorie . Ma con la teoria della genesi del mondo andava contro alle Verità della Chiesa e all’ autorità di Aristotele : la Chiesa parla di creazione ; Dio ha creato il mondo e ha fatto le cose ; non é che c’ é la materia e Dio decide di creare un movimento ( per di più a vortici ) . Va poi contro Aristotele preferendo le quantità alle qualità . Cartesio presenta il mondo dicendo di non essere certo che sia così , però che senz’ altro le sue teorie sul mondo sono particolarmente chiare e fluide . Dopo aver spiegato che nel mondo tutto avviene in modo meccanicistico , ossia in termini di estensione e movimento , Cartesio vuole dare un’ ulteriore prova di questa asserzione e tenta di dimostrare come perfino il funzionamento di un organo centrale come il cuore avvenga in termini puramente meccanicistici . Pare assai difficile e discutibile dimostrare che anche nel cuore valga il meccanicismo ( e Cartesio lo sa bene ) , però sa altrettanto bene che se riuscirà a dimostrare che il meccanicismo governa perfino l’ attività del cuore allora le sue tesi sono veritiere : il mondo é fatto di materia ed estensione . Senz’ altro la circolazione sanguigna , tra tutti i processi possibili , é quello che meno si presta a spiegazioni di tipo meccanicistico ed é proprio per questo che Cartesio si cimenta nel dimostrare come esso sia invece di tipo meccanicistico . Egli presenta comunque la sua teoria non come verità indiscutibile , ma come ipotesi che funziona bene , proprio come aveva fatto con la sua teoria della genesi del mondo o con la presentazione del suo metodo : non vi dico che la mia teoria sia quella giusta , però vi posso dire che funziona benissimo per spiegare la circolazione sanguigna . Senz’ altro quest’ atteggiamento moderato e tiepido di Cartesio ha motivazioni politiche : egli deve stare in guardia dalla Chiesa che pochi anni prima aveva fatto morire Bruno e abiurare Galilei . Presentare le sue teorie come verità inconfutabili sarebbe stato condannarsi da soli e così egli preferisce presentarle come possibili teorie , che non sono certe ma hanno il pregio di spiegare il fenomeno in modo razionale e ragionevole . Naturalmente se le sue teorie funzionano bene per chi sostiene cose diverse diventa difficile contestarle e dimostrarle false , così ciò che lui aveva proposto come possibile , in virtù della sua razionalità e capacità esplicativa , finisce per diventare vero e inconfutabile . Cartesio per spiegare fenomeni e processi di vario genere si serve del cosiddetto metodo genetico , servendosi dell’ immagine ( tipica del 1600 ) dell’ orologiaio . Così come i bambini per capire come é fatta una cosa e come funziona sono soliti smontarla , anche Cartesio ritiene che il miglior metodo per esaminare le cose e capirne il funzionamento consista nello smontarle , nel vedere come si costruisce una volta smontata . Ed é proprio ciò che intende fare Cartesio : vuole esaminare i singoli ingranaggi ( in questo caso il cuore ) che costituiscono quell’ immenso orologio che é l’ universo ; solo esaminando i singoli ingranaggi si può capire il funzionamento del tutto . E’ tra l’ altro una peculiarità di tutto il 1600 esaminare ingranaggio per ingranaggio il mondo e non a caso l’ italiano Giambattista Vico preferirà la storia agli enti naturali : la storia siamo noi a farla , gli enti naturali sono invece costruiti da Dio .In un certo senso Cartesio la pensa come Vico , ma , a differenza del pensatore italiano , egli intende occuparsi degli enti fisici in qualità di scienziato e filosofo e l’ unico metodo per poterne comprendere la natura e il funzionamento é proprio smontarli e rimontarli ; per capire la natura delle cose bisogna o averle create o mettersi nell’ ottica di chi le ha create , nel caso del mondo occorre mettersi nell’ ottica del grande orologiaio ( Dio ) . Va subito detto che l’ impostazione radicalmente meccanicistica di Cartesio rischia di impedirgli di comprendere correttamente certi aspetti del funzionamento delle cose : egli può solo accettare le cose in termini meccanicistici e rifiutando ogni forma di azione a distanza o di spiritualismo insito nelle cose ; non a caso i cartesiani , quando Newton spiegherà il moto dei pianeti servendosi della forza di attrazione la rifiuteranno ( nonostante fosse corretta ) perchè implica un’ azione a distanza che va contro i princìpi del meccanicismo . La stessa cosa in fondo vale per il cuore : Cartesio nello spiegare la circolazione del sangue rifiuta ogni spiegazione che si allontani anche minimamente dal meccanicismo più radicale e finisce per dare una spiegazione sul funzionamento del cuore mezza vera e mezza falsa . Le teorie tradizionali a riguardo non erano mai riuscite a riconoscere la circolazione e si riteneva per lo più che il sangue fosse un liquido stagnante e le pulsazioni non venivano mai interpretate come il rumore della pompa cuore . Questa difficoltà a comprendere il meccanismo della circolazione era dovuta in buona parte a difficoltà autonome : ad esempio , le arterie in un corpo deceduto si svuotano assai velocemente del sangue e quindi esso non veniva mai trovato all’ interno delle vene e di conseguenza bisognava ricorrere ad interpretazioni bislacche per spiegare le funzioni delle vene stesse . Il primo a fornire un’ organica e corretta spiegazione a riguardo della circolazione sanguigna fu il medico inglese William Harvey che sostenne che il cuore si contrae ritmicamente e fa sì che il sangue venga pompato e abbia il suo flusso . Era un’ interpretazione indubbiamente corretta . Cartesio però non può accettare pienamente le teorie del medico inglese : senz’ altro anche Cartesio riconosce la presenza della circolazione sanguigna , ma non accetta la spiegazione datane da Harvey . Cartesio pensa che il cuore umano funzioni allo stesso modo di un motore a scoppio , nel quale non sono i pistoni che si muovono nel cilindro a mettere in moto la miscela , bensì é la miscela a muovere i pistoni : é lo scoppio appunto della miscela a far dilatare la medesima e a far andare su e giù i pistoni . Ora , le posizioni di Harvey e di Cartesio risultano esattamente opposte : per Harvey é il cuore a far muovere il sangue , per Cartesio é il sangue che fa muovere il cuore , esattamente come avviene nel motore a scoppio . Harvey era convinto che il cuore , contraendosi , spingesse fuori il sangue per poi riattirarlo con la dilatazione . Per Cartesio , al contrario , essendo il cuore un organo caldissimo , é il sangue che , surriscaldandosi per via del calore presente nel cuore , si dilata e per questo dilatarsi schizza via dando luogo alla circolazione che riporta il sangue raffreddatosi al cuore , dove si riscalda nuovamente , si dilata , schizza via e il processo ricomincia . In Harvey abbiamo una pompa autonoma , in Cartesio un motore a scoppio in cui é il sdangue a muovere il cuore . Sembra una semplice diatriba della storia della medicina , priva di ogni significato , ma in realtà ha un’ importanza fondamentale perchè se Cartesio arriva a sostenere l’ analogia del cuore con un motore a scoppio lo fa perchè spinto dal suo stesso radicale meccanicismo : egli non può assolutamente ammettere un movimento autonomo di un organo ( il cuore ) che muove il sangue perchè la cosa gli puzza troppo di animismo . Così come non può accettare l’ azione a distanza , Cartesio non può neanche accettare l’ autonomia e l’ indipendenza di certi organi perchè in un certo senso questo potrebbe portarlo verso l’ animismo , l’ attribuire vita autonoma , anima alla materia ; ma la materia per definizione é estensione e quindi il meccanicismo cartesiano vieta di accettare l’ interpretazione della circolazione sanguigna data da Harvey . Invece l’ idea del sangue che si dilata per via del calore , schizza via e muove il cuore é rigorosamente meccanicistica : é una serie di urti : il sangue viene mosso dal calore , muove il cuore e poi viene di nuovo mosso dal calore . Ecco allora che anche nel cuore , l’ organo che meno di tutti si presta ad interpretazioni meccanicistiche , tutto avviene come in un orologio . Una volta spiegato il meccanicismo presente nel mondo , Cartesio lo estende all’ intera realtà vivente e qui si può notare , come già si poteva a riguardo dell’ interpretazione della circolazione , come un meccanicismo troppo radicale porti ad errori grossolani . Cartesio fissa una differenza radicale tra uomini da una parte e piante e animali dall’ altra : gli uomini sono ai suoi occhi tutt’ altra cosa rispetto sia agli animali sia alle piante . Questa distinzione in parte gli deriva senz’ altro dal cristianesimo che vede l’ anima immortale esclusivamente negli uomini . Certo , é vero che i cristiani , diostaccandosi da Aristotele , hanno fissato una grande differenza tra uomo e animali e piante poichè é come se l’ uomo godesse di un’ anima aggiuntiva , una sorta di realtà diversa che é l’ anima immortale , però i cristiani non avrebbero mai ammesso o accettato quanto arriva a dire Cartesio , ossia che solo gli uomini hanno l’ anima . Cartesio afferma che gli animali sono automi : Cartesio non si limita a dire che essi non hanno la ragione , ma arriva addirittura ad affermare che essi non provano sensazioni , sono come macchine . In altre parole , quando si tira la coda ad un cane esso abbaia non perchè provi dolore , ma per un riflesso incondizionato senza coscienza : quando gli si tira la coda esso abbaia allo stesso modo in cui una macchina fa rumore quando le si suona il clacson . Negli animali , proprio come nelle macchine , ad ogni imput corrisponde un output : se gli si tira la coda , il cane abbaia , se lo si colpisce morde e così via . A portare Cartesio a sostenere che gli animali sono automi mentre gli uomini no é il seguente ragionamento : anche il peggiore degli uomini sa parlare , ossia sa esprimere ciò che pensa ; anche il migliore degli animali non sa parlare , ossia non sa esprimere ciò che pensa ; ne consegue che gli uomini hanno la ragione , gli animali no . In realtà c’ é qualcosa che non quadra in questo ragionamento cartesiano : a suo favore gioca senz’ altro il fatto che se costruiamo un robot a immagine e somiglianza di un animale , che si atteggi allo stesso suo modo in effetti si può davvero pensare che l’ animale vero e il robot siano la stessa identica cosa ; questo , secondo Cartesio , non é possibile per gli uomini perchè essi sanno parlare e , soprattutto , esprimono ciò che pensano : hanno la facoltà di pensare e di dire ciò che pensano . Però oggigiorno , con il perfezionarsi delle tecnologie , ci si avvicina sempre più alla creazione di un robot che sappia imitare perfettamente l’ uomo : non solo nell’ atteggiamento e nelle parole , ma perfino nel pensiero ! Nel momento in cui vi si riuscisse ( e dovrà arrivare ) allora , seguendo il ragionamento di Cartesio , si dovrebbe trarre la conclusione che gli uomini sono automi . Infatti il ragionamento di Cartesio é : avendo ipotizzato che una macchina imiti perfettamente un animale , chi non mi dice che l’ animale stesso non sia una macchina ? Per l’ uomo non si possono costruire macchine che sappiano ragionare , di conseguenza l’ uomo non é una macchina . Ma nel momento in cui si arrivasse a creare un robot uguale agli uomini ne conseguirebbe che l’ uomo stesso potrebbe benissimo essere una macchina . D’ altronde la logica cartesiana stessa , a ben pensarci , non mi garantisce l’ esistenza effettiva delle persone che mi circondano : io dubito , quindi esisto ; ma non posso sapere se gli altri effettivamente esistano e quindi tutti gli uomini ( fatta eccezione di me , perchè dubito e quindi sono ) potrebbero essere macchine . Per Cartesio il fatto di parlare , ossia di esprimere ciò che si pensa , implica che gli uomini non siano automi come gli animali , bensì comporta che essi abbiano un’ anima : solo gli uomini ne sono dotati e non gli animali o le piante . E’ arrivato ad ipotizzare che una macchina possa arrivare ad imitare alla perfezione il comportamento di un animale ; quello che non é arrivato ad ipotizzare é che una macchina possa imitare il comportamento di un uomo . Allora seguendo il ragionamento di Cartesio si dovrebbe appunto arrivare alla conclusione che pure gli uomini sono macchine ; tutti gli animali , tutte le piante e tutti gli uomini sono macchine fatta eccezione per me stesso , che so di esistere come soggetto dubitante . Cartesio ha quindi sbagliato a dire che gli animali sono macchine e gli uomini no : per non sbagliare i casi sono due : o si dice che sia gli animali sia gli uomini sono macchine , oppure si dice che nè gli uni nè gli altri lo sono . Il fatto che una macchina in linea di principio possa imitare il comportamento di un animale , non può portare ad affermare che l’ animale sia privo di sensazioni così come non posso affermare che l’ uomo sia privo di sensazioni . Ecco allora che ancora una volta il meccanicismo radicale porta Cartesio ad un errore grossolano . Quest’ immagine dell’ animale macchina stabilisce una netta differenziazione tra res cogitans , res extensa ( che comprende la materia , gli animali e le piante ) e res divina . Si possono tra l’ altro fare alcune considerazioni a riguardo : il meccanicismo cartesiano fa esattamente l’ opposto di quel che a suo tempo aveva fatto l’ animismo : gli animisti avevano fatto passare per viventi anche cose che viventi non sono ; tutta la realtà in ultima istanza per pensatori come Talete o Bruno era animata . Cartesio fa esattamente l’ opposto : invece di ridurre tutto a materia vivente ( come l’ animismo ) riduce tutto a materia non vivente : la vita stessa degli animali non é altro che un puro meccanismo e solo dove c’ é l’ anima ( negli uomini ) si può propriamente parlare di vita perchè c’ é la ragione e la sensibilità . Viene così anche superata la concezione aristotelica : anche Aristotele in fondo era un monista dal momento che riduceva l’ intera realtà a sinoli di materia e forma ; con Cartesio invece rimane solo la materia bruta , priva di forma e di vita , esattamente l’ opposto di come la intendeva Bruno ( viva e divina ) . Ma se la materia é solo materia e l’ anima é solo anima e materia e anima sono inconciliabili , che rapporto c’ é tra corpo e anima ? In altre parole , se sono due realtà tra loro così distinte , come fa il corpo ad agire sull’ anima e l’ anima ad agire sul corpo ? Che agiscano l’ uno sull’ altro non si discute : quando con l’ anima decido di alzare il braccio e poi col corpo lo alzo é l’ anima che agisce sul corpo ; viceversa , quando metto la mano su una superficie calda , provo con l’ anima una scottatura . Ecco che allora Cartesio si trova di fronte ad un problema non da poco : due sostanze eterogenee , tra loro opposte , che nell’ uomo agiscono l’ una sull’ altra . Le realtà fisiche , poi , per Cartesio si comportano secondo schemi meccanici e deterministici , mentre invece l’ anima é libera di scegliere , gode del libero arbitrio ( l’ errore consiste proprio nella volontà ) : anche qui Cartesio deve far fronte a un grande problema che se non risolto può far vacillare l’ intero suo edificio del sapere . Cartesio deve far quindi incontrare il mondo fisico , meccanicistico e privo di libertà d’ azione con quello spirituale libero e immateriale . Diventa poi difficilissimo spiegare come l’ anima muova il corpo e viceversa visto che l’ anima , per definizione , é sostanza spirituale e non é riconducibile ad estensione : nell’ ottica meccanicistica cartesiana , ogni movimento é causato da urti fisici , ma come fa il corpo materiale ad urtare l’ anima immateriale per farla muovere a sentire il calore quando appoggiamo la mano su una superficie calda ? Come può esserci movimento per contatto tra una realtà fisica e una spirituale ? E’ una contraddizione parlare di movimento e di urti a riguardo dell’ anima . Ecco allora che Cartesio tenta di fornire una spiegazione ipotizzando proprio un contatto tra anima e corpo , una spiegazione non molto convincente già all’ epoca ; i problemi sollevati da Cartesio in merito finiscono più per essere ampliati che risolti ; che rapporto ci sarà mai tra anima e corpo , due realtà diverse e inconciliabili che nell’ uomo trovano il loro punto di contatto ? Per spiegare il rapporto anima – corpo Cartesio si serve di due realtà fisiche : la ghiandola pineale e gli spiriti animali . Supponiamo che Cartesio debba spiegare il rapporto anima – corpo quando con la mano si tocca una superficie calda e il calore viene dal corpo trasmesso all’ anima . Cartesio dice che la superficie calda mette in moto le particelle dei polpastrelli della mano e fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale e corporeo ; dopo di che Cartesio tira in ballo il reticolo nervoso ( lo si era da poco scoperto in medicina : esso si concentra soprattutto alla base del cervello ) ; Cartesio individua nel reticolo nervoso la via per la quale gli impulsi vengono trasmessi dalla periferia al centro e viceversa : attraverso i nervi la sensazione di calore che si ha quando si tocca con mano una superficie calda viene trasmesa dai polpastrelli verso il cervello . Da notare che Cartesio evita appositamente di servirsi di spiegazioni chimiche ed elettriche : egli accetta e si serve solo di spiegazioni meccanicistiche : contatti fisici che causano il movimento . Ipotizza che all’ interno dei nervi ci siano degli spiriti animali : non dobbiamo farci ingannare dal nome ; si chiamano spiriti non perchè sono realtà spirituali ( il che sarebbe assurdo ) ma per via della loro estrema sottigliezza ( sono talmente sottili da stare nei nervi ) ; si chiamano poi animali perchè trasmettono gli impulsi dell’ anima . Grazie alla loro sottigliezza questi spiriti animali vengono urtati dal calore della superficie e trasmettono questo moto fino al cervello ; fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale e lo stesso avviene tanto negli animali quanto negli uomini . Da questo punto in poi , però , negli animali l’ impulso arrivato al centro ( il cervello ) in modo meccanico genera una reazione meccanica : ad ogni imput corrisponde un output ; se prendo una zampa ad un gatto e la metto su una superficie calda , gli spiriti animali dalla zampa si muovono fino al cervello e generano una reazione meccanica : il miagolare ; tutto questo avviene senza la mediazione di un organo che genera sensibilità : ricordiamoci che gli animali sono macchine . Nell’ uomo invece il processo si differenzia : il centro dell’ uomo é la cosiddetta ghiandola pineale , una delle ghiandole che sta alla base del cervello : essa , spiega Cartesio , é il centro della sensibilità e gli animali , proprio perchè macchine prive di sensazioni , ne sono sprovvisti . A questo punto avviene un fenomeno misterioso e inspiegabile : nella ghiandola pineale l’ impulso nervoso guidato dagli spiriti animali incontra l’ anima , che nel corpo ha la sua dimora provvisoria e nella ghiandola pineale trova il suo punto di incontro e di rapporto con il corpo : qui dall’ incontro con gli spiriti animali viene generata la sensazione . Supponiamo di leggere un giornale : leggo che c’ é un concerto e decido di andare a vederlo , mi alzo e ci vado fisicamente : fisicamente c’ é un contatto con i miei occhi , si passa al reticolo nervoso , le informazioni vengono trasportate fisicamente dagli spiriti animali e nella ghiandola pineale c’ é il fatidico incontro con l’ anima : qui si valuta la notizia e , seguendo le leggi del libero arbitrio proprie della realtà spirituale , si decide di andare fisicamente a vedere il concerto ; a questo punto l’ impulso viene portato dagli spiriti animali tramite il sistema nervoso fino al corpo : mi alzo fisicamente e raggiungo il teatro . Quello che differenzia gli uomini dagli animali é proprio l’ anima , che però sembra più un elemento aggiuntivo che non fondamentale : gli animali , senz’ anima , vivono benissimo . Pare un elemento forzatamente aggiunto l’ anima tant’ é che poi nel 1900 un filosofo definirà adeguatamente la concezione cartesiana dell’ uomo : una macchina con uno spettro all’ interno : l’ uomo é una macchina esattamente come gli animali e in più rispetto ad essi si trova ad avere uno spettro ( l’ anima ) . Ma quest’ ipotesi dell’ anima nella macchina parve poco convincente fin dall’ inizio perchè in fondo il problema di come realtà materiale e spirituale entrino in contatto Cartesio lo risolve in modo poco convincente , quasi come se l’ anima nella ghiandola pineale si comportasse da corpo . Nella stessa tradizione cartesiano non tardarono ad arrivare quelli che divisero radicalmente in due pezzi il ragionamento cartesiano , spezzando in due il dualismo anima – corpo . Nel 1700 vi sarà chi dirà che l’ uomo é una macchina senza lo spettro dentro , un corpo privo di anima , uguale agli animali ; si toglie cioè la parte spirituale , che , come detto , sembra aggiunta senza senso , quasi come se Cartesio temesse di andare contro al cristianesimo togliendo l’ anima dai corpi umani . Cartesio non si limita a sostenere che esista un’ anima negli uomini , ma arriva a dimostrare l’ immortalità dell’ anima , in netta contrapposizione con i libertini ( i liberi pensatori che criticavano la morale tradizionale ) francesi del 1600 : essi negavano l’ immortalità dell’ anima servendosi di un ragionamento per assurdo : per i cristiani l’ anima dell’ uomo é immortale , quella degli animali no ; perchè mai , dicevano , non dovrebbe essere mortale anche l’ anima animale ? Non é mortale l’ anima degli animali e quindi non lo é neanche quella degli uomini . Cartesio , negando che gli animali abbiano un’ anima , fa cadere la dimostrazione per assurdo dei libertini : gli animali non hanno anima , gli uomini ce l’ hanno ed é immortale proprio perchè in quanto res cogitans é radicalmente opposta alla res extensa ( il corpo ) . Più si separa concettualmente l’anima dal corpo e più si é indotti a sostenere l’ immortalità dell’ anima ; già Platone stesso aveva fatto un ragionamento simile vedendo il corpo come prigione dell’ anima . Anche per Cartesio é così : l’ anima e il corpo non vanno d’ accordo e mentre l’ uno muore , l’ altra vive : subito dopo l’errore di chi nega Dio, errore che ritengo di avere confutato a sufficienza, non c’è un altro che allontani maggiormente gli spiriti deboli dalla retta via della virtù, che l’immaginare che l’anima dei bruti abbia la stessa natura della nostra, e che pertanto non abbiamo nulla da temere né da sperare dopo questa vita, proprio come le mosche e le formiche; mentre quando si conosce quanta differenza ci sia si capiscono molto meglio le ragioni che provano che la nostra è di una natura indipendente dal corpo, e dunque non è destinata a morire con esso; e dal momento che non si vedono altre cause che possano distruggerla, si è portati naturalmente a giudicarla immortale. Ammettere l’ immortalità dell’ anima , tra l’ altro , era un buon punto di partenza per non incappare in censure da parte della Chiesa o , almeno , per non avere troppe noie . D’ altronde Cartesio , alla fine del Discorso , spiega di non aver pubblicato l’ opera sul Mondo proprio perchè era venuto a sapere del trattamento riservato dalla Chiesa a Galileo : si chiede se convenga andare incontro ad una censura o ad agire con cautela . Cartesio , sulla scia di Bacone ,mira ad una scienza utile per l’ intera umanità , ma non per questo vuole andare incontro alla Chiesa : se venisse censurato e condannato , d’ altronde , egli spiega , non potrebbe più fare scoperte e aiutare l’ umanità , quindi conviene agire con cautela . Proprio per questo al posto del Mondo pubblica il Discorso sul metodo , nel quale spiega di voler sempre mantenere la propria libertà di pensiero ; preferisce non avere un lavoro ma essere libero di pensare ciò che vuole piuttosto di avere un lavoro ma non essere libero di pensare ; una scelta simile la farà anche Spinoza .
SUL COMPENDIUM MUSICAE DI CARTESIO
di Roberto Taioli
LA GENESI STORICA DEL COMPENDIUM
Il trattatello sulla musica è la prima opera compiuta che il giovane Cartesio ha redatto, in testimonianza della viva amicizia che in quel momento lo legava al più maturo amico, lo scienziato olandese Isaac Beckman. Infatti Cartesio dopo aver studiato giurisprudenza a Poitiers, si trasferì nelle Province unite per arruolarsi volontario in uno dei reggimenti francesi comandati dal principe protestante Maurizio di Nassau.
Secondo quanto si legge nel prezioso Journal che lo scienziato olandese teneva regolarmente con grande precisione, l’incontro tra i due studiosi ebbe luogo il 10 novembre 1618 e non in forma casuale, perché in una cittadina come Breda era allora molto intenso e frequente se non addirittura frenetico lo scambio di notizie culturali e scientifiche, di esperienze e di studi.
Che Isaac Beeckman abbia rivestito un grande ruolo nella formazione del giovane Cartesio, è ammesso dal Nostro nelle primissime lettere indirizzate all’amico e in particolare in quella del 23 aprile 1619 in un passaggio emblematico che riportiamo:
Infatti, voi siete davvero il solo ad avere spronato un pigro a richiamare un sapere già quasi tutto svanito dalla memoria ed a volgerne l’intelligenza, che si era allontanata dalle occupazioni serie, verso cose più grandi. Per questo, se dovesse venir fuori da me qualcosa di non disprezzabile, potrete a buon diritto rivendicarlo come interamente vostro. Da parte mia, non mancherò di mettervene da parte, sia perché ve ne dilettiate, sia perchè lo correggiate, come avete fatto molto di recente a proposito di ciò che avevo scritto sull’arte della navigazione. Come se foste un indovino, mi avete infatti messo a parte della cosa; tale è, infatti, la vostra invenzione relativa alla Luna, che pure ritenevo, ma erroneamente, potesse venire semplificata con alcuni strumenti.1
A dire il vero il passo epistolare menzionato, oltre al riconoscimento dei meriti dell’amico nell’averlo risvegliato dal torpore intellettuale, contiene un argomento incautamente inserito da Cartesio, che diverrà di là ad alcuni anni, oggetto di polemica e divisione tra i due. Infatti Cartesio, preso dall’elogio verso il maestro, non esista ad attribuire a Beeckman una sorta di paternità intellettuale dei suoi futuri scritti, come avverrà proprio riguardo al Compendium.
Su questa linea di allineamento verso l’amico più titolato ed esperto può anche essere letta la conclusione del trattatello musicale, ove ancora una volta Cartesio riconosce i meriti dell’interlocutore, affidandogli l’opera senza esitazione:
Ormai scorgo la terra, mi affretto verso il lido; molto qui ometto per brevità, molto per dimenticanza, ma di certo ancor più per ignoranza. Lascio tuttavia venir fuori fino a voi quesrto parto del mio ingegno, così informe, e quasi come un piccolo di orsa | appena messo al mondo, perché sia un ricordo della nostra amicizia profonda, e un pegno certissimo del mio amore per voi; ma a questa condizione, se credete: che, al riparo per sempre nell’ombra della vostra biblioteca o del vostro studio, esso non sia consegnato al giudizio di altri. I quali, come voi invece farete, ne sono sicuro, non distoglierebbero gli occhi benevoli dalle sue parti monche verso quelle nelle quali non nego certo che siano delineati al vivo alcuni tratti del mio ingegno; e non saprebbero che esso è stato composto tumultuosamente e solo per voi, qui, in mezzo all’ignoranza dei militari, da un uomo ozioso e libero, che pensa e fa cose completamente diverse.2
Tuttavia anche se queste lettere e questi riscontri non esistessero, basterebbe leggere alcuni passi del Journal di Beeckman per rendersi conto che il genere di ricerche che conduceva lo studioso olandese (tra cui quelle in campo musicale) rappresentavano un paradigma culturale che il giovane filosofo non avrebbe potuto conoscere senza restarne vivamente interessato. Ciò lo si coglie tra l’altro da tutta una serie di problemi che i due amici affrontarono nei loro dibattiti e di cui è rimasta traccia nelle lettere, tra le quali quella della determinazione dei tempi della caduta dei gravi, ove la reciproca inerenza tra fisica e matematica era particolarmente evidente.
Nel 1618 l’esercito agli ordini del Principe Nassau non era impegnato in grandi imprese militari, poiché era ancora in vigore la tregua di dodici nella guerra contro la Spagna. Cartesio, arruolatosi come volontario nell’esercito, si trovava inattivo nel presidio di Breda, attendendo ai propri amati studi e a comporre il trattatelo musicale in omaggio al suo amico, che mostrava anch’egli interesse per le questioni musicali.
Per la data di composizione del trattatello, sicuramente Cartesio lo iniziò nel novembre del 1618 e lo ultimò il 31 dicembre dello stesso anno, così da poterlo inviare il 1 gennaio del 1619 all’amico a mo’ di strenna augurale per il nuovo anno.
Lo studioso olandese trattenne per sé il manoscritto musicale per 11 anni, fino a quando non dovette renderlo all’amico a seguito della aspra disputa che li aveva divisi che riecheggia fragorosamente nella lettera di Cartesio del 17 ottobre 1630, con toni di rancore incomprensibili al tempo di inizio della loro relazione intellettuale:
Guardate infatti quanto siete ingiusto: volete essere l’unico proprietario e non volete che altri si attribuiscano non solo quel che sanno e che mai hanno appreso da voi, ma, addirittura, proprio ciò che voi stesso confessate di avere appreso da loro. Scrivete infatti che l’algebra che vi ho dato non è più mia; la stessa cosa in altra circostanza avete scritto sulla musica. Volete dunque, presumo, che queste scienze si cancellino dalla mia memoria, perché ormai sono vostre: per qual motivo, infatti, mi avreste chiesto gli autografi (dal momento che siete già in possesso delle copie, mentre io non ne ho alcuna), se non perché col tempo potessi dimenticarmi delle cose in essi contenute, e di cui più non mi occupo, e perché foste voi il solo a possederle? Ma sicuramente avete scritto ciò per burla; so infatti quanto sappiate essere elegante e faceto: non volete dunque che sui creda seriamente che sia vostro se non quel che siete stato il primo a trovare. Perciò nel vostro manoscritto annotate la data in cui avete pensato ciascuna cosa, perché non capiti mai nessuno tanto impudente da voler attribuire a sé quel che abbia sognato una notte dopo di voi. Mi pare tuttavia che così non custodiate con la massima prudenza i vostri beni: che accadrebbe infatti, se si dubitasse dell’attendibilità del manoscritto? Non sarebbe più sicuro addurre testimoni o confermare su un registro ufficiale? Ma vi dirò la verità, di certe ricchezze come queste, che temono i ladri, e debbono essere sorvegliate con tanta cura, vi rendono infelici piuttosto che beato; né, credetemi, vi rammaricherebbe di perderle insieme alla malattia.3
Cartesio portò con sé il manoscritto a Stoccolma, come risulta alla lettera R dell’inventario dello Chanut (“otto foglietti scritto sulla musica, 1618”). Per diverse strade e traversie il manoscritto pervenne poi nelle mani di Padre Nicolais Poisson, Superiore presso il Collegio degli Oratoriali a Vendome,che lo tradurrà dal latino e lo pubblicherà.
Un’altra copia del manoscritto finì poi all’attenzione di un altro grande amico di Cartesio, Costantino Huygens padre, anch‘esso appassionato di musica, mentre sappiamo che una trascrizione del testo si trova nelle pagine del Journal di Beeckman, come se lo studioso olandese volesse in qualche modo appropriarsi del lavoro che – come abbiamo visto – fu fonte della polemica tra i due.
DALLA TEORIA DELLA CONSONANZA ALLA TEORIA MUSICALE DEL RITMO
Dal punto di vista filosofico e scientifico nonché strettamente musicale, il Compendium cartesiano eredita una lunga storia musicologica che affonda le sue radici nella Grecia antica e si connette alla scuola pitagorica, alla scoperta del numero a fondamento della musica, all’idea che il suono sia un rapporto trasferibile in una cifra numerica. Se il suono è rappresentabile in un rapporto numerico, la musica altro non è che la disciplina del numero sonoro, come peraltro emergeva anche dal tessuto musicale del medioevo e del rinascimento, ove le speculazioni matematiche ed astronomiche non erano estranee a relazioni musicali.
Cartesio parte dalla teoria della consonanza musicale sistemata dal veneto Gioseffo Zarlino nel tardo rinascimento (Zarlino è l’unico musicologo espressamente citato, seppur una volta sola, nel Compendium) e la assume criticamente come un contributo ineludibile senza tuttavia restarne prigioniero, ma mira ad elaborare una originale teoria musicologica imperniata sulla scoperta e la ricerca del ritmo come moderna forma del tempo nell’universo musicale.
Il rtimo è una forma del tempo e si dà nel tempo che tuttavia non può considerarsi solo nella sua dimensione fisica ed lineare, uniforme e quantitativa.:
Il tempo nei suoni deve consistere di parti uguali, perché sono, di tutte, le più facilmente percepite dal senso, in base alla quarta premessa; oppure di parti che siano | in proporzione doppia o tripla; ma non si deve procedere oltre, poiché queste parti sono, di tutte, le più facilente distinte dall’udito, in base alla quinta e sesta premessa. Se poi le misure fossero più diseguali, l’udito non potrebbe se non a fatica riconoscere le loro differenze, come risulta per esperienza. Se infatti, per esempio, volessi porre cinque note uguali contro una, allora non si potrebbe cantare senza la più grande difficoltà.4
La concezione del ritmo elaborata da Cartesio prevede come fondamento una dimensione del tempo interno proveniente dal trattato De musica di S. Agostino, la cui lettura non era estranea certamente a Cartesio.. Infatti, se è pur vero che il tempo si dà e si scandisce nel tempo esterno della sensibilità e della quantità, gli effetti dello stesso non sono uniformi ma variano e si modificano venendo a contatto con lo spirito del soggetto che lo percepisce tramite l’udito e lo fa suo.
Questa sistemazione del ritmo come tempo interiore non viene organicamente trattata da Cartesio nelle pagine del trattatelo, ma l’autore ne semina le tracce e qua e là fornisce elementi per percepirla come un nuovo orizzonte teorico che porta il pensatore francese oltre le acquisizioni di Zarlino. Il suono è l’oggetto della musica (come la carne l’involucro dell’uomo) e nella musica si manifesta nel succedersi del ritmo, nel variare della sua intensità, nel celarsi o rivelarsi secondo una complessa dialettica di variazioni, sfumature, tonalità, significati.
Il suono è una dimensione totalizzante, ma non tutte le forme di suono accedono alla dimensione del ritmo. Non basta che un suono accada, perché il suono musicale non si identifica nel mero suono fisico del quale, dice Cartesio, è bene che se ne occupino i fisici.:
Ma, ammesso questo, e poiché, come abbiamo detto, all’inizio di ogni misura il suono è emesso con più forza e più distintamente, va detto anche che esso scuote con più forza i nostri spiriti dai quali siamo eccitati al movimento. Segue da ciò che anche le bestie possono ballare a tempo, se glielo si insegna e le si abitua, perché per questo è necessario il solo impulso naturale.5
PRAENOTANDA
Nei sei punti di Praenotanda, in forma linguistica schematica e quasi come una serie di appunti da fissare per non smarrire il senso di un ragionamento, Cartesio enumera alcuni punti chiave della sua ricerca. L’insieme dei punti di Praenotanda non è quindi sistematico né organico ma ricco di suggestioni e spunti. I primi due punti rivestono quasi lo stile di una dichiarazione metodologica:
1 Tutti i sensi sono capaci di un qualche piacere.
2 Per questo piacere si richiede una certa proporzione dell’oggetto con il senso stesso. Accade per questo, ad esempio, che il fragore degli schioppi o dei tuoni non sembra atto alla musica, certo perché lederebbe l’orecchio, come l’eccessivo splendore del sole in fronte lede gli occhi.6
La via della sensibilità è qui collegata all’avvertimento del piacere o, come Cartesio scrive nell’esordio del trattato, del diletto che è il fine della musica. La valorizzazione dei sensi non pare tuttavia fine a se stessa ma finalizzata a individuare il senso della musica nel suo offrirsi all’udito umano. Dobbiamo partire da questo importante riconoscimento della dimensione sensibile ma non ridurre – come del resto Cartesio non fa – la musica alla sua base meramente fisica. Questa riduzione sarebbe infatti fuorviante perché il mondo non è un oggetto inerte ma una comunità di soggetti attivi e dotati di una modalità interiore, attraverso la quale il ritmo si manifesta ora lento, ora accelerato trasformandosi in stati d’animo di pace, quiete, oppure azione, dinamismo, tumulto.
L’oggetto musicale, il suono è un oggetto discreto, nel senso che non può darsi in forma univoca ma modulata, articolata, quasi frantumandosi e spezzandosi e tendente ad una matematizzazione. La musica lo rende infatti in un rapporto numerico in proporzione.. Dice Cartesio in alcuni brevi passaggi di Praenotanda
Diciamo meno differenti tra loro le parti dell’intero oggetto tra le quali c’è maggiore proporzione.
La proporzione deve essere aritmetica e non geometrica. La ragione è che in essa non ci sono tante cose da notare, dal momento che le differenze sono ovunque uguali e perciò il senso si affatica tanto a percepire distintamente tutto ciò che è in essa.7
Va inoltre rilevato che la riflessione cartesiana indica nella varietà del ritmo una meta cui tendere, in modo che la curiosità e la vivacità dell’ascoltatore vengano sollecitate e gratificate. Questa attenzione alla sfera dell’ascolto e della piacevolezza del ritmo, di cui parleremo più diffusamente, è una novità nella consuetudine dei trattati musicali del tempo che si muovevano su una dimensione prettamente scientifica. Ciò rende il trattato di Cartesio attraversato e permeato di una inflessione umanistica seppur non esplicitamente formulata.
SEGUENDO LE NOTE DI ZARLINO: LE REGOLE DELLA COMPOSIZIONE E I MODI
La presenza di Zarlino (chiamato ai suoi tempi il Principe dei Musici) nel trattato musicale di Cartesio non si riduce alla mera citazione del nome che compare una sola volta nell’elaborato. Sappiamo che Cartesio venne a conoscenza degli studi musicali di Zarlino probabilmente durante il suo soggiorno di studio presso il Collegio dei Gesuiti a La Fléche. Tuttavia l’influenza del teorico tardo- rinascimentale è ben presente nelle formulazioni cartesiane, soprattutto per quanto riguarda la visione matematica della musica che già Zarlino aveva configurato e rafforzato in linea con la tradizione pitagorica.. A Zarlino si deve peraltro una sorta di riforma e rimodulazione della teoria musicale antica (passata anche dal filtro di Severino Boezio) con la sostituzione del quaternario di origine pitagorica e l’immissione del senario, la relazione da 1 a 6 da cui nasceranno le nuove consonanze di terza e sesta maggiore. Passaggio questo di non poco conto e non ignoto a Cartesio e che è ben ravvisabile nella musicologia barocca.
Assumendo questa impostazione, Cartesio nel suo trattato giunge ad una formulazione dei criteri di composizione e dei modi mettendo a fuoco tre principi fondativi.:
1. tutti i suoni emessi contemporaneamente debbono costituire una consonanza
2. una medesima voce deve procedere in successione soltanto per gradi e per consonanze
3. non siano mai ammessi il tritono e la falsa quinta neppure in relazione.
Ma anche la relazione dei modi procede in modo nuovo. La successione dei modi (nella tradizione musicale occidentale il termine modo indica un determinato sistema organizzato di intervalli e l’ordine e la classificazione secondo i quali si organizzano nella successione di toni e semitoni che costituiscono una scala) deve soddisfare l’esigenza di armonia e di gradevolezza richiesta dall’udito, cosicché al temine di una composizione l’udito deve sentirsi appagato in modo da non attendere nient’altro e da comprendere che il brano si è concluso.
L’insieme dei modi deve disegnare una totalità in cui gli elementi interni che la compongono non paiono isolati e scissi e l’ascoltatore avverta quel senso di appagamento e di soddisfazione che la musica può trasmettere.
LA NATURA DEL PIACERE
Premessa la natura sensibile del piacere che Cartesio sancisce nelle prime pagine del trattato, intesa come unica sorgente di percettibilità data in dotazione all’uomo, occorre esaminare più da vicino questo assunto per non restare prigionieri di un principio empiristico che sembra esulare in ultima analisi dalle riflessioni del filosofo. Non tutti i sensi peraltro servono per Cartesio allo stesso modo alla causa della musica e non tutti sono omologabili nella loro funzione di recettori di esperienze. L’udito in particolare è il senso che più nella musica è sollecitato ed è verso di esso che Cartesio indirizza le sue considerazioni.
L’udito deve infatti essere educato, affinato e rigenerato, perché il suono musicale possa raggiungerlo e tramite esso produrre un mutamento, l’emersione di uno stato d’animo nel soggetto che ascolta. Diletto ed emozioni formano per Cartesio una coppia che non può essere scissa, delectare et movere sono cadenze di uno stesso movimento che dall’esterno raggiunge l’interno,. dando luogo ad una nuova rielaborazione, questa volta non più determinata dal mero agente fisico.
Un ritmo infatti non accade per tutti allo stesso modo e la serie delle sue cadenze, la scale della sua maggiore o minore intensità, non è percepita univocamente. Un ritmo si dà nel tempo ma per sfumature, segni, tracce che i sensi interni (lo spirito) avvertono in modalità proprie e non catalogabili, in emozioni irripetibili.
Si deve così poter pensare che la natura sensibile per Cartesio non basti da sola per generare il diletto e che questo non possa essere inteso in senso meramente acustico. Esso infatti non va inteso in senso meramente empiristico come sollecitazione che proviene dall’esterno e raggiungendo il soggetto lo lascia inerte e insensibile. Le pagine del Compendium cartesiano contengono accenni rilevanti alla natura attiva del soggetto e dell’ascoltatore che non si limita ad una mera recezione. Il soggetto attivo significa che esso dispone di una soggettività creatrice capace, mediante l’affinamento e l’educazione dell’udito, di scremare l’armonico dal disarmonico, il tenue dall’intenso, il lento dal veloce e così via.
In particolare esiste nel soggetto-ascoltatore un tessuto e fitto ordito di emozioni che, opportunamente sollecitate dall’avvento del suono musicale, determinano una sfera di azioni-reazioni, stati d’animo, moti che pur sorgendo da una base sensibile, non si risolvono in essa pienamente.
Questa sfera dell’emozione nel trattatello Cartesio non la descrive compiutamente, né dà ad essa una organica sistemazione teorica procedendo per allusioni, suggestioni, in modo quasi schematico, proprio di un pensiero che è in corso.
Il procedimento cartesiano nasce dalla sensibilità ineludibile inscritta nell’uomo mediante i sensi fisici che gli sono stati attribuiti e perviene all’interno (nello spirito), per quanto riguarda la musica in particolare, attraverso l’udito che produce l’ascolto, l’attenzione e l’interiorizzazione del suono fisico che in sé e per sé a Cartesio non interessa. Esterno ed interno non sono quindi due modalità contrapposte e antitetiche, ma destinate ad incontrarsi mediante un rapporto di enteropatia. L’ascolto infatti, che Cartesio molto valorizza ed è questa una indubbia innovazione da lui introdotta, è una forma di relazione e richiede una attenzione (un tendere) che è insieme attiva e passiva. Passività ed attività sono quindi inscritte nello stesso ascoltatore che non si trova mai in una situazione di totale inerzia e non è mai mero recettore.
Il gusto è allora un tendere dell’ascolto che scremando il suono ritmico che gli perviene, lo trasforma interiorizzandolo in significato, in stato di piacevolezza, armonia, benessere ed altro ancora, in una successione emotiva che non ha fine.
L’emozione pare così in Cartesio andar perdendo connotazioni di labilità e fragilità generalmente attribuite alla parola nel senso comune, acquisendo lo statuto estetico ed etico di affinamento della sensibilità, di educazione al gusto, al bello. La valenza estetica nel trattatello cartesiano non è mai conclamata apertamente ma sempre sottesa, anche nelle analisi più rigorosamente astratte e tecniche che l’autore compie. Essa funge da filo sotterraneo che tiene insieme le riflessioni, cucendo le varie parti del discorso, cosicché il tecnicismo linguistico non pare mai come un ordine disanimato e spento.
Sentiamo allora Cartesio sulle e emozioni:
Per quanto attiene ai diversi affetti che, con la diversità di misure, la musica può eccitare, in generale dico che la misura più lenta eccita in noi anche i moti d’animo più lenti, quali sono il languore, la tristezza, il timore, la superbia ecc., quella più veloce, per contro, anche gli affetti più veloci, qual è la gioia, ecc. E lo stesso dicasi dei due generi di battuta: la quadrata, ossia quella che si suddivide sempre in due parti uguali, è più lenta della ternaria, quella che consta di tre parti uguali. La ragione è che quest’ultima occupa maggiormente il senso, dal momento che in essa ci sono più cose a cui fare attenzione – vale a dire tre membri -,mentre nell’altra soltanto due. Ma una disquisizione più esatta su questo argomento dipende da un’accurata conoscenza dei moti dell’animo, sui quali non aggiungo altro.8
Cartesio si ferma qui, non senza tuttavia aver osservato come segue:
Non ometterò tuttavia che tanta è la forza del tempo in musica, che esso, anche da solo, | può di per sé procurare un certo piacere: come risulta nel tamburo, strumento di guerra nel quale non si considera nient’altro che la misura, la quale perciò – ritengo – può lì trovarsi a constare non solo di due o tre parti, ma fors’anche di cinque o sette, e più ancora. E poiché infatti, in tale strumento, il senso non ha nient’altro a cui rivolgere la sua attenzione che il tempo, | in quest’ultimo può esservi una maggiore diversità, in modo che esso occupi maggiormente il senso.9
L’uso del termine piacere nel contesto della riflessione cartesiana (il diletto) di cui si parla nell’esordio del trattato, non va interpretato in senso meramente empirico, poiché lo stesso Cartesio lo connette al mondo variegato dei moti dell’animo.
IL COMPENDIUM TRA CONTINUITA’ E NOVITA’
L’impianto complessivo del Compendium cartesiano si innerva nel solco della tradizione musicologica occidentale che partendo dalla radice pitagorica attraverso il Medioevo (Boezio) e il Rinascimento (Zarlino), è confluita ai tempi di Cartesio nel suo elaborato. Questa operetta giovanile, pur con tutti i limiti che lo stesso Cartesio riconosce presenti nel suo scritto (la brevità, la schematicità ecc.), non si discosta dal quel profilo. Anche la questione delle consonanze ereditata da Zarlino è affrontata da Cartesio in sostanziale continuità con il musicologo veneto.
Più rilevanti ci paiono le novità che il Compendium contiene, seppur non tutte esplicitate e portate ad evidenza. La dimensione dell’ascolto, la posizione dell’ascoltatore e del fruitore, di quello che potenzialmente diverrà il pubblico, è senza dubbio da Cartesio fortemente sottolineata, mentre pare assente nei trattati musicologici della tradizione occidentale antica e più vicina ai tempi del pensatore francese. L’ascolto possiamo dire che rappresenti sotto questo aspetto la novità più eclatante introdotta dal giovane Cartesio nella sua elaborazione. Questa dimensione è poi quella dell’attenzione e del ruolo del pubblico nella fruizione dell’arte, questione che ai tempi di Cartesio non era certamente centrale come diverrà nei secoli successivi a partire dal Settecento con l’illuminismo.
Anche l’analisi del tempo musicale come tempo interiore, già presente in Boezio nel medioevo e risalente alla concezione del tempo di S . Agostino elaborata nelle Confessioni, riemerge in Cartesio nelle riflessioni sul ritmo come tempo e nella modulazione del tempo ritmico a contatto con il mondo delle emozioni, della soggettività, sembrano foriere di ulteriori e più articolati sviluppi per es. nella novecentesca analisi della concezione fenomenologica del tempo come tempo interiore da parte di Edmund Husserl. Il Compendium pare così porsi al crocevia tra tradizione e modernità, contenendo elementi che lo connettono all’una e all’altra, in una sintesi ancora aperta.
Da ultimo si vorrebbe ricordare una poco nota composizione di Cartesio destinata alla versione musicale e che il filosofo, ormai anziano, stese a Stoccolma, pare su commissione della regina Cristina, che tra l’altro voleva così celebrare l’avvento della pace di Westfalia. Si tratta del Balletto danzato al Castello Reale di Stoccolma nel giorno della nascita di Sua Maestà, elaborato nel 1649 in forma di testo poetico e successivamente da altri musicato per la rappresentazione a corte.
Il contenuto del poemetto in realtà è prettamente politico, teso ad esaltare l’avvento della pace ed è imperniato sul rivestimento mitologico attraverso l’intervento di Dei, Muse ed altre figure classicheggianti. La qualità dei versi cartesiani non parve già all’epoca eccelsa (a tal conto si ricorda il non benevolo
giudizio di Albert Thibaudet in un articolo del tempo), mentre diverso e più favorevole fu l’accoglienza del pubblico che lesse nel poemetto e nella rappresentazione a balletto la gioia e l’entusiasmo per la raggiunta pace.
Si legga in tal senso qualche strofa ove, al di là degli orpelli mitologici, si intravede il rasserenamento degli animi per la fine della guerra:
Ora che la Pace è fatta
E che Marte si è ritirato,
Pallade può servirsi di me
Per riparare in pochi anni
Tutte le piazze rovinate
Negli stati sottomessi alla sua legge.
Ed io ho delle ottime ragioni
Per assicurare che le mie canzoni
Non le saranno inutili
Infatti come Amfione un tempo,
Con i soli accordi della mia voce
Ho il potere di costruire città.’10
GASSENDI
Pierre Gassend , detto Gassendi ( 1592 – 1655 ) , sacerdote , scienziato e filosofo , è autore delle Quinte Obiezioni , nelle quali , pur condividendo alcune conclusioni di Cartesio – come l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima – egli critica il “metodo” attraverso cui esse sono conseguite . Gassendi polemizza innanzitutto con l’adozione del concetto stesso di evidenza . Mancando un criterio oggettivo per stabilire quando un’idea possa dirsi chiara e distinta , anche ciò che ci appare tale potrebbe essere frutto di un’illusione . In particolare , non è evidente l’idea di Dio , la quale non è affatto innata e non ha in sé maggiore realtà oggettiva di quanta ne abbiano le idee della potenza , della scienza , della durata e della bontà , allorchè vengano dilatate all’infinito in modo da tramutarsi in quelle dell’onnipotenza , dell’onniscienza dell’eternità e della bontà perfetta . Molte pagine sono inoltre dedicate da Gassendi alla critica della separazione tra corpo e anima . L’anima non è per lui che un corpo più sottile , ma ontologicamente non diverso dalla rimanente materia estesa . E’ dunque errato presupporre due sostanze distinte . Ma lo stesso concetto di sostanza dev’ essere evitato . Infatti , anche se esiste una sostanza che soggiace ai singoli atti di pensiero o ai singoli corpi estesi percepiti con l’esperienza – nel qual caso si tratterebbe comunque di un’unica sostanza “insieme pensante ed estesa” – essa rimarrebbe del tutto irriconoscibile per l’uomo . In altri termini , la fiducia cartesiana nelle capacità esplicative del concetto di sostanza appare a Gassendi un’indebita concessione a un sapere metafisico che , seppure in forma diversa , ripropone i presupposti dogmatici della tradizione aristotelica . La critica di Gassendi a Cartesio si nutre di letture tratte dalla tradizione nominalistica ( il negare l’ esistenza degli universali ) , soprattutto Guglielmo di Ockham , e scettica , soprattutto Sesto Empirico tra gli antichi e Montaigne tra i moderni . Nelle ” Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos ” ( 1624 ) al razionalistico ” scire per causa ” aristotelico egli contrappone l’ osservazione empirica della realtà naturale e la sua puntuale descrizione . L’ uomo pertanto , chiarirà in seguito Gassendi , può conoscere soltanto i fenomeni : infatti , egli può avere conoscenza compiuta solamente di ciò che fa egli stesso ( nel caso degli oggetti artificiali ) o di ciò che può scomporre e ricostruire mentalmente , in modo da coglierne la costruzione interna ( nel caso della realtà naturale ) . Le sostanze , la cui esistenza tuttavia non viene negata , rimangono al di là di queste possibilità e sono conoscibili solo da parte di Dio . Tuttavia va subito detto che i testi cartesiani riportati da Gassendi e indicati come citazioni testuali sono spesso riassunti o parafrasati . Ciò fa sì che egli a volte polemizzi con affermazioni che non corrispondono al dettato del suo interlocutore . Di ciò ebbe a lamentarsi Cartesio stesso nelle Risposte alle Quinte Obiezioni : ” ( voi ) non combattete le mie ragioni , ma , dissimulandole come se fossero di poco valore , o riportandole imperfette , cogliete così l’ occasione di farmi molte obiezioni che le persone poco versate nella filosofia sogliono opporre alle mie conclusioni ” . Verso il 1630 Gassendi , pur rimanendo fedele a questi presupposti di ascendenza scettica , si accosta progressivamente all’ epicureismo nel tentativo di ritrovare il fondamento teorico dei nuovi indirizzi scientifici , dopo il fallimento dell’ aristotelismo e del cartesianesimo . Questo processo culmina nel ” Syntagma philosophicum ” del 1658 . Gli atomi di Democrito e di Epicuro consentirebbero infatti di spiegare da un lato la permanenza della materia e dall’ altro i continui mutamenti che si registrano nei fenomeni fisici . Essi fornirebbero inoltre una convincente spiegazione del processo conoscitivo , provocato dal fatto che alcuni atomi si staccano dall’ oggetto conosciuto per colpire i sensi del soggetto conoscente . Gassendi , che non dimentica di essere un religioso , apporta tuttavia alcune correzioni alla tradizione epicurea , in modo da renderla compatibile con il cristianesimo . Egli sostiene infatti non solo che gli atomi ( eterni per Epicuro ) sono creati da Dio e da lui possono essere eliminati , ma anche che l’ atomismo non esclude il carattere finalistico della natura , voluto da Dio , e che , proprio in base a tale ordine finale , si può risalire dall’ esistenza del mondo a quella di Dio . Infine , egli afferma che gli uomini posseggono , accanto all’ anima sensitiva , anche un’ anima razionale immortale , distaccandosi qui in modo radicale dall’ epicureismo , che voleva l’ anima mortale alla pari del corpo . In questo modo, si ha una vera e propria conciliazione (o, per lo meno, un tentativo) tra cristianesimo ed epicureismo, da sempre considerati come incompatibili.
MARIN MERSENNE
A cura di Alessio Lombardi
VITA
Scienziato e filosofo francese, Marin Mersenne nacque a La Soultière, presso Oizé, Maine nel 1588, e morì a Parigi nel 1648. Dopo un biennio di teologia alla Sorbona, entrò, nel 1611, nell’ordine religioso dei Minimi per insegnare filosofia, e, dal 1619, si stabilì nel convento parigino dell’Annunziata, in cui rimase,fatta eccezione per alcuni brevi viaggi – fino alla morte.
Insegnò a Nevers e, dal 1620, si stabilì a Parigi. Amico e corrispondente dei principali esponenti della cultura del tempo (Cartesio, Hobbes, Fermat, Huygens, Torricelli, Gassendi), divenne il centro di collegamento di quanti, al di fuori della vecchia cultura universitaria, si occupavano con serietà di ricerche e dibattiti in largo senso scientifici. Nelle vesti informali di segretario della repubblica delle lettere dell’epoca , grazie alle periodiche riunioni da lui tenute nel 1666, presso il convento dell’Annunziata, trasse origine l’Accademia delle Scienze. I contributi scientifici di Mersenne spaziano su un ampio fronte di argomenti, estendendosi dall’esegesi biblica alla filosofia, dalla meccanica alla teorica musicale e all’acustica, dalla geometria all’ottica, dalla pneumatica alla linguistica. Al di là degli esiti specifici di questa intensa attività di ricerca, Mersenne svolse un ruolo particolarmente rilevante nell’organizzare la cultura europea del tempo. Il Minimo francese favorì le relazioni tra i dotti, mettendoli in contatto e promuovendone il dibattito e la cooperazione scientifica. Mersenne è noto anche per essere stato in Francia, a lungo, il punto d’incontro di un gruppo di studiosi che per suo mezzo si comunicavano le principali scoperte scientifiche che venivano fatte in Europa e i principali contributi filosofici che si venivano elaborando nei vari paesi. Nelle vesti informali di segretario della repubblica delle lettere dell’epoca, Mersenne partecipò attivamente al dibattito sui problemi del vuoto, soprattutto a partire dal viaggio in Italia effettuato nel 1644. In quella occasione, egli ebbe modo di assistere ad alcuni esperimenti barometrici e di discutere con i principali esponenti del movimento scientifico italiano, diffondendone, poi, in ambiente francese, le acquisizioni.
OPERE
Mersenne diede un importante contributo allo sviluppo delle scienze fisico-matematiche. Con l’obiettivo di difendere la religione cristiana, rivendicò l’esperienza che trascende la scienza e che da essa non può essere confutata.
Nel 1624 pubblicò L’empietà dei deisti, soltanto un anno dopo produsse “verità delle scienze contro gli scettici o pirroniani” .
Di grande interesse è la Correspondance (1933 e seg.) per i rapporti con gli scienziati del tempo, in particolare con Galilei, che difese nei momenti più difficili della sua vita. Di quest’ultimo fu traduttore e divulgatore. Fu inoltre uno dei precursori della teoria musicale: nel 1636 pubblicò L’armonia universale, in cui affrontò tutti i problemi acustici degli strumenti musicali da un punto di vista fisico e matematico. Cartesio fu tra i suoi corrispondenti ed amici e le sue Meditazioni metafisiche, comunicate dal Mersenne ai dotti del tempo, furono per opera di lui arricchite delle “obiezioni” che costoro (Hobbes, Gassendi, ecc) formularono contro le dottrine cartesiane. Nelle sue numerose pubblicazioni scientifiche, Mersenne adotta un atteggiamento in cui da un lato sta la fede religiosa nella sua indipendenza da ogni metafisica, compresa quella aristotelico-scolastica, mentre dall’altro sta la scienza che non riesce certo a cogliere l’essenza del reale nota a Dio, ma riesce sulla base dell’esperienza e senza possibilità di conclusioni assolute a cogliere quella corteccia del mondo che è data dai fenomeni.
NUMERI DI MERSENNE
I Numeri detti di Mersenne sono numeri che si presentano
nella forma Mn=2n-1 con n numero naturale. Sono così
chiamati dall’abate francese che nel secolo XVII dichiarò che tutti i numeri
della forma erano primi per certi valori di n e sicuramente non erano primi per
tutti gli altri valori di n minori di 257. Anche se la sua congettura risultò
più tardi non del tutto vera, resta impressionante pensare che ci fosse
arrivato senza avere a disposizione nemmeno una macchina calcolatrice. Ma i
veri protagonisti della storia sono i numeri di Mersenne con “n “ numero primo.
I numeri primi più grandi di cui siamo a conoscenza sono quasi tutti di questa
forma. Esiste infatti un metodo particolarmente semplice per stabilire se un
numero di Mersenne sia un numero primo oppure no e nello stesso tempo si è
sicuri che se n non è un numero primo allora sicuramente anche Mn
non lo è. I numeri di Mersenne sono la chiave per determinare i numeri
perfetti con la formula di Eulero:
n= 2p-1(2p-1) |
dove p è un numero primo ed n è un numero perfetto se anche il numero di Mersenne è primo |
Sono numeri di Mersenne il 3 (con p= 2) con il quale si ottiene il perfetto = 6, il 7 (con p= 3) e perfetto= 28, il 31 (con p= 5) e perfetto= 496, il 127 (con p= 7) e perfetto= 8128, e così via. A tutt’oggi ne sono noti solo trentanove (vedi lista qui sotto) e non si sa ancora se siano infiniti. Dal 1996 si è creata negli Stati Uniti un’associazione, dedicata alla scoperta di nuovi numeri di Mersenne, denominata GIMPS (Great Internet Mersenne prime Search), che mettendo in comunicazione una rete di migliaia di computer di volontari sparsi in tutto il mondo ha potuto, fino ad oggi, scoprire 5 nuovi numeri di Mersenne (anch’essi numeri primi). I fortunati scopritori hanno potuto aggiudicarsi il premio di 100.000 dollari messi in palio dall’associazione per ogni scoperta. Perché un numero di Mersenne sia primo, dev’esserlo lo stesso n. Quindi, essendo 23.021.377 – 1 primo, dev’essere primo anche 3.021.377. Ma il fatto che n sia primo non garantisce, invece, che lo sia il numero di Mersenne corrispondente. Quando n assume i valori dei primi quattro numeri primi, si generano in effetti primi di Mersenne:
n |
2n – 1 |
2 |
3 |
3 |
7 |
5 |
31 |
7 |
127 |
Ma quando n è il quinto numero primo, cioè 11, il corrispondente numero
di Mersenne si rivela composto (211 – 1 = 2.047, i cui fattori primi
sono 23 e 89). Nel 1644 Mersenne stesso affermò che quando n assumeva i
valori del sesto, settimo e ottavo numero primo, cioè 13, 17 e 19, i
corrispondenti numeri di Mersenne, 213 – 1 (=8.191), 217
– 1 (=131.071) e 219 – 1 (= 524.287), erano primi. Aveva ragione.
Il monaco rivendicò pure arditamente la primalità di 267 – 1. L’affermazione non venne messa in discussione per più di 250 anni, finché, nel 1903, Frank Nelson Cole della Columbia University tenne, ad un incontro della American Mathematical Society, una relazione umilmente intitolata "Sulla fattorizzazione dei grandi numeri". Cole andò alla lavagna ed elevò 2 alla 67ma potenza, per poi sottrarvi 1. Il risultato fu 147.573.952.589.676.412.927. Allora, moltiplicò, sempre a mano, 193.707.721 × 761.838.257.287. I due calcoli corrispondevano. Mersenne aveva torto.
ARNOLD GEULINCX
A cura di Alessandro Sangalli
Il Seicento è da sempre considerato il secolo del razionalismo, atteggiamento tipico della speculazione cartesiana: già nella prima metà del XVII secolo, la filosofia e le idee di Cartesio si diffusero rapidamente dapprima in Olanda – dove l’autore francese aveva pubblicato gran parte delle sue opere – e poi anche negli altri paesi d’Europa, suscitando ovunque lodi, riflessioni critiche, confutazioni o rettifiche. Una delle principali reazioni alla cartesianesimo fu l’occasionalismo, spesso ritenuto una sorta di “scolastica cartesiana”, cioè un utilizzo della filosofia e del linguaggio di Descartes per la difesa della fede religiosa: l’occasionalismo è così definito in analogia a quanto accadde per la scolastica medievale, che, per lo stesso scopo, utilizzava il linguaggio dei neoplatonici o quello di Aristotele. Per le idee espresse nei suoi scritti, Geulincx può senza ombra di dubbio essere considerato il vero iniziatore di questa fondamentale corrente di pensiero filosofica, che avrebbe poi trovato in Malebranche un suo strenuo difensore: sebbene idee simili fossero già state avanzate da Grauld de Cordemoy e da Louis de Ia Forge qualche tempo prima, il nostro autore fu il primo a dare loro una sistematizzazione solida e coerente. L’occasionalismo di Geulincx subì un ulteriore approfondimento nel senso della sopraccitata scolastica cartesiana per opera del succitato francese Nicolas Malebranche (1638-1715).
Arnold Geulincx nacque ad Anversa il 31 gennaio 1624. Studiò Filosofia e Medicina all’Università di Lovanio (Louvain), la stessa dove in futuro avrebbe ottenuto la cattedra di Filosofia. Nel 1653, pubblicò le Quaestiones quodlibeticae, opera in cui si trova una critica radicale al pensiero tradizionale, cioè la scolastica medievale di stampo aristotelico. Malvisto dagli ambienti cattolici a causa delle sue tendenze razionalistiche, venne rimosso dall’insegnamento nel 1658. Convertitosi al calvinismo, si trasferì a Leida, in Olanda, vivendo in condizioni di ristrettezza e povertà. Dopo che – grazie all’influenza di Abraham Heidanus, suo grande amico – ebbe ottenuto un posto di professore all’Università di Leida, tornò a dedicarsi alla stesura dei suoi scritti: pubblicò la Logica restituta (1662), il Methodus inveniendi argumenta (1663) e la prima parte della sua Ethica (1665). Molti dei suoi scritti rimasero però inediti: solo dopo la morte, avvenuta a Leida nel novembre del 1669, alcuni suoi allievi si occuparono di pubblicare le opere restanti, in particolare la seconda parte dell’Ethica (1675; pubblicata con lo pseudonimo di Philaretus), la Physica vera (1688), l’Annotata in Principia philosophiae R. Cartesii (1691) e la Metaphysica vera et ad mentem peripateticam (1691).
Nell’elaborare il suo pensiero, Geulincx prende spunto dalla non risolta separazione cartesiana tra anima (res cogitans) e corpo (res extensa) e dalla loro dipendenza da Dio. Il più grande problema aperto dal pensiero di Cartesio era, com’è noto, il seguente: se la sostanza spirituale e quella materiale sono eterogenee, com’è possibile che l’una intervenga sull’altra? In altri termini: com’è possibile che, quando la mia anima desidera alzare il braccio, il corpo risponda a tale desiderio? Una vexata quaestio a cui tutti i filosofi del Seicento cercheranno di dare una risposta. Geulincx ritiene Dio l’unica vera causa di tutto ciò che si verifica nell’una e nell’altra sostanza: la sostanza pensante (l’anima) è certamente in rapporto con quella estesa (il corpo); infatti le modificazioni del corpo diventano idee (sensazioni) e le idee dell’anima, mediante la volontà, producono i movimenti del corpo: penso di alzare il braccio e il braccio effettivamente si alza. Cartesio attribuiva questa corrispondenza all’azione esercitata dal corpo sull’anima o dall’anima sul corpo, senza però spiegare in che modo due sostanze in tutto e per tutto diverse potessero agire una sull’altra (la spiegazione della “ghiandola pineale”, addotta da Cartesio, era inefficace e creava piuù problemi di quanti non ne risolvesse). Essendo un’azione del genere pressoché inconcepibile, a Geulincx non resta che riconoscere che è Dio stesso la causa diretta ed immediata delle modificazioni corrispondenti che si verificano nell’anima e nel corpo: né i fatti esterni sono causa degli stati mentali interni, né stati psichici causano movimenti fisici.
Detto altrimenti, non è il corpo la causa delle sensazioni, né la volontà quella dei movimenti corporei, ma è Dio che produce nell’anima la sensazione in occasione di una modificazione corporea o il movimento in occasione di una volizione dell’anima. L’interazione tra corpo e anima (cioè tra le due res) è reso possibile dal continuo intervento di Dio, simile (l’immagine è di Leibniz) a un “grande orologiaio” che continuamente interviene per sincronizzare due orologi che, senza l’intervento divino, segnerebbe immancabilmente ore diverse. Detto altrimenti, ciò che accade nel corpo e nell’anima è solo un’occasione per l’intervento della causalità divina, che è l’unica vera causalità esistente. Di qui il nome di “occasionalismo” che fu dato alla corrente di pensiero inaugurata da Geulincx.
Nessun essere ha in sé la ragione della propria esistenza né può essere la causa di un altro essere: tutto ciò è dovuto unicamente a Dio, il cui intervento nel mondo è incessante. Egli è la causa e il fondamento ultimo di tutto ciò che è. I miei desideri, le mie volizioni e i miei pensieri sono perciò i desideri, le volizioni e i pensieri di Dio: noi pensiamo le cose in Dio, dirà Malebranche. Cartesio aveva lasciato irrisolto, o quasi, il problema della relazione tra il pensiero universale, la res cogitans, e le volizioni dell’individuo: Geulincx le interpreta come modi del pensiero divino, dando alla sua filosofia un marcato colore spinoziano. L’amore per la retta ragione è la suprema virtù, fonte dalla quale sgorgano le altre virtù cardinali, la diligenza, l’obbedienza, la giustizia e l’umiltà. La virtù cardine è l’umiltà: l’uomo nel mondo non è un attore, ma uno spettatore del meccanismo della causalità divina che si svolge dentro di lui. L’unico atteggiamento possibile è quindi l’umiltà e la sottomissione di fronte ai voleri di Dio. L’atteggiamento di Geulincx di fronte alla vita è senza dubbio quello di un rassegnato ottimismo: un ottimismo in fondo non molto diverso da quello degli antichi Stoici, placidamente rassegnati di fronte al necessario e immutabile occorrere degli eventi.
NICOLAS MALEBRANCHE
Nicolas de Malebranche nacque a Parigi nel 1638 , entrò come novizio all’ Oratorio nel 1660 e fu ordinato sacerdote nel 1664 . Tra le sue opere si ricordano : Ricerca della verità ( 1674 – 75 ) , Conversazioni cristiane , Trattato della natura e della grazia ( 1680 ) , oggetto di una polemica con il giansenista Antoine Arnauld , Bousset e Fènelon , Trattato di morale , Meditazioni cristiane e metafisiche , Dialoghi sulla metafisica e la religione . Morì nel 1715 . In Malebranche l’ unico vero scopo della filosofia , dove non conta altro che la ” gloria di Dio ” , é di mostrare che in realtà l’ anima non si distacca mai da Dio , anche quando essa se ne crede molto lontana , ossia quando essa é al più basso livello di conoscenza , che Malebranche ( sulla scia essenzialmente di Platone ) identifica con la sensibilità . La falsa credenza della nostra indipendenza e del potere autonomo delle creature é una forma di peccato di orgoglio ( come d’ altronde aveva già sostenuto Giordano Bruno ) , ed é esclusivamente un fatto intenzionale o volontario ( d’ una intenzione pervertita dal peccato originale : quella di allontanarsi da Dio ) ; ma ciò nella realtà é impossibile poichè tutte le realtà sono necessariamente in Dio . La principale origine della meditazione personale di Malebranche sembra essere stata la difficoltà del cartesianesimo di spiegare il rapporto tra finito e infinito , tra corpo e anima . Cartesio era stato l’ autore di una fisica che , sin dalle prime sue opere , Malebranche adottò con entusiasmo ; ne elaborò lui stesso alcune parti , come la teoria della luce , e seguì con convinzione la teoria dell’ animale – macchina ; questa fisica era fondata sull’ idea chiara e distinta dell’ estensione , che essa considerava come la forma rapprsentativa della sostanza creata ; d’ altronde essa poneva nel movimento la causa di tutte le modificazioni dell’ universo , e affermava che il corpo agisce sull’ anima e l’ anima sul corpo . Cartesio pensava dunque che la realtà materiale potesse comunicare qualcosa all’ anima che la percepisce e che la materia avesse in se stessa potenzialità di modificarsi . Secondo Malebranche questi errori e difficoltà propri della filosofia cartesiana possono essere evitati solo se si comprende l’ essenza dello stesso pensiero cartesiano . Un primo modo di evitare questi errori é indubbiamente dato dalla teoria della visione di tutte le realtà in Dio . La filosofia di Cartesio permette di distinguere , nella nostra percezione delle cose esteriori , essenzialmente due elementi : 1 ) qualità sensibili oscure , le quali sono modi di essere modificati dalla sensazione e modi di essere della nostra anima , che danno la verità ; 2 ) un’ idea chiara e distinta , quella dell’ estensione , che é puramente intellettuale e non sensibile . Da questi due elementi del cartesianesimo , Malebranche effettua le seguenti osservazioni : l’ estensione non può essere infinita se non identificandosi con Dio , ed é in Dio che noi la possiamo intuire ; anzi , é la qualità dell’ infinitezza di Dio stesso ” in quanto partecipa ” alla creazione materiale ; l’ idea della ” partecipazione ” , manco a dirlo , sa fortemente di platonico . Un secondo modo per evitare gli errori cartesiani é la teoria delle cause occasionali . Malebranche accoglie il principio cartesiano dell’ evidenza , così come difende le esigenze di un razionalismo rigoroso . La ragione riveste infatti un carattere necessario , che vale anche per Dio , il quale si identifica con la ragione stessa ; già Agostino era stato il precursore di queste teorie , sostenendo che la nostra ragione si identificasse , o meglio , fosse una pallida copia della seconda persona della Trinità ( la Sapienza ) . L’ ordine del mondo non é dunque espressione di una volontà arbitraria della divinità , come di fatto pensava Cartesio , ma rispecchia la struttura della ragione universale e infinita ( infinita per le seguenti ragioni : a ) essa comprende in sè la totalità delle ” idee ” ; b ) tale totalità comporta un numero infinito di ” idee ” ; c ) tra queste idee vi é pure quella di infinito ) ; la ragione presente in Dio , cui Dio obbedisce non obbedendo che a se stesso , coincide per Malebranche con la struttura oggettiva della realtà e di conseguenza essa fornisce anche la garanzia assoluta del sapere che l’ uomo attinge consultandola . Un simile impianto razionalistico trova però paradossalmente in Malebranche un esito mistico – religioso e il ponte di passaggio dall’ uno all’ altro termine é offerto proprio dalla critica alla dottrina cartesiana del rapporto tra le sostanze . Erroneamente , sostiene Malebranche , siamo soliti congiungere causalmente due cose per il solo fatto che si vede sempre l’ una insieme all’ altra . Per esempio , quando una palla da biliardo ne incontra un’ altra , si sostiene che la prima é causa del movimento della seconda ; oppure quando il braccio si muove in concomitanza della mia volontà di muoverlo , si dice che il mio atto di volizione é causa del moto del braccio . In realtà é Dio la causa reale del movimento della seconda palla da biliardo così come del braccio , mentre la prima palla o la volontà non sono che le cause occasionali . Infatti , si può conoscere un rapporto causale solo quando esso é evidente . Ma l’ osservazione dei movimenti delle due palle da biliardo , o della concomitanza tra la mia volizione e il moto del braccio , non offre questa evidenza . Per contro , la ragione mi garantisce l’ evidenza del fatto che Dio é causa non solo di tutte le cose , ma anche di qualsiasi mutamento avvenga nel mondo . Viene così negata non solo l’ efficienza causale della sostanza pensante su quella estesa ( o viceversa ) , ma anche quella interna alla sostanza estesa stessa , cioè tra corpo e corpo , come nel caso delle due palle da biliardo . Ma se Dio é causa di ogni evento possibile , egli sarà anche la vera causa delle nostre idee . Noi dunque conosciamo gli oggetti non in quanto li percepiamo sensibilmente , ma in quanto vediamo le cose in Dio , cioè in quanto Dio comunica direttamente le idee alla nostra mente . Il dubbio cartesiano sulla veridicità dell’ esperienza viene così risolto non già facendo di Dio il semplice garante dei meccanismi conoscitivi dell’ uomo , ma considerandolo l’ autore del contenuto stesso della conoscenza mediante un’ illuminazione interiore di esplicita ascendenza agostiniana : Malebranche a proposito dice : ” non soltanto non potremmo veder nulla che Dio non volesse lasciarci vedere , ma non potremmo veder nulla se Dio stesso non ce lo facesse vedere . E’ Dio stesso , quindi , che illumina i filosofi nelle conoscenze che gli uomini ingrati chiamano naturali , anche se provengano loro da nessun altro luogo che dal Cielo ” . In quella che può essere considerata la sua opera più importante , La ricerca della verità , Malebranche affronta proprio la questione della visione delle idee in Dio : da un lato esprime l’ esigenza di privilegiare le fonti interiori della conoscenza e il fondamento teologico che la supporta , in piena armonia con la tradizione agostiniana ; dall’ altro egli si mantiene fedele all’ istanza razionalistica di Cartesio , fino a fare della ragione la struttura necessaria della realtà e del sapere , che trova corrispondenza nella natura stessa di Dio . In parte Malebranche riprende una tematica tipica della filosofia scolastica – cristiana : Dio ha in sè l’ apparato ideale ( quelle che Platone chiamava ” idee ” ) ispirandosi al quale può creare tutta la realtà ( può decidere se crearla o meno , ma non può decidere se pensarla o no : é cioè vincolato dalla sua natura stessa ) oppure egli é totalmente libero di agire a suo piacimento senza vincoli interni , ossia senza le ” idee ” ( l’ apparato ideale stesso é un vincolo perchè Dio dovrebbe ispirarsi ad esso nel creare la realtà ) ? Malebranche risponde al quesito dicendo che ” é assolutamente necessario che Dio abbia in se stesso le idee di tutti gli esseri che ha creato , poichè altrimenti Egli non avrebbe potuto crearli ” e aggiunge anche che é necessario che perciò ” veda tutti questi esseri contemplando le sue perfezioni essenziali con le quali essi sono collegati ” . Cartesio secondo Malebranche sbagliava in modo grossolano quando sosteneva che di una cosa si potesse affermare solo ciò che si concepisce chiaramente e distintamente nella sua idea : analizzando l’ idea di corpo , infatti , non vi si troverà altro che una estensione figurata e mobile , ma niente che sia paragonabile a un principio che si definisca come ” forza ” . E’ solo in Dio che noi possiamo trovare una vera causa efficiente e , se l’ incontro dei corpi é seguito da una regolarità di modificazioni , si dirà che l’ urto é la causa occasionale o naturale in cui agisce l’ unica causa che é Dio : in occasione dell’ incontro Dio vuole , con una volontà attiva , che queste modifiche si compiano . Dovunque , quindi , solo l’ azione divina rende intellegibile la realtà ; questa azione ha un carattere di perfezione che ci aiuta nella scoperta e nell’ interpretazione della natura : infatti , visto che Dio é l’ essere universale e perfetto , agisce secondo leggi universali e secondo leggi semplici : questa semplicità che noi vediamo all’ opera nelle leggi della natura , dove l’ effetto più complicato é sempre prodotto attraverso le vie più semplici , si trova pure , in una maniera che possiamo comprendere in modo chiaro e razionale , nelle leggi della grazia e della giustizia divina , perchè un’ azione di Dio non può essere arbitraria , ma ha una sua norma anche se questa sfugge alla nostra concettualizzazione . Dio é anche norma dell’ azione morale : perchè é in lui che noi troviamo la regola secondo la quale le creature si ordinano in base a una gerarchia di perfezioni da cui proviene l’ imperativo su ciò che é moralmente preferibile : l’ ideale morale é agire secondo l’ ordine , che é la virtù che racchiude tutte le altre virtù .
GIANSENIO
1. Vita e opere
GIANSENIOCornelio Giansenio – nome italianizzato di Cornelis Otto Janssen – nacque ad Ackoy, presso Utrecht, il 28 ottobre del 1585. Fu educato nel Collegio di S. Gerolamo a Utrecht, poi a Lovanio (Louvain) presso i Gesuiti. Dal 1602 studiò all’università di Lovanio, dove conobbe Jean Du Vergier de Hauranne, futuro abate di Saint Cyran. Dopo aver conseguito il baccalaureato in Filosofia, si trasferì a Parigi per completare i suoi studi teologici. Insegnò per qualche anno nel collegio della cattedrale di Bayonne, dove l’amico Du Vergier era canonico. Per molti anni Giansenio e Du Vergier si dedicarono allo studio comune degli scritti dei Padri della Chiesa, in particolare di S. Agostino.
Nel 1617, quando Du Vergier fu eletto abate di Saint Cyran, Giansenio fece ritorno a Lovanio per occuparsi della ricostruzione e della direzione del collegio di Santa Pulcheria: due anni più tardi, diventato dottore in Teologia, iniziò ad insegnare all’università cittadina ottenendo la cattedra di Sacra Scrittura. In questo periodo iniziò a scrivere la sua opera più importante, l’Augustinus, che fu pubblicata solo postuma nel 1640.
Nel 1635 fu nominato rettore dell’università di Lovanio e l’anno dopo fu investito vescovo di Ypres, nelle Fiandre. Qui morì di peste il 6 maggio del 1638.
Le sue opere principali sono: Alexipharmacum (1630), che – sotto lo pseudonimo di Alessandro Patrizio Armacano – difese l’anno successivo con una Spongia notarum dalle accuse di Gilberto Voet; Tetrateuchus (1639), commentario ai Vangeli; Pentateuchus (1641) e Analecta (1644) commentari al Pentateuco, ai Proverbi, all’Ecclesiaste, alla Sapienza, ad Abacuc e a Sofonia; Augustinus, seu doctrina sancti Augustini de humanae naturae sanitate, aegritudine, medicina adversus Pelagianos et Massilienses (Lovanio 1640 e subito ristampato a Parigi nel 1641), trattato che contiene la teorizzazione del giansenismo.
Alcune posizioni di Giansenio, come l’accettazione del sinodo protestante di Dordrecht del 1619 o l’aver accolto con favore il De republica Christiana di Marcantonio De Dominis, avrebbero potuto metterlo in sospetto di eresia, ma le sue opere in difesa della Chiesa cattolica, dove negava ai Protestanti l’autorità di una riforma, lo facevano considerare assertore della vera fede. Solo dopo la sua morte la Congregazione dell’Indice e della Santa Inquisizione condannò la sua opera Augustinus, in cui vennero ravvisati errori sulla dottrina della predestinazione. Solo questa pubblicazione tardiva risparmiò l’autore dal clamore delle polemiche e delle condanne che si scatenarono contro la sua dottrina.
2. L’Augustinus e la teorizzazione del giansenismo
L’opera di Giansenio nasce da un sentimento di reazione e da un bisogno di riforma all’interno del cattolicesimo: una reazione che spingeva ad una maggiore interiorità della vita religiosa, in opposizione alle tendenze post-tridentine, e auspicava un ritorno alle Scritture e ai Padri della Chiesa; una riforma incentrata sul rafforzamento dell’autorità dei vescovi contro il potere degli ordini religiosi, in particolare contro i gesuiti.
L’Augustinus si colloca nella secolare polemica sulla grazia e sulla predestinazione: è un’esposizione delle teorie di Giansenio confermata dall’autorità di S. Agostino, che il nostro considera «Pater Patrum, doctor doctorum, primus post scriptores canonicos, inter omnes vere solidus, subtilis, irrefragabilis, angelicus, seraphicus, excellentissimus et ineffabiliter mirabilis». Non a caso un maestro come Piero Martinetti ha scritto che la corrente del giansenismo «segnò un ritorno deciso all’agostinismo più rigoroso» (La libertà, cap. IV). L’opera consta di tre volumi, cui Giansenio dedicò più di vent’anni di lavoro: il primo volume espone e confuta l’eresia pelagiana (eresia che negava la trasmissione del peccato originale e la necessità della grazia, affermando la capacità dell’uomo di guadagnare la salvezza con le sue sole forze); il secondo si occupa dello status naturae lapsae e dello status naturae purae; il terzo esplicita la dottrina giansenistica sulla grazia e sulla predestinazione. L’Augustinus si chiude con una critica alla dottrina molinista.
Nell’elaborare la sua dottrina, Giansenio riprende e sviluppa le teorie di Baio (Michel de Bay, attivo nel secolo XVI nell’università di Lovanio): come il suo predecessore, egli pensa che l’uomo sia irrimediabilmente corrotto ed inevitabilmente incline al male a causa del peccato originale (la caduta, lapsus) che si trasmette in maniera ereditaria; nonostante il libero arbitrio, l’uomo non sa che peccare. Senza la grazia divina, per l’uomo è impossibile la salvezza. Prima della caduta, Adamo era libero, poteva scegliere se peccare o meno ed era dotato solo della grazia sufficiente (per Agostino auxilium sine quo non). Per effetto del lapsus, egli perde la libertà e per poter compiere ogni atto buono necessita della grazia efficace (auxilium quo), ovvero la grazia che determina la volontà. L’uomo è quindi ineluttabilmente trascinato al male e naturalmente incline a peccare: dopo il peccato originale, la volontà umana perde la sua libertà e si trova sotto l’influsso invincibile del piacere e del male. Le opere dell’uomo sarebbero solamente peccati se non intervenisse la grazia divina a determinare necessariamente la volontà e a dirigerla verso il bene.
In polemica con i molinisti – che in base alla dottrina del gesuita Luis de Molina (1535-1600) conciliavano l’onnipotenza della grazia con la libertà dell’uomo, ammettendo l’esistenza di una grazia sufficiente (data da Dio a tutti gli uomini) che riceveva però la sua efficacia dall’assenso della nostra libertà – Giansenio sostiene che ogni grazia è efficace e perciò stesso necessita inevitabilmente: sotto la sua azione non possiamo fare nulla di libero. Dio ha predestinato alla salvezza o alla dannazione con un atto antecedente ad ogni merito o colpa.
3. Il determinismo e la morale
La dottrina delineata da Giansenio porta innegabilmente con sé un rigido determinismo: in un simile orizzonte, non si può parlare di libertà, a meno di intenderla in modo negativo, come assenza di vincoli materiali o coazione fisica (libertà da). L’uomo – come abbiamo detto poco sopra – è portato a peccare in modo necessario e inevitabile, non è libero di scegliere se peccare o meno, non è dotato (come Adamo) del liberum arbitrium indifferentiae. Le opere buone che compie sono da imputare all’effetto della grazia efficace, che annulla l’azione della concupiscenza e del desiderio e volge infallibilmente la volontà umana verso il bene. Nemmeno l’uomo che compie il bene è quindi libero.
L’uomo non può far nulla per meritarsi la grazia: anzi, indipendentemente da essa, egli non può acquistare nessun merito. L’uomo non ha veramente meriti propri, ma solo meriti di grazia, doni della misericordia divina. La grazia infatti previene il libero arbitrio, che non può far altro che seguirla e obbedirle. Attenzione però a non travisare: la necessità con cui un peccatore pecca non lo assolve dalla sua colpa. Il peccato, per quanto necessario, è sempre e comunque una colpa.
La salvezza è opera esclusiva della grazia, che ci viene donata da Dio senza alcun merito da parte nostra, ma solo come dono della sua bontà. È sempre Dio che sceglie liberamente chi predestinare alla salvezza e chi alla dannazione, con un atto le cui motivazioni non possiamo penetrare. Il numero degli eletti è fissato nella mente di Dio: il mondo non esiste che per essi e il tempo si arresterà quando il loro numero sarà completo.
Ma allora a cosa servono i precetti, i comandamenti e le esortazioni? Forse Dio comanda agli uomini ciò che, senza la sua grazia, sa essere impossibile da realizzare? E la grazia, determinando necessariamente la volontà, non annulla nell’uomo ogni merito e autonomia sul piano morale? Queste difficoltà non sono facilmente risolvibili, e forse sono comuni a tutte le prospettive deterministiche, sempre in pericolo di farsi portavoce di quell’unità assoluta, di quella necessità fatalistica che William James – in The Dilemma of Determinism, una celebre conferenza del 1884 – paragonò a «un blocco di ferro nel quale non può esservi equivoco od ombra di deviazione». Martinetti, notando queste stesse oscurità, scrive che l’Augustinus di Giansenio «non indietreggia dinanzi a conseguenze paradossali ed inumane: ma in tutta l’opera spira un senso alto e severo di moralità, che spiega come essa abbia potuto sollevare tanti entusiasmi e tante tempeste nella chiesa» (La libertà, cap. IV).
Giansenio contrapponeva le sue tesi alla rilassatezza e al lassismo della morale ecclesiastica, specialmente a quella gesuitica, secondo la quale – in sostanza – la salvezza è sempre a portata dell’uomo. L’uomo tratteggiato da Molina possiede infatti una grazia sufficiente che, se accompagnata alla buona volontà, è tutto ciò che occorre per godere della salvezza eterna: questa era la tesi che la Compagnia di Gesù aveva posto a fondamento del suo proselitismo, volto a conservare nella Chiesa il maggior numero possibile di persone, senza troppo badare alla religiosità interiore. Contro questa prospettiva, il giansenismo proponeva un rigorismo morale e religioso senza compromessi.
4. La condanna e la difesa
Il 10 agosto 1641 la Congregazione dell’Indice e dell’Inquisizione condannò 18 opere, tra le quali anche l’Augustinus di Giansenio. A questa condanna, oltre alla denuncia della Sorbona (che il 1° luglio 1645 condensò il giansenismo in cinque proposizioni ritenute eretiche) fecero seguito vari anatemi papali: la bolla In eminenti di Urbano VIII nel 1642, la bolla Cum occasione di Innocenzo X nel 1653, le bolle Ad sanctam beati Petri sedem (1656) e Regiminis Apostolici (1664) di Alessandro VII.
Anche nel Settecento, il giansenismo subì gli attacchi della Santa Sede: su pressione dei gesuiti, papa Clemente XI, con le bolle In vinea Domini (1705) e Unigenitus (1713), arrivò perfino a condannare frasi perfettamente ortodosse contenute nell’Augustinus. Questo fatto provocò una momentanea ribellione nella chiesa transalpina: l’arcivescovo di Parigi Louis Antoine De Noailles e altri diciotto prelati non accettarono i contenuti della bolla e fecero appello al sinodo generale francese. Clemente XI reagì con l’emissione della bolla Pastoralis officii (1718), condannando l’appello e scomunicando gli appellanti. Nemmeno il ritorno di De Noailles all’ortodossia vaticana dieci anni più tardi riportò la situazione alla normalità: il parlamento francese continuò ancora per molto tempo a rifiutare la bolla Unigenitus.
Il giansenismo è ritenuto dottrina eretica dalla Chiesa Cattolica, ma Giansenio, per il fatto di non aver divulgato le sue idee, dal punto di vista del diritto canonico, non è considerato un eretico.
Fra i difensori e i sostenitori del giansenismo possiamo ricordare l’abate Saint Cyran e amico di Giansenio, Jean Du Vergier, il discepolo di questi Antoine Arnauld, il teologo Pierre Nicole, lo scrittore Pasquier Quesnel e il più noto Blaise Pascal. Quest’ultimo, il 23 gennaio 1656, pubblicò con lo pseudonimo di Luigi Montalto la prima delle sue diciotto Lettere provinciali, un capolavoro di profondità e umorismo dove si occupa di smontare la dottrina molinista, difendendo la prospettiva agostiniana e giansenista.
BALTASAR GRACIAN
Baltasar Gracián y Morales (Belmonte de Gracián, 8 gennaio 1601 – Tarazona, 6 dicembre 1658) è stato uno scrittore e filosofo spagnolo. L’opera intellettuale di Baltasar Gracián che si dedicò alla prosa didattica e filosofica, si sviluppò durante il cosiddetto Siglo de Oro. Tra le sue opere spicca El Criticón – allegoria della vita umana – che costituisce una delle opere letterarie più importanti della letteratura spagnola, comparabile per qualità con il Don Chisciotte di Miguel Cervantes o La Celestina di Fernando de Rojas. La produzione letteraria di Gracián si può ascrivere alla corrente letteraria chiamata concettismo. Egli creò uno stile basato su frasi brevi, molto personale e denso, concentrato e polisemico, nel quale domina il gioco di parole e l’associazione ingegnosa fra parole e idee. Il risultato è un linguaggio laconico, pieno di aforismi e capace di esprimere una ricca gamma di significati. Il pensiero di Gracián è pessimista, come è tipico del barocco spagnolo. Il mondo è uno spazio ostile e ingannevole nel quale prevalgono le apparenze invece che la virtù e la verità. L’uomo è un essere debole, interessato e malevolo. Buona parte delle sue opere si occupano di fornire al lettore i mezzi e le risorse che gli permettano di districarsi nelle trappole della vita. È necessario sapere come farsi valere, essere prudente e avvantaggiarsi della conoscenza basata sull’esperienza, anche dissimulando e comportarsi a secondo dell’occasione. Tutto ciò è valso a Gracián la fama di precursore dell’esistenzialismo e addirittura del postmodernismo. Ha influenzato pensatori come La Rochefoucauld e più tardi anche Schopenhauer (che lo tradusse in tedesco). Senza dubbio il suo pensiero vitalistico è inseparabile dalla coscienza di una Spagna ormai in decadenza, come si avverte nel suo aforisma: «Fiorì nel secolo d’oro la semplicità, in questa di ferro la malvagità». Nato vicino Calatayud nel 1601, le notizie sulla sua infanzia sono molto scarse. Tutto indica che studiò lettere fin dai dieci o dodici anni nella sua città natale, forse nel locale collegio dei gesuiti. A partire dal 1617 probabilmente soggiornò uno o due anni a Toledo, con suo zio Antonio Gracián, cappellano di San Juan de los Reyes, insieme al quale studiò logica e approfondì la conoscenza del latino. Nel 1619 iniziò il noviziato presso il collegio provinciale dei gesuiti in Aragona, situato nella città di Tarragona. Grazie alla profondità dei suoi studi umanistici precedenti, Gracián fu esentato dal frequentare i primi due anni di preparazione. Nel 1621 tornò a Calatayud, dove frequentò due anni di filosofia. A questo periodo si fa risalire il suo primo interesse per l’etica, che influenzò tutta la sua produzione letteraria. Altri quattro corsi di Teologia nell’università di Saragozza completarono la sua formazione religiosa. Gracián fu ordinato sacerdote nel 1627 e cominciò a insegnare dottrine umanistiche nel collegio di Calatayud. Pare che questo fosse un periodo positivo, ma pochi anni più tardi Gracián ebbe gravi contrasti con i gesuiti di Valencia, dove era stato trasferito nel 1630. Da Valencia lo studioso passò a Lerida nel 1631, incaricato di insegnare teologia morale. Nel 1633 si spostò a Gandía per insegnare filosofia nel collegio gesuita della città e si rinnovarono gli scontri e le inimicizie con i suoi vecchi correligionari di Valencia. Nell’estate del 1636 tornò in Aragona, a Huesca, come confessore e predicatore. Il soggiorno in quest’ultima città ebbe una straordinaria importanza nella vita del gesuita, perché con l’appoggio dell’erudito mecenate Vincencio Juan de Lastanosa poté pubblicare il suo primo libro: El Héroe (L’eroe) nel 1637. Lastanosa riuniva nella sua casa-museo un importante cenacolo artistico e letterario. Il palazzo di Lastanosa, che fu visitato anche da Filippo IV, era famoso per i suoi bellissimi giardini, per la stupenda armeria, per una collezione di medaglie e un’enorme biblioteca di circa settemila volumi: un numero incredibile per l’epoca. In questo ambiente molto stimolante Gracián entrò in contatto con il mondo intellettuale aragonese, conoscendo fra gli altri il poeta Manuel de Salinas e lo storico Juan Francisco Andrés de Uztarroz. Nel 1639 il gesuita tornò a Saragozza, nominato confessore del viceré Aragón Francisco Maria Carrafa, duca di Nochera, insieme al quale si recò a Madrid, dove predicò. Nonostante ciò la sua esperienza a Corte fu scoraggiante e anche se aspirava a diventare parte della scena letteraria della capitale, le sue ambizioni si trasformarono presto in un cocente disinganno. A Madrid, Gracián pubblicò la sua seconda opera, El Político (Il politico) nel 1640, e terminò la prima versione del suo famoso trattato teorico sull’estetica letteraria barocca, intitolato Arte de ingenio, tratado de la agudeza (Arte dell’ingegno, trattato dell’acutezza, 1642). Dal 1642 al 1644 fu vicedirettore del collegio di Tarragona, dove aiutò spiritualmente i soldati che presero Lerida durante la Sollevazione della Catalogna. Al termine di questa campagna militare si ammalò e fu quindi inviato a Valencia in convalescenza. Grazie alla magnifica biblioteca dell’ospedale di Valencia preparò una nuova opera, El Discreto (Il discreto, 1646), che fu pubblicata a Huesca. Tornato in questa città insegnò teologia morale fino al 1650. Fu durante questo periodo che poté più attivamente dedicarsi alla letteratura. Pubblicò Oráculo manual y arte de prudencia (Oracolo manuale e arte della prudenza, 1647) e la seconda versione del Trattato dell’acutezza (1648). Nell’estate del 1650 Gracián fu destinato a Saragozza con l’incarico di maestro di Sacra Scrittura. L’anno seguente pubblica la prima parte della sua opera migliore: El Criticón (Il criticone). Gracián aveva fin qui pubblicato tutte le sue opere senza il permesso preventivo della Compagnia di Gesù, il che non aveva mancato di sollevare proteste formali contro lo scrittore, indirizzate alle massime autorità dei gesuiti. Queste proteste non dissuasero Gracián dal pubblicare la seconda parte di El Criticón a Huesca. Alcuni gesuiti di Valencia, in conseguenza di vecchie inimicizie con lo studioso, interpretarono uno dei passaggi dell’opera come contenente offese personali, il che provocò nuovi attacchi e proteste davanti ai superiori della Compagnia. In particolare furono criticati i contenuti scarsamente dottrinali dell’opera di Gracián, considerati indegni per uno studioso gesuita. Forse per alleggerire la sua situazione, Gracián pubblicò, per la prima volta col suo vero nome, El Comulgatorio (Il recinto dell’altare, 1655), un libro sulla preparazione all’eucarestia. Tuttavia l’apparizione nel 1657 della terza parte di El Criticón causò la sua definitiva caduta in disgrazia. Il nuovo provinciale gesuita in Aragona, il catalano Jacinto Piquer, rimproverò pubblicamente Gracián nel refettorio e gli impose, per penitenza, digiuno a pane e acqua, proibendogli anche di possedere inchiostro, penne e carta e privandolo della sua cattedra di Sacra Scrittura nel collegio gesuita di Saragozza. A partire dal 1658 Gracián fu confinato a Graus, un paesino nei dintorni di Huesca. Dopo poco tempo, Gracián scrisse al Generale della Compagnia per sollecitare il suo ingresso in un altro ordine religioso. La sua domanda non fu accettata, ma si decise di attenuargli la pena: nell’aprile del 1658 fu trasferito al collegio di Tarazona. Le ultime avversità accelerarono la decadenza fisica di Gracián, in giugno non poté assistere alla congregazione provinciale di Calatayud e poco più tardi, il 6 dicembre 1658, morì a Tarazona.
ANTOINE ARNAULD
“Nulla è da stimarsi più dell’attitudine a distinguere il vero dal falso. Le altre qualità della mente sono di uso limitato, ma la precisione del pensiero è essenziale per ogni aspetto e per ogni passo della vita. Distinguere il vero dal falso è difficile non solo nelle scienze ma anche nei problemi di tutti i giorni che gli uomini sollevano e discutono. Gli uomini sono ovunque messi di fronte a strade opposte – alcune vere, altre false – e la ragione deve scegliere tra di esse. Chi sceglie bene ha una mente sana, chi sceglie male ha una mente difettosa. La capacità di discernere il vero è il più importante metro delle menti” (L’arte di pensare).
CRONOLOGIA
1612, 6 febbraio. Nasce a Parigi il ventesimo figlio di Antoine, un giudice e di sua moglie Catherine.
1637 L’abbazia di Port Royal afferma il suo antichissimo privilegio di ospitare i preti laici e alcuni di questi divennero insegnanti nel convento parigino di Port Royal des Champs.
1638 L’abate Saint Cyran (capo spirituale dell’abbazia di Port Royal e guida di Arnauld) viene arrestato su ordine del Cardinale Richelieu.
1639 Inizia ad insegnare filosofia al College de Mans.
1641 Riceve il dottorato in teologia.
1643 Viene ammesso alla Sorbona dopo la morte di Richelieu, il quale aveva inizialmente ostacolato la sua ammissione a causa dei suoi contatti con i giansenisti. Pubblicazione del suo più importante lavoro religioso, De le fréquente communion.
1644 Scrive la Lettera di scuse di Monsignor Giansenio.
1655 Scrive Lettre à un Persone de condition e Second lettre à un duc et pair. Pascal visita Port Royal des Champs per la prima volta. Durante le sue numerose visite, poi, incontra Arnauld e scrive le Lettere Provinciali in difesa di Arnauld e fa una satira dei gesuiti.
1656 Dopo anni di persecuzione per i suoi credi religiosi, viene escluso dalla facoltà della Sorbona.
1661 Pascal scrive il suo ultimo opuscolo giansenista esortando i religiosi di Port Royal a non firmare il Formulario.
1662 Arnauld insieme con il grammatico Claude Lancelot pubblica Grammaire Génerale et Raìsonée.
1669 Clemente IX mette fine alla persecuzione dei giansenisti con quello che divenne noto come “la Pace di Clemente IX”, a patto che i giansenisti non parlassero di questioni gianseniste, furono loro accordate molte concessioni. Lavora con Pierre Nicole su La Perpétuité de la foi catholique touchant l’eucharistie.
1679 Scoppia di nuovo la persecuzione contro i giansenisti e Arnauld è obbligato a fuggire con altri nei Paesi Bassi e si stabilisce poi a Bruxelles.
1680 Viene pubblicato Traité de la Nature et de la Grace di Malebranche.
1683 Controversia con Malebranche sul rapporto tra teologia e metafisica. Pubblica Traité des Vraies et Fausses Idées (Trattato sulle idee Vere e False).
1685 Rinnovato dibattito con Malebranche
1694, 8 agosto muore a Liège.
INTRODUZIONE
ANTOINE ARNAULDIntorno al monastero di Port-Royal, cui l’abate di Saint-Cyran aveva impresso a partire dal 1635 un nuovo orientamento, si sviluppa con grande rapidità e con strepitosa profondità una nuova forma di pensiero – incentrata sulla volontà di rinnovamento religioso e sulla spiccata tendenza al misticismo – elaborata da un gruppo di pensatori ritiratosi nella solitudine del monastero: tra di essi emerge in primo piano la figura di Antoine Arnauld (Parigi 1612- Bruxelles 1694), il cui pensiero rivela una decisiva influenza subita da Agostino. Perso il padre a soli sette anni, Arnauld crebbe sotto la tutela della madre e grande importanza per la sua formazione ebbe la figura della sorella, Angelica. In quelle che da Cartesio stesso furono pubblicate come Quarte obiezioni alle Meditazioni, Arnauld corregge il cartesianesimo con l’agostinismo, mettendo anche in chiaro che i criteri della chiarezza e della distinzione si applicano solamente alle “cose che riguardano le scienze e che cadono sotto la nostra intelligenza, e non a quelle che riguardano la fede e le azioni della nostra vita”. Come insegnava Agostino, all’opinare, che è presumere di sapere ciò che non si sa, si contrappongono due forme di sapere autentico: non solo l’intendere mediante ragioni certe (ovvero il cartesiano cogitare in maniera chiara e distinta), ma anche il credere, ossia il ritenere per vero ciò che è motivato da ragioni diverse dalle argomentazioni razionali. Questa distinzione tra due specifiche forme di conoscenza – riferite rispettivamente agli ambiti della scienza e della fede – matura nel medesimo clima culturale da cui trarrà origine la contrapposizione pascaliana tra esprit de géométrie e esprit de finesse. Con Pierre Nicole, Arnauld è autore di una celeberrima Logica o arte di pensare (1662). La Logica di Port Royal (come è generalmente noto lo scritto) prende le distanze sia dalla logica sillogistica di ascendenza aristotelica sia dalla logica terministica medievale, considerandole (come aveva fatto Cartesio stesso) entrambe espressione di un pensare vuoto e formalistico. Sulla scia di Cartesio, che aveva risolto la logica nel metodo della filosofia, i portorealisti si propongono di costruire una logica metodologica (o, per dirla in termini odierni, “mentalistica”), la quale non ha più per oggetto prevalente la struttura formale del ragionamento (come era invece in Aristotele) o i termini del discorso (come era invece in buona parte dei logici medievali), bensì le operazioni compiute dallo spirito nell’atto del pensare. L’opera è suddivisa in quattro parti e, di queste, l’ultima è dedicata per l’appunto al metodo: in ciò risiede la grande novità della logica di Port-Royal e, al contempo, il suo debito verso Cartesio. La nuova metodologia logica è compendiata dalle otto seguenti regole:
“Definire sempre tutti i termini un po’ oscuri o equivoci”
“Usare nelle definizioni solamente termini perfettamente noti o già spiegati”
“Accogliere come assiomi solamente cose perfettamente evidenti”
“Accettare come evidente soltanto ciò che non richiede che un minimo di attenzione per essere riconosciuto come vero”
“Provare tutte le proposizioni un po’ oscure, impiegando a tale scopo solamente definizioni già note e assiomi già accettati o proposizioni già dimostrate”
“Non consentire mai l’equivocità dei termini, trascurando di sostituire mentalmente le definizioni che li delimitano o li spiegano”
“Trattare le cose, per quanto è possibile, nel loro ordine naturale, cominciando dalle più generali e più semplici e spiegando tutto ciò che appartiene alla natura del genere prima di passare alle specie particolari”
“Suddividere, per quanto è possibile, ogni genere in tutte le sue specie, ogni insieme in tutte le sue parti e ogni difficoltà in tutti i suoi casi”.
CONTROVERSIA RELIGIOSA E PERSECUZIONE
Nel diciassettesimo secolo la Francia stava andando in sfacelo a causa di conflitti politici e religiosi tra loro connessi. Nel campo della politica, era esploso un conflitto tra i nobili e l’emergente autorità centrale della corona. In campo religioso si creò, prima di tutto, un conflitto tra protestanti e cattolici, e all’interno dei cattolici vi era un contrasto tra gesuiti e giansenisti. Antoine Arnauld aveva un ruolo importante su entrambi i fronti delle controversie religiose, e ciò nonostante egli era una delle figure teologiche e filosofiche centrali nella controversia in Francia tra gesuiti e giansenisti e il suo nome è connesso con l’Abbazia di Port Royal. Infatti la famiglia Arnauld era strettamente legata all’Abbazia, tant’è che nove dei dieci figli sopravissuti di Antoine “padre” (anche suo nonno si chiamava Antoine) avevano a che fare, in un modo o nell’altro, con l’Abbazia. L’Abbazia di Port Royal des Champs fu fondata nel 1204 come scuola-convento per donne. L’abbazia ebbe il privilegio di offrire rifugio ai preti, ai laici (inclusi gli uomini) i quali potevano, senza prendere necessariamente i voti, vivere in solitudine all’interno dell’abbazia. Nel 1626 un convento per suore fu costruito a Parigi. Nel 1634, il capo spirituale e carismatico dell’abbazia era Jean du Vergier de Hauranne, Abbé de Saint Cyran (1581 – 1643). Saint Cyran indirizzò il giovane Antoine Arnauld dalla legge alla teologia. Mentre era ancora studente alla Sorbona, Saint Cyran lo introdusse ai lavori di Sant’ Agostino e scrisse la sua dissertazione nella quale si difendeva un teoria della grazia di stampo agostiniano. Questa sua tesi fu largamente accettata con l’eccezione di uno dei più importanti teologi della Sorbona, Lescot. Arnauld, infatti, non si era consultato con Lescot perché non approvava le sue teorie. Lescot non era solamente il Cannon di Notre Dame, ma anche il confessore del cardinale Richelieu, il potente primo ministro di Luigi XIII. Quando Arnauld si propose per essere ammesso a La Societe della Sorbona, la sua domanda venne rinviata a causa dell’influenza di Lescot. Richelieu a quel tempo teneva Saint Dyran prigioniero nella fortezza di Vincennes. Saint Cyran era il compagno di classe, corrispondente e avvocato delle idee di Cornelio Giansenio, vescovo di Ypres (1585-1638) il cui imponente libro – Augustinus – fu pubblicato post mortem e attaccava la dottrina di grazia del XVI secolo dello spagnolo gesuita Francisco de Molina (1535-1600). Il libro di Giansenio, pubblicato nel 1640, fu condannato da Roma nel 1641 e ricollegato alla condanna di un altro precedente libro sullo stesso argomento di Michael de Bay. Saint Cyran cercò di convincere Arnauld a riprendere i temi della sua prima dissertazione e di dimostrare che la dottrina di grazia di Giansenio era più simile a quella di Agostino piuttosto che a quella di de Bay. Arnauld con la stessa chiarezza difese Giansenio e attaccò i gesuiti in De la fréquente communion. Secondo la visione agostiniana di Arnauld è la competenza di Dio a concedere non solo la grazia ma anche il diritto di disporne, perché la benevolenza e il valore non sono capacità comprese nella natura dell’uomo e non può farcela da solo, e una comunione frequente è come un’insolenza. L’audace difesa di Arnauld nei confronti di Giansenio e il suo attacco ai gesuiti, lo pose al centro dell’intensa controversia. Nel 1649 Nicolas Cornot, un ex gesuita che era entrato a far parte della facoltà di teologia a Parigi, scrisse una lista di cinque dichiarazioni eretiche riguardanti la grazia che lui diceva di ritrovare nell’Augustinus di Giansenio. Queste dichiarazioni furono condannate dalla facoltà parigina e dal Papa Innocente X nel 1653. Nel 1655 ad un amico di Port Royal, il duca di Liancourt, venne rifiutato il sacramento a causa dei suoi collegamenti con Port Royal. Arnauld scrisse due lunghe lettere pubbliche difendendo Port Royal e protestando contro questo abuso dell’autorità ecclesiastica. Francois Annat, il gesuita provinciale di Parigi, ebbe la pretesa di dichiarare che la prima delle cinque proposizioni gianseniste condannate si trovavano in una di queste lettere, e a causa di ciò Arnauld fu cacciato dalla facoltà e dalla società della Sorbona. In questo stesso periodo, Blaise Pascal arrivò a Port Royal des Champs per un ritiro di due settimane (sua sorella era diventata suora a Port Royal nel 1651) e, durante una delle sue successive visite ai due conventi, incontrò Arnauld. Pascal, probabilmente grazie all’aiuto e alla collaborazione di Arnauld e di Pierre Nicole, scrisse le Lettere Provinciali difendendo Arnauld e facendo satira degli oppositori gesuiti. Nel 1656 un documento conosciuto con il nome di Formulario, fu redatto da un gruppo di vescovi francesi guidati da Pierre de Marca, l’arcivescovo di Toulouse, amico del cardinale Mazarino che era succeduto a Richelieu come primo ministro. Il Formulario era un giuramento che condannava le cinque affermazioni che Cornot aveva preteso di ritrovare nel libro di Giansenio Augustinus. Il formulario fu riscritto molte altre volte per poter includere nuove condanne papali sulle cinque dichiarazioni. Ci furono anche tentativi di stigmatizzare come eretici coloro che si rifiutavano di firmare il Formulario. La risposta di Arnauld al Formulario fu di impegnarsi a scrivere forti opuscoli nei quali cercava di persuadere la facoltà della Sorbona e Roma che le cinque dichiarazioni condannate non erano da ricercarsi nel libro di Giansenio e che un uomo in buona fede non poteva giurare per nessun motivo su fatti non dimostrati e nei quali non credeva o dei quali non sapeva assolutamente nulla. In particolare, la questione se specifiche dichiarazioni si trovano in un preciso testo, o se queste affermazioni erano eretiche ovunque si trovino, doveva essere lasciata come decisione del singolo. Tra quelli che si rifiutarono di firmare il Formulario vi erano i religiosi dell’abbazia di Port Royal. Questo portò la corona a dissipare i religiosi, gli studenti e i rifugiati di Port Royal nel 1661. Le difficoltà in questione nel Formulario tennero occupati Arnauld e Port Royal fino al 1669 quando il papa Clemente IX insieme con Luigi XIV dichiarò la pace di Clemente IX per porre termine all’affare del Formulario. Il silenzio fu imposto su una questione non risolta. Nel periodo dal 1669 al 1679 durante il quale perdurò la pace di Clemente IX, Arnauld fu riconosciuto come il principale portavoce della chiesa cattolica in Francia contro i calvinisti. Insieme al suo collaboratore Pierre Nicole, Arnauld si impegnò nella polemica contro il calvinismo francese. Nel 1679 con la morte di Madame de Longueville, la cugina di Luigi XIV, e l’ultimo degli amici potenti di Port Royal a corte, l’opposizione a Port Royal si rifece attiva. Arnauld andò volontariamente in esilio nei Paesi Bassi. Nel 1709 Port Royal des Champs fu raso al suolo per ordine di Luigi XIV.
ARNAULD E I FILOSOFI
Arnauld collaborò con Pierre Nicole e Blaise Pascal. Scrisse anche importanti critiche sui lavori di Cartesio, Malebranche e Leibniz. Nel 1641 padre Marin Mersenne chiese ad Arnauld di commentare le Meditazioni de prima philosophia di Cartesio insieme ad un numero di altri filosofi illustri del periodo, inclusi Hobbes e Gassendi. Arnauld scrisse la quarta collezione di obiezioni che furono pubblicate insieme alle Meditazioni metafisiche di Cartesio. Arnauld sollevò per la prima volta il problema del cerchio cartesiano: Cartesio pone idee chiare e distinte come criterio di certezza per ogni prova, di conseguenza la prova dell’esistenza di Dio richiede idee chiare e distinte, ma Dio è necessario per garantire la certezza delle idee chiare e distinte. Il cerchio cartesiano rappresenta una delle più importanti sfide del sistema di Cartesio presentate dai suoi critici. Il giovane Gottfried Leibniz andò a trovare Arnauld a Parigi e più tardi portò avanti un’estesa corrispondenza con lui riguardante i Discorsi di Metafisica di Leibniz. Nel febbraio 1686 Leibniz scrisse una lettera a Langrave Ernst von Hessen Reinfels, dicendo:
“Sono stato da qualche parte senza avere niente da fare per alcuni giorni, recentemente ho scritto un piccolo discorso sulla metafisica e sarei molto felice se potessi avere l’opinione di M. Arnauld a riguardo. Per le questioni sulla grazia, Dio ha partecipato con le creature, la natura dei miracoli, la causa del peccato, l’origine del male, l’immortalità dell’anima, idee trattate in un modo che sembra offrire nuove aperture capaci di illuminare alcune grandi difficoltà.” (G.W. Leibniz, Saggi Filosofici).
Arnauld scrisse una lettera criticando la sezione 13 del Discorso e questo fece iniziare la corrispondenza con Leibniz. Arnauld si impegnò in un lungo e a volte duro scambio con Nicholas Malebranche: Arnauld era contrario alla teoria di grazia di Malebranche, ma ritrovava gli sbagli della relazione di grazia di Malebranche negli errori delle sue stesse idee. Arnauld obiettava una tesi centrale contenuta nella dottrina di Malebranche, ovvero quella di vedere tutte le cose in Dio, vale a dire che la conoscenza degli oggetti richiede degli oggetti che siano indipendenti e distinti dalla mente umana e dalla sua percezione. Queste questioni hanno a che vedere con il ruolo di Dio nel mondo, e in particolare nelle nostre azioni di percezione e di scelta morale. I dibattiti sulla teologia sono legati alla posizione delle idee, perché esse hanno un ruolo centrale sia nella percezione che nell’agire. Arnauld in effetti obiettava ad un’interpretazione del ruolo delle idee nella percezione. In effetti, siccome vediamo direttamente le idee, e non le cose che le idee rappresentano, le idee nascondono la nostra percezione del mondo esterno. Arnauld, al contrario, credendo nel carattere rappresentativo delle idee, è un vero realista della percezione. Locke segue Arnauld nelle sue critiche di Malebranche su questo punto. Questa critica a Malebranche di Arnauld e di Locke portò ad interessanti ed importanti problemi filosofici sulle idee e sulla percezione. Nel libro della logica L’Art de Penser (L’arte del Pensiero, conosciuto anche come la Logica di Port Royal) che Arnauld scrisse insieme con Pierre Nicole, ammettendo che Aristotele è la fonte della maggior parte della logica formale, espongono chiaramente che sono fermamente d’accordo con coloro che rifiutano Aristotele e la filosofia Scolastica. Considerano ripugnante anche l’egoismo scetticismo di Montaigne. In certa misura, Arnauld e Nicole approvano il cartesianesimo e la nuova filosofia meccanica contro la scienza aristotelica: mostrano di non capire il ruolo dell’esperimento nella crescita delle scienze naturali e accennano all’induzione solamente per dire che non è affidabile. Arnauld e Nicole sono i seguaci di Cartesio, ma seguaci interessati alla sua filosofia principalmente perché la considerano come la rinascita del pensiero agostiniano e perciò un sostenitore, come loro, della scienza. Il libro rappresenta inoltre “la svolta epistemologica” causata dall’arrivo dello scetticismo e della risposta cartesiana. La concezione generale della logica che loro espongono ne L’arte del Pensiero, quella di mirare allo sviluppo di un chiaro pensiero e di una logica formale subordinata a questo scopo, era largamente accettata e destinata a dominare i trattati di logica per i successivi duecento anni.
PIERRE NICOLE
A cura di Roberta Musolesi
“Quasi in ogni campo vi sono strade diverse, le une vere e le altre false, ed è compito della ragione fare una scelta”.
La vita
Pierre Nicole nasce a Chartres il 13 ottobre del 1625, da Jean, magistrato della camera episcopale e discendente di una insigne famiglia di giuristi, e da Louise Constant, che morirà molto giovane, dopo aver dato alla luce Nicole, Marie, Claude, Charlotte e Louise.
Fra il 1641 e il 1644 compie gli studi di filosofia a Parigi nel collegio di Harcourt, presumibilmente presso la scuola di Pierre Padet e di Jacques du Chevreuil, professori non digiuni di filosofia classica e scolastica, ma insieme dotati di una solida formazione umanistica. In questi anni Pierre Nicole entra in contatto con alcuni esponenti di Port-Royal, fra i quali Guillebert, che gli fa conoscere Jacques de Sainte-Beauve, professore di teologia alla Sorbona. Presso questa università e con questo professore Pierre Nicole studierà teologia dal 1646 al 1649, in un momento in cui cominciano a definirsi posizioni diversificate in relazione alle nuove istanze polemiche emerse dai commenti all’Augustinus di Giansenio. Nel 1649 diventa baccelliere in teologia, ma rinuncia a proseguire gli studi e la carriera ecclesiastica e rimarrà per tutta la vita un chierico, senza mai accedere al sacerdozio. Entra a Port-Royal, dove si trovava una sua zia, Marie-des-Anges Suireau.
Nel 1653 Pierre Nicole insegna alle Granges e dal suo insegnamento, soprattutto da quello orale, nasceranno, con la collaborazione di Arnauld, la Grammatica latina e la Grammatica greca, ma soprattutto la famosa Logique de Port-Royal; importante da ricordare è anche l’Epigrammatum delectus, del 1659, opera molto importante come documento delle posizioni etiche ed estetiche di Port-Royal.
Dal 1656 al 1658 Pierre Nicole, insieme ad Arnauld, partecipa attivamente alle lotte politico-religiose dell’epoca, in un momento in cui il port-royalismo si trasforma in movimento che prende vita dai dibattiti legati alle problematiche messe in campo dall’Augustinus di Giansenio; Pierre Nicole, a causa delle posizioni polemiche e di condanna spesso assunte, è costretto a difendersi e a tutelarsi, celandosi dietro almeno otto pseudonimi. Pubblica nel 1656, in seguito alle prime condanne di Arnauld, una risposta a Nicolaï, un celebre tomista che aveva polemizzato appunto con Arnauld stesso, e fornisce a Pascal la documentazione necessaria alla stesura delle sue Lettere provinciali, che tradurrà in latino con lo pseudonimo di Guillame Wendrock. Nel 1659 pubblica in latino La vera bellezza e il suo fantasma (Dissertatio de vera pulchritudine et adombrata), il primo testo che annuncia, all’interno del classicismo, la necessità di un rinnovamento dell’estetica secentesca. Nel 1663 collabora con Arnauld alla stesura del Justes plaintes des Théologiens (Le giuste rimostranze dei teologi) e nel 1664 pubblica un Traité del la foi humaine (Trattato sulla fede umana) contro il nuovo arcivescovo di Parigi, Arduine de Peréfixe, unitamente ad una Apologie des religieuses (Apologia delle religiose), tutte opere che si inquadrano nell’ambito della battaglia giansenista.
Fra il 1664 e il 1665 Pierre Nicole pubblica dieci Lettere immaginarie (Lettre sur l’hérésie immaginaire) e fra il 1665 e il 1666 pubblica le Visionarie, otto nuove lettere contro Desmarets de Saint-Sorlin, colpevole di aver attaccato, in una sua commedia, le religiose di Port-Royal. Nel 1667 pubblica il Traité de la comédie, in cui emergono posizioni molto rigoriste sul teatro.
Fra il 1668 e il 1686, dopo la Pace della Chiesa dell’ottobre del 1668, Pierre Nicole si dedica a qualche viaggio e insieme ad Arnauld va in pellegrinaggio a Clairvaux per rendere omaggio a San Bernardo; si concentra inoltre su lavori come la Perpetuité de la foi de l’Eglise sur l’Eucaristie, pubblicata in tre volumi nel 1669, e nel 1670 appare il Trattato sull’educazione di un principe, primo modello di quello che sarebbe poi risultata la struttura dei Saggi di morale. Dal 1671 al 1678 vengono infatti pubblicati quattro volumi dei Saggi, opera che avrebbe assicurato a Nicole una fama costante per oltre un secolo.
Nel 1677 Pierre Nicole scrive una lettera a Innocenzo X contro i casisti: è l’inizio di una nuova fase di polemiche che lo costringerà a fuggire in Belgio, fase in cui maturerà anche il distacco da Arnauld. Pierre Nicole infatti scriverà, nel 1679, una lettera all’arcivescovo di Parigi, in cui manifesterà la volontà di abbandonare la lotta e di sottomettersi; questi temi saranno oggetto di una Apologie, pubblicata postuma nel 1734. Nel 1679 pubblica il Traitè de l’oraison; nel 1680 ritornerà in incognito a Chartres e nel 1683 a Parigi, dopo aver ricevuto l’autorizzazione dall’Arcivescovo. Fra il 1684 e il 1695 Pierre Nicole prosegue la sua intensa attività pubblicistica e partecipa con molto vigore alle questioni religiose e teologiche, anche se in seno al movimento giansenista si comincia ad avvertire una sua presa di distanza rispetto a questioni fondamentali, come quelle relative alla Grazia; esprime le sue posizioni su questo tema in un Traité de la Grâce générale che sarà pubblicato postumo nel 1715. Pubblica, contro i calvinisti, opere come Le prétendus réformés convaincus de schisme, ma non manca di continuare la sua opera di esposizione della dottrina cristiana in opere come Réflexions morales sur le Evangile; nel 1691 presenta una compiuta riflessione sul problema della Grazia nel Systéme de la grâce générale ed affronta, in opere come il Traité de la priore del 1694 e la Réfutation des quiétistes del 1695, altre questioni legate ai dibattiti contemporanei sulla filosofia e la teologia della preghiera e sulle posizioni dei quietisti.
Pierre Nicole muore a Parigi il 16 novembre del 1695.
Le opere
La Logica di Port-Royal
Nel 1662 fu pubblicata la Logica o arte di pensare di A. Arnauld e P. Nicole, che ebbe ben sei edizioni quando ancora gli autori erano in vita; quest’opera rimase a lungo il manuale più fedelmente seguito e studiato nelle università francesi. Essa è introdotta da due Discorsi preliminari che presentano rispettivamente l’intento di questa nuova logica e la risposta alle principali obiezioni mosse nei suoi confronti.
L’opera è suddivisa in quattro parti che prendono in esame le quattro principali operazioni della mente, il concepire, il giudicare, il ragionare e l’ordinare, in cui gli autori si occupano del problema del metodo.
L’importanza di questa logica risiede nel suo carattere innovativo e chiaramente antiscolastico, atteggiamento comune a gran parte della cultura scientifica e filosofica dell’epoca. Gli autori infatti, pur riservando ancora una certa attenzione alla logica sillogistica e scolastica, intendono la logica non più come una tecnica formale di costruzione dei ragionamenti deduttivi, ma come arte della scoperta e dell’invenzione, secondo le indicazioni metodologiche di Bacone e Cartesio. Gli autori mirano quindi a stabilire regole metodologiche utili ai fini della scoperta della verità e dell’estensione della nostra conoscenza, obiettivo comune con la scienza dell’età moderna.
Sin dal Primo discorso di questa opera, in cui si delinea il disegno generale della nuova logica, gli autori precisano che non vi è nulla di più stimabile del buon senso, cioè della ragione, e del suo uso corretto nel discernere il vero dal falso, tema, come è noto, comune al celebre Discorso sul metodo (1636) di Cartesio. Dal loro punto di vista, la ragione, se usata in modo corretto, ci serve in tutte le circostanze della vita, dato che distinguere la verità dall’errore è cosa molto complessa e difficile sia nelle scienze sia nella maggior parte dei problemi di cui parlano gli uomini e degli affari che essi conducono. Secondo Arnauld e Nicole, poiché quasi in ogni campo si possono intraprendere strade diverse, alcune vere e alcune false, è compito della ragione compiere una scelta e scelgono bene coloro che usano in modo corretto la loro intelligenza e operano in modo sbagliato coloro che possiedono un’intelligenza incapace di discernimento. Secondo gli autori questa è la prima e più importante differenza che è possibile stabilire tra le qualità intellettuali degli uomini.
Il messaggio che inviano quindi Arnauld e Nicole è che deve essere rivolto il maggior impegno teorico possibile nell’educare il pensiero, in modo da metterlo in grado di giudicare rettamente. Secondo gli autori, noi normalmente ci serviamo della ragione come di uno strumento per affrontare lo studio delle scienze, mentre dovremmo servirci delle scienze come di uno strumento per perfezionare la ragione: le rettitudine dell’intelligenza è infatti infinitamente più importante di tutte le conoscenze speculative che possiamo acquistare grazie alle scienze. L’arte di pensare, infatti, a loro avviso, non è una capacità che si possiede in modo spontaneo e naturale, ma che si deve comunque apprendere, mediante studio e metodo. Secondo gli autori, ovunque si incontrano persone che non mostrano alcuna capacità di discernimento della verità, che affrontano ogni cosa dal punto di vista sbagliato, che si appagano delle ragioni più errate e vogliono convincerne gli altri, che si lasciano prendere dalle minime apparenze, che cadono sempre negli eccessi e negli estremi, che non sanno tenersi saldi nelle verità, che conoscono perché sono legati ad esse più dal caso che da una solida luce dell’evidenza o che si ostinano su ciò che ritengono vero al punto da non ascoltare nulla di quanto potrebbe disingannarli; da queste parole è facile cogliere una critica serrata non solo nei confronti del modo comune di ragionare, ma anche contro le acrobazie formali della sillogistica e di quanti non si confrontano mai realmente con la verità, preferendo arroccarsi dietro le proprie opinioni come se fossero certezze assolute.
La maggior parte degli errori quindi dipendono, secondo gli autori, non tanto dalle limitate capacità degli uomini, quanto piuttosto dall’uso del metodo sbagliato o dall’assenza totale di qualsiasi metodo nell’utilizzo delle facoltà razionali. Sebbene Pierre Nicole e Arnauld ritengano, differentemente da quanto pensava, ad esempio, Cartesio, che la ragione non sia distribuita in ugual misura in tutti gli uomini e che vi sia in natura chi è più dotato e chi lo è di meno, essi tuttavia ammettono anche che una gran parte dei falsi giudizi degli uomini non dipende dalle doti naturali, ma viene invece determinata da un’eccessiva precipitazione dello spirito e dalla mancanza di attenzione che fanno sì che essi giudichino in maniera avventata, confusa ed oscura.
Il più delle volte poi, secondo gli autori, gli uomini preferiscono rimanere attaccati alle proprie credenze anzichè alla verità e la memoria risulta essere ingombrata da una grande quantità di informazioni false, oscure e mal comprese. Procedendo da tali principi, pertanto, le conclusioni non possono essere che errate, difetto questo che risulta essere accresciuto, dal punto di vista degli autori, dalla vanità e dalla presunzione, visto che il dubbio e l’osservazione diretta dei fatti vengono considerati, dai cosiddetti uomini di cultura, comportamenti vergognosi e indegni. Cadono in errore inoltre anche coloro che assumono un atteggiamento scettico e che preferiscono pensare che non vi sia alcuna verità, che di tutto si possa dubitare e che sia impossibile distinguere il vero dal falso. Questi due opposti atteggiamenti, vanità e presunzione da un lato e atteggiamento scettico dall’altro, rappresentano dal punto di vista degli autori di Port-Royal due opposte forme di sbandamento intellettuale che sorgono dalla medesima fonte, la mancanza di regole su cui basare il metodo della ricerca della verità.
La mente umana in realtà ha un profondo bisogno di regole utili a rendere più sicura e più facile la conoscenza, regole che non sono impossibili da raggiungere e da praticare, perchè gli uomini a volte errano nell’elaborare i loro giudizi, ma spesso sono in grado di riconoscere i loro errori e di correggersi. La logica, quindi, secondo gli autori, deve servire proprio a guidare rettamente la ragione nella conoscenza delle cose, sia per istruire se stessi che per istruire gli altri, e deve permettere all’intelletto di liberarsi dagli errori che impediscono la conoscenza della verità. Secondo gli autori di Port-Royal questo aspetto appare particolarmente importante e delicato perchè non sempre la verità si manifesta con evidenza davanti ai nostri occhi e quindi essa deve essere ricercata discorsivamente, attraverso il ragionamento e le regole inferenziali. La logica tradizionale, in quanto logica puramente formale, quindi carente del contatto con l’esperienza, non è in grado di farci evitare gli errori e farci procedere con sicurezza sulla via della verità. Il suggerimento degli autori di Port-Royal è quindi quello di delineare un metodo nuovo basato sulle seguenti quattro operazioni:
a) concepire
b) giudicare
c) ragionare
d) ordinare
Il concepire rappresenta, dal loro punto di vista, il puro e semplice atto di visione con cui le cose si presentano alla nostra intelligenza, così come accade quando ci rappresentiamo il sole, la terra, un albero, un quadrato, ecc.. senza formulare su di essi alcun giudizio espresso; la forma mediante la quale ci rappresentiamo queste cose è l’idea. Nel concepire quindi si ottiene l’immagine intuitiva delle cose che si mostrano direttamente alla nostra intelligenza e nello svolgimento di questa operazione è sufficiente, ai fini della conoscenza, prestare attenzione all’oggetto verso cui l’intelletto si volge.
Il giudicare è invece l’atto del nostro intelletto con cui, unendo insieme diverse idee, questo afferma dell’una che è l’altra o nega che l’una sia l’altra, così come accade, secondo gli autori, quando, avendo l’idea della terra e l’idea del rotondo, giungiamo ad affermare o a negare che la terra è rotonda. In questa attività quindi l’intelletto stabilisce la compatibilità tra un soggetto e il suo attributo, affermando o negando una qualità o una proprietà del soggetto.
Si dice poi ragionare l’attività del nostro intelletto mediante la quale formuliamo un giudizio da vari altri giudizi, così come accade quando, avendo giudicato che la virtù deve venir riferita a Dio e che la virtù dei pagani non poteva essergli riferita, si conclude che la virtù dei pagani non è vera virtù. Con il ragionamento pertanto si raggiunge il culmine dell’attività logica perché in esso non si tratta di considerare le proposizioni nella loro individualità, cioè nel rapporto fra soggetto e predicato, come accade nel giudicare, ma di collegarle fra loro, ponendole in relazione e realizzando inferenze in modo da ottenere una conclusione caratterizzata dall’avere un contenuto conoscitivo nuovo, più ampio e generale.
L’ordinare infine è l’atto dell’intelletto con cui si dispongono le idee, i giudizi, i ragionamenti nella forma più adatta per far conoscere un determinato oggetto. Questo è ciò che va sotto il termine di metodo, che nella Logica di Port-Royal, così come in tutta la cultura scientifica e filosofica del Seicento, assume rilevanza fondamentale.
Di grande interesse è anche la particolare attenzione che gli autori di Port-Royal, cui si deve anche la composizione di un’importante Grammatica (1660), rivolgono alla questione del linguaggio. Sulla base del modello cartesiano, anche per gli autori port-royalisti la chiarezza e la distinzione delle idee sono condizioni fondamentali per evitare equivoci ed errori logici. Prendendo come esempio la parola virtù, essa appare dal loro punto di vista un termine essenzialmente ambiguo se non si tiene conto del diverso significato che può assumere per un cristiano o per un pagano, analogamente quando affermiamo che l’occhio vede o che l’orecchio sente utilizziamo in modo improprio le espressioni “vedere” e “sentire” in quanto non è l’occhio che vede o l’orecchio che sente, ma il pensiero mediante la sensazione fisica. Se poi affermiamo che, nel vedere un bastoncino spezzato immerso in un bicchier d’acqua, i nostri sensi si ingannano, in effetti non sono i nostri sensi a sbagliare, ma il nostro intelletto che giudica secondo un punto di vista errato.
In definitiva, secondo gli autori, gli errori non dipendono dai sensi, ma dal fatto che noi giudichiamo male, conclusione questa carica di una profonda ed estrema modernità e che contribuisce a “far pulizia” del nostro linguaggio per aiutarci a ragionare correttamente. Questa idea è piaciuta particolarmente alla filosofia analitica del Novecento, che si caratterizza proprio per l’aver operato una “svolta linguistica”, che concepisce la pulizia del linguaggio e la sua chiarificazione come uno dei cardini della filosofia.
Sulla commedia
Il De la comédie è un testo fondamentale del Seicento francese in relazione alle controversie sulla moralità del teatro, ma è anche molto di più. E’ infatti per Pierre Nicole, profondo e rigido moralista, l’occasione per sondare i comportamenti e la società del suo tempo; è la meditazione religiosa di un discepolo rigorista di Agostino sempre alla ricerca della verità vera, della realtà e non di ombre, fossero anche quelle ammalianti delle scene. Al centro dell’opera sta quindi il teatro, che Nicole esamina nelle sue concrete esibizioni, forte di una profonda convinzione: esso, che si insinua e colpisce lo spettatore inerme e indifeso, è veleno perché altro non è che un mezzo che distorce la realtà.
Il testo è quindi un’opera di denuncia che sembra rompere ogni ponte fra teatro, morale e religione, e che esercita un impatto forte sul lettore, necessario dal punto di vista dell’autore per mostrare la validità delle sue tesi.
Il teatro e la religione
Il Seicento fu il primo secolo che ebbe a fare, come annotava anche Pascal, l’esperienza della noia, dell’incostanza e dell’inquietudine. L’amore per il teatro, in una cultura che amava il rappresentare, risultava forte e il teatro stesso non mancava di interrogarsi su temi come l’essere, l’apparire e il mostrarsi agli altri per quello che si è. Si trattava di un teatro, quello del Seicento, in cui il movimento prendeva corpo come vera immagine del reale e che con i suoi drammi invitava lo spettatore a farsi in un qualche modo attore, introducendolo in un’opera che progressivamente si costruiva, mentre egli stesso ne prendeva coscienza. Il teatro proponeva l’esperienza della maschera, dell’evanescenza e dell’illusione del reale, della spettacolarità e della teatralità, tutti elementi che non poterono fare a meno di generare, nei confronti del teatro stesso, una forte ambivalenza fra rappresentazione dell’uomo nel suo vero essere da un lato e metamorfosi e continua trasformazione dall’altro. Il teatro quindi divenne oggetto di passione per coloro che decisero di offrirsi con entusiasmo a questa esperienza e di contrapposizione per coloro che lo ritennero instabile ed insicuro e si sforzarono di superarlo. Bersaglio degli oppositori non fu tanto il fatto che il teatro volesse dichiaratamente disperdersi nell’attimo fuggente, quanto piuttosto che l’uomo comune, nell’esperienza del teatro, sembrava toccare con mano la propria inconsistenza e fare esperienza della perdita di identità. Anche in Pierre Nicole, pertanto, il motivo agostiniano della vanità dei piaceri estetici, comune a molti autori di Port-Royal, venne accompagnato sia dalla battaglia contro tutto quanto potesse essere finzione ed artificio, sia dalla messa in guardia contro la cecità che spesso colpisce chi presume di vedere e non giunge a riconoscere che è il cuore che dispone dello spirito.
Il rapporto fra la religione e il teatro, dopo la stagione patristica, non era sempre stato conflittuale, come è dimostrato dal teatro nato dalla liturgia come appendice figurativa dei sacri misteri e dalle molte sacre rappresentazioni che illustravano la storia sacra. Nel Cinquecento infatti, sia pur fra alterne vicende, sembrava potesse essere mantenuto un certo equilibrio, teso almeno a salvaguardare la finalità positiva e didattica del poema religioso, cattolico o riformato che fosse; lo stesso Corneille infatti riconosceva che in un certo modo di fare teatro le tenerezze dell’amore umano potevano mescolarsi piacevolmente con la fermezza del divino in modo tale da soddisfare, insieme, devoti e gente di mondo.
La commistione però fra sacralità e passionalità generò a lungo andare una sorta di inversione del vedere, motivata dalla consapevolezza che le passioni sono in grado di far apparire le cose diverse da come effettivamente sono. Tale contraddizione venne pienamente messa in luce da Nicole, che riuscì a toccare questioni molto delicate, come quella dell’attore e del suo modo di vivere il ruolo, partendo dal presupposto che il personaggio calasse così profondamente nell’attore stesso da espropriarlo della sua personalità e da lasciarlo succube delle passioni da lui stesso evocate, e, questione ancora più importante, quella del potere del teatro sul cuore dello spettatore. A tali questioni comunque, nel Seicento francese, molti avevano tentato di offrire il loro contributo, prendendo posizione a volte in favore del fascino del teatro, fascino che diverte e distoglie, e a volte sollevando dubbi su questa magia e richiamando alla realtà. Alla luce di tutto ciò, Pierre Nicole, sostenuto da un certo intellettualismo in virtù del quale propugnava il potere delle idee chiare contro ogni possibile confusione, si impegnò a mostrare la necessità per l’uomo di non abbandonare mai lo spirito alla passione e ad evitare i moti troppo sensibili, poiché l’agitazione delle passioni rende le immagini certamente più vive, ma, nello stesso tempo, meno sottomesse alla ragione: dal suo punto di vista un uomo retto doveva essere pienamente padrone dei propri pensieri in modo tale da potersi applicare nelle proprie attività e nelle proprie azioni senza essere turbato da distrazioni.
I contenuti
Il testo è organizzato in dieci capitoli, ciascuno dei quali esordisce con un assunto che viene argomentato e dimostrato nel corso della trattazione.
Primo tema oggetto di considerazione da parte di Pierre Nicole è il ruolo dell’attore. Tale professione, dal punto di vista dell’autore, è ciò che di più indegno vi sia per chi si professa cristiano ed affermando ciò non si riferisce solo agli eccessi più grossolani, come le maniere dissolute con cui le donne appaiono in teatro, ma anche al fatto di rappresentare, nel modo più naturale e vivo, le passioni. Perché queste possano essere rappresentate in modo veritiero, occorre infatti che l’attore stesso le abbia provate, ma dopo tali esperienze egli non sarà mai più in grado di cancellarne la traccia. Poiché quindi il teatro obbliga necessariamente l’attore ad esercitarsi in passioni viziose, altro non è che una scuola ed un esercizio di vizio.
Dopo aver analizzato la professione dell’attore, Pierre Nicole passa a considerare quella del poeta. Prendendo spunto dal contenuto di due passi dell’Horace di Corneille, l’autore giunge alla conclusione che il poeta, al fine di rappresentare sulla scena le passioni, deve necessariamente spogliarle di quanto esse hanno di orribile e le abbellisce con le sue invenzioni, in modo tale che queste, anziché suscitare avversione in chi le osserva, suscitano invece attrazione ed ammirazione e gli spettatori, per questo, sono più portati ad amarle che ad odiarle.
In seguito quindi Pierre Nicole tenta di analizzare, e negare, le giustificazioni su cui poggia il darsi della commedia. Dal suo punto di vista, un buon cristiano, che con il battesimo ha rinunciato al mondo, non può ricercare il piacere fine a se stesso; il divertimento infatti può avere solo la funzione di rinnovare le forze dello spirito e del corpo ed è quindi un’attività che deve essere svolta solo per pura necessità, così come ciascuno di noi mangia o beve. Appare quindi chiaro che, dal punto di vista dell’autore, non è certo un modello di vita cristiana quella di colui che spende il suo tempo divertendosi, perché il divertimento non può essere concepito per se stesso, ma solo per rendere l’anima più capace di attività. Queste considerazioni sono sufficienti, secondo Pierre Nicole, per condannare la maggior parte di coloro che assistono alle commedie, in quanto non lo fanno per rilassare lo spirito dopo occupazioni serie, ma solo per la ricerca del puro divertimento, e ne consegue che la visione di una commedia si traduce per i più nel compimento di un peccato. La commedia, così come la poesia e i romanzi, rendono inoltre coloro che vi si dedicano mal disposti verso le azioni serie e comuni. Visto infatti che ciò cui essi assistono è infarcito di galanterie ed avventure straordinarie, la disposizione d’animo che finiscono per assumere è tutta romanzesca e la fantasia viene così profondamente condizionata da eroi, eroine, miti e sesso da rendere loro insopportabili i piccoli piaceri della vita quotidiana.
Pierre Nicole conclude pertanto, negli ultimi due capitoli, che la commedia è in opposizione a tutte le disposizioni cristiane, allo spirito di penitenza, all’amore della verità e al necessario timore che il buon cristiano deve nutrire nei confronti dei pericoli che lo circondano. La commedia infatti, abituando l’uomo alle passioni più lascive, ha come conseguenza l’annullamento del timore che egli deve nutrire verso di esse e finisce per annullare l’effetto stesso della Grazia, che dovrebbe invece agire in risposta alla richiesta dell’uomo di chiudere gli occhi davanti alle vanità della vita. Il testo infatti si conclude con questa domanda: se siamo obbligati, in quanto cristiani, a chiedere a Dio che ci renda ciechi di fronte a tutte le follie del mondo,di cui la commedia stessa è una sintesi, come possiamo credere che ci possa essere permesso di nutrire i nostri occhi con questi vani spettacoli, ponendo la nostra felicità in quel che dovrebbe essere oggetto della nostra avversione e del nostro orrore?
Bibliografia:
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– D. Massaro, La comunicazione filosofica. La grammatica della mente: i ragionamenti induttivi, Paravia, 2003
– N. Abbagnano, G. Foriero, Protagonisti e Testi della filosofia, vol. B tomo 1, Paravia, 2000
– F. Restaino, Storia della filosofia. La filosofia moderna: Umanesimo, Riforma, Rivoluzione scientifica, Utet, Torino, 1999
– Pierre Nicole, Sulla commedia, Bompiani, Milano, 2003
BLAISE PASCAL
LA VITA E LE OPERE
Su Biagio, figlio di Stefano Pascal, autoritario e rigido, nacque a Clermont, in Alvernia (Francia centrale), il 19 giugno 1623 da famiglia altolocata. La madre morì quando lui aveva tre anni (1626); ebbe due sorelle: Gilberte e Jacqueline. Fu Gilberte a lasciarci una Vita di B. Pascal, scritta poco dopo la morte del fratello, e pubblicata la prima volta nel 1684, a Amsterdam. Il padre lo educò tenendolo dapprima lontano dalla matematica, per fargli prima ben apprendere le lettere classiche, ma Biagio si rivelò capace di leggere Euclide di nascosto e di capirlo da solo, costringendo il padre ad arrendersi all’evidenza di una vocazione più scientifica che umanistica del figlio. Così il padre lo condusse regolarmente alle riunioni di scienziati che si tenevano presso il P. Mersenne. Pascal manifestò un vero genio matematico e già a 16 anni scrisse un Traité des Coniques. Comunque la sua formazione non fu solo scientifica. La stessa sorella Gilberte dice che il fratello continuava a studiare il latino e il greco, ed oltre a ciò, “durante o dopo il pasto, mio padre lo intratteneva ora sulla logica, ora sulla fisica e sulle altre parti della filosofia”. Dunque, prima che filosofo, Pascal fu scienziato e inventore. Nel 1639 per dare una mano al padre, mandato a riscuotere le tasse nella turbolenta Alta Normandia (a Rouen), inventò una macchina calcolatrice. A ventitré anni, avendo appreso l’esperienza di Torricelli, fece diversi esperimenti sul vuoto e preparò un Trattato sul vuoto. Non ne uscirono, se non più tardi (nel 1663) che due estratti: De l’équilibre des liqueurs e De la pesanteur de l’air. Ma ci resta un Frammento del Trattato sul vuoto del 1647, che -sostiene la Vanni Rovighi- “è interessante perché ci fa vedere l’atteggiamento di Pascal per quel che riguarda la conoscenza scientifica. È il medesimo atteggiamento che troviamo in Galileo, in Bacone, in Cartesio. Quando si tratta di fisica, di studio della natura, è vano rivolgersi agli antichi, per sapere che cosa abbiano pensato: la testimonianza degli altri, degli antichi servirà per le conoscenze storiche, non per la fisica.” Anche nel suo interesse scientifico fu uomo dal forte attaccamento all’esperienza concreta; Sciacca (cit., p. 24) sottolinea come, a differenza di Cartesio, più astratto e interessato all’algebra, Pascal fosse attratto dalle, più concrete, fisica e geometria. Nel 1646 il contatto con Guillebert, parroco di Ronville, che poi diventò direttore spirituale di tutta la famiglia Pascal, e che era giansenista, determinò quella che si suole chiamare la prima conversione di Pascal. Pascal era sempre stato religioso, ma da quel momento decise, secondo Gilberte, di rinunciare alle soddisfazioni mondane e di dedicarsi totalmente alla ricerca di Dio. Continuò però i suoi studi scientifici, a Parigi si incontrò con Cartesio (1647) col quale ebbe discussioni sul vuoto. Contemporaneamente si recò dai “solitari” di Port-Royal ed ebbe modo di trattenersi con loro. Nel 1651 morì il padre di Pascal; la sorella Jacqueline, dopo esserne stata ostacolata dal fratello, entrò come monaca a Port-Royal (1652). Cominciò invece per Biagio un periodo “mondano”, durante il quale Pascal divise il suo tempo fra la ricerca scientifica e le conversazioni, il divertissement, con le persone di mondo. Uno di questi “mondani”, il Cavaliere di Méré, ci ha lasciato una versione un po’ strana, e probabilmente non del tutto attendibile, del rapido mutamento di Pascal che, dall’atteggiamento di totale astrazione nelle matematiche, sarebbe passato all’apprezzamento delle qualità che fanno l’uomo di mondo, l’honnête homme, nel linguaggio di allora. “Al di sopra delle regole, della riflessione, Méré pone qualche cosa che egli si rifiuta di definire e a cui dà i nomi di sentimento, di cuore, di esperienza e di istinto, tutti nomi che si ritroveranno con frequenza sotto la penna di Pascal” (Br. min., p. 116). Essere “honnête homme” o “galant homme” vuol dire aver tatto, saper trattare gli uomini, avere senso del concreto. Altro personaggio col quale Pascal ebbe a che fare in questo periodo fu Miton, mondano disincantato e pessimista, che suscitò l’ammirazione di Pascal. Forse appartiene al periodo mondano di Pascal, se è suo, il Discours sur les Passions de l’amour, nel quale troviamo già la distinzione fra esprit géométrique e esprit de finesse, che sarà ripresa nei Pensieri. Secondo Gilberte fu la sorella Jacqueline, religiosissima, ad essergli di esempio: “gli aprì il cuore alla Grazia”. Preparato da tale influsso, un evento molto importante nella sua vita fu la cosiddetta seconda conversione, incentrata nella “Nuit de feu” del 23 novembre 1654, e testimoniata dal Memoriale, un foglio che Pascale portava cucito nei suoi abiti, e che riportiamo qui di seguito: ” Fuoco Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento Gioia Pace Dio di Gesù Cristo Deum meum et Deum vestrum. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto, tranne Dio. Egli non si trova se non nelle vie indicate nel Vangelo. Grandezza dell’anima umana. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto. Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia. Me ne sono separato “
LA FILOSOFIA ESISTENZIALISTA
Pascal é importante sia come filosofo sia come scrittore e rappresenta uno dei più remoti precursori della filosofia esistenzialista ; indubbiamente egli é un pensatore piuttosto anomalo ed isolato nel suo contesto , che é andato a toccare corde non strettamente legate alla fase storica in cui stava vivendo , che vedeva l’ affermarsi sempre più netto del meccanicismo . Egli vive nella generazione immediatamente successiva a Cartesio , il quale aveva appena dato al meccanicismo la veste più netta e radicale . Pascal é un filosofo anomalo nel 1600 perchè , a differenza di tutti gli altri , non si inserisce nel filone meccanicistico , non perchè non nutra interessi scientifici ( egli era anzi bravissimo in matematica e in fisica ) , ma perchè riconosce una netta differenza tra le due dimensioni , quella filosofica e quella scientifico-matematica . Ecco allora che la sua filosofia non sarà molto attenta alle questioni gnoseologiche , bensì si occuperà di quelle esistenziali , delle problematiche che riguardano l’ esistenza dell’ uomo . La concezione stessa che Pascal ha di Dio é radicalmente diversa da quella dei pensatori del suo tempo : il suo Dio non é quello dei filosofi e degli scienziati , un puro e semplice garante dell’ ordine nel mondo ( il Dio cartesiano e aristotelico , per intenderci , la cui esistenza é dimostrabile razionalmente e la cui funzione consiste esclusivamente nel dare l’ impulso iniziale al mondo ) ; il Dio in cui crede Pascal é quello di Abramo , di Isacco , di Giacobbe . Il Dio di stampo aristotelico ( il motore immobile ) , quello dei filosofi e degli scienziati é un Dio che serve esclusivamente per spiegare l’ origine del mondo , ma che sul piano religioso é totalmente inutile : non é certo un Dio che si può pregare nè , tanto meno , un Dio con cui si può parlare . E’ il Dio in cui crederanno , nel periodo illuministico , i cosiddetti deisti , un Dio che rientra nei limiti della ragione e che non necessita di un atto di fede . Pascal non sente il bisogno di credere in un Dio del genere , e preferisce il Dio delle Scritture , un Dio-persona con cui si può parlare e a cui si possono rivolgere preghiere : egli é quindi teista e non deista . Va ricordato a proposito un’ esperienza personale vissuta da Pascal nel corso della sua vita : egli dice di aver vissuto un’ esperienza intensissima , quasi mistica , che l’ ha segnato profondamente . Tuttavia non volle pubblicare una vicenda tanto personale e allora , dopo averla messa per iscritto , se la fece cucire all’ interno della giacca cosicchè ne siamo entrati in possesso solo dopo la sua morte . Si tratta di una vera e propria invocazione a Dio , a quello che egli chiama , come accennavamo , il Dio di Abramo , di Isacco , di Giacobbe e non il Dio dei filosofi e degli scienziati . D’ altronde , se guardiamo alla filosofia di Pascal , un Dio come quello aristotelico non può avere alcun significato esistenziale . Il Dio di Pascal agisce e credere in lui o meno mi cambia radicalmente il rapporto con il mondo e con la vita ; il Dio aristotelico , viceversa , che io ci credessi o meno , non faceva alcuna differenza : egli si limitava a pensare a se stesso e ad agire come oggetto di amore da parte dei pianeti . Certo anche Pascal si cimenta nel dimostrare l’ esistenza di Dio , ma il vero problema che lo assilla , più ancora che se Dio esista o meno , é se valga la pena credere in Dio , quale atteggiamento debba assumere l’ uomo per dimostrare l’ esistenza di Dio . A lui più che sapere se Dio esista o meno , gli interessa sapere quale risvolto abbia sulla vita dell’ uomo il crederci o il non crederci . Bisogna anche qui specificare una cosa sulla vita di Pascal : egli , fin dalla giovinezza , é stato tormentato da mali insopportabili che non l’ hanno abbandonato per tutto il corso della vita , conclusasi , in un travaglio fisico e morale , quando egli aveva appena 39 anni . In un certo senso vale per Pascal lo stesso discorso che si tende a fare per Leopardi : avendo trascorso una vita tra tormenti morali e fisici incessanti , é ovvio che abbiano elaborato una filosofia pessimistica ed esistenzialista . Senz’ altro questo é in parte vero . Tuttavia bisogna prestare attenzione a non commettere l’ errore ( piuttosto frequente ) di dire che essi , per via dei loro tormenti , hanno finito per elaborare una filosofia pessimistica eccessiva , quasi come se avessero deformato la realtà . A spiegarci il suo atteggiamento filosofico pessimistico ed esistenzialista é Pascal stesso : egli sapeva benissimo di parlare in modo drammatico e pessimistico per via del proprio tormento , tuttavia egli sosteneva di non deformare affatto la realtà : diceva che il suo stesso stato morale e fisico gli avessero impedito di essere distratto ( egli usa il termine ” divertito ” nel senso etimologico latino : ” devertere ” , allontanare ) dalla realtà . Non é che la sua situazione di sofferenza fosse peggiore rispetto a quella degli altri uomini apparentemente felici , egli dice ; tutti noi ( l’ intero genere umano ) siamo nella stessa condizione di infelicità e di sofferenza , ma non tutti ce ne accorgiamo ; solo chi davvero soffre ( Pascal stesso ) non si lascerà distrarre e potrà capire fino in fondo come la nostra vita non sia altro che un’ ininterrotta sofferenza , una sofferenza che di volta in volta assume sfumature diverse ( quando uno desidera qualcosa , ad esempio , e non può averlo , ecco che soffre ) . Chi vive ” felice ” , in mezzo a gioie e a piaceri , in realtà , non si trova in una condizione migliore rispetto a chi soffre : soffre tanto come chi soffre , però non se ne rende neppure conto , é ignaro di ciò che gli sta succedendo . Secondo Pascal la condizione dell’ uomo é intrinsecamente miserabile ; certo ci sono quelli messi da Dio in situazione particolarmente pesanti ( Pascal stesso ) , ma essere in tali situazioni disgraziate é positivo perchè anche chi non pensa di esserlo lo é allo stesso modo , ma non riesce a rendersene conto : ci é dentro fino al collo , ma manco sa di esserci , perchè é distratto , divertito da altre cose che non gli permettono di concentrarsi a fondo sulle condizioni umane , che sono assolutamente di sofferenza e di miseria . Ecco allora che nella filosofia di Pascal é centrale il concetto di divertimento , che va inteso come distrazione ( dal latino devertere ) , come lasciarsi distogliere dalla realtà e dalla vera condizione umana . Divertimento é qualsiasi attività in cui l’ uomo si cala e che lo porta a non riflettere sulla propria condizione miserabile : quando si esce con gli amici , quando si fa qualsiasi cosa che ci distragga . D’ altronde , fa notare Pascal , la cosa che l’ uomo maggiormente evita é la solitudine , il trovarsi a faccia a faccia con se stesso a riflettere sulla propria condizione ; quando uno si ferma e , da solo , riflette é preso dall’ angoscia , che invece non sente quando é indaffarato e si diverte . Pascal é il secondo pensatore ad avvalersi della parola ” angoscia ” : già Lutero l’ aveva adoperata per indicare la totale perdizione derivante all’ uomo da un’ esperienza religiosa vissuta fino in fondo , quando l’ uomo capisce di non essere nulla : l’ angoscia é proprio il sentimento del nulla . Quando si ha paura si teme qualcosa , quando si ha angoscia si teme il nulla . L’ uomo , una volta nato , può sfuggire all’ angoscia fin tanto che si divertirà , ossia fin tanto che non rifletterà tra sè e sè . Ma divertirsi non é certo una cosa positiva , proprio perchè ci impedisce di renderci conto della nostra reale situazione di miseria . Pare quindi che la miseria del genere umano sia un vicolo cieco , nel quale l’ uomo é destinato a soccombere . Ma per Pascal la via d’ uscita c’ é ed é di tipo religioso , ma per poter uscire bisogna conoscere effettivamente la condizione in cui ci si trova e chi si diverte , fin tanto che persiste nel divertirsi , non la saprà mai . La sofferenza fisica e morale di Pascal diventa allora uno strumento conoscitivo che consente di guardare con lucidità alla nostra situazione . Pascal risulta un pensatore anomalo se inserito nel suo contesto storico anche per il suo particolare rapporto nei confronti della ragione umana . Siamo negli anni in cui il rigido meccanicismo e il freddo razionalismo cartesiano avevano toccato l’ apice e avevano coinvolto mezzo mondo : Cartesio arriva a dire che l’ uomo può avere una scienza quantitativamente non grande come Dio , ma qualitativamente precisa come quella di Dio ; ecco allora che l’ esaltazione della ragione umana trova in questi anni la sua massima espressione . Pascal si pone invece in una prospettiva diversa ; certo egli non disprezza la conoscenza razionale perchè ne capisca poco in merito , perchè , anzi , egli era un matematico eccellente ( é l’ inventore della calcolatrice ) e praticava l’ uso della ragione . Il problema che lui si pone é di ravvisare i limiti del sapere scientificamente argomentato . A suo avviso l’ ambito della conoscenza umana in termini razionali si esaurisce tutto nella dimostrazione ; può sembrare già tanto , ma comunque , a ben pensarci , rimangono escluse parecchie cose e poi Pascal stesso finisce per escluderne altre all’ interno della scienza stessa . La dimostrazione non é altro che la serie di passaggi da una verità ad un’ altra ; però , come già aveva notato Aristotele , se si ripercorre la catena argomentativa senza prendere nulla per buono non si arriverà mai da nessuna parte , ma si continuerà a fare passaggi da una verità all’ altra per l’ eternità . Bisogna trovare una verità che non derivi da nessun’ altra e che faccia derivare tutte le altre . Questo é evidente soprattutto in geometria , ma pure in matematica : facendo una serie di passaggi argomentativi arrivo alla verità 2 + 2 = 4 e la prendo per buona , senza proseguire ulteriormente la catena argomentativa . E’ come se si cogliesse il principio del ragionamento geometrico e , proprio per questo , é un procedimento non fino in fondo razionale , é una facoltà che ricorda il sentimento : si sente immediatamente che certe cose sono vere e vanno prese per buone : questo é vero perchè é vero . Questo paragone con il sentimento ci fa pensare all’ ambito delle problematiche che sfuggono alla ragione : essa può dimostrare , ma non cogliere i principi se non in modo scientifico . Ma buona parte della vita é fatta di relazioni umane e non solo di matematica : questo aspetto Pascal lo colse anche per la sua stessa vita . Finì per dedicarsi con troppo impegno a certi studi che non fecero altro che aggravare le sue condizioni fisiche e il dottore gli consigliò una vita più mondana cosicchè Pascal conobbe molta gente e si accorse che esistono due diversi tipi di intelligenza : quella che mi fa capire la geometria e quella che mi fa capire le persone . Quindi Pascal elaborò la celeberrima contrapposizione tra spirito di geometria e spirito di finezza , espressioni che rendono bene l’ idea : abbiamo da un lato le argomentazioni che riguardano il ragionamento di tipo cartesiano ( geometrico ) delle verità evidenti ( che per Pascal sono di ” carattere intuitivo ” e parenti dello spirito di finezza ) , e , dall’ altro lato , lo spirito di finezza che fa cogliere le varie sfumature . Se prestiamo attenzione ci accorgiamo che é esattamente l’ opposto di Cartesio: per lui le verità o sono nette o non sono verità ; per Pascal , invece , esiste la capacità di cogliere le sfumature , ossia quelle realtà non chiare e distinte . C’ é poi un altro aspetto da chiarire sui limiti della ragione dimostrativa : nella scienza i princìpi fondamentali derivano , come dicevamo , dall’ intuizione , che Pascal accosta al sentimento ; ma Pascal fa anche notare come nell’ ambito stesso del ragionamento matematico non entra in gioco solo la necessità , ma anche la possibilità . In una filosofia esistenzialista come quella pascaliana diventa importante non ciò che avviene necessariamente ( ossia quello che avviene e basta , senza che si possa cambiare ) , bensì ciò che avviene nell’ ambito della possibilità ( ciò che può avvenire ) proprio perchè é qui che noi possiamo effettuare le nostre scelte . Certo per spiegare come vada il mondo entra in gioco il necessario , ma se mi pongo quesiti esistenziali subentra il possibile e assurge ad una posizione predominante . Pascal non solo rivaluta la possibilità , ma arriva addirittura ad introdurla dove sembra fuori luogo , applicandola in ambito matematico e dando vita al calcolo probabilistico . Dal punto di vista biografico , questo suo interessamento al calcolo probabilistico venne fuori quando , su consiglio del dottore , egli si diede alla vita mondana , che già gli aveva suggerito l’ idea di spirito di finezza . Durante le sue esperienze di vita mondana , Pascal venne a contatto con il gioco d’ azzardo : ci si trova a fare una serie di puntate e , ad un certo momento , quando il gioco non é ancora finito , si decide di smettere di giocare . Ma a chi bisogna dare la posta in palio ? Non si può sapere chi avrebbe vinto , ma si può sapere chi aveva più probabilità in quel determinato momento di vincere . Si può dividere la posta in gioco tra i giocatori calcolando la probabilità di vincere di ciascuno di essi e distribuire la posta in modo proporzionale alla possibilità di vincere . Così fece Pascal quando gli venne posto il problema da alcuni suoi amici che si erano trovati ad abbandonare la partita prima che finisse . E’ interessante notare come questo procedimento faccia fare un ragionamento matematico non su quello che avverrà necessariamente , ma su quello che potrebbe avvenire . Pascal quindi introduce la possibilità in ambito matematico . Non dobbiamo assolutamente pensare che egli fosse poco bravo in matematica : egli era bravissimo ed era anche arrivato alla costruzione del primo calcolatore meccanico , che sarà poi rivisto da Leibniz . Lo stesso sistema del computer ha due padri , Hobbes e Pascal , vissuti grosso modo nello stesso periodo , un’ epoca in cui l’ indagine del mondo veniva condotta in termini meccanicistici e la matematica era predominante : Hobbes arriverà a dire che pensare significa sempre calcolare ( la rana é verde : alla rana aggiungo l’ attributo verde ; la rana non é verde : alla rana sottraggo l’ attributo verde ) . Ora , i computer funzionano grazie al sistema binario e per quanto siano complessi le operazioni che svolgono sono sempre riconducibili ad un ” bivio ” : sì o no . Ecco che con Hobbes e Pascal nasce l’ idea che si possa limitare il pensiero tramite strutture fisiche elementari ( il calcolatore ) . Per Hobbes questo vale per qualsiasi pensiero , per Pascal vale solo per gli spiriti di geometria . Nell’ affermazione di Hobbes c’ é il presupposto di creare macchine per imitare il pensiero e Pascal lo risolve dal punto di vista pratica dando vita al calcolatore , che opera calcoli in modo meccanico e che , non a caso , nasce nel 1600 , il secolo del meccanicismo , che vuole ogni pensiero riconducibile ad una macchina .
LA SCOMMESSA SU DIO
Estremamente importante nella filosofia di Pascal risulta anche l’ argomento della scommessa su Dio , riguardante la sua esistenza . Non é importante dimostrare che Dio esista , ma é fondamentale dire se valga o no la pena puntare sull’ esistenza di Dio . Quando uno ha le carte in mano , non potrà mai sapere se vincerà o perderà , può solo sapere se ha un grado di probabilità di vittoria alto o basso e può sapere se vale la pena giocare con quelle carte o no . Magari in termini di probabilità non mi converrà giocare , tuttavia non é impossibile che io vinca ( anche se improbabile ) ; sono poi spinto a giocare dal fatto che il premio in palio é così grande che , se vinco , mi cambia la vita ; c’ é un rapporto infinito tra quello che possiedo e quello che posso possedere vincendo : é proprio questo che mi fa venir voglia di giocare . Così vanno anche le lotterie : la possibilità é una su un milione ( o anche meno ) , le probabilità di vittoria sono bassissime , tuttavia gioco perchè c’ é un rapporto infinito tra il premio in palio e quello che possiedo : la vittoria mi cambierebbe la vita ; in ogni caso vale la pena giocare . Supponiamo che la posta in gioco sia un infinito guadagno : qualsiasi fosse la posta da giocare e qualsiasi fosse la probabilità di vincere , varrebbe sempre e comunque la pena giocare . Pascal fa una scommessa del genere puntando sull’ esistenza di Dio ; nella sua religione di derivazione giansenista e antigesuitica , é chiaro che scegliere Dio comporta una radicale rinuncia al mondo : ecco allora che Pascal sui piatti della bilancia mette da una parte Dio , dall’ altra il mondo . A lui , come detto , non interessa dimostrare l’ esistenza di Dio , che sa peraltro indimostrabile , come indimostrabile é l’ inesistenza di Dio . Ciascuno di noi , a seconda che creda o no , é capace a portare argomentazioni pro o contra Dio ; ma si tratta sempre solo di argomentazioni e non di prove conclusive : il credente dirà che il mondo presenta un ordine che deriva da Dio , l’ ateo dirà che se c’ é il male come può esserci Dio , e così via . Pascal spiega , illustrando queste posizioni appena citate , che la fede é una scelta : ci si mette volontariamente in gioco , una scommessa dove ci si gioca tutto . Non possiamo dire se Dio esista o se non esista , come non possiamo neanche dire che sia più probabile che esista o che non esista , ma una cosa la possiamo dire con certezza : il rapporto tra le probabilità che esista e quelle che non esista sarà sempre un rapporto finito : non so ( nè posso sapere ) se sia di 5 a 50 , di 70 a 30 , di 1 a 99 , di 1 a un miliardo ; in assenza di una prova il rapporto é sempre finito . Se fosse un rapporto infinito allora sarebbe come avere la certezza che Dio esista o non esista : se dico che il rapporto tra esistenza e non esistenza é di 1 ad infinito , é come se avessi la certezza che non esiste . Nella scommessa su Dio uno può puntare su Dio ( rinunciando al mondo ) o sul mondo ( rinunciando a Dio ) . Esaminiamo entrambi i casi : punto sul mondo ; Dio non esiste e vivo come se non esistesse , dandomi interamente al mondo e alla vita terrena . Se punto su Dio , invece , se vinco , vinco una realtà infinita , una felicità infinita ( la beatitudine ) ; mettiamo il caso che Dio non esista ; io che ho puntato sulla sua esistenza ho perso , ma che cosa ? Perdo l’ infinito ( Dio ) e mi rimane il finito ( il mondo ) . Pascal gioca tutto sul fatto che il rapporto di probabilità tra esistenza e inesistenza di Dio é finito , mentre infinito é il rapporto tra Dio e mondo ( ossia tra le cose puntate ) . Conviene sempre puntare su Dio perchè se non esistesse avrei comunque sempre a mia disposizione il mondo finito ; ma se esistesse oltre al mondo finito , guadagnerei anche l’ infinito ( Dio ) . Chi non punta su Dio vince il mondo finito , ma se Dio esistesse , allora perderebbe l’ infinito . Qualche possibilità che Dio esista ci deve essere per forza , dice Pascal , ( anche solo una ) , altrimenti chi sostiene che Dio non esista dovrebbe essere in grado di dimostrare in modo razionale che non c’ é ( ma non é possibile ) . Quindi , magari le probabilità che Dio esista saranno bassissime , ma conviene puntare su di lui perchè quello che si vince , nel caso esista , ( e quello che si perde nel caso non si punti su di lui e lui esista ) é talmente grande ( infinito ) che vale la pena giocare , qualunque siano le probabilità di vincere . Ricordiamoci che questa di Pascal é solo una prova : non mi dimostra nè che Dio esista nè che non esista , mi dice solo che vale la pena credere che esista . Possiamo fare ancora una volta il confronto tra il Dio cartesiano ( quello dei filosofi e degli scienziati ) e quello pascaliano ( il Dio di Abramo , di Isacco e di Giacobbe ) : tutti e due i filosofi giocano in qualche modo sull’ idea di infinitezza presente in noi enti finiti . La differenza però sta nel fatto che Cartesio dimostra l’ esistenza di Dio , Pascal argomenta in favore della scelta di credere in Dio , convinto che l’ esistenza di Dio non sia dimostrabile razionalmente ( Pascal ha meno fiducia nella ragione umana rispetto a Cartesio ) . Il Dio persona di Pascal ( che é poi quello cristiano ) , non va dimostrato razionalmente , ma va accettato e basta ; il Dio teistico non chiede all’ uomo di capire tutto , bensì gli chiede di fare l’ atto di fede e di compiere scelte : non a caso é il Dio di Abramo , colui che sacrificò , su consiglio di Dio , il proprio figlio Isacco : le vicende di Abramo non sono altro che quelle della scommessa pascaliana vissuta in termini tragici : Abramo punta tutto su Dio , perfino il proprio figlio ; scommette tutto su Dio e riesce vincitore cosicchè vince il mondo finito ( gli viene restituito il figlio ucciso ) e l’ infinito ( Dio ) . Pascal scrive: ” Poiché scegliere bisogna, vediamo ciò che vi interessa di meno. Voi avete due cose da perdere: il vero e il bene; e due cose da impegnare nel gioco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l’errore e la miseria. (…) Valutiamo questi due casi: se guadagnate, voi guadagnate tutto; se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare “. Sempre a riguardo della fede in Dio , vi é un altro curioso argomento elaborato da Pascal : egli immagina che un non credente gli si rivolga confessandogli di non riuscire a credere in Dio e , per questo , di vivere male la sua vita . Essere credenti , in fondo , é più facile perchè si ha una speranza in qualcosa e chi non crede , spesso , vive male il fatto stesso di non credere. Pascal consiglia al non credente di agire in tutto e per tutto come se credesse , quasi come se , abituando il corpo alla fede , anche l’ anima , un poco alla volta , si abituasse a credere . Agisci come se credessi e vedrai che la fede viene da sè : può essere così riassunta l’ argomentazione pascaliana . Si deve forzare la macchina corpo ad abituarsi alle cose di Chiesa ( messe , processioni e riti vari ) finchè anche l’ anima si adatterà e arriverà a credere . Dobbiamo fare la nostra scommessa puntando su Dio : se non c’ é non ci perdiamo nulla , ma se c’ é abbiamo solo da guadagnarci . Con l’ idea dell’ adeguarsi forzatamente alla fede , prima col corpo e poi con l’ anima , Pascal vuole dire che la fede ce l’ abbiamo tutti , basta trovarla : chi cerca la fede ( come il non credente ) in fondo già la possiede proprio perchè la sta cercando . Uno che non avesse l’ idea infinita di Dio in sè non si porrebbbe il problema della ricerca della fede . E Abramo stesso , che aveva puntato tutto su Dio , non aveva forse fatto un atto di ricerca della propria fede affidandosi completamente a Dio ? La situazione tipica dell’ uomo é di essere un ente finito e di avere la consapevolezza di essere un ente finito ; ma sapere di essere finiti implica che l’ uomo abbia presente in sè l’ idea di infinito ( Dio ) : come faccio a sapere di essere finito se non so che cosa sia l’ infinito ? Già Cartesio si era servito di quest’ argomentazione . Quindi la fede in ultima istanza l’ abbiamo tutti , si tratta solo di cercarla , magari anche forzando . Il non credente si sente insoddisfatto proprio perchè non é ancora riuscito a trovare la sua fede . Quello che caratterizza l’ uomo é di essere un ente finito e di sapere di essere un ente finito : questo permette a Pascal di elaborare la teoria della miseria del genere umano , miseria che colpisce esclusivamente il genere umano : non ne sono affetti nè Dio nè gli altri esseri del creato . Viene spontaneo controbattere che ci sono esseri assai inferiori e quindi più sventurati dell’ uomo : ma essere miseri per Pascal implica non solo avere dei limiti , ma anche esserne coscienti : solo l’ uomo si rende conto della sua sofferenza e dei suoi limiti . Ha dei limiti , ma ha anche una sua grandezza : l’ uomo per Pascal é un mostro , un essere ibrido , incomprensibile , una realtà che non é semplice ma che é misera : é piccolo perchè é debole ed é grande perchè sa di essere debole . Non a caso Pascal diceva : Io esalto l’ uomo quando lo si vuole umiliare e lo umilio quando lo si vuole esaltare ; soffre e sa di soffrire l’ uomo : é allo stesso tempo l’ essere più grande e più sventurato . La più famosa metafora elaborata da Pascal per delineare la condizione dell’ uomo é quella del giunco pensante in balìa del vento : l’ uomo é una pianta debole soggetta alle intemperie : proprio come un giunco può essere facilmente sradicato e ucciso : il vento ( e in generale l’ universo che lo attacca ) é estremamente più potente di lui , ma lui ha un vantaggio : é pensante . L’ universo che lo schiaccia senza neanche accorgersene é più forte fisicamente , ma proprio perchè non si accorge di cosa fa ( non ha coscienza ) é infinitamente più debole rispetto al giunco sul piano della coscienza : il giunco pensante fisicamente é debole , ma in ambito di coscienza é fortissimo perchè ha coscienza di essere schiacciato e distrutto dal vento ( l’ universo ) , che manco si accorge di ciò che fa . Un secolo dopo Pascal , Kant riprenderà questa concezione ambivalente dell’ uomo per elaborare la sua teoria del sublime , quel sentimento che l’ uomo prova e che risulta allo stesso tempo piacevole e insopportabile : é l’ uomo che si pone di fronte alla natura e se ne compiace , tuttavia sente di essere a lei inferiore e soffre : l’ immagine usata da Kant sarà quella del mare in tempesta ; l’ uomo che lo vede dalla riva prova un sentimento piacevole perchè in effetti é uno spettacolo meraviglioso , tuttavia soffre sentendo la propria impotenza e inferiorità rispetto alla natura , che può schiacciarlo senza neanche accorgersene . Questa é la miseria dell’ uomo . Ecco come esprime Pascal questo concetto: ” L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale ” (fr. 347).
IL LIBERTINISMO
In netta opposizione alla difesa delle ragioni del cuore e della fede dispiegate da Pascal, prende vita nel Seicento una corrente di pensiero che, per quanto composita e mai realmente unitaria, presenta come principale caratteristica la critica dell’ortodossia religiosa in nome dell’autonomia della ragione da ogni autorità (in primis dall’autorità ecclesiastica). Proprio l’intenzione di emanciparsi da ogni forma di servitù intellettuale conferisce il nome al movimento, detto “libertinismo” in riferimento al libertus latino, ossia l’ex schiavo affrancato. La corrente libertina si sviluppa con particolare vigore nella Francia dei primi decenni del Seicento (Parigi è il centro propulsore di questo movimento culturale e in questo ambiente si accendono polemiche e dibattiti che vedono coinvolti molti filosofi ma anche scrittori e poeti), come reazione al DIEGO VELAZQUEZ: MARTEtentativo di restaurazione della più rigida ortodossia da parte della Riforma cattolica. Il libertinismo trae origine soprattutto dal Rinascimento e dalla sua affermazione della dignità e dell’autonomia intellettuale dell’uomo, nonché dalla sua riscoperta del “vero” Aristotele pagano (in contrapposizione a quello, trasfigurato, a cui si richiamavano i Medioevali). Temi portanti della corrente libertina sono, inoltre, l’affermazione (giudicata all’epoca sconcertante presso gli strati più arretrati della popolazione) dell’infinità dell’universo, già difesa da Giordano Bruno. Se è vero che, in certo senso, viene riscoperto un nuovo e autentico Aristotele, è altrettanto vero che i Libertini recuperano tendenzialmente i filosofi post-aristotelici, derivandone precisi assunti a cui fare costante riferimento: così dallo stoicismo mutuano l’esigenza di individuare una morale razionalistica, svincolata dalla religione, e la concezione di un universo retto da leggi necessarie e necessitanti, cui nulla (compreso l’uomo) può sfuggire (in siffatta prospettiva cade definitivamente la possibilità dei miracoli). Dall’epicureismo è invece desunta la concezione materialistica e atomistica del reale e dell’uomo, mero aggregato di atomi e, in forza di ciò, destinato a non godere di alcuna vita ultraterrena. L’eredità dello scetticismo – nella sua veste “pirroniana” -, invece, consiste, grazie alla mediazione di Montaigne, nella consapevolezza dei limiti intrinseci della conoscenza umana e la conseguente centralità della sospensione del giudizio (epoch). Il punto su cui tuttavia i Libertini insistono maggiormente è la tematica dell’impostura religiosa, ovvero la distruzione di quei dogmi volti all’assoggettamento del popolo al potere. Tale critica sfocia o in un moderato deismo, tale per cui alla concezione dogmatica e scritturale del Dio cristiano viene opposto un Dio razionalmente inteso come principio ordinatore del cosmo (e ciò passerà in eredià agli Illuministi), oppure in un più radicale panteismo di marca bruniana, per cui Dio altro non sarebbe se non il mondo nella sua vitale realtà, o, nei casi più estremi, in un’aperta professione di ateismo. In ogni caso, al di là delle varie posizioni assunte dai suoi componenti, il libertinismo tende a propugnare la tolleranza religiosa. Si è soliti suddividere il movimento libertino in due fasi: nei primi decenni del Seicento, infatti, esso tende a manifestarsi come 1) libertinismo radicale, con una critica incredibilmente severa tanto al dogmatismo religioso quanto all’assolutismo politico ad esso alleato: in questa prima fase rientrano Giulio Cesare Vanini (1585-1619) – pugliese e seguace della scuola padovana giustiziato a Tolosa – e Théophile de Viau (1590-1626) – poeta francese incarcerato e messo a tacere. Verso la metà del Seicento, invece, tende a prevalere il 2) libertinismo erudito, caratterizzato da una critica razionalistica dai toni più sfumati e concilianti e, soprattutto, da un sodalizio tra il filosofo libertino e il potere politico (dal quale ottiene favori e protezione). Questo sconcertante sodalizio viene spesso giustificato machiavellicamente. In questa seconda fase rientrano François La Mothe le Vayer (1588-1672), Gabriel Naudè (1600-1653) e lo stesso Gassendi. Anche dopo la metà del secolo, tuttavia, il libertinismo non perde la propria forza espressiva: risale al 1659 l’opera anonima Theophrastus redivivus, contenente un immane compendio delle opinioni filosofiche sostenenti l’ateismo e la materialità dell’anima. L’autore che forse meglio di qualunque altro assomma in sé tutte le caratteristiche della nuova temperie culturale (critica alla religione, difesa del materialismo e della mortalità dell’anima, attacco ai miracoli) è Cyrano de Bergerac. Anche in Italia ci fu una grande diffusione di scritti e associazioni libertine: il più celebre scrittore e filosofo libertino italiano è il già citato Giulio Cesare Vanini, che afferma la necessità di seguire solamente le leggi di natura. A Venezia fu fondata dal Loredano l’Accademia degli Incogniti di cui facevano parte Cesare Cremonini e Ferrante Pallavicino.
DON GIOVANNI, MODELLO DEL LIBERTINO
La figura seicentesca del libertino trova la sua più riuscita rappresentazione nel Don Giovanni di Moliére (rappresentato per a prima volta nel 1665): Don Giovanni, gentiluomo di corte, ateo perverso, libertino, ha abbandonato Donna Elvira, che tenta invano di ricondurlo a sé, e, gettato dalla tempesta sulla costa siciliana insieme al servo Sganarello, è salvato da alcuni popolani. Seduce quindi Carlotta e Maturina, due contadine attirate dalle sue promesse di matrimonio. Inseguito dai fratelli di Elvira, sempre in compagnia di Sganarello, si rifugia in una foresta, dove vuole costringere un povero a bestemmiare. Dopo aver salvato la vita a Don Carlo, fratello di Elvira, Don Giovanni invita a cena la statua di un “commendatore” da lui ucciso in precedenza e la statua accetta. Mette poi alla porta il signor Domenica, suo creditore, e risponde con insolenza e con scherno al padre Don Luigi che gli rimprovera la sua vita dissoluta. Dopo essere rimasto insensibile anche alle preghiere di Elvira che vorrebbe farlo ravvedere, Don Giovanni si mette a tavola e la statua del “commendatore” lo invita a sua volta a cena per il giorno dopo. Don Giovanni finge di pentirsi di fronte al padre, ma confessa a Sganarello di volersi servire ora dell’ipocrisia ed è appunto da ipocrita che risponde al fratello di Elvira. Ma ecco che compare sulla scena uno spettro che concede a Don Giovanni pochi istanti per pentirsi. Poiché egli se la ride, la statua del “commendatore” lo prende per mano: su Don Giovanni si abbatte un fulmine, la terra gli si apre sotto i piedi ed è inghiottito nell’inferno, mentre il servo Sganarello si lamenta per il salario arretrato che nessuno gli pagherà.
INTRODUZIONE
Il libertinismo é una realtà assai complessa che difficilmente si lascia esprimere in un quadro coerente. I libertini portarono avanti tesi differenziate e persino tra loro contraddittorie, al punto che ad un primo approccio parrebbe non esistere unità alcuna in tale corrente di pensiero. Lo svilupparsi del fenomeno dei “liberi pensatori” infatti, pur avendo connotati comuni che ci permettono appunto di parlarne come di una realtà in qualche modo unitaria, trae origine da più di una fonte e si colloca nella crisi del Rinascimento, resasi ancor più evidente durante i primi anni del Seicento. Il libertinismo dunque é un movimento, espressione di una “crisi” (quella crisi culturale, segnata dal crollo della scolastica, dell’aristotelismo e del sapere rinascimentale), che si sviluppa in Francia e in Italia nel corso del XVII secolo e che si pone in forte contestazione della Chiesa, della religione in genere e di ogni autorità. Il libertinismo é dunque espressione di una crisi. I libertini in effetti sono caratterizzati non da uno spirito di riflessione sistematica, ma da uno slancio morale che li porta a rifiutare qualsiasi tradizione. E’ in questo spirito innovativo, scanzonato e ribelle, da cui prenderà le mosse quello spirito critico successivo, che si proietta verso l’illuminismo, grazie ad autori come Fontenelle o ancor più come Bayle, che si deve vedere l’originalità dei libertini. Essi sono alla base dello spirito moderno, ma non del pensiero moderno. Manca loro una coscienza precisa di quel pensiero scientifico che sarà l’elemento fondamentale per la formazione della riflessione moderna. Possono essere visti, dunque, come all’inizio del moderno spirito europeo, ma non del pensiero moderno, proprio in quanto sono a lato dello sviluppo della scienza, che talora ammirano e divulgano, talora espressamente combattono, ma che tuttavia non entra mai a far parte costitutiva della loro riflessione in maniera coerente e consequenziale. Le origini del libertinismo, per quanto complesse, trovano principalmente riferimento in due correnti precedenti: lo scetticismo erudito francese (Montaigne, Charron) e il naturalismo italiano, derivato dall’aristotelismo eterodosso rinascimentale (Pomponazzi, Cremonini, Vanini, Telesio, ma anche Machiavelli e Bruno).Proprio in virtù di siffatta frammentazione di pensiero, il fenomeno libertino é oggetto di un dibattito critico e storiografico caratterizzato da molteplici posizioni tese a metterne in luce, talora unilateralmente, le origini e l’anima. Se taluni vedono nel libertinismo una prosecuzione non originale e tutto sommato ripetitiva dell’aristotelismo rinascimentale, nei suoi motivi averroistici, ovvero naturalistici e materialisti, altri fanno riferimento ad una proiezione di tale movimento verso lo spirito critico del Fontenelle e del Bayle (pre-illuministi); i primi negano un’influenza francese, riferendo l’ispirazione libertina soprattutto all’ambiente padovano (retroguardia della scolastica ed espressione dell’aristotelismo eterodosso); i secondi invece assolutizzano l’influenza di Montaigne. In realtà influenze diverse emergono nel corso dello sviluppo del “libero pensiero “, fatto che ci impedisce di accettare chiavi interpretative forzatamente unitarie del libertinismo francese. Merito del Pintard é aver messo in luce come il fenomeno libertino sia una sorta di ribellione morale alla legge, alla tradizione stantia, a ciò che non permette all’uomo di liberare la sua creatività. Questo movimento andrebbe studiato come un fatto di storia morale e non come una corrente filosofica. La polemica libertina, poi, si scaglia contro la cultura della scolastica, contro il tomismo, contro la Chiesa e la religione istituzionale. In una parola, essi si scagliano contro tutto ciò che può rientrare nell’area dell’autorità ecclesiastica. Tale polemica non ha però una preoccupazione politica, di sovvertimento dell’ordine. E’ un semplice moto dello spirito singolo, che reagisce contro l’autorità, a favore della libertà dello spirito che non deve soggiacere a nulla. E’, in tal senso un movimento elitario e individualistico. Le masse dovevano continuare ad essere soggette al potere e solo gli “spiriti liberi” poteva arrogare per sé questo atteggiamento critico. E’, però, un tratto tipico del libertinismo la duplicità di atteggiamento nei confronti del potere, della tradizione, della religione; da una parte (nel comportamento pubblico) formale acquiescenza, anzi sostegno, dall’altra (nella vita privata) critica profonda e distruttiva. Il Pintard ha indagato in maniera ricca e dettagliata lo sviluppo di questo movimento. Egli ritiene che nella sua fase centrale (la più importante e precisa dal punto di vista del pensiero) si sia persa l’originaria carica di rivolta e che emergano in maniera più evidente le prospettive scettiche. In questa fase, detta del libertinismo erudito, collocabile dopo il 1625, il punto propulsivo del movimento é rintracciabile nella “Tétrade”, ovvero in quattro amici che, da incontri casuali stringono un fortissimo legame, determinato da una comune sensibilità nei confronti della realtà e del sapere. Il gruppo é costituito da Gassendi, Naudé, La Mothe le Vayer, Elia Diodati. E’ sicuramente emblematico che il punto propulsivo del libertinismo, nella forma del libertinismo erudito, sia costituita da un gruppo così forte e unito, tanto da parere un gruppo di iniziati, come sostiene il Pintard, e allo stesso tempo, tuttavia, così eterogeneo dal punto di vista religioso, filosofico e culturale. Infatti, Diodati é un dilettante, non ha profondità di ricerca e di pensiero, ma ha notevoli contatti con il mondo della cultura; Gassendi é uomo religioso e filosofo anti-aristotelico, simpatizza con la scienza galileiana (e con l’atomismo epicureo) sua alleata nella lotta alla visione aristotelica della natura, sebbene non ne segua la metodologia, preferendo ad essa un atomismo vitalistico; Naudé é filosofo, fa riferimento all’aristotelismo padovano e dal punto di vista religioso é un indifferente; infine La Mothe le Vayer é anch’esso filosofo, di posizione scetticheggiante/pirroniana ed é anch’egli religiosamente indifferente. Come si vede, dal punto di vista dottrinario non c’é unità alcuna nel gruppo. Ma, per l’appunto, il libertinismo non è una dottrina. Peraltro si consideri anche che vi é profonda amicizia e una analogia di vedute tra Gassendi e un altro personaggio, il Mersenne (amico di Cartesio), il quale é estremo nemico dei libertini e dell’irreligiosità che si va diffondendo. Come Gassendi, Mersenne é un religioso e come Gassendi non crede nelle prove metafisiche dell’esistenza di Dio; entrambi sono polemici contro Aristotele e i suoi sviluppi, ortodossi o eterodossi; entrambi dunque simpatizzano per la fisica galileiana, sebbene Gassendi si distingua per una tentata riabilitazione del meccanicismo di Epicuro, preferito a quello galileiano-cartesiano, e cercherà di mostrare come questo pensatore, spesso irriso e mal compreso, non si opponga al cristianesimo, ma anzi – se opportunamente interpretato – lo integri perfettamente. Mersenne d’altronde era ostile alla metafisica cartesiana quanto Gassendi, e rivolgeva i suoi interessi apologetici unicamente alla nuova fisica meccanicistica di Galileo. Dunque il libertino Gassendi e l’antilibertino Mersenne hanno molti punti in comune. Come si vede, un’aria culturale nuova pervadeva gli spiriti più vivi ed intellettivamente audaci del tempo, a prescindere dalla diversità delle posizioni, al punto che individuare il crinale che specifica l’appartenenza al fenomeno del libertinismo non sempre é semplice.
IL PENSIERO E LA STORIA
E’ indubbio, comunque, che i libertini hanno visto nell’opera di Montaigne una sorta di paternità spirituale, mediata attraverso il pensiero e la riflessione di Charron, come é altrettanto indubbio che la lettura libertina di Montaigne non rende certo ragione della complessità e dell’ampiezza del pensiero di quest’ultimo. Di Montaigne, espressione lucida e consapevole della crisi che la cultura europea attraversa durante la fine del Rinascimento, si riprende in particolare il rifiuto della ragione, intesa quale funzione ordinatrice (peraltro assai debole) e, come tale, destinata a non rendere conto della complessità del reale, il quale nella sua più intima essenza palesa valenze irrazionali e irriducibili a qualsiasi legge. L’uomo dunque, equipaggiato di una ragione decisamente “debole”, si trova in balia del caso, senza punti di riferimento etici assoluti: di qui lo scetticismo di cui si sostanziali pensiero montaigneano. Il sentimento, l’impulso del momento, lo spirito libero da ogni legge predeterminata (vuoi dalla ragione, vuoi dal diritto positivo) sono i punti di approdo della sensibilità libertina fin dagli inizi. L’obiettivo polemico é dunque la legge. Questo ci spiega anche come il libertinismo si trovi del tutto distante dal trovare affinità con la nascita della scienza. Il mondo scientifico, tutto determinato dalle leggi chiare e distinte per l’intelletto matematico, si presenta come una realtà che si aggiunge agli obiettivi polemici della maggior parte degli autori libertini. La legge, dunque, é il fuoco polemico della riflessione libertina. La natura in cui l’uomo é immerso totalmente é intesa come un insieme di forze cieche e casuali. In tal senso, la prospettiva dei libertini é tale da negare ogni metafisica (anche quella che sarà funzionale alla nuova scienza) ed é tesa a depauperare di ogni significato la religione. Il tutto é poi accompagnato dalla coscienza di sé come rappresentanti di una elité intellettuale, un’aristocrazia degli spiriti. Conseguentemente il libertino adotta un atteggiamento di formale ossequio alla religione e al potere, convinto dell’immaturità delle masse e della loro incapacità di sostenere la verità. Solo gli spiriti liberi sono destinati alla coscienza critica del mondo, poiché solo essi sanno ascoltare la natura e sono in grado di reggere il messaggio drammatico che essa porta. Per il popolo occorre perpetrare l’antico inganno della religione e della tradizione, onde evitare la decomposizione dell’ordine sociale. Al contrario di quel che faranno un secolo più tardi gli illuministi, essi non diffondono il loro pensiero e non danno ad esso un contenuto di innovazione sociale e politica. Malgrado questa coscienza di non poter iniziare una battaglia contro l’ordine costituito, riflessi sociali e politici non tarderanno a palesarsi, vista la radicale critica dei presupposti della società che i libertini, fin dall’inizio avevano maturato. Nel corso del 1619 e-1625 accade che Teophile de Viaeu (libertino) e Cesare Vanini (aristotelico, fonte di riferimento per il pensiero libertino), subiscano condanne dal parlamento di Parigi. Occorre ribadire come nel libertinismo rifluiscano in maniera originale, ma non in chiave di una sintesi compiuta, motivi sia naturalistici sia scetticheggianti. Sulla scia dell’opera di Vanini, i libertini si ispirano alla nozione di natura, quale unico ambito entro cui l’uomo sviluppa la sua avventura esistenziale; invece sulla scia dello scetticismo, desunto da Montaigne, essi non riprendono la convinzione, ancora presente in Vanini e tipica dall’aristotelismo tardo scolastico, di una razionalità della stessa. La natura, per i libertini, é guidata da forze cieche e arazionali, rispetto alle quali l’uomo non é in grado di affermare nulla di certo. Si nota qui bene come il movimento libertino si caratterizzi insieme per una continuità e allo stesso tempo un distacco, sia dal naturalismo padovano sia dallo scetticismo di Montagne. Subito dopo la crisi del 1626, prevale l’elemento scetticheggiante su quello naturalistico che aveva invece fatto sentire assai più la sua voce in precedenza. Occorre peraltro raffrontare questa posizione sempre più scetticheggiante dei libertini con il contemporaneo sviluppo impetuoso del nuovo sapere scientifico, il quale fa sua, proprio in questi anni, la polemica ed il sospetto contro ogni ipotesi non sperimentabile, e quindi contro la metafisica, necessariamente identificata ancora con l’aristotelismo. Il pensiero scientifico si manifesta con valenze antimetafisiche almeno fino all’elaborazione di una nuova metafisica, quella cartesiana. Da Montaigne dunque i libertini desumono la vis polemica contro la metafisica, contro il dogmatismo ed in ultima analisi contro ogni tipo di ragione “forte”. Questo aspetto che stiamo indagando é fondamentale, poiché é in grado di spiegare come il pensiero critico libertino non poté trovare sintonia con il nascente pensiero scientifico. Proprio questo prevalere della prospettiva scettica, ispirata a sentimenti che delineano una realtà che sfugge alla ragione, prospettiva volta ad una ricerca che si sa mai compiuta, porta il libertinismo ad essere in totale antitesi alla scienza sperimentale, la quale mostra al contrario che la natura obbedisce con rigore stupefacente a leggi esprimibili matematicamente. Così alleate della scienza saranno personalità del cattolicesimo, come Mersenne, impegnate in uno sforzo di riconciliazione tra fede e ragione, sicuramente assai delicato dopo gli interventi dell’autorità ecclesiastica su Galileo, ma senza dubbio di rilievo, mentre il libertinismo rispetto alla chiarezza scientifica si sente decisamente estraneo. Esso si contrappone ad una scienza che palesa l’immagine di un mondo ordinato ed armonico, potenzialmente accordabile con la fede in un dio ordinatore e creatore. La prospettiva libertina desume dall’aristotelismo il naturalismo e però sfocia, (vista l’impossibilità all’interno dello stesso aristotelismo di identificare in maniera certa leggi di natura conoscibili dall’uomo), in una sorta di criticismo esasperato che si traduce in scetticismo. Tale scetticismo impone all’uomo il rifiuto, in nome del naturalismo, di ogni legge assoluta, intesa quale forzatura e sovrapposizione intellettiva alla natura stessa. Dunque il libertinismo si pone in una posizione intellettuale incapace di apprezzare le recenti scoperte di leggi scientifiche della natura, quali il nuovo metodo sperimentale stava elaborando. Mentre religiosi come Mersenne si sforzano di operare una fusione tra spirito scientifico e concezioni cristiane, liberi pensatori, come i libertini, rischiano di provocare, chiudendosi nel cerchio magico della negazione scettica, un divorzio fra coscienza laica e affermazione del pensiero scientifico. Questo punto, apparentemente sorprendente, si chiarisce ulteriormente se si tiene in conto che la scienza, ben presto, troverà sviluppo e fondamento in relazione alla metafisica cartesiana. Ciò non poteva sicuramente raccogliere i consensi dei libertini, i quali vedevano in questo connubio un nuovo nascente dogmatismo. L’atteggiamento libertino piuttosto é la testimonianza di quanto la nascita di una nuova visione del mondo, come quella della precisione scientifica, dovette inizialmente creare sconcerto e difficoltà. In ogni caso la scienza, questo sapere che rinunciando alla conoscenza dell’essenza delle cose raggiunge un livello di chiarezza certissimo mediante il linguaggio dei numeri, non poteva non sviluppare una influenza sui libertini e portarli ad una graduale trasformazione del loro scetticismo, spingendoli verso un razionalismo critico. Quindi anche su questo tema abbiamo una forte ambivalenza: da un lato sospetto per le valenze dogmatiche della scienza, specie per la sua elaborazione cartesiana intimamente legata ad una nuova metafisica, dall’altra invece aspirazione ad uno spirito critico che in fin dei conti si trovava realizzato proprio nelle metodologie sperimentali della scienza galileiana e nel dubbio cartesiano. Di qui la profonda inquietudine del libertino che aspira a distruggere la tradizione e i valori del passato fino a negare ogni possibilità conoscitiva all’uomo ed insieme mira ad una nuova ragione, non metafisica, capace di dare all’uomo nuovi punti di riferimento. Alla luce di quanto detto, risulta immediato il riferimento a Cyrano de Bergerac, uomo che, seppur in maniera tale da rasentare il dilettantismo, conosce e studia le scienze ed ammira Cartesio. Tuttavia di Cyrano è preceduto da quegli autori che costituiscono più precisamente l’anima scettica ed erudita del libertinismo, autori che costituiscono il cosiddetto “libertinismo erudito”. Rintracciamo l’inquietitudine, descritta poc’anzi, malgrado il carattere fermo e deciso testimoniato da una vicenda esistenziale scevra dalle imprudenze di un Vanini e di un Théophile de Viau, o dal tumultuoso attivismo di un Cyrano, in La Mothe Le Vayer. Egli contro il meccanicismo scientifico, che dimostra di non poter comprendere, rispolvera il vecchio impianto aristotelico, inteso quale un empirismo radicale che, contro le teorizzazioni matematiche della scienza, non può che approdare ad un sapere solo probabile e congetturale. Dallo scetticismo in campo teoretico deriva un relativismo etico. Infatti, se il mondo é frutto del caso e dell’arbitrio, in sede morale é del tutto illusoria la ricerca di valori assoluti. La vita é per Le Vayer positiva se dentro la stessa l’uomo si pone il compito di una ricerca senza posa, ultimamente priva di uno scopo finale. Rimane evidente la sterilità di questo scetticismo che non può aprire prospettive costruttive alla riflessione libertina. L’ enorme mole di conoscenze sulla diversità dei costumi umani e sulle diverse società, tale da spaziare dalla Cina al Perù, e, in campo storico, dall’Egitto ai tempi moderni, non si traduce che in un dubbio universale sulla verità dell’uomo: quale é la verità nella infinita varietà dei costumi morali delle molteplici civiltà? Non c’é alcuna risposta a questa domanda. Si evidenzia, relativamente a questa riflessione, quale importanza ebbero le scoperte geografiche come fattore destabilizzante le tradizioni religiose e culturali dell’occidente, non esclusa la sapienza biblica; l’aver scoperto numerose nuove civiltà, di alto valore etico e culturale, implicava perdere la centralità e l’esclusività che la cultura occidentale e cristiana presumeva di possedere, ed implicava l’apertura di uno stato d’animo scettico e dubbioso, quale si vede testimoniato negli autori libertini. Le stesse scoperte scientifiche, che scardinavano la certezza aristotelica e cristiana della centralità della Terra e dell’uomo, avevano fatto ulteriormente scricchiolare tutti i punti cardinali. Quest’uomo, al servizio del Richelieu, distaccato, amante del quieto vivere ed insieme assetato di sapere e di erudizione, portato ad esaltare montaigneanamente il dubbio pirroniano e la debolezza della ragione umana, risolve la sua attività intellettiva in un immobilismo e in un acquiescenza totale al potere. Mersenne, pur prete e anti-libertino, rappresenta un elemento assai più dinamico nella vita intellettuale francese. Ciò non toglie che, anche al di là delle conclusioni a cui giunge la riflessione del le Vayer, il suo atteggiamento, determinato dalla sete di sapere, potesse avere sviluppi assai diversi, come risulterà quando una nuova fiducia nella ragione si insinuerà nel panorama culturale francese. Montesquieu – un secolo più tardi – fonderà sull’erudizione e sulla conoscenza della diversità dei costumi umani, le basi di una nuova scienza della legislazione. Naudé, anch’ egli uomo al servizio dello Stato, in quanto bibliotecario di Mazzarino, anticipando temi poi sviluppati dal Fontenelle e dal Bayle, applica il dubbio scettico alla storia, mostrando le potenzialità di un metodo critico. Contro l’homo credulus si cerca di mettere in luce le vere, empiriche, materiali cause degli eventi umani in diretta polemica con ogni spiegazione mitica degli stessi. Tuttavia questa riflessione critica del Naudé, portata alle estreme conseguenze, chiude il libertinismo dentro una prospettiva priva di speranze per l’uomo, che in ultima analisi ben si accorda con la sua teorizzazione della Ragion di Stato. Il protagonista della storia é lo Stato e il suo interesse é ciò che ispira l’azione della politica. Sembra qui contraddetta la caratteristica tipica del primo libertinismo, ovvero l’esaltazione dell’individuo sopra ogni cosa. Naudé invece trova nell’utile dello Stato il criterio di esplicazione delle vicende storiche, dove poco resta alla libera azione del singolo. Ma, proprio in questo aspetto del suo pensiero, Lissa ritrova potenzialità nuove del libertinismo, proiettate innanzi verso il razionalismo critico. Ecco esplicitata dunque la nascita di quello spirito critico di cui si faranno portatori Bayle e Fontenelle, che trae origine, come si può notare, dagli sviluppi interni del libertinismo e dal suo procedere su versanti apparentemente opposti tra loro. Con il Foigny troviamo come i temi della tradizione libertina si possano tradurre in una concezione utopica, che però, più che evidenziare valenze positive, trova ragione nel desiderio di fuggire dal mondo reale. Fuori da un’utopia evanescente e fantasiosa, il vivere é infatti descritto quale continuo morire dal quale é impossibile sottrarsi. La vita é un male e non vale la pena d’essere vissuta. Peraltro la conoscenza é per l’uomo tragica, perché apre alla considerazione del proprio destino di morte: meglio l’ignoranza tema su cui tornerà il Leopardi). La conoscenza dunque é il male più profondo per l’uomo. Abbiamo così il raggiungimento della più radicale negatività che il pensiero libertino possiede al suo interno, negatività che si traduce in travaglio e tormento. Tale leggiadra ed insieme disimpegnata visione della vita é testimoniata dalla schiera dei poeti lirici, che nel secolo XVII sono prevalentemente libertini. Questo genere poetico, definito “libertino” quasi per natura dallo Spink, testimonia peraltro, in maniera assai evidente, l’importanza della riflessione che fa capo ad Epicuro, e dunque l’importanza della figura del Gassendi nella genesi di quella percezione del vivere che entra costitutivamente nella definizione del libertinismo. Temi essenziali di questo poetare sono: la vita secondo natura e contro ogni restrizione; la insofferenza per l’ipocrisia religiosa ed il favore invece per la spontaneità, per l’amore ed il sentimento; il senso ineluttabile e tragico (pur senza drammi) della morte; la vita come insieme di sensazioni, le quali unicamente possono conferire la felicità. Così dunque in questo ambito vanno ricordati poeti quali Des Yveteaux, Desbaurrex, La Fare, Chaulieu, Chapelle, e Mme Deshouiléres. Ma al di là di una descrizione analitica, autore per autore, interessa qui evidenziare il tratto sintetico che emerge da questa produzione. “…Et chercher en tout temps l’honnête volupté…” scrive Des Yveteaux. Nella sua poesia, come in quella del Desbarreaux, si avverte l’intenzione di vivere una vita all’insegna della libertà, dell’eleganza dei costumi, della superiorità rispetto ad ogni pedanteria e fasulla scienza. Una vita, cioé, intessuta di distacco ed insieme della capacità di cogliere la felicità negli onesti piaceri. L’ “Honnête homme”, diverrà l’ideale conclamato in tali opere, indicando con questo l’indipendenza del giudizio da qualunque sua applicazione particolare, la negazione d’ogni etichetta o insegna intellettualmente qualificante. I personaggi descritti si ritrovavano presso case private per salotti culturali e per godere della leggiadria dell’ideale di vita conclamato. Centri di ritrovo erano la casa di M.me de la Sablière e, dopo che questa si ritirò in convento, la casa dell’abate di Chaulieu, che rimase punto di riferimento per gli amici per circa trent’anni. Tale stile di vita era caratterizzato dalla sensualità ma non dalla dissolutezza, era ostile alla devozione religiosa, ma non tale da contestarla apertamente e con convinzione, era infine ispirato al decoro ed alla elevatezza dei sentimenti. Ma ancor più che la poesia e l’elaborazione teorica, testimonia questo ideale di vita la persona del cavaliere de Méré , che era una specie di arbiter elegantiarum e la più grande autorità su tutto quanto costituiva la vera gentilezza (Honnêteté), e che dedicò tutta la sua esistenza a coltivare il piacere dei rapporti sociali, e che era persona ambita nei salotti colti dell’epoca. Il cavalier de Méré fu fonte d’ispirazione per Pascal, nelle sue descrizioni di quell’ideale mondano che, nei “Pensieri”, é accusato come vacuo e intriso di tristezza ma che Pascal dimostra di conoscere con acume. Con queste figure il libertinismo sembra venire a coincidere con lo “spirito mondano”, inteso anche nelle sue valenze più disimpegnate. Tale spirito è caratterizzato dall’eleganza, dalla cultura non pedante e mai approfondita, dal discorrere con fascino e consapevolezza del dramma della vita, senza tuttavia che esso impegni l’uomo in una seria ricerca di una risposta. Esso si risolve, secondo Moscato, in un’arte di piacere a tutti, in una inconcludenza erudita, in una leggiadro elitarismo intellettuale.
CYRANO DE BERGERAC
VITA E OPERE: Savinien de Cyrano de Bergerac nacque a Paris nel 1619 (morì nel 1655). Bizzarro e fantasioso, fu prima nell’esercito dove si rese celebre per la spavalderia e i numerosi duelli. Si dedicò poi alla letteratura, frequentando l’ambiente dei libertini, conducendo una vita disordinata e stravagante. Scrisse la commedia in prosa Il pedante gabbato (Le pédant joué , 1654), la tragedia La morte di Agrippine (La mort d’Agrippine, 1654). Scrisse anche i primi capitoli di un “Trattato di fisica” (Traité de physique). Le Lettere (Lettres, 1654), come era consuetudine del tempo, prescindono da riferimenti personali e biografici, e costituiscono, con il loro gioco incessante di metafore, iperboli, antitesi, trovate ingegnose, sottigliezze galanti e esagerazioni burlesche, un fine esercizio di stile e uno degli esempi più notevoli di prosa barocchista francese. La cosa più importante sono i ‘romanzi straordinari’: L’altro mondo o Gli stati e gli imperi della luna (L’autre monde ou Les é tats et empires de la lune, pubbl.1657) e Gli stati e imperi del sole (Les états et empires du soleil, pubbl.1662). Si tratta di racconti fantastici, estremamente vivaci. Il racconto, nella più tipica e schietta prosa barocchista, è quello di un viaggio meraviglioso, realistico e poetico, nei paesi della Luna e del Sole. E’ un pretesto per l’esposizione di ardite teorie filosofiche, scientifiche e religiose: il movimento della terra, l’eternità e l’infinità dei mondi, la costituzione atomica dei corpi, i princìpi fisici dell’aerostato ecc. Poco apprezzato ai suoi tempi, la sua figura fu resa famosa ma anche travisata dalla commedia di Rostand (“Cyrano de Bergerac”, 1897). Oggi è considerato uno dei precursori della letteratura fantascientifica, e uno dei personaggi più vivi e singolari del suo tempo.
IL PENSIERO: Alla metà del Seicento, con la graduale scomparsa del fenomeno libertino, avviene il lento passaggio dallo scetticismo erudito all’atteggiamento razionalistico. In tal senso é emblematica la figura di Cyrano de Bergerac (1619-1655)- famoso per le dimensioni straordinarie del suo naso – il quale comprende ed assimila le tensioni descritte, intravedendo anche una nuova via positiva e costruttiva che tuttavia non é in grado di perseguire. In Cyrano riscontriamo nuovamente la componente utopica del pensiero libertino, dimenticata dal Naudé, così da esaltare l’individuo e la sua libertà immaginativa ed istintuale. Riscontriamo nuovamente serrate critiche alla religione, allo Stato, alla famiglia. L’uomo, denunciate le illusorie conoscenze tradizionali, scoprendosi in un universo che la scienza descrive come infinito e decentrato, avverte una sorta di vertigine. La vita umana é determinata dalla casualità, all’interno di una natura estranea ed indifferente, nella quale la morte é segno del più totale naufragio. In questa situazione é ingiustificato, tuttavia, qualsiasi sentimento di angoscia o preoccupazione. L’esistenza tutta é un ilare gioco al quale non é possibile sottrarsi, ma a cui anzi occorre aderire con entusiasmo. Questi sono gli aspetti principali dello scetticismo radicale di Cyrano, in cui si avvertono gli echi della visione del mondo della scuola padovana (immanenza dell’uomo nella natura), unitamente a suggestioni desunte da Gassendi (scetticismo, atomismo epicureo). I testi di Cyrano, mai rigorosi, sempre sul confine tra una sfrenata fantasia e un’analisi di teorie cosmologiche e scientifiche, inaugurano il genere del “romanzo filosofico”; in tal senso egli precorre Montesquie, Swift e Voltaire. L’influenza di Gassendi é senza dubbio decisiva. Cyrano conobbe Chapelle, allievo del Gassendi e forse seguì le lezioni dello stesso maestro. L’influsso del Gassendi si avverte soprattutto nell’intento di Cyrano di seguire l’obiettivo di esporre una visione del mondo intesa come un atomismo dinamico. Così il mondo é costituito da atomi, le cui proprietà uniche sono il movimento e la sensazione. La conoscenza sensibile é, dunque, la più elevata; l’intelletto stesso é sensazione, e tale proprietà riguarda tutta la natura. Per quanto Cyrano non lo dica esplicitamente, si può inferire dal suo testo che il puro intelletto e il semplice movimento degli atomi sono la stessa cosa; il movimento complessivo e l’intelletto totale sono la stessa cosa. Nel suo mondo non c’é falsità, non c’é male. Egli non é più dualista in morale di quanto non lo sia in fisica o in psicologia. Non c’é negazione nel suo mondo. Ogni cosa può essere pensata e niente é impossibile. In tale visione del mondo, dunque non c’é posto per il miracolo, perché non c’é legge fisica, rispetto a cui evidenziare l’eccezione del miracolo. La prospettiva di Cyrano assume, quindi, un valore dissacratorio ed irreligioso. Ma Cyrano avverte anche l’attrattiva per le nuove scoperte della scienza e – primo tra i libertini – instaura un rapporto di apertura rispetto ad essa, fino ad arrivare a tessere un elogio di Cartesio. Ovviamente l’elogio di Cartesio, non riguarda il suo impianto metafisico, sicuramente detestato, ma la centralità del dubbio (ancorché esso in Cartesio non fosse che un gradino per salire alla certezza), il quale per Cyrano in vero non deve mai cadere (e in ciò si sente l’eco di Montagne). La visione della scienza di Cyrano, non può che essere, dunque, congetturale, doxastica e sempre pronta a ridefinirsi sulla base dell’ esperienza. Cyrano trasforma il meccanicismo cartesiano in un sorta di materialismo epicureo e gassendista, secondo un eclettismo non sempre chiaro, ma dai contorni alquanto sfumati e sfuggenti. Di Cartesio ne troviamo traccia in un volume intitolato Nouvelle oeuvres de Cyrano de Bergerac, dove é contenuto un frammento che tratta di fisica. Dopo alcune sezioni di stampo empirista, Cyrano segue Cartesio, eludendo l’impostazione metafisica e sostituendola con una psicologia empirista. Egli ripropone le tesi principali della fisica cartesiana: la materia é estensione, il vuoto é impossibile, i fenomeni naturali sono spiegati sulla base di estensione e movimento. La sostanza materiale, dotata di movimento, possiede in se medesima la causa dell’ordinamento del mondo. Pur nella precarietà della sintesi, occorre notare come si veda qui prefigurata la futura lettura materialistica della fisica cartesiana, che raggiungerà il vertice in età illuministica con La Mettrie. Cyrano intese chiaramente come il confronto dialettico tra Cartesio e Gassendi doveva necessariamente portare alla neutralizzazione delle rispettive metafisiche e alla affermazione del meccanicismo cartesiano del tutto scisso dalla metafisica che lo sottendeva. Cyrano comprende il vigore e la fecondità della riflessione cartesiana, intesa soprattutto come esempio di quello spirito critico in cui si risolve oramai l’ansia e la inquietudine libertina. Ancora sulla soglia di uno scetticismo sterile, egli intuisce come una via costruttiva possa essere colta proprio in un nuovo connubio con la scienza sperimentale. Una visione critica del reale, determinata da una intenzione liberatoria dell’uomo da tutti i miti e le credenze (in primis le imposture religiose), volta a negare ogni metafisica, poteva adombrare una nuova visione scientifica del mondo direzionata verso un materialismo meccanicistico. Autore di romanzi filosofici in cui – sotto una tenue finzione letteraria – difende le tesi più ardite, Cyrano de Bergerac ammira palesemente la dottrina copernicana e – in sintonia con Giordano Bruno – sostiene la pluralità dei mondi e l’infinità dell’universo, esaltando la portata eversiva e liberatrice che siffatte teorie avevano nei confronti dell’ortodossia. Estimatore e seguace di Epicureo – filtrato da Gassendi -, Cyrano recupera l’atomismo e il materialismo depurandoli dalle cautele cristiane di Gassendi: sicchè – egli sostiene – gli atomi sono eterni, l’anima (in quanto materiale) è peritura, ma ciò non toglie che sussistano, all’interno di questo quadro atomistico, alcune crepe in cui può infiltrarsi il caso e, con esso, il libero agire dell’uomo. Questo rigoroso impianto epicureo, conduce Cyrano ad un’aperta professione di ateismo, confortata da una nutrita serie di argomenti contro la presunta esistenza della Provvidenza e la possibilità del miracolo: se Dio esiste ed è onnipotente – come pretende la tradizione cristiana -, perché non ha a tutti fornito gli adeguati strumenti per conoscerLo? Per rendere più accettabile la sua aspra critica alla religione, Cyrano stende su di essa il velo leggero della finzione letteraria, esponendo le proprie dottrine in commedie satiriche (Il pedante beffato), in tragedie (La morte di Agrippina) e in romanzi filosofici in cui si parla di fantastici viaggi nello spazio (Gli stati e gli imperi della luna; Gli stati e gli imperi del sole). Ad esempio, in L’altro mondo, ovvero Gli stati e gli imperi della luna e del sole, la beffarda messa in discussione dell’esistenza di Dio è messa in bocca ad un abitante lunare in cui Cyrano ravvisa ironicamente un aspetto satanico:
” – Vi chiedo quale svantaggio troviate nel crederci [nell’esistenza di Dio]; sono sicurissimo che non me ne saprete scovare nessuno […]”
” – Certo – mi rispose – che starei meglio di voi, poiché se Dio non c’è, voi ed io saremmo pari; ma, al contrario, se c’è, io non potrò aver offeso qualcosa che non credevo ci fosse, poiché, per peccare, bisogna o saperlo o volerlo. Non vedete che un uomo, poco o tanto saggio che sia, non si irriterebbe se un facchino lo avesse ingiuriato, qualora il facchino non si fosse accorto di farlo, o fosse stato il vino a farlo parlare? A maggior ragione Dio, del tutto immutabile, non potrebbe adirarsi con noi per non averlo conosciuto, poiché è Lui stesso ad averci rifiutato i mezzi per conoscerlo. Ma, sulla vostra fede, o mio piccolo animale, se la credenza in Dio ci fosse stata così necessaria, se infine avesse dovuto coinvolgerci dall’eternità, Dio stesso non avrebbe dovuto forse infonderci, a tutti, dei lumi tanto chiari quanto il sole? […] E se, viceversa, mi avesse dato uno spirito incapace di comprenderlo, questo sarebbe stato non difetto mio ma suo, giacchè egli poteva darmene uno tanto vivo che lo avrei compreso”.
Cyrano scrisse quest’opera piena di bizzarre fantasie quattro anni prima della sua tragica morte, avvenuta per le gravi ferite procurategli da una trave che lo aveva colpito alla testa. Nell’opera Cyrano – novello Astolfo – raccontava un suo immaginario viaggio sulla Luna, dove sarebbe arrivato grazie a un sistema di sua invenzione veramente degno di essere ricordato: “applicai intorno al mio corpo una gran quantità di ampolle piene di rugiada; il calore del Sole, attraendo la rugiada, sollevò anche me, fino a quando mi trovai in cima alle montagne. Però dato che la forza di attrazione mi faceva salire troppo rapidamente, decisi di rompere le ampolle una dopo l’altra per poter discendere più in basso”. In un passo degno d’essere riportato, egli asserisce: “era una notte di Luna piena e il cielo era limpida, quando stavo rientrando con alcuni amici a casa. Quella sfera appesa al cielo, gialla come lo zafferano, ci ispirò pensieri profondi. Io credo che la Luna sia un mondo simile al nostro – dichiarò Cyrano- e che il mondo abbia assoluto bisogno della Luna”: Cyrano non riuscì ad arrivare sulla Luna e ritentò a bordo di una portantina a vela, pensando però che la vela non fosse necessaria , si unse il corpo con un midollo di bue, dato che la tradizione contadina riteneva che la luna calante avrebbe “succhiato” il midollo degli animali. Quando Cyrano arrivò alla meta la trovò tutt’altro che deserta. Era popolata da esseri di mille specie, e una cosa è certa: tutti vivevano lì da almeno 4.000 anni. Racconta Cyrano: “questi strani abitanti della luna conservano, in particolari vasi fabbricati appositamente, il profumo dei cibi più diversi; a tavola il vaso viene aperto e il profumo che si diffonde è goduto da tutti i presenti. Dormono invece che in un letto, sul suolo ricoperto di fiori di aloe, e si fanno luce con recipienti di cristallo nei quali sono racchiuse lucciole giganti.” Le città della luna non sarebbero meno originali dei suoi abitanti: “le case si possono muovere, infatti, quando arriva il cattivo tempo e il gelo, si mette in azione il meccanismo per far scendere la casa sempre più in basso”. Cyrano immagina di arrivare sulla Luna, che rappresenta il Paradiso, dove incontra il profeta Elia, il quale gli narra come Adamo ed Eva, cacciati dal Paradiso (cioè dalla Luna), fossero giunti sulla Terra, che ad Adamo – che viveva sulla Luna – appariva lontana e luminosa come per noi la Luna; e come Enoch, aiutato da Dio, fosse tornato in Paradiso (cioè sulla Luna):
“Sappiate, dunque, che dopo di aver gustato entrambi della mela vietata, Adamo, temendo che Iddio, irritato dalla sua presenza, aggravasse la pena, considerò la Luna, e cioè la vostra Terra, come il solo rifugio in cui poter trovare riparo dalla persecuzione del suo creatore. Ora, in quel tempo, l’immaginazione dell’uomo era sí forte, per non essere stata ancora corrotta né dagli stravizi, né dalla crudità degli alimenti, né dall’alterazione prodotta dalle malattie, che essendo allora eccitata dal violento desiderio di raggiungere quell’asilo, ed essendo il corpo divenuto leggiero per il fuoco di quell’entusiasmo, vi fu tratto allo stesso modo, onde si son visti dei filosofi, tesa fortemente l’immaginazione a qualche cosa, esser portati in aria, in quei rapimenti che voi chiamate estatici. Eva, che la debolezza del suo sesso rendeva piú debole e men calda, non avrebbe certamente avuto l’immaginazione tanto vigorosa, da vincere, con la forza della volontà, il peso della materia, ma poi ch’era passato pochissimo tempo da che era stata tratta dal corpo di suo marito, la simpatia, mediante la quale detta metà era ancora legata al tutto, la trasse verso di lui, man mano che saliva, come l’ambra si fa seguire dalla paglia, come la calamita si volge al settentrione, donde è stata strappata; ed egli attirò quella parte di se stesso, come il mare attira i fiumi che son da esso usciti, e insieme arrivati alla vostra Terra, s’adattarono a vivere fra la Mesopotamia e l’Arabia. Gli Ebrei lo hanno conosciuto col nome di Adam, e gli idolatri con quello di Prometeo, che i poeti finsero aver rapito il fuoco dal cielo, a causa dei discendenti che generò forniti di un’anima non meno perfetta di quella di cui Dio l’aveva dotato. Cosí fu che per abitar il vostro mondo, il primo uomo lasciò questo diserto. Ma il Sapientissimo non volle che una dimora cosí felice restasse priva di abitanti; egli permise, pochi secoli dopo, che a Enoch, stanco della compagnia degli uomini, la cui innocenza si corrompeva, venisse voglia di abbandonarli. Quel santo personaggio non ravvisò alcun ritiro sicuro dall’ambizione dei suoi parenti, che già si sgozzavano per spartirsi il vostro mondo, tranne la terra felicissima di cui una volta Adamo, suo nonno, gli aveva parlato. Ma come arrivarci? La scala di Giacobbe non era stata ancora inventata! A ciò supplí la grazia dell’Altissimo, la quale condusse Enoch ad avvedersi che il fuoco del cielo discendeva sugli olocausti dei giusti e di quelli che erano graditi davanti alla faccia del Signore, secondo la parola da lui pronunziata: “L’odore dei sacrifici del giusto è salito sino a me”. Un giorno che quella fiamma divina s’infervorava a consumare una vittima che egli offriva all’Eterno, del vapore che se ne esalava riempí due grandi vasi che sigillò ermeticamente, e se li attaccò sotto le ascelle. Tosto il fumo, che tendeva a salir direttamente a Dio, e che non poteva, a meno d’un miracolo, attraversare il metallo, spinse i vasi in alto, e questi sollevarono in tal modo il sant’uomo con loro. Quando fu salito sino alla Luna, ed ebbe gettato lo sguardo su questo bel giardino, un’esplosione di gioia quasi soprannaturale gli fece conoscere che esso era il Paradiso terrestre, in cui suo nonno aveva un tempo abitato. Slegò prontamente i vasi, che aveva cinti a mo’ d’ali attorno alle spalle, e lo fece con tale slancio, che era sí e no a quattro tese dalla Luna, che già aveva preso congedo dai suoi sostegni. L’altezza, tuttavia, era tale che avrebbe potuto ferirsi gravemente, se non fosse stato per la gran ruota della sua veste, in cui s’ingolfò il vento, e l’ardore del fuoco della carità che lo sostenne fin ch’ebbe posato il piede a terra. Quanto ai due vasi, essi salirono finché Dio non li ebbe incastonati nel cielo, dove sono rimasti: e sono ciò che noi oggi chiamiamo le Bilance”.
Dopo varie peripezie sulla Luna, Cyrano incontra poi Socrate, con cui ha una serie di discussioni su vari argomenti. Nel dialogo vengono sostenute l’infinità dei mondi, l’esistenza del vuoto ed altre tesi legate allo sviluppo della fisica moderna. In questa pagina, che ha per oggetto l’eternità del mondo e il moto perpetuo, si afferma inoltre che tutte le cose esistenti sono il frutto di un lungo percorso evolutivo:
“Poiché siamo costretti, quando ricorriamo col pensiero all’origine del gran tutto, a incorrere in tre o quattro assurdità, la cosa piú ragionevole è di prendere il cammino che ci faccia inciampare il meno possibile. Il nostro primo ostacolo, dunque, è l’eternità del mondo. E poiché lo spirito degli uomini non è abbastanza forte da concepirla, e non può neanche immaginare che questo grande Universo, cosí bello, cosí ben ordinato, abbia potuto farsi da se stesso, hanno fatto ricorso alla creazione. […]
Quando, gettati tre dadi sulla tavola, viene tris di due, oppure tre, quattro e cinque, oppure doppio sei e uno, direte: “Che miracolo! in ogni dado è uscito lo stesso punto, mentre ne potevano uscire tanti altri! Che miracolo! sono usciti tre punti consecutivi! Che miracolo! sono usciti esattamente due sei e l’opposto del terzo”. Son certo che essendo uomo di spirito, non farete mai simili esclamazioni. Infatti, poiché sui dadi c’è solo una data quantità di numeri, è impossibile che non ne esca qualcuno. E con tutto ciò vi stupite che la materia, mescolata alla rinfusa, secondo il capriccio del caso, abbia costituito un uomo, considerando tutte le cose che sono necessarie alla sua costruzione. Ma non sapete che sulla via della formazione dell’uomo, la materia si è fermata un milione di volte a formare ora una pietra, ora del piombo, ora del corallo, ora un fiore, ora una cometa, e tutto ciò per l’eccesso o il difetto delle figure che occorrevano o non occorrevano per determinare un uomo? Sí che non fa meraviglia che un’infinità di materia che cangia e si muove senza posa abbia prodotto a caso i pochi animali, minerali e vegetali che vediamo, piú di quanto non meravigli che in cento gettate ai dadi esca un tris. Allo stesso modo è impossibile che da quel moto non si produca qualche cosa; la quale sarà sempre guardata con meraviglia da uno sventato che non riesca a capire quanto poco ci sia mancato che non si producesse”.
Socrate stesso si premura di spiegare a Cyrano che tutta la natura tende all’uomo. Non si tratta ovviamente di una teoria evoluzionistica (Cyrano parla di metamorfosi), ma la rassomiglianza con la celebre teoria scientifica è evidente: la natura procede da millenni, per tentativi, verso il suo vertice di perfezione: l’uomo.
“Sapete, figliolo, che dalla terra si fa un albero, da un albero un porco, da un porco un uomo. Poi che tutti gli esseri della natura tendono al piú perfetto, si può quindi credere che essi aspirino a divenir uomini, la cui essenza è il compimento della piú bella fra le mescolanze, la meglio concepita che esista al mondo, la sola che fornisca il legame fra la vita brutale e quella angelica. Che queste metamorfosi avvengano non può negarsi, a meno d’esser pedante, poiché vediamo che un prugno, attraverso il calore del suo germe, come attraverso una bocca, succhia e digerisce l’erbetta che lo circonda; e un porco ne divora il frutto e lo fa diventare una parte di se stesso; e un uomo, mangiando il porco, riscalda quella carne morta, la unisce a sé e fa rivivere quell’animale sotto una piú nobile specie. Cosí quel gran pontefice che vedete con la mitra in testa era forse, appena sessant’anni fa, un ciuffo d’erba nel mio giardino. Se Dio, quindi, padre comune di tutte le sue creature, le ama tutte ugualmente, non è ben credibile che, dopo che con questa metempsicosi, piú meditata di quella pitagorica, tutto ciò che sente, tutto ciò che vegeta, infine dopo che tutta la materia sia passata attraverso l’uomo, allora sia per giungere il gran giorno del giudizio nel quale i profeti fan culminare i segreti della loro filosofia?”
Tuttavia la breve vita di Cyrano e il suo dilettantismo non poterono far sì che egli giungesse a soluzioni convincenti. Lo scacco del Cyrano segna l’inizio della profonda crisi che il libertinismo incontra. D’altra parte la forza del potere assoluto di Mazzarino, dopo la parentesi della Fronda, con il suo impianto repressivo, l’ascesa della metafisica cartesiana e dei motivi spiritualistici in essa presenti sembrano vincere un libertinismo, ancora impastato di uno scetticismo che ne depotenzia le virtualità critiche. Di qui l’esito di un movimento che intraprende una dimensione d’evasione e di leggiadro gioco letterario e di costume, fattori che, se mantengono vive le istanze libertine, ne tolgono tuttavia valore e considerazione. Si giunge a delineare quel tema del divertissement, che nasce proprio in quell’ambiente mondano intriso dell’atteggiamento libertino e che sarà poi magistralmente descritto, e criticato, da Pascal.
THOMAS HOBBES
Gli interessi principali di questo pensatore non sono tanto metafisici , quanto politici . D’ altronde la sua filosofia matura nel contesto della guerra civile inglese degli anni 40 del Seicento . Ebbe una vita particolarmente lunga ( circa novant’ anni ) che coprì l’ intero XVII secolo . La distinzione tra Hobbes e l’ altro grande filosofo politico inglese del 1600 ( Locke ) deriva soprattutto dal diverso periodo storico in cui sono vissuti . Nell’ Inghilterra , infatti , nel 1600 ci sono state ben due rivoluzioni , quella degli anni 40 ( é l’ epoca in cui scrive Hobbes ) e quella degli anni 80 , detta ” gloriosa ” ( é l’ epoca in cui vive Locke ) : mentre la prima é una vera e propria guerra civile , una vicenda traumatica , la seconda rivoluzione ( la ” gloriosa ” ) é considerata un fatto altamente positivo , l’ atto con cui l’ intera società inglese si é sbarazzata di una monarchia oppressiva e ha dato vita ad una monarchia costituzionale . Il fatto stesso che Hobbes abbia maturato le sue idee e i suoi scritti nel corso della prima rivoluzione e Locke nella seconda , é significativo per capire le differenze tra i due . Per Hobbes la cosa che va evitata più di ogni altra é la guerra civile , per Locke la perdita della libertà . Hobbes mira alla sicurezza , Locke alla libertà . La prima opera importante di Hobbes é una traduzione inglese della Guerra del Peloponneso di Tucidide ; il che dimostra due cose : in primo luogo il suo interesse prettamente antropologico , storico e politico . In secondo luogo dobbiamo tener conto che Tucidide non era uno storico qualunque : era fortemente pessimista e si curava di una storia attenta al diritto del più forte : Hobbes sarà molto influenzato da questa concezione della storia . Nella guerra civile Hobbes resta sempre legato alla monarchia e segue perfino la corte di Carlo II in esilio in Francia dopo la decapitazione di Carlo I . Hobbes é sì fortemente legato alla monarchia ( dalla quale , dopo il rientro in Inghilterra , riceverà la pensione che veniva data ai ” fedeli ” , con la quale potevano vivere senza lavorare ) , tuttavia da essa non sarà mai visto con troppa simpatia : egli é sì uno dei grandi teorici dello stato assoluto , ma non necessariamente della monarchia assoluta , verso la quale , comunque , Hobbes nutre grandi simpatie . Esistono tuttavia due modi distinti di concepire la monarchia assoluta : uno , più tradizionale , che vede in Giacomo I , nei primi anni del Seicento , il grande teorizzatore : egli fondava il potere del sovrano sull’ idea ( di origine medioevale ) che fosse attribuito direttamente da Dio ; ci sarà anche , sempre in questo ambito , chi arriverà a dire che il potere del sovrano non é altro che un’ estensione del potere del padre sulla famiglia ad un intero stato : Dio ha dato ad Adamo un potere assoluto sulla famiglia e sui figli ; da Adamo il potere si é esteso ai patriarchi di Israele per poi arrivare ad investire intere strutture statali . Si tratta quindi di un’ idea patriarcale e divina del potere assoluto . Locke polemizzerà contro i sostenitori di questa teoria , in particolare contro un’ opera scritta in quegli anni , intitolata ” Il patriarca ” . La posizione di Hobbes , che é comunque assolutista , é meno tradizionale rispetto a quella di Giacomo I ed é fondata in maniera laica : nello stato assoluto secondo Hobbes Dio non c’ entra niente , il potere non deriva dall’ alto , ma dal basso : gli uomini guidati dalla loro ragione decidono di associarsi e di rinunciare a porzioni della propria libertà in favore di un’ istanza superiore ( il sovrano ) . Con Hobbes concorderanno Locke , Spinoza e Rousseau : le differenziazioni tra questi pensatori nasceranno poi su come concepiranno l’ idea di stare insieme . Tuttavia concorderanno tutti pienamente con Hobbes che non é Dio ad attribuire il potere al sovrano , ma é il popolo stesso guidato dalla propria ragione . Si tratta quindi di uno stato assoluto il cui fondamento primo é il consenso : esso é la base del potere anche quando si arriva a stati assoluti : é l’ idea dominante per tutto il 1600 . L’ interesse principale di Hobbes , come accennavamo , é la politica , tuttavia egli ritiene di dover fondare la politica su una base fisico – matematica . Egli si fa portavoce , in altri termini , di una concezione riduzionista delle scienze : le scienze sono parecchie ( biologiche , umane , naturali , fisiche , ecc. ) e un sociologo per analizzare i problemi della società umana deve senz’ altro tener conto della realtà fisica e biologica in cui il comportamento si svolge ; il presupposto biologico che le persone mangino , per dire , é presupposto fondamentale della sociologia , che indagherà su che cosa mangino e cose del genere . Tuttavia non c’ é riduzionismo , ossia non pensiamo che tutta la sociologia possa essere dedotta dall’ ambito biologico e che l’ ambito biologico possa essere a sua volta dedotto da quello chimico , il quale può essere dedotto da quello fisico , deducibile da quello matematico , riducendo così tutto ad una sola scienza : certo bisogna tener conto della biologia ( ad esempio ) studiando la sociologia , ma comunque quest’ ultima non sarà riducibile solo a biologia . Invece Hobbes ha una concezione tipicamente riduzionistica : le scienze possono essere ridotte ad una sola ( la fisica ) : tutto ( la politica , l’ etica , ecc ) può essere spiegato secondo le leggi della fisica matematizzata . Per Cartesio , invece , con la fisica si può arrivare a costruire la biologia ( dalle leggi fisiche all’ animale macchina ) e studiare un corpo o un orologio , in fondo , per lui é la stessa cosa , tuttavia egli non estende la fisica alla politica e alla sociologia per il fatto che c’ é la res cogitans che glielo impedisce . Hobbes invece , affrontando il problema lasciato in eredità da Cartesio del rapporto tra res cogitans e res extensa , lo risolve annullandolo , ossia eliminando radicalmente la res cogitans ( la spiritualità ) : tutto ciò che esiste é materiale e anche quello che ci sembra spirituale ( la coscienza , la memoria , il dolore ) non é altro che una manifestazione della res extensa : la coscienza e il sentimento non sono altro che epifenomeni , ossia manifestazioni oggettive , appendici : é la materia che dà la parvenza di essere coscienza . Ecco quindi spiegato perchè Hobbes fa derivare tutte le scienze dalla fisica e dedica ben due trattati alla fisica e alla metafisica , lui che si interessava di politica . Addirittura leggendo la sua opera principale , il Leviatano , ci si accorge di come egli , ancora prima di trattare della vera e propria politica , parta dalla concezione della materia per poi arrivare solo in un secondo tempo alla politica . D’ altronde per Hobbes la politica non é altro che una fisica particolarmente complessa : con il suo metodo riduzionistico si parte dalla fisica , si arriva alla biologia e poi alla sociologia ( la politica ) . La politica diventa allora una vera e propria fisica sociale . Sul piano storico é tipico che se una branca funziona particolarmente bene si finisce per farla diventare egemone in ogni campo : nel 1600 , neanche a dirlo , la branca egemone é la fisica matematizzata . Tuttavia non é detto che tutti quelli che prendano a modello la fisica siano riduzionisti come Hobbes : Cartesio é un grande fisico , ma non é un riduzionista : lo é fin quando non arriva a parlare dell’ uomo , in cui convivono res cogitans e res extensa . Tutto per Hobbes va investigato in termini fisici proprio perchè le uniche cose esistenti sono i corpi ( la materia , res extensa ) , la cui caratteristica é la misurabilità in termini matematici . Ecco allora che accanto ad uno scritto intitolato De cive ( il cittadino ) , ne troviamo un altro intitolato De corpore ( il corpo ) , quasi come se Hobbes volesse scrivere un’ enciclopedia dello scibile umano in termini fisici . E’ poi interessante il fatto che sia Hobbes sia Cartesio cominciano a scrivere nelle lingue nazionali ( in inglese Hobbes e in francese Cartesio ) per diffondere il loro sapere : il Leviatano , l’ opera più importante di Hobbes , é in inglese . Stranamente Hobbes , per cominciare lo studio della realtà in generale , parte da una definizione dell’ essere data a suo tempo da Platone nel Sofista : Platone diceva che si può dire che é tutto ciò che può agire o subire un’ azione ; certo Platone non intendeva dare una soluzione meccanicistica come farà Hobbes , tant’ é che con questa definizione dimostrava l’ esistenza delle idee : ciò che agisce o subisce un’ azione esiste , quindi le idee che io penso , subendo l’ azione dell’ essere pensate , devono esistere . Qualche tempo dopo Platone , gli stoici avevano ripreso in termini più rozzi questa definizione del Sofista dicendo che a subire e a compiere azioni sono solo le cose materiali . Hobbes la pensa come gli stoici e arriverà a dire che esiste solamente la realtà corporea . La realtà non é altro che un insieme di corpi e di movimenti di corpi . In una polemica con un vescovo arriverà a sostenere che anche Dio é realtà corporea e che non potrebbe essere altrimenti : se non fosse corpo non esisterebbe perchè tutto ciò che esiste é corporeo ; ma Dio esiste , quindi é materiale . Su questa fisica radicalmente meccanicistica Hobbes costruisce tutto il suo pensiero , elaborando una dottrina delle sensazioni e delle attività ” spirituali ” : molte sono le analogie tra Hobbes e Cartesio , però la vera differenza da tenere a mente é che per Hobbes la res cogitans non esiste . Hobbes , per spiegare una sensazione , ricorre ad uno stimolo esterno che genera ( in termini meccanicistici ) un movimento dalla periferia del corpo verso il centro ( che per Hobbes può essere tanto il cuore quanto il cervello ) ; al centro si genera un altro moto che si identifica con la sensazione , che noi siamo soliti pensare come spirituale , ma che , spiega Hobbes , in realtà é puramente fisica e meccanicistica . La sensazione non é altro che un movimento impercettebile degli organi centrali del corpo . Similmente egli spiega anche la memoria : come mai ci ricordiamo delle cose e , tuttavia , col tempo il ricordo tende a sbiadirsi ? Hobbes dà anche qui una spiegazione meccanicistica : quando vediamo , ad esempio , qualcosa i nostri sensi sono urtati e si innesca il movimento materiale tramite il quale vediamo la cosa che ci sta davanti ; quando poi la cosa non ci sta più davanti continuiamo a vederla perchè il moto innescatosi quando la osservavamo ( per la legge di inerzia ) perdura e così con la mente continuiamo a vedere l’ oggetto che prima ci stava di fronte . Ecco allora che la memoria é un moto attenuato che permane in noi per un certo tempo . Se ho ricevuto una sensazione che é diventata ricordo , poi , si tratta , come dicevamo , di un moto che dura per un pò e che sa mettere in moto la catena in senso opposto : al centro perdura il moto del ricordo , viene trasmesso alla periferia e vado a trovare una persona che da dieci anni non vedevo . Questa tesi hobbesiana é piuttosto ingenua , ma non é poi così profondamente diversa rispetto a quella fornita dalla biologia e dalla medicina attuali . Quella di Hobbes risulta quindi essere una filosofia materialistica ; é interessante notare come la parola materialismo abbia sostanzialmente due significati : può voler dire che esiste solo la materia , riconducibile ad estensione e a movimento ( e così di fatto la intende Hobbes ) ma può anche voler dire che non esiste solo la materia , ma che comunque essa é la realtà fondamentale : così la intenderà Marx nell’ Ottocento : ciò che chiamiamo non materia é solo una manifestazione secondaria ( un epifenomeno ) della materia . Il marxismo , non a caso , dirà che i fenomeni considerati come non materiali sono comunque dipendenti e derivati dalla materia : le concezioni culturali di una persona , allora , dipenderanno dalle condizioni storiche in cui essa vive . La posizione di Hobbes , però , é e resta rigorosa : tutto ciò che esiste é materia e le sensazioni stesse sono una forma di movimento microscopico . La filosofia di Hobbes é in buona parte un tentativo di superare le difficoltà create da Cartesio : se esistono una res cogitans ( spirito ) e una res extensa ( materia ) nettamente distinte che entrano in contatto tra loro ( la res cogitans anima decide di alzare il braccio e la res extensa braccio si solleva ) , come si spiega il contatto tra realtà materiale e realtà spirituale ? Sì , perchè se si parla di contatto allora si parla di urti materiali , ma é assurdo parlare di urti materiali in una realtà metafisica quale é la res cogitans ! Ecco allora che Cartesio ricorreva alla ghiandola pineale dove avveniva il misterioso incontro tra res cogitans e res extensa . Hobbes elimina la res cogitans e riconduce tutto alla res extensa . Così però , se vengono superati i problemi connessi alla ghiandola pineale , ne vengono creati di nuovi , forse ancora più grossolani . Hobbes infatti non dice che le sensazioni sono prodotte da movimento , ma arriva a dire che le sensazioni sono movimento , il che é abbastanza assurdo . Sia che si tengano in gioco la res extensa e la res cogitans ( Cartesio ) , sia che si consideri solo la res extensa ( Hobbes ) si cade inevitabilmente in contraddizione : se dico che il movimento provoca la sensazione entro nell’ aporia cartesiana : la res extensa si muove e genera un qualcosa che non é più res extensa ( la sensazione , che per Cartesio é res cogitans ) : é un qualcosa di materiale che , misteriosamente , produce qualcos’ altro di spirituale . Se invece , sulle orme di Hobbes , dico che il movimento é sensazione cado in una contraddizione ancora più grossolana : la sensazione é sensazione , non é un movimento , ce ne accorgiamo tutti bene o male ! Pare quindi che non ci sia una via d’ uscita : la scienza moderna tende a far vedere che non é la materia a generar la sensazione ( come diceva Cartesio ) ma che non può neanche essere accettata la teoria hobbesiana secondo la quale la materia é sensazione , bensì sottolinea come certi stati di coscienza corrispondano a certi stati di materia : a ogni stato della res extensa , spiega la scienza moderna , corrisponde uno stato della res cogitans ( della coscienza ) . Ma il problema non viene risolto : non viene cioè spiegato il rapporto tra res cogitans e res extensa . Che ci sia corrispondenza tra le due realtà era noto a partire da Cartesio , quel che non si sapeva era appunto il tipo di rapporto esistente tra le due sostanze . In realtà la scienza del giorno d’ oggi non si pone neanche più di tanto il problema perchè in fondo ( per dirla con Galileo ) le interessa più il come che il cosa e il perchè . Fatto sta che tutti possiamo cogliere la contraddizione di Hobbes , insita nell’ affermazione stessa : la sensazione é il movimento . Dire che il movimento sia sensazione é assolutamente assurdo perchè una cosa é il movimento , un’ altra cosa é la sensazione . Si torna quindi al problema cartesiano : che rapporto c’ é tra le due res ( cogitans ed extensa ) , che tra loro qualche rapporto devono per forza averlo ( altrimenti come si spiega che quando metto la mano sul fuoco sento il calore ? ) . Col cogito ergo sum cartesiano ho la certezza di esistere come soggetto pensante con tutte le idee presenti nella mia testa : l’ idea di libro presente nella mia testa esiste , bisogna però chiarire se , oltre all’ idea di libro presente nella mia testa , esista qualcosa di esterno ad essa da cui l’ idea proviene . La coscienza che ho di esistere con il cogito ergo sum é effettivamente totalmente sganciata dal mondo fisico della res extensa : esisto come soggetto pensante , ma non so se esista il mondo esterno ( compreso il mio corpo ) . Però posso esser certo che l’ idea di libro ( anche se il libro in carne ed ossa non esistesse ) esiste come oggetto della mia attività intellettuale , che ho dimostrato esistente ( cogito ergo sum ) . Anche se non ci fosse nulla al di fuori della mia attività intellettuale , l’ idea di libro continuerebbe ad esistere come fatto della mia coscienza : quando poi scoprirò ( come fa Cartesio ) che esiste un mondo esterno all’ idea di libro si aggiungerà il libro materiale , ma l’ idea resterà invariata : essa é presente nella mia coscienza sia che il libro materiale esista sia che non esista . Ecco allora che l’ idea di libro , presente nella mia coscienza come sensazione , non é affatto moto di materia ( la materia potrebbe anche non esistere senza per questo influenzare l’ idea ) : la tesi di Hobbes é stata confutata . Il materialismo comporta quindi due contraddizioni : il materialismo di Hobbes , il più rigoroso , sbaglia dicendo che gli stati di coscienza sono movimenti di materia ; il materialismo di Marx ( ed in parte di Cartesio ) sbaglia dicendo che un determinato stato di materia genera uno stato di coscienza . Ricapitolando : per Hobbes esiste solo ciò che può fare o subire un’ azione , quindi esiste solo la res extensa ; la nostra stessa coscienza é riconducibile a materia , a corpo e a movimento : movimenti che dal centro ( cuore o cervello ) vanno verso la periferia e viceversa . A questo punto interviene nel discorso di Hobbes l’ etica , totalmente stravolta nella sua concezione di bene e male rispetto a tutte le filosofie precedenti . In tutte le filosofie il bene é sempre stato ciò verso cui si deve tendere e il male ciò verso cui non si deve tendere . Certo i filosofi hanno individuato in modi differenti il bene e il male cui si deve o non si deve aspirare : per Epicuro il bene era il piacere , per Aristotele la felicità , per gli stoici la virtù , per Platone il Bene in sè , e così via . Tutti in fondo facevano un ragionamento di questo tipo : il bene é questo , dunque si deve tendere a questo . Questi pensatori , in altri termini , vedevano il bene in termini teleologici , come il fine a cui tendere ; addirittura un materialista come Epicuro invitava i suoi discepoli a tendere al piacere , visto come sommo bene . Ora , in una filosofia meccanicistica e materialista quale é quella di Hobbes , il finalismo non può assolutamente essere accettato : non esistono cose buone ( stabilite a priori ) a cui aspirare . In base alle leggi meccaniche , ogni comportamento é legato ad azioni di tipo meccanicistico ( ricordiamoci che Hobbes é un riduzionista : tutto é riconducibile ai movimenti della materia e quindi tutto va spiegato in modo meccanicistico ) : a certi stimoli corrispondono determinate reazioni ; é come nelle macchine ( l’ uomo stesso per Hobbes é una macchina ) in cui ad ogni imput corrisponde un output . L’ uomo reagisce sempre in maniera tale da sopravvivere , da autoconservarsi : reagendo così sceglierà certe cose e non altre , in altre parole opterà per tutto ciò che gli consentirà di sopravvivere ( a volte commetterà errori e non ce la farà ad autoconservarsi ) . E’ evidente come il finalismo sia del tutto fuori luogo in una visione della realtà come quella di Hobbes . Ma che cosa sono il bene e il male ? Per Hobbes il bene é ciò che l’ uomo di fatto sceglie e il male é ciò che l’ uomo di fatto evita : tutti gli uomini si comportano in una certa maniera e , di fatto , definiremo come bene ciò a cui essi tendono . Però il bene a cui essi tendono non é un qualcosa di stabilito a priori ( il bene cui si tende é la virtù , il piacere , la felicità , ecc. ) , ma é ciò a cui aspirano per inclinazione naturale . Per Hobbes l’ uomo agisce così in modo meccanico e il modo in cui agisce , quello é il bene per l’ uomo . Il male viene allora ridotto a ciò che l’ uomo non fa . La definizione stessa di bene dipende da ciò che l’ uomo decide di fare e non é un qualcosa a priori . Va notato come in questi ragionamenti ci sia un evidente riallacciarsi alla matematica , imperante in tutto il 1600 : Hobbes stesso riteneva che pensare non fosse altro che operare e che ogni nostro pensiero fosse riconducibile ad operazioni di somma o di sottrazione : dire ” la rana é verde ” significa addizionare alla rana il verde ; dire ” la rana non é verde ” significa sottrarre alla rana il verde . Anche nell’ etica Hobbes tende a matematizzare , riducendo il comportamento a definizioni geometriche ” infondate ” , e avvicinandosi così al pensiero di Spinoza . In base alle leggi meccanicistiche l’ uomo persegue le cose che gli garantiscono l’ autoconservazione : proprio in esse é il bene . Sulla base di questo bene e di questo male appena spiegati si genera il comportamento individuale , ma a Hobbes, da politico , interessa maggiormente quello collettivo . Nella società civile il bene e il male per natura cedono il passo al bene e al male per convenzione . Tra le varie doti di cui l’ uomo dispone vi é anche la ragione , fa notare Hobbes ; gli animali stessi , in qualche misura , sembrano averne : in Hobbes viene a cadere quella netta distinzione di stampo cartesiano tra uomo e animale proprio perchè manca la res cogitans , che era poi ciò che appunto differenziava l’ uomo dalle altre creature : non essendoci la res cogitans , gli uomini sono macchine al pari degli animali . Gli animali per Hobbes provano sensazioni ( a differenza di quanto diceva Cartesio ) , hanno l’ intelletto , ma non la ragione , intesa come pensare in termini generali tramite il linguaggio : l’ uomo grazie al linguaggio e alla ragione può attribuire nomi comuni alle cose e di conseguenza può parlare per categorie . Ovviamente Hobbes é nominalista : le idee non esistono proprio perchè non esiste la sostanza spirituale : tutto ciò che esiste é materiale ; le idee sono solo flatus vocis e i nomi ci consentono di raggruppare tante cose in categorie . Gli uomini , proprio perchè dotati di ragione , sono in grado di stabilire che cosa é più utile per la loro sopravvivenza ; la ragione stessa li porta a vedere cosa é più utile per l’ autoconservazione sul lungo termine e non solo sul momento : certo sul momento per autoconservarmi mangiare andrà bene , ma non basta , bisogna vedere sul lungo termine . Ecco allora che gli uomini ragionano su che cosa garantisca loro l’ autoconservazione al di là del presente . Ed é proprio quest’ esigenza che li porta a far nascere lo Stato civile . In origine gli uomini , spiega Hobbes , vivevano nello stato di natura in cui vigeva una situazione nella quale ciascuno aveva diritto su ogni cosa : oggi ciascuno di noi ha diritto non su tutto , ma su qualcosa perchè così sanciscono le leggi in vigore nello Stato : é il diritto di proprietà . Ma nello stato di natura , in cui non c’ é lo Stato civile e quindi non ci sono le leggi , tutti han diritto su tutto . Ciascuno può cioè fare ciò che desidera per procurarsi ciò che gli serve : si potrà allora rubare e uccidere per sopravvivere e , proprio perchè finalizzato all’ autoconservazione , questo sarà un bene . Lo stato di natura quindi é uno stato di bellum omnium contra omnes , una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro dove ciascuno mira alla propria autoconservazione a discapito degli altri . Per Hobbes quindi l’ uomo non é per natura incline ad essere socievole , come aveva sostenuto Aristotele a suo tempo definendo l’ uomo come animale politico . A questo punto interviene la ragione , la quale suggerisce che la situazione di guerra di ciascuno contro tutti gli altri nata dall’ esigenza di autoconservarsi porta ad un risultato opposto a quello per cui era nata : infatti nel momento in cui tutti mirano alla propria autoconservazione a discapito degli altri , la vita di ciascuno diventa altamente insicura e neanche il più forte può vivere sicuro perchè ci sarà sempre qualcuno più forte e comunque anche i più deboli potranno in qualche modo minacciare la sua vita . La ragione , di cui tutti gli uomini dispongono nella stessa misura , suggerisce allora di uscire dal precario stato di natura . Prima di vedere come se ne esca , però , si possono fare alcune osservazioni sullo stato di natura . In tutti gli autori ( Locke , Spinoza , Rousseau ) che ci ragioneranno sopra c’ é l’ idea di fondo che un reale stato di natura non sia mai effettivamente esistito nel corso della storia . Per quanto possano esserci state situazioni particolarmente retrograde e vicine allo stato di natura , un vero e proprio stato di natura non é mai esistito . Il ragionamento di questi autori é più che altro teorico : vogliono cioè far vedere non tanto quello che c’ é stato prima dello Stato civile , quanto piuttosto quello che succederebbe se venisse meno lo Stato civile . Non a caso il vero stato di natura radicato nella mente di Hobbes non é quello appena descritto , bensì quello della guerra civile inglese degli anni ’40 del Seicento ( da lui vissuta in prima persona ) . Nella guerra civile infatti non vi é più lo Stato come autorità suprema e la guerra comporta un ritorno provvisorio al retrogrado stato di natura di lotta di ciascuno contro ogni altro . Uscendo dallo stato di natura su incitamento della ragione si passa a quello civile , che é un superamento appunto dello stato di natura : all’ interno dello Stato civile non ci sarà più la guerra di ciascuno contro ogni altro , ma essa perdurerà , secondo Hobbes , nei rapporti tra Stato e Stato : Hobbes non riconosce il diritto internazionale e vede il rapporto tra uno Stato e l’ altro come quello tra uomo e uomo nello stato di natura . Va poi sottolineato il fatto che egli , parlando di guerra di ciascuno contro tutti gli altri , non intende dire che ciascuno combatte incessantemente una guerra contro tutti quelli che lo circondano ( il che sarebbe assurdo ) ; vuole piuttosto sottolineare come nello stato di natura vi sia una potenziale guerra di ciascuno contro tutti gli altri proprio perchè non ci sono le istituzioni che lo impediscono : ciascuno nello stato di natura é contemporaneamente e potenzialmente sempre aggresssore e aggredito . Secondo Hobbes si esce dallo stato di natura per approdare a quello civile nel momento in cui ciascun individuo autolimita i propri diritti . La vera differenza nelle concezioni politiche tra Hobbes e Locke sta proprio nel come essi intendano l’ uscita dallo stato di natura ; é proprio il modo in cui se ne esce che determina lo Stato civile che verrà originato . Per Hobbes la cosa più importante che debba essere garantita ai cittadini é la sicurezza , per Locke la libertà . Secondo Hobbes il principio fondamentale é l’ autoconservazione ( la sicurezza ) e tutto il resto é secondario tanto da poter essere sacrificato pur di ottenere la sicurezza . Ma in concreto che diritti devo sacrificare per garantirmi la sicurezza ? Secondo Hobbes qualsiasi diritto deve essere limitato proprio perchè la sicurezza é garantita dal fatto che si limitino fortemente tutti i diritti di tutti affidando un diritto coercitivo ad una sola persona che può decidere ciò che vuole . Ognuno si deve cioè privare dei suoi diritti in favore di un’ istanza superiore che può tutto su chi si é tolto i diritti , tranne togliere il diritto di sicurezza : si é affidato il potere a questa persona proprio perchè lo garantisse . In altre parole , questa persona cui viene affidato il potere , deve essere investita di un tale potere da potere tutto tranne che togliere ai sudditi il diritto alla sicurezza . Sarebbe d’ altronde ridicolo sacrificare anche il diritto di sicurezza : ho rinunciato a tutto perchè esso mi fosse garantito ! La ragione stessa , che ha condotto l’ uomo fuori dallo stato di natura , gli detta alcune leggi di natura : innanzitutto ognuno deve evitare di aggredire gli altri purchè anche gli altri facciano altrettanto . Non dobbiamo assolutamente fare violenza quando tutti sono d’ accordo a non fare violenza . Esiste cioè un giusnaturalismo , ossia uno ius naturae , un diritto inscritto nella natura stessa delle cose , contrapposto allo ius positum ( diritto positivo , stabilito dai singoli Stati ) . L’ atto con cui si esce dallo stato di natura e dal giusnaturalismo per entrare nello Stato civile e nel giuspositivismo é l’ emanazione di un contratto sociale , idea tipica del 1600-1700 : vari possono essere i tipi di contratti e , per esempio , quello di Hobbes é radicalmente diverso rispetto a quello di Locke : secondo Hobbes , dal momento che ad un certo momento tutti i membri di un gruppo , guidati dalla loro ragione , si rendono conto che bisogna uscire dallo stato di natura per potersi garantire la sicurezza e l’ autoconservazione , ciascuno di loro rinuncia a tutti i diritti , fatta eccezione per quello alla sicurezza ( che é l’ obiettivo della limitazione degli altri diritti ) ; tutti gli altri diritti naturali vengono abbandonati per garantire la sicurezza individuale e vengono affidati , come si suol dire , ad un terzo , il quale si trova a detenere un potere illimitato ( può tutto tranne negare la sicurezza ai cittadini ) e può quindi garantire la pace perchè ha poteri così grandi da comandare su ogni cosa . Nel momento in cui questo personaggio viene investito del potere , stabilisce le leggi con le quali decreta cosa é bene e cosa é male : a differenza dello stato di natura in cui bene era ciò che garantiva a ciascuno l’ autoconservazione , nello Stato civile bene e male dipendono totalmente da ciò che il sovrano vuole : tra tutti i diritti di cui egli gode vi é anche quello di decretare che cosa sia bene e che cosa sia male . Evidentemente una concezione di questo tipo fonda lo Stato assoluto , ossia la situazione in cui il sovrano ha diritti ampissimi che si estendono a tutto fuorchè alla vita dei cittadini . Ma va subito sottolineato come sovrano non sia sinonimo di monarca ; la sovranità , infatti , può essere detenuta da un’ assemblea . A questo punto il sovrano può decretare ciò che é giusto e obbligare i cittadini a comportarsi di conseguenza . Hobbes dichiara esplicitamente di nutrire grandi simpatie nei confronti della monarchia in quanto essa non porta a lotte di fazioni interne e , soprattutto , evita le guerre civili , favorendo la sicurezza . Possiamo a questo punto ricordare un’ importante osservazione fatta dal filosofo novecentesco di ispirazione illuministica Norberto Bobbio : egli fa notare che in ogni epoca ci sono categorie di pensiero fondamentali che , talvolta , sono così forti da costringere a servirsi di esse anche chi non la pensa così perchè altrimenti non verrebbe compreso , visto che tutti si avvalgono di quelle categorie . Bobbio , nel caso di Hobbes , nota come il pensatore seicentesco si serva di categorie giusnaturalistiche particolarmente in voga all’ epoca per poi fornire un contenuto sostanzialmente giuspositivista ( giuspositivismo : non c’ é alcun diritto naturale , ma solo diritti imposti dagli Stati ) ; in realtà Hobbes propugna tesi giuspositiviste camuffandole da giusnaturaliste : in ultima istanza ciò che é giusto o sbagliato lo é perchè lo decide il sovrano e non perchè di per sè sia giusto o sbagliato : se il sovrano decide che é giusto agire così , io suddito devo agire così senza far appello a leggi di natura . Per riprendere un interrogativo tipicamente platonico ( vedi Eutifrone ) : le cose sono sante perchè piacciono a Dio o piacciono a Dio perchè sono sante ? Hobbes , a differenza di Platone , opterebbe per la prima . La rivoluzione inglese nacque per questioni finanziarie : il re chiese ai contribuenti una tassa extra per poter fare una guerra . Venne allora coniato il motto nessuna tassa senza rappresentanza ( no taxation without rappresentation ) : sullo sfondo c’ era l’ idea che la proprietà privata dei cittadini non potesse venir toccata dal sovrano ; le tasse van bene solo se quando vengono stabilite noi sudditi possiamo essere rappresentati e dire la nostra . In altri termini , lo Stato non potrebbe metter le mani sulla proprietà privata . Hobbes si schiera a favore dello Stato e contro i cittadini che difendono l’ intoccabilità della proprietà privata da parte dello Stato : potrei dire che lo Stato non ha diritto di confiscarmi la proprietà se essa fosse un diritto che sta a monte dello Stato civile ; ma nello stato di natura non c’ é proprietà e tutti han diritto su tutto . Essa nasce nello Stato civile e si fonda non sul diritto naturale , ma su quello stabilito dallo Stato : é il sovrano che ha varato leggi che garantiscono il diritto di proprietà . Ma se é lo Stato stesso che stabilisce le leggi che garantiscono il diritto di proprietà , così come le ha stabilite , può anche abolirle e confiscare la proprietà ai cittadini . Certo non potrebbe se essa stesse a monte dello Stato civile , ma così non é . Il sovrano può tutto , tranne che toccare la mia esistenza , e di conseguenza così come ha elargito dei diritti ( quello alla proprietà ad esempio ) , può anche riprenderseli . Hobbes si schiera anche contro i diritti consuetudinari , di derivazione medioevale . Si tratta di quegli antichi diritti che non sono stati decretati dal sovrano , ma sono validi per tradizione . Tipico diritto consuetudinario é quello secondo il quale uno Stato che si annetta un territorio , deve rispettare le leggi che in esso vigono . Hobbes non nega che il sovrano possa decidere di mantenere in vigore le leggi in vigore per tradizione nel territorio annesso , tuttavia dice che se il sovrano vuole , può cambiarle : se il sovrano con una sua libera decisione stabilisce di mantenere le leggi tradizionali di quel Paese , comunque la loro validità non dipenderà dal fatto che sono antiche e che quindi pure il sovrano deve attenervisi , bensì dal fatto che é il sovrano che decide di sua iniziativa di mantenerle valide . Esse non valgono per la loro antichità , tant’ é che il sovrano può cambiarle quando e come gli pare e piace . La rivoluzione inglese nasce nel momento in cui il parlamento rimprovera al sovrano di aver rinnegato alcuni diritti tradizionali : secondo il parlamento certi diritti neanche il sovrano poteva toccarli . Ma Hobbes si schiera dalla parte del sovrano sostenendo che egli possa tutto fuorchè mettere in pericolo lo Stato stesso e i cittadini : ma quando mette in pericolo lo Stato e i cittadini , la sovranità si disfa da sola proprio perchè non più in grado di garantire la sicurezza , obiettivo per cui era stata creata . Quindi Hobbes con le sue idee ha fondato il nucleo teorico dell’ assolutismo affermando due cose : 1 ) che non esiste alcun diritto prima della costituzione dello stato civile : nello stato di natura , infatti , vige il diritto del più forte e ciascuno é nemico di tutti ( homo homini lupus , dice Hobbes riprendendo le parole di Plauto ) : lo Stato civile , per severo e intransigente che possa essere , é l’ unica vera fonte del diritto e così come fornisce ai cittadini alcuni diritti può anche sottrarglieli senza dover rendere loro conto ( dovrebbe se questi diritti esistessero a monte dello Stato civile ) ; se Hobbes ragiona nell’ ambito dello stato naturale , come dice Bobbio , lo fa solo per poter parlare del giuspositivismo in modo che tutti possano comprendere . 2 ) Le modalità del contratto sociale previsto da Hobbes sono il fondamento stesso dello Stato assoluto : il fondamento dello Stato per Hobbes é il consenso ( e per questo egli non risultava troppo gradito alla monarchia ) ; ma il contratto per Hobbes non viene stipulato tra il futuro sovrano e tra i futuri sudditi , come dirà invece Locke : per Locke , essendo stipulato tra sovrano e sudditi , entrambi hanno dei doveri e nel momento in cui il sovrano o il popolo li trasgrediscono si devono prendere provvedimenti ( se li trasgredisce il sovrano il provvedimento é la guerra civile ) . Ma nella concezione hobbesiana , a stipulare il contratto sono solo i cittadini , che decidono di privarsi di tutti i diritti per garantirsi quello alla sicurezza : il futuro sovrano non stipula alcun contratto , egli si limita a raccogliere dei diritti abbandonati senza stipulare contratti ; non avendo stipulato un contratto , egli non deve sottostare ai dettami di tale contratto , ai quali invece debbono obbedire i sudditi che l’ hanno stipulato . Ecco allora che il sovrano é assoluto ( dal latino absolvo ) , ossia slegato dagli obblighi che invece hanno i cittadini semplicemente per il fatto che lui non ha siglato alcun contratto , ma ha raccolto i diritti di cui il gruppo si é privato e gli ha ceduto affinchè lui , col suo potere smisurato , garantisca loro il diritto alla sicurezza : ed é l’ unica cosa che il sovrano deve garantire , tutto il resto dipende dal suo arbitrio . Il fatto che il sovrano sia svincolato da ogni dovere porta Hobbes a proclamare il divieto di ribellione : il sovrano , proprio perchè non l’ ha stipulato , non potrà mai rompere il contratto e ogni suo atto i sudditi devono considerarlo come se compiuto da loro stessi visto che essi hanno volontariamente delegato a lui i loro diritti . La ribellione sarebbe una contraddizione logica al pari di quando si manda qualcuno a rappresentarci in un’ assemblea di condominio e noi ci opponiamo alle scelte da lui prese : gli abbiamo delegato il nostro potere e il suo volere é quindi il nostro volere . Quando il sovrano fa qualcosa é come se lo stessi facendo io suddito che gli ho affidato il potere di mia iniziativa . Ribellarsi é una contraddizione logica : é come fare un qualcosa e non voler farlo . L’ opera più famosa di Hobbes , in cui egli esprime tutte le sue teorie politiche é il Leviatano , che prende il nome da un mostro mitologico dell’ Antico Testamento ; é interessante notare che oltre al Leviatano , Hobbes scrisse un’ altra opera ( meno famosa ) , intitolata Behemoth : anche Behemoth é un mostro biblico , però , a differenza di Leviathan , é fortemente negativo e simboleggia la ribellione che , come detto , per Hobbes é una contraddizione logica : quindi Behemoth , la ribellione , é un mostro distruttivo , che va assolutamente vinto . Il Leviatano , titolo dell’ opera , non é altro che lo Stato stesso : nel frontespizio della prima edizione dell’ opera compare un curioso disegno : un grande uomo con la corona sul capo che é a sua volta composto da tanti piccoli omini ; lo Stato per Hobbes non é altro che un insieme di corpi e , poichè il corpo é spiegabile in termini meccanicistici , così deve essere spiegato anche lo Stato ( che é un insieme di corpi , un corpo gigante composto da corpi piccoli ) : ricordiamoci che Hobbes é riduzionista . Lo Stato , ossia l’ aggregazione dei cittadini , viene presentato come un mostro positivo , come un ” Dio in terra ” : lo Stato é quella realtà , spiega Hobbes , dalla quale , subito dopo Dio , ci si devono aspettare i beni maggiori : é un vero e proprio Dio sulla terra . Ciò non toglie che questo Dio terreno venga presentato come un mostro , dipinto cioè in termini ambigui : é sì la realtà da cui ci si devono aspettare grandi beni , ma lo é proprio perchè dotato di potere immenso ( i cittadini gli cedono tutti i loro diritti ) e Hobbes non può nascondere che sia comunque un qualcosa di aggressivo e terribile . Ma il fatto che sia terribile non implica che debba essere evitato : é e rimane l’ unico mezzo per non piombare nello stato di natura , dove vige il diritto del più forte . Questo spiega , tra l’ altro , perchè Hobbes apprezzasse un “rivoluzionario” come Cromwell : ciò che conta é che ci sia un potere forte , non importa di qual natura : il potere valido é quello che c’ é , purchè sia potente e purchè ci sia .
RIASSUNTO DEL LEVIATHAN (1651)
Hobbes è il massimo teorico dell’assolutismo. E’ il primo caso in cui all’unità del Corpus Christianum medievale si contrappone una potenza puramente e totalmente terrena dello STATO SOVRANO (le prime monarchie assolute in Francia, Spagna, Inghilterra che affermavano la loro indipendenza dal papato ne erano comunque, sebbene in parte, influenzate).La vita sociale diventa vita politica.
PUNTO DI PARTENZA DI HOBBES
La ricerca non è più il genere umano ma lo stato ,unione stretta dagli individui per formare una società armata di potere sovrano. Quindi lo STATO E’ UNA FORMA SUPREMA DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE RISPETTO CUI L’INDIVIDUO E’ TOTALMENTE SUBORDINATO e viene costituito a partire da una nuova società borghese: uomini liberi, indipendenti ed eguali che si uniscono in vista della conservazione della vita e del benessere.
METODO DI HOBBES
E’ improntato sul metodo galileiano e consiste nella scomposizione dei principi primariamente e nella composizione del corpo politico successivamente. Lo stato è necessario da un punto di vista razionale perché la relazione fra protezione ed obbedienza dà agli uomini pace e vita per cui IL POTERE DELLO STATO NON E’ SOLO IL SUPREMO DOVERE MA ANCHE IL PRIMO INTERESSE DEGLI UOMINI. Si evince da qui che la filosofia politica di Hobbes ha come supremo valore la pace e si basa sul fatto che tale pace si consegue solo alla creazione di un sovrano assoluto che freni passioni ed interessi individuali. Lo stato padrone di Hobbes segna la rottura definitiva col mondo ecclesiastico del medioevo perché si fonda sull’interesse degli individui, quindi sul calcolo. E’ facile perciò comprendere come Hobbes teorizzi un assolutismo essenziale per lo sviluppo borghese. Due sono le figure cardine del suo pensiero:
l’individuo ( alla ricerca del proprio profitto)
il sovrano ( proiezione di tutti i diritti della società)
LO STATO DI NATURA
Definizione delle qualità originarie dell’uomo per giustificare una concezione di stato: questa è la definizione hobbesiana (e non solo). Esso quindi (lo stato di natura) non è semplicemente una condizione storica ma un’ ipotesi necessaria al fine di riconoscere il problema centrale che è L’ORIGINE DEL POTERE POLITICO IN RAPPORTO ALLA NATURALE INDIPENDENZA DELL’UOMO .
Locke : l’uomo precede la società perché UOMO ( creatura sociale e razionale) ; condizione naturale dell’uomo è la comunità retta dalla ragione. Pertanto, secondo John Locke lo ststo di natura è uno stato di pace
Hobbes: forte antitesi fra condizione naturale e condizione civile (che sono sfere opposte che si escludono l’un l’altra).
Condizione naturale (fuori dalla stato) : guerre, paure, passioni
Stato civile (nello stato) : ragione, pace, sicurezza
L’uomo è uomo solamente come suddito di uno STATO dato che la condizione naturale dell’uomo è uno stato di isolamento e guerra dettati dagli interessi dei singoli che si contrastano a vicenda mossi da spinte esclusivamente egoistiche (amor proprio).
Fuori dallo stato la vita NON E’ MORALE
L’indole degli uomini è caratterizzata dalle passioni che determinano forze che mirano alla sola superiorità di se stessi sugli altri NON ESISTE PROPENSIONE DEGLI UOMINI ALLA SOCIETA’ MA SOLO UN LORO VANTAGGIO
Lo stato di natura è quindi uno stato di guerra.
La tesi hobbesiana dice quindi che lo stato di natura è sicuramente una condizione di libertà ed uguaglianza ma che questa libertà è lontanissima dalle tesi liberaliste lockiane : libertà significa per Hobbes il PURO NON IMPEDIMENTO, cioè licenza sfrenata che determina un conflitto universale. IL CONCETTO DI LIBERTA’ E’ QUINDI INCOMPATIBILE CON QUELLO DI PACE : essa equivale ad una ricerca di DOMINIO e pertanto deve essere ALIENATA NELLO STATO. Essere uguali vuol dire avere la stessa capacità di nuocersi a vicenda
NON ESISTE UNA SOCIETA’ NATURALE . CIO’ COMPORTA IL VENIR MENO DI OGNI PRINCIPIO CHE CONSIDERI L’UOMO AL DI FUORI DELLO STATO.
Giustizia ed ingiustizia non appartengono né al corpo né alla mente perché se lo fossero si troverebbero in ogni singolo uomo, cosa dimostratasi non vera, perciò esse appartengono solamente all’uomo IN SOCIETA’.
L’amor proprio e le passioni fanno dell’indipendenza originaria dell’uomo una condizione miserabile ed impongono una necessità primaria: uscire da tale condizione.Pertanto Hobbes non distingue società civile da società naturale, perché quest’ultima non è società e pone come base del suo discorso politico LA CONCILIAZIONE DEGLI INTERESSI UMANI: essa presuppone che i privati cessino di essere tali e si regolino pubblicamente in modo tale da far nascere immediatamente la società nel momento in cui nasce un ordinamento politico.
L’uomo, per la sua natura bellicosa, è uno strano animale per cui la società si presenta come OPPOSIZIONE DI ALTRI UOMINI CHE OSTACOLANO IL RAGGIUNGIMENTO DEI PROPRI FINI ( carattere individualistico ed antagonistico dell’uomo). Per questa ragione lo stato deve essere fornito di POTERE ASSOLUTO per assicurare la pace e l’unità sotto la protezione del SOVRANO. La nature egoistica dell’uomo crea però grosse difficoltà all’istituzione dello stato: infatti, spesso, per soddisfare le passioni e gli orgogli personali l’uomo compromette la propria vita, infrange il bonum sibi per PAURE PERSONALI: la sottomissione allo stato ha quindi lo scopo utilitaristico di regolamentare secondo ragione e prudenza i rapporti umani.
IL GIUSNATURALISMO HOBBESIANO
Hobbes quindi volge il concetto di stato di natura per giustificare il potere assoluto dello stato.
Giusnaturalismo medievale: partecipazione razionale all’ordine divino
Giusnaturalismo di Hobbes: IUS QUIA IUSSUM : la giustizia dipende dal volere politico
La legge di natura proibisce di fare all’uomo ciò che è dannoso per la sua vita ( infrazione del bonum sibi). Nella condizione di natura l’uomo finisce con lo scendere in guerra con i suoi simili: LA RAGIONE SUGGERISCE REGOLE IN BASE ALLE QUALI GLI UOMINI POSSONO VIVERE IN MOLTITUDINE tali sono le leggi di natura
I Legge di natura (fondamentale): ogni uomo tende alla pace finchè ha speranza di ottenerla
II Legge di nature: ogni uomo depone il diritto a tutte le cose (che originerebbe un conflitto universale) per mezzo di patti.
Le altre leggi (sono 19) si basano tutte sulla legge fondamentale.
Il giusnaturalismo hobbesiano implica un restringimento della sfera di ciò che è lecito per natura, introducendo limiti individuali con la differenza (rispetto al liberalismo) che diritti e doveri non scaturiscono dalla natura ma DALLO STATO.
Tale teoria si appoggia ad una tradizione medievale razionalistica: LEGGE MORALE = ETERNA LEGGE DELLA RAGIONE. Ma è proprio per questo che essa non può essere considerata legge:
“Autoritas non veritas facit legem”
Questa conclusione porta alla difesa di se stessi, rendendo il concetto di legge proprietà di colui che per diritto ha il potere. La ragione di Hobbes perde il carattere metafisico per essere uno strumento umano, un calcolo: LA FILOSOFIA MORTALE NON INDICA I FINI MA I MEZZI
L’insieme delle leggi fondamentali sono impotenti a frenare le passioni umane, pertanto NON COSTITUISCONO LIMITE GIURUDICO: chi si comporta socievolmente non fa altro che darsi in preda agli altri perché LE LEGGI NATURALI NON GARANTISCONO PACE E SICUREZZA
Quale rapporto c’è dunque tra leggi naturali e leggi civili ?
2 soluzioni proposte da Hobbes:
Le leggi naturali costituiscono il contenuto di quelle civili che le rendono valide (soluzione poco credibile)
L’obbligo di obbedire alla legge si fonda su un patto con cui i sudditi si impegnano ad obbedire al sovrano. C’è impossibilità di contrasto tra i 2 ordini di diritto: se la legge civile ordina di compiere azioni contrarie alla legge naturale l’obbedienza sarà uguale in virtù di quella legge di natura che impone il rispetto dei patti. (soluzione più coerente)
IL CONTRATTO E LO STATO
L’idea del contratto nasce dal fatto che nessuna obbligazione può essere contratta se non grazie ad un atto personale. Il contrattualismo di Hobbes elabora una teoria del potere politico che porta ad una rigorosa teoria della sovranità. Tale teoria è una sintesi del doppio contratto della dottrina tradizionale:
Pactum unionis : gli individui formano la società
Pactum subiectionis : gli individui delegano il potere al sovrano *
Hobbes nega tale presupposto : il popolo, come tale, non può esistere prima del potere sovrano. Prima di tale istituzione può esistere solamente un consenso fondato sulla forza delle parole.
Esiste infatti una differenza tra moltitudine e popolo:
MOLTITUDINE : collezione di volontà indipendenti
POPOLO : persona unica in grado di esprimere una sola volontà
Solo il popolo può presentarsi come parte di un contratto e di conseguenza non può esistere prima del contratto né tantomeno prima del sovrano o di un potere sovrano: LA MOLTITUDINE DIVENTA POPOLO ESCLUSIVAMENTE NELLA SOGGEZIONE AD UN POTERE.
LA SOCIETA’, pertanto, NASCE CON L’ISTITUZIONE DELLO STATO E NON PRIMA.
Detto ciò il problema diventa ora il principio di unità, cioè bisogna dare una volontà unica a tutti i membri dello stato: tale volontà si ottiene solamente ALIENANDO LE VOLONTA’ PARTICOLARI NELLO STATO (cioè come sottomissione ad un sovrano che si faccia portatore di una sola volontà del popolo)
C’è quindi una connessione necessaria tra unione e sottomissione (vedi sopra *) Tema centrale del contrattualismo hobbesiano.
CONTRATTO POLITICO = alienazione del diritto naturale, cioè della libertà piena ed assoluta
L’unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune è quello di conferire tutto il loro potere e la loro forza ad un uomo o ad una assemblea di uomini che, a maggioranza di voti, possa ridurre tutte le loro volontà ad una volontà unica al fine di creare una persona sola tramite un patto.
Il patto ha in sé quindi i concetti di autorizzazione e rappresentanza, che consentono di pensare le parole di un uomo come fossero quelle di un altro.
E’ un po’ come il rapporto autore – attore: l’attore rappresenta gli atti di un altro, agisce in nome dell’autore.
Solamente così una moltitudine può divenire popolo.
ARISTOTELE E HOBBES
Rifacendoci alla distinzione tra “realismo politico” e “filosofia politica”, distinzione in base alla quale il primo (che trova in Tucidide e in Machiavelli due dei suoi più grandi eroi) non mira se non all’ordine mentre il secondo aspira ad un ordine che sia giusto, possiamo rilevare fin da ora come essi operino su due piani diversi e mai riducibili l’uno all’altro. Quello del realismo politico è il piano della continuità, cosicché si ritrovano nel corso storico costanti strutturali che si ripetono: non è un caso che Machiavelli si trovi ad operare con categorie e schemi interpretativi piuttosto vicini a quelli adoperati molti secoli prima da Tucidide. Al contrario, quello della filosofia politica è il piano della discontinuità: sicché Aristotele, Hobbes e Hegel – che rappresentano i tre grandi paradigmi della filosofia politica occidentale – affrontano sì problematiche in certa misura analoghe, ma lo fanno con strumenti diversissimi fra loro e secondo modalità inaccostabili le une alle altre. In forza di ciò, diventa possibile distinguere le varie epoche storiche a seconda dei modi in cui, all’interno di esse, sono stati affrontati determinati problemi politici. Ciascuno dei tre grandi modelli della filosofia politica (Aristotele, Hobbes, Hegel) riassume in sé una caterva di varianti diversamente declinate: per citare un solo esempio, in età medievale Marsilio da Padova, nel suo Defensor pacis, muove dalla Politica di Aristotele per poi distaccarsene gradualmente e assumere una posizione che può essere etichettata come proto-hobbesiana. La lunga stagione inaugurata da Aristotele (nella quale rientra il platonismo stesso), che si protrae fino alle soglie dell’età moderna, è superata dalla posizione politica fatta valere da Hobbes, che nei confronti di Aristotele si pone in maniera volutamente polemica: ma a sua volta, nella prima metà dell’Ottocento, la posizione hobbesiana verrà superata da quella hegeliana, la quale introdurrà un nuovo paradigma destinato a conoscere un incredibile numero di varianti negli anni a venire (tanto Marx quanto Gentile si rifanno alla linea politica tratteggiata da Hegel). Si tratta allora di capire a che cosa sia dovuta questa discontinuità che segna la filosofia politica e che, come abbiamo visto, è scandita in tre tappe fondamentali (l’aristotelismo, la filosofia politica hobbesiana, l’hegelismo): si tratta di scansioni meramente soggettive, riconducibili al diverso modo con cui i tre filosofi hanno affrontato tali problematiche, o piuttosto abbiamo a che fare con scansioni determinate da condizioni storiche oggettive? Come spesso accade, la verità non sta unilateralmente da una parte: tanto la soggettività dell’autore quanto le condizioni storiche oggettive influiscono in maniera imprescindibile, anche se non è del tutto chiaro quale delle due componenti abbia maggior peso. La grande dicotomia politica che caratterizza la filosofia politica fino all’Ottocento (quando, con Hegel, si prospetta la necessità di ridisegnare il quadro) è quella tra Aristotele e Hobbes. All’olismo aristotelico, secondo cui per comprendere la società occorre partire dal tutto e non dalle singole parti, Hobbes contrappone quell’individualismo in base al quale è solo partendo dalla considerazione dei singoli individui che è possibile comprendere la società nel suo complesso: similmente, all’organicismo aristotelico Hobbes oppone un meccanicismo tale per cui lo Stato non è se non una macchina o – come Hobbes stesso lo definisce – un “corpo artificiale” del tutto diverso dagli organismi che si trovano in natura. Se poi Aristotele prospetta una concezione teleologica della società, secondo cui quest’ultima tenderebbe a un fine consistente nella realizzazione di un ordine immanente alla natura stessa, Hobbes, dal canto suo, ne propone una nichilista e costruttivista: a suo avviso infatti la natura, lungi dal presentare una qualche forma di ordine, si presenta come il regno del caos e del disordine, con la conseguenza che l’ordine è un qualcosa che può essere imposto in maniera forzosa attraverso una costruzione sociale (da qui il nome di “costruttivismo”). Proprio da tali considerazioni hobbesiane prende le mosse il contrattualismo – che è figlio del giusnaturalismo -, teoria secondo la quale lo Stato è il frutto di un patto siglato dagli individui che altrimenti si troverebbero in una perenne guerra di tutti contro tutti, poiché l’uomo – nota Hobbes – non è affatto un animale socievole, come se lo immaginava Aristotele. Ed è interessante come, nel De cive, Hobbes si spinga ben più in là del rovesciamento della tesi aristotelica della naturale socievolezza dell’uomo e arrivi a sostenere che il linguaggio non è che una “tromba di sedizione” che gli uomini impiegano per guerreggiare fra loro e che la ragione è un’arma utilizzata per portar guerra ai propri simili. Hegel spesso ci è presentato come sintesi di questi due momenti che configgono tra loro: il suo è, infatti, un pensiero olistico della totalità organica (e in ciò è vicino all’aristotelismo), ma ciò non toglie che Hegel sia e resti un pensatore figlio della modernità e del culto della libertà e dell’individuo (tematiche particolarmente care a un Protestante come lui). E del resto si tratta di alternative che non si escludono mutuamente e che ammettono una composizione, a meno che non si voglia liquidare – sulle orme di Nietzsche e di Marx– la sintesi hegeliana come illusoria, alla stregua di quella, invalsa in età medievale, tra aristotelismo e cristianesimo (e una tale lettura, tuttavia, porterebbe a leggere la storia dell’Occidente come successione di sintesi fallite). Questi tre autori segnano così marcatamente delle discontinuità giacché, col loro pensiero, riflettono esperienze epocali di fallimento nella soluzione politica e avanzano la pretesa radicale di fornire soluzioni: essi inaugurano un paradigma proprio in forza del fatto che fanno un bilancio ragionato di un’epoca, criticano le soluzioni avanzate dagli altri pensatori e ne propongono di proprie. Così Aristotele è un pensatore che si trova a condividere la critica socratico/platonica alla poliV opulenta e disordinata, pluralista e spaesante, ma poi finisce per ritenere errata la terapia adottata da Platone per far fronte alla crisi in cui la poliV versa. Lo Stagirita non propone riforme che intervengano in maniera diretta sugli ordinamenti, ma valorizza e favorisce le differenze e le pluralità vigenti all’interno della poliV, poiché è convinto che esse compongano un’unità che è inscritta nella natura stessa e che deve essere fatta passare da uno stato potenziale ad uno attuale. Non è un caso che, ad Aristotele, Hobbes preferisca Platone, scorgendo in lui – architetto ideale di una kallipoliV – un filosofo più vicino al costruttivismo. Aristotele non fantastica immaginarie città ideali: egli è convinto che ci si debba limitare a lavorare su quelle sinergie, interne alla poliV esistente, le quali spingono in direzione dell’ordine. Ma Hobbes non esita a riconoscere il pieno fallimento del paradigma aristotelico/cristiano: la retorica repubblicana, che si sostanzia della teoria politica aristotelica, e il fondamentalismo religioso, proliferante in virtù della dottrina cristiana, sono alla base di un’inarrestabile dissoluzione affondano le loro basi rispettivamente nell’aristotelismo e nel cristianesimo. Pertanto, al modello aristotelico/cristiano, Hobbes oppone come antidoto un paradigma fondato sul calcolo delle utilità degli individui, i quali, calcolando i loro interessi e vantaggi, abbandonano il primitivo stato di natura del bellum omnium contra omnes e danno vita alla macchina dello Stato. Hegel pensa la modernità dopo l’evento epocale della Rivoluzione Francese e, grazie ad essa, giunge alla comprensione di tre punti fondamentali: in primis, egli si accorge di come la modernità abbia prodotto la società civile, la quale però non contiene in sé la risoluzione del problema dell’ordine (infatti, la società civile è divisa in classi e dunque massimamente diseguale); in secondo luogo, egli prende atto di come l’accentramento governativo in senso democratico non costituisca la risoluzione di tutti i problemi, soprattutto alla luce del fatto che la democrazia è sfociata in Terrore giacobino. Infine, Hegel nota come il patto cosmopolitico degli Stati (il foedus pacificum di cui parlava Kant in Per la pace perpetua) sia illusorio e mai realizzabile. Dei tre, quello aristotelico è il paradigma che più dura: nato per primo, esso ritorna con insistenza addirittura nella seconda metà del Novecento, assunto da quella nutrita serie di autori – tra i quali Hannah Arendt – che si richiamano esplicitamente ad una filosofia della prassi e assumono la frwnhsiV come faro dell’agire. Il modello hobbesiano, dal canto suo, ha una vita assai più breve, dal momento che, nato nel Seicento, sopravvive per non più di due secoli, fino a Kant e al primo Fichte (anche se in realtà anche John Rawls, in pieno Novecento, si pone con la sua dottrina del “velo di ignoranza” sulla scia di Hobbes). Ancora meno dura il paradigma hegeliano, a tal punto che alcuni studiosi hanno addirittura messo in dubbio che le filosofie di Marx, di Schmitt e di Gentile, così diverse tra loro, potessero essere concepite come varianti del modello hegeliano. Ciò è del resto avvalorato anche dal fatto che mai come nel Novecento le posizioni politiche sono state tanto diverse e inaccostabili fra loro: non solo nel senso che le ideologie che si sono confrontate sono state assai diverse, ma anche e soprattutto nel senso che i modi stessi di intendere la politica sono stati assai variegati e diversificati. Per rifarci forse al caso più eclatante, mentre Carl Schmitt va sostenendo – in Il concetto del politico – che le due grandi categorie attraverso le quali leggere la politica sono quelle dell’amico e del nemico, in maniera antitetica Arendt intende la politica come sede di un agire comunicativo e non conflittuale.
ARISTOTELE, POLITICA
La Politica di Aristotele è un’opera che non può essere propriamente compresa se non la si inserisce in maniera opportuna all’interno del sistema aristotelico. Essendo lo Stato una delle grandi acquisizioni di quell’età moderna che sorge al tramontare del Medioevo, al cuore della riflessione politica di Aristotele vi è un’entità extrastatale: la poliV, un’unità territoriale più vasta di quella che siamo soliti definire “città” ma più ristretta rispetto al moderno “Stato”; proprio in forza del suo essere a metà strada tra la città e lo Stato, il termine poliV è stato spesso tradotto come “città-Stato”, anche se la miglior soluzione consiste nel non tradurlo e mantenerlo in greco. Ogni poliV – nota Aristotele nell’incipit dell’opera – non è che una koinonia, ovvero una comunità politica che, alla stregua di ogni altra cosa esistente, dev’essere definita in base al suo teloV, identificabile con il conseguimento di un certo bene. Il primo nodo da sciogliere riguarda allora la specifica finalità della poliV: qual è tale finalità? In cosa consiste? Nel tentare di capire questo punto, dobbiamo secondo Aristotele accuratamente rifuggire dal modo di procedere di quanti assimilano fra loro la figura del despota, del padre e del padrone, come se fossero termini interscambiabili. Si tratterà allora di differenziare le comunità in base al teloV cui esse tendono. Ancor prima di avviare la ricerca, Aristotele ci fornisce – come suo solito – indicazioni metodologiche: come negli altri campi del sapere, occorre pervenire alla comprensione del tutto scomponendolo nelle varie parti che lo costituiscono (in ciò sta l’olismo aristotelico); questo, nella sfera della filosofia politica, si traduce in un ritorno alle origini, il che ci aiuta a capire come in Aristotele olismo ed evoluzionismo procedano di pari passo. In quest’ottica, lo Stagirita parte dalla considerazione della famiglia (oikoV) per poi giungere a quell’evoluzione della famiglia stessa che è la poliV, passando per quelle stazioni intermedie delle quali la più importante è data dal villaggio. Già all’interno di quel primo nucleo originario che è la famiglia, si verificano due grandi disuguaglianze: quella tra uomo e donna e quella tra comandante e comandato. Se il rapporto tra l’uomo e la donna ha come fine la riproduzione della specie, quello tra comandante e comandato ha invece la conservazione del gruppo sociale (nel caso in questione: la conservazione della famiglia). Ciò resta valido anche all’interno della poliV, giacché in essa si attua una riproduzione delle generazioni e la conservazione del gruppo sociale. Se la famiglia è funzionale alla vita, il villaggio mira all’autosufficienza: dal canto suo, la poliV si pone come comunità perfetta che esiste non per rendere possibile la vita (a ciò provvede il villaggio), ma per renderla felice, il che mette in luce come nel discorso aristotelico etica e politica siano in forte connessione fra loro. Ogni poliV – rileva Aristotele – esiste kata fusin, è cioè naturale al pari della famiglia, dal momento che la natura è il fine a cui queste comunità mirano: ma ciò per cui una cosa esiste non può che costituire il meglio e proprio in ciò risiede l’identità aristotelica di assiologia e ontologia. Da ciò si evince come ogni Stato – posto che di Stato si possa parlare in riferimento all’età dei Greci – è un prodotto naturale e come, in forza di ciò, l’uomo stesso sia uno zwn politikon, ossia un animale politico, sociale e socievole (tutti aggettivi ricompresi nella nozione di politikon). Ne segue allora che chi vive in isolamento per sua libera scelta è o una bestia o un dio e tende per sua natura ad essere un individuo bellicoso e incline al conflitto. Ciò detto, lo Stagirita mette in luce un punto a lui assai caro, che ritorna in parecchi altri suoi scritti: la natura non fa nulla invano e – egli aggiunge – l’uomo è un “animale parlante” (zwn logon ecwn): se non fosse dotato del linguaggio e fosse soltanto un animale politico, allora in nulla si distinguerebbe dalle api o dalle greggi, siccome anch’esse tendono per loro natura ad associarsi. Ma poiché oltre che della fonh (voce) l’uomo è equipaggiato anche del logoV (ossia del linguaggio e, insieme, della ragione), la comunità politica cui egli dà vita si qualifica come qualità etica in cui certi valori (il bene, il giusto, ecc) sono condivisi. Infatti, mentre la voce esprime soltanto la gioia o il dolore, la parola dà voce anche a ciò che giova e a ciò che nuoce, ovvero al giusto e all’ingiusto, rendendo per questa ragione possibile una comunità che sia insieme etica e politica. Fedele all’assunto olistico che dà la precedenza al tutto rispetto alle parti, Aristotele sostiene che per natura la poliV sta prima della famiglia: infatti è soltanto dalla scomposizione della poliV stessa che si può risalire alla famiglia, che è e resta impensabile al di fuori della poliV. I tre grandi modelli di filosofia politica – quello aristotelico, quello hobbesiano e quello hegeliano – sono costruiti su delle dicotomie o, nel caso di quello hegeliano, su tricotomie, ancorché quella di Aristotele lo sia solo in senso lato. L’impiego delle dicotomie è del resto piuttosto diffuso: al mondo del diritto romano dobbiamo quella pubblico/privato, a Ferdinand Tönnies quella comunità/società. La grande dicotomia della filosofia politica aristotelica è quella oikoV/poliV, anche se poi lo Stagirita assume il villaggio come categoria intermedia tra le due. Anche il modello hobbesiano è dicotomico: contrapposto allo stato di natura è infatti la società civile o politica. Agli uomini è infatti dato di vivere in due scenari: o in quello dello stato di natura, che noi non abbiamo mai visto ma che troviamo descritto nei racconti dei viaggi in terre remote, dove non c’erano leggi, potere sovrano e Stati. Oppure nello scenario dello Stato, che riprende gli aspetti positivi (libertà e uguaglianza in primo luogo) dello stato di natura, correggendone i limiti. Dal canto suo, il modello hegeliano tenta la sintesi di quello aristotelico e di quello hegeliano, secondo le leggi dell’Aufhebung: i termini fondamentali del modello di Hegel sono la famiglia, la società civile e lo Stato. La famiglia è direttamente derivata da Aristotele, lo Stato da Hobbes: la società civile, invece, è una realtà sconosciuta ai precedenti autori e corrisponde alla civil society di cui parlavano gli autori scozzesi (Hume, Adam Smith), ossia alla società economica di mercato che nasce in età moderna. Se ai tempi di Aristotele l’economia era primariamente amministrazione dell’oiokoV e dei suoi beni, nell’età moderna essa riguarda gli individui, le classi e i gruppi sociali su scala globale. Abbiamo in precedenza visto come l’incipit della Politica annunci la naturale socievolezza dell’uomo, definito sia come zwn politikon sia come zwn logon ecwn. E, all’interno di una concezione che va sostenendo il primato del tutto sulle parti, Aristotele mette in luce il tessuto connettivo che lega le parti fra loro, cercando anche di spiegare perché una pluralità di individui con interessi diversi e spesso contrastanti stia insieme dando vita a fenomeni di integrazione. Nel tentativo di far luce su questa problematica, Aristotele prende in esame la filia, ovvero l’amicizia che lega tra loro gli esseri umani: a tale tematica è dedicato il cap.8 dell’Etica nicomachea. Lo Stagirita qui ci propone una tipologia delle forme di amicizia che ne include tre: v’è in primo luogo l’amicizia in vista del piacere, poi quella in vista dell’utile, infine quella in vista della virtù. La prima è quella che si stabilisce tra quanti si intrattengono con piacere tra loro; la seconda, invece, è quella che viene a instaurarsi in vista dell’interesse di quanti la contraggono; è, per così dire, un’amicizia strumentale. Infine, la terza e superiore forma di amicizia, finalizzata alla virtù, è quella mediante la quale si diventa migliori, avviando un processo di valorizzazione delle proprie capacità. Quest’ultima è l’amicizia che Aristotele considera decisiva per capire la politica. È una forma di amicizia tale per cui si agisce quasi in competizione con l’amico per primeggiare in generosità, in grandezza d’animo e in tutte le altre virtù. Tutte e tre queste amicizie sono di fondamentale importanza per far sì che nella poliV si generi l’amicizia politica, che è inattuabile nella misura in cui la convivenza non gratifica gli uomini, ossia quando è priva di piacere e di benessere. In questa prospettiva, il modello platonico della poliV, ascetica e autoritaria insieme, è oggetto di sempre reiterate critiche da parte di Aristotele, il quale resta convinto che le tre forme di amicizia da lui descritte debbano convergere, in maniera tale che nell’amicizia politica tutti ci guadagnino (amicizia in vista dell’utile), ne traggano piacere (amicizia in vista del piacere) e migliorino (amicizia in vista della virtù). Una poliV sarà allora tanto meglio riuscita quanta più amicizia in vista della virtù sarà in essa presente, anche alla luce del fatto che tra amicizia politica e amicizia per la virtù sussiste una perenne tensione, paragonabile a quella sussistente tra vita teoretica e vita pratica. La prospettiva aristotelica è rovesciata da Hobbes nel De cive: il filosofo inglese concepisce il vasto quanto ambizioso progetto filosofico, gli Elementa philosophiae, il cui titolo, oltre al richiamo all’opera euclidea, lascia trasparire la volontà di muovere non dal tutto (come aveva fatto Aristotele), bensì dagli elementi, dalle parti. Tre sono le sezioni che compongono gli Elementi di filosofia: Sul corpo (De corpore), Sull’uomo (De homine) e Sul cittadino (De cive). Dopo aver illustrato, nel primo paragrafo del primo capitolo del De cive, come le facoltà umane si riducano a quattro elementi fondamentali (passioni, forza fisica, ragione, esperienza) in interazione fra loro, Hobbes – a partire dal secondo paragrafo – dichiara guerra ad Aristotele e alla sua concezione dell’uomo come animale naturalmente politico e socievole. In totale disaccordo con lo Stagirita, Hobbes sostiene che la società non è naturale all’uomo, ma è anzi un qualcosa legato alla contingenza e tale da spingere gli uomini a stare insieme (può essere ad esempio la scarsità di beni, o anche la crescita demografica che costringe a vivere più persone in uno stesso spazio, ecc). Non possiamo allora credere, con Aristotele e mediatamente con la tradizione cristiana, che l’uomo sia secondo natura un animale socievole, anche considerando la selettività della benevolenza: infatti – rileva Hobbes – se l’uomo fosse davvero socievole e amasse l’uomo, dovrebbe amare ugualmente ogni uomo in quanto uomo e non, come sempre accade, soltanto alcuni uomini (i suoi parenti, ad esempio). Da ciò si può evincere come, lungi dall’amare l’uomo in quanto tale, ciascuno di noi ami alcuni uomini non già per inclinazione naturale, ma piuttosto perché da essi trae vantaggi. Dunque, ogni qual volta riscontriamo socievolezza tra gli individui, ciò avviene in virtù del fatto che da tale relazione essi traggono vantaggi. Si tratta, è evidente, di una tesi marcatamente utilitaristica e opposta a quella che sarà successivamente formulata da Kant: se per quest’ultimo ogni uomo è un fine, per Hobbes è invece un mezzo da sfruttare al fine di ricavarne vantaggi. Sicché, se vogliamo capire perché gli uomini stanno insieme, dobbiamo guardare non alle loro intenzioni, ma alle conseguenze (cioè all’utile e all’onore): si tratta dunque di un’etica utilitaristica, teleologica, sequenzialistica e non deontologica. Preparatosi il terreno in questo modo, Hobbes procede prendendo in esame le tre forme di amicizia individuate da Aristotele e smascherandole una dopo l’altra. Partendo dall’amicizia per l’utile, il filosofo inglese nota che, se gli uomini si incontrano per commerciare, allora ciascuno di essi si cura esclusivamente dei propri affari e non del socio: ne nasce un’amicizia esteriore e finalizzata all’utile, dettata dal timore più che dall’amore (si sta infatti insieme contro qualcuno, non in favore di qualcuno). Passando all’amicizia per il piacere, egli nota poi come se gli uomini si incontrano per divertirsi, ciascuno si compiace delle cose che suscitano il riso e ciascuno mira a gratificare il suo amor proprio e la propria gloria, secondo quello che Habermas definisce come “agire drammaturgico”. Del resto, in questi incontri volti al divertimento capita sempre che si sparli degli assenti e perfino, quando si assentano temporaneamente, dei presenti. Così avviene che chi ha subito troppe scottature diventi misantropo e non voglia più saperne di relazioni sociali. Per quel che riguarda l’amicizia in vista della virtù, Hobbes è ancora più critico: quando ad esempio ci si incontra per filosofare, ognuno vuole insegnare agli altri, ponendosi in modo autoritario. Tutte le riunioni umane sono dettate dal desiderio di trarne utilità o gloria: la terza forma di amicizia aristotelica, l’amicizia per la virtù, è da Hobbes liquidata come inesistente. Se dunque le tre forme di amicizia si riducono a questo, allora non sarà possibile un’amicizia politica e l’uomo non sarà affatto un animale socievole, ma anzi userà la ragione per confliggere contro i suoi simili. Col secondo libro della Politica, Aristotele conduce una serrata critica contro il modello politico prospettato da Platone, già preso di mira sul finire del primo libro. Proprio nelle ultime battute di esso, lo Stagirita mette in luce la distinzione tra dominio politico (proprio della poliV) e dominio dispotico (tipico dell’oikoV), ossia distingue tra l’ambito in cui sussistono le naturali disuguaglianze tra il padre e i figli, tra l’uomo e la donna e tra il padrone e lo schiavo (assimilato al bue), e l’ambito in cui non vi sono disuguaglianze naturali. Anche nella poliV, in realtà, vi sono disuguaglianze, ma esse sono non già naturali, bensì funzionali alla poliV stessa: la grande distinzione qui in vigore è fra chi comanda e chi è comandato, ma si tratta di un rapporto non dato una volta per tutte, ma tale da variare nel tempo in virtù della rotazione delle cariche. Sicché nella poliV il cittadino si trova ora ad essere comandato, ora a comandare. Ciò non toglie che, nel tessuto della città, tutti i cittadini siano uguali e se proprio si vuol trovare una disuguaglianza, la si può rinvenire nella disparità tra i giovani (che sono comandati) e gli anziani (che comandano). In maniera alquanto significativa, Aristotele dice [1259 B] che “quando le magistrature sono per la massima parte in mano ai cittadini, c’è alternanza tra governante e governato” e il cittadino tende, per sua inclinazione naturale, a voler essere uguale ai suoi simili. Lo Stagirita rileva poi che, quando un cittadino si trova ad essere governato da un altro cittadino, la disuguaglianza funzionale che si manifesta nell’esercizio di una data magistratura è evidenziata dall’apparato esterno dei titoli, degli onori, delle cariche. In quella divisione dei ruoli, può esserci differenza dei ruoli stessi, ma mai confusione dei medesimi. In ciò, Aristotele si distingue in maniera piuttosto netta da Platone, giacché quest’ultimo distingueva in modo marcato la funzione del comando da quella dell’obbedienza, riconoscendo – seppur attraverso una “nobile menzogna” – che le differenze tra le varie classi sociali e i ruoli ad esse competenti sono naturali alla pari delle differenze tra i metalli. Le diversità del modello aristotelico rispetto a quello platonico affiorano in maniera ancora più forte nel secondo libro, nel quale è messo alla berlina tanto l’utopistico progetto della Repubblica quanto quello delle Leggi. La critica che Aristotele muove al suo antico maestro si svolge su due piani, su uno categoriale di principi filosofici e su un altro – più concreto – di critica empirica: in altri termini, è come se alla critica mossa dal punto di vista della filosofia politica, Aristotele ne affiancasse un’altra dal punto di vista del realismo politico. Per quel che riguarda il primo aspetto, Platone è accusato di aver inteso la poliV come una struttura unitaria e, in definitiva, pensata sul modello dell’oikoV; in questo senso, Platone è colpevole di aver frainteso la natura della poliV e della politica, confondendone i piani con quelli dell’oiokoV. Lungi dall’essere quell’unità riconosciuta da Platone, la poliV è – nota Aristotele – pluralità che ammette sì una gerarchia (fra governato e governante) ma che sia funzionale alla poliV stessa e non strutturale. Il problema di fondo che animava l’intero progetto platonico era quello della stasiV, ossia della lotta civile: nella poliV si trovano infatti a convivere due città diverse e opposte – quella dei ricchi e quella dei poveri -, cosicché finché vi saranno queste due città, vi sarà anche antagonismo e, con esso, conflittualità sempre rinnovantesi. Ma, benché abbia colto il problema, Platone non è stato in grado di risolverlo, giacché, anziché eliminare queste due città antagoniste, le ha riprodotte in forma autoritaria nella sua kallipoliV. Del resto, se la poliV diventa assoluta unità, smarrendo ogni differenza e pluralità, ne segue che a rigore essa non sarà più neppure una poliV, tutt’al più sarà una forma di oikoV, dal momento che si può parlare di poliV quando v’è pluralità e differenza. Ben si capisce allora perché il modello monistico prospettato da Hobbes risulti assai più vicino a quello platonico (che tende a ridursi a famiglia) che non a quello aristotelico, soprattutto in forza del fatto che il filosofo inglese punterà tutto sulla famiglia e, soprattutto, sull’uomo singolo. Il Leviatano stesso, che nel linguaggio hobbesiano simboleggia lo Stato, non è se non un colosso costituito da tanti singoli uomini (i sudditi) che, uniti, danno lo Stato: ciascuno di essi è tenuto ad occupare il posto che gli è stato dato, senza che vi sia alcuna possibilità di quella rotazione delle cariche prevista da Aristotele. Più vicina alla posizione di quest’ultimo sarà Hannah Arendt, la quale concepirà la politica in senso aristotelico, come regno della pluralità e della differenza, accusando l’intera tradizione occidentale di aver fatto proprio il modello unicizzante di Platone. Proprio Platone, nella Repubblica, aveva irrigidito in senso quasi castale il rapporto intercorrente tra i governati e i governanti: nel settimo libro della Politica, Aristotele va sostenendo [1332 A] che se le differenze tra i cittadini fossero costitutive, come quelle che dividono gli dei dagli uomini, allora avrebbe ragione Platone ad ammettere che alcuni devono per natura governare sempre mentre ad altri spetta di essere sempre governati; ma poiché tali differenze non sussistono e anzi tutti i cittadini sono eguali (tema squisitamente moderno e stante alla base della democrazia), allora tutti e nella stessa misura devono avvicendarsi nel comandare e nell’essere comandati. Il fatto che i cittadini siano tra loro eguali non implica però che tra il governato e il governante non vi siano differenze: il primo deve obbedire ai comandi del secondo, che si trova in posizione egemonica rispetto a lui; ma tale differenza è funzionale alla poliV stessa, non le è congenita né è naturale. Naturale è invece la differenza che, nell’ambito dell’oikoV, Aristotele riconosce tra il padre e il figlio, tra l’uomo e la donna e tra il padrone e lo schiavo, concepito un mero strumento da lavoro alla pari del bue o dell’aratro. Nella sua critica indirizzata all’ex maestro, Aristotele si spinge anche più in là, assumendo come bersaglio le proposte platoniche in fatto di articolazione delle classi sociali: Platone aveva formulato il progetto altamente pedagogico di riforma dell’istruzione e della socializzazione degli individui, convinto che, per uscire dal vigente disordine sociale, non bastasse l’imposizione di una nuova costituzione, ma fosse necessaria una riforma antropologica della natura umana (ancora Gramsci, in pieno Novecento, parlerà di “riforma intellettuale e morale” per arrivare al comunismo). In particolare, per ottenere una nuova natura umana, occorre – secondo Platone – il conseguimento di un nuovo paradigma di riferimento, che può essere ottenuto allontanando i figli dalle famiglie di origine e dalle loro particolarità educative. La prima critica che Aristotele muove a questo progetto è che si tratta di un disegno profondamente contraddittorio, poiché se il suo fine è di conseguire la pace nella poliV e di mettere al bando una volta per tutte la stasiV, allora la comunanza di donne e figli prospettata da Platone finirà per alimentare il conflitto anziché estinguerlo. Aristotele nota ciò alla luce del fatto che “dove donne e figli sono comuni, ci sarà meno amicizia[politica]” e aumenterà esponenzialmente il numero dei conflitti e delle dispute. Ciò detto, lo Stagirita insiste soprattutto sulla proprietà privata, che costituisce il punto cruciale per il mantenimento dell’ordine nella poliV. In particolare, egli attacca duramente la condanna platonica della proprietà privata: Platone aveva sostenuto che, in fin dei conti, la fonte di tutti i mali sociali era la proprietà privata, da cui sorgeva ogni forma di conflitto, di invidia e di antagonismo; ora, Aristotele nota che non è la proprietà in quanto tale a causare conflitti, ma piuttosto sono certe modalità di proprietà (soprattutto nel caso in cui vi sono cittadini che dispongono di immense proprietà e altri che sono invece nullatenenti): inoltre, lo Stagirita nota che il collettivismo prospettato da Platone non è in grado di restituire la pace. Dal canto suo, Aristotele è convinto che le conflittualità potranno essere, se non eliminate, certamente contenute nella misura in cui a trionfare sono non le grandi, bensì le piccole proprietà e, con esse, il ceto medio (col che la quale egli anticipa molte tesi moderne), in linea con la tesi, sempre reiterata, della medietà della virtù. Se a prevalere sono le piccole proprietà e il ceto medio, allora viene a cadere la lotta tra la città dei ricchi e quella dei poveri e la società, da piramidale che era, assume la forma di un rombo, i cui vertici sono occupati rispettivamente dai ricchi e dai poveri e il cui popolatissimo centro è invece occupato dal ceto medio. Successivamente, Aristotele sviluppa una tesi che sarà ripresa in età moderna, quella dell’uso sociale della proprietà privata, che non dà diritto assoluto sempre sui propri beni: v’è una dimensione d’obbligo per cui il detentore della proprietà deve pagare certi prezzi. È, in altri termini, un temperamento sociale della proprietà. Aristotele conduce poi un’argomentazione di tipo eudemonistico: una società può stare insieme solamente se tutte le sue parti sono soddisfatte; ma non si può essere soddisfatti se non si dispone di proprietà privata, come attesta ogni esperienza. È infatti grazie alla proprietà privata che si può essere felici, provando la gioia dell’essere liberali con gli amici e con gli stranieri. Aristotele rileva inoltre che Platone sottovaluta la componente eudemonistica della proprietà anche per il fatto che condanna due classi (i governanti e le guardie) ad un’ascesi che è francamente eccessiva. È impossibile che la società sia nel suo insieme felice se le sue parti non lo sono. I punti finora emersi dalla lettura della Politica aristotelica sono essenzialmente due: in primo luogo, abbiamo rilevato come si tratti di una prospettiva evolutiva, tale per cui il momento politico è un punto di evoluzione e, per così dire, di arrivo rispetto alla famiglia. In secondo luogo, abbiamo messo in luce come alla base della politica aristotelica vi sia un’antropologia comunitaria in forza della quale l’uomo è animale insieme politico e socievole: una siffatta antropologia trova la sua più alta espressione nella filia, con la quale si trovano a convergere la felicità e la virtù (infatti la filia politikh è amicizia politica che dà la più grande gratificazione possibile ai cittadini). Dobbiamo ora prendere in esame un terzo punto decisivo, di cui finora non ci siamo occupati: quello riguardante il diritto naturale. In Aristotele, la concezione della giustizia accentua molto il momento eudemonistico (poco marcato in Platone), a tal punto che lo Stagirita così scrive nell’Etica nicomachea [1129 B]: “giusto è ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti”. La connessione qui operata è tra giustizia e felicità, quest’ultima intesa come il prodotto del convergere di azioni che provengono da diversi piani anche diversissimi tra loro. E ancora una volta Aristotele muove da una concezione della giustizia come medietà, più precisamente come medietà tra quei due estremi di cui già Platone (Repubblica, II) aveva colto in pieno l’importanza: il commettere ingiustizia e il subirla. La medietà tra questi due opposti configurantisi come eccessi (commettere ingiustizia significa infatti voler avere di più di quanto spetti, mentre subirla vuol dire avere di meno). Aristotele si sofferma soprattutto sul rapporto intercorrente tra giustizia, legge e uguaglianza, giacché la giustizia è una forma di ordine che presuppone la legge e l’uguaglianza, come egli nota sempre nell’Etica nicomachea [1129 B]. In tale prospettiva, si dirà giusta un’azione nella misura in cui essa instaura una qualche forma di uguaglianza fra gli individui, ancorché Aristotele alluda qui all’uguaglianza come proporzionalità e non come identità o come uguaglianza in senso geometrico. A questo proposito, egli procede a distinguere tra due diversi tipi di giustizia, a seconda di come si instaura l’uguaglianza nella società: da un lato, v’è la giustizia distributiva; dall’altro, la giustizia correttiva, a sua volta suddivisa in commutativa e in riparatrice. La giustizia distributiva è quella che distribuisce un qualche bene a degli individui sulla base del loro bisogno o del loro merito. Quella correttiva, invece, parte da una situazione di uguaglianza e la ristabilisce là dove viene violata (se ad esempio un tale patisce un torto, la giustizia correttiva pone ad esso riparo). Due sono però le modalità della giustizia correttiva: una è volontaria, l’altra involontaria. La prima è la giustizia commutativa (detta anche “giustizia dello scambio”), che presuppone una struttura diadica (vi sono due individui che effettuano scambi fra loro) e orizzontale (tali individui sono sullo stesso piano: non accade più quel che accadeva con la giustizia distributiva, che prevedeva un intervento “dall’alto” volto a distribuire i beni). Sull’altro versante, la giustizia riparatrice (che in epoche successive sarà definita come “giustizia penale”) non prevede azioni volontarie, quali erano quelle della giustizia commutativa (ad esempio, due individui che sul mercato decidono di mettere in atto una transazione): le azioni con cui essa ha a che fare sono invece involontarie e, per capire questo punto, possiamo pensare a un individuo che, al di là della sua volontà, ha subito un torto. La grande dicotomia che soggiace e che dà forma a questo schema della giustizia è quella pubblico/privato: la giustizia distributiva è pubblica, mentre quella correttiva ha a che vedere coi privati (ciò è più evidente se riferito a quella commutativa, meno se riferito a quella riparatrice). Il grande problema contro cui cozza la giustizia distributiva è quello del merito: qual è il merito secondo cui bisogna distribuire i beni? Aristotele è perfettamente consapevole che la nozione di “merito” sia polivoca, cosicché presso gli oligarchici essa è in riferimento alla ricchezza, presso i democratici è in riferimento alla liberalità, ecc. Di fronte a questa situazione, che Max Weber ricondurrebbe nella categoria del “politeismo dei valori”, Aristotele sostiene che il giusto è un qualcosa di proporzionale. Nella sfera della giustizia correttiva, domina non la proporzione geometrica, ma quella aritmetica; infine, nella giustizia commutativa la specificità del giusto è nel suo essere medietà tra gli estremi del perderci e del guadagnarci troppo: così, quando si litiga, ci si reca davanti a un giudice, il quale è “come la giustizia vivente” ed è il mediatore per eccellenza, ossia colui che bilancia tra gli estremi. Ciò detto, Aristotele procede poi a distinguere tra giusto naturale e giusto convenzionale, anticipando la distinzione tipicamente moderna tra giusnaturalismo e positivismo giuridico. Il giusnaturalismo implica, per sua stessa natura, un dualismo dei sistemi normativi per cui il sistema delle leggi naturali è affiancato da quello delle leggi positive. Al contrario, il positivismo giuridico implica un monismo del sistema normativo, per cui ad esistere sono solo le leggi positive (ciò non toglie che, oltre alle leggi giuridiche, ve ne possano essere altre, magari morali: ma, ciò non di meno, queste ultime non hanno valore giuridico). Dal canto loro, i giusnaturalisti dicono che le leggi positive sono giuste e dunque da rispettare esclusivamente se sono in accordo con quelle naturali. Aristotele pone le basi di questa distinzione parlando di un giusto per natura (dikaion fusei) che si può avvertire nei più diversi contesti culturali e che dunque non deriva dai costumi e dagli usi: ma ciò non di meno la legge naturale può essere riconosciuta solo nella poliV, poiché è solo là che, nell’ordine costituito, si coglie la distinzione tra legge positiva e legge naturale. Aristotele pare anche suggerire che fuori dalla città e prima di essa non vi sia diritto naturale e che questo viga soltanto tra i membri di una stessa comunità, il che vuol dire che Aristotele lascia un certo spiraglio al relativismo culturale. Il diritto positivo cambia di città in città, di Stato in Stato, ma quello naturale – dicono i moderni – resta lo stesso per tutti gli uomini: diversamente la pensa Aristotele, il quale riconosce che anche il diritto naturale non è estraneo al gruppo politico e sociale a cui si appartiene. Ed è curioso notare come i Greci, ancor prima della fusiV e del nomoV, abbiano l’hqoV, ossia l’insieme delle norme della tradizione, un insieme organico in cui non v’è ancora distinzione tra giusto positivo e giusto naturale.
Verso Hobbes
Nell’Etica nicomachea [1134 B], Aristotele sostiene che “naturale è quel giusto che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che ad uno sembra buono oppure no”: da quest’asserzione emerge bene l’opposizione tra il giusnaturalismo e il convenzionalismo, quest’ultimo presentato come una sorta di relativismo o di soggettivismo protagoreo. Partendo da qui, possiamo valutare la distanza che separa Hobbes dal giusnaturalismo classico: anch’egli si richiama a più riprese alla legge naturale, ma la intende come un qualcosa che è soggetto alla manipolazione delle preferenze del singolo. Al contrario, il giusnaturalismo greco e, in particolare, aristotelico era fondato su due assunti fondamentali: a) l’ordine eterno della natura è il fondamento di ogni diritto valido universalmente: dunque è l’ordine implicito della fusiV a rendere possibile il discorso sulla legge naturale; b) la ragione umana è l’organo della conoscenza del diritto proprio in forza del fatto che si fonda su quell’ordine naturale di cui abbiamo testé detto. Prima di passare da Aristotele a Hobbes, è bene rilevare come tale concezione della naturalità e della conoscibilità razionale dell’ordine sia stata messa in crisi dal cristianesimo o, meglio, da certo cristianesimo: il suo avvento implica una sorta di sincretismo rispetto alla concezione classica, anche se poi, nel suo significato metafisico originario, si presenta come sfida al mondo greco. Sul piano ontologico, infatti, il cristianesimo muove dalla creazione del mondo dal nulla e dunque non pone l’accento su un ordine eterno della natura, ma piuttosto sul fatto che il mondo e l’ordine stesso sono il frutto di una creazione ex nihilo. Sul piano epistemologico, poi, ne segue un ridimensionamento della ragione naturale: se infatti essa è per Aristotele capace di cogliere intuitivamente l’ordine naturale, per i cristiani essa è invece contraddistinta da limiti intrinseci e la sua sola funzione è quella di ricostruire un ordine e non di riconoscerne uno già esistente. In particolare, passando attraverso il cristianesimo, le posizioni possibili diventano tre: 1) v’è chi assume che ci sia un ordine e che esso sia manifesto alla ragione umana e pertanto coglibile intuitivamente; 2) v’è chi (la scienza moderna in primis) pensa che ci sia un ordine ma che esso sia nascosto e solo parzialmente riconoscibile dalla ragione, cosicché la conoscenza deve combinare un aspetto empirico/sperimentale a uno ipotetico/convenzionale (ad esempio, si sa che c’è un ordine e, per ciò, bisogna avanzare ipotesi convenzionali). 3) Come estremizzazione della posizione precedente, v’è chi crede che non ci sia un ordine che se anche ci fosse non sarebbe comunque accessibile alla conoscenza umana: si approda così allo scetticismo (Montaigne) o alla fede (Pascal) o alla convinzione che l’ordine naturale non esista ma che lo si possa artificialmente costruire (Hobbes). Quest’ultima concezione, in particolare nella sua veste hobbesiana, affonda le sue radici nella scolastica medievale: se Tommaso tenta un sincretismo tra ragione aristotelica e rivelazione cristiana, a far saltare tale sintesi e a preparare il terreno al convenzionalismo hobbesiano sono Duns Scoto e Guglielmo da Ockham, i quali mettono in forse la discussione teleologica cristiana – ereditata da Aristotele – e ritengono indimostrabile che ogni singola azione sia volta a un fine. Comincia in questa maniera a incrinarsi il nesso tra ontologia e assiologia, quel nesso per cui ens et bonum convertuntur: si comincia a mettere in discussione il nesso bontà/onnipotenza divine, alla luce del fatto che la bontà è indimostrabile e pertanto non se ne può derivare il precetto di amare il prossimo. Ponendo al centro la volontà, Scoto e Ockham ritengono che i precetti del Decalogo dipendano direttamente dalla voluntas divina, con la conseguenza che nell’ordine del mondo troviamo non già la ratio, bensì la voluntas: quest’ultima sfugge alla conoscenza razionale. Non v’è allora un ordine naturale che si manifesta all’uomo: al contrario, la conoscibilità riguarda un ordine artificiale, costruito ad hoc e dunque si tratta di conoscenza ipotetico/convenzionale. Così per Hobbes si possono conoscere i corpi politici perché li creiamo noi stessi, ponendo in essi l’ordine: secondo il principio vichiano del verum ipsum factum, si può conoscere solo ciò di cui si è facitori. Fortissime sono le conseguenze che una tale posizione ha sull’etica: il giusnaturalismo classico, da Aristotele a Tommaso, è definibile in base all’affermazione “esistono princìpi di giustizia che sono oggettivamente veri”: ad essi, che configurano un ordine naturale, devono attenersi le leggi positive per poter essere giuste. Il fatto che ci siano leggi naturali colte intuitivamente dalla ragione permette di affermare che essa è in grado di discernere il bene e il male: è questo il “cognitivismo etico”. Dal canto suo, Hobbes è il primo sostenitore di rilievo di una posizione non cognitivista (detta “relativista” dai suoi avversari), il cui terreno è stato preparato dalla riflessione di Scoto e di Ockham: per Hobbes, bene e male sono solo oggetto di preferenze soggettive, cosicché non si possono definire il giusto e l’ingiusto in base al consenso di tutti (consensus omnium), come invece facevano i giusnaturalisti. Inoltre – nota Hobbes – se le leggi avessero origine dal consenso collettivo, allora esse potrebbero anche essere abrogate da tale consenso e ciò le renderebbe alquanto fragili: anche per questo motivo il filosofo inglese non esita a schierarsi contro il giusnaturalismo.
Hobbes
Hobbes introduce la distinzione fondamentale tra diritto naturale (ius naturae) e legge naturale (lex naturae): lex e ius – egli nota – non sono la stessa cosa e tale dicotomia rimanda ad un problema sostanziale che ora esamineremo. Ius naturae è il diritto naturale ed è innanzitutto libertà che appartiene al singolo individuo (ius indica dunque il diritto soggettivo), di contro alla tradizione giusnaturalistica, che era, da Aristotele in poi, olistica e non individualistica. Viceversa, lex è il contrario della libertà, è vincolo collettivo della libertà dell’individuo e rimanda sì ad una prospettiva olistica, più precisamente alla prospettiva artificiale dello Stato. Nella prima parte del De cive, Hobbes si sforza di definire l’ipotetico scenario dello stato di natura, caratterizzato dall’assenza del potere sovrano e, partendo da ciò, egli prova a costruire un’antropologia e poi uno Stato. Nello stato di natura, egli non considera le famiglie (come invece faceva Aristotele), ma gli individui: essi si trovano in una condizione duplice di uguaglianza e di volontà di nuocere (voluntas ledendi). Questi due punti di partenza sono il rovesciamento di quelli di Aristotele, che muovendo dalla famiglia notava come quella originaria fosse una situazione di disuguaglianza (padre/figlio, marito/moglie, padrone/schiavo) e come l’uomo fosse uno zwn politikon mosso da filia. Tanto l’idea di uguaglianza originaria quanto quella di voluntas ledendi, che Hobbes assume come punto di partenza, sono il portato del cristianesimo, ancorché la teoria di Hobbes sia assolutamente laica e stia alla base dello Stato laicamente inteso. Da questi due elementi originari, scaturisce che nello stato di natura, ove si è uguali ma ognuno vuole nuocere agli altri, la condizione umana è di paura reciproca e già Tucidide, del quale Hobbes tradusse da giovane le Storie, poneva tra i fattori della politica il foboV, ossia la paura. Questa costruzione, tale per cui dall’uguaglianza e dalla volontà di nuocere deriva un diffuso stato di paura, è in Hobbes complicata da un’attenta analisi delle passioni: egli cerca di spiegare perché l’uguaglianza porti alla paura e perché ne nasca un terrore pervasivo. Nel terzo paragrafo del cap.1 del De cive, egli dice che la paura reciproca deriva appunto dall’uguaglianza e dalla volontà di nuocere, precisando che “sono uguali coloro che possono fare cose uguali l’uno contro l’altro” e dato che tutti possono uccidere (chi con la forza, chi con la frode), allora se ne ricava che nello stato di natura tutti gli uomini sono uguali. La volontà di nuocere è in tutti, ma non è la stessa per tutti: ci sono i moderati e i prepotenti, e i secondi, in base a un’eccessiva stima di sé, si sentono autorizzati a prevaricare (è ciò che accade, ad esempio, nei Promessi sposi quando è intimato a Fra’ Cristoforo di cedere la diritta); i primi, pur non essendo vanagloriosi, finiscono poi ugualmente per nuocere agli altri per difendere i loro averi e la loro libertà (essi nuocciono per difendersi, sicché sono meno colpevoli rispetto ai prepotenti). Inoltre, Hobbes nota che causa frequentissima del nuocere è che molti desiderano al contempo una stessa cosa che finisce poi nelle mani di chi risulta più forte nella lotta. Pertanto la volontà di nuocere dipende a) dalla prepotenza, b) dalla necessità di difendersi (ossia dalla diffidenza), c) dalla competizione per i beni. Queste tre radici, coagendo con l’uguaglianza, realizzano la situazione di paura che regna nello stato di natura. Però poi Hobbes complica il quadro introducendo un’altra variabile (ed è qui che fa la sua comparsa il diritto naturale): egli infatti sostiene che nello stato di natura gli uomini si perpetrano violenze d’ogni tipo (quaestio facti) e che – qui sta il punto saliente – essi hanno il diritto a farlo (quaestio juris) perché ne va della loro stessa sopravvivenza. In questa prospettiva, il discorso hobbesiano si spezza in una componente descrittiva e in una normativa. Considerati i molti pericoli che minacciano la vita del singolo nello stato di natura, non è affatto biasimevole prendersi cura di sé, cercando ciò che per sé è un bene e fuggendo ciò che è per sé un male. In questi termini, l’uomo è presentato come un animale desiderante il bene (innanzitutto l’autoconservazione) e fuggente il male (innanzitutto la morte) e che così agisce con la stessa necessità con cui una pietra, se lasciata, cade al suolo. Hobbes si propone dunque di analizzare l’uomo con le stesse leggi con cui Galileo studiava il mondo: non è assurdo né biasimevole se ci si adopra per conservare il proprio corpo dai dolori e dalla morte; lo si fa con diritto e il diritto è “la libertà che ciascuno ha di usare delle proprie facoltà secondo retta ragione”. In opposizione alla lezione cristiana, Hobbes dice che tutto ciò che fanno nello stato di natura, gli uomini lo fanno con diritto: oltre ad essere uguali e ad avere certe passioni, essi sono legittimati ad averle e ad agire a quel modo al fine di autoconservarsi. In vista dell’autoconservazione, essi hanno diritto a tutto ciò che serve alla loro autoconservazione: la conseguenza è il bellum omnium contra omnes, ossia una costante guerra di tutti contro tutti. Gli individui sanno di avere il diritto ad ogni cosa (ius ad omnia) pur di autoconservarsi: soltanto l’individuo è giudice dei mezzi che gli occorrono per la propria autoconservazione. Hobbes lascia intendere che uguaglianza e libertà sono concetti alquanto problematici, che finiscono per produrre conflittualità tra gli individui, ciascuno dei quali sa di aver diritto a tutto. Non si può dire che cosa sia giusto per il singolo individuo (qui sta il non cognitivismo etico di Hobbes), giacché soltanto egli è giudice di sé, e talvolta finisce per essere giudice fallibile. Nello stato di natura, la misura dell’azione è l’utilità o, meglio, la valutazione soggettiva dell’utilità: a rendere ulteriormente instabile la condizione che caratterizza lo stato di natura è la fallibilità del giudizio dei singoli. Il loro è dunque un conflitto di identità ancor prima che di beni: l’agire e addirittura il parlare sono il manifestare coi fatti e con le parole la volontà di lottare e di nuocere. In questi termini, Hobbes ha ampiamente dimostrato la contraddittorietà dell’esistenza nello stato di natura: da tutto ciò, egli deduce che si deve uscire da tale stato di natura, essendo in esso continuamente minacciata la sopravvivenza di tutti gli individui. A permettere l’uscita è la lex naturae: la sua presenza indica che, accanto allo ius naturae, nella natura umana c’è la legge di ragione, che suggerisce possibili vie per uscire dalla conflittualità imperante nello stato di natura. Uno dei mezzi di autoconservazione era, per l’appunto, la legge naturale: gli individui, per garantire l’autoconservazione, potevano cioè decidere di darsi leggi che li tutelassero. Ma il ricorso alla lex naturae dipende dall’individuo: sta a lui scegliere se usarla oppure no. Da ciò si capisce come, nella prospettiva hobbesiana, il giusnaturalismo sia utilizzato per poi essere buttato a mare. La legge (da legere, in italiano “legare”) è per sua stessa natura un vincolo alla libertà: quest’ultima, secondo un materialista quale è Hobbes, non è che assenza di impedimento al moto, cosicché la legge si configura come un ostacolo che limita tale moto proibendo determinate cose. Essa opera nella duplice direzione di proibizione (additando quali cose non è possibile fare) e di obbligazione (prescrivendo ciò che si deve fare): ora, il giusnaturalismo non operava una distinzione tanto netta e proponeva soluzioni compromissorie rese possibili dall’assenza di siffatta distinzione e dal fatto che non concepiva gli individui come ostili fra loro e anzi guardava alla sola comunità. La legge di natura cerca di eliminare il conflitto (mentre il diritto naturale lo sortiva come effetto), anche se in fin dei conti non funziona in maniera completa: e se Hobbes vede nel diritto un elemento che produce il conflitto, al contrario per i giusnaturalisti nè la legge naturale né quella positiva, intesa come mera specificazione e rafforzativo di quella naturale, portano a ciò (infatti la legge naturale mi dice di non uccidere, quella positiva mi dice che la pena per l’omicidio è il carcere). Sicchè per i giusnaturalisti la legge naturale è sufficiente per neutralizzare il conflitto: dal canto suo, Hobbes assume una diversa posizione, sostenendo che la sola legge naturale non basta per azzerare il conflitto, giacché essa opera nello stato di natura, in cui vigono sì precetti di legge naturale che proibiscono certi comportamenti (ad esempio mi dicono di stare ai patti, di non essere ingrato, di essere accomodante verso gli altri, ecc), ma ciò non di meno nello stato di natura, data la natura fortemente conflittuale degli uomini, il conflitto è inevitabile e la ragione suggerisce ad ognuno di usare i mezzi ch’egli ritiene adeguati per la propria sopravvivenza. Pertanto il singolo finisce per non rispettare la legge naturale, perché il conflitto è tale da far sì che il rispetto della leggi di natura si volga a suo svantaggio. Per chiarire questo punto, Hobbes cita le relazioni tra gli Stati: essi si trovano in una situazione di perenne stato di natura, hanno il potere sovrano, che non ne riconosce altri superiori, e per ciò se anche stipulano tra loro dei patti, essi presentano la clausola rebus sic stantibus, cosicché quando almeno uno dei due Stati non ha più l’interesse a rispettarli, li infrange. Da ciò si capisce come le leggi naturali obblighino sì l’individuo, ma in foro interiore, nella sua coscienza e mai nei comportamenti esterni. Se tutti fossero moderati, allora le leggi naturali sarebbero sufficienti: ma poiché vi sono anche i prepotenti, che attaccano gli altri, anche i moderati si trovano nella condizione di dover confliggere, per difendersi. Hobbes attribuisce alla ragione un ruolo che non è limitato al calcolo razionale: essa è innanzitutto un mezzo di sopravvivenza, serve cioè come strumento di calcolo per rapportare i mezzi ai fini in maniera tale da garantire l’autoconservazione del soggetto. Ma per dare un contributo che sia realmente tale, la ragione deve anche promuovere l’autoconservazione del gruppo: qui emerge la nozione di recta ratio, la quale si esprime coi dettami della legge naturale e non è più la ragione strumentale che mira unicamente all’autoconservazione del singolo. Essa mira piuttosto all’autoconservazione dell’intero gruppo: è perciò una “ragione morale” e superiore, nel senso che si pone il problema di rendere possibile la convivenza fra individui. Compie il primo passo verso la kantiana “razionalità morale” che induce a riconoscere gli individui come fini, come valori, di contro alla ragione strumentale, che negli individui scorgeva esclusivamente degli strumenti. In realtà si tratta di un processo funzionante solo in maniera ipotetica: se nello stato di natura gli individui seguissero la legge naturale, allora non ci sarebbe alcun problema; ma dal momento che essa obbliga solo in foro interiore, nello stato di natura “nemo tenetur ad impossibilia”, nessuno può cioè mettere a repentaglio la propria vita. Ne segue allora che la legge naturale non risolve il problema, ma indica una via per risolverlo. I singoli si accordano fra loro per lottare contro altri, ma ciò non risolve la situazione, perché la guerra continua a sussistere: bisogna cercare la pace e bisogna rinunciare al proprio diritto di autoconservazione illimitata nella misura in cui vi rinunciano anche tutti gli altri. Se è vero che il diritto all’autoconservazione è impregiudicabile e irrinunciabile, non è altrettanto vero che gli individui debbano sempre mantenere il diritto su tutte le cose (ius ad omnia): occorre trovare un accordo per cui essi mantengano il diritto alla vita ma perdano gli altri, che possono essere trasferiti ad un potere comune e artificiale (il sovrano), il quale è la somma di tutti i diritti in esso trasferiti e serve a tutelare gli individui. Per questo motivo, nello Stato il sovrano non può in alcun caso privare i sudditi della vita, giacché essi sono entrati in esso proprio al fine dell’autoconservazione. La prima legge naturale derivata, secondo la quale bisogna trasferire lo ius ad omnia ad un potere sovrano, è alquanto problematica: tale trasferimento non è infatti immediato, ovvero non c’è una rinuncia immediata in vista di un bene del quale, nello stato di natura, non si ha ancora conoscenza. Sicché Hobbes ci presenta dapprima l’essere umano come diffidente e antisocievole e poi, ribaltando la prospettiva, lo tratteggia come fiducioso nel firmare il patto sociale in vista di un bene che ancora non c’è. Ma v’è anche un altro problema altrettanto serio: finché egli parla dello stato di natura, ci presenta una ragione strumentale e un linguaggio finalizzato all’inganno, cosicché non si capisce perché tale ragione riesca poi, mediante le leggi naturali, a mutare la condizione umana e a configurarsi come ragione morale. Se nello stato di natura non sussistono patti che possano avere validità assoluta, giacché valgono solo con la clausola rebus sic stantibus, allora come si può arrivare ad un patto di tutti in favore del potere sovrano? Ciò comporta infatti che tutti gli individui rinuncino allo ius in omnia in favore di chi è slegato dal patto (da ciò scaturirà che il sovrano, proprio perché slegato dal patto, detiene un potere assoluto, indivisibile, irrevocabile). Le leggi naturali sono riconosciute dalla recta ratio, ma non basta conoscerla: bisogna applicarle e qui sta il difficile. Il problema che Hobbes si pone è quello non già della validità o della giustizia delle leggi naturali, bensì della loro efficacia: ed esse sono efficaci nella misura in cui garantiscono la sicurezza degli uomini. Sicché anche per Hobbes la legge naturale fornisce il fondamento di validità a quella positiva, ma sta poi al potere fornirle l’efficacia: ciò è ben espresso dal motto “auctoritas, non veritas, facit legem”. Dal canto suo, Aristotele ammette che anche le api e le formiche, pur prive di ragione, siano capaci di costruire società al pari degli uomini: in disaccordo, Hobbes nota come siano cose diverse, poiché le aggregazioni degli animali non sono Stati né essi devono essere detti “politici”, in quanto sono tutti volontà distinte che mirano verso il medesimo fine senza che da ciò nasca la volontà unica. Tutto cambia se consideriamo gli uomini, i quali si distinguono per ben sei aspetti: 1) tra gli uomini c’è contesa per onore e per dignità, da ciò nascono l’odio e l’invidia e, da essi, la guerra; 2) l’uomo è animale che si contrappone polemicamente ai suoi simili, pretendendo uno statuto di superiorità al bene privato: in altri termini, per l’uomo non v’è identità tra bene privato e bene comune. 3) Gli animali non vedono difetti nell’amministrazione delle loro repubbliche: invece, alcuni degli uomini introducono novità, ciascuno a modo suo, cosicché scaturiscono le guerre civili. 4) Gli animali mancano dell’arte della parola, la quale suscita i turbamenti dell’animo. Avverso ad ogni forma di retorica, la quale usa la lingua come “tromba di sedizione”, Hobbes nota che la parola umana sa esagerare in maniera tale per cui le descrizioni trapassano in prescrizioni e proibizioni: speranza e paura sono le due molle di questa antropologia. 5) Gli animali non operano distinzioni tra torto e danno: gli uomini, invece, sono tanto più dannosi quanto più si danno all’ozio. Se gli animali non si spingono oltre la battaglia per la fame, l’uomo è vanaglorioso, combatte per una moltitudine di motivi. 6) Il consenso degli animali è naturale, quello degli uomini è artificiale, avviene tramite un patto. La volontà di tutti deve essere unica e perciò ciascuno deve riporre la propria volontà in un singolo: in questo senso, la volontà generale è contrapposta a quella di tutti i singoli. Si fonda così il contrattualismo, anche se in realtà l’idea del patto sociale era già presente nella cultura occidentale fin dal Critone di Platone, opera in cui tale patto è fondato sulla gratitudine per i benefici ricevuti. Nel Medioevo il discorso del patto torna ad essere centrale nella vita prima feudale, poi comunale, giacché si contrattano con l’imperatore i diritti. Nell’ambito di questo dibattito, due erano le principali concezioni del patto: a) c’era chi lo intendeva come pactum societatis, concependo la società come il frutto di un accordo fra gli individui che, stanchi di vivere da soli, si aggregano per vivere insieme, rinunciando a qualcosa per ottenere in cambio qualcos’altro; b) c’era poi chi lo intendeva come pactum subiectionis, sostenendo che la società altro non era se non un aggregato di individui – già formanti un popolo – che si sottomette a un sovrano e, così facendo, genera un impero o un regno, chiedendo, in cambio di tale sottomissione, protezione e obbedienza. Dal canto suo Hobbes, erede di questa tradizione, parla di pactum unionis come unità simultanea dei due patti: gli individui – egli dice – contemporaneamente diventano popolo e si sottomettono a un sovrano. I giuristi partivano dalla lex de imperio, secondo la quale il potere era trasferito dal popolo al sovrano, ma tale trasferimento poteva essere inteso o come concessio o come translatio: nel primo caso, il popolo trasferisce la sovranità al signore in usufrutto, mantenendola sempre come propria e perciò riservandosi il diritto di revocarla; nel secondo caso, invece, si ha un trasferimento del potere, il quale transita dal popolo al sovrano. Nel caso della concessio, il popolo affida al sovrano l’esercizio della sovranità, ma la titolarità resta al popolo; nel caso della translatio, sono ceduti al sovrano sia la titolarità sia l’esercizio del potere. Ora Hobbes, che vive nel pieno della guerra civile e che pertanto si prefigge l’obiettivo di non far sì che essa si ripeta, sa bene come la concessio porti ad una soluzione instabile, giacché nel momento in cui il popolo revoca il potere al sovrano, ecco che scoppia la guerra civile. Tuttavia egli rileva come anche la translatio comporti seri problemi, giacché comporta l’idea che, in origine, ad essere sovrano fosse il popolo, il quale poi cedeva al sovrano titolarità ed esercizio del potere, cosicché esso potrebbe da un momento all’altro tornare sui propri passi. Per evitare che ciò possa verificarsi, Hobbes congegna un patto che sia tale da non potersi più sciogliere: chi cerca di annullarlo, sarà un sedizioso e, in quanto tale, dovrà essere punito dallo Stato. Nel cap.6, Hobbes illustra le caratteristiche del patto sociale e ragiona sulle conseguenze che esso comporta. Già Bodin definiva la sovranità come potere assoluto (nel senso di legibus solutus: l’unico limite erano a suo avviso le leggi divine) e perpetuo, cioè irrevocabile. Però tale tesi era poi minata dalle assunzioni della giurisdizione che faceva riferimento alla lex de imperio. Storicamente, Hobbes ha buone ragioni per essere scettico su molte professioni di assolutismo fatte al suo tempo, giacché in realtà il potere non era realmente assoluto (Bodin stesso lo vede vincolato dalla legge salica): per questo motivo, egli, con la sua costruzione teorica, si propone di fondare in maniera concreta il potere assoluto del sovrano e, per fare ciò, muove dal patto sociale. Quello che egli descrive è un patto che lega le mani a chi lo stringe, rendendolo un patto perpetuo ed assoluto, tale da non poter più essere sciolto una volta che è stato stipulato. Ciò emerge chiaramente nel De cive (VI, 20), quando il filosofo inglese sostiene che il patto è un contratto stipulato da tutti gli individui contemporaneamente e in favore di un terzo che, non vincolandosi al patto stesso, ne resta slegato, cosicché ad esso è garantita assolutezza ed irrevocabilità. In conseguenza di quel patto, il potere sovrano è irrevocabile non solo di fatto, ma anche di diritto: si potrebbe a questo punto obiettare – ed è quel che Hobbes stesso fa – che se tale patto è fondato dal consenso reciproco degli individui, allora esso può essere revocato nel momento in cui a deciderlo sia quello stesso consenso che l’ha statuito. Hobbes smonta questa possibile obiezione rilevando che basta che uno solo non sia d’accordo a revocarlo perché esso sia, di fatto e di diritto, irrevocabile: in altri termini, sarebbe legittimo revocarlo se l’unanimità dei contraenti fosse d’accordo, ma essendo ciò impossibile ne segue che il patto è e resta irrevocabile. Quando tale potere sovrano è affidato non a un sovrano ma ad un’assemblea (il che è possibile, ma di fatto Hobbes opta per la prima possibilità), ecco allora che possono esservi opinioni diverse e varrà il principio della maggioranza, per cui la volontà unica sarà quella della maggioranza, ma ciò varrà esclusivamente quando lo Stato s’è già costituito. Appena quarant’anni dopo Hobbes, John Locke sosterrà la possibilità di sciogliere il potere sovrano: a suo avviso lo stato di natura è – un po’ come per Aristotele – una condizione fondamentalmente pacifica, nella quale tuttavia, mancando un giudice che possa dirimere le contese, possono insorgere conflitti di interessi tra gli individui e qualcuno può indebitamente far sua la proprietà altrui (proprietà che per Locke sussiste già nello stato di natura). Proprio al fine di avere un giudice che impedisca tali soprusi si stipula il patto sociale e si fonda lo Stato. Ben si capisce come, a differenza di Hobbes, Locke non abbia interesse ad instaurare un potere assoluto, ma piuttosto si preoccupi di trovare un giudice che restauri un ordine violato. Da ciò affiora l’idea di come la modernità non possa in alcun caso essere ridotta alla dicotomia Aristotele/Hobbes: la prima grande variante che la contraddistingue è quella rappresentata da Hobbes, la seconda è l’appena citata filosofia politica di Locke, che fa sua una concezione antropologica mediana tra Aristotele e Hobbes. Locke muove infatti dal modello hobbesiano di stato di natura (pur concependolo in maniera piuttosto diversa) e dall’uscita da esso; però poi riconosce, sulla scia di Aristotele, alle leggi naturali una forte capacità impositiva, cosicché ne emerge una concezione liberale del potere e destinata a vincere, nell’età moderna, su quella assolutistica prospettata da Hobbes. Infine, la terza variante della modernità è data da Hume e da Adam Smith: essi non muovono dall’idea del contratto sociale, cercano invece di guardare alla genesi delle società umane e in esse rinvengono delle convenzioni (non dei patti) tra individui, le quali finiscono per produrre stabilità e ordine. Lungi dall’essere costruito artificialmente (come sosteneva Hobbes), l’ordine delle società moderne è cresciuto per evoluzione delle relazioni (divisione del lavoro, specificazione dei bisogni, ecc) che poi creano la simpatia: se infatti intrattengo rapporti di reciproca utilità con un altro individuo, accade poi che col tempo il rapporto assumerà anche qualità morali di simpatia). Ed è interessante come tanto Hume quanto Smith sviluppino questa tesi della benevolenza e della simpatia a partire dal mercato. Tutte queste varianti della modernità, che a tutta prima possono apparire diversissime e perfino autoelidentisi, hanno in comune l’attenzione – tipicamente moderna – per l’individuo. Fatta questa panoramica sulla filosofia politica dell’età moderna, torniamo a Hobbes: il sovrano non si accorda con nessuno, è semplicemente il beneficiario del patto. Quest’ultimo si presenta nei suoi confronti come un dono che gli individui gli fanno e non come un atto di reciprocità che lo coinvolga direttamente (la reciprocità varrà dopo la stipulazione, quando i sudditi saranno tenuti ad obbedire e in cambio avranno protezione del sovrano). Col patto comune, gli individui si vincolano due volte (pactum subiectionis e pactum societatis), cosicché, se anche tutti ci ripensassero e volessero revocarlo, sarebbe il sovrano a opporsi. A questo punto, Hobbes si pone un’obiezione: non si rischia che, essendo assoluto e irrevocabile, il potere sovrano degeneri in tirannide? Essendo svincolato dalle leggi, il sovrano potrà fare quel che vuole? Hobbes nota che, se si dà il potere assoluto a una repubblica democratica, non si va incontro ad obiezioni, ma se il potere sovrano è affidato alla monarchia, allora subito sorgono i problemi, perché il monarca può comportarsi a suo piacimento, da tiranno e da folle. Che lo Stato sia contenuto nella persona del re – rileva Hobbes -, ai più risulta difficile da accettare, anche perché se un uomo godesse di tanto potere, i più vivrebbero in modo miserabile. Egli si propone pertanto di smascherare la tesi secondo cui, essendo sciolto dalle leggi, il sovrano potrebbe atteggiarsi a mo’ di tiranno: lo fa attraverso tre argomentazioni. 1) Anche se può fare ciò legittimamente, senza cioè commettere torto verso i sudditi, non può farlo giustamente, perché va contro il volere di Dio. Sicché (in Hobbes come in Bodin) il potere del sovrano è assoluto ma non a tal punto da liberarlo dal diritto morale di rispettare le leggi divine. 2) Anche se potesse tiranneggiare giustamente, non avrebbe comunque alcun motivo di farlo e di spogliare i cittadini, giacché non gliene verrebbe alcun bene: questo argomento utilitaristico mette in luce come un tale agire sarebbe irrazionale e improduttivo. 3) Il sovrano avrà talvolta la predisposizione ad agire malvagiamente: non è da escludere che il sovrano possa essere un tiranno, però non è limitandogli il potere che ciò cesserà di accadere. Infatti, se ha potere sufficiente per difenderci, allora ne ha abbastanza anche per opprimerci. Da ciò si evince che la colpa è fondamentalmente della natura malvagia degli uomini e non del potere sovrano. Ci può essere prudenza nell’esercizio del potere (così è per gli Stati cristiani), ma ciò è dovuto solo a una strategia e non toglie il fatto che quello del sovrano sia un diritto assoluto. Il titolare del potere deve essere, secondo Hobbes, anche colui che lo esercita: da ciò deriva l’indivisibilità dei poteri – principio contrario a quello, propugnato dal liberalismo, della divisione dei poteri, finalizzata a scongiurarne gli abusi. In questo senso, la teoria di Hobbes può essere interpretata contro le intenzioni del suo autore: egli sostiene espressamente di preferire la forma monarchica (giacché uno solo è più rapido nel prendere le decisioni, evita i conflitti, ecc), ma ciò non di meno dice cose che saranno lette in senso anti-monarchico da autori a lui successivi. Ciò avviene già nel Tractatus logico-polithicus e nel Trattato politico di Spinoza: quest’ultima opera, in particolare, si concentra sulle teorie dello Stato e, fin dal primo capitolo, l’autore va sostenendo che le passioni, lungi dall’essere vizi (come lo concepiva una lunghissima tradizione), sono proprietà essenziali della natura umana. In seguito, Spinoza definisce la virtù del potere come sicurezza, recuperando alcuni assunti di Hobbes: il fine degli individui è l’autoconservazione e,pertanto, il diritto naturale ha – hobbessianamente – a che vedere con essa. Se l’impianto teorico è piuttosto vicino a quello di Hobbes, ciò non di meno Spinoza mette poi in forse il primato della monarchia, ponendo invece l’accento sulla versione democratica del contratto sociale, la quale sarà portata fino in fondo da Rousseau. E proprio nel De cive (cap.12, par.8) troviamo un paragrafo sintomatico di questo passaggio dalla monarchia alla democrazia:Hobbes sta trattando delle opinioni sediziose, le quali producono la dissoluzione dello Stato; tra queste, egli annovera il diritto di giudicare che cosa sia il bene e che cosa il male, sostenendo che tale giudizio non spetti ai singoli, perché la ragione non può stabilire in senso universale ed oggettivo che cosa siano, cosicché, per garantire la stabilità dello Stato, dev’essere il potere sovrano a giudicare che cosa sia bene e che cosa sia male. Anche il diritto di resistenza, del tirannicidio, della divisibilità dei poteri e del fatto che il sovrano stesso sia soggetto alle leggi positive sono messi al bando: e del resto, la stessa proprietà privata, in quanto frutto della ripartizione effettuata dal potere sovrano, può da esso essere revocata. Anche l’ignorare la differenza tra moltitudine e popolo è un gravissimo errore che dev’essere estirpato, poiché produce guerre: ed è proprio da questo punto che si giungerà alla teoria radicale della democrazia. Il popolo è un che di unitario, ha azione e volontà uniche: “anche nelle monarchie il popolo comanda”, scrive Hobbes, “infatti il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo”. La moltitudine è invece una pluralità indistinta e “il re è il popolo”: il potere monarchico è dunque ridotto a potere sovrano della collettività. Sicché Hobbes, argomentando a sostegno del potere e contro le rivoluzioni popolari, apre inavvertitamente spiragli in direzione rivoluzionaria, giacché titolare del potere sovrano finisce per essere un qualcosa che è anteriore alla persona fisica del sovrano: tale è il popolo costituito attraverso il patto sociale. Col suo modello contrattualistico, Hobbes ha allora costituito il grado zero della teoria liberale e, al contempo, di quella democratica: col suo dispositivo teorico, egli riconosce l’ambito della società civile e, nel paragrafo successivo, parla della tassazione e sostiene – in una prospettiva perfettamente razionalistica, tale da tener conto delle esigenze di una nascente società mercantile – che “le ricchezze si producono con l’industria” e “si conservano con la parsimonia”. Così dicendo, Hobbes instaura una teoria della divisione del lavoro tra pubblico e privato. Lo Stato regge la spada che protegge ed è alimentata dal lavoro dei cittadini. Le imposte sono allora il salario per quelli che difendono i beni privati e l’industrialità dei singoli. In questi termini, lo Stato è un “guardiano notturno” (Nozick) che vigila affinché non si verifichino furti e torti, tesi che sarà portata alle estreme radicalizzazioni dai liberali. Ma una tale prospettiva, che sostiene che il popolo è il re, è anche il punto d’avvio per la teoria democratica. Così, Rousseau, che si colloca sulla linea contrattualistica (non a caso la sua opera più celebre si intitola Contratto sociale), è assai critico nei riguardi di Hobbes e di Locke. La stessa filosofia della storia che sta alla base del suo pensiero è diversissima da quella dei due autori inglesi: nello stato di natura – nota Rousseau – gli uomini sono inclini alla benevolenza reciproca e a vivere isolati, senza cercarsi a vicenda se non per soddisfare i bisogni elementari. Essi, anziché muoversi guerra, provano una pietà reciproca e vivono seguendo il sentimento. Dallo stato di natura escono per ragioni contingenti (ad esempio, per via della divisione del lavoro, della crescita demografica, ecc): dal primigenio stato pacifico di appagamento dei bisogni si entra nella società civile, la quale si identifica con la disuguaglianza, la prevaricazione e la corruzione. Se per Hobbes insostenibile era lo stato di natura, per Rousseau tale è la società civile, la quale si presenta pertanto come il male da superare. Il contratto sociale, nell’ottica rousseauiana, è il momento di una possibile rigenerazione della società: anch’egli, al pari di Hobbes, pensa lo Stato come prodotto artificiale e il patto come pactum unionis. Ma la sua è una filosofia della libertà, non dell’ordine. Quando parla del contratto sociale (Contratto sociale, cap.6), egli va sostenendo la necessità di trovare un’associazione “che protegga la persona e i beni di ogni associato”, in maniera tale che ognuno, unendosi a tutti, obbedisca a se stesso e, dunque, resti libero come persona. Il problema è allora quello della preservazione della libertà, intesa come autonomia: se per Hobbes non v’è molta libertà nello Stato (v’è quella dei privati, intesa come assenza di costrizioni, ma non quella politica), al contrario per Rousseau essa è autonomia che rende i singoli autonomi e non eteronomi. Per ottenere un tale risultato, occorre stipulare un patto che (come quello di Hobbes) sia alienazione pressoché totale, in maniera tale che ciascuno si dia tutto e che dunque la condizione di partenza sia la stessa per tutti, senza che qualcuno abbia interesse a renderla onerosa per gli altri. L’alienazione di cui parla Rousseau è però ancora più radicale rispetto a quella hobbesiana, giacchè il filosofo ginevrino sostiene che “chi si dà a tutti, non si dà a nessuno”. In questo senso, ogni forma di dipendenza personale è una forte compromissione della libertà in quanto a autonomia. Sicché il primato spetta alla totalità, non agli individui: l’obiettivo che Rousseau si prefigge è di far stare insieme, in qualche modo, la totalità con la prospettiva individualistica. In Hobbes, c’era forte valenza verticale e gerarchica, in quanto dall’alto il sovrano imponeva ai sudditi (e ciò in forza di un privilegiamento del pactum subiectionis): in Rousseau, invece, c’è privilegiamento del pactum societatis, con la conseguenza di un maggior interesse per la società nella sua orizzontalità. Dall’unione dei due patti (di soggezione e di società) nel pactum unionis deriva – e ciò vale tanto per Hobbes quanto per Rousseau – una forte disattenzione per i diritti dell’individuo, come avranno modo di rilevare soprattutto i liberali. A questo punto, dopo aver fatto una rapida panoramica su alcuni dei principali filosofi politici della modernità, possiamo tentare una schematizzazione. Per quel che riguarda lo stato di natura, lo si può concepire o come un avvenimento storico realmente accaduto oppure come un’ipotesi di ragionamento. Così Hobbes è per la seconda posizione, mentre Locke sostiene che lo stato di natura è realmente esistito e che tuttora esiste nelle popolazioni delle Americhe del suo tempo. Lo stato di natura può poi essere inteso come bellicoso oppure come pacifico: Hobbes è per la prima posizione, mentre Locke e Rousseau si collocano sulla seconda. Infine, si può dire che lo stato di natura è una condizione di isolamento oppure che è una condizione di socialità: sicuramente Rousseau è per la prima posizione, giacché a suo avviso gli individui conducono un’esistenza isolata, unendosi quasi solo per la procreazione e per la crescita dei figli. Più sfumata è invece la posizione di Hobbes: a suo avviso, lo stato di natura non è isolamento, ma neanche socialità in senso positivo; è piuttosto una socialità realizzata in termini profondamente conflittuali. Diversamente, Pufendorf – facendo sua la posizione di Hobbes, ancorché in versione ammorbidita – riterrà che lo stato di natura sia sociale. Anche per quel che invece concerne il patto sociale, si può sostenere che esso sia un fatto storico oppure un’ipotesi di ragionamento: per Hobbes è un’ipotesi, anche se poi nel De cive va in cerca di prove storiche all’interno delle Scritture; similmente, Kant, nel suo scritto Sul detto comune ‘questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi’ (1793) scrive che “questo contratto, detto contratto originario ovvero patto sociale, come coalizione in un popolo di ogni volontà privata e particolare in volontà pubblica e comune non è in alcun caso da presupporsi come un fatto, anzi come tale non è neppure possibile”. Si tratta – nell’ottica kantiana – di una semplice idea della ragione che ha indubitabile realtà pratica, in quanto obbliga ogni legislatore ad emanare le sue leggi così come esse sarebbero potute nascere dalla volontà riuscita di un intero popolo: questa è la pietra di paragone della legittimità delle leggi (è, allora, una quaestio juris). Il patto sociale può poi essere diversamente inteso per le sue modalità d’attuazione: può essere inteso come patto d’associazione (Locke) o di soggezione, oppure come patto d’unione (Hobbes e Rousseau: ma per il primo è trasferimento dei diritti ad un terzo, per il secondo alla collettività di cui l’individuo stesso è membro). Diverse sono poi le tesi in merito al contenuto del patto sociale, a seconda della quantità e della qualità dei diritti che con esso vengono trasferiti: così per Hobbes sono trasferiti tutti fuorché uno, mentre per Locke solo uno (quello di farsi giustizia da sé) è trasferito. Infine, variano i modi di concepire la finalità del patto, a seconda delle concezioni filosofiche generali dell’autore: per alcuni (Hobbes), la finalità è la protezione dell’individuo; per altri (Rousseau), il fine è trasformare gli individui corrotti dalla società (i quali sono assai simili a quelli dello stato di natura di cui parla Hobbes). Per Kant, la finalità è morale, giacché si tratta di migliorare gli individui. Per quel che riguarda il potere sovrano, esso può essere inteso come assoluto (Hobbes e Rousseau) oppure come limitato (Locke e Kant); indivisibile (Hobbes e Rousseau) oppure divisibile (Locke e Kant). Rousseau propugna l’indivisibilità del potere sovrano, convinto che esso scongiuri i particolarismi e i privilegi che ne derivano. Ciò non di meno, egli è e resta libertario, sostenendo l’indivisibilità del potere legislativo, ma facendo dell’esecutivo (di cui sarebbe facile abusare) un che di distinto e di subordinato a quello legislativo (è quest’ultimo, infatti, a dare ordini all’esecutivo). Del resto, per Rousseau l’unico patto è quello d’unione: stipulatolo, il governo è istituito per decisione del corpo sovrano. Infine, il potere sovrano può essere inteso come irreversibile (Hobbes, Rousseau, Kant) oppure come reversibile (Locke, che ammette il diritto di resistenza).
SPINOZA
In una libera Repubblica é lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire ciò che pensa.
SPINOZA
Benedetto ( Baruch ) Spinoza opera in Olanda nella seconda metà del 1600 e , come il collega Hobbes , cercherà di risolvere una volta per tutte il problema , lasciato in eredità da Cartesio , del rapporto tra la res cogitans ( la spiritualità ) e la res extensa ( la materia ) , non rinunciando tuttavia a porsi anche problemi politici con schemi simili a quelli di Hobbes , ma con risultati incredibilmente diversi : Spinoza é uno dei primi grandi teorici della democrazia . Tuttavia , per meglio comprendere la sua filosofia , é opportuno fare riferimento al contesto sociale e culturale in cui egli vive ; come suggerisce il cognome , Spinoza , pur vivendo in Olanda , é un pensatore di origine ebrea e fa parte di quelle famiglie cacciate dalla Spagna in quanto ebree a fine ‘400 , rifugiatesi in Portogallo per poi fuggire anche da lì per via dell’ improvviso assorbimento del Portogallo da parte della potenza spagnola . L’ Olanda seicentesca é stata più volte definita una vera e propria isola di tolleranza : liberatasi dal dominio spagnolo nel 1500 con una lotta dalle valenze sia nazionali sia religiose , era però sconvolta da lotte interne : vi erano i dinamici mercanti di Amsterdam , calvinisti moderati ( si era diffuso l’ arminianesimo ) , che sostenevano il regime repubblicano : erano moderati sia in ambito politico sia religioso ; il loro capo era il famoso De Witt , denominato ” gran pensionario d’ Olanda ” , titolo affine a quello di presidente della Repubblica dei giorni nostri . Contrapposto a questo schieramento moderato , vi era poi quello di Guglielmo D’ Orange , che aveva l’ appannaggio alla suprema carica militare e mirava a realizzare non una repubblica , bensì una monarchia . Egli godeva dell’ appoggio degli artigiani olandesi , i ceti popolari più estremisti tanto sul piano religioso quanto su quello politico . In un primo momento il potere fu in mano al moderato De Witt e l’ Olanda godette di un’ ottima tolleranza religiosa , vissuta in modo singolare : si tratta di una tolleranza religiosa ” per gruppi ” . C’ era in altre parole equilibrio tra le diverse componenti religiose ( ebrei , protestanti , anabattisti … ) . Lo Stato olandese , che si contraddistingueva per essere molto ” leggero ” , riconosceva i vari gruppi religiosi e ogni singolo individuo apparteneva allo stesso tempo allo Stato olandese e alla religione del gruppo di appartenenza . E’ una tolleranza enorme per quegli anni , in cui in Francia veniva revocato l’ editto di Nantes . Era addirittura possibile pubblicare tutti i libri che si volevano senza correre il rischio di incappare nella censura . Tuttavia va detto che questa tolleranza e questa libertà erano riconosciute ai gruppi e non ai singoli : un uomo singolo , di per sè , non era mai totalmente libero e , se allontanato dalla propria comunità religiosa , egli perdeva la libertà . Fu quel che accadde a Spinoza , della comunità ebraica . Egli dimostra grandi doti intellettuali fin dalla gioventù , però manifesta posizioni teoriche incompatibili con la religione ebraica tradizionale e non tarda ad arrivare alla rottura e alla ” scomunica ” , l’ esclusione dalla comunità : da quel momento egli vive come un esiliato in patria : si era infatti olandesi nella misura in cui si apparteneva ad una comunità . Tuttavia Spinoza non si lascia andare e ama frequentare i salotti borghesi e non i filosofi di professione . Nella sua emarginazione egli vive producendo lenti per cannocchiali , attività nella quale gli olandesi primeggiavano e un personaggio come Galileo aveva avuto modo di sperimentarlo creando il cannocchiale ; é tipica della tradizione ebraica che ciascuno debba avere un suo mestiere nel corso della vita . Ecco che Spinoza scelse il settore della produzione delle lenti , un lavoro che , a suo dire , conciliava l’ attività speculativa . Tuttavia la sua non fu solo una necessità , ma anche una scelta : ricevette promesse di importanti incarichi pubblici ma rifiutò sempre sostenendo di preferire la libertà al denaro : da produttore di lenti avrebbe sempre potuto pensare liberamente . Fu una persona molto pacata e tranquilla e , si racconta , l’ unica volta in cui perse la pazienza fu in occasione dell’ assassinio del condottiero De Witt : uscì da casa furibondo , si recò sul luogo del delitto , gremito di rivali e assassini di De Witt e si pronunciò apertamente contro tale azione , rischiando il linciaggio . La filosofia di Spinoza é il punto di incontro tra le più disparate concezioni filosofiche : sullo sfondo c’ é la recente filosofia cartesiana e la filosofia spinoziana nasce proprio come tentativo di risolvere il complesso problema del rapporto tra le due res . Notevole risulta anche l’ influenza del neoplatonico italiano cinquecentesco Giordano Bruno , dell’ antico stoicismo e della religione ebraica . Esaminiamo ora nel dettaglio i contenuti del pensiero spinoziano : il problema da cui nasce e il metodo con cui viene impostata l’ intera sua filosofia , come accennato , é di derivazione cartesiana : l’ impostazione fortemente matematica molto risente della tradizione cartesiana e , più in generale , del secolo in cui Spinoza vive . Il suo testo più importante , non a caso , si intitola Etica dimostrata alla maniera geometrica : la struttura argomentativa dell’ opera é quella dei libri di geometria : compaiono teoremi , definizioni , scoli , corollari . Si tratta di un vero e proprio ragionamento geometrico tipicamente seicentesco . Così come Cartesio spiega la sua filosofia con le 4 regole matematiche del metodo , anche Spinoza illustra il suo pensiero filosofico tramite la geometria . Nel dimostrare l’ etica alla maniera geometrica , Spinoza risulta essere fortemente influenzato dallo stoicismo : già in Cartesio vi era qualche elemento stoicheggiante , tuttavia in lui lo stoicismo non era così massicciamente presente : dall’ opera stessa ( L’ etica dimostrata alla maniera geometrica ) emerge lo stoicismo spinoziano : di tutta l’ opera , infatti , solo l’ ultima parte tratta di etica , mentre nel resto vengono affrontate problematiche metafisiche e gnoseologiche . E’ tipicamente stoica l’ idea che l’ obiettivo ultimo della filosofia debba essere l’ etica , ma che per capire come comportarsi si debba prima delineare la struttura complessiva della realtà che ci circonda ; é dalla struttura della realtà che deve derivare l’ etica : il mondo é così e funziona in questo modo , io mi devo comportare di conseguenza . Ecco che Spinoza , sulle orme degli stoici , dedica all’ etica , che é il vero obiettivo della sua filosofia , solo la parte conclusiva dell’ opera , riservandone i tre quarti a questioni metafisiche e gnoseologiche . Anche quando si parla di metafisica e gnoseologica , l’ obiettivo ultimo rimane l’ etica . E’ indubbiamente un atteggiamento di forte sapore ellenistico . Tipicamente stoico , poi , é il contenuto stesso dell’ etica : per raggiungere la felicità si deve ricercare la tranquillità , la quale deriva dal conformarsi all’ andamento razionale e necessario della realtà . Come dicevamo , in Spinoza vi é anche la matrice bruniana : l’ intera realtà , dice Spinoza sulla scia di Bruno , é il risultato di una derivazione da un unico principio : tutto ciò che ci circonda e che ci pare indubbiamente molteplice deriva in verità da un’ unica cosa , di cui é manifestazione . Ancora più bruniana é la convinzione di Spinoza secondo la quale questo derivare non sia tanto un uscir fuori dal principio , quanto piuttosto un autoarticolarsi interno del principio stesso : la realtà non esce dal principio ( come avevano detto Plotino e Cusano ) , bensì vi é un autoarticolarsi interno del principio stesso che manifesta le sue articolazioni ( come aveva detto Bruno ) . C’ é poi sullo sfondo della riflessione spinoziana anche la matrice ebraica : la concezione bruniana era monistica , ossia tutte le contrapposizioni nella realtà venivano superate con la coincidenza degli opposti : per Bruno l’ universo é unico e non presenta i dualismi qualitativi : vi é un’ unica forma e un’ unica materia e non c’ é neanche distinzione tra forma e materia . Qualcosa di simile vi é anche nella concezione spinoziana , ma il monismo assume in lui una coloritura ancora più netta che in Bruno per via della matrice ebraica : l’ ebraismo ha sempre insistito sul carattere unitario di Dio senza accettare la Trinità ; ecco allora che Spinoza risente di quest’ idea fortemente monistica . Dobbiamo fare una precisione prima di entrare nel merito della filosofia spinoziana : sembra che la filosofia di Spinoza sia una pura e semplice commistione delle più bislacche e diverse concezioni filosofiche , nient’ affatto innovatrice . In un certo senso é anche vero , tuttavia rimescolando le varie fonti filosofiche , il prodotto finale del pensatore ebreo é quanto mai originale e innovativo . La sua indagine filosofica , in modo analogo a come si fa in geometria , parte da una definizione : egli esamina la definizione di sostanza data qualche anno prima da Cartesio , il quale l’ aveva in buona parte mutuata da Aristotele ; lo Stagirita aveva definito come sostanza tutto ciò che per esistere non ha bisogno di nient’ altro all’ infuori di se stesso , ponendo così una netta distinzione tra le sostanze e quelli che lui chiamava accidenti : la terra é una sostanza , non ha cioè bisogno di nessuno all’ infuori di sè per esistere ; il marrone invece é un accidente , diceva Aristotele perchè per esistere ha sempre bisogno di una sostanza cui riferirsi : la terra é marrone ; il marrone esiste solo abbinato a sostanze marroni , ha cioè un’ esistenza ” parassitaria ” . Dopo di che Cartesio aveva ripreso questa definizione di sostanza apportando però delle modifiche impostegli dalle sue credenze religiose ( era cattolico ) : sostanza é tutto ciò che per esistere non ha bisogno di null’ altro all’ infuori di sè e di Dio . Sì , perchè per Aristotele il mondo é eterno e increato , per Cartesio ( e per gli altri cristiani ) é Dio che lo crea : quindi la terra per esistere non ha bisogno di null’ altro all’ infuori di sè e di Dio che la genera con la creazione . Ora Spinoza , muovendo dalla definizione cartesiana , accostata a quella aristotelica , non può far altro che riscontrare come Cartesio sia caduto in contraddizione ; la definizione di Aristotele era di per sè assolutamente perfetta e Cartesio , aggiungendo l’ intervento divino per non entrare in conflitto con la Chiesa , é caduto in errore : la definizione aristotelica , se accettata , va accettata fino in fondo , senza modifiche . E così fa appunto Spinoza : sostanza é tutto ciò che per esistere non ha bisogno di nulla all’ infuori di sè . Però questa definizione porta Spinoza laddove Cartesio aveva avuto timore di finire : se esiste solo ciò che per esistere ha bisogno solo di sè , allora esisterà solo Dio ; la res cogitans e la res extensa non possono più esistere così ( l’ aveva anche intuito Cartesio ) e l’ unica a permanere sarà la res divina . Esiste quindi per Spinoza un’ unica sostanza ( Dio ) e se sostanza é ciò che per esistere non ha bisogno di nulla all’ infuori di sè , vuol dire che non vi é nulla che possa ammettere limiti alla sostanza : la sostanza c’ é , é unica ( solo Dio può esistere senza bisogno di nulla all’ infuori di sè ) ed é infinita perchè nulla può limitarla e di conseguenza essa può occupare l’ intero spazio a disposizione ( che é infinito ) . Cartesio ammetteva 3 sostanze perchè con la correzione alla definizione aristotelica poteva considerare sostanze anche la res cogitans e la res extensa , e si era imbattuto nell’ insormontabile problema del rapporto tra res cogitans e res extensa ( come possono tra loro avere contatti la realtà spirituale e quella materiale ? Come é possibile che se metto il braccio materiale sul fuoco sento con l’ anima il caldo ? Ci deve per forza essere un contatto e deve avvenire per urti perchè lo prescrive il meccanicismo : ma come fa il corpo ad entrare in contatto per urti materiali con l’ anima che é immateriale ? ) ; ora Spinoza , riprendendo la definizione di sostanza data da Aristotele , fa sparire la res cogitans e la res extensa : la sostanza é solo ciò che per esistere ha bisogno di sè e di null’ altro , ma allora solo Dio ( res divina ) é sostanza e quindi esiste , perchè solo Dio può dar vita a se stesso . Esaminiamo ora meglio il carattere inifinito della res divina spinoziana , tenendo sempre presente Giordano Bruno : l’ infinità di Dio é assoluta , ossia investe tutti gli infiniti aspetti in cui può manifestarsi : l’ infinitezza di Dio non si può risolvere in infinitezza spaziale ( Dio é dappertutto ) perchè si tratterebbe allora di un assolutismo relativo , ma deve manifestarsi sotto tutti gli aspetti possibili . Nicola Cusano sosteneva l’ infinitezza di Dio e dell’ universo giocando con metafore geometriche : ben emergeva come l’ infinitezza di Dio ( proprio perchè si tratta di Dio , il principio supremo ) deve essere totale : infinitamente grande , infinitamente buono , infinitamente misericordioso , ecc. La res divina , spiega Spinoza riprendendo in parte Cusano , é assolutamente infinita ( é l’ unica sostanza esistente e non c’ é per questo nulla che la limiti ) e in quanto tale non é infinita solo in modo relativo , ma sotto tutti gli aspetti : e per definizioni questi aspetti non possono che essere infiniti ( estensione , bontà , grandezza , ecc. ) . L’ unica infinita sostanza é dotata , dunque , di infiniti attributi , ossia di infiniti aspetti : questi aspetti valgono allo stesso tempo in termini ontologici e gnoseologici : la si può conoscere sotto infiniti aspetti perchè ontologicamente presenta infiniti aspetti . Tra questi aspetti presenterà indubbiamente l’ estensione ed il pensiero , ossia l’ infinità di spazio e di pensiero ; questi sono solo due degli infiniti attributi ; e tutti gli altri quali sono ? Noi non possiamo saperlo , dice Spinoza , ma sappiamo comunque quanti sono ( sono infiniti ) . Ognuno di questi infiniti attributi é a sua volta infinito : Dio ( la sostanza ) avrà quindi infiniti attributi , di cui conosciamo lo spazio e il pensiero e ognuno sarà infinito : occuperà uno spazio infinito e avrà un pensiero infinito . Ma dire che ciascun attributo é infinito vuol dire che ha infiniti modi di manifestarsi : l’ estensione della sostanza infinita é infinita e può manifestarsi in un’ infinità di modi . Occorre però specificare , per non cadere in errore , che modi e attributi ( 2 cose ben diverse ) non sono sostanze : l’ unica sostanza é la res divina , Dio . Proprio perchè infinita , la sostanza presenta infinite manifestazioni e infiniti sono i modi , le singole maniere di manifestarsi . Per esempio , i modi dell’ estensione sono tutti quei modi in cui l’ estensione può manifestarsi . I modi del pensiero , spiega Spinoza , sono le singole idee e le singole menti : ciascuno di noi é un modo di manifestarsi dell’ unica sostanza . Ma perchè l’ uomo , degli infiniti attributi di Dio , può solo conoscerne due , cioè l’ estensione e il pensiero ? Perchè sono gli unici due che gli competono , ossia quei due attributi che sono presenti in quel modo di manifestarsi della sostanza che sono gli uomini : il pensiero e l’ estensione , che Cartesio aveva chiamato res cogitans e res extensa ; tutti gli altri attributi , che sappiamo essere infiniti , non possiamo neanche immaginarli perchè con essi non abbiamo rapporto . Con la questione dell’ unica sostanza ( Dio , la res divina ) , alla quale Spinoza é approdato seguendo la definizione di Aristotele , si eliminano le due res cartesiane , che fungevano da vere e proprie sostanze distinte , per lasciar spazio ad una sola sostanza : ecco quindi che estensione e pensiero non sono più due sostanze ( come era in Cartesio ) , ma diventano due attributi differenti della medesima sostanza ; essi non sono più due cose differenti , bensì sono due aspetti differenti della stessa cosa ( Dio ) : sono cioè due distinti modi di manifestarsi e di essere conosciuta della res divina ( l’ unica sostanza ammessa ) ; il che comporta che quello che avviene nella sostanza sotto un attributo sia identico a quello che avviene sotto l’ altro attributo : ma come funziona il processo misterioso del contatto tra anima e corpo , per via del quale quando poggio la mano su una superficie calda sento il calore con l’ anima ? Ciò che avviene nel corpo é esattamente quello che avviene nell’ anima ( sono due aspetti dell’ unica sostanza ) , ma in modo diverso : é la stessa cosa vista da due diversi punti di vista , dal punto di vista corporeo e da quello spirituale . Tra pensiero ed estensione , dunque , non può esservi alcun rapporto di causa – effetto : non é un impulso del corpo che muove l’ anima e non é un impulso dell’ anima che muove il corpo . Tuttavia quando io penso con l’ anima di alzare il braccio , esso si alza effettivamente , quasi come se vi fosse un rapporto di causa – effetto ! Cartesio doveva in qualche modo spiegare la questione ricorrendo ad un fatidico incontro tra le due sostanze ; Spinoza , invece , non vedendo le due res come sostanze , può dire che l’ alzata del braccio in seguito al pensiero di alzare il braccio in realtà sono un solo fenomeno visto sotto due diversi punti di vista , quello spirituale del pensiero e quello corporeo : sotto quello spirituale si coglie la volontà di alzare il braccio , sotto quello dell’ estensione si osserva l’ alzarsi fisico del braccio . Si tratta però di una ed una sola modificazione dell’ unica sostanza sotto due diversi punti di vista , i soli degli infiniti che noi possiamo conoscere . E tutto questo avviene non nell’ io cartesiano , bensì nella sostanza divina ( res divina ) : quello che Cartesio chiamava ” l’ io ” , non é altro , come qualsiasi cosa , che una manifestazione dell’ unica sostanza divina . E’ , evidentemente , una concezione fortemente panteistica , vi é cioè un’ identificazione netta tra la sostanza che ci circonda e Dio , il quale si autoarticola e non può essere un Dio creatore quale é quello tradizionale . Spinoza riesce dunque in qualche maniera a risolvere il problema di Cartesio del rapporto tra res cogitans e res extensa : i modi della res cogitans corrispondono a quelli della res extensa , sono la stessa cosa vista sotto un altro profilo . Per definire la concezione spinoziana potremmo inventare una metafora di forte sapore leibniziano : é come se avessimo un orologio in cui é possibile leggere l’ ora da una parte o dall’ altra , sulle due facce : dal momento che le lancette risultano essere visibili anche sul di dietro ed essendo le stesse , viste da una parte o dall’ altra non cambia proprio nulla , se non il punto di vista : così sono il pensiero e l’ estensione , i cui modi corrispodono perfettamente tra loro ; l’ ordine e la successione delle idee corrispondono all’ ordine e alla successione dell’ estensione . La nostra mente stessa , dice Spinoza , é un’ idea ; egli fa altresì notare che i modi del pensiero sono le idee , quelli dell’ estensione sono i corpi . Da questo deriva una gnoseologia : come faccio a conoscere il libro che mi sta di fronte ? La risposta data da Spinoza é che lo conosco in quanto conosco la modificazione che il libro produce sul mio corpo ; toccandolo con la mano , infatti , esso produce una modificazione sul mio corpo , ma si tratta di una modificazione che investe anche il mio pensiero : c’ é la sensazione tattile che arriva a colpire anche l’ ambito del pensiero : proviamo a chiudere gli occhi e a toccare qualcosa : é come se dal contatto fisico risultasse coinvolto anche il pensiero , che si immagina cosa sta toccando il corpo . Ma questa maniera di conoscere ” sensibile ” é solo la forma più elementare di conoscere , il livello meno elevato , dice Spinoza . Dobbiamo però fare alcune osservazioni : il problema cartesiano aveva due sfumature diverse : da un lato il rigoroso meccanicismo di Cartesio gli impediva di far entrare in contatto tra loro la res extensa e la res cogitans : se tutto avviene per urti , come prescrive il meccanicismo , come é possibile che il corpo entri in contatto con l’ anima , che per definizione é immateriale ? Ci deve però essere un contatto , altrimenti come si spiega che toccando con la mano il calore , lo sento con l’ anima ? Ma rimane assurdo parlare di contatto per urto tra il corpo e l’ anima . Ma vi era poi un altro problema insormontabile nel dualismo cartesiano : come possono entrare in contatto due realtà tanto diverse , la materia caratterizzata dal più rigido determinismo , e l’ anima , la cui prerogativa é il libero arbitrio ? Non si tratta certo di un problema da poco . Se messe in contatto ( ammesso che lo si possa fare , visto che il meccanicismo presenta la contraddizione prima illustrata ) , le due realtà si inquinerebbero a vicenda . Dopo aver superato il problema delle due res sottolineando come la sostanza sia una sola ( res divina ) e le altre siano solo modi , Spinoza deve ora superare la problematica dell’ eterogeneità presente tra pensiero ( dove vige il libero arbitrio ) ed estensione ( dove vige il determinismo , ossia la necessità : dato un fatto A ce ne deve per forza essere uno B ) : l’ unica sostanza ( res divina ) dovrà avere un unico meccanismo di funzionamento e Spinoza , dovendo scegliere se attribuirle la libertà o il determinismo , opta per il secondo : la sostanza funziona in modo puramente deterministico , cosa peraltro molto evidente nell’ estensione ( uno dei suoi infiniti modi ) , un pò meno nel pensiero ( un altro dei suoi infiniti modi ) . Tutto questo porta Spinoza ad ammettere il meccanicismo nell’ ambito dell’ estensione , ossia a vedere il mondo fisico come una grande tavola da biliardo dove tutto avviene per contatto fisico ( siamo nel 1600 , il secolo della fisica matematizzata ) , ma anche , seppur in modo diverso , nell’ ambito del pensiero : ci sarà una concatenazione necessaria delle idee analoga alla necessaria concatenazione dei fatti fisici ; tuttavia , é evidente , la concatenazione non sarà in termini fisici , perchè sarebbe assurdo parlare di urti materiali tra idee , bensì in termini metafisici . Per Spinoza tutto procede necessariamente e il libero arbitrio non esiste . Ecco allora che si spiega lo strano titolo dell’ opera spinoziana più importante , l’ etica dimostrata alla maniera della geometria : egli la intitola così non solo perchè intende dare una veste matematizzata tipicamente seicentesca al libro , ma perchè é convinto che tutto , compresa l’ etica , avvenga in modo necessario , alla pari di una dimostrazione geometrica . Non a caso , nel corso dell’ opera , egli afferma che gli infiniti modi della sostanza derivano da essa allo stesso modo in cui dall’ essenza del triangolo derivano i suoi teoremi stessi : tutto avviene necessariamente , compresa la derivazione dei modi dalla sostanza e questo colloca indubbiamente Spinoza nel 1600 , il secolo della matematica e della fisica . Ecco quindi che si può tranquillamente costruire un’ opera di etica allo stesso modo in cui si dà vita ad un libro di geometria proprio perchè gli infiniti modi della sostanza derivano da essa allo stesso modo in cui dall’ essenza del triangolo derivano i suoi teoremi stessi . La metafora del triangolo spiega bene come il derivare dei modi e degli attributi dalla sostanza non sia un venir fuori alla Plotino , come un torrente da una sorgente , bensì si tratta di un autoarticolarsi interno alla Bruno : per dirla con Cusano , i teoremi del triangolo sono complicati nell’ essenza stessa del triangolo e si esplicano per un’ autoarticolazione interna al triangolo : non vi é alcun uscir fuori dal triangolo nè dalla sostanza . Con questa concezione della sostanza in termini necessari , però , sparisce il tempo : prendiamo l’ esempio del triangolo ; quando dico che i teoremi derivano necessariamente dalla sua essenza , questo derivare é nel tempo o fuori dal tempo ? In realtà é l’ una cosa e l’ altra perchè quando dimostro il teorema , lo faccio nel tempo , ma si tratta comunque di un tempo soggettivo ; i teoremi però derivano dall’ essenza stessa del triangolo e quindi sempre ci son stati e sempre ci saranno proprio perchè presenti nell’ essenza stessa del triangolo . E’ proprio il derivare necessariamente che implica l’ atemporalità del processo : il tempo non c’ é perchè se si sa già ( proprio perchè avviene in modo deterministico ) quello che sarà ( il futuro ) , il futuro non c’ é più perchè il futuro , per definizione , c’ é quando non c’ é ancora : una cosa é futura quando non c’ é , ma ci sarà ; ma se tutto é determinato necessariamente , come dice Spinoza , il futuro non c’ é perchè é già nel presente : so già adesso come andranno le cose in futuro perchè tutto avviene necessariamente secondo una concatenazione causale ( da un fatto A uno B , da un fatto B uno C , da un fatto C uno D , e così via ) . Il concetto di futuro , poi , é strettamente connesso con quello di libertà di scelta : dove tutto é già determinato il futuro non c’ é perchè é già adesso , non vi é la libertà e non vi é più il tempo perchè tutto quello che sarà lo so già adesso . E’ vero che io dimostro nel tempo , però tiro fuori dal triangolo qualcosa che era già di per sè nel triangolo : non vi é novità alcuna ( solo dal punto di vista soggettivo può esserci ) . Ecco allora che , in assenza del tempo , l’ uomo deve vedere le cose non come se nel tempo , ma sub specie aeternitatis , sotto l’ aspetto dell’ eternità . Nell’ ambito del meccanicismo si potrebbe , come fece notare nel 1800 La Place e come ha intuito Spinoza , sapere esattamente cosa avverrà per l’ eternità , visto che tutto é già determinato . Ma perchè Spinoza , arrivato al bivio cartesiano , sceglie il determinismo e non la libertà ? Egli , come sempre , parte da una definizione : la sostanza é una e infinita ed é perfetta proprio perchè non manca di nulla ( per dirla con Parmenide ) : ora il Dio di Spinoza ( che é la sostanza , la quale é il mondo ) , deve per forza avere due caratteristiche : 1 ) non può essere libero perchè il poter scegliere di comportarsi così anzichè cosà sarebbe un’ imperfezione ; così come quando ho un’ espressione algebrica , il risultato non mi può dare sia uno sia due , bensì , nella sua perfezione , mi deve dare uno solo dei due , così la sostanza ( che in fondo può essere vista come una grande espressione ) non può che funzionare in un modo ( perfetto ) : non ha libertà e proprio per questo é perfetta . 2 ) Non può agire in modo finalistico : le religioni tradizionali di Dio dicono sempre che agisce liberamente perchè può tutto e che agisce in vista di un bene ( ha un fine ) . Il Dio di Spinoza non agisce liberamente e non può neanche avere un fine perchè avere un fine implica la mancanza di qualcosa , il desiderarlo e agire in modo da ottenerlo : pensiamo alle concezioni tipicamente finalistiche , l’ eros platonico o il mondo aristotelico , concezioni secondo le quali si muoveva verso un fine proprio per supplire a delle mancanze . Ma Dio non può mancare di qualcosa e quindi non ha fini , bensì agisce in termini deterministici proprio perchè agisce in maniera razionale . La sostanza é Dio stesso : tutto ciò che ci circonda , quindi l’ intero universo , é Dio stesso : Deus sive natura , Dio ovvero la natura stessa : é una concezione più panteistica di tutte quelle fino ad ora affiorate nella storia della filosofia : non a caso c’ é stato chi ha parlato di pancosmismo , sottolineando che , se é vero che il mondo si identifica in Dio , é altrettanto vero che Dio si identifica nel mondo : la res divina viene sostanzialmente ridotta al mondo intero e la concezione spinoziana può quindi essere detta pancosmica . Certamente , poi , il Dio di Spinoza non é il Dio persona di cui parlava Pascal , ma é quello dei ” filosofi e degli scienziati ” , dimostrabile con la ragione . E’ interessante notare come in età romantica ci sia stato un acceso dibattito a riguardo di Spinoza dove emersero posizioni a favore del filosofo ebreo : si vedeva infatti un divinizzarsi totale dell’ universo . Tuttavia non mancarono anche gli atteggiamenti di rifiuto alle posizioni spinoziane : il Deus sive natura , infatti , può essere visto come la più radicale affermazione dell’ ateismo : Dio é il mondo intero , ma é come se Egli sparisse nel momento in cui diventa il tutto perchè non ha libero arbitrio e non agisce secondo fini . Certo agisce razionalmente , ma questo non significa che effettui una scelta razionale tra due possibili cose , non é il Demiurgo di Platone che sceglie tra le varie cose e muove verso un fine : la razionalità secondo cui agisce il Dio spinoziano , infatti , é la stessa secondo cui i teoremi del triangolo derivano dall’ essenza stessa del triangolo : certo é un derivare razionale , ma é evidente come non vi sia nè libertà nè finalità alcuna : d’ altronde , come abbiamo già spiegato , la definizione stessa di Dio implica la sua perfezione e una cosa che possa scegliere non può essere perfetta , perchè l’ idea della scelta in un certo senso implica che chi sceglie possa cadere in errore : la cosa giusta da fare é una sola e Dio non può far altro che compiere quella senza libertà alcuna . Così dicendo , Spinoza fa definitivamente cadere il concetto di possibilità : non c’ é possibilità alcuna nella res divina e tutto avviene necessariamente e , quindi , razionalmente : e dato che tutte le cose esistenti sono modi dell’ unica sostanza , allora nel mondo non esiste la possibilità e tutto procede razionalmente e necessariamente . Altro segno di perfezione é l’ agire in base a cause efficienti e non finali : la causa efficiente implica la necessità assoluta ( da un fatto A , uno B ) , quella finale comporta invece la mancanza , l’ agire in vista di qualcosa di cui si é sprovvisti : non a caso Pico della Mirandola faceva notare come sia contradditorio attribuire l’ eros platonico a Dio : si ama qualcosa di cui si é sprovvisti , ma Dio é perfetto , non manca di nulla e quindi non può amare ; vale lo stesso discorso per le cause finali : Dio non manca di niente perchè lui stesso é tutto e quindi non muove verso fine alcuno . Ecco allora che Spinoza sostiene che la sostanza agisce esplicando in modo necessario la propria razionalità . Ma se Dio non ha fini nè libertà , allora anche l’ uomo non può averne proprio perchè é manifestazione ( modo ) della sostanza , come qualsiasi altra cosa esistente . Però , almeno in apparenza , sembra proprio che l’ uomo abbia sia fini sia libertà : può infatti scegliere liberamente di perseguire i suoi fini . Ma Spinoza fa notare come le cose non stiano così : il credere di essere liberi e di agire secondo fini é un errore dovuto all’ ignoranza dell’ uomo , che é portato a ritenere libere e finalizzate le proprie azioni per il semplice motivo che ignora la concatenazione causale necessaria che muove ogni cosa : l’ uomo , in altre parole , non si rende conto di essere parte del tutto ( Deus sive natura ) , ma é convinto di avere esistenza autonoma . In realtà , spiega Spinoza , ogni singola azione e ogni comportamento é governato dalla concatenazione delle cause necessarie della res divina . L’ uomo , pensando di essere una entità a se stante e autonoma , crede ( a torto ) di essere libero e di poter agire secondo fini : voglio andare a vedere una mostra , decido di andarci e vado : questo é il classico ragionamento degli uomini per dimostrare la loro libertà di perseguire i propri fini . Ma in realtà le cose non stanno così : io vado a vedere la mostra non perchè ho liberamente scelto di adempiere quel fine ( come si é generalmente portati a credere ) , ma perchè coinvolto dalla inevitabile concatenazione delle cause : ho letto un foglio che parlava di tale mostra , nel mio cervello si é innescato un complesso meccanismo che fa muovere il corpo che mi conduce a vedere la mostra : ho agito puramente secondo cause meccaniche e necessarie , senza alcun fine . L’ errore del finalismo consiste in un errore di prospettiva , nell’ anticipare quello che avverrà , quasi come se fosse un obiettivo : ma in realtà non vado là perchè così ho deciso , bensì perchè agisco secondo cause necessarie . Spinoza si avvale di argomentazioni simili per quel che riguarda i miracoli : essi , secondo la tradizione , sono stravolgimenti improvvisi da parte di Dio delle leggi fisiche ; Dio infatti solitamente non agisce sul mondo ; dà leggi alla natura ( le leggi fisiche ) ed essa agisce secondo quelle leggi : é quindi possibile studiare il mondo senza tener conto di Dio , come sosteneva Telesio . Il miracolo consiste proprio in un inusitato intervento di Dio il quale stravolge le leggi fisiche da lui introdotte e agisce come causa prima sul mondo , ossia in modo diretto . Di fronte ai miracoli ci si può atteggiare in due modi diversi , accettandoli o rifiutandoli , ma Spinoza adotta una soluzione alternativa : quelli che comunemente chiamiamo miracoli ci sono , ma non sono miracoli ; Spinoza non intende mettere in discussione la veridicità storica di certi eventi biblici quali l’ apertura delle acque del Mar Rosso , ma vuole dimostrare come questi fatti insoliti non siano stravolgimenti delle leggi fisiche da parte di Dio : la definizione stessa di Dio é quella di ente perfetto che agisce perfettamente ( secondo necessità ) : ma se é perfetto e agisce perfettamente , perchè mai dovrebbe intervenire sulle leggi fisiche da lui introdotte quasi come se volesse correggerle ? Se é perfetto le leggi fisiche non possono che essere perfette e non necessitano di modificazioni . Va poi ricordato che , nella concezione panteistica di Spinoza , Dio e le leggi di natura ( Deus sive natura ) coincidono . Se Dio é perfetto ( e lo é per definizione ) , il miracolo non può esistere perchè sarebbe una prova dell’ impotenza divina incompatibile appunto con il concetto di perfezione . Il miracolo non esiste e quelli che nelle Scritture vengono fatti passare per tali , spiega Spinoza , non sono altro che fatti rarissimi , tanto rari da apparire veri e propri stravolgimenti delle leggi fisiche ; in realtà essi rientrano totalmente nella razionalità del tutto ed é l’ uomo , con la sua ignoranza , che non sa coglierne i motivi razionali e le cause necessarie . L’ identificazione Dio-universo ha importanti conseguenze sulle teorie etiche spinoziane ; molte teorie egli le mutua dalla tradizione stoica , come peraltro da essa aveva mutuato l’ idea della coincidenza della libertà con la necessità . L’ uomo deve eliminare le passioni e per far questo deve prendere atto della razionalità che governa il tutto fino ad assimilarsi con lo scorrere razionale del tutto stesso . Questa teoria può vagamente ricordare quella dell’ omoiosis qeo ( l’ assimilazione a Dio ) di Platone . Tuttavia in una filosofia come quella di Spinoza ( e così era anche per Bruno ) diventare Dio significa rendersi conto di essere Dio : l’ uomo é infatti un modo dell’ unica sostanza ( Dio ) e l’ ” indiarsi ” consiste proprio nell’ intuire l’ identificazione Dio-natura-uomo ; Spinoza parla di amor Dei intellectualis , un vero e proprio slancio di amore e di intelletto verso Dio , un qualcosa di assai simile all’ eroico furore di Giordano Bruno : con questo slancio amoroso e intellettuale verso Dio mi assimilo all’ unica sostanza , ossia divento ciò che già ero , rendendomi conto di non avere esistenza autonoma : arrivo a vedere che ogni cosa , anche la più irrazionale , se vista dall’ ottica del tutto , avviene secondo ragione e necessità e da questa constatazione ottengo la tranquillità d’ animo . Ognuno di noi non deve diventare Dio perchè lo é già , ma deve rendersi conto di esserlo perchè , fin tanto che non se ne accorgerà , non sarà pienamente Dio : bisogna riuscire a diventare ciò che si é già , per dirla con Nietzsche . Ed é proprio rendendosi conto di essere Dio che l’ uomo può raggiungere l’ annientamento delle moleste passioni e dei turbamenti . Bisogna eliminare il pentimento ossia il dolore che si prova nel momento in cui si rimpiange di non essercisi comportati diversamente , avendo optato per qualcosa di peggiore : il pentimento comporta nella sua stessa natura un duplice errore : il credere di potersi comportare diversamente , quasi come se si avesse libertà di scelta é il primo grossolano errore dovuto all’ ignoranza umana : tutto avviene necessariamente e non c’ é spazio per la libertà . Il secondo errore , altrettanto grave e connesso al primo , consiste nel credere di aver scelto la via sbagliata : il primo errore é credere di poter scegliere , il secondo é pensare di poter scegliere la via sbagliata : la ” scelta ” fatta , per definizione , era quella buona , dettata dalla catena causale e necessaria . Nell’ idea di pentimento , fa notare Spinoza , é implicito il finalismo : per ottenere quello scopo mi sarebbe convenuto agire così … ma la scelta fatta é necessariamente quella giusta in termini meccanici e causali , quella che segue la razionalità del tutto : a me potrà anche sembrare di aver agito scorrettamente , ma se mi metto nell’ ottica del tutto ho agito giustamente , secondo necessità . La possibilità di peccare , ossia il lasciarsi tentare e distogliere dalla retta via per agire in modo malvagio , sembra così essere eliminata . Se il pentimento é assurdo , lo é altrettanto l’ arrabbiarsi perchè le cose non vanno come vorrei : le cose vanno secondo la razionalità del tutto e quindi nel migliore dei modi , checchè possa pensare io singolo . Tuttavia non si può fare a meno di notare come in Spinoza vi sia una convergenza tra i due significati del verbo dovere : esso implica infatti tanto una necessità ( la penna deve per forza cadere se lasciata ) quanto un’ idea di giustizia ( dovete studiare di più : non lo fate , ma sarebbe giusto che lo faceste ) . In Spinoza questi due significati diversi vengono a coincidere nel senso che tutto ciò che avviene e che é giusto che avvenga , avviene necessariamente . L’ idea di razionalità spinoziana , dunque , indica che le cose non possono avvenire diversamente da come avvengono e , allo stesso tempo , che é giusto che avvengano così . Ciò che deve avvenire necessariamente coincide con ciò che é giusto che avvenga . L’ errore é dovuto all’ ignoranza e consiste nel ritenere di avere esistenza autonoma rispetto al tutto , vedendo l’ andare razionale delle cose ritenute a noi esterne da punti di vista limitati alla propria situazione , senza vedere il legame causale e necessario che lega il tutto . Io singolo individuo potrò anche valutare le cose in termini di peggio o di meglio ( sarebbe stato meglio o peggio che andasse così ) , ma se guardo le cose inserite nella loro totalità universale non c’ é meglio o peggio : c’ é solo necessità e quindi razionalità . Se vivessi come ente a sè stante , allora potrei parlare di meglio o peggio , ma visto che sono un modo di essere del tutto devo vedere con una prospettiva non limitata al mio caso , devo cioè cercare di vedere la rosa nella croce , come dirà Hegel : negli apparenti mali che mi affliggono devo essere capace di vedere gli aspetti positivi , sapendo che tutto va in modo razionale e necessario e non posso fare nulla per cambiarlo : posso solo cambiare il mio atteggiamento . Tutto , per definizione , va come deve andare , razionalmente , necessariamente e quindi giustamente ; noi non siamo sostanze , ma modi dell’ unica sostanza e quindi tutto quel che ci succede , se visto in modo complessivo , va bene . Ma l’ etica spinoziana presenta delle evidenti aporie , quelle contraddizioni presenti in tutte le filosofie deterministiche che pretendono di dare consigli etici : come é possibile che mi si dica come comportarmi , quando tutto procede secondo necessità e non vi é libertà alcuna ? L’ etica di Spinoza é accettabile fin tanto che il pensatore ebreo si limita a descrivere il comportamento necessario dell’ uomo , ma diventa autocontradditoria nel momento in cui dà indicazioni sulle modalità di comportamento da seguire : invita l’ uomo a porsi dal punto di vista della res divina per poter così guardare le cose sub specie aeternitatis sottolineando come , propriamente , il futuro non esista proprio perchè é già nel presente : si tratta di una gnoseologia che parte dal sensibile , passa alla concatenazione causale degli eventi per poi approdare ad una conoscenza con la quale si vede tutto ciò che avviene nella realtà come espressione necessaria dell’ unica sostanza . La contraddizione sta nel fatto che Spinoza indichi il come comportarsi , come se si avesse la libertà di scegliere ; Spinoza infatti invita tutti gli uomini , in quanto modi dell’ unica sostanza , a guardare le cose sotto l’ aspetto dell’ eternità per ottenere la tranquillità dell’ anima : se tutto é già deciso in maniera rigorosamente deterministica non serve a nulla dirmi come comportarmi perchè tanto é già deciso come mi comporterò. Tuttavia la teoria etica spinoziana comporta un altro paradosso , derivato dal primo : il dirmi di comportarmi così non implica solo la possibilità di una scelta , ma anche la condanna di certi comportamenti che vanno evitati : devi fare così e non cosà . Ma se non c’ é libertà di scelta perchè tutto é determinato ( la sostanza é perfetta , quindi fa solo il giusto , dunque non ha scelta : l’ uomo e un modo della sostanza ! ) , non c’ é nemmeno la possibilità di condannare certi comportamenti : tutto avviene necessariamente ( non c’ é libertà ) , quindi tutto ciò che avviene é un bene e comportamenti negativi , per definizione , non ce ne possono essere . Come é quindi possibile che Spinoza condanni il pentimento , la rabbia e le passioni , visto che tutto ciò che avviene é un bene ? Ma se tutto avviene razionalmente é evidente che però le passioni sono ( per definizione ) qualcosa di irrazionale e ci sono perchè Spinoza dice che vanno eliminate : ma se ci sono le passioni vuol dire che forse non tutto va poi così razionalmente … L’ argomentazione spinoziana ( di esplicita derivazione stoica ) consiste nel fatto che non mi si dice come comportarmi nel senso che mi si può distogliere dal compiere un’ azione o cambiare il mio modo di operare proprio perchè tutto avviene in termini deterministici , tuttavia se mi comporto come Spinoza dice é perchè esiste la concatenazione causale dovuta al determinismo stesso : nella concatenazione causale di eventi , dunque , ci sarò anch’ io che mi comporto così dopo aver letto il suo libro . Spinoza ha poi anticipato considerazioni che staranno alla base delle pratiche terapeutiche freudiane : Spinoza sa che le passioni devono per forza essere ( per quanto possa sembrare strano ) qualcosa di razionale perchè tutto ciò che esiste ( in quanto modo dell’ unica sostanza razionale ) deve essere tale ; quindi egli non promuove una loro eliminazione totale , bensì un depotenziamento : per Spinoza la cura delle passioni consiste nel rendersi conto delle motivazioni che le fanno nascere . Nel momento stesso in cui prendo coscienza dell’ origine della passione che mi tormenta , essa si smonta da sè : Freud non cercherà di eliminare drasticamente le malattie psichiche , bensì prometterà ai suoi pazienti di aiutarli a far prendere loro atto della malattia che li affligge , a far venire fuori i motivi della malattia psichica , di cui il paziente non ha ancora coscienza : capire da dove derivino le malattie é come guarirle . Così fa Spinoza con le passioni , evitando di combatterle direttamente , ma aggirandole e spiegandole come fattori naturali , necessari e razionali . Nel momento in cui spiego razionalmente la passione che mi affligge essa cessa di agire su di me e io arrivo a comprendere essenzialmente due cose : in primo luogo che essa non poteva che verificarsi , poichè tutto avviene necessariamente e in secondo luogo che é giusto che si sia verificata perchè ciò che avviene deve avvenire ed é giusto che avvenga . Questo é il succo dell’ etica spinoziana , esposta nell’ Etica dimostrata alla maniera geometrica . Va però notata una cosa : Spinoza si inserisce a pieno titolo nel filone razionalista seicentesco avviato da Cartesio ; egli arriva ad esaltare ancora più di Cartesio l’ onnipotenza della ragione umana sostenendo che essa possa tutto proprio perchè la ragione dell’ uomo , che é modo della sostanza , é la stessa della sostanza stessa , ossia di Dio , il quale é , come dimostrato , infinito e totalmente razionale. Accanto allo scritto dell’ Etica dimostrata alla maniera geometrica , che é senz’ altro il più importante , ve ne sono altri in cui si occupa del miracolo , della tolleranza religiosa ( di cui é strenuo sostenitore , anche per via delle vicende personali ) e della politica . Spinoza avvia la sua discussione politica da un punto di partenza simile a quello di Hobbes per arrivare , però , non allo stato assoluto ( come Hobbes ) , bensì alla democrazia , che viene ad aggiungersi al liberalismo spinoziano , emerso soprattutto nella sua profonda tolleranza religiosa . La concezione spinoziana della politica molto risente dell’ impianto metafisico : non essendovi distinzione tra “essere” e “dover essere” , non avrebbe molto senso parlare di diritto come ciò che é e ciò che sarebbe giusto che fosse proprio perchè tutto ciò che é , é giusto che sia . Nello stato di natura , la retrograda condizione che precede lo stato moderno , il diritto di ogni singolo essere si estende quanto si estende la sua potenza : tutto questo é indubbiamente coerente con la metafisica spinoziana . Già Hobbes diceva che nello stato di natura ciascuno ha diritto su tutto : lo stesso é per Spinoza , a parere del quale ogni singolo ha diritto su tutto ciò che ha la potenza di prendere per sè . Dal punto di vista metafisico il diritto su tutto , però , ce l’ ha solo la sostanza ( la res divina ) che é infinita , ha potenza infinita e quindi ha anche diritto infinito . Però gli uomini non possono avere sulle cose un diritto infinito ( come diceva Hobbes ) proprio perchè , in quanto modi , sono limitati : avendo potenza limitata , avranno anche diritto limitato . A questo punto Spinoza fa in politica lo stesso discorso che faceva nell’ etica : là occorreva abbandonare il particolare per mettersi nell’ ottica della sostanza e per vedere che tutto avviene razionalmente e quindi per ottenere la felicità da questa constatazione , che porta a superare l’ infelicità , ossia il punto di vista ristretto che prima si aveva . In politica é grosso modo la stessa cosa : abbiamo potenza e diritto limitati , ma potremmo provare ad acquisire diritto e potenza più ampi unendoci tutti insieme , sommando le nostre singole potenze e i nostri singoli diritti ; come comunità , avremo maggior potenza e quindi maggiori diritti . Per far questo occorre che i singoli individui si spoglino dei loro singoli diritti e delle loro singole potenze non in favore di un terzo ( come diceva Hobbes ) , ma in favore di se stessi : ognuno si priva della sua singola potenza e dei suoi singoli diritti per poi riacquisirli come comunità : non appena io cedo il mio diritto , subito lo recupero come membro della collettività , non rimane in mano ad un terzo . Anch’ io come singolo faccio parte del gruppo che detiene i diritti . Certo ci sono anche degli svantaggi : quando cedo i miei diritti di singolo per riacquisirli come collettività , non posso più fare come mi pare perchè non ne ho più il diritto , ma devo attenermi alle regole prese dalla comunità , di cui comunque faccio parte . Molto maggiore , secondo Spinoza , é il vantaggio : il diritto di cui partecipo come collettività ( proprio perchè somma di potenze ) é molto maggiore rispetto a quello di cui partecipavo come singolo . Da notare però che le leggi sono vincolanti : le leggi stabilite dalla comunità sono espressioni del volere di tutti , anche di chi non é d’ accordo : io posso non concordare come singolo , ma come membro della comunità non solo devo rispettarle , ma devo anche riconoscerle come espressione della mia volontà ; obbedendo ad esse obbedisco a me stesso perchè ho ceduto il diritto di singolo a me stesso come membro della collettività : mentre cedo il mio diritto di singolo perdo quello a fare quello che mi pare e devo agire come vuole la comunità ( come prescrivono le leggi ) ma ho acquisito un nuovo diritto : quello di determinare insieme agli altri la decisione collettiva . Cento anni dopo Spinoza , circa , Rousseau sosterrà tesi assai vicine a quelle del pensatore ebreo . Anche per Spinoza , come per Hobbes , non c’ é diritto alla ribellione perchè ribellarsi é andare contro alle decisioni prese dalla collettività , di cui io faccio parte : é come decidere una cosa e poi ribellarsi ad essa .
PASSI TRATTI DALL’ ETICA
“La Beatitudine non è premio alla Virtù, ma la Virtù stessa; né godiamo di essa perché teniamo a freno le libidini; ma, al contrario, poiché godiamo di essa, possiamo tenere a freno le libidini.”
“Quanto più una cosa ha di perfezione, tanto più è attiva e tanto meno è passiva, e al contrario quanto più è attiva tanto più è perfetta.”
“Chi ha un Corpo capace di molte cose, ha una Mente la cui massima parte è eterna.”
“La Mente non è soggetta agli affetti che si riferiscono alle passioni se non nel corso della durata del Corpo.”
“Quanto più conosciamo le cose singolari, tanto più conosciamo Dio.”
“La Mente umana non può essere distrutta in assoluto con il Corpo; ma di essa rimane qualcosa che è eterno.”
“La Mente non può immaginare nulla, né ricordarsi delle cose passate se non nel corso della durata del Corpo.”
“L’amore meretrico, inoltre, cioè la libidine di generare che nasce da bellezza e, in assoluto, ogni Amore che riconosca una causa diversa dalla libertà dell’animo, si trasforma facilmente in Odio, se non sia – il che è peggio – una specie di delirio e allora è favorito più dalla discordia che dalla concordia.”
“Il sommo bene di coloro che seguono la virtù è comune a tutti e tutti egualmente possono goderne.”
“La Cupidità che nasce da ragione non può avere eccesso.”
“L’uomo che è guidato da ragione è più libero nello Stato, dove vive secondo un decreto comune, che nella solitudine, dove obbedisce soltanto a sé stesso.”
“Tutti i nostri sforzi o Cupidità seguono dalla necessità della nsotra natura in modo tale che possono essere compresi o mediante la sola nostra stessa natura, come loro causa prossima, o in quanto siamo parte della natura, che non può essere adeguatamente concepita per sé senza gli altri individui.”
“L’uomo libero non pensa a nulla meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita.”
“La virtù dell’uomo libero si dimostra ugualmente grande sia nell’evitare che nel superare i pericoli.”
“Con la Cupidità che nasce da ragione perseguiamo direttamente il bene e fuggiamo indirettamente il male.”
“La conoscenza del male è conoscenza inadeguata.”
“Chi, dominato dalla Paura, fa il bene per evitare il male, non è guidato da ragione.”
“In quanto gli uomini vivono secondo la guida della ragione, in tanto soltanto concordano sempre necessariamente per natura.”
“La Mente si sforza di immaginare soltanto quelle cose che pongono la sua potenza di agire.”
“Quando la Mente contempla se stessa e la sua potenza di agire si rallegra, e tanto più quanto più distintamente immagina se stessa e la sua potenza di agire.”
“Il Corpo umano può essere affetto in molti modi, dai quali la sua potenza di agire è aumentata o diminuita, e anche in altri modi che non rendono la sua potenza di agire némaggiore, né minore.”
“La nostra Mente è attiva in certe cose e passiva in altre, cioè in quanto ha idee adeguate, in tanto è necessariamente attiva in certe cose e in quanto ha idee inadeguate in tanto è necessariamente passiva.”
“Né il Corpo può determinare la Mente a pensare, né la Mente può determinare il Corpo al movimento o alla quiete, né a qualunque altra cosa (se ve n’è una).”
“Coloro i quali credono di parlare o di tacere, o di fare alcunché per libera decisione della Mente, sognano ad occhi aperti.”
“Ognuno regola tutte le cose secondo il proprio affetto e coloro i quali, inoltre, sono combattuti da affetti contrari non sanno quel che vogliono; mentre coloro i quali non sono agitati da alcun affetto, sono spinti qua e là da un lieve impulso.”
“La volontà e l’intelletto sono una sola e stessa cosa.”
“E’ proprio della natura della Ragione percepire le cose sotto una certa specie di eternità.”
“La Mente umana ha una conoscenza adeguata e perfetta dell’essenza eterna e infinita di Dio.”
“All’essenza dell’uomo non appartiene l’essere della sostanza, ossia la sostanza non costituisce la forma dell’uomo.”
“L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose.”
“L’Estensione è un attributo di dio.”
“Per realtà e perfezione intendo la stessa cosa.”
“Noi non sentiamo, né percepiamo nessuna cosa singolare oltre i corpi e i modi del pensare.”
“Per idea intendo un concetto della Mente che la Mente forma perché è cosa pensante.”
“La potenza di Dio è la sua stessa essenza.”
“Una sostanza non può essere prodotta da un’altra sostanza.”
“Alla natura di una sostanza appartiene l’esistere.”
“Poiché, in realtà, essere finito è in parte negazione, mentre essere infinito è assoluta affermazione dell’esistenza di una qualche natura, segue che ogni sostanza deve essere infinita.”
“Una sostanza è per natura prima rispetto alle sue affezioni.”
“Tutte le cose che sono, o sono in sé, o sono in altro.”
“Le cose che non hanno tra loro nulla in comune non possono neppure essere comprese l’una per mezzo dell’altra, ossia il concetto dlel’una non implica il concetto dell’altra.”
“Si dice libera quella cosa che esiste in virtù della sola necessità della sua natura e che è determinata ad agire soltanto da se stessa. si dice, invece, necessaria, o piuttosto coatta, quella cosa che è determinata da altro a esistere e a operare secondo una certa e determinata ragione.”
“Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere limitata da un’altra cosa della stessa natura. Per esempio un corpo si dice finito, perché ne concepiamo un altro sempre maggiore. Parimenti, un pensiero è limitato da un altro pensiero. Al contrario un corpo non è limitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo.”
“Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’eterna ed infinita essenza.”
“Nessuna cosa può essere distrutta se non da una causa esterna.”
“Ogni cosa, per quanto è in sé, si sforza di perseverare nel suo essere.”
“Riguardo agli uomini politici sembra che essi siano più portati a tendere insidie all’umanità che non a prenderne cura, che siano insomma più astuti che saggi. Infatti l’esperienza vien loro dicendo che ci saranno vizi finché ci saranno gli uomini.”
“Sarà ben poco stabile quello Stato il cui benessere dipenda dalla garanzia di qualcuno ed i cui affari abbiano retto corso solo quando la volontà di chi li tratta è leale.”
“Perché lo Stato possa durare a lungo, la cosa pubblica deve essere organizzata in modo tale che chi ne ha cura, sia che lo guidi la ragione, sia che lo guidi la passione, non possa cedere all’infedeltà ed alla disonestà.”
“La libertà dello spirito, cioè la fortezza dell’animo, è una virtù del singolo: ma la virtù dello Stato è la sicurezza.”
“Ognuno dovunque sia, può venerare Dio di vera religione e prender cura di se stesso: questo è il dovere del cittadino privato.”
“L’amore e la vera cognizione di Dio non si possono far sottostare al volere di nessuno, così come l’amore verso il prossimo; e se inoltre consideriamo che la più grande prova d’amore consiste nel difendere la pace e nel suscitare la concordia, non esiteremo a dire che adempierà veramente al suo dovere colui che darà tanto aiuto ad ognuno quanto lo permettono le leggi civili, vale a dire la concordia e la tranquillità dello Stato.”
“Per quel che riguarda le forme esteriori del culto è certo che esse non possono per nulla giovare, né nuocere alla vera cognizione di Dio ed all’amore che necessariamente ne deriva.”
“Il miglior governo dunque è quello dove gli uomini passano la vita in concordia e i cui diritti rimangono inviolati.”
“Gli uomini non nascono civili, lo diventano.”
“La teologia non è ancella della ragione, né la ragione della teologia.”
“In una libera comunità politica ciascuno deve avere libertà di pensiero e di espressione.”
“E’ impossibile togliere agli uomini la libertà di coscienza e di espressione.”
“Le leggi istituite in riferimento a questioni di carattere speculativo sono totalmente vane e nocive.”
“I veri fautori di dissidi e scissioni – risulta più chiaro alla luce del sole – sono proprio coloro che condannano gli scritti altrui e che istigano sediziosamente contro i loro autori l’insolenza del volgo.”
“Se fosse altrettanto facile comandare agli animi quanto alle lingue, ogni sovrano regnerebbe in piena tranquillità e nessuna autorità avrebbe bisogno di ricorrere a mezzi violenti.”
“La fede comporta la salvezza non per se stessa, ma solo in ragione dell’obbedienza.”
“Niente accade in contrasto con la natura, anzi essa mantiene un ordine fisso e immutabile.”
“Se gli uomini fossero in grado di governare secondo un preciso disegno tutte le circostanze della loro vita, o se la fortuna fosse loro sempre favorevole, essi non sarebbero schiavi della superstizione.”
“Non si invidia la virtù di un altro a meno che non sia un proprio pari”
“L’Odio non può mai essere buono.”
“La Mente potrà tuttavia contemplare, come se fossero presenti, i corpi esterni dai quali il Corpo umano è stato affetto una volta, benché non esistano né siano presenti.”
“Nella misura in cui, la Mente umana immagina un corpo esterno non ne ha una conoscenza adeguata.”
“Dipende dalla sola immaginazione considerare le cose, sia rispetto al passato sia rispetto al futuro, come contingenti.”
“L’Invidia, la Derisione, il Disprezzo, l’Ira, la Vendetta e gli altri affetti che si riferiscono all’Odio, o che da esso nascono, sono cattivi.”
“Nessun Amore, tranne l’Amore intellettuale, è eterno.”
“Se uno immagina che gli sia stato fatto del male per Odio da qualcuno che prima gli era indifferente subito cercherà di ricambiargli lo stesso male.”
“Le cose particolari non sono altro che affezioni degli attributi di Dio.”
“Chi si ricorda di una cosa, dalla quale ha provato piacere una volta, desidera possederla nelle medesime circostanze della prima volta in cui ne ha provato piacere.”
JOHN LOCKE
Se qualcuno abbandona il retto cammino,é un disgraziato che danneggia se stesso,ma a te é innocuo e non devi punirlo duramente privandolo dei beni di questa vita perchè credi che sarà dannato nella vita futura. ( Lettera Sulla Tolleranza )
LOCKE
John Locke vive in Inghilterra , nell’ ultima fase del 1600 e le sue opere vanno collocate intorno agli anni 90 del secolo . Si tratta grosso modo degli anni in cui scoppia la seconda rivoluzione che travaglia l’ Inghilterra del Seicento , la rivoluzione che verrà detta ” gloriosa ” . Insieme a Thomas Hobbes , Locke é il più grande politico inglese del secolo e le notevoli differenze tra le teorie politiche lockiane e quelle hobbesiane sono dovute al fatto che Hobbes vive la prima rivoluzione ( quella degli anni 40 ) , la più sanguinosa , ed é quindi interessato a garantire la sicurezza dell’ individuo , Locke , invece , vive nella seconda rivoluzione , caratterizzata da vicende non particolarmente drammatiche , anzi potremmo quasi dire pacifiche , dove si assiste alla nascita delle teorie liberali : si tratta dell’ atto con cui l’ intera società inglese si é sbarazzata di una monarchia oppressiva e ha dato vita ad una monarchia costituzionale . Ecco allora che Locke intende garantire al singolo la libertà più di ogni altra cosa ; non a caso Locke é considerato il grande teorico del liberalismo . L’ opera principale di Locke , la più cospicua e la più famosa, é il Saggio sull’ intelletto umano ; un’ opera corposa , ma comunque a carattere discorsivo : non a caso si può considerare Locke il precursore dell’ illuminismo proprio per il suo atteggiamento di fondo : il Saggio sull’ intelletto umano é un’ opera scorrevole , priva di tecnicismi e scritta in inglese , la lingua nazionale dell’ Inghilterra , e non in latino , proprio per consentire a tutti la lettura e non solo ad una ristretta cerchia elitaria : ora , il problema della divulgazione , ossia del rendere leggibile ciò che si scrive al maggior numero possibile di persone , é una prerogativa tipicamente illuministica , che Locke ha già messo in atto sul finire del ‘600 . E’ tipicamente illuminista , poi , la rinuncia alla metafisica per porsi invece problemi concretamente utili all’ uomo : ed é esattamente quel che fa Locke . I problemi che si pongono Locke , il primo pensatore proto-illuminista , e Kant , l’ ultimo e al tempo stesso più grande filosofo illuminista , sono analoghi : l’ illuminismo é senz’ altro caratterizzato dal dominio incontrastato della ragione , ma tuttavia si tratta non di una fiducia cieca in essa ( come era per Cartesio ) , bensì di un ponderato e critico approccio : d’ altronde nutrire una fiducia sconfinata nella ragione , senza un minimo approccio critico , rischia di diventare irrazionale . Ecco allora che Kant intitolerà la sua opera più famosa Critica della ragion pura , dove darà un giudizio della pura ragione istituendo un vero e proprio tribunale in cui la ragione é al tempo stesso giudice e imputato : si giudicano i limiti della ragione ma , neanche a dirlo , é la ragione stessa a giudicare ; fin dove può arrivare la mia ragione ? Questo é l’ interrogativo kantiano . Tuttavia si potrebbe obiettare che già nel Medioevo le cose andavano così : pensatori come Tommaso o Abelardo avevano fatto un buon uso della ragione , pur sottolineandone i limiti intrinseci . Però nel Medioevo i limiti della ragione erano dati dalla fede , nel 1700 sono dati dalla ragione stessa . Anche Locke , come poi farà Kant , sente la necessità di stabilire preliminarmente i limiti entro i quali l’ intelletto umano può operare ( vedi il titolo della sua opera , il Saggio sull’ intelletto umano ) : egli definirà la ragione umana come una candela che ci illumina il cammino , senza quindi nutrire in essa quell’ eccessivo entusiasmo che aveva caratterizzato la filosofia di Cartesio . La nostra ragione non é onnipotente e non può illuminarci su tutto , così come una candela non può far luce su ogni cosa : tuttavia é l’ unico mezzo di cui l’ uomo dispone nella sua indagine e deve quindi servirsene . Locke é anche vicino all’ illuminismo sul piano dei contenuti nel momento in cui arriva a dire che il risultato dell’ indagine sui limiti della ragione é lo smontamento e la dichiarazione di inattingibilità di alcuni concetti tipicamente metafisici : egli muove una serrata critica alla conoscibilità della sostanza , da sempre cardine della metafisica . E l’ esito della riflessione illuministica , non a caso , sarà antimetafisico : si arriverà a dire che i problemi concernenti la metafisica sono poco attingibili ( per Kant totalmente inattingibili ) . Quel che interessa a Locke non é conoscere realtà supreme e improbabili , bensì quelle realtà che hanno più a che fare con la vita umana di tutti i giorni . Locke é in tutti i sensi figlio della tradizione empiristica inglese e allo stesso tempo del pragmatismo baconiano : a suo avviso la filosofia deve concretamente servire a risolvere i problemi umani di tutti i giorni e non deve costruire impianti metafisici che facciano poca presa sulla realtà . Al sapere sono utili due cose per Locke : in primo luogo la conoscenza scientifica : Locke aveva stretti rapporti personali con lo scienziato Boyle ed era lui stesso , come formazione , medico . In secondo luogo ci deve essere la conoscenza politica e tutte le questioni etiche e religiose . Da notare che la religione , intesa da Locke , non si riduce a teologia ; egli non fa un discorso su Dio , ma sull’ uomo e sui suoi rapporti con la religione : una religione intesa più come cosa umana che divina . Tant’ é che all’ inzio del Saggio sull’ intelletto umano ( che può essere considerato a carattere gnoseologico poichè si esaminano gli strumenti a disposizione dell’ intelletto ) , vi é un’ epistola dedicatoria che funge da prefazione , chiarendo l’ origine dell’ opera : racconta che le teorie esposte nel trattato hanno avuto origine , 20 anni prima , da discussioni tenute con gli amici ; in questi dibattiti lui e gli amici trattavano di politica e di religione e ad un certo punto si trovarono di fronte a questioni cui non riuscivano a rispondere : in altre parole non riuscivano più ad andare avanti nel dibattito . Locke dice di essersi lì accorto che molti problemi umani non possono essere risolti se prima non se ne risolve un altro , che sta a monte di tutti gli altri : quanto si può estendere legittimamente la mia conoscenza razionale ? Cosa posso comprendere e in che misura ? Con questo interrogativo , Locke si aggancia contemporaneamente all’ illuminismo e al razionalismo seicentesco : pensiamo a quando Cartesio sostiene di dover abbattere l’ antico edificio del sapere per costruirne uno nuovo ; ma pensiamo anche al tribunale della ragione istituito da Kant . Tuttavia , pur avvicinandosi ad entrambe le correnti di pensiero , Locke sembra maggiormente aderire all’ illuminismo e pare saldamente proiettato nel 1700 . Infatti il razionalismo cartesiano aveva fatto un ragionamento di questo tipo : nella nostra mente ci sono aree bianche ( cose di cui si ha conoscenza evidente ) , aree grige ( cose di cui si ha conoscenza dubbia ) e aree nere ( cose di cui non si ha la minima conoscenza ) ; riduco volontariamente tutte le aree grige o a nere o a bianche , a seconda della loro conoscibilità : il risultato sarà che avrò cose di cui ho conoscenza certa e cose di cui non avrò la minima conoscenza , ma cose di cui ho conoscenza incerta non ce ne sono più ( le aree grige ) . Con Locke non viene meno il razionalismo seicentesco , ma é più maturo , manca in lui quella ingenua tendenza a razionalizzare disperatamente ogni cosa : egli ammetterà , accanto alle aree nere e a quelle bianche , anche quelle grige , ossia le cose di cui non ho certezza totale . Ecco allora che nell’ ambito stesso della ragione troverò sì il bianco , ossia cose di indubitabile certezza , ma anche il grigio , ossia cose non del tutto indubitabili ; anzi , il bianco sarà davvero limitato rispetto al grigio , che invece finirà per coprire la maggior parte delle cose . Ma Locke non ha timore , come invece aveva Cartesio , delle aree grige , proprio perchè anche lì la ragione , sebbene non potrà dare certezze assolute come quella del cogito ergo sum , potrà comunque dire la sua : ecco allora che non ci sono solo cose di cui abbiamo certezze e cose di cui non sappiamo assolutamente nulla , ma compaiono anche cose di cui si ha una vaga conoscenza e sulle quali la ragione può illuminarci come una candela , senza però risolverle completamente . Ed é proprio con Locke che viene introdotta la sfumatura di significati tra la parola razionale e quella ragionevole : razionale é una conoscenza alla Cartesio , inconfutabile , trasparente ed evidente : “penso dunque sono” é razionale come conoscenza . Ma il campo di applicabilità della ragione va oltre : anche nelle aree grige , ossia nelle questioni su cui non abbiamo certezze , la ragione può dare indicazioni che non saranno razionali ed evidenti , ma tuttavia saranno ragionevoli , sensate : ” prendo questa decisione perchè me lo dice la ragione ” non é una scelta sicura , ma é la migliore che la ragione possa fornirmi , ragione che per Locke , come dicevamo , non é più onnipotente . Per dirla in altri termini , il ragionevole é una forma attenuata del razionale . Con il ragionamento lockiano si viene a perdere una buona parte dell’ area bianca di Cartesio , ma tuttavia ottengo aree grige su cui posso indagare con la ragione per operare così in modo ragionevole . Una volta chiarito il problema che per prima cosa bisogna indagare sui limiti della ragione , Locke intraprende una sfilza di ragionamenti gnoseologici . Il suo ragionamento inizia con una pars destruens , con la quale confuta e distrugge le tesi innatistiche ; smontare le tesi innatistiche significa far trionfare quelle empiristiche , di cui Locke si fa portavoce in quanto dimostrata contradditoria una delle tue tesi , allora deve essere per forza corretta l’ altra . Questa polemica anti innatista la troviamo nella prima parte del Saggio sull’ intelletto umano ; Locke quando parla di innatisti ha nella sua mente in primo luogo Cartesio con le sue idee innate ( quella di Dio ad esempio ) , ma anche i neoplatonici inglesi di inzio Seicento . Va subito detto che per criticare l’ innatismo egli si serve di un metodo empiristico : infatti non si limita a fare ragionamenti astratti e su concetti generali , ma si rifa’ a casi empiristici a tutti noti per far vedere come certe cose di cui abbiamo conoscenza siano contrarie all’ innatismo . Locke muove contro ogni forma di innatismo , quello delle idee religiose ( l’ idea di Dio intesa alla Cartesio ) , le idee logico-matematiche e perfino quelle morali ( l’ idea di bene e quella di male ) . La critica di Locke comincia dalla definizione stessa di innatismo , data a suo tempo da Platone : innate sarebbero quelle idee presenti nell’ uomo fin dalla sua nascita e che non vengono acquisite con l’ esperienza , bensì sono appunto innate , insite nella mente fin dalla nascita e presenti in tutti gli uomini . Dunque stando a questa definizione , se l’ idea di Dio fosse innata dovrebbe essere radicata nella mente di ogni uomo di ogni luogo e di ogni tempo : ma Locke fa notare come certe popolazioni retrograde dell’ America non credano in alcun Dio e non abbiano insita nella loro mente alcuna idea innata di Dio ; con lo stesso criterio , Locke fa notare che se l’ idea di bene e di male fosse innata , dovrebbe essere presente nella mente di tutti gli uomini fin dalla loro nascita : ma ciò che per noi europei é un male , per le popolazioni più arretrate dell’ America é un bene : il cannibalismo , ad esempio . Ecco allora che non tutti gli uomini hanno lo stesso concetto di bene e di male , concetto che , secondo le tesi innatistiche , dovrebbe essere uguale e presente in tutti gli uomini : di conseguenza , spiega Locke , l’ idea di Dio , di bene e di male e tutte le altre idee non sono innate , ma derivano dall’ esperienza , dal contesto in cui si vive o dalla cultura che si ha : nihil est in mente quod prius non fuerit in sensu dicevano i medioevali sostenitori dell’ empirismo . Allo stesso modo Locke dimostra che le verità matematiche e logiche non sono innate : non é possibile che si nasca con alcune verità matematiche già insite nella propria testa e il caso più esplicativo é quello del bambino , che le apprende un pò alla volta , partendo da zero . Tuttavia non mancheranno le critiche alle affermazioni di Locke : all’ incirca negli stessi anni l’ innatista Leibniz gli farà notare che ciò contro cui muove le critiche non é l’ innatismo ! Leibniz é pienamente cosciente che sarebbe assurdo dire che si nasce con delle idee già in testa e risolve il tutto in un innatismo virtuale , facendo notare a Locke che ciò che intendono gli innatisti é diverso da quanto il filosofo inglese sostiene : non nasciamo con delle idee in testa , bensì con degli elementi di potenzialità e l’ esperienza serve proprio a far emergere , a chiarificare e a portare a coscienza le idee che potenzialmente erano già presenti nella mente fin dalla nascita e in tutti gli uomini : l’ idea di uguaglianza , spiega Leibniz , ce l’ abbiamo tutti insita nella nostra mente ma abbiamo bisogno di cose materiali che siano uguali per prendere coscienza di che cosa sia l’ uguaglianza , per portare cioè in atto quell’ idea che nella nostra testa era solo in potenza . Ma Locke non accetta neanche la correzione leibniziana , facendo rispetto alle idee un pò il gioco che faceva Spinoza con le sostanze cartesiane , portando il tutto alle estreme conseguenze : parte dalla definizione di idea così come Spinoza era partito da quella di sostanza , per dimostrare che le tesi dell’ avversario sono sbagliate . Idea é qualsiasi oggetto della mente umana , diceva Cartesio : tanto un triangolo pensato quanto un colore percepito . Locke fa notare che , stando alla definizione cartesiana ( che aveva portato il filosofo francese all’ innatismo ) , un’ idea per definizione non può esistere se non pensata : un’ idea non pensata non esiste , bensì esistono solo le idee nella misura in cui vengono pensate dalla mente umana . Ma con questa definizione di idea , diventa autocontradditorio parlare di innatismo ! Come si può infatti dire che da bambino ho nella mia testa certe idee che non conosco e alle quali non penso e poi , crescendo , le acquisisco portandole in atto con l’ esperienza ? E’ contradditorio ammettere l’ esistenza di idee non pensate nella mia mente di bambino proprio perchè le idee esistono solo come oggetti della mente ! Prima di proseguire con le argomentazioni lockiane , é bene fare una precisazione : con gli esempi delle tribù retrograde dell’ America che hanno un concetto di bene e di male diverso dal nostro si potrebbe essere indotti a credere che Locke sostenga il relativismo culturale : sarebbe un grave errore pensare che , poichè non in tutti gli uomini bene e male vengono intesi ugualmente , sia lecito parlare di un relativismo etico in Locke : egli é fortemente convinto che un bene e un male ci siano , così come é convinto che Dio esista e sia razionalmente dimostrabile la sua esistenza : la verità esiste ed é quella , non vi é nulla del relativismo protagoreo in Locke . Ma siccome le idee non sono innate , non tutte le culture e gli uomini arrivano allo stesso tempo ad individuare le stesse concezioni di bene e di male : il bene per il pensatore inglese é uno solo , però non tutti gli uomini vi arrivano allo stesso modo , allo stesso tempo e correttamente . Così come se 10 persone diverse risolvono la stessa espressione algebrica arrivando a 10 risultati diversi significa che 9 di essi ( se non tutti ) hanno sbagliato , così anche per 10 persone che siano arrivate a 10 concezioni diverse di bene e di male , 9 avranno sbagliato e uno solo avrà optato per quella giusta ( o magari han sbagliato tutti e 10 ) . Nei libri successivi del Saggio sull’intelletto umano , Locke imposta la sua parte costruttiva : la conoscenza , che non passa , come dimostrato , per l’innatismo deve per forza essere di tipo empiristico : non c’é nulla nel nostro intelletto che pima non sia passato per i sensi . Detto questo , occorre esaminare come si acquisisce la conoscenza tramite l’esperienza : Locke accetta la definizione cartesiana di idea come oggetto della mente , anzi se ne serve per confutare l’innatismo : gli oggetti della mente comunemente detti “idee” secondo il pensatore inglese arrivano da due diverse fonti , il senso esterno ( o sensazione ) e il senso interno ( o riflessione ) . Nonostante Locke sia a tutti gli effetti un empirista , non accetta che tutto derivi dalla sensazione : certo la sensazione esiste e sono sensazioni tutti i dati che riceviamo dall’esterno ( suoni , odori , immagini … ) , tuttavia accanto alle sensazioni vi sono le riflessioni , ossia le informazioni che ricevo non già dall’esterno , ma dal mio mondo interiore : saranno riflessioni la gioia , la tristezza e più in generale quel che sentiamo avvenire nella nostra coscienza . Anche le riflessioni sono esperienze , ma sono esperienze interne al soggetto e quindi non possono essere dette sensazioni , perchè non derivano dal mondo esterno ; certo vi é un collegamento con esso perchè , vedendo che c’é il sole ( sensazione ) sono contento ( riflessione ) , ma tuttavia il processo che mi porta alla contentezza é tutto interno al soggetto . Quindi l’esperienza ha per Locke una duplice fonte , il mondo esterno che dà le sensazioni e il mondo interno che dà le riflessioni , ossia che riflette lo stato d’animo del soggetto . Questi due tipi di idee , chiamate appunto idee di sensazione e idee di riflessione sono in prima battuta quelle che Locke definisce “idee semplici” , contrapposte alle “idee complesse” . Si dicono idee semplici quegli oggetti del pensiero il cui contenuto elementare non é ulteriormente scomponibile , e si dicono idee complesse quegli oggetti del pensiero composti il cui contenuto risulta scomponibile : l’idea di libro , ad esempio , é un’idea complessa , nel senso che é costituita da più idee congiunte : sarà l’unione dell’idea di forma data dall’ambito tattile e da quello visivo mescolate all’idea di colore ( di più colori magari ) e all’idea di peso . E’ complessa proprio perchè risolubile in una serie di idee autonome : idea semplice , ad esempio , sarà l’idea del blu , non ulteriormente scomponibile , che unita ad altre idee mi dà l’idea complessa di libro . Le idee semplici sono il materiale costruttivo con cui si dà vita alle idee complesse , che risultano essere una somma di idee semplici . Locke distingue a ragion veduta tra funzione passiva del senso ( tanto quello esterno quanto quello interno ) e funzione attiva dell’intelletto : le idee semplici le riceviamo e basta , in modo del tutto passivo , tramite il senso ; le idee complesse , invece , non le riceviamo passivamente tramite il senso : sono una riorganizzazione e aggregazione da parte dell’intelletto attivo di idee semplici ricevute passivamente e singolarmente dal senso : ricevo l’idea di blu , di parallelepipedo , di peso tramite il senso e con l’intelletto le riorganizzo congiungendole per dar vita all’idea di libro . Per acquisire idee complesse occorre la cooperazione tra intelletto che rielabora e senso che acquisisce , per le idee semplici basta il senso . Di idee complesse ve ne sono tre tipi , tutti e tre dati dall’unione di idee semplici : 1 ) Idee di sostanza ; 2 ) idee di modo ; 3 ) idee di relazione . 1 ) Le idee di sostanza sono quelle relative a realtà che concepiamo come esistenti di per sè : il libro é un’idea complessa di sostanza , somma di tante idee semplici : dall’unione di più idee semplici attribuisco esistenza autonoma alla sostanza libro , che , come ogni sostanza secondo la definizione aristotelica , esiste come ente che per esistere non ha bisogno di null’altro all’infuori di sè . Le idee di sostanza sono quelle che Aristotele chiamava semplicemente “sostanze” . 2 ) Le idee di modo sono quelle che si riferiscono a cose di per sè non esistenti , ma che sono caratteristiche di sostanza : si tratta di quelli che Aristotele chiamava ” accidenti ” : per esistere necessitano di una sostanza cui appoggiarsi . Locke fa due esempi di idee di modo : l’idea di furto e di ubriachezza , idee che implicano tanti elementi . Ora , é evidente che l’idea di furto e di ubriachezza per esistere hanno bisogno di sostanze cui riferirsi : ci sarà un uomo ubriaco o un uomo ladro , ma non si può indicare come furto o come ubriachezza una cosa materiale , una sostanza . 3 ) Infine ci sono le idee di relazione , che nascono non dall’unione , bensì dall’accostamento di più idee : esempio tipico é l’idea di uguaglianza , che non nasce dall’unione di due cose uguali , bensì dalla messa in relazione di due entità aventi le stesse caratteristiche : due libri sono uguali , li metto in relazione e ottengo l’idea di uguaglianza . Esempio tipico di idee di relazione é quello riguardante il padre e il figlio . Ma la più importante idea di relazione ravvisata da Locke é la causalità : causa ed effetto , spiega il pensatore inglese , sono tra loro in relazione poichè dove vi é una causa vi é anche un effetto e , viceversa , dove vi é un effetto vi é anche una causa . Tuttavia se accetta l’idea di causalità , egli rifiuta radicalmente quella di sostanza : la critica all’idea di sostanza é uno dei passi argomentativi più celebri del pensiero di Locke , che fa così traballare il classico edificio della metafisica : é tipica della filosofia inglese del 1600-1700 la critica ai contenuti della metafisica , la sostanza e la causa : Aristotele , a suo tempo , aveva definito come argomento principale della filosofia l’indagine sull’essere , indagine che si riduceva all’investigazione sulla sostanza : che cosa é la sostanza ? E per rispondere a questo interrogativo lo Stagirita era ricorso alla dottrina delle quattro cause , fondando in questo modo il binomio sostanza-causa , argomento principale della metafisica . Ora Locke nel 1600 fa traballare l’impianto metafisico criticando duramente l’idea di sostanza , e nel 1700 il filosofo scozzese David Hume criticherà insieme all’idea di sostanza anche quella di causa , da Locke mantenuta valida : Locke , infatti , ammette i rapporti causali tra le cose sostenendo che laddove vi é una causa vi é anche un effetto , e viceversa : la palla da biliardo si muove ( effetto ) perchè urtata da un’altra palla da biliardo ( causa ) . Locke però conduce una serrata critica all’idea di sostanza , non mettendo in discussione l’esistenza di sostanze , quanto piuttosto la conoscibilità delle medesime : egli racconta di un indiano a cui era stato domandato su che cosa poggiasse il mondo ; l’indiano aveva risposto senza esitare che il mondo poggia sul dorso di un elefante . Allora il suo interlocutore gli domandò su che cosa a sua volta poggiasse l’elefante e , dopo che l’indiano ebbe risposto senza tentennamenti che esso poggia sul guscio di una testuggine , gli venne nuovamente posto il problema su chi , a sua volta , poggiasse la testuggine : l’indiano rispose che essa poggiava su qualcosa che lui non conosceva . Ora secondo Locke il nostro atteggiamento nei confronti della sostanza é esattamente analogo a quello dell’indiano nei confronti del mondo . La storia della filosofia e lo stesso senso comune hanno sempre portato l’uomo a ragionare in questo modo : vi é la sostanza libro di cui posso predicare vari attributi , quali il colore , la forma , il materiale , ecc. In altre parole , si é sempre dato per scontato che esistesse qualcosa cui si attribuiscono delle caratteristiche ( colore , forma , sapore , materiale … ) e questo qualcosa é sempre stato chiamato sostanza . Qualche anno prima di Locke , poi , si era affermato l’atteggiamento avviato da Galilei che tendeva a ricondurre le qualità secondarie a primarie : se ho un libro blu , il blu non é caratteristica oggettiva ( primaria ) del libro , ma é solo una manifestazione oggettiva sui miei organi sensoriali ( in questo caso gli occhi ) da parte di qualità primarie , ossia quantitative : il flusso di atomi che fuoriesce costantemente dal libro urta i miei occhi e io vedo il blu , che di per sè non esiste : esiste solo come manifestazione soggettiva-secondaria ( su di me ) di qualità oggettive-primarie ( gli atomi ) . Ora con Cartesio il sospetto galileiano dell’inesistenza oggettiva delle qualità secondarie era diventata una verità assoluta : le qualità secondarie ( colori , odori … ) in natura , oggettivamente non esistono , le percepisco solo io soggettivamente come qualità secondarie . Locke condivide questa concezione atomistica della realtà che prevede l’inesistenza oggettiva delle qualità secondarie , tuttavia effettua un ragionamento più approfondito : é vero che le qualità secondarie si appoggiano sulle primarie , nel senso che , se non vi fossero le primarie , le secondarie non esisterebbero , tuttavia , così come le qualità secondarie poggiano su quelle primarie , anche le primarie potrebbero poggiare su qualcosa di più profondo , che noi ignoriamo ( ricordiamoci che per Locke la ragione umana é una candela : non può tutto ) ; allo stesso modo in cui per l’indiano il mondo poggia sull’elefante , che poggia sulla testuggine la quale non si sa su cosa poggi , le qualità secondarie poggiano sulle primarie , le quali non si sa su cosa poggino , ossia non si conosce la sostanza cui si riferiscono . Ho un libro blu : il blu di per sè non esiste , é una manifestazione soggettiva di una realtà atomica oggettiva che inerisce al libro : dunque il blu poggia sulla struttura atomica del libro ; la struttura atomica é caratteristica del libro che , in quanto “sostanza” deve esistere di per sè : in altri termini si dà per scontata l’esistenza di qualcosa ( in questo caso il libro ) avente delle qualità : é blu , é grande , é di costituzione atomica … La filosofia , poi , mi ha già garantito che le qualità secondarie poggiano sulle primarie , ma non mi ha ancora detto su che cosa poggino le primarie ! Che senso può avere l’espressione ” il libro é x ” , dove x sta per blu , per grande , per atomico , per pesante , ecc ? Che cosa é , in altri termini , quella cosa di cui prèdico il colore blu , la grandezza , l’atomicità , il peso e che do per scontato che esista a monte di questi attributi ? Non é certo il libro che stringo fra le mani , che ha tutte queste caratteristiche : é blu , ha forma atomica , é pesante , ecc. Ci deve essere un qualcosa a cui si aggiungono queste caratteristiche e deve essere pensabile scevro di queste caratteristiche : il libro in sè , per dirla con Platone . Per dire che il libro é blu , ci deve essere qualcosa prima che io aggiunga al libro il blu , allo stesso modo in cui dico che John corre : devo prima sapere che cosa é John , di cui prèdico il fatto che stia correndo ; allo stesso modo quando dico che il libro é blu devo prima sapere che cosa é il libro , di cui prèdico il blu … Il libro deve quindi essere qualcosa di indipendente dall’essere blu . Ma allo stesso tempo deve essere indipendente da tutti gli altri attributi che di lui posso predicare . La filosofia del 1600 ha già risolto , riprendendo Democrito , il problema delle qualità secondarie : il libro , fatto di qualità oggettive , mi appare soggettivamente blu : ma il blu di per sè non esiste nel libro , sono io che lo vedo : anche se togliessi il blu al libro , continuerebbe ad esistere una sostanza oggettiva ( il libro atomico , come estensione , pura materia ) . Togliamo pure le caratteristiche soggettive , che di per sè non esistono : il libro é atomico ed é a forma di parallelepipedo : questo presuppone che il libro sia qualcosa di indipendente dall’essere atomico o a forma di parallelepipedo : c’é prima il libro ( la sostanza ) di per sè , poi ad esso aggiungo la forma parallelepipedo e la struttura atomica : ma il libro può essere predicato anche a prescindere dalla struttura atomica e della forma parallelepipedo . La sostanza ( in questo caso il libro ) non si identifica con le qualità secondarie ( i colori , i sapori , gli odori , i suoni ) ma neanche con le primarie ( l’essere atomico , misurabile , pesante ) : e allora che cosa é la sostanza ? Non lo posso sapere ! Esattamente come l’indiano non sa su cosa poggi la testuggine , pur sapendo che su essa poggia l’elefante , noi uomini non sappiamo su cosa poggino le qualità primarie (oggettive:grandezza,peso…) , pur sapendo che su esse poggiano quelle secondarie (soggettive:colori,suoni,odori…) . Il blu poggia sulla struttura atomica del libro : quest’ultima é caratteristica della sostanza libro , ma la sostanza libro dove sta ? Che cosa é ? Le qualità primarie poggiano su un qualcosa di cui sono espressione ( ciò che chiamiamo sostanza ) , ma questo qualcosa noi lo ignoriamo totalmente . Si potrebbe definire la sostanza come un puntaspilli : proprio come il puntaspilli é l’appoggio e il supporto degli spilli , la sostanza é il supporto e l’appoggio per le qualità e le caratteristiche che ad essa ineriscono ; un apporto e un appoggio invisibile e sconosciuto per noi , come dicevamo , ma che tuttavia deve esistere proprio perchè di esso ( dell’appoggio sostanza ) predico le caratteristiche . Ora , é chiaro che oltre ad essere un supporto per le caratteristiche che ad essa ineriscono , la sostanza é anche ciò che le tiene insieme : con le singole e molteplici idee semplici ( colori , forme , peso … ) messe insieme avrò l’idea complessa di John , ad esempio , che sarà proprio l’unione di queste idee semplici in un’idea complessa ; teniamo sempre a mente però che l’idea di sostanza non la possiamo conoscere . Perchè ogni volta che John ci appare davanti agli occhi le singole idee vengono sempre rielaborate allo stesso modo dall’intelletto nell’idea complessa di John ? Perchè quel gruppo di idee semplici si offre costantemente ai nostri sensi ; esiste dunque in natura qualcosa che fa sì che un gruppo di idee mi si presenti sempre insieme ( ad esempio l’idea di libro , unione di determinate idee singole ) . Che cosa é che fa sì che quel determinato gruppo di idee semplici si presenti costantemente insieme , unito ? Immaginiamoci un puntaspilli “invisibile” pieno di spilli piantati su di esso : noi vediamo solo gli spilli , che fuor di metafora sono le caratteristiche secondarie che a loro volta poggiano sulle primarie ; ma ciò che le tiene insieme ( il puntaspilli invisibile ) noi non lo conosciamo , ma sappiamo che c’é : pensare che vi sia una sostanza cui ineriscono tutte le qualità che in essa scorgiamo deriva dal fatto che solo ipotizzando la sua esistenza si può ammettere che certe qualità si presentano costantemente insieme ( altezza , peso , colore … ) : se dico che il libro é blu , é di forma a parallelepipedo , vuol dire che ci deve essere da qualche parte la sostanza libro cui queste caratteristiche ineriscono ! A questo punto Locke introduce le idee generali : le idee di sostanza sono sempre individuali ( John , Socrate , Platone … ) , tuttavia é evidente che esistano anche idee generali , costruite tramite processi astrattivi : da singole idee di sostanza ( Socrate , John , Platone ) , tramite un processo astrattivo , arrivo all’idea generale “uomo” ; avrò più idee complesse ( John , Socrate , Platone ) costituite ognuna da più idee semplici ( altezza , colore , forma … ) : ora per ottenere l’idea generale uomo non devo far altro che estirpare da queste idee complesse le differenze che intercorrono dall’una all’altra , tenendo per buone solo le caratteristiche ( idee semplici ) che ineriscono a tutte e tre le idee complesse considerate : Socrate , Platone e John non avranno la stessa altezza , quindi tolgo l’idea semplice “altezza” , non avranno lo stesso peso , quindi tolgo l’idea semplice “peso” e così via finchè non lascio solo le idee semplici caratteristiche a tutte e tre le idee complesse considerate ( ad esempio l’idea di piedi , di mani , di testa … ) : quella é l’idea generale uomo , ossia l’essenza uomo , quella che Platone aveva chiamato “uomo in sè” : ho scartato l’idea di altezza e di peso e infatti per comunicare a qualcuno che cosa sia un uomo non gli dico che é un essere alto X e pesante Y , bensì gli dico che é un essere con due mani , una testa , due piedi , proprio perchè tutti gli uomini hanno queste caratteristiche . Ma perchè l’uomo sente l’esigenza di creare idee generali o essenze ? Questa esigenza é dettata dalla necessità di comunicare , ossia di dare un nome comune ( uomo ) a tante cose ( John , Platone , Socrate ) per “economia di pensiero” ; elimino le caratteristiche specifiche per arrivare a quelle generali : seleziono , in altri termini , qualità comuni a più cose e attribuisco un nome a quelle cose che le presentano ( uomini ) . Locke , per quel che riguarda il linguaggio , é un nominalista : gli universali sono solo un nostro processo di astrazione e di per sè non esistono . Tuttavia a questo punto Locke fa un’importantissima distinzione , centrale nel suo ragionamento , tra essenza reale ed essenza nominale , facendo l’esempio dell’oro . L’idea di sostanza nell’oro , come ogni altra idea di sostanza , a noi uomini é sconosciuta , tuttavia c’é chi la conosce : Dio . Riprendendo una tematica tipica del 1600-1700 , Locke é del parere che si possa conoscere perfettamente solo ciò che si costruisce , mentre ciò che non costruiamo noi non potremo mai conoscerlo alla perfezione . E questo vale anche per la sostanza : noi non la conosciamo in quanto non l’abbiamo costruita , tuttavia possiamo conoscerne alcune caratteristiche . Dio é in una situazione diversa : Dio le ha costruite di persona le sostanze e , quindi , le conosce perfettamente , a priori : la conosceva addirittura prima di crearla perchè già l’aveva in mente . Noi che non siamo artefici delle sostanze dobbiamo accontentarci di individuare , con una conoscenza a posteriori , alcune caratteristiche della a noi ignota sostanza , ad esempio l’oro : é giallo , luccica , é malleabile , si fonde … Dio che l’ha creato , invece , le caratteristiche dell’oro le conosce a priori e conosce perfino la sostanza oro , che a noi sarà sempre oscura ; noi , a posteriori , con l’esperienza , per quanto ci sforziamo , potremo sempre e solo arrivare alle sue caratteristiche ; possiamo fare , ad esempio , il processo di astrazione che facevamo per l’uomo : “oro” é infatti un’idea generale , proprio come “uomo” . Posso avere un anello d’oro , una moneta d’oro e una pepita d’oro , ad esempio : arrivo a prescindere dalla forma e a mantenere esclusivamente le caratteristiche comuni a tutti e tre gli oggetti : ecco allora che userò la parola “oro” per indicare tutte quelle cose che hanno quelle caratteristiche comuni a tutte le cose d’oro ( colore , malleabilità , ecc. ) . Con l’astrazione , proprio come nel caso dell’uomo , ho estirpato dai tre oggetti d’oro le caratteristiche non comuni a tutti e tre : sembra dunque che io uomo sia arrivato alla stessa conoscenza di Dio ; Lui sa che l’oro ha le caratteristiche X , Y , Z perchè l’ha creato come sostanza , io so che ha quelle caratteristiche perchè ho effettuato un’astrazione . Però le cose non stanno in questi termini : Dio conosce le caratteristiche della sostanza oro , ma anche la sostanza oro in persona ; io mi limito a conoscere le caratteristiche . E qui subentra la distinzione tra essenze reali ed essenze nominali : Locke chiama essenze reali l’insieme di quelle caratteristiche che appartengono necessariamente a quella cosa ( l’oro ) perchè derivano dalla sostanza di quella cosa ; definisce invece essenze nominali l’insieme delle caratteristiche conosciute a posteriori con l’esperienza , senza sapere che cosa sia effettivamente la sostanza cui ineriscono ; vengono dette nominali proprio perchè sono legate alla costruzione dei nomi tramite il processo astrattivo illustrato . Ora Dio conosce a priori (perchè l’ha creata , l’ha vista nella sua testa ancora prima di darle vita ) la sostanza e anche le caratteristiche che da essa derivano necessariamente ( colore , forma … ) , l’uomo può solo conoscere a posteriori ( proprio perchè la sostanza non l’ha creata lui ) le caratteristiche della a lui ignota sostanza ( colore , forma … ) : Dio conosce l’essenza reale dell’oro , l’uomo quella nominale . La differenza tra i due saperi , divino e umano , può essere in altri termini così enucleata : Dio conosce la sostanza oro più tutte le sue caratteristiche (essenza reale) , l’uomo conosce solo le caratteristiche della sostanza e con un processo astrattivo , eliminando le differenze , ha dato un nome ( oro ) a tutte quelle cose che presentano le caratteristiche determinate (essenza nominale) . Sembra tuttavia che l’uomo con i suoi sforzi possa arrivare a conoscere , bene o male , l’essenza delle cose come Dio , pur non conoscendo mai la sostanza : so anch’io che l’oro é malleabile , é giallo , luccica … Però Locke fa notare una cosa che mette in crisi questa affermazione : immaginiamo di immergere in un acido le tre idee complesse esaminate , l’anello , la moneta e la pepita , dalle quali sono arrivato all’idea generale “oro” : qualora tutti e tre reagiscano allo stesso modo non ci son problemi ; però supponiamo che l’anello e la moneta vengano intaccati dall’acido e la pepita no ; io ho eliminato le caratteristiche tra quei tre oggetti e , tenendo buone quelle comuni , ho astratto l’idea generale “oro”; però adesso subentra una nuova differenza che prima non avevo considerato : reagiscono diversamente con l’acido . Le possibilità sono due : 1 ) o decido che l’essere intaccabile o meno non fa parte di quel che ritengo fondamentale per definire ciò che é oro e quindi non tengo in considerazione l’intaccabilità ; oppure 2 ) posso decidere che non sia più corretto definire “oro” le sostanze che prima avevo definito tali (l’anello , la pepita e la moneta) , proprio perchè é insorto un qualcosa di inaspettato . Infatti , tramite una serie di esperienze ho costruito un’essenza nominale , in base ad una mia astrazione , e ho chiamato con un nome comune ( oro ) un gruppo di cose da me scelte ; poi però ho fatto un ulteriore esperimento su ciò che ho definito oro : se tutti e tre gli oggetti da me definiti oro avessero dato lo stesso risultato con il nuovo esperimento non vi sarebbero stati problemi e la definizione data sarebbe rimasta valida ; tuttavia ho ottenuto risultati diversi e mi trovo di fronte alle due possibili ipotesi ( appena citate ) : se accetto la seconda ipotesi , ossia se non sono più d’accordo che sia corretto definire “oro” le sostanze che prima avevo definito tali , dovrò dare un nuovo nome alle medesime . Tutto questo discorso serve a fondare una cosa di fondamentale importanza , che porta Locke addirittura oltre l’empirismo : tutta la nostra conoscenza deriva dall’esperienza e consiste nel conoscere le caratteristiche di una sostanza che ci é oscura , ma non é mai una conoscenza definitiva , come dimostra l’esperimento dell’acido : chiamiamo continuamente con nomi generali gruppi di idee semplici , ma nuovi esperimenti possono farmi cambiare parere da un momento all’altro : ciò che oggi é oro , magari domani scopro che può essere definito diversamente . Poi Locke , in ambito gnoseologico , fa un ulteriore passaggio : cosa significa , in definitiva , conoscere ? Conoscere significa constatare la concordanza o la discordanza tra due idee ; se una proposizione é affermativa , si stabilisce la concordanza tra due idee , se invece la proposizione é negativa si stabilisce la discordanza tra due idee . Questa concordanza può essere conosciuta con certezza , ma anche solo presupposta in termini probabilistici : anzi , per Locke la conoscenza certa tramite concordanza la si ha in rari casi e tramite canali privilegiati : gli strumenti conoscitivi riconosciuti dal pensatore inglese sono tre , in apparenza analoghi a quelli di Cartesio , in realtà radicalmente diversi , soprattutto per dove portano Locke . a) intuizione ; b ) dimostrazione ; c ) sensazione attuale immediata ; a ) per intuizioni Locke intende quelle evidenze immediate che mi rendono immediatamente evidente la concordanza di due idee ; tipico esempio é quello del cogito, ergo sum di Cartesio : c’é concordanza immediata tra l’idea del pensare e quella dell’esistere : ciò che pensa deve esistere , quindi io che penso esisto . Tuttavia Locke non condivide con Cartesio la questione della res cogitans : infatti Cartesio , dal fatto di intuire di esistere con l’attività intellettuale , aveva allungato il passo ed era arrivato a dire di esistere come pensiero ( res cogitans ) , privo di corpo . Locke , da buon cristiano , non accetta quest’idea e preferisce di gran lunga l’idea che l’uomo sia una sostanza materiale dotata di pensiero , e non semplicemente un pensiero senza corpo . b ) per dimostrazione Locke intende l’argomentazione data dal passaggio da un’idea nota ad un’altra ignota ; rientra pienamente nell’ambito della dimostrazione la causalità , che Locke ammette : dove vi é un effetto posso dimostrare una causa ; passo dall’idea di effetto nota all’idea di causa ignota ; e così per Locke é dimostrabile l’esistenza di Dio : dall’effetto mondo si deve risalire alla causa incausata , Dio : Dio causa il mondo senza essere da nulla causato . c ) Esaminiamo ora la sensazione attuale : se percepisco il libro , ci deve essere qualcosa al di fuori di me da cui derivano le percezioni che ricevo : ossia ci deve essere il libro ; però la sostanza continua a rimanere sconosciuta ; ora le percezioni che ricevo mi dimostrano che esiste qualcosa fuori di me , ma io continuo a non sapere che cosa sia questo qualcosa ( la sostanza ) . Ma questa conoscenza che avviene tramite i miei sensi che percepiscono le idee viene da Locke detta di sensazione ; ma la conoscenza per sensazione vale solo per la sensazione immediata : vedo il libro che mi sta davanti e percepisco sensazioni ( idee ) : deve per forza esistere qualcosa al di fuori di me da cui le sensazioni derivino ; ma se ho visto il libro un mese fa e ora non ce l’ho più davanti , la conoscenza per sensazione non vale più , perchè non é una sensazione immediata : é un ricordo , un qualcosa che non posso più toccare nè vedere . Solo ciò che mi sta davanti , ossia ciò che mi dà sensazioni immediate , può darmi conoscenza . Questi tre strumenti ( dimostrazione , intuizione e sensazione immediata ) mi danno la conoscenza ( knowledge ) . Si tratta però di una conoscenza ristretta : infatti le cose che possiamo dimostrare o intuire sono davvero poche e rimane una vastissima area di cose su cui non ho certezza , quell’area grigia tanto temuta da Cartesio ; ma ciò che non é intuito o dimostrato , ossia ciò che non é certo , pur non essendo razionale , può essere oggetto della ragionevolezza , che non mi dà certezze assolute , ma buoni consigli : in questa vasta area la concordanza tra idee non può essere conosciuta con certezza , ma solo supposta ; qui avremo quindi una conoscenza non certa , ma probabile , coi suoi criteri , che ci interessa nella vita di tutti i giorni . Questa conoscenza probabile Locke la chiama judgement . Ecco allora che se la conoscenza é concordanza di idee , questa concordanza può essere certa ( knowledge ) nel caso che ad essa si pervenga con l’intuizione , la dimostrazione o la sensazione attuale , ma può anche essere solo presupposta , probabile : in questo caso allora si avrà il judgement , la forma di conoscenza che trova un vastissimo campo di applicabilità nella realtà ; in questa parte del Saggio sull’intelletto umano Locke sta così arrivando a risolvere la questione sulla quale lui e i suoi compagni anni addietro si erano bloccati : fin dove può arrivare la conoscenza umana ? Accanto al sapere certo ( 2+2=4 o penso, dunque esisto ) , c’é il sapere probabile ( judgement ) , che ci coinvolge nella vita di ogni giorno . Al pensatore inglese pare opportuno , sulle orme degli Scettici , trovare un metodo opportuno per individuare con precisione le probabilità di certezza e di conoscenza sulle cose non del tutto certe . I principali mezzi di indagine per il sapere probabilistico sono quelli che Locke chiama la “fiducia nel testimone” e la “coerenza dell’esperienza” : quando riceviamo delle informazioni il tasso di probabilità deriva da questi due diversi gradi . Quando mi viene riferito qualcosa , devo pormi il problema se ciò che mi viene detto é vero oppure no : il che é appunto dato dalla fiducia che io ho nel testimone , ossia in colui che mi riferisce l’informazione , oltre che dalla non contradditorietà con l’esperienza . Se mi si dice che un asino vola , ho un bassissimo tasso di coerenza con l’esperienza , la quale mi suggerisce che gli asini non volano proprio perchè , tra tutti gli asini presi in esame , non ne ho mai visto uno volare ; tuttavia non ho certezza assoluta che sia impossibile , come se mi si dicesse che 2 + 2 = 5 : dire che 2 + 2 = 5 é autocontradditorio , assolutamente impossibile perchè so con certezza ( con la knowledge) che 2 + 2 = 4 ; nel dire che un asino vola non vi é nulla di autocontradditorio , si tratta solo di un qualcosa assai lontano dall’esperienza . A questo punto però la coerenza dell’esperienza si intreccia con la fiducia nel testimone : chi mi ha detto che l’asino vola é una persona attendibile ? Se é una persona di cui ho stima e mi dice di aver visto volare un asino ( proprio perchè l’esperienza non sbaglia ) , potrò prestargli fede e prendere per vero che ha visto un asino volare ; tuttavia se egli mi dicesse che 2 + 2 = 5 , per testimone attendibile che possa essere , non posso credergli mai e poi mai . Allo stesso modo mi si dice che John é passato per quella strada : non contrasta con l’esperienza perchè John abita in quella zona ed é solito passare di lì ; tuttavia il testimone non é attendibile : non devo accettare come vero che John sia passato di lì . Quelli dell’asino che vola e di John sono casi semplici , che servono da esempi ; tuttavia il metodo probabilistico del judgement trova applicazioni più complesse , pensiamo alla veridicità delle fonti storiche : anche qui devo servirmi della fiducia nel testimone e della coerenza dell’ esperienza : lo storico mi illustra il passaggio di Cesare dal Rubicone : il Rubicone esiste , non contrasta con l’esperienza e lo storico é un testimone attendibile . Locke , poi , inserisce nel judgement un altro elemento : la fede religiosa . Essa si riferisce a cose di cui non possiamo avere la certezza perchè non sono intuite , nè dimostrate nè sensazioni attuali : sono cose che ci vengono raccontate , ma che non abbiamo visto . Ora Locke , che si ritiene un buon cristiano , riprende la distinzione fatta a suo tempo da San Tommaso : vi sono delle cose nella fede religiosa che sono dimostrabili con la ragione , altre che non lo sono ma che tuttavia non si oppongono al raziocinio e altre ancora che gli si oppongono nettamente . Locke in La ragionevolezza del Cristianesimo spiega come i messaggi di cui si fa latore il Cristianesimo sono ragionevoli , ossia accettabili dalla ragione ; sono messaggi che o sono accettabili dalla ragione o che le stanno sopra , senza però opporsi : tra i messaggi cristiani non ve ne sono mai alcuni che si oppongano alla ragione , secondo Locke . Sostenendo queste tesi , il pensatore inglese prende le distanze dal Cristianesimo più estremistico che si stava andando ad affermare nell’Inghilterra di 1600 . Certo , se la fede andasse contro la ragione saremmo tenuti a rifiutarla , ma la fede dice cose dimostrabili con la ragione ( come l’esistenza di Dio e la sua unicità ) . Poi nella fede vi sono anche delle cose che vanno al di là della ragione umana , che le stanno sopra ( above reason ) , ma tuttavia questo stare sopra non é mai un andare contro . Tuttavia , se la fede é accettabile proprio perchè non opposta alla ragione , si tratta di capire perchè si debbano accettare delle cose che , pur senza andare contro la ragione , le stanno sopra , non sono da essa dimostrabili . Locke fornisce una risposta a questo interrogativo dicendo che avere fede significa credere in cose indimostrabili con la ragione e allo stesso tempo inderivabili dall’esperienza , ma tuttavia testimoniate dal più sincero dei testimoni : Dio . I contenuti della religione cristiana derivano dalla Rivelazione , la quale ( spiega Locke ) non é contradditoria ai dettami della ragione ( pur standole sopra ) e ci é riferita da Dio , testimone sincero e buono ( Dio , che é perfetto , non può che essere buono : l’aveva già dimostrato Cartesio ) . Ecco quindi che anche la fede rientra nella conoscenza probabile e non certa , il judgement . In conclusione del discorso gnoseologico , Locke paragona , come accennavamo , la ragione umana a una candela : essa ci illumina , però non su tutta la realtà , anzi su porzioni ristrette e non su tutte allo stesso modo ( ci rischiara molto bene per quel che riguarda la knowledge , un pò meno bene per il judgement ) . Tuttavia é l’unico strumento di indagine di cui disponiamo ed é stato Dio stesso a fornirci di questa candela conoscitiva : Egli ci ha fornito di quanto ci basta per conoscere : la nostra ragione , pur non essendo onnipotente , ci é sufficiente , tant’é che può dire la sua anche per quel che riguarda la religione . Oltre che di gnoseologia , Locke si interessa molto anche di politica ed é spesso considerato l’anti-Hobbes per eccellenza , sebbene egli lavori sul medesimo terreno su cui lavorava il teorico dell’assolutismo . Se Hobbes é considerato il teorico dello stato assoluto , Spinoza di quello democratico , Locke viene generalmente considerato il teorico dello stato liberale : in realtà non é stato solo un teorico , ma é stato pure coinvolto nella seconda rivoluzione inglese del 1600 , la ” Rivoluzione gloriosa ” ( 1688-1689) : si tratta di una rivoluzione incruenta e pacifica ( soprattutto se accostata alla prima ) , voluta dalla maggioranza degli Inglesi , una rivoluzione che porta all’aumento della libertà individuale : proprio in quegli anni Locke scrive i suoi trattati politici , quasi come per dare una giustificazione della rivoluzione . Sul piano intellettuale , la sua opera politica sullo stato nasce come risposta all’opera di un pensatore , Filmer , autore di un trattato intitolato “Il Patriarca” . Con quest’opera Filmer sosteneva che il potere del sovrano non é altro che un’ estensione del potere del padre sulla famiglia ad un intero stato : Dio ha dato ad Adamo un potere assoluto sulla famiglia e sui figli ; da Adamo il potere si é esteso ai patriarchi di Israele per poi arrivare ad investire intere strutture statali . Si tratta quindi di un’ idea patriarcale e divina del potere assoluto . Locke polemizza aspramente contro questa concezione divina del sovrano , sostenendo che il potere derivi non già da Dio , ma dal consenso degli individui . Anche Locke , come tutti gli altri pensatori seiecenteschi , sostiene che prima dello stato civile vi fosse un originario e retrogrado stato di natura ; tuttavia in esso non vigeva il diritto del più forte , come invece sosteneva Hobbes , e il diritto non era di tutti su tutto . Già nel retrogrado stato di natura , secondo Locke , vi era il diritto di proprietà , inteso come diritto a ciò che é proprio : ognuno aveva diritto su qualcosa , non su tutto . Locke interpreta il diritto di proprietà come il risultato del lavoro umano ; che cosa é proprio di ciascun uomo ? Ognuno ha il diritto di proprietà su se stesso , ossia ciascuno é proprio a se stesso , é padrone del proprio corpo : e questo già nello stato di natura . Ma il corpo può “estendersi” : la caratteristica dell’uomo é il saper trasformare la realtà che lo circonda e , nel momento in cui egli trasforma parti della realtà circostante , esse non sono più pura e semplice natura , ma inglobano parti dell’uomo stesso che così estende il proprio diritto di proprietà sul suo corpo “ingranditosi” : se lavoro un terreno , esso non é più solo un dono di natura , bensì é un’unione tra un dono di natura e una parte di me stesso : il mio lavoro lo trasforma . E questo a rigore vale anche per i doni della natura : se stacco una mela da un albero , dono offertomi dalla natura , faccio un lavoro e la mela diventa mia proprietà perchè non é più solo un dono di natura , ma é anche in parte mio lavoro . La proprietà é dunque l’estensione , tramite il lavoro , del corpo umano a parti della realtà . Non si tratta quindi di un diritto di tutti su tutto ( Hobbes ) , ma di un diritto di ciascuno su qualcosa . Queste premesse lockiane porteranno molti pensatori al socialismo e al comunismo : si arriverà a dire che il valore di una cosa sta nel lavoro che in essa é cristallizzato . Ma Locke é lungi dall’aderire a queste posizioni : é e rimane un conservatore , nemico del socialismo e della democrazia : arriva a teorizzare che con questa appropriazione tramite il lavoro si possa accumulare la ricchezza , generando così delle disparità economiche . Se il diritto di proprietà é già insito nello stato di natura , é evidente che una volta costituito lo stato civile il sovrano non potrà privare i sudditi di questo diritto ; potrebbe se fosse stato concesso dal sovrano con lo stato civile , ma dato che é a monte dello stato civile , va rispettato in ogni caso . Per Hobbes il sovrano poteva revocare il diritto di proprietà proprio perchè , secondo lui , esso nasceva con lo stato civile : il sovrano l’ha concesso e il sovrano può revocarlo ; per Locke é l’esatto opposto : il diritto di proprietà c’era già nello stato di natura : il sovrano non l’ha concesso e quindi non può toglierlo . Ne consegue l’ inviolabilità della proprietà privata . Anche Locke , come gli altri pensatori , spiega l’uscita degli uomini dallo stato di natura e l’entrata in quello civile : la società civile nasce da un’esigenza materiale : ognuno produce qualcosa , ma unendosi tutti insieme ci potrà essere una cooperazione : io produco questo , tu quello , lui quell’altro e ce li scambiamo … Dunque lo stato civile nasce come accordo tra gli uomini a cedere il potere ad una persona detta sovrano affinchè essa garantisca quei diritti già esistenti nello stato di natura , in primo luogo il diritto di proprietà . Lo stato , dunque , non deve concedere nuovi diritti , ma deve solo limitarsi a mantenere quelli già esistenti , rendendo la società più stabile e sicura . Ognuno potrà quindi lavorare e scambiare con gli altri senza che lo stato intervenga per limitare i suoi affari o per impedirglieli . E’ la cosiddetta idea dello “stato poliziotto” , ossia dello stato che non interviene nella società se non per garantire la correttezza nei rapporti sociali : lo stato deve agire allo stesso modo in cui agiscono i poliziotti nei mercati : non hanno nulla a che fare con il mercato i poliziotti e si limitano a controllare che non vi siano irregolarità : il mercato funziona per conto suo . Così deve essere anche nello stato : non occorre alcun intervento in campo economico ; l’unico intervento legittimo da parte dello stato è quello di prelevare imposte dai guadagni privati degli individui in modo da poter garantire quei servizi pubblici che ridondano poi a beneficio di tutti e di ciascuno . Questa teoria che sta alla base del liberismo economico e che sarà accolta con entusiasmo nel 1700 dai fisiocratici , prevede che lo stato intervenga solo per far funzionare meglio la società : deve quindi essere uno “stato minimo” , che prende atto dell’esistenza della società e la difende : ecco allora che Locke distingue per primo tra società civile e stato . Questa distinzione in pensatori quali Hobbes non c’era proprio perchè la società nasceva come conseguenza della nascita dello stato ; ma per Locke una forma di società , seppur arcaica e rudimentale , é già presente nello stato di natura e lo stato civile serve solo a rafforzarla e a proteggerla . E’ lo stato stesso che nasce come conseguenza della società , la quale sente il bisogno di trovare un garante della libertà e della sicurezza . L’atteggiamento lockiano prevede una notevole limitazione del potere dello stato : il contratto sociale viene stipulato tra i sudditi e il sovrano : si stabiliscono i doveri e i diritti e anche il sovrano , proprio perchè ha firmato il contratto , deve attenersi : i sudditi gli danno il potere affinchè egli garantisca loro determinati diritti , lui firma e di conseguenza , accanto ai diritti , ha anche i doveri ( garantire l’ordine e i diritti ai sudditi ) ; il sovrano può infrangere il contratto sociale , proprio perchè anche lui l’ha firmato : in questo caso vi é il diritto di ribellione da parte del popolo ; Hobbes aveva negato il diritto di ribellione proprio perchè il sovrano per lui non firmava alcun contratto : se non firma il contratto non può infrangerlo e quindi non vi é motivo di ribellione . Ma in Locke il sovrano firma il contratto e quindi può infrangerlo ; se lo infrange ci deve essere la ribellione ed é proprio quel che avviene negli anni in cui scrive Locke e che lui stesso supporta . Locke é quindi teorico del liberalismo politico in quanto sostiene che ogni cittadino abbia il diritto alla libertà individuale e che vi siano dei diritti individuali insormontabili addirittura per lo Stato ; é poi anche in un certo senso il teorico del liberismo economico in quanto é convinto che lo stato non debba intervenire nell’economia dei singoli cittadini , imponendo dazi e norme che limitino la libertà : questo atteggiamento sarà sintetizzato dai fisiocratici francesi del 1700 nell’espressione laissez faire, laissez passair : lo stato non deve mai intervenire , in nessun caso . In campo politico , Locke é anche il grande teorico della divisione dei poteri , che rende meno “pesante” e autoritario il governo : la divisione dei poteri é centrale nelle teorie liberali e prevede l’articolarsi della sovranità in poteri tra loro indipendenti ; controllandosi l’un l’altro i poteri , vi é più spazio per la libertà del singolo e si garantisce un equilibrio per evitare dittature . Per Locke non devono essere le stesse persone a fare le leggi e ad applicarle : viene così a crearsi la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo : se i due poteri fossero entrambi concentrati nelle mani di una sola persona il singolo rimarrebbe schiacciato . Tuttavia con Locke non vi é ancora la tripartizione dei poteri ( esecutivo , legislativo , giudiziario ) ; accanto al legislativo e all’esecutivo egli riconosce il potere federativo , che consiste essenzialmente nella politica estera ; tuttavia esso finisce per restare nelle mani del sovrano , che detiene il potere sia per quel che riguarda la politica interna sia per quel che riguarda quella estera . Il potere giudiziario Locke lo trascura ed esso sarà poi rivalutato nel 1700 da un grandissimo estimatore di Locke stesso , Montesquieu . D’altronde ai tempi di Locke era sentitissimo il binomio esecutivo-legislativo , e il giudiziario finiva per rimanere in disparte : il sovrano deteneva quello esecutivo , il parlamento quello legislativo e i due finivano spesso per entrare in conflitto . La divisione dei due poteri , esecutivo e legislativo , é ancora fortissima negli Stati Uniti d’America , che d’altronde risentono fortemente del pensiero di Locke fin dai tempi della Rivoluzione americana , quando si opponevano alla madrepatria inglese citando le parole di Locke no taxation without rappresentation , rifiutandosi di pagare le tasse senza avere una loro rappresentanza in Inghilterra . Ma il pensiero politico di Locke si fece molto sentire anche in Francia : abbiamo già citato il liberismo economico dei fisiocrati francesi ; tuttavia anche il liberalismo lockiano verrà amato nel corso della Rivoluzione Francese , soprattutto nella prima fase , quella meno drammatica ; la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 deve molto a Locke . Il pensatore inglese , inoltre , diede molta importanza anche all’ educazione , riprendendo in buona parte il latino Quintiliano : il bambino deve essere educato a seconda delle sue attitudini e non vanno mai in nessun caso applicate pene corporali che , nell’ottica liberale di Locke , vanno contro la libertà del singolo , oltre a non educare : chi le ha subite da ragazzo diventerà vile per paura o violento per ripicca .
RIFLESSIONI SIGFNIFICATIVE
Essendo l’Intelligenza che innalza l’uomo su tutti gli altri esseri sensibili, e gli dà tutta la superiorità e l’impero ch’egli ha sopra loro, essa è senza dubbio un argomento che, per la stessa nobiltà sua, merita bene che noi ci applichiamo a indagarlo. L’intelligenza, come l’occhio, ci fa vedere e percepire tutte le altre cose, ma non si accorge di se stessa. E si richiedono molta arte e molte cure per metterla ad una certa distanza, e farla suo proprio oggetto. Ma, per quanto difficile sia trovare il modo di avviarsi in questa ricerca, e quale che sia lo schermo che tanto fortemente nasconde noi a noi stessi, sono tuttavia certo che la luce che questa indagine può diffondere nelle nostre menti, e tutta la conoscenza della nostra intelligenza che per suo mezzo potremo acquistare, non solo ci daranno molta gioia, ma ci saranno anche di grande utilità per guidare i nostri pensieri nella ricerca di altre cose. Questo dunque essendo il mio intento, – di esaminare l’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana, nonché i fondamenti e i gradi della credenza, dell’opinione e dell’assenso, – non mi confonderò qui a considerare la natura dell’anima come farebbe un fisico; a vedere ciò che ne costituisca l’essenza, quali movimenti debbono venire eccitati nei nostri spiriti animali, o quali cambiamenti debbono aver luogo nel nostro corpo, per produrre, mediante i nostri organi, delle sensazioni, o delle idee nella nostra intelligenza, e se alcune di queste idee, o tutte quante, dipendano, o meno, nella loro formazione, dalla materia. Per interessanti e stimolanti che siano tali speculazioni, le eviterò, perché non hanno alcun rapporto col fine che mi propongo in quest’opera. Basterà, per l’intento che io perseguo in queste pagine, esaminare le facoltà di conoscere dell’uomo, in quanto esse operano nei riguardi dei diversi oggetti che si presentano alla sua mente. E credo che non avrò affatto perduto il mio tempo nel meditare su questa materia, se, usando questo metodo storico e semplice, posso far vedere in quali modi la nostra intelligenza venga ad acquisire le nozioni che ha delle cose, e se potrò stabilire i criteri della certezza della nostra conoscenza, e i fondamenti delle convinzioni che vediamo regnare fra gli uomini. (Saggio sull’intelligenza umana, libro I, 1)
L’intelletto, che supponiamo privo di ogni sorta di idee naturali, viene a ricevere gradualmente queste idee nella misura in cui l’esperienza e l’attenzione gliele offrono. Dopo un’attenta indagine noi troveremo che esse derivano tutte da due fonti, che sono la sensazione e la riflessione. 1) È evidente che gli oggetti esterni, venendo a contatto con i nostri sensi, procurano diverse idee al nostro spirito, che esso precedentemente non aveva. In questo modo noi veniamo ad avere le idee del rosso, del blu, del dolce e dell’amaro, e tutte quelle altre idee che sono prodotte in noi dalla sensazione. Io credo che le idee di sensazione siano i primi atti del pensiero e che, fintanto che gli oggetti esterni non hanno fornito allo spirito queste idee, non vi sia possibilità alcuna di pensiero. 2) Lo spirito poi, rivolgendo la sua attenzione alle idee che gli sono pervenute dalla sensazione, ottiene le idee di quelle stesse operazioni che sono in lui. Questa è l’altra fonte delle nostre idee, che io chiamo riflessione, grazie alla quale noi otteniamo le idee di ciò che si chiama pensare, volere, ragionare, dubitare, decidere, eccetera. Da questi due principi ci derivano tutte le idee che noi possediamo, e io credo di poter tranquillamente dire che il nostro spirito non possiede assolutamente nessun’altra idea all’infuori di quelle che gli forniscono i nostri sensi, o che esso si fa delle sue proprie operazioni sulle idee ricevute dai sensi. Ne consegue, innanzi tutto, che se qualcuno fosse da sempre stato privo di uno dei suoi sensi, egli non potrebbe mai possedere idea alcuna che appartenga a questo senso. E questo appare chiaramente in coloro che sono nati sordi o ciechi. In secondo luogo ne consegue che, se si potesse supporre un uomo che fosse da sempre stato privo di tutti i suoi sensi, egli non possederebbe nessun’idea, perché egli non avrebbe mai né alcuna idea di sensazione, non avendo gli oggetti esterni alcun modo per produrvele per mezzo dei sensi, né alcuna idea di riflessione, mancando costui di ogni sensazione, che è la causa prima che provoca in lui queste operazioni del suo spirito, che sono gli oggetti della riflessione. Infatti, non essendoci nello spirito nessun’idea innata, o connaturale, supporre che lo spirito elabori delle idee, prima che esso le abbia ricevute dall’esterno, significa supporre una cosa contraddittoria. (Silloge del Saggio sull’intelligenza umana, libro II, 1)
Quanto alla nostra propria esistenza, la percepiamo in modo così evidente e certo che essa, né ha bisogno, né è suscettibile di alcuna prova. Poiché nulla può essere più evidente a noi stessi della nostra propria esistenza. Io penso, ragiono, sento piacere e dolore: forse che alcuna di queste cose può essermi più evidente della mia stessa esistenza? Se dubito di tutte le altre cose, quello stesso dubbio mi fa percepire la mia propria esistenza, e non mi permetterà di dubitarne. Poiché, se so di sentire un dolore, è evidente che ho una percezione altrettanto certa della mia propria esistenza quanto dell’esistenza del dolore che avverto; o, se so di dubitare, ho una percezione altrettanto certa dell’esistenza della cosa che dubita quanto di quel pensiero che chiamo un dubbio. È dunque l’esperienza a convincerci che abbiamo una conoscenza intuitiva della nostra stessa esistenza, e una percezione interiore infallibile del fatto che esistiamo. In ogni atto di sensazione, di ragionamento o di pensiero, siamo consapevoli di fronte a noi stessi del nostro essere, e, su questo punto, non manchiamo di attingere il più alto grado di certezza. (Saggio sull’intelligenza umana, libro IV, 9)
GOTTFRIED LEIBNIZ
Se segnassimo a caso dei punti su un foglio di carta , si potrebbe individuare sempre e comunque un’equazione matematica tale da rendere conto di quanto fatto
LEIBNIZ
Goffredo (Gottfried) Leibniz lavora negli ultimi anni del 1600 e nei primi del 1700 ; figlio di un professore universitario , egli nasce a Lipsia , in Germania , nel 1646 . Il suo pensiero é per molti versi anomalo rispetto alle idee prevalenti all’epoca , un’epoca in cui dominava il rigido meccanicismo cartesiano . Leibniz é uno di quei pensatori che può essere definito “genio universale” nel vero senso della parola : é stato grande matematico , fisico , scienziato e filosofo . Scopritore del calcolo infinitesimale , creatore di una più complessa calcolatrice rispetto a quella inventata da Pascal , escogitatore di apparati per facilitare il lavoro dei minatori , Leibniz ebbe una cultura che spaziò nei campi più vasti . E non mancano gli aneddoti sulla sua vita : si racconta che per effettuare le osservazioni scientifiche sugli insetti , egli fosse solito raccoglierli , introdurli nel suo laboratorio e , una volta terminata l’osservazione al microscopio , riportarli laddove li aveva prelevati . Questo tra l’altro testimonia un diverso atteggiamento nei confronti del mondo animale rispetto a pensatori come Cartesio , convinto che gli animali altro non fossero che macchine . Anche Leibniz , come moltissimi altri pensatori del Seicento , tenta di trovare una soluzione al problema lasciato in eredità da Cartesio sul rapporto tra res cogitans ( spiritualità ) e res extensa (materialità ) : Leibniz risolverà la questione in modo diametralmente opposto a Hobbes , sostenendo che esista solo la res cogitans : l’unica realtà esistente , per il pensatore tedesco , finisce per essere la realtà spirituale e quella che comunemente chiamiamo “materia” non é altro che un modo di manifestarsi secondario della res cogitans . Tra gli interessi di Leibniz vanno sicuramente annoverati anche il diritto e la diplomazia ; quando il duca di Hannover divenne re di Inghilterra tradì il suo ex servitore Leibniz per premiare un inglese , Newton ; infatti in quegli stessi anni sia Leibniz sia Newton avevano scoperto il calcolo infinitesimale ; si doveva però decidere a chi attribuire la paternità e il nuovo re di Inghilterra , al fine di ingraziarsi gli Inglesi , scelse Newton , sebbene Leibniz avesse effettuato la scoperta un pò prima del pensatore inglese . Goffredo soffrì molto per l’ingiustizia patita , ma ciononostante rimase uno spirito essenzialmente ottimista , capace di vedere del bene in ogni cosa e sostenitore della teoria secondo la quale il nostro mondo sarebbe il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare . D’altronde egli era anche uno studioso di Dio , un teologo luterano , e tra i suoi interessi e progetti religiosi vi era quello di realizzare una vera e propria concordia religiosa a livello europeo : il principio sul quale voleva istituire questa concordia pacifica era quello dell’unità del molteplice , di ascendenza platonica ; questo progetto utopico dà poi l’idea della concezione leibniziana del mondo : esso , oltre ad essere il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare , é sì estremamente variegato e molteplice , ma tuttavia allo stesso tempo é anche in qualche misura unitario . Si ricorda sempre l’asserzione leibniziana : se segnassimo a caso dei punti su un foglio di carta , si potrebbe individuare sempre e comunque un’equazione matematica tale da rendere conto di quanto fatto : dietro l’apparente disordine e caos del mondo per Leibniz si nasconde sempre e comunque un grande ordine . Se il pensatore tedesco non scrive grandi trattati che fungano da compendi del suo pensiero filosofico lo fa esclusivamente per mancanza di tempo : era sempre indaffarato in esperimenti scientifici o calcoli matematici . Egli preferisce scrivere operette snelle , quali la Monadologia , optando sempre per la lingua francese , tipica dei personaggi colti . L’unico vero trattato corposo sono i Nuovi saggi sull’intelletto umano , contrapposti al Saggio sull’intelletto umano dell’inglese Locke : con quest’opera enciclopedica Leibniz muove una serrata critica contro l’empirismo lockiano , abbracciando posizioni innatistiche di forte sapore platonico . Ed é proprio in questo caso che emerge la grande correttezza dell’uomo Leibniz : poco tempo prima che potesse pubblicare i suoi saggi , moriva il suo avversario filosofico Locke e Leibniz si rifiutava di dare pubblicazione alla sua opera , proprio perchè l’ormai defunto Locke non avrebbe potuto difendersi . Questo episodio dimostra la grande correttezza di Leibniz , esempio di genialità intellettuale ma allo stesso tempo modello di humanitas e di rispetto . In ambito strettamente filosofico , i problemi cui Leibniz prova a dare una soluzione sono essenzialmente due : 1 ) in primo luogo egli intende dare una risoluzione definitiva alla questione delle due res , facendo scomparire la res extensa e dominare la res cogitans ; 2 ) in secondo luogo egli si occupa di gnoseologia , facendosi latore di tesi a favore dell’innatismo ; un innatismo che risente della tradizione platonica , ma che comunque presenta aspetti di modernità , che saranno poi spunti per Freud e per la psicologia moderna . Accennavamo al fatto che in fondo Leibniz é un pensatore anomalo se inserito nel contesto culturale del Seicento : in quegli anni , caratterizzati dall’imperare della fisica matematizzata e del cartesianesimo egli riduce tutto , materia compresa , a spiritualità ; le sue stesse origini tedesche contribuiscono a renderlo un pensatore difficilmente inseribile nel 1600 : la Germania dell’epoca era una realtà periferica e i suoi grandi pensatori risultavano sì interessati alle grandi tematiche del secolo , però allo stesso tempo nutrivano simpatia nei confronti della tradizione filosofica scolastica ; Leibniz stesso confessa di preferire Aristotele a Cartesio per quel che riguarda la fisica . Ma ciò che può sembrare un forte limite alle sue vedute culturali , in realtà si trasforma in un elemento a suo vantaggio : Leibniz vivendo in una realtà ancora legata alla tradizione scolastica quale é la Germania del 1600 , può vedere con nitidezza i limiti del cartesianesimo e del meccanicismo , riuscendo a cogliere con facilità i suoi elementi più bislacchi e stridenti con la realtà . Il nucleo ispiratore della filosofia leibniziana consiste nel non negare la validità del meccanicismo all’epoca imperante, bensì nel considerare la medesima come limitata ad una parte superficiale della realtà, al di sotto della quale vi é a sua volta un’altra realtà più profonda che va avanti con leggi che esulano dal meccanicismo. Per comprendere il ragionamento leibniziano é bene tenere a mente quello cartesiano , da cui Leibniz muove : penso dunque sono; dal fatto di intuire la mia esistenza dal fatto di pensare Cartesio concludeva in modo indebito di esistere come res cogitans , come cosa interamente spirituale , che non ha nulla a che vedere con la materia (res extensa) ; materia (res extensa) e spiritualità (res cogitans) sono due sostanze nettamente distinte, che vanno avanti ciascuna secondo le sue leggi. Nel mondo fisico della res extensa vige il meccanicismo più radicale, nel mondo spirituale predomina invece il libero arbitrio. Tuttavia il problema scaturiva dal dover ammettere un contatto tra i due mondi, spirituale e materiale, contatto che é inevitabile nel corpo umano: la res cogitans, con il suo libero arbitrio, decide di alzare il braccio e la res extensa braccio, seguendo le rigide leggi del meccanicismo, si alza. Ma come si può ammettere un contatto tra i due mondi? La prima grande aporia é che se il contatto può solo avvenire per urti materiali, come su un tavolo da biliardo, é evidente che tra anima (res cogitans) e corpo (res extensa) non ci potrà mai essere contatto proprio perchè é assurdo ipotizzare degli urti materiali tra un corpo e un’anima ; ma l’altro problema , altrettanto difficile da risolvere , é insito nell’eterogeneità tra le due sostanze: nella res cogitans vige il libero arbitrio , nella res extensa il meccanicismo : messe a contatto si inquinerebbero l’un l’altra ; eppure vanno messe a contatto altrimenti non si potrebbe spiegare l’alzarsi del braccio in seguito alla decisione presa . In fondo chi ammette il meccanicismo si vede costretto a negare la libertà e il finalismo, riconducendo tutto a cause efficienti e necessarie : ed é proprio quel che fa Spinoza . Cartesio , invece , in maniera alquanto ingenua vuole mantenere sia il meccanicismo sia la libertà umana ; tuttavia le difficoltà che derivano da questa riflessione ingenua sono insormontabili : se la res cogitans può influenzare la res extensa salta il meccanicismo perchè é come dire che l’anima decide così e il corpo si muove di conseguenza, in modo meccanico : é ridicolo proprio perchè vi é un accostamento impossibile tra finalismo e meccanicismo ; come può un atto libero del pensiero inserirsi nel più radicale meccanicismo fisico? La soluzione proposta da Leibniz a riguardo consiste essenzialmente nel dare ragione a Cartesio per quel che riguarda la validità di entrambe le concezioni (finalistica e meccanicistica) e nell’approdare ad una concezione dinamicistica della realtà , caratterizzata dalla convivenza di meccanicismo e libertà di perseguire i propri fini . Tuttavia il pensatore tedesco pone le due concezioni su diversi livelli, sostenendo che tutto dipenda dal livello di analisi della realtà : ciò che ad un certo livello di realtà risulta materiale e meccanicistico, se visto con maggiore attenzione e più in profondità (una profondità metafisica) risulterà spirituale e governato da leggi assolutamente aliene al meccanicismo. Ecco allora che il meccanicismo non é altro che una manifestazione secondaria di cose che , nella loro essenza più profonda, non funzionano meccanicamente . Lo stesso Immanuel Kant si muoverà in un’ottica piuttosto simile a quella di Leibniz arrivando a dire che per il fenomenico vale il meccanicismo, ma che per la cosa in sè, invece, valgono la libertà e il finalismo. In ambo i pensatori vi é l’idea che le cose a prima vista vadano in modo meccanico, ma che se osservate con maggiore attenzione e più in profondità siano rette dalla libertà e dal finalismo. Ma se per Cartesio erano leggi che investivano diversi ambiti della realtà, per Leibniz sono invece diverse leggi (viste in chiave più o meno complessa) che valgono negli stessi ambiti della realtà, proprio perchè egli non accetta l’esistenza della res extensa e riduce tutto a res cogitans , a spiritualità. Il concetto fondamentale dal quale si espande a raggiera l’intera filosofia di Leibniz è quello di monade , sebbene egli fino agli ultimi anni del 1600 abbia preferito impiegare quello di sostanza individuale . La monade o sostanza individuale che dir si voglia esprime unità, ma non si tratta di un’unità in senso matematico quanto piuttosto in senso metafisico . Leibniz mutua questo termine dal filosofo italiano Giordano Bruno , il quale , sulla scia degli antichi Pitagorici , si era ingegnato a trovare dappertutto valori simbolici, individuando per ogni ambito della realtà un elemento primario che fungesse da unità : nei numeri, per esempio, l’elemento unitario era costituito dall’ 1 , nel sistema solare dal Sole. In realtà in Leibniz il concetto di monade ha un’origine plurima, come se riflessioni di diverso tipo avessero portato il pensatore tedesco ad un’unica meta . Egli approda per la prima volta al concetto di monade ragionando in termini fisici : egli accetta la possibilità di conoscere a livello fisico l’intera realtà in termini meccanicistici, come realtà estese che si spostano nello spazio ; tuttavia é convinto che al di sotto di queste realtà che si muovono in termini meccanicistici vi sia qualcosa di più profondo, una forza che mette in moto ogni cosa: questa forza Leibniz la chiama monade . Tuttavia il pensatore tedesco perviene al concetto di monade anche attraverso un altro percorso, di tipo logico : egli distingue tra verità di fatto e verità di ragione ; le verità di ragione sono quelle che possono essere anche chiamate “verità espresse da proposizioni identiche”, quando cioè il predicato é già implicito nel soggetto. Se dico che la somma degli angoli interni di un triangolo é di 180 gradi, in realtà é già insito nell’essenza del triangolo l’avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi . Le verità di ragione sono dunque deducibili dall’essenza stessa del soggetto e il predicato non mi dice nulla di nuovo, anzi, esprime cose identiche a quelle espresse dal soggetto, é cioè una tautologia. Con questo però Leibniz non intende asserire che nelle verità di ragione i predicati sono inutili; al contrario egli era solito constatare amaramente che disprezziamo le cose ovvie, dalle quali tuttavia emergono cose che ovvie non sono : spernimus ovvia ex quibus tamen non ovvia secuntur . E in effetti enunciare verità implicite nel soggetto non può essere assurdo, altrimenti sarebbe assurda l’intera matematica, che altro non è se non un grande lavoro di esplicitazione . Per dirla con Aristotele , pensatore particolarmente caro a Leibniz, tutto ciò che nel soggetto é già presente potenzialmente deve essere portato in atto con i predicati . Le verità di fatto , invece, sono quelle del tipo : “Cesare attraversò il Rubicone” . A differenza delle verità di ragione, qui il predicato non dice ciò che é già nel soggetto e se sappiamo che Cesare ha varcato il Rubicone, lo dobbiamo solo agli storici che ce l’hanno testimoniato empiricamente . Il fatto che Cesare abbia varcato il Rubicone non deriva dall’essenza stessa di Cesare , come invece dall’essenza del triangolo derivava che la somma degli angoli interni é di 180 gradi ; nel caso delle verità di fatto come quella del passaggio del Rubicone da parte di Cesare occorre che si verifichi effettivamente : posso esaminare l’essenza di Cesare finchè voglio, ma fin tanto che non avrà varcato il Rubicone non posso dedurre dalla medesima che egli lo varcherà : occorre che si verifichi il fatto . Per le verità di ragione non é così, non occorre che si verifichino dei fatti : mentre Cesare potrebbe essere Cesare anche senza attraversare il Rubicone, il triangolo non potrebbe essere tale se non avesse la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi : se non l’avesse non sarebbe un triangolo. Vi é quindi una nettissima distinzione tra le verità empiriche di fatto e quelle logico-matematiche di ragione ; tuttavia é opportuno fare una precisazione : riduciamo il soggetto Cesare e il predicato “ha attraversato il Rubicone” ad una formulazione puramente logica : chiamiamo A Cesare e X l’aver varcato il Rubicone ; l’espressione “Cesare ha varcato il Rubicone” la si può anche esprimere come “Cesare é qualcuno che ha varcato il Rubicone” e , a sua volta, come “Cesare é Cesare che ha varcato il Rubicone” . Nella verità di fatto non posso però dare per scontato che X sia già implicito in A , ossia che l’aver varcato il Rubicone sia implicito nell’essenza del soggetto Cesare , altrimenti degenererei in una verità di ragione . Dunque Cesare (A) é Cesare(A) che ha varcato il Rubicone(X) ; A=A é valido per il principio di identità ; ma A=X non si può fare: la X é un qualcosa che si aggiunge alla A e non é implicita in essa ; l’espressione “Cesare é Cesare che ha varcato il Rubicone” diventa A=A+X , un’uguaglianza che ha senso solo nel caso in cui X=0 : ma se X=0 significa che l’aver attraversato il Rubicone non é avvenuto o che la X é già implicita in A . X deve sempre per forza essere diverso da 0 (so che Cesare l’ha varcato il Rubicone!) : l’espressione cui mi trovo di fronte é quindi A=A+X , che é inevitabilmente sbagliata perchè va contro il principio di identità . Dicendo che X é diverso da 0 bisogna ammettere che il fatto di aver attraversato il Rubicone si sia verificato e debba essere aggiunto all’essenza del soggetto Cesare. Dopo questo complesso ragionamento, Leibniz arriva alla conclusione che la differenza tra le verità di fatto e di ragione é più apparente che reale ; tuttavia entra ora in gioco l’atteggiamento che caratterizza la filosofia di Leibniz, quello scavare ininterrotto per arrivare a verità sempre più profonde, nella convinzione che le cose vadano diversamente da come sembrano andare. Le verità di fatto , come é logico pensare, possono essere o non essere : Cesare ha attraversato il Rubicone, ma avrebbe benissimo potuto non attraversarlo senza per questo mutare la sua essenza; questo discorso però non vale per le verità di ragione: la somma degli angoli interni di un triangolo é uguale a 180 gradi e non potrebbe essere altrimenti, perchè sennò non staremmo parlando di un triangolo. In fin dei conti, spiega Leibniz, la differenza tra i due tipi di realtà é solo apparente e se indaghiamo con accuratezza scopriamo che le verità di fatto non esistono : dire che A=A+X implica che X sia uguale a 0 ; X deve cioè essere già implicito in A, ossia deve essere lo sviluppo implicito di A , proprio come accade nelle verità di ragione. Non esiste la situazione con una sostanza cui accadono delle cose, ossia dove vi é la sostanza in sè e , successivamente, ad essa si aggiungono delle cose , come , nel caso della sostanza Cesare , l’aver attraversato il Rubicone. Occorre dunque interpretare il predicato “ha attraversato il Rubicone” come sviluppo dell’essenza del soggetto Cesare, un qualcosa senza cui Cesare non sarebbe Cesare : se Cesare non avesse attraversato il Rubicone sarebbe diverso e quindi non sarebbe Cesare, sarebbe altra cosa . L’aver attraversato il Rubicone è implicito nell’essenza di Cesare proprio come è implicito nell’essenza del triangolo l’avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi . Ma allora che cosa é che differenzia le verità di fatto da quelle di ragione, due tipi di verità che in principio ci parevano nettamente distinti ? La differenza sta nel fatto che mentre le verità di ragione hanno soggetti universali (il triangolo) , quelle di fatto hanno soggetto individuale (Cesare) . Ed é per questo che non é corretto affermare “l’uomo attraversa il Rubicone” , ma é giustissimo dire che “l’uomo é un animale razionale” : nel primo caso attribuisco all’insieme universale di tutti i singoli uomini un predicato non a tutti comune (l’aver varcato il Rubicone) ; nel secondo caso attribuisco all’insieme universale di tutti i singoli uomini una caratteristica a tutti comune (l’essere forniti di ragione) . Resta ora da chiarire in che senso faccia la differenza l’universalità o l’individualità del soggetto cui le verità si riferiscono ; per comprenderlo occorre riprendere il concetto di astrazione : per ottenere il triangolo astratto universale devo prendere degli oggetti individuali in carne ed ossa a forma di triangolo e devo spogliarli di ciò che li differenzia, togliendo ad esempio i colori, la materia, le scritte… in modo tale da ritrovarmi con il triangolo in sè, ossia il poligono a tre lati . Il triangolo astratto differisce da quelli materiali proprio per via delle pochissime caratteristiche che ad esso ineriscono ; esso é tutto contenuto in esse . Il triangolo in carne ed ossa, invece, (immaginiamo di avere un triangolo di legno) di caratteristiche ne ha parecchie, anzi ne ha infinite. Pensiamo a tutte le imprecisioni presenti nel legno, ai colori… Il triangolo universale cui perveniamo con il processo di astrazione , dunque, ha un numero limitato di caratteristiche ed é pienamente esauribile da una mente finita quale é la nostra ; il triangolo individuale, invece, possiede infinite caratteristiche non coglibili da una mente limitata come la nostra. Quindi potrò conoscere con la mia mente finita l’idea di triangolo, dotata di poche caratteristiche, alla pari di come la conosce Dio , ma delle infinite caratteristiche che ineriscono all’essenza di Cesare in carne ed ossa potrò conoscerne solo alcune , a differenza di Dio, il quale invece potrà conoscerle tutte , una ad una. Con le verità di ragione posso conoscere gli universali alla perfezione proprio perchè di essi posso cogliere tutte le caratteristiche : nel caso del triangolo, posso cogliere con facilità che ha 3 lati e che la somma degli angoli interni é di 180 gradi . Nel caso della verità di fatto, invece, se potessi conoscere tutte le caratteristiche che ad essa ineriscono, potrei anche conoscere tutto ciò che deriva da quella sostanza (Cesare) ; potrei dedurre dalla sostanza Cesare il fatto che abbia attraversato il Rubicone, che sia stato ucciso dai congiurati, che abbia conquistato la Gallia… però con la mia mente limitata posso solo conoscere le caratteristiche della sostanza Cesare (come l’aver varcato il Rubicone) sulla base dell’esperienza, grazie a qualcuno che me lo dice perchè l’ha visto coi suoi occhi , proprio perchè non posso conoscere tutte le caratteristiche che danno l’essenza. Mentre Dio sa a priori che Cesare attraverserà il Rubicone, io lo so a posteriori, ossia dopo che il fatto si é verificato empiricamente. Ed ecco che torniamo al punto di partenza : la differenza tra verità di ragione e di fatto é solo apparente ; certo per me l’espressione “la somma degli angoli interni di un triangolo é di 180 gradi” é una verità di ragione, mentre quella “Cesare ha attraversato il Rubicone” é di fatto ; ma se esamino più approfonditamente il tutto scopro che per Dio sono entrambe verità di ragione : ogni cosa per Lui é verità di ragione, ovvero il predicato é sempre implicito nel soggetto ed Egli può estrarlo da ogni essenza (sia universale sia individuale) senza problemi; noi invece possiamo estrarre il predicato solo dalle realtà universali, quale é il triangolo. Ritornando al problema iniziale riguardante le monadi, Leibniz sostiene metaforicamente che esse non abbiano finestre: le monadi si sviluppano tutte dal proprio interno, nel senso che non può succedere nulla a loro che provenga dall’esterno: tutto ciò che capita ad una monade é uno sviluppo della sua stessa potenzialità. Il fatto che Cesare abbia attraversato il Rubicone non è quindi un qualcosa che succede in un dato momento a Cesare, bensì é uno degli sviluppi tutti interni alla sostanza “Giulio Cesare” : fa parte della sua essenza l’attraversare ad un certo momento il Rubicone. A noi può sembrare una verità di fatto, ma questo é dovuto solo alla nostra visione limitata che vede le cose a posteriori e non riesce ad abbinare il passaggio del Rubicone all’essenza Cesare. Ecco allora che le cose che capitano ad ogni sostanza provengono interamente e necessariamente dall’interno della sostanza stessa, quasi come un’autoarticolazione. La monade, che finisce per essere ogni qualsivoglia sostanza individuale, si configura come un centro di forza capace di sviluppare tutta una serie di caratteristiche. E se per la realtà che ci circonda vale il meccanicismo, per le monadi esso non vale più proprio perchè esse diventano una sorta di centro di creazione di nuove caratteristiche, una sorta di tensione continua nella quale costruiscono continuamente se stesse, facendo emergere dalla propria natura tutte le caratteristiche che di volta in volta vengono ad assumere. Quindi non é un processo meccanico, é molto più simile allo svolgersi della nostra vita interiore: un continuo crearsi, aggiungersi , svilupparsi di cose insite nella nostra natura stessa. E in effetti per Leibniz le monadi (tutte quante) sono sempre rigorosamente entità spirituali, non res extensa, ma res cogitans : il fatto che siano spirituali deriva dal fatto stesso di essere, come suggerisce la parola stessa, un’unità : in Leibniz é radicata l’idea che al di sotto della realtà fisica che muove in termini meccanici vi sia una forza che dà il moto e anche l’idea che tutto avvenga all’interno, come un’autoarticolazione; da giovane egli aveva abbracciato con entusiasmo l’atomismo, che gli pareva essere una spiegazione valida dell’intera realtà, vista come l’aggregato di particelle elementari e che ciò che veramente esiste sono solo le caratteristiche quantitative. Poi aveva fatto una serie di considerazioni che lo avevano condotto a ritornare sui suoi passi e a mettere in discussione l’atomismo: in primo luogo, sotto il movimento meccanico del tutto deve esservi una forza (la monade) ; in secondo luogo il concetto stesso di atomo concepito come realtà materiale é inaccettabile: qualsiasi cosa materiale, ossia dotata di estensione, per quanto piccola possa essere sarà sempre e comunque ulteriormente divisibile in parti più piccole, magari non in termini materiali, ma comunque con l’immaginazione potrò sempre e comunque scomporre ulteriormente. Viene a cadere il concetto di atomo in senso materiale: con la parola atomo (a + temnw ) si indica appunto una porzione di materia non ulteriormente divisibile, ma é impossibile che esista. La concezione atomistica per poter funzionare fino in fondo non può appoggiarsi sugli atomi materiali (che Leibniz ha dimostrato sempre ulteriormente scomponibili) e deve rinunciare al materialismo: paradossalmente, l’atomismo per esistere deve per forza essere un atomismo spiritualistico: la monade é un atomo spirituale, l’unico che possa veramente esistere. La realtà nel suo complesso viene concepita dal pensatore tedesco come l’insieme di atomi che aggregandosi costituiscono il tutto e contemporaneamente si precisa che essi sono dei “punti” spirituali e non materiali. E la materialità allora che cosa è, visto che in ultima istanza tutto é spirituale? La risposta di Leibniz é che le monadi nella loro essenza profonda sono tutte spirituali, ma che non tutte sono ugualmente perfette: la forza, la creatività, la capacità produttiva di ogni singola monade é diversa, si colloca su una scala gerarchica. Vi saranno allora monadi più perfette e altre meno perfette e la materialità non é altro che il modo particolare con cui appaiono a noi le monadi meno perfette. La materialità è allora quel tasso di passività che caratterizza le monadi meno perfette. Tutte le monadi presentano un’attività, ciascuna di esse è lei stessa un centro di attività più o meno perfetto a seconda del tipo di monade che la svolge: quindi man mano che la monade é meno perfetta e dunque più passiva, tende a manifestare la sua attività sotto forma di materialità. Ora va senz’altro notata una cosa, già in parte accennata: se per Cartesio gli animali erano delle macchine prive di anima, per Leibniz invece essi sono degni di grande rispetto e interesse ; e questo interesse non può che derivargli dalla sua passione per Aristotele, il quale vedeva in ogni ente (anche il più infimo) esistente una combinazione proporzionata di materia e forma, senza porre differenze qualitative nette tra gli enti, nel senso che qualsiasi cosa é pur sempre una combinazione di materia e forma; certo negli uomini il tutto era più complesso e perfetto. Per Cartesio il mondo era spaccato in due: da una parte la res extensa , la pura materialità , dall’altra la res cogitans , pura spiritualità ; Aristotele , unendo ovunque materia e forma, presentava meno dualità. E non a caso lo Stagirita aveva elaborato la famosa scala naturae con la quale sottolineava come dalle realtà più basse fino all’uomo non vi fosse una distinzione netta, ma solo una crescente complessità della forma (l’anima) . E Leibniz é d’accordo con Aristotele sul fatto che vi siano diversi livelli della realtà più o meno complessi , ma che derivano bene o male dalla stessa cosa. Un animale o una pianta per il filosofo tedesco non sono poi radicalmente differenti da un essere umano, come aveva sostenuto Cartesio: tuttavia se per Aristotele la gradualità era data dal fatto che tutto fosse fatto da materia e forma combinate in modo più o meno complesso, per Leibniz la materia come realtà autonoma non esiste, esiste solo come infima manifestazioni della realtà spirituale costituita dalle monadi. Occorre a questo punto distinguere i due possibili monismi cui si può aderire: ve ne é uno che consiste nel dire che esiste un’unica sostanza, e un altro che sostiene che esiste un unico tipo di sostanza. Indubbiamente Giordano Bruno e Spinoza possono definirsi monisti sotto ambo gli aspetti, riconoscendo non solo l’esistenza di un’unica sostanza, ma anche l’esistenza di un solo tipo di sostanza. Il monismo di Leibniz consiste nell’ ammettere un unico tipo di sostanza, ma non un’unica sostanza, ve ne sono anzi una miriade (le monadi). Ma questa miriade di monadi per il pensatore tedesco é stata creata da una sola monade infinita, che é Dio. Si può effettuare un’ulteriore osservazione: se la realtà é costituita da monadi, ne deriva che una semplice penna é divisibile in un numero infinito di particelle, ciascuna delle quali é una sostanza, proprio perchè si dicono sostanze, secondo Leibniz, solo quelli che vengono comunemente intesi come atomi, porzioni di materia non ulteriormente divisibili. Ma ogni cosa materiale, per quanto piccola, sarà sempre ulteriormente divisibile: ne deriva che esistono sostanze solo microscopiche, a livello atomico, e tutto il resto é un composto di sostanze: la penna teoricamente non é una sostanza, ma un aggregato di sostanze microscopiche. Tuttavia c’é un problema di fondo: se divido una realtà inorganica come una pietra ottengo due pietre, tre pietre, quattro pietre… ma se divido una sostanza animata come un gatto non ottengo due gatti, tre gatti, quattro gatti! Per Leibniz questo fatto nasconde una verità metafisica recondita: le realtà inorganiche hanno un solo livello di sostanzialità,cioè hanno solo le monadi materiali , sono un semplice aggregato di monadi materiali: quella che chiamo comunemente pietra é un puro e semplice aggregato di tante monadi materiali pietre che mi generano la pietra che mi sta davanti; ma per il gatto le cose non stanno così: esso non é l’unione di tanti gatti microscopici! Certo esso é un aggregato di monadi materiali come la pietra, ma in più, come suggeriva già Aristotele, é dotato di un qualcosa che organizza le monadi materiali in maniera tale da farne un qualcosa di più che una semplice somma di monadi materiali, come invece é la pietra: il gatto sarà dunque la somma di particelle materiali organizzate dall’anima . Pare dunque che un certo conflitto tra materia e spiritualità sia in qualche misura presente anche nel pensiero di Leibniz: ma é un conflitto solo apparente perchè le particelle inorganiche e l’anima che costituiscono il gatto in fondo sono di natura sostanzialmente identiche, anche se uno (l’anima) ad un livello più elevato e complesso. Quell’elemento organizzativo che abbiamo chiamato “anima” Leibniz preferisce chiamarlo monade dominante : essa é ciò che caratterizza gli esseri animati e ne riorganizza le parti materiali. La monade dominante ha l’importante ruolo di dominio e di organizzazione delle altre monadi; ma per Leibniz in fondo é corretto parlare di sostanza anche quando ci si trova di fronte ad un aggregato di monadi retto dalla monade dominante. Anzi, a suo avviso un gatto é una sostanza (unità di monadi aggregate dalla monade dominante), una pietra no (un aggregato casuale di monadi prive di un qualcosa che le ordini e ne faccia una cosa sola). Nel caso della pietra la sostanza é reperibile esclusivamente nelle singole monadi che aggregate mi danno la pietra: ognuna di esse sarà una sostanza. Questo ci consente di comprendere l’esempio di Giulio Cesare e del Rubicone: la monade dominante (anima) riuniva e riorganizzava le altre monadi per dar vita alla sostanza Cesare; é detta dominante proprio perchè assurge ad un ruolo di dominio delle altre monadi che insieme ad essa compongono la sostanza in questione. Proprio in quegli anni si affermava il microscopio, strumento grazie al quale si potevano osservare gli insetti nella loro piccolezza e scoprire che vi é vita anche laddove non si pensava che vi fosse: si vedevano sempre animaletti e corpuscoli in movimento. Questo indusse Leibniz a ritenere che un qualche cosa di analogo alla vita sia bene o male presente dappertutto, anche nelle realtà più minute. E in effetti a confermare l’idea tipicamente leibniziana della continuità della realtà , senza differenziazioni tra umano e non umano, vivente e non vivente Leibniz afferma che tutte le monadi sono dotate di percezione e solo l’anima umana e alcune anime animali sono dotate di appercezione. Tutte le monadi, nel loro essere di natura spirituale sono dotate di percezioni: tuttavia occorre spiegare che cosa Leibniz intenda per “percezione di una monade”. Dire che si ha percezione di un libro vuol dire che nella propria mente si ha un’immagine di esso, ma un essere inanimato come una monade come può avere percezioni? Leibniz risponde a questa domanda sostenendo che ogni monade, essendo in rapporto con il mondo, é una rappresentazione di esso: immaginiamo di avere un atomo; esso é legato con rapporti di forza e di vicinanza ad altri atomi, i quali a loro volta sono legati ad altri: ebbene, se conoscessimo le caratteristiche e le relazioni di un atomo, allora potremmo conoscere l’intero mondo, di cui l’atomo stesso é una rappresentazione: il mondo infatti non é altro che un insieme di atomi tra loro uniti e conoscendone uno insieme ai suoi molteplici rapporti equivale ad avere una rappresentazione dell’intero mondo. In altre parole, dall’atomo considerato si arriva all’atomo del mondo a lui più distante. Allo stesso modo le monadi, che sono degli atomi spirituali, proprio in quanto legate le une con le altre, sono rappresentazioni e percezioni dell’intero universo: da una monade posso immaginare l’intero universo proprio perchè essa é legata ad altre monadi, le quali sono legate ad altre che sono legate ad altre ancora e la somma di questi legami mi dà proprio l’universo. Tuttavia vedere una monade e vedere l’universo non sono la stessa cosa: ogni monade, infatti, é l’intero universo da un unico e limitato punto di vista ; e l’universo in fondo non é altro che la somma di tutti i punti di vista delle singole monadi. Per spiegare il concetto Leibniz si avvale di un esempio significativo: immaginiamo di osservare una città dalle alture circostanti: avremo una veduta complessiva, che coinvolge l’intera città, ma si tratta comunque di un solo punto di vista. E la città in fondo, proprio come nel caso dell’universo, é l’insieme di tutti i punti di vista. Ecco allora che ogni monade é una rappresentazione dell’intero universo, da un limitato punto di vista però. Altra immagine che rende bene l’idea del rapporto monade-universo é quella della proiezione ortogonale: immaginiamo di avere più piani e un oggetto tridimensionale: proiettiamo i suoi punti su ciascun piano: ogni proiezione ortogonale é una rappresentazione, ovvero ogni punto dell’oggetto corrisponde ad un punto del piano, ma tutte le proiezioni ottenute, pur essendo del medesimo oggetto, risulterebbero tra loro differenti: così le monadi rappresentano in modi differenti lo stesso universo. Ne consegue che quello che avviene nella monade é esattamente quello che avviene nell’universo e nella realtà che ci circonda . Ora, se le monadi sono rappresentazioni della realtà, esse debbono per forza anche essere percezioni della realtà, ossia modi di cogliere quel che nella realtà avviene. Ogni monade, come dicevamo, ha percezione (perchè rappresenta) dell’universo sotto un unico punto di vista, ma la monade che conta più di tutte (Dio) raccoglie in sè tutti gli infiniti punti di vista sull’universo. Le appercezioni , invece, sono percezioni dotate di autocoscienza. Ne é dotato l’uomo, ma anche molti altri animali: per Leibniz non vi é quella netta distinzione sostenuta da Cartesio tra uomo e animale. In altre parole, chi ha appercezioni non solo si rappresenta il mondo, ma ha anche coscienza di percepirlo. Se Leibniz dice che ogni cosa ha percezioni, non vuole con questo degenerare nell’animismo, ossia nell’attribuire vita ad ogni cosa, anche agli enti inanimati: vuol semplicemente dire che la struttura di base é uguale per tutti (tutto ha percezioni), ma che le appercezioni le hanno solo le realtà dotate di anima, ossia quelle realtà che hanno la monade dominante, che unisce e regna sulle altre monadi. E d’altronde Aristotele aveva fatto un discorso analogo per quel che riguarda i tre tipi di anima da lui ravvisati: tutti, animali uomini e piante, hanno l’anima vegetativa; gli animali in aggiunta hanno quella sensitiva e l’uomo, oltre alla vegetativa e alla sensitiva, dispone pure della razionale. Discorso simile per Leibniz: tutti abbiamo le percezioni, ma non tutti le appercezioni: esse sono un qualcosa di più che si aggiunge alle percezioni, é l’avere coscienza di percepire. Tuttavia le monadi che hanno appercezioni sono dotate anche di livelli percettivi non riconducibili all’appercezione, ossia percepiscono cose senza averne coscienza: certamente ho appercezioni nel caso in cui percepisco un libro, ad esempio: percepisco il blu, la forma a parallelepipedo, le scritte e ne ho coscienza. Tuttavia secondo Leibniz percepiamo anche cose di cui non abbiamo coscienza, ossia riceviamo la percezione di certe cose senza neanche accorgercene. Questa concezione tutta leibniziana é di fondamentale importanza perchè porta il pensatore tedesco a prendere le distanze una volta per tutte da Cartesio e da Locke : per questi due pensatori, infatti, idea era ogni oggetto del pensiero e, di conseguenza, non erano ipotizzabili idee non pensate: se l’idea é l’oggetto del pensiero, un’idea non pensata non c’é . Per questi due pensatori dunque il contenuto del pensiero si identificava con quello di cui si ha coscienza: tutto ciò che percepisco, di quello ho coscienza perchè se non sapessi di percepirlo non potrebbe esistere come idea visto che l’idea é l’oggetto del pensiero. Tuttavia Leibniz nota, con due secoli di anticipo rispetto a Freud, che non é detto che di ogni contenuto del nostro pensiero dobbiamo avere coscienza. Freud parlerà di inconscio, alludendo ad una sorta di deposito di idee da cui attingiamo di continuo, ma a cui non pensiamo di continuo. E d’altronde non é per il fatto di pensare ad un libro che io ho percezione solo di quello: nel deposito della mia testa avrò mille altre idee, anche se al momento non ci sto pensando. Sia per Leibniz sia per Freud, dunque, non é vero che le idee o sono coscienti o non ci sono: anzi, si può giustamente affermare che la maggior parte delle idee non sono conscie. Leibniz queste idee di cui non si ha coscienza le chiama piccole percezioni , piccole nel senso che non sono abbastanza forti per superare la soglia della coscienza: le avrà l’uomo, ma anche le piante. D’altronde quando si ha la febbre e si prova dolore ovunque é per via dell’abbassamento della soglia del dolore, ovvero abbiamo coscienza di ciò di cui solitamente non abbiamo coscienza. Leibniz suffraga le sue tesi con diversi esempi: immaginiamo una persona che abita da molto tempo nei pressi di un corso d’acqua e una persona che ci abita da poco tempo: mentre la seconda sarà disturbata dal rumore dell’acqua corrente, la prima non se ne accorgerà neanche e non per via di un’improvvisa sordità, bensì per il fatto che ciò che nell’altra persona é appercezione in lei é solo percezione: a livello fisico la percepisce, ma rimane sotto la soglia della coscienza. Altra immagine di cui si avvale il pensatore tedesco é quella del mare: il suo rumore é causato dal rumore di ogni singola goccia che lo compone, però noi siamo coscienti del rumore delle onde, ossia del complesso, ma non di quello delle singole gocce d’acqua, che però ci deve comunque essere: altrimenti non vi sarebbero le onde. La concezione secondo la quale possiamo percepire cose senza averne coscienza (senza appercezione), consente a Leibniz di spiegare molte altre cose centrali nella sua filosofia: in primis se ne avvale per argomentare contro l’empirismo e a favore dell’innatismo . Leibniz, infatti, sulle orme di Platone, é convinto che la nostra mente non sia una tabula rasa (come credevano gli empiristi), bensì che essa, non appena nasciamo, porta già dentro di sè potenzialmente alcune informazioni. Ora, il ragionamento dell’empirista Locke era il seguente: un’ idea per definizione non può esistere se non pensata : esistono solo le idee nella misura in cui vengono pensate dalla mente umana . Ma con questa definizione di idea, diventa autocontradditorio parlare di innatismo ! Come si può infatti dire che da bambino ho nella mia testa certe idee che non conosco e alle quali non penso e poi, crescendo, le acquisisco portandole in atto con l’ esperienza? E’ contradditorio ammettere l’ esistenza di idee non pensate nella mia mente di bambino proprio perchè le idee esistono solo come oggetti della mente. Ora Leibniz con la distinzione tra percezioni e appercezioni ha già assestato un primo colpo al ragionamento dell’ampirista inglese: non di tutto ciò che percepiamo abbiamo coscienza e quindi possono esserci nella nostra mente idee che non sappiamo di avere. Certamente Leibniz é pienamente cosciente che sarebbe assurdo dire che si nasce con delle idee già in testa e pertanto risolve il tutto in un “innatismo virtuale”, facendo notare a Locke che ciò che intendono gli innatisti é diverso da quanto il filosofo inglese sostiene: non nasciamo con delle idee in testa, bensì con degli elementi di potenzialità e l’ esperienza serve proprio a far emergere, a chiarificare e a portare a coscienza le idee che potenzialmente erano già presenti nella mente fin dalla nascita e in tutti gli uomini: l’ idea di uguaglianza, spiega Leibniz, ce l’ abbiamo tutti insita nella nostra mente ma abbiamo bisogno di cose materiali che siano uguali per prendere coscienza di che cosa sia l’ uguaglianza, per portare cioè in atto quell’ idea che nella nostra testa era solo in potenza. Il pensatore tedesco riprende poi il motto di origine medioevale di cui si avvalevano gli empiristi: se essi dicevano che nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu , Leibniz corregge e dice che nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse: non c’é nulla nel nostro intelletto che non sia passato dall’esperienza, se non l’intelletto stesso. Apparentemente può sembrare una tautologia, ma, come Leibniz sempre sosteneva, dalle cose ovvie derivano cose che ovvie non sono: da pacifista e amante dell’armonia quale era, il pensatore tedesco vuole criticare (nei Nuovi saggi sull’intelletto umano) le tesi di Locke con garbo, facendogli notare come in realtà la pensino allo stesso modo. Certamente quel che riceviamo dall’esterno é il materiale della conoscenza, tuttavia l’intelletto, cui Locke stesso aveva attribuito grande importanza, non deriva dall’esterno, dall’esperienza sensoriale. Locke diceva che riceviamo idee semplici (blu, forma parallelepipedo, costituzione atomica…) tramite l’esperienza in modo passivo, e poi l’intelletto riorganizza attivamente il materiale per dar vita ad idee complesse (l’idea di libro). Ora, anche per Leibniz in fondo le cose vanno così, però egli é convinto che non sia corretto affermare che tutto deriva dalla sensazione: l’intelletto riceve il materiale della conoscenza e lo rielabora, ma l’intelletto é innato, non ci deriva dall’esperienza. Locke ha ragionato correttamente e ha solo sbagliato nel dichiararsi empirista: il suo ragionamento stesso é da innatista perchè riconosce l’esistenza di un qualcosa che non passa dall’esperienza (l’intelletto). Locke sarebbe un empirista, se non addirittura un sensista, se dicesse che tutta la conoscenza passa per i sensi, ma non lo dice: sarà poi Condillac nel periodo illuministico a sostenere questo. Ecco che allora nei Nuovi saggi sull’intelletto umano Leibniz, come aveva fatto Locke, sostiene che si nasca con un qualcosa (l’intelletto) che non si acquisisce con l’esperienza, ma é innato: d’altronde, se non vi fosse l’intelletto a riorganizzare le idee, nella nostra testa avremmo solo un’accozzaglia di impressioni sganciate tra loro e ricevute passivamente. Ma, per fortuna, siamo dotati dell’intelletto, che riorganizza le idee semplici percepite (colori, forme, suoni) in idee complesse (il libro, la casa…) : per usare un’espressione che verrà usata poi da Kant ma che esprime perfettamente la concezione leibniziana, pensare significa unificare . Come accennavamo, la soluzione gnoseologica di Leibniz consiste in un innatismo virtuale: egli non apporta modifiche di rilievo e in fondo la sua posizione é identica a quella assunta secoli addietro da Platone. Con innatismo non vuole dire che si nasce con delle idee presenti nella testa, altrimenti non si spiegherebbe l’acquisizione di conoscenze progressiva del bambino. Leibniz, proprio come Platone, sostiene che si possiedono sì delle idee a partire dalla nascita, ma solo a livello virtuale: Platone parlava di reminescenza, convinto che ognuno di noi nella vita passata abbia acquisito delle conoscenze ormai dimenticate e il conoscere in questa vita non é altro che ricordare le cose apprese nell’altra. Leibniz non parla di esistenza umana prenatale, ma tuttavia é convinto che si nasca con una potenzialità ideale nella mente, ossia con dei concetti innati virtualmente: perchè essi diventino coscienti occorre l’intervento dell’esperienza. Platone faceva l’esempio dell’idea di uguaglianza: vediamo due cose uguali perchè già conosciamo l’idea di uguaglianza ed é l’incontro di due cose uguali che ci fa ricordare l’idea di uguaglianza. E’ l’esperienza che fa emergere le idee innate: e Leibniz usa il concetto di percezione per spiegarlo. Le idee innate non sono altro che piccole percezioni di cui non abbiamo coscienza: nasciamo con l’idea di uguaglianza, però é evidente che quando siamo bambini appena nati non sappiamo cosa sia l’uguaglianza: perchè si renda conto di che cosa é l’uguaglianza la percezione deve varcare la soglia della coscienza, deve cioè diventare appercezione tramite l’esperienza. Leibniz si avvale dell’esempio della statua e del blocco di marmo: l’esperienza é esattamente come uno scultore che lavora il marmo: quando deve scolpire la statua, sceglie la pietra, il blocco in cui le forme da lui desiderate sono già implicite nelle venature del marmo stesso; lo scultore lavorando sul marmo fa emergere la statua a forma di uomo, tuttavia la forma del corpo é già presente nel blocco, ma non é pienamente manifesta: perchè passi ad un’esplicita manifestazione ci vuole lo scultore che tiri fuori definitivamente la forma. Così l’idea di uguaglianza, già insita nella nostra testa dalla nascita, per venir fuori ha bisogno dell’esperienza. Nel discorso di Leibniz vi é una novità interessante, che sembra anticipare il discorso che poi farà Kant: Kant si configurerà come risolutore del problema riguardante il rapporto innatismo-empirismo, rapporto che in fin dei conti finiva per diventare una guerra eterna e irrisolvibile proprio per le argomentazioni insmontabili che possono tutti e due usare: l’empirista dirà che le cose le acquisiamo dall’esperienza, l’innatista farà notare che l’attività conoscitiva parte da punti di partenza innati, e così via. L’idea di fondo che porterà Kant a trovare una soluzione é già in fondo implicita in Leibniz ed é la constatazione che nel processo conoscitivo agiscono due realtà diverse, la materia e la forma della conoscenza: e già Leibniz parlava di intelletto unificatore (innato) e materia conoscitiva (empirica): in fondo per Leibniz conoscere non é altro che ricevere materiale conoscitivo e ritrovarsi ad avere nella testa un insieme di dati organizzati in una certa maniera: se il materiale della conoscenza ce lo fornisce l’esperienza, lo strumento organizzativo di questo materiale (l’intelletto) é innato. E la spinosa questione verrà proprio risolta così da Kant, ossia rendendo conciliabili due cose che apparentemente non lo sono (innatismo ed empirismo) sottolineando come ciò che viene acquisito é diverso dal modo in cui viene acquisito. E, per tornare alla metafora dello scultore, la statua costruita era già tutta nella mente dello scultore o viene tutta dall’esterno? La risposta sta proprio nell’unione di innato ad empirico: la statua in parte stava già nella testa dello scultore (il modo in cui costruire) e in parte é derivata dall’esterno (il marmo con cui costruire). Ne consegue che la conoscenza é un processo di costruzione, ossia di raccolta materiale e rielaborazione del medesimo. Il merito di Kant é di aver chiarito una volta per tutte questo discorso, ma in fondo esso era già implicito in Leibniz, anzi lo era già in Platone. In realtà perfino un empirista Locke ci era arrivato e doveva riconoscere come nella teoria del suo avversario Leibniz vi fosse un pò di verità, così come Leibniz doveva riconoscere che nelle teorie empiristiche di Locke non tutto fosse sbagliato. Ecco allora che Leibniz fa notare che come concetti virtuali lui non intende concetti di contenuto, ma piuttosto concetti astratti, di tipo logico-matematico: é innato non il singolo contenuto di conoscenza (l’idea di uomo, di cavallo…), ma la struttura logica e formale, ad esempio il concetto di uguaglianza: esso acquisisce contenuto nel momento stesso in cui scorgo empiricamente due cose o più uguali. Questa idea, comunque, era già sullo sfondo anche nel periodo della maturità di Platone: nel Parmenide egli si diceva convinto che non potesse esistere l’idea di “uomo” o di “cavallo”, ma, al contrario, era convinto che esistessero le idee astratte come i numeri, l’uguaglianza, la giustizia… Sull’altro versante, quello dell’empirismo, Locke aveva fatto un discorso simile: conoscenza vuol dire riorganizzare le idee semplici con l’intelletto per dare vita ad idee complesse. Ed allora Leibniz gli fa notare che in fondo la pensano allo stesso modo: tutto deriva dall’esperienza tranne l’intelletto, che costituisce l’armamentario formale per acquisire la conoscenza. Emerge bene come empirismo e innatismo siano ambedue presenti nella conoscenza: l’intelletto é innato, ma il materiale su cui esso lavora no! Basta sintetizzare il tutto, come farà Kant, e il problema é risolto. Bisogna tuttavia fare una precisazione: conoscenza e monadi dominanti sono apparentemente in contrasto: infatti la monade dominante governa tutte le altre monadi materiali, noi abbiamo dei concetti (ad esempio l’uguaglianza) virtualmente presenti nell’anima (la monade dominante) e poi con l’esperienza portiamo a coscienza queste idee pervenendo alla conoscenza. Tuttavia così dicendo pare che si debba ammettere un rapporto tra monade ed esperienza, tra monade e monade: infatti la monade dominante ha delle strutture ed esse con l’aiuto e l’interazione dell’esperienza emergono. Ma le monadi non hanno finestre, la loro attività é tutta interna e non vi é contatto con l’esterno. L’apparente aporia viene superata se prestiamo attenzione alla solita divisione in livelli della realtà, tipica di Leibniz: c’é una monade dominante, poi ci sono monadi che ci danno l’esperienza e che ci portano alla conoscenza, ad idee chiare e distinte. Tuttavia non può esservi un rapporto causale tra monade dominante (anima) e monadi materiali (la realtà che ci circonda) proprio perchè ogni monade non ha finestre, é un’unica attività di coscienza. Tuttavia sappiamo che la conoscenza deve esserci. Ora, da un punto di vista più profondo, tra la monade dominante e quelle materiali del corpo, e tra le monadi dell’universo esterno e la mia mente che di esso ha percezioni, c’é corrispondenza ma non causalità: ecco allora che la monade dominante ha volontà di alzare il braccio, e le molteplici monadi materiali del braccio si alzano una ad una in modo tale che il braccio si alzi. Allo stesso modo, quando il libro é posto sul tavolo, corrispondentemente avviene una percezione nella mia mente, pur non essendovi causalità: non ho la percezione del libro a causa del fatto che il libro é posto sul tavolo! Il che ci porta ad una conclusione: l’innatismo virtuale vale fino ad un certo livello, ma se ci si spinge più in profondità perde il suo valore; si arriva ad un innatismo totale ed assoluto: se le monadi non hanno finestre, quel che avviene nella mente procede senza rapporti con l’esterno e quindi se percepisco il blu del libro non é per il fatto che il libro agisce sulla mia mente (le monadi non hanno finestre!), ma perchè nella mente si verifica qualcosa per cui ad un certo punto percepisco il blu: la causa non é l’azione del libro, é lo stato precedente nella mia mente. Queste considerazioni in primis portano Leibniz ad un innatismo assoluto, in secundis lo conducono ad avvicinarsi più del previsto all’Occasionalismo: infatti, se non può esservi rapporto causale tra monadi, come si giustifica la corrispondenza tra i fatti? Ossia, come mai quando il libro viene collocato sul tavolo, io lo percepisco? Tuttavia se il libro non é la causa del mio percepimento del suo blu, non é detto che non vi sia corrispondenza tra libro e percezione del blu: anzi, deve per forza essere così. Non é a causa del mio pensare di alzare il braccio che esso si alza: gli occasionalisti dicevano che é in occasione del mio pensare di alzare il braccio che Dio interviene e mi alza il braccio; Leibniz non arriva a tanto, e approda ad un occasionalismo generalizzato. Per spiegare le sue posizioni egli si serve del celebre esempio degli orologi: immaginiamo di avere due orologi che devono tra loro corrispondere proprio come devono corrispondere il fatto che penso di alzare il braccio ed esso si alza e il fatto che viene messo sul tavolo il libro e io lo percepisco: un orologio rappresenta il mio pensare di alzare il braccio, l’altro l’alzarsi del braccio: in altre parole, un orologio rappresenta la res extensa cartesiana (non libera, meccanica e materiale) , e l’altro la res cogitans (libera, spirituale e non materiale). Tuttavia , più in generale, i due orologi che devono tra loro corrispondere significa anche che ogni monade é una rappresentazione di tutte le altre, senza però che vi sia rapporto causale: senza interagire o toccarsi, esse si rappresentano a vicenda. In realtà Leibniz impiega questa strana metafora per far apparire meno bislacca la sua teoria e per far invece risultare ridicole quelle altrui, altrimenti più sensate. I due orologi (le monadi, che rappresentano sia la res extensa sia la res cogitans, visto che in ultima istanza tutto é riconducibile a monadi) vengono costruiti da Dio, il grande orologiaio, il quale vuole che segnino sempre la stessa ora, ossia che siano corrispondenti: Egli può fare tre cose diverse per adempiere il suo compito : 1 ) può stare sempre attaccato agli orologi per sincronizzarli di continuo, ossia per farli corrispondere: e questa é la tesi degli Occasionalisti, secondo i quali vi é un continuo intervento di Dio volto a far corrispondere res extensa a res cogitans e viceversa: decido di alzare il braccio e Dio, in occasione della mia decisione, mi alza il braccio. 2 )Dio può collegare i due orologi con una cinghia, in modo che le lancette di uno trainino quelle dell’altro: questa é la tesi di Cartesio, il quale voleva far corrispondere la res cogitans alla res extensa: decido di alzarmi con l’anima che é libera, e il corpo si muove secondo le regole del meccanicismo. E’ una cosa che ne produce un’altra. 3 ) Infine Dio può fare un’altra cosa, la più degna di un buon orologiaio come lui: costruire i due orologi in maniera perfetta, in modo che, dato l’impulso iniziale, vadano avanti sincronizzati all’infinito, senza dover ricorrere all’intervento di qualcosa o di qualcuno. Questa terza é la posizione di Leibniz, apparentemente molto strana, ma facilmente comprensibile con la metafora degli orologi: la tesi leibniziana é quella dell’ armonia prestabilita. Il pensatore tedesco ha già abbattuto il problema dell’eterogeneità delle due res, riconducendo tutto a res cogitans: la materia stessa é una forma meno raffinata di spiritualità. Ora per far sì che le monadi siano tra loro corrispondenti, senza ricorrere al rapporto di causalità, basta ammettere che siano state tutte preordinate in modo tale che si corrispondano perfettamente: Dio le ha create tutte in modo tale che, create come sostanze individuali, procedano per conto loro, senza finestre, corrispondendosi perfettamente. Ecco allora che penso di alzare il braccio con la monade dominante, ed esso si alza perchè le monadi son fatte in modo tale che al pensare quella cosa succeda quell’altra cosa. Allo stesso modo vedo una cosa e la conosco: il libro viene appoggiato sul tavolo e in corrispondenza a quel gesto vi é la mia percezione del colore blu presente nel libro. Certo, é una concezione alquanto bislacca, che comunque con l’immagine degli orologi risulta assai chiara e comprensibile, molto più persuasiva delle altre. Ora però emerge un nuovo livello di realtà: fino ad ora vi erano il mondo superficiale, che abitualmente chiamiamo “materiale”, ma che é fatto di res cogitans come tutto il resto: qui impera il meccanicismo e la non libertà, e quello più profondo, più spirituale, quello delle monadi come centri di forza che dal loro interno generano tutti i successivi stati di forza. Però adesso, continuando a scavare in profondità, viene fuori un altro livello: sotto il primo strato di necessità meccanica e sotto il secondo di libertà spirituale, ve ne é un altro in cui le monadi, a differenza della definizione data in precedenza, hanno una finestra aperta verso Dio: infatti, con l’immagine degli orologi abbiamo dimostrato la corrispondenza tra le monadi, ma essa funziona proprio perchè tutte quante sono in rapporto causale con Dio: é lui che le ha causate, in modo tale che vi sia corrispondenza reciproca. Questo nuovo strato, però, sembra caratterizzato, come il primo, dalla necessità: Dio ha fatto le monadi così proprio perchè abbiano corrispondenza, ossia ha prestabilito con una decisione di dare loro tale corrispondenza. Tuttavia Leibniz ci tiene a precisare che in questo livello, sul piano metafisico, la libertà non viene messa in discussione: da estimatore della Scolastica, egli riprende le parole di un grande pensatore medioevale, Duns Scoto: Se Dio non fosse libero, nulla al mondo lo sarebbe. Per Leibniz una cosa é libera se é contingente, ossia se c’é ma potrebbe anche non esserci. Per Duns Scoto la contingenza e la libertà procedono a cascata da Dio, ammesso che egli sia libero: se Egli é libero, tutto ciò che da Lui deriva non può che essere libero, ossia può esserci ma potrebbe anche non esserci, proprio perchè Dio é stato libero di farlo. Il che significa che il problema ultimo della libertà é vedere se Dio é libero oppure no: se Egli é libero lo é anche tutto il resto, quindi occorre indagare se Egli é libero, tralasciando tutto il resto. E’ quindi opportuno tralasciare gli altri livelli per esaminarne un quarto, quello di Dio. Vanno però effettuate alcune puntualizzazioni: cosa significa dire che una cosa é possibile? Per Leibniz la possibilità é la non contradditorietà logica: egli adduce l’esempio del peccato originale di Adamo: sarebbe stato possibile sia un mondo in cui Adamo peccasse, sia un mondo in cui Adamo non peccasse: non vi é alcuna contradditorietà logica. Sarebbe stato invece impossibile un mondo in cui Adamo peccasse e non peccasse. Per fare un esempio più ovvio: é impossibile che 2 + 2 = 5 , vi é un’enorme contraddizione logica alle leggi del pensiero. Tuttavia non é impossibile che un asino voli, proprio perchè non é una contraddizione logica, sebbene sia una cosa che si discosti molto dall’esperienza comune. In altri termini, si può pensare ad un asino volante, ma non che 2 + 2 = 5 : non potrà mai essere concepita come identità logica. Ciò che é impossibile é contradditorio e non é pensabile; ciò che invece é possibile é non contradditorio e quindi pensabile. Partendo da queste riflessione di origine medioevale, Leibniz ritiene che la mente di Dio sia la regione dei possibili, il luogo dove stanno i possibili. Se possibile é pensabile, allora le cose sono possibili nella misura in cui stanno e sono pensate da Dio. La differenza che intercorre tra noi e Dio, é che mentre noi la possibilità la riconosciamo pensandola, Dio pensandola la fonda. Ma dire che in Dio sono presenti tutti i possibili, non comporta che tutti i possibili siano reali: se é la sua mente a stabilire ciò che é possibile pensandolo, poi é la sua volontà a scegliere tra le possibili alcune cose cui dare esistenza. Ecco allora che nella mente di Dio stavano tutti e due gli Adami, quello che ha peccato e quello che non ha peccato e Lui ha dato esistenza a quello che ha peccato. A questo punto Leibniz arriva a dire che esistono infiniti mondi possibili, e che Dio ne ha realizzato solo uno: un mondo non é altro che un insieme di compossibili, ossia di cose possibili che non si escludono a vicenda: abbiamo una legge di gravità posta da Dio, ma Egli avrebbe potuto porne un’altra diversa, che tuttavia non era compossibile con la nostra: o l’una o l’altra. Ecco allora che il mondo é un insieme di cose possibili insieme; e Dio tra gli infiniti mondi possibili ha deciso di crearne uno soltanto, il migliore tra quelli possibili. Noi dunque viviamo nel migliore dei mondi possibili ; Leibniz non dice che sia un mondo perfetto, ma semplicemente che é il migliore tra quelli che Dio avrebbe potuto creare. D’altra parte il mondo non può essere perfetto perchè se lo fosse sarebbe Dio stesso, l’ente perfetto. Egli é perfetto e nella sua mente ha infiniti mondi possibili: decide nella sua infinita bontà di crearne uno (attribuire dell’essere é sempre positivo, per definizione). Sceglie di creare e crea tra tutti il migliore dei mondi che avrebbe potuto creare. Se l’avesse creato perfetto, avrebbe creato se stesso, ma non deve creare Dio, bensì il mondo, che é diverso da Dio: ma ciò che é diverso da Dio deve per forza essere imperfetto, perchè solo Dio é perfetto. Ma che il mondo sia imperfetto é intrinseco alla bontà di Dio: le stesse imperfezioni e lo stesso male di questo mondo sono espressioni della bontà divina. Già Platone, nella sua disperata ricerca dell’unità, diceva che il bene e il meglio consistono nel massimo di unità conciliabile con il massimo di ricchezza e di varietà. L’unità é unità della molteplicità, é una e ricca allo stesso tempo: anche Leibniz la pensa così, con spirito unificatore. D’altronde in quegli anni Newton dimostrava che la legge di gravità é unica in tutto il mondo, dando così qualche spunto a Leibniz per rintracciare una identità e un’unità occulte. Ma resta ora da chiarire se Dio sia libero o no, per vedere se tutto ciò che da lui deriva , a cascata, é libero oppure no. Apparentemente sembrerebbe proprio che Dio non sia libero perchè é vincolato dalla sua stessa bontà a creare il mondo, a scegliere il migliore tra quelli possibili, quasi come se la Sua bontà comportasse la perdita di libertà. Ma ecco che Leibniz distingue tra due tipi di necessità: vi é una necessità metafisica (la penna lasciata cade e non può fare diversamente: é impossibile il contrario) e una morale (gli studenti devono studiare). Ora, Dio ha l’obbligo morale di fare sempre il meglio, ma questa necessità morale non implica una necessità metafisica: resta nel campo dei possibili che egli non creasse il mondo o che lo creasse diverso da questo e quindi non il migliore. Dio dunque sul piano metafisico é totalmente libero, dotato di una libertà di gran lunga superiore rispetto a quella dell’uomo: é libero di scegliere e fa per forza sempre il bene. Ed ecco allora che a cascata la libertà di Dio investe l’intera realtà, che da Lui é stata generata. Ricapitoliamo brevemente i 4 livelli della realtà individuati da Leibniz, servendoci della tabella qua sotto:
1
Livello della MATERIA (monadi passive): meccanicismo, non libertà, leggi fisiche.La res extensa di Cartesio:però si tratta di monadi.
2
Livello delle MONADI come atomi spirituali,centri di forza senza finestre:attività solo interna.Nessun contatto con l’esterno.
3
Livello delle MONADI CON UNA FINESTRA aperta a Dio:esse sono tra loro coordinate da Dio che le ha create. .
4
Livello di DIO (grande monade):regione dei possibili,egli decide cosa realizzare:il migliore dei mondi possibili.E’ libero.
Resta ora da esaminare la concezione che Leibniz ha del tempo e dello spazio, una concezione totalmente opposta rispetto a quella cui in quegli stessi anni perviene il collega Newton. Lo spazio e il tempo per Leibniz sono l’ordine di coesistenza e l’ordine di successione delle monadi: concettualmente, prima ci sono le cose e il tempo e lo spazio nascono come relazione tra le medesime. Per Newton invece prima ci sono lo spazio e il tempo e poi, in un secondo tempo, le altre cose: e d’altronde é impossibile immaginare dei corpi senza ricorrere allo spazio, fa notare Newton. Lo spazio per il pensatore inglese finisce per essere una sorta di contenitore in cui stanno tutte le cose e i soggetti che le percepiscono, un contenitore che nasce prima e che continuerebbe ad esistere anche se non vi fossero più le cose e i soggetti che lo occupano. Per Leibniz invece prima dello spazio e del tempo ci sono le cose, che lui chiama monadi, e spazio e tempo sono semplicemente delle relazioni che si instaurano tra le medesime: sono le monadi materiali che stabiliscono relazioni reciproche dando vita allo spazio; allo stesso modo il tempo é il succedersi degli stati delle monadi. Nei secoli successivi prevarrà la concezione newtoniana, anche se la fisica moderna sembra aver rivalutato la prospettiva leibniziana: la teoria della relatività suggerisce che lo spazio non é indifferente alla presenza delle cose in esso, come invece sosteneva Newton.
LA MUSICA
Il ruolo che la musica gioca nella filosofia di Leibniz non è facilmente riassumibile o schematizzabile. Se da una parte è noto l’interesse del filosofo nei confronti di problemi molto specifici riguardanti la teoria musicale, l’acustica e le pratiche esecutive, la musica rientra d’altro canto nel suo sistema logico e metafisico come una sorta di termine di paragone privilegiato, di analogon del rapporto tra logico e sensibile. 1) Per quanto riguarda il primo aspetto, è di fondamentale importanza la corrispondenza di Leibniz con il matematico e musicologo Conrad Henfling sul problema del temperamento, e quella con Christian Goldbach, che verte invece sul problema del rapporto tra struttura matematica e fruizione estetica dell’oggetto musicale. In entrambe, ad una analisi algebrica delle strutture intervallari si accompagna la consapevolezza che tali strutture non rappresentano in sé la bellezza e la perfezione dell’oggetto musicale, e che questo esiste innanzitutto come oggetto uditivo, passibile di una fruizione estetica. Nella lettera a Goldbach del 17 aprile 1712 è contenuta la celebre definizione della musica come aritmetica incosciente: “musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi” (la musica è una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non si rende conto di calcolare). La definizione apre la strada ad una serie di nodi teorici fondamentali nel sistema leibniziano: in primo luogo, il legame tra musica e matematica non è visto, come nella tradizione pitagorico-cabalistica, in senso mistico o esoterico. La struttura numerica sottostante la musica è innanzitutto il suo principio costruttivo, il quale tuttavia non viene analizzato nella pratica dell’ascolto, ma solo intuito come molteplicità organizzata. In una tavola allegata alla corrispondenza con Henfling, risalente al 1709, troviamo una significativa definizione del bello musicale come “osservabilità del molteplice”, atto di sintesi che coglie una molteplicità strutturata aritmeticamente senza la necessità di analizzarne le singole componenti e le loro relazioni. L’analisi – compito del teorico della musica – non serve a disvelare verità rimaste occulte all’ascoltatore, ma a portare alla luce le ragioni che sottostanno al fatto uditivo. Nella definizione della musica come calcolo inconsapevole è inoltre contenuto un richiamo alla teoria delle piccole percezioni, che, non essendo esse stesse oggetto di esperienza cosciente, garantiscono la continuità dell’esperienza fornendole una struttura relazionale. L’analisi del teorico, che porta alla luce le regole del comporre, ha dunque una innegabile importanza per Leibniz, ma non nega la spontaneità della creazione artistica. Questa anzi, – fa notare il filosofo in un frammento preparatorio ai Preceptes pour avancer les sciences, del 1680 – è determinata da un’applicazione più o meno inconscia dei principi regolatori dell’arte musicale, da parte di un soggetto che si trova in una sorta di corrispondenza immediata con le regole dell’armonia: l’autentica opera d’arte è determinata dalla convergenza tra l’attività analitica della ragione e quella sintetica dell’immaginazione. 2) Gli studi filosofici e scientifici non devono riguardare, per Leibniz, solo i loro oggetti propri, ma mirare a universalità di ordine superiore. Fine della ricerca è, in ultima analisi, la comprensione di quel principio armonico che governa il mondo. Ecco quindi che la musica assume il ruolo di illustrazione privilegiata della struttura armonica dell’universo. Il bello musicale viene in ultima analisi a coincidere con la comprensione intuitiva dell’ordine sotteso alla composizione, e tale definizione si applica nella filosofia leibniziana al concetto generale di bellezza. Ciò che determina il piacere sensibile è “sentire harmoniam” (Confessio philosophi, 1672), e quest’ultima non è altro che il principio unificatore della varietà. L’armonia sarà peraltro tanto maggiore, quanto maggiore sarà la varietà delle componenti che essa struttura. Su questa base, dunque, come in una composizione tonale la presenza di dissonanze ha un fondamentale ruolo dinamizzatore, in quanto crea tensione verso la risoluzione consonante e con questa la possibilità di uno sviluppo armonico, così ogni contrasto interno all’armonia del mondo viene ricondotto da Leibniz ad una apparenza, originatasi da una concezione della realtà non abbastanza comprensiva. La varietà è condizione fondamentale dell’armonia, tanto sul piano estetico che su quello metafisico, e gli elementi apparentemente dissonanti contribuiscono al suo arricchimento. L’ars inveniendi che guida il compositore è analoga all’attività combinatoria che Dio esercita su una varietà infinita di elementi, obbligandoli “ad accordarsi tra di loro” (Discorso di metafisica). 3) Sia l’ars inveniendi sia l’arte combinatoria divina esprimono una analoga razionalità universale. La sua chiave viene rappresentata dalle leggi dell’ars combinatoria. Ed è proprio nei tentativi del giovane Leibniz di elaborare una lingua artificiale che la musica inizia ad assumere quel ruolo privilegiato che caratterizzerà il suo intero sistema filosofico. Importante, in questo senso, è la corrispondenza che il ventiquattrenne filosofo di Hannover intrattenne, nel 1670, con l’allora celebre teorico gesuita Athanasius Kircher, autore di una vasta opera di teoria musicale dal titolo Musurgia Universalis. Leibniz inviò a Kircher la sua opera giovanile De arte combinatoria, per ottenerne un giudizio che in realtà il religioso – per mancanza di tempo – non formulò che in modo vago. Più che il giudizio di Kircher su Leibniz, è interessante il fatto che il giovane filosofo conoscesse le opere del gesuita, ed in particolare apprezzasse il suo tentativo di elaborare un sistema combinatorio finalizzato alla composizione di contrappunti a più voci anche da parte di chi fosse totalmente sprovvisto di cognizioni specifiche di tecnica musicale (tale sistema, cui Kircher dà il nome di Arca musarithmica, è esposto nell’ottavo libro della Musurgia e rappresenta un interessante tentativo di applicazione di un sistema algoritmico alla composizione musicale). Il fondamentale punto in comune tra i due studiosi è costituito dalla nozione di simbolicità del linguaggio musicale, che rappresenta l’ordine dell’universo, e – conseguentemente – dalla concezione del bello musicale come percezione della struttura numerica costituente l’armonia. Strutturata aritmeticamente e dotata di una valenza simbolica che le deriva anche dalla sua natura espressiva (espressione, afferma Leibniz nello scritto Quid sit idea, del 1678, è “ciò in cui sussistono le strutture che corrispondono alle strutture analoghe della cosa da esprimere”), la musica ha dunque le caratteristiche che la rendono adatta a divenire strumento di costruzione della lingua universale, ovvero di un sistema logico relazionale, e non gerarchico, la cui base è costituita da pochi elementi da cui dedurne infiniti altri “come supplementi” sulla base di un metodo combinatorio. L’immagine principale di cui Leibniz si serve per illustrare tale sistema relazionale è quella dell’organo, che richiede per la propria costruzione calcoli matematici e dà origine a combinazioni contrappuntistiche molto complesse, realizzando una sorta di combinatoria dei timbri e delle qualità sonore. Dall’immagine dell’organo si passa sempre nel De Arte combinatoria, a tentativi di elaborazione della Characteristica universalis attraverso le note musicali. Nella sua opera giovanile, Leibniz adotta un modello aritmetico che si serve dei numeri primi a simbolizzare le nozioni semplici e della moltiplicazione per la formazione delle idee complesse. In seguito alla rilevazione di una non universale corrispondenza tra simboli e significati, pensò di integrare tale sistema esprimendo i numeri per mezzo degli intervalli musicali, integrando in tal modo il problema aritmetico con la valenza espressiva delle combinazioni degli intervalli In altri scritti di argomento logico, il linguaggio musicale viene strutturato al partire dal sistema binario (sistema che fa uso di due sole cifre: l’1 e lo 0): rappresentando l’1 con il tono e lo 0 con il semitono, si può esprimere il posto delle cifre con il posto di questi due elementi nella scala musicale. I tentativi di fare della musica una lingua universale vennero messi da parte, e la volontà di Leibniz di costituire un catalogo di nozioni primitive correlate ad una organizzazione sintattica in grado di far derivare da esse l’intero sapere venne meno con la crescente esigenza di specializzazione delle scienze. La musica, tuttavia, rimane la pietra di paragone del suo sistema logico e metafisico, la sola arte in grado di esprimere compiutamente la fitta tessitura che tiene insieme, nel sistema leibniziano, il piano della elaborazione razionale e quello della percezione sensibile, e il fatto che a quest’ultima è riservato, in ultima analisi, il coglimento della verità, come l’orecchio dell’ascoltatore attento coglie, in un brano musicale, la presenza di un ordine immanente.
PAOLO MATTIA DORIA
Paolo Mattia Doria, nato a Genova il 24 febbraio 1667, era figlio di Giacomo e di Maria Cecilia SpinoIa, donna di gran casato e piena dei pregiudizi del suo stato. Costretto nel 1690 a portarsi a Napoli per recuperare certi suoi crediti, tanto gli piacque l’atmosfera intellettuale del Regno che non se ne mosse più per tutto il tempo che visse (morì nel 1746). Non accettò neppure il pressante invito fattogli nel 1730 dal generale sassone Johann Mathias von Schulenburg (1661-1747) a visitare Corfù che costui, passato al servizio di Venezia dopo aver militato in tutti gli eserciti d’Europa, aveva abilmente difeso contro i Turchi nel 1716: per il Doria l’azione più brillante di questo sperimentatissimo uomo di guerra. Amicissimo del Vico, nel 1709 aveva pubblicato quel suo trattato della “Vita civile”, che a parere del più accurato radiografo dell’opera del Montesquieu, Robert Shackleton, sarebbe una delle fonti dell'”Esprit des lois” di Montesquieu. In ogni caso, anticipa senza dubbio alcune delle tesi fondamentali dell’opera francese, apparsa – si sa – nel 1748. L’interesse di Doria per le teorie di Cartesio è costantemente condizionato dalla preoccupazione di ricondurlo entro l’alveo del platonismo e dell’agostinismo, depurandolo così in qualche modo dai suoi aspetti più rivoluzionari. Il paradossale risultato ottenuto è che alla filosofia cartesiana toccano più critiche che riconoscimenti: il principio della chiarezza e della distinzione appare insufficiente a garantire la verità, il metodo geometrico è troppo astratto per cogliere la realtà e – questa è l’accusa più infamante – il razioanlismo esclude un autentico spirito religioso e ha latenti in sé gli sviluppi panteistici di Spinoza. L’intento di Doria di emendare il cartesianesimo, condannandone gli aspetti più specifici e risolvendolo in più innocue tradizioni filosofiche, non è comunque documentato nel solo ambiente napoletano e tutto sommato rivela come il pensiero di Cartesio non ebbe grande udienza presso il gusto filosofico italiano. Vico, grande amico di Doria, lo prendeva in giro per le sue simpatie verso Cartesio: rievocando nell’autobiografia le discussioni sostenute con Doria sulla filosofia del francese, Vico poteva sostenere che “ciò che il Doria ammirava di sublime , grande e nuovo in Renato , il Vico avvertiva che era vecchio e volgare trà platonici”. Il Doria fu scrittore copioso di filosofia politica e di matematica. I suoi testi più interessanti sono quattro, due editi, due inediti: “Il capitano filosofo”, ponderoso trattato di teoria militare uscito nel 1739; le “Lettere”, e ragionamenti varj, apparso nel 1741, dove si legge un esame critico dell’ “Histoire de Charles XII” del Voltaire pubblicata dieci anni avanti; due opere lasciate inedite dall’autore tra i tanti suoi manoscritti, tratte in luce di recente, tra il 1981 e il 1982, sono il “Politico alla moda” del 1739 (che già aveva ricevuto miglior cura nelle mani di Vittorio Conti) e “Il commercio mercantile” del 1742: una delle sue ultime opere. Che il Doria fosse osservatore politico acuto si può dimostrare, per esempio, con un passo del “Politico alla moda” sulla Prussia. Re ne era ancora Federico Guglielmo I, il creatore maniacale del potentissimo esercito prussiano: “Pare che egli aspiri ad ingrandire il suo stato con l’acquisto della Slesia, quando si divideranno li stati ereditarj dell’Imperatore” . Federico Guglielmo, alieno d’altra parte a sciupare con una guerra quella sua perfettissima macchina, premorì a Carlo l’anno successivo. E l’invasione della Slesia, fosse questa o no nei piani del defunto re, fu a ogni modo il primo atto del nuovo: Federico II. Bestia nera dell’ultimo Doria, dell’autore cioè del “Commercio mercantile” (non a caso proprio in quest’opera egli si fece propugnatore della disobbedienza civile era la politica “mercantile” del suo tempo, espressione che in lui non connota un sistema di scambi, ma un modo perverso di concepire i rapporti politici: quelli tra governanti e governati, quelli tra stato e stato, quello degli ordini all’interno degli stati, quelli infine tra uomo e uomo. Proprio quel gran mercanteggiare, quel disporre della vita dei popoli senza minimamente consultarli, quel passarseli di mano in mano era ciò che più faceva ardere di sdegno il Doria). Quei principi bassamente calcolatori, che non coltivavano altro disegno politico che quello di arricchire il loro erario privato, non erano forse più simili a mercanti – e a mercanti indegni, perché mancatori di fede – che a guide e mantenitori di quegli organismi delicati, sempre pronti a esplodere a causa delle tensioni interne e della naturale turbolenza degli uomini che sono le società politiche? Caso esemplare di questa “mercantilizzazione” della politica: la Russia. La sua situazione internazionale era, prima dell’avvento di Pietro, del tutto marginale. Paese vastissimo, sembrava che fosse “utilissimo più che niun altro regno del mondo del commercio” e capace “d’inondare l’Europa”. Ma era purtroppo spopolato (“a cagione che è stato governato da i loro czari con tirannia, era poco men che tutto spopolato”, tranne “quelli paesi che sono vicini al fiume Volga”). Non era stato perciò temibile da parte dell’Europa: “un’inondazione de’ soli moscoviti” era allora impensabile. Il clima rigidissimo non favoriva d’altra parte il commercio con i forestieri; e meno ancora lo favoriva il bassissimo livello culturale delle popolazioni: “Li popoli … sono stati incolti sino alla venuta di Pietro Alexiovitz nelle virtù militari e nelle civili, e sono stati trattati dai loro czari ad uso di bestie, onde poi essi stessi hanno vissuto più come bestie che come uomini, hanno avuto pessimi costumi ed inurbani, nelle conversazioni altro non facevano che ubbriacarsi e poi si cadevano a terra”. Le donne non facevano eccezione. Sul piano militare erano stati vulnerabilissimi. Nelle molte guerre combattute con i Polacchi “sono sempre stati battuti sin’a tanto che li Polacchi hanno dato il sacco a Mosca”; e pochissima perizia e scarsa disciplina avevano dimostrato nei frequenti conflitti col Turco. Di questa incapacità militare è prova il fatto che Carlo XII, nel 1700, poté battere a Narva con soli ottomila svedesi un esercito russo dieci volte superiore. Né migliore era la situazione religiosa. Greci scismatici, erano “osservantissimi” dei riti e delle “penitenze esteriori” e obbedientissimi dello zar e del loro patriarca; ma i loro costumi erano pessimi. Le tre quaresime all’anno che facevano e tutte le messe che sentivano non li facevano migliori: “in mezzo alla loro ignoranza ed alla loro barbarie sono maliziosissimi, infedeli nel commercio e cattivi uomini”. La loro non era religione, ma “superstizione”; e c’era da augurarsi che tanta ipocrisia non finisse per attecchire tra i cattolici romani. Pietro, uomo “dotato dalla natura capace di altissime virtù”, aveva concepito il disegno lodevolissimo di “civilizzare” la sua nazione e di “coltivarla nella virtù per lo mezzo del commercio colle altre nazioni”. In breve: “mutare la forma del governo barbaro in forma di governo politico”. Commise però l’errore, comune a tutti i principi europei, di credere che la politica “consista nel commercio … e nel mantenere esercito numeroso, e che consista nella coltura delle arti, ed aveva ancora per massima la massima che hanno li nostri principi, cioè che la gloria del principe consista nel dominare il popolo a sé soggetto e nel conquistare gli altrui stati, onde poi pongono in tutto in bando la cura di promuoverne i popoli la vera morale e quelle vere virtù le quali sono … li veri e li soli fonti della vera politica”. Per raggiungere il suo fine di “coltivare li moscoviti nelle arti, nel commercio e nella guerra” non aveva risparmiato fatiche. I suoi successi erano sotto gli occhi di tutti. Aveva creato dal nulla un’eccellente scuola di architettura navale e li aveva resi abili in molte altre attività tecniche (“oggi li moscoviti fabricano vascelli, e fabricano tutte le altre cose alle quali nei passati tempi non hanno mai veramente pensato”); aveva aperto il commercio con la Cina, con la Persia, con l’Olanda, con la Svezia, con la Francia e altri paesi ancora (“il czar ha introdotto perfettamente nella Moscovia il commercio”); aveva, con l’aiuto di ufficiali francesi, olandesi, inglesi e tedeschi, disciplinato e ben istruito nell’arte di combattere l’esercito (“l’infanteria moscovita è la migliore che sia in Europa”). L’ultimo perfezionamento dell’esercito era sì dovuto all’opera di due stranieri – il tedesco Burchard Christoph Mùnnich (1685-1767) e l’irlandese Peter Lacy (1666-1751) – ai quali la zarina Anna, buona continuatrice della politica petrina, aveva concesso i maggiori poteri. Ma era stato pur sempre Pietro che aveva dato il primo e decisivo impulso e li aveva ingaggiati al suo servizio. E sua era stata la cura d’introdurre in Russia lettere e scienze, chiamandovi “con grandissimi soldi” molti scienziati delle università d’Europa per formarvi quell’Accademia delle scienze che Caterina I aveva poi realizzato. Se i russi avevano assimilato dunque perfettamente le tecniche e l’organizzazione delle risorse dell’Occidente non per questo erano però divenuti più “virtuosi”: che pure era il secondo punto del programma di Pietro. Bisognava cercare la radice di questo fallimento nella ristrettezza della sua visione politica: “non era filosofo, non era capace d’intendere l’origine e l’essenza della vera politica”. I rapporti dei cittadini con il potere non erano mutati: i Russi schiavi erano e schiavi erano rimasti. La loro ferocia si era tutt’al più convertita in malizia. Il commercio, la disciplina militare, il progresso nell’uso delle tecniche non bastano per far avanzare in civiltà. Il Doria non pensava tuttavia che quell’europeizzazione precoce e violenta avesse compromesso per sempre la possibilità d’incivilimento dei russi. Sarà questa un’idea di Rousseau: “Les Russes ne seront jamais vraiment policés, parce qu’ils l’ont été trop tôt” (“Il contratto sociale”). Pietro era stato un eroe? Doria non lo credeva. Autentici eroi – così aveva detto sin dal 1709 – “quegli uomini forti e coraggiosi ma dotti e savj tutto ad un tempo, i quali alla felicità del popolo e dello stato le loro eroiche azioni indirizzarono ed in conseguenza di ciò prima penseranno agli interni ordini politici dello stato, dai quali nasce l’interno utile e naturale commercio, e poscia al commercio con le straniere nazioni ed in questa guisa faranno fiorire nei lor paesi la ricchezza alla virtù congiunta”. Il Doria è molto avaro nel rilasciare patenti di eroismo: la nega anche a Carlo XII. Era stato sì “un mostro di coraggio, d’intraprendenza, di costanza nelle fatiche”: un temerario, non un eroe. Aveva rovinato la Svezia, il suo paese, e non si era proposto nessun fine virtuoso, come sarebbe stato quello di liberare dalla servitù i popoli che conquistava. E la nega, in polemica con Voltaire, al suo grande antagonista: Pietro. Il successo delle riforme compiute da quest’uomo brutale era incontestabile: la Russia era divenuta, vasta e ricca com’era, “la più potente Nazione d’Europa”. Ma egli non aveva saputo dare alla sua autorità la forza di un fondamento morale. Il potere degli zar era enorme, ma fragile. I supplizi più atroci non bastavano a spegnere nei russi il desiderio di “divenire liberi” alla maniera dei vicini svedesi alla morte di Carlo XII; come avevano inutilmente tentato nel 1730. “Le congiure contro la Czara – pronosticava – come prodotto da una piaga assai profonda, si multiplicheranno sempre e alla perfine scoppieranno in una universale rivoluzione, e ciò malgrado li numerosi supplicj che la czara [indubbiamente Anna] prattica contro li congiurati”. Per l’intrinseca debolezza del potere zarista non nutriva grandi timori per il futuro d’Europa. Anche nell’ipotesi che la Russia, questo “gigante di smisurata grandezza”, fosse riuscita a soggiogare l’impero turco – era questo, del resto, il suo compito storico – e a formare uno stato che si stendesse dal Baltico al Mar Nero e al mar di Grecia, fino ai confini con Venezia, non era da temersi. Un’iniziativa russa ai danni di qualche paese europeo avrebbe per prima cosa suscitato una grande coalizione contro l’aggressore. Ma esistevano soprattutto limiti oggettivi all’espansione territoriale degli stati, e tanto più gravi quanto più il potere centrale, per la sua natura autocratica, mancava di profonde radici. La forza degli eserciti non bastava ad assicurare il successo durevole di un tirannico conquistatore.
GIAMBATTISTA VICO
Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 – Napoli, 23 gennaio 1744) è stato un filosofo, storico e giurista italiano, noto per il suo concetto di verità come risultato del fare (verum ipsum factum). Il suo maggiore lavoro è la Scienza Nuova, (nel titolo originale Principi d’una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, per i quali si ritruovano altri princìpi del diritto naturale delle genti) pubblicato una prima volta nel 1725 e poi ancora – dopo ampliamenti e riscritture – nel 1730 e nel 1744, anno della sua morte. L’originalità del suo pensiero è stata rivalutata nel XX secolo grazie a Benedetto Croce. In seguito il suo pensiero è stato considerato tra i precursori del costruttivismo. Figlio di un modesto libraio, Vico studiò diritto presso l’Università di Napoli, dove poi insegnò eloquenza e retorica dal 1699 al 1741(pur avendo aspirato a una più prestigiosa cattedra di giurisprudenza, dovette limitarsi alla docenza di retorica, che prevedeva uno stipendio molto ridotto, che Vico integrò per diversi anni offrendo lezioni private). Contribuì notevolmente alla sua formazione il ruolo di precettore presso il marchese Rocca, nel castello di Vatolla in Cilento, ruolo che svolse dal 1689 al 1695 e che gli permise di accedere alla imponente biblioteca del suo ospite, dove si trovavano opere di Agostino, Ficino, Pico della Mirandola, ma anche Botero e Bodin (teorici del giusnaturalismo) e Tacito. Dalla sua attività di docente derivano le sei Orazioni inaugurali scritte per l’apertura degli anni accademici dal 1699 al 1707, alle quali se ne aggiunge un’altra più nota ed importante delle altre, che reca il titolo De nostri temporis studiorum ratione (Il metodo degli studi del nostro tempo), recitata nel 1708 e pubblicata l’anno successivo; al 1710 risale invece la sua prima opera metafisica, ossia il De antiquissima italorum sapientia (L’antichissima sapienza delle popolazioni italiche). Nella sua Autobiografia (pubblicata nel 1725) Vico cita come fonte ispiratrice della sua Scienza nuova, la metafisica delle idee platoniche, il realismo dello storico da Tacito, il metodo induttivo di Francesco Bacone , il giurista Ugo Grozio per l’abbinamento fra filosofia e filologia. Il suo intento è di mettere in relazione il mondo ideale e quello reale, allineando filosofia(che si occupa della verità) e filologia(che si occupa della certezza, come metodo storico e documentale), alla ricerca della genesi ideale del mondo civile. Il punto di partenza della filosofia di Vico è la questione della verità, che per Cartesio era stata ritenuta accessibile alla conoscenza umana, nell’ambito di quelle idee chiare e distinte che risultano evidenti alla ragione. Vico si oppone fermamente a questa concezione razionalistica, che a suo avviso inaridisce la creatività che è la facoltà più propria dell’uomo. Non la verità, ma solo il verosimile, ritiene Vico, è accessibile alla conoscenza umana. Secondo una sua celebre affermazione, “Verum et factum reciprocantur seu convertuntur”, cioè il vero e il fatto si convertono l’uno nell’altro e coincidono. È questo il principio della filosofia vichiana che stabilisce il nesso fra verità e produzione, secondo il quale l’unica verità che può essere conosciuta consiste nei risultati dell’azione creatrice, della produzione. Per questo solo Dio conosce il mondo in quanto lo crea continuamente, mentre all’uomo è riservato il posto di Demiurgo della storia e artefice del proprio destino, e la storia e la sua vita sono gli unici oggetti della sua conoscenza in quanto da lui prodotti. L’unico altro campo in cui l’uomo può raggiungere la verità, è quello della matematica, in quanto nella matematica egli è in un certo senso produttore, della verità che scopre. In tutta la tradizione metafisica Dio è “causa sui”, onnipotente ed onnisciente in quanto creatore dell’essere. Vico passa da una metafisica di Dio a una metafisica dell’uomo e della storia ed estende questo principio del conoscere-produrre all’uomo, creando una metafisica della storia in cui l’uomo parte dalla storia per arrivare a sé stesso che la pone in essere. Si può veramente conoscere solo ciò di cui si è facitori (verum ipsum factum) Più specificamente, sono diverse le critiche che Vico muove al pensiero di Cartesio, che dal “cogito, ergo sum” deduceva la presenza di un io in grado di autoconoscersi e la riduzione del “cogito” a lecita prova della nostra esistenza, senza poter dire qual è il contenuto del cogito; l’io per Vico è condannato a non conoscere pienamente sé stesso né il mondo di cui ha solo una rappresentazione che si costruisce con le idee fattizie, in quanto le idee innate e avventizie (dal mondo esterno) non sono a lui note perché non prodotte dall’io, pur restando libero di darsi un contenuto costruendo le proprie idee “fattizie” a partire dalle precedenti (avventizie e innate). La conoscenza del mondo esterno non può che essere probabilistica, non una certezza e una verità filosofica: tale idea sarà espressa anche dagli empiristi e in particolare da Hume. Nel mondo creato dall’io, da ogni soggetto cosciente, c’è la realizzazione delle idee di ciascuno: la storia è prima di tutto nelle menti di tutti i suoi artefici e poi nella realtà che abbiamo davanti. Questo pensare elevava il “polites” greco e, secondo lo storico Tacito, rendeva la storia il contenitore della “Repubblica” platonica. Il più famoso libro di Platone sarebbe la parte produttiva che ha il suo corrispondente “verum” nella storia, a sottolineare l’importanza capitale di questo libro secondo gli studiosi odierni. Da tutto ciò consegue che, per Vico, suprema e unica scienza da perseguire è la storia, nella quale l’uomo conosce ciò che egli stesso ha fatto, ovvero la verità nel suo farsi, nel suo sviluppo ideale. In questa concezione per certi versi platonizzante di Vico, alcuni studiosi hanno visto il preannuncio con notevole anticipo del successivo sviluppo dell’idealismo tedesco. Essa tuttavia è per certi versi opposta allo storicismo di Hegel, il quale vedeva la storia come un continuo progresso della coscienza assoluta, a partire da gradi inferiori fino a quelli via via superiori. Secondo Vico, invece, la storia non è un progressivo perfezionamento dell’assoluto, poiché questo è tale sin dall’inizio del suo dispiegarsi. La sua concezione presenta maggiori somiglianze con quella di Fichte e Schelling, o ancor più con la visione circolare propria delle filosofie orientali secondo cui nella storia non si dà un autentico progresso, ma al contrario un eterno ritorno di cicli sempre uguali. Lo studio della storia è una scienza nuova, per Vico, la quale, mediante l’unione di filosofia e filologia, deve occuparsi di individuare e documentare gli eventi della storia, i fatti, ma soprattutto deve interpretarli ricercandone quelle ragioni ideali ed eterne, che sono destinate a presentarsi costantemente, in modo ripetitivo anche se in gradi diversi, all’interno di tutti i momenti della storia. La scienza di Vico si baserà perciò su un metodo storicistico, basando la sua analisi su alcune premesse ovvero principi ritenuti intuitivamente certi, che Vico denomina “degnità”. Secondo Vico la storia è dunque opera dell’uomo, cioè modificazione della mente dell’uomo, che lo porta a passare dal senso, alla fantasia, fino alla realizzazione della ragione; e Vico individua anche storicamente queste tre fasi. La prima, l’età in cui gli uomini “sentono senza avvertire”, corrisponde all’età ferina, in cui gli uomini non sono che bestie confuse e stupite; dall’abitudine di seppellire i morti, cioè di in-humare, nasce secondo Vico l’humanitas, cioè la caratteristica umanità dell’uomo, che nell’età della fantasia è in grado di “avvertire con animo perturbato e commosso” e di concepire le prime “favole” intorno agli dei. Ma è solo con il progresso della storia e col sorgere dei vari ordinamenti civili, che si sviluppa la ragione e quindi l’età della mente. La storia tuttavia alterna fasi di progresso a fasi di decadenza: Vico parla di “corsi e ricorsi storici”. Ciò non significa, come comunemente si interpreta, che la storia si ripeta. Significa, piuttosto, che l’uomo è sempre uguale a se stesso, pur nel cambiamento delle situazioni e dei comportamenti storici. Ciò che si presenta di nuovo nella storia è solo paragonabile per analogia a ciò che si è già manifestato. Così, ad esempio, ad epoche di civiltà possono seguire epoche di “ritornata barbarie”; ad epoche nelle quali più forte è il senso di una determinata categoria, altre nelle quali si sviluppa maggiormente un altro aspetto della vita. La storia, dunque, è sempre uguale e sempre nuova. In tal modo è possibile comprendere il passato, che altrimenti ci rimarrebbe oscuro, perché: “Historia se repetit”.
PIERRE BAYLE
A cura di Ernesto Riva
Pierre Bayle nacque a Carla, vicino a Tolosa, nel 1647 da famiglia protestante (il padre era un modesto ministro calvinista). Apprese il latino e il greco sotto la guida del padre e, dopo aver frequentato la scuola del paese natale, entrò nel 1666 nell’accademia di Puylaurens. Si trasferì successivamente a Tolosa e qui si convertì al cattolicesimo, rompendo con la propria famiglia. Ma nel 1670 abiurò il cattolicesimo e ritornò alla religione riformata. Alla fine del 1675 fu nominato professore di filosofia dapprima all’Accademia protestante di Sedan, poi a quella di Rotterdam, svolse un’intensa attività pubblicistica difendendo la tolleranza religiosa e la libertà di pensiero. La tolleranza religiosa trova il suo fondamento, secondo Bayle, nell’obbligo di ciascuno di seguire unicamente il giudizio della propria coscienza, obbligo che non può essere contrastato o impedito con la violenza anche se si tratta di una coscienza errante. Nel 1682 pubblicò i Pensieri sulla cometa, che costituiscono la sua prima presa di posizione contro il valore della tradizione come criterio o garanzia di verità. Nel 1684 iniziò la pubblicazione delle “Nouvelles de la République des Lettres”, un periodico letterario di grande diffusione e fortuna, che lo accreditò come protagonista della vita intellettuale europea. La critica di Bayle diventerà ancora più radicale nel Dizionario storico e critico (1697), che è la sua opera fondamentale. Morì nel 1706.
Ragione e storia
Il modo in cui il Dizionario storico critico è stato condotto rivela il compito negativo e critico che Bayle attribuisce alla ragione umana. La ragione risulta però purtroppo incapace di dirimere le dispute: essa è adatta soltanto a far conoscere all’uomo le sue tenebre e la sua impotenza. È più onesto riconoscere l’incapacità della ragione e accettare umilmente la parola di Dio, anziché ingannare se stessi con prove fittizie e dimostrazioni inconcludenti. Tuttavia c’è un altro insegnamento positivo e che è quello che Bayle esprime dicendo: “Non c’è nulla di insensato che ragionare contro i fatti”. Egli ritiene che bisogna risalire alle fonti di ogni testimonianza, vagliarla criticamente rispetto all’intento esplicito o sottinteso del suo autore, e rigettarla ogni volta che appaia infondata o sospetta. Da questo punto di vista, possiamo considerare Bayle il fondatore della acribia storica (rigore critico, precisione). Uno storico, per Bayle, “deve essere attento solo agli interessi della verità e deve sacrificare a questa il risentimento di un’ingiuria, il ricordo di un beneficio e l’amore stesso della patria”. Bayle ritiene disonesto per il filosofo o il teologo ignorare o chiudere gli occhi di fronte alle contraddizioni della propria dottrina almeno quanto è disonesto per lo storico ignorare o alterare i fatti.
Pensieri sulla cometa
Bayle è stato l’uomo, secondo Marx (cfr. La sacra famiglia, VI, 2), che avrebbe tolto ogni credito alla metafisica. Non solo. Egli avrebbe annunziato la società atea, la quale avrebbe dovuto cominciare presto ad esistere mediante la dimostrazione che una società di puri atei poteva esistere, che un ateo può essere un uomo rispettabile, che l’uomo non si degrada con l’ateismo ma soltanto con la superstizione e l’idolatria! L’occasione della celebre controversia sull’ateismo e della tesi difesa dal Bayle, fu l’apparizione nel 1680 di una cometa che mise in subbuglio tutta l’Europa poiché le masse la giudicavano un segno divino come presagio di malaugurio, foriero di fatti e eventi funesti: un castigo evidentemente e soprattutto contro quanti coltivavano l’incredulità e professavano l’ateismo. La tesi che Bayle sviluppò nei Pensieri diversi era contro ogni allarmismo superstizioso, ossia che nel caso non si trattava affatto di un segno straordinario di Dio, ma di un evento del tutto naturale. L’attribuire ogni fatto straordinario della natura a un miracolo o intervento speciale di Dio, il vedere in tali fatti dei presagi divini come fanno certi cristiani può essere un fomentare la superstizione e l’idolatria. I cristiani, se non vogliono ripetere l’errore dei pagani, farebbero meglio ad attribuirli alle cause naturali cioè alle leggi generali della natura stabilite da Dio, che non appellarsi a volontà particolari di Dio destinate a produrre miracoli. Quindi ciò che il Bayle vuole affermare è un criterio di sobrietà teologica: non nega affatto né la realtà né la possibilità dei miracoli ma, partendo dal caso specifico della comparsa della cometa, osserva che 1) simili fatti possono essere semplicemente naturali; 2) che non hanno affatto il carattere di un presagio divino, ossia non implicano una particolare connessione con la divina provvidenza ed i suoi rapporti con l’uomo e col governo del mondo; 3) un simile rapporto tornerebbe a tutto vantaggio dell’idolatria e della superstizione più che a danno e confutazione dell’ateismo.
La polemica sull’ateismo
Anzi – e qui Bayle entra nel vivo della questione – si può affermare che Dio abomina più l’idolatria e la superstizione, che pongono falsi dèi, che non l’ateismo. L’ateismo è semplice rifiuto, mentre l’idolatria è detta da Dio stesso furto e peggio ancora prostituzione. Più grave è errare sull’essenza del concetto stesso di Dio e adorare per Dio le creature, che non avere nessun concetto di Dio e non rendergli alcun onore. Infatti, basta scorrere la mitologia pagana che presenta gli dèi implicati in ogni sorta di brutture, per persuadersi che il genere umano era assai più corrotto nell’idolatria di quanto non possa esserlo nella semplice privazione della religione. Bayle osserva inoltre che, benché senza una grazia speciale nessun uomo possa, secondo la teologia, operare per il puro amore di Dio, pure l’uomo può comportarsi onestamente e fare buone azioni per i soli motivi umani, per inclinazione, per amore della lode o paura del biasimo: perciò può darsi benissimo che alcuni cosiddetti atei, benché privi di ogni religione, osservino una forma di convenienza e onestà civile. Perciò atei come Epicuro e Plinio potevano ben avere una vita onesta e regolata. Non è vero allora che l’ateo debba essere senz’altro immorale e immerso in ogni sorta di vizi, né basta sapere che una cosa è proibita da Dio per evitarla. L’ateismo è perciò minore ingiuria a Dio che non la negazione dei suoi attributi fondamentali e soprattutto della sua santità. È minore errore concepire Dio separato e disinteressato dal mondo, che non pensarlo dipendente dal medesimo come fa il paganesimo. In sintesi, il confronto non è perciò fra religione e ateismo in generale, ma fra paganesimo come religione corrotta e l’ateismo di alcuni, i quali possono aver ispirato la loro vita a principi di onestà e correttezza naturale. Il risultato del confronto è quindi che si possono dare persone che si dicono religiose, le quali conducono una vita disonesta, e persone che sono e si dicono atee, le quali conducono una vita onesta. In conclusione è dunque innegabile che lo scritto di Bayle sulle comete (si ricordi che siamo alla fine dei Seicento) tenda a togliere l’impressione di orrore che può suscitare l’ateismo e ad incutere un certo rispetto verso la categorie degli atei speculativi o teorici e a diffondere una esplicita accusa o sospetto di ipocrisia o di insufficienza verso la religione in generale. Quello che ha sollevato esplicitamente Bayle è in altri termini il problema dei rapporti fra morale e religione, che è tutt’altro che semplice. La morale e la religione sono correlate o devono essere autonome? In Bayle sembra che l’uomo possa arrivare a fare il bene anche partendo dalla negazione radicale di ogni religione. Qualunque sia stata l’intenzione di Bayle, il suo influsso sull’illuminismo e sul materialismo ateo dei secoli seguenti è stato enorme. Gli atei gli riconoscono il merito di aver messo fine alla loro clandestinità e di aver riconosciuto il patente diritto di uscire in pubblico e a fronte alta.
FRANÇOIS DE LA ROCHEFOUCAULD
“È solo dei grandi uomini avere grandi difetti”; “il perfetto coraggio è fare senza testimoni ciò che si sarebbe capaci di fare davanti a tutti”; “l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù”; “è una gran follia voler essere saggi da soli”; “l’interesse mette all’opera ogni sorta di virtù e di vizio”; “la lealtà esibita è una dichiarata impostura”; “l’estremo piacere che prendiamo a parlare di noi stessi ci deve far temere che non ne stiamo dando nessuno a chi ci ascolta”; “se la vanità non rovescia completamente le virtù, le fa per lo meno vacillare tutte”; “il segno più grande di essere nati con grandi qualità, è di essere nati senza invidia”: “non ci sono sciocchi così insopportabili come quelli che hanno una certa intelligenza”. Sono questi alcuni pensieri tratti dalle Massime di François de La Rochefoucauld, e che mostrano la sua saggezza, la acuta capacità di scavo nell’animo umano. François VI, principe di Marcillac, nasce a Parigi nel 1613 e alla morte del padre, avventa nel 1650, diventa duca di La Rochefoucauld. A soli sedici anni partecipa alla prima campagna militare, a ventidue prende parte alla prima congiura, e combatterà e congiurerà sino alla fine della Fronda. Sconfitto, abbandonato dagli amici e dall’amante – M.me de Longueville, sorella del Condè -, ridotto in miseria, si ritirerà prima nelle sue terre per tornare successivamente a Parigi, dove vivrà sempre appartato rispetto alla nuova corte di Luigi XIV, coltivando l’amicizia con donne illustri quali M.me de La Fayette, M.me de Sablé e Cristina di Svezia. Il 1665 è l’anno della prima edizione delle Massime. François de la Rochefoucauld muore nel 1680. Ecco il giudizio che ne dette Voltaire nel capitolo XXXII del Siècle de Louis XIV: “Uno dei libri che più contribuirono a formare il gusto della nazione e a dargli uno spirito di giustezza e di precisione, fu la piccola raccolta delle Massime di François duca di La Rochefoucauld (…). Tale piccola raccolta fu letta avidamente; ci si abituò a pensare e a racchiudere il proprio pensiero in una forma vivace, precisa, lieve. Era un merito che nessuno prima di lui aveva avuto in Europa dopo la rinascita delle lettere”. E la verità sulla quale La Rochefoucauld ha insistito è che l’amor proprio è il momento fondamentale delle azioni umane. Un pessimismo sulla natura umana attraversa le pagine delle Massime – un pessimismo senza veli sulle passioni, le ambizioni, la prontezza al tradimento di cui uomini e donne sono capaci, e che ha dato luogo a una interpretazione “agostiniana” del libro nel senso che La Rochefoucauld avrebbe distrutto quegli idoli e quella presunzione che sono barriere sulla strada della vera salvezza, quella cristiana. Pur se simile interpretazione può apparire azzardata, è però certo che le Massime riescono a mettere a nudo aspetti poco rispettabili della natura umana e rappresentano una significativa stazione nella realizzazione del programma fissato da Socrate con l’imperativo “Conosci te stesso”. “L’amor proprio è il più grande di tutti gli adulatori”. E poi: “Per quante scoperte siano fatte nel paese dell’amor proprio, vi restano ancora molte terre sconosciute”; “l’amor proprio è più abile del più abile degli uomini del mondo”. E per quanto ci si ingegni a nascondere le nostre passioni sotto parvenze di pietà e di onore, “esse appaiono sempre attraverso questi veli”. Così “abbiamo tutti abbastanza forza per sopportare i mali altrui”; e “l’orgoglio più della bontà è coinvolto nelle nostre proteste contro quelli che commettono errori; non li riprendiamo tanto per correggerli quanto per convincerli che noi ne siamo esenti”. Senza pietà il coltello viene affondato sulle nostre miserie: “Siamo così assuefatti a mascherarci agli altri, che finiamo per mascherarci a noi stessi”. Falsi con noi e con gli altri, siamo tanto vanesi che “preferiamo dir male di noi stessi piuttosto che di noi non si parli affatto”; e se è vero che “normalmente non si loda che per essere lodati”, è anche un fatto difficilmente smentibile che “poche persone sono abbastanza sagge da preferire la critica che è loro utile alla lode che le tradisce”. La realtà è che la lusinga è “una moneta falsa” cui la nostra vanità apre tutte le porte. Le Massime appaiono in un periodo in cui le forme brevi erano alla moda presso quel pubblico mondano che era divenuto il vero giudice del successo di un’opera. Pensieri brevi ed incisivi, veri precipitati di esperienza e di saggezza erano già stati precedentemente offerti da Michel de Montaigne, anche Pierre Nicole scriverà “sentenze” nei suoi Essais de Morale; e “sentenze” scriverà la marchesa de Sablé. È questo periodo in cui viene al mondo quel prodigio costituito dai Pensieri di Pascal. E se Pascal, al pari di La Rochefoucauld, ha scandagliato i lati meno nobili della natura umana, egli però ha posto in evidenza anche quegli aspetti che non abbassano troppo l’uomo: insomma, miseria sì, ma pure grandezza dell’uomo. Per quanto riguarda la falsità, a Rochefoucauld si attribuisce la convinzione che gli uomini non vivrebbero a lungo in società se non si ingannassero reciprocamente. “La falsità ― lui dice ― θ universale perché le nostre qualità sono incerte e confuse, e così pure le nostre opinioni: non vediamo le cose come effettivamente sono, le stimiamo più o meno di quanto valgono e non ci disponiamo in rapporto ad esse nel modo più opportuno”. Come Pascal, La Rochefoucauld ritiene l’onestà una qualità interna all’uomo, ma che proprio per questo pone un dilemma: come si fa a distinguere la vera onestà dalla falsa rappresentazione di essa? La differenza tra le vere e le false persone oneste è difficilmente percepibile dalla maggioranza della gente, specialmente se non si ha la possibilità di prestare attenzione al minimo indizio di insincerità (soprattutto non verbale). Spietato nella denuncia dell’ipocrisia, La Rochefoucauld irride la falsità delle apparenze virtuose (“la cortesia è il desiderio di essere ricambiati e di essere considerati gentili”), dimostrando come ogni azione sia frutto di un egoismo originario, dell’interesse personale e della totale mancanza di autocritica (“niente è più raro della vera bontà: quelli che credono di averla hanno in genere soltanto compiacenza o debolezza”).
L’egoismo, uno dei temi principali della sua riflessione, fa parte strutturale della natura umana e, proprio per questo, ne può derivare una particolare forma di saggezza che conduca a una morale “senza trascendenza”, una morale sociale, che finisca col diventare arte di vivere (“Non possiamo amare niente che non sia in rapporto a noi stessi, e quando preferiamo i nostri amici a noi stessi non facciamo che seguire i nostri gusti e il nostro piacere. Eppure, solo grazie a questa preferenza può esserci un’amicizia vera e perfetta”).
È il metodo, quello che è stato definito “l’ermeneutica delle virtù”, a conferire la coerenza di un sistema ai pensieri: riducendo le virtù nobili a motivi “ignobili”, La Rochefoucault crea un’etica della verità denudata che colpisce in profondità come una spada. Le massime nascono da un profondo senso di disillusione e sconfitta dell’autore e, per l’esigenza intellettuale di non offrire l’aspetto emotivo della propria riflessione, il punto d’osservazione vuole essere staccato; ma quello di La Rochefoucault è un distacco solo apparente, che fa trasparire l’intensità delle emozioni (perfettamente controllate) e l’amarezza dell’esperienza di vita. La verità che ogni lettore può riconoscere in queste riflessioni è, necessariamente, solo parziale: il punto d’osservazione fissa l’aspetto negativo del cuore umano, il male che alligna in ogni vivente, ben mimetizzato sotto il velo della virtù (“la modestia, che sembra rifiutare le lodi, in realtà desidera soltanto riceverne di più raffinate”).
Quanto siano feroci e spietati i giudizi che questo pensatore trancia lo si deduce da quanto sappiano colpire ancora oggi e forse questo avviene perché “Se si fa tanto discutere contro le massime che mettono a nudo il cuore umano è perché ciascuno teme di esservi messo a nudo”.
LA FALSITA’
La falsità
Si può essere falsi in vari modi. Ci sono uomini falsi che vogliono sembrare sempre ciò che non sono. Ce ne sono altri, più in buona fede, che sono nati falsi, sono i primi ad ingannarsi e non vedono mai le cose come sono. Alcuni hanno la mente retta e falso il gusto. Altri hanno falsa la mente e una certa rettitudine nel gusto. Alcuni poi non hanno nulla di falso né nella mente, né nel gusto, ma sono rarissimi, perché, in generale, non c’è quasi nessuno che non abbia un po’ di falsità in qualche aspetto dell’intelligenza o del gusto.
La falsità è così universale perché le nostre qualità sono incerte e confuse, e così pure le nostre opinioni: non vediamo le cose come effettivamente sono, le stimiamo più o meno di quanto valgono e non ci disponiamo in rapporto ad esse nel modo più opportuno né per loro né per la nostra condizione. Questo errore insinua un’infinità di falsità nel gusto e nella mente: il nostro egoismo si lascia lusingare da tutto ciò che ci si presenta sotto le parvenze del bene; ma, essendoci molti tipi di beni che colpiscono la nostra vanità o il nostro carattere, li seguiamo per abitudine o per comodità, li seguiamo perché li seguono gli altri, senza considerare che una stessa opinione non deve essere ugualmente abbracciata da ogni genere di persone e che bisogna seguirla più o meno assiduamente a seconda che sia più o meno conveniente per chi la segue.
Si teme di mostrarsi falsi nel gusto ancor più che nell’intelligenza. Le persone dabbene devono approvare senza prevenzioni ciò che merita approvazione, seguire ciò che merita di essere seguito e non piccarsi di nulla. Ma ci vuole una straordinaria misura: bisogna saper distinguere ciò che è bene in generale e ciò che ci è utile, e seguire con raziocinio la naturale inclinazione che ci conduce verso le cose che ci piacciono. Se gli uomini volessero eccellere soltanto per le proprie doti e attenendosi ai loro doveri, non ci sarebbe nulla di falso nel loro gusto e nella loro condotta; si mostrerebbero come sono, giudicherebbero le cose col loro discernimento e le sceglierebbero a ragion veduta; ci sarebbe una stretta connessione tra le loro opinioni e le loro idee; il loro gusto sarebbe vero, autonomo e non attinto dagli altri e vi si atterrebbero per libera scelta e non per abitudine o per caso.
Se si è falsi quando si approva ciò che non merita approvazione, non lo si è di meno, il più delle volte, quando ci si vuol far valere per qualità che sono buone in sé, ma non si addicono a noi: un magistrato è falso quando si picca di essere coraggioso, benché in certe circostanze possa essere ardimentoso; deve mostrarsi deciso e sicuro in una sedizione che ha diritto di sedare, senza temere di essere falso, ma sarebbe falso e ridicolo se si battesse in duello. Una donna può amare le scienze, ma non tutte le scienze le si addicono sempre e la passione per certe scienze non le si addice mai ed è sempre falsa.
Bisogna che siano la ragione e il buon senso a stabilire il valore delle cose e a determinare il nostro gusto ad attribuir loro il rango che meritano e che ci conviene loro attribuire; ma quasi tutti gli uomini si sbagliano su questo valore e su questo rango, e c’è sempre falsità in questo abbaglio.
I più grandi re sono quelli che s’ingannano più spesso: vogliono superare gli altri uomini in valore, in sapere, in galanteria e in mille altre qualità su cui tutti possono competere; ma, quando si spinge troppo oltre, questo gusto di superare gli altri può essere falso in sé. La loro emulazione deve avere un altro oggetto: devono imitare Alessandro, che accettò di gareggiare alla corsa soltanto contro dei re, e ricordarsi che devono competere soltanto sulle qualità proprie della regalità. Per quanto valente possa essere un re, per quanto saggio e spiritoso, troverà un’infinità di persone che avranno queste stesse qualità quanto lui, e il desiderio di superarle sembrerà sempre falso, e spesso gli riuscirà impossibile realizzarlo; ma se si dedica ai suoi veri doveri, se è magnanimo, se è un grande capitano e un grande politico, se è giusto, clemente e generoso, se tratta bene i suoi sudditi, se ama la gloria e la tranquillità del suo Stato, troverà soltanto dei re da vincere in una così nobile gara e non ci sarà che verità e grandezza in un progetto così giusto: il desiderio di superare gli altri non avrà nulla di falso. Questa emulazione è degna di un re ed è la vera gloria a cui deve aspirare.
ISAAC NEWTON
“Io non so come il mondo mi vedrà un giorno. Per quanto mi riguarda, mi sembra di essere un ragazzo che gioca sulla spiaggia e trova di tanto in tanto una pietra o una conchiglia, più belli del solito, mentre il grande oceano della verità resta sconosciuto davanti a me. (Newton, Principia)”
Lo scienziato inglese più noto, secondo alcuni la più geniale mente di tutti i tempi, nacque nel Lincolnshire da una famiglia di agricoltori. La sua fama è legata ai suoi numerosissimi contributi scientifici in tantissimi campi della fisica e della matematica. Da ragazzo studiò a Cambridge dove conobbe il pensiero di Aristotele, ma fu ben presto attratto dagli scritti di Cartesio , Gassendi , Boyle, Galileo , Keplero . Ancora giovane iniziò ad elaborare le proprie idee partendo dai fondamenti di quello che oggi viene conosciuto come calcolo differenziale, della cui scoperta Newton divide il merito con G.W. Leibniz . Chiamato da Newton ‘calcolo delle flussioni’ esso ha rappresentato un punto cruciale nell’evoluzione della matematica, sintetizzando alcune delle disorganiche conoscenze del passato ma soprattutto mettendo a disposizione degli scienziati alcuni tra i più potenti metodi di calcolo e di analisi matematica. Nell’opera intitolata ‘Optics’ Newton passa ad occuparsi di fisica, in particolare delle proprietà della luce. E’ sua l’invenzione del prisma trasparente che permette di scomporre la luce bianca nei colori dell’iride, così come pure quella del telescopio a riflessione. Egli abbraccia una teoria corpuscolare della luce, in contrasto con la teoria ondulatoria di R.Hooke. Passò poi ad occuparsi di meccanica celeste, cioè del moto delle stelle e dei pianeti, e partendo dalle tre leggi di Keplero giunse alla scoperta e alla formulazione della legge di gravitazione universale, valida cioè per tutti i corpi, dalla Luna alle stelle alla famosa mela. E’ nell’opera di Newton che giungono a pieno compimento le idee di Copernico e Galileo . In meccanica Newton diede contributi essenziali, come la precisa enunciazione dei tre principi fondamentali che ancor oggi sono alla base di questa disciplina. A conclusione delle sue grandi scoperte pubblicò la sua opera fondamentale, scritta in latino essa si intitola ‘Philosophiae naturalis principia mathematica’ [§]. Nei Principia, che sono a giudizio di molti il più grande lavoro scientifico di tutti i tempi, egli enuncia chiaramente le sue concezioni relativamente allo spazio e al tempo che sono per Newton ‘assoluti’ e senza riferimento ad alcunchè di esterno. Nella sua concezione compare anche il concetto di etere, come supporto della forza gravitazionale. Con l’applicazione delle leggi scoperte Newton fu in grado di spiegare una serie vastissima di fenomeni, come il moto delle comete, le eclissi, le perturbazioni nel moto dei pianeti, la caduta dei corpi, il funzionamento del pendolo, la balistica e molti altri ancora. Per i suoi meriti scientifici fu per lunghi anni presidente della Royal Society e, primo scienziato al mondo, ricevette la nomina a Cavaliere dalla Regina Anna [§]. Sir Isaac Newton è considerato uno dei padri della scienza moderna, ma è una personalità molto complessa, dedita fra l’altro anche a ricerche ,magiche ed alchemiche Insieme a Copernico, Keplero e Galileo, Sir Isaac Newton è considerato il padre della moderna scienza: la sua importanza è così rilevante che il poeta neoclassico Alexander Pope scrisse questo epitaffio: La Natura e le sue leggi erano celate nell’oscurità Dio disse: “Sia Newton!”, e tutto fu Luca. . Nonostante questo ruolo predominante, quella di Newton è una figura estremamente complessa e multiforme: dietro l’uomo apparentemente umile si nasconde un implacabile arrivista, una persona capace di perseguitare un rivale – Leibniz – anche dopo la morte, dietro lo scienziato delle leggi deterministiche (vale a dire rigide e predittive di ciò che avverrà in futuro a partire dai dati presenti) troviamo un grande esperto di alchimia e di “magia naturale”. Le conquiste scientifiche di Newton sono enormi, e spaziano su un campo molto vasto: sua è l’elaborazione del “calcolo delle flussioni”, oggi conosciuto come Calcolo infinitesimale, che sta alla base dell’Analisi moderna e delle equazioni della dinamica. Ma fu nel campo della fisica che il suo genio si espresse al massimo livello: si va dall’ottica, con la scomposizione della luce nei suoi componenti fondamentali, fino –soprattutto- alle leggi del moto, che fino al nostro secolo hanno fondato la fisica: Un corpo persiste nel suo modo uniforme finché non agisce su di esso una forza esterna (legge di inerzia); Una forza (F) procura a un corpo un’accelerazione (a) ed è direttamente proporzionale alla sua massa m: F=ma; A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Alcune notazioni importanti: il concetto di Forza, che mancava ancora alla cinematica galileiana, è stato il vero punto di leva della nuova scienza della dinamica; inoltre Newton fu il primo a moltiplicare senza esitazione, come avviene nella sua seconda legge, grandezze fisiche diverse: l’impossibilità a fare questo è uno dei motivi per i quali tutte le dimostrazioni galileiane sono di tipo geometrico e si basano essenzialmente sulla teoria delle proporzioni geometriche. Ma dietro a questo grande uomo di scienza si trova, come abbiamo accennato, un grande appassionato ed esperto di alchimia e di magia, che cerca di andare oltre le semplici leggi meccaniche, per scoprire le leggi del “movimento della vita”, della crescita degli organismi, che non possono essere solo meccaniche. E nonostante ciò, le interazioni fra questi due aspetti di Newton ci sono: l’introduzione della forza di gravità, antintuitiva perché non sussistente fra corpi che si toccano, ma fra astri lontanissimi, è legata all’analogia con le forze tipiche della magia naturale. E, soprattutto, bisogna rendersi conto di una cosa fondamentale: i due livelli –quello scientifico e quello alchemico- non sono in contrasto, perché si tratta di una differenza di profondità nell’indagine del reale e soprattutto perché essi cercano, in modi e con profondità diverse, di svelare agli uomini le leggi profonde della crezione divina: non per niente Newton scrisse che “Dio era un grande alchemista”. La grandezza di Newton è enorme, e può essere testimoniata dall’immane sforzo che Immanuel Kant , nella Critica della ragion pura, fece per fornire alla sua scienza una fondazione filosofica definitiva.
SAMUEL PUFENDORF
“Ciascuno, per quanto dipende da lui, deve promuovere e mantenere coi suoi simili uno stato di socievolezza pacifico, conforme in generale all’indole e alla finalità del genere umano” (De Jure naturae et gentium II, 3, 10).
PUFENDORFIl giurista tedesco Samuel Pufendorf (1632-1694) diede importanti contributi agli studi della legge, alla luce delle realtà politiche affiorate dalla Guerra dei Trent’anni. Quand’era ancora studente di etica e di politica, egli rimase impressionato dalla teoria giusnaturalistica elaborata da Ugo Grozio; ma su di lui influirono molto anche le teorie di Francisco Suarez.
Sempre fedele ai principi della religione luterana, Pufendorf si propone l’ambizioso obiettivo di armonizzare i primi nuclei del pensiero politico pre-illuministico con la teologia cristiana. Nel 1660, egli fu nominato docente presso l’università di Heidelberg e nel 1667 si trasferì presso l’università di Lund, dove vide la luce il suo importantissimo scritto del 1672 De Jure naturae et gentium (La legge di natura e degli Stati), in otto libri. L’opera si pone come una vera e propria giustificazione dell’assolutismo. In opposizione alle tesi propugnate da Hobbes, Pufendorf è convinto della naturale socievolezza dell’uomo: essa, a suo avviso, sta alla base della fondazione della legge di natura. Ma questa originaria disposizione alla socievolezza è stata corrotta dalle condizioni successive in cui l’uomo si è trovato a vivere: in chiave religiosa, si può dire che la caduta coincida col peccato originale commesso dal primo uomo. Alla domanda “che cosa ne sarebbe della vita umana se non ci fosse una legge a regolarla?” Pufendorf risponde senza esitazione: “un branco di lupi, di leoni o di cani che combattono fino alla morte”. Il richiamo ai lupi è, naturalmente, di forte sapore hobbesiano. Proprio per scongiurare un tale rischio, Dio, il legislatore sovraumano, ha imposto agli uomini delle leggi naturali alle quali essi sono tenuti ad adeguarsi, senza mai perderle di vista. Queste leggi divine sono poi state ereditate e codificate dagli uomini nelle loro costituzioni. Sicché, se dopo il peccato originale Dio non avesse dato agli uomini le leggi di natura, essi si troverebbero oggi nella condizione delle belve, che configgono tra loro fino alla morte. La legge di natura è per l’appunto basata sul principio per cui si deve sempre e comunque preservare la vita in società dell’uomo, senza mai allontanarsene, pena una ricaduta alla ferina lotta di tutti contro tutti. Ma, concretamente, da cosa nasce il diritto naturale? Pufendorf risponde sostenendo che esso trae origine da due fattori: in primis, dall’amor proprio, che induce l’uomo a sforzarsi di conservar se stesso e a cercare senza sosta il proprio benessere; in secundis, dallo stato di indigenza in cui l’uomo si trova a vivere nella natura. Poiché la caratteristica peculiare dell’uomo sta nella razionalità, che lo distingue dalle bestie, il diritto naturale viene a porsi come la risposta che la ragione umana fornisce al problema posto all’uomo dall’amor proprio e dall’indigenza. Il principio fondamentale della legge di natura può essere formulato in questi termini: “ciascuno, per quanto dipende da lui, deve promuovere e mantenere coi suoi simili uno stato di socievolezza pacifico, conforme in generale all’indole e alla finalità del genere umano” (II, 3, 10). Dopo che fu stipulata la pace di Westfalia, si cercò di rimuovere dalla sfera pubblica ogni controversia religiosa: dal canto suo, Pufendorf andò un po’ modificando la sua teoria e si sforzò di desacralizzare la politica privatizzando la religione, aprendo di fatto la via alla filosofia del deismo che tanto successo avrebbe avuto nell’Età dell’Illuminismo.
RALPH CUDWORTH
A cura di Gigliana Maestri
CUDWORTHRalph Cudworth nasce nel 1617 ad Aller, nel Somersetshire. Studia teologia e filosofia a Cambridge, e, successivamente, insegna teologia al Christ’s College. Esponente della scuola platonica di Cambridge, la sua opera più nota e più importante è Il vero sistema intellettuale dell’universo (1678); si può poi ricordare il Trattato sulla morale eterna e immutabile, pubblicato postumo, in cui il filosofo affronta il problema della libertà razionale del volere in opposizione alla tesi calvinista della predestinazione. Cudworth muore nel 1688.
Il fine principale della sua riflessione consiste nella volontà di giustificare lo “spiritualismo”, ossia l’idea della derivazione di tutte le cose da un ente immateriale, per mezzo di un’analisi gnoseologica. A suo parere, chi rifiuta lo spiritualismo ritiene che ogni nostra conoscenza sia posteriore agli oggetti cui si riferisce; in realtà, la conoscenza non è fondata su un insieme di rappresentazioni sensibili ricavate dagli oggetti esterni, ma è basata sull’attività dello spirito. Esso è costituito da “essenze intelligibili”, ossia da pensieri universalmente validi, che si configurano come il presupposto della conoscenza umana. Questa viene poi definita come libera attività formatrice ed unificatrice, dalla quale deriviamo sia i concetti logici fondamentali, come quelli di essere e non-essere, di necessità e contingenza, sia quelli etici, come le idee della giustizia, del dovere e della libertà.
Ne Il vero sistema intellettuale dell’universo, Cudworth espone una numerosa serie di argomenti a sostegno dell’esistenza divina, in aperta polemica con gli atei. Per quanto riguarda gli argomenti che saranno successivamente detti “a posteriori”, egli cerca di opporsi all’accusa che più frequentemente viene loro mossa, ossia quella di essere ragionamenti privi di validità dimostrativa, perché fondati su “materie di fatto”, cioè sull’esperienza. Proprio questa loro caratteristica li confinerebbe, a parere di molti, nella regione degli argomenti “probabili”, destituendoli di validità scientifica.
Cudworth intende invece provare che anche gli argomenti a posteriori hanno una valenza dimostrativa, perché, pur partendo dall’esperienza, ad essa aggiungono qualche “principio di ragione”, come quello, importantissimo, di “causa”. Il filosofo inglese propone quindi un argomento a posteriori, basandosi sull’assunto per cui ogni cosa o evento ha una causa alla sua origine: dal fatto che qualcosa esiste, dice Cudworth, deduciamo che qualcosa deve essere esistito dall’eternità (“from eternity or without beginning”); possiamo sostenere che questo essere eterno sia Dio e non la materia in considerazione della nostra esistenza e della natura della nostra mente. Infatti, le perfezioni della mente umana non possono essere state prodotte da un ente che non abbia nulla in comune con esse, o che non abbia altrettanta realtà; perciò, l’ente eterno non può essere la materia, ma un ente spirituale dotato d’intelligenza.
Nella sua opera, Cudworth prende in esame anche l’argomento in favore dell’esistenza di Dio che sarà detto a priori, recentemente riproposto da Cartesio, e ne mostra svantaggi e vantaggi. In primo luogo, il filosofo inglese mette in luce la cosiddetta “critica logica” che viene mossa a tale argomento, ossia l’inammissibilità del passaggio da un’esistenza soltanto pensata ad un’esistenza reale. Fatto ciò, egli ripresenta la formulazione cartesiana come confutazione della “critica logica”, affermando che un ente necessariamente esistente che non esiste è una contraddizione in termini. A questo punto, Cudworth rielabora questa prova sulla base delle nozioni di “possibilità” e di “esistenza necessaria”: se un ente necessariamente esistente è possibile, allora esso esiste, perché, se non esistesse, non sarebbe neppure possibile, in evidente contraddizione con la premessa.
Cudworth non si ferma a queste considerazioni, ma compie un ulteriore tentativo, cercando di elaborare una dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio che sia però decisamente inattaccabile dalla “critica logica”. A tale proposito, egli “costruisce” un argomento a metà fra prova a posteriori e prova a priori: partendo dall’esistenza di qualcosa, esattamente come nella prova a posteriori, inferisce l’esistenza di un ente eterno; poi, sostiene che soltanto un ente necessariamente esistente può essere eterno, e, in tal modo, la prova a posteriori trasforma la causa prima in un ente necessariamente esistente. A questo punto, Cudworth rileva che solo un ente perfettissimo può includere nel suo concetto l’idea di un’esistenza necessaria, e quindi l’ente necessario, del quale si è dimostrata a posteriori l’esistenza, è Dio. La caratteristica di questa prova,a differenza di quella anselmiana o cartesiana,consiste nel rifiutare l’inferenza dell’esistenza dalla definizione di Dio, qualsiasi essa sia, e di dimostrare perciò “a posteriori” l’esistenza di un ente necessario, il quale si scopre essere Dio in base alla reversibilità tra somma perfezione e necessità di esistenza.
Cudworth spiega anche perché un ente eterno, cioè completamente indipendente da altro, debba essere un ente la cui essenza implichi l’esistenza. In effetti, se così non fosse, ossia se l’ente eterno non fosse necessariamente esistente, esso dovrebbe essere causa di se stesso, cosa inammissibile, oppure dovrebbe essere incausato, ma così si violerebbe il principio di causalità, dal momento che l’esistenza di quell’ente deriverebbe dal nulla.
In ultima analisi, per Cudworth prova a priori e prova a posteriori sono diventate strettamente dipendenti: in base all’argomento a posteriori, si sa che esiste un ente necessario, ma non si sa che esso è Dio; in base all’argomento a priori, si sa che l’esistenza necessaria è propria soltanto dell’Essere perfettissimo, ma non si sa se tale ente esista realmente, ossia di fatto.
JACOB BÖHME
A cura di Lorenzo Sieve
Vita ed Opere
JACOB BÖHMEJacob Böhme nacque nel 1575 ad Alt Seidenberg, presso Görlitz nell’Ober-Lausitz (Lusazia), regione della Sassonia orientale al confine con la Slesia. Abraham von Franckenberg nella sua biografia agiografica del poeta (1651) scrive che Böhme apparteneva ad una famiglia di contadini che, se non propriamente agiata, era capace di mantenersi adeguatamente, anche grazie al redditizio possesso di circa trentacinque ettari di terreno. Di tale famiglia Böhme era il quarto figlio, oltretutto dalla salute abbastanza cagionevole. Ricevette una rigida educazione protestante, che completò poi da autodidatta, leggendo in modo particolare i testi della tradizione mistica tedesca, sia dei mistici speculativi del XIV secolo (Eckhart, Taulero e Susone), sia quelli della filosofia naturale del XVI secolo (Franck e Van Helmont). Non seguì il mestiere del padre e quattordicenne fu avviato al mestiere di calzolaio che esercitò a Görlitz; mestiere che esercitò fino a quando glielo permisero le persecuzioni nei suoi confronti. Nel 1594 sposò Catharina Kunschmanns, figlia di un macellaio, con la quale visse in serena e costante unione fino alla morte; da lei ebbe alcuni figli che avviò a professioni umili come la sua. Il quadro di umiltà e serena accettazione delle umane sventure da cui la sua vita è contraddistinta va tenuto sempre presente, al fine di meglio comprendere la sua figura, tra le più importanti della mistica tedesca, seconda forse solo a Meister Eckhart. Nel considerare la vita di Böhme, forte è la tentazione di scorgervi aspetti provvidenziali, poiché – se da un lato egli fu in qualche modo “costretto” dalle sue stesse illuminazioni a manifestarle – ciò d’altro canto avveniva in un luogo e in un momento di luteranesimo trionfante, con la conseguente condanna di ogni possibilità di trascendenza diretta, e quindi di ogni atteggiamento mistico-ascetico. Böhme ebbe la prima esperienza di questo genere ancor fanciullo. Fu poi rapito nella luce divina nel 1600: questa illuminazione intellettiva si sarebbe prodotta a causa di un riflesso solare di un semplice piatto di peltro. Un’altra volta, nel 1610, ed un’ultima sette anni più tardi. Queste esperienze illuminative (che coinvolgevano tutto il suo essere anche per diversi giorni) non erano da lui vissute come un’unione al Divino pura e semplice, quanto piuttosto come una rivelazione della Sua intima essenza. Da qui lo stimolo costante allo studio delle Sacre Scritture e all’approfondimento con la lettura delle proprie conoscenze in campi che gli permettessero di esprimere in termini terreni le proprie illuminazioni. Procedette in tal senso con una cautela che sempre lo contraddistinse: la sua prima e importante opera, Morgenröte im Aufgang (nota anche come Aurora consurgens, l’Aurora nascente) è del 1612 e sarebbe probabilmente rimasta per sempre in un cassetto se l’autore non fosse stato con insistenza sollecitato da un gentiluomo suo estimatore. Il lavoro si muoveva lungo la linea tracciata da quei pensatori non conformisti che si segnalarono per la lotta in favore di una maggiore libertà di pensiero all’interno della chiesa luterana, allorquando il protestantesimo da movimento di ribellione si trovò a dover passare alla fase istituzionale di elaborazione successiva. L’opera cominciò ben presto a circolare in copie manoscritte, suscitando le ire di Gregorius Richter, pastore protestante di Görlitz, che avendovi riscontrato pericolose deviazioni rispetto alla tradizione teologica ufficiale, accusò Böhme di eresia, causandone in tal modo l’arresto. Dopo essere stato subito rilasciato, Böhme si trovò costretto a giurare di non scrivere più nulla in materia di religione, giuramento che sarebbe stato da lui rispettato per soli quattro anni (ma altre fonti dicono sette). Nel periodo successivo intraprese in contemporanea attività di predicazione e iniziative di carattere commerciale. Solamente nel 1620 abbandonò una volta per sempre quest’ultima al fine di dedicarsi alla ricerca mistico-religiosa, ormai appoggiato economicamente dai soli adepti influenti. Nei restanti anni, la vita di Böhme fu travolta dalle lotte tra i suoi oppositori (che per due volte lo costrinsero ad abbandonare Görlitz e la sua casa, obbligandolo anche per diverso tempo al silenzio) e i suoi sostenitori, che lo spingevano a continuare a scrivere; solo negli ultimi anni, però, egli riprese la penna in mano e produsse una rilevante quantità di opere, quasi come se avvertisse la necessità di sfruttare il poco tempo restante della sua vita terrena per consegnarci i frutti della sua illuminazione. Spirò il 17 novembre del 1624. La sua tomba divenne di volta in volta meta di pellegrinaggio, oppure oggetto di intolleranza e profanazione; i suoi manoscritti e le relative copie a stampa vennero acquistate a caro prezzo dai discepoli, soprattutto olandesi e inglesi, ed esse sono — proprio in ragione della loro costitutiva rarità — maggiormente oggetti di culto che non di autentica ricerca bibliografica.
Opere
Oltre alla ricordata ed imprescindibile Morgenröte im Aufgang, Boehme aveva composto una ventina di altri trattati, tra i quali: una Beschreibung der drei Prinzipien goettlichen Wesens (Descrizione dei tre principi dell’essere divino, 1619), una trattazione Von dreifachen Leben des Menschen (Della triplice vita dell’uomo, 1620), una Von der Menschenwerdung Jesu Christi (Dell’incarnazione di Gesù Cristo, 1620), una Physiologia vera (1620), una Von sechs theosophischen Punkten (Dei sei punti teosofici, 1620), i Sex puncta mystica (1620), l’importantissimo De signatura rerum, Von der Geburt und Bezeichnung aller Wesen (Dell’impronta delle cose, della nascita e definizione di ogni essere naturale, 1621). Forse il suo vero capolavoro e testamento spirituale insieme all’Aurora, il Mysterium Magnum, Erklrung uber das erste Buch Mosis (Sommo Mistero, Commento al primo libro della Genesi mosaica, 1623), il trattato teologico Von der Gnadenwahl (Della predestinazione o dell’elezione della grazia, 1623), la Schutzrede gegen Gregorius Richter (Apologia contro Gregorius Richter, 1624), la Clavis (1624) e la Betrachtung göttlicher Offenbarung (Contemplazione della rivelazione divina, 1624).
Il pensiero
Le tesi più caratteristiche riguardano le concezioni della vita divina, al cui interno Böhme postula un processo di automanifestazione: la volontà originale (Dio Padre) intuisce se stessa e dà luogo al sentimento di piacere che prova nel contemplarsi (il Figlio); da questa intuizione deriva un potere nuovo, il movimento vitale (lo Spirito Santo). L’idea originaria della ricerca teosofico-pansofica di Böhme è la ferma convinzione secondo cui l’uomo è in grado di penetrare e descrivere il mistero dell’oscurità di Dio, l’atto della creazione divina coincidente con la genesi dell’universo. Dio è ritenuto da Böhme il momento centrale della creazione, assurgendo in tal modo ad un livello di autonomia ed indipendenza gnoseologica la quale, non riconoscendo intermediazioni di natura ecclesiale nel suo intimo rapporto con Dio, giunge di fatto a profilarsi come il centro emanatore della massima libertà possibile. Nasce qui la polemica aspra e inesorabile che contrappose il Philosophus Teutonicus con la Parola divina alterata e trasmutata dall’attività dei commentatori. Queste concezioni gli procurarono inimicizie, già ricordate, con l’ortodossia e con i rappresentanti della istituzione ecclesiastica luterana, che Böhme medesimo trovò modo di definire un “ammasso di pietre”, con il quale nessun vero cristiano dovrebbe mai venire in contatto se realmente motivato a salvaguardare il suo spirito. Solamente la figura e la realtà divina di Cristo, nella sua duplice natura di reincarnazione e rivelazione di Dio nell’essere umano, deve configurarsi come il punto di riferimento costante del fedele cristiano.
Da Dio deriva anche l’ intera natura, intesa come mysterium magnum, in quanto è lo stesso essere divino che si manifesta in modo visibile. Nel suo dispiegarsi, la natura si esprime in qualità contrarie: il bene e il male, l’amore e l’odio, la luce e le tenebre; solo alla fine del mondo questa contrapposizione sarà superata, con la vittoria del bene-Cristo sul male-Satana. Böhme si adopera quindi nel tentativo di cogliere il mistero autentico e profondo inerente alla nascita della natura a partire dall’azione della volontà divina. Böhme si sforza di comprendere perché Dio, in quanto voluntas creatrice, abbia voluto esprimersi nell’unità, a sua volta triadica di spirito, anima e corpo. La riflessione verte in altre parole sul perché Egli abbia scelto proprio la realtà terrestre del corpo, che è diversamente muto e morto, quale strumento concreto di automanifestazione, per incarnarsi nelle trame delle medusee e contingenti forme del divenire.
Alla domanda circa il perché Dio tolleri la presenza del male nel mondo microcosmico, Böhme risponde che l’esistenza di esso è momento necessario dal momento che nulla può esistere allo stato impuro della volontà già divenuta creazione, senza il suo contraddittorio che lo nega. Alla inesausta ricerca della conoscenza della volontà originaria e primigenia, ossia di quella che ha ammesso Bene e Male come elementi opposti nella fase di creazione (nella vita naturale come nell’uomo), il vero cristiano può arrivare pertanto ad indagare l’oscurità stessa di Dio, il quale non risiede fra le stelle, e nemmeno in nessun altro luogo fisso, bensì in ogni momento e in ogni aspetto della creazione.
Dio è Ur-Grund, il Non-Fondamento Originario, la Non-Natura, l’eterno Nulla, è divino deserto dell’anima (e solo perciò è anche l’Infinito) che non può dipendere da altro. Come tale, Egli non conosce il tormento e l’inquietudine della creazione, questo essendo tipico del creato, per esempio dell’uomo in quanto costituito di anima e corpo. Dio-Urgrund è invece Volontà eterna che anela di completarsi facendosi creazione (Wille des Ungrundes zum Grunde), Egli è il Nulla che brama di divenire Qualcosa (das Nichts hungert nacht dem Etwas). Nel mondo Dio stesso si è “voluto”, nella creazione ha segnato la Sua volontà. Il Dio-Urgrund, il Dio che è triadicamente Volontà-Non-Fondamento si dimostra nella Creazione fondamento (Grund quale opposto alla profondità insondabile dell’Ur-Grund) origine del mondo nell’atto di creazione pura, prima fase del processo creativo stesso. Dio concede all’amore di manifestarsi in forma edenica, pura. É solo nel momento in cui Lucifero, il Male, cercò di approfittare della libertà riconosciuta da Dio alle sue creature che si scatenarono l’ira e la punizione divina; ira e punizione trattenute da Dio nell’amore ed indirizzate nella creazione della materia caduca e dissociata, impura e disponibile al peccato quale è quella che governa e presiede il mondo terrestre. Dal principio univoco del Bene e del Male si generò pertanto il principio materialistico, il cosmo, la natura, l’uomo. Nello spirito di quest’ultimo si è tuttavia conservato l’innato anelito verso la celata eternità della forma superiore esistente nella condizione di creazione pura, la cui stessa conoscenza passa attraverso fasi di ansia e tormento, nei quali è però scritta la promessa salvifica di Cristo, unica fonte e sicura premessa della finale vittoria della gioia operata da Cristo su Satana.
L’uomo stesso è costituito ad immagine della divinità suprema ed è microcosmo. La sua anima si rivela composta da tre principi, il fuoco, la luce e la bestia. Allo stesso modo, nel corpo si incontrano tre elementi, quello celeste, quello siderale e quello elementare. Böhme ha una concezione luterana della fede come giustificazione totale; egli esclude tuttavia la predestinazione, non perché confidi nel valore dei meriti dell’uomo, ma perché tutto, caduta e salvezza, rientra nell’ordine provvidenziale divino, che ha lasciato all’ uomo la libertà di scelta fra il bene e il male.
Interpretazioni e lasciti del pensiero Böhmiano
Diversamente valutato a seconda degli aspetti del suo pensiero di volta in volta presi in considerazione, Böhme sfugge ad una rigida classificazione. È parso ora un cattolico, per il rispetto che nutre verso la Vergine, ora un luterano, per l’esaltazione del primato della fede, ora un panteista, per l’affermata onnicomprensività dell’essere divino, ora un manicheo per il suo continuo confrontarsi con il male. La sua influenza è rilevante in seno al pietismo, ma si estende anche al romanticismo e all’idealismo tedesco, in particolare a Schelling e a Hegel.
GIULIO CESARE VANINI
Vita e opere
Lucilio Vanini, che firmò i suoi lavori sempre come Giulio Cesare, nacque a Taurisano nei pressi di Lecce nel 1585 figlio illegittimo dell’anziano funzionario di origine ligure Giovanni Battista e della nobildonna spagnola Beatrice Lopez de Noguera. Erano gli anni dell’imperatore Carlo V, dominatore anche nell’Italia meridionale spagnola e Taurisano era una città molto povera come tutto il meridione schiacciato dai tributi.
Nel 1599 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Napoli; tuttavia, dopo la morte del padre (1603) è costretto ad abbandonare gli studi per la mancanza di mezzi di sostentamento ed entra nell’ordine carmelitano con il nome di Fra Gabriele. Nel 1606 si laurea in diritto civile e canonico conseguendo a Napoli il titolo di dottore in utroque iure; egli ora ha già assimilato una grande cultura e parla benissimo il latino.
Nei due anni successivi vive nell’area di Napoli e sistema la sua condizione economica vendendo alcune case di sua proprietà. Nel 1608 viene trasferito in un monastero di Padova ed egli ne approfitta per iscriversi alla facoltà di teologia della località veneta.
L’esperienza padovana fu importantissima per la sua formazione di filosofo ed eretico. Si dedica molto allo studio di Averroè (1126-1189) e di Girolamo Cardano (1501-1576); considera suo maestro il filosofo aristotelico mantovano Pietro Pomponazzi che nel suo famoso “Trattato” negò l’immortalità dell’anima. Padova faceva parte allora della Serenissima Repubblica di Venezia ed in quegli anni infuriava un’aspra polemica tra lo stato veneziano e papa Paolo V, interessato ad assoggettare la repubblica alla propria autorità. Vanini si schiera a favore di Venezia e contro il papa. Inoltre entrò a far parte del gruppo del celebre frate Paolo Sarpi che scatenò il conflitto antipapale, appoggiato dall’ambasciata inglese nella città, e che meditava di far passare Padova alla Riforma.
Nel gennaio 1612, a causa della sua attività antipapale è costretto ad allontanarsi da Padova e rinviato a Napoli nell’attesa di misure disciplinari da parte del generale dell’Ordine carmelitano Enrico Silvio. Vanini invece va a Bologna e trama relazioni segrete con gli ambasciatori inglesi a Venezia per passare in Gran Bretagna. Poco tempo dopo assieme ad un confratello riesce a fuggire in Inghilterra passando attraverso Svizzera, Germania, Olanda e Francia. Giunse infine a Londra e a Lambeth, in cui rimase per due anni nascondendo la propria identità anche all’arcivescovo di Canterbury. Nella chiesa londinese “dei Merciai” o “degli Italiani” alla presenza di Francesco Bacone, Vanini ed il compagno d’ordine e fuga Genocchi ripudiano pubblicamente la fede cattolica per abbracciare quella anglicana.
Ciò non passa inosservato a Roma e alle autorità cattoliche, già messe in guardia dalla possibile fuga di Paolo Sarpi, ormai privo della protezione del Doge, nel Palatinato. La Chiesa era intimorita da una possibile ricostruzione in terra protestante del fronte antipapale veneziano e sollecita il nunzio apostolico di Parigi per sapere qualcosa di più sui due frati rinnegati e fuggiti in Inghilterra.
Tuttavia, mentre l’Inquisizione già prepara un processo contro di loro, i due frati si pentono ed inviano lettere a Roma per ottenere la riammissione nel cattolicesimo, non più come frati ma come sacerdoti. Tra il 1613 e 1614 diventa nota alle autorità inglesi la loro revisione e il loro progetto di fuggire dall’Inghilterra; molte ambasciate straniere si attivano nel favorire la loro fuga suscitando scandalo nel re e nell’arcivescovo. Così Vanini e Genocchi furono arrestati.
In seguito alla fuga dell’amico si acuisce la misura persecutoria contro il filosofo, rinchiuso nella Torre di Londra in cui rimase per 49 giorni mentre gli inglesi preparano il processo contro di lui.
Rientrato in Italia, vive a Genova ed insegna filosofia ai figli di Giacomo Doria. Tuttavia, riprende presto la via dell’esilio quando l’inquisitore genovese fa arrestare l’amico Genocchi e per paura che gli accada la stessa sorte, fugge in Francia.
Nel 1615 è a Lione e in giugno pubblica l’opera “Amphitheatrum aeternae Providentiae Divino-Magicum” (L’anfiteatro divino magico dell’eterna Provvidenza). Scrive quest’opera per difendersi dalle accuse di ateismo ma è ulteriormente accusato, stavolta di panteismo.
L’anno successivo pubblica “De Admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis” (I meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali), edita a Parigi con l’appoggio di due teologi della Sorbona che ne autorizzano la pubblicazione.
Questa opera viene bene accolta dalla nobiltà francese perché è il manifesto degli “esprits forts” che guardano con ammirazione alle innovazioni culturali e scientifiche che vengono dall’Italia.
Le autorità cattoliche, avverse alle innovazioni, attaccano nuovamente Vanini e la sua opera viene revisionata e stavolta condannata al rogo dalla Sorbona come eretica. Inoltre, la Congregazione dell’Indice lo pone nella prima classe degli autori proibiti.
Senza ufficiali misure contro la sua persona, Vanini viene comunque escluso da molti ambienti della società francese a causa della condanna della sua opera. Così vaga per varie località della Francia meridionale, protetto da molti aristocratici amanti degli spiriti forti in cambio dell’insegnamento per i propri figli.
Vaga fino all’arrivo nella fatale Tolosa, in cui viene arrestato il 2 agosto 1618 per sapere quali siano le sue idee in materia di religione e morale. Si tenta di condannarlo a tutti i costi convocando anche molti testimoni senza accertare nulla. Il 9 febbraio 1619 il parlamento di Tolosa condanna Vanini per ateismo e bestemmie contro Dio. Abbandonato da tutti gli amici fedeli ed impossibilitato a difendere il suo passato travagliato affronta con dignità la sua pena, rifiutando l’assistenza di un prete e gli fu attribuita la frase “Morirò come un filosofo”. Gli fu tagliata la lingua poi venne strangolato ed infine il suo corpo fu arso al rogo. Aveva solo 34 anni.
Pensiero
Vanini è considerato come uno dei padri del libertinismo ed il principe dei libertini italiani. Influenzato dall’aristotelismo eterodosso si connette all’idea di naturalità; per questo il filosofo di Taurisano può essere associato ai grandi naturalisti panteisti italiani: Bruno, Telesio, Campanella.
Il movimento libertino nasce dalla pesante situazione creatasi dalla Controriforma e tutti i libertini partono dal considerare le religioni come puri e semplici fatti naturali, da spiegare senza appellarsi ad alcunché di estraneo alla natura.
Partendo da qui i libertini giungono ad una strenua difesa dell’ateismo e a farsi beffa del dogma e della morale cristiana. In questo senso si inserisce l’opera “Amphitheatrum” che solo apparentemente mira a difendere il dogma cattolico; però, a leggerla bene sembra evidente la canzonatura di questo. Vanini espone le sue teorie presentandole non come proprie, ma apprese da un immaginario miscredente; addirittura giunge anche a fingersi scandalizzato nonostante sia ben chiaro che concordi con queste idee.
La sua opera più importante è il “De Admirandis” diviso in quattro libri e costituito da 60 dialoghi (oggi sono 59, in quanto il XXXV è andato perduto). In tutta l’opera si sviluppano le discussioni riguardo alla natura tra lui stesso, nella veste di divulgatore del sapere ed un immaginario Alessandro che si mostra stupito di fronte al grande sapere dell’amico e lo sollecita a spiegare i misteri della natura che insistono sull’uomo.
L’opera costituisce una critica al pensiero degli antichi ed una divulgazione delle nuove teorie scientifiche e religiose. Si ispira all’amato Pomponazzi rifiutando l’immortalità dell’anima e a Machiavelli, da lui chiamato definito “principe degli atei” per cui «tutte le cose religiose sono false e sono finte dai principi per istruire l’ingenua plebe affinché, dove non può giungere la ragione, almeno conduca la religione», tesi che Vanini sposa in pieno.
Accetta l’idea di Dio come Essere Supremo ma identifica la divinità con la natura e per questo la legge naturale era quella divina. Non crede nella creazione poiché il mondo è eterno e governato da leggi immutabili. Il rifiuto dell’immortalità dell’anima lo porta all’attacco dei dogmi; della religione (mezzo degli ecclesiastici o dei potenti per criticare la plebe); dei miracoli, che devono essere interpretati razionalmente e sono spesso frutto della fantasia umana.
Cerca di confutare il dogma della volontà di Dio: infatti, se Dio vuole salvare gli uomini, allora il Diavolo vuole che questi si perdano. Dunque, per tutti i peccatori mortali, gli eretici e i miscredenti, essendo persi, si è compiuta la volontà del Diavolo e non quella di Dio.
Criticando il dogma della creazione, giunge ad ipotizzare addirittura una discendenza tra uomini e scimmie.
Le interpretazioni su Vanini.
L’ambiguità del personaggio ha dato vita a molteplici interpretazioni. Per Ludovico Geymonat, ad esempio, gli scritti di Vanini hanno ben scarso valore filosofico e mancano di validità ed efficacia.
Anche altri hanno tentato di sminuire il filosofo cercando di confutare il suo ateismo riportando alla luce un suo scritto in favore del Concilio di Trento, oggi andato perduto.
Gli apologeti invece lo identificano come un precursore dell’Illuminismo, uno strenuo difensore dell’ateismo ed avversario delle superstizioni. Al filosofo pugliese va sicuramente riconosciuto il merito di aver aperto la strada, in Francia, alle teorie critiche della religione che sicuramente furono ritenute preziose dai libertini d’oltralpe come Gassendi e Bayle e contribuirono alla nascita dei Lumi. Il suo pensiero è in ogni caso sintomo di una crisi epocale, quella del Seicento, ancorata tra le teorie dogmatiche imposte dall’Inquisizione e di cui sarà vittima Bruno proprio all’inizio del secolo e di cui dovrà fare le spese anche Galileo ma anche tra oasi di libero pensiero che mise i germi dell’Illuminismo.
Le interpretazioni su Vanini sono comunque ancora aperte, nonostante il personaggio sia purtroppo dimenticato ai più sebbene abbia pagato con la vita, proprio come Bruno, le sue idee.
PIERRE CHARRON
Pierre Charron (Parigi, 1541 – Parigi, 16 novembre 1603) è stato un filosofo e teologo francese. Il cui pensiero si ricollega notevolmente a quello di Montaigne, di cui fu amico. Lo scetticismo è, per Charron come per Montaigne, la via privilegiata per addivenire a un mondo pacificato e senza quei conflitti che scaturiscono principalmente dal dogmatismo, non solo religioso. Charron viene appunto ricordato principalmente per la sua controversa forma di scetticismo e per la sua separazione dell’etica dalla religione come disciplina filosofica indipendente. L’etica deve essere studiata e praticata indipendentemente dalla religione, e in ciò v’è il principio di immanenza della modernità. Charron studiò diritto a La Sorbona, successivamente si trasferì a Bordeaux e qui abitò per vent’anni. Oltre a opere minori, scrisse due testi che ebbero grande importanza nella cultura del tempo: Tre verità contro tutti gli atei, idolatri, giudei, maomettani (1593) e Della saggezza (1601). Figlio di un libraio, Charron seguì i corsi di diritto a La Sorbona e successivamente esercitò per breve tempo l’avvocatura, che abbandonò per essere ordinato sacerdote. In quella fase, Charron avviò lo studio della teologia, facendosi conoscere e apprezzare per la profondità del pensiero e la solida preparazione dottrinaria. Nella prima metà degli anni settanta del Cinquecento, Charron insegnò teologia prima a ad Agen e poi a Condom, dove acquistò una casa. Trasferitosi a Bordeaux, città nella quale visse per quasi vent’anni, conobbe Montaigne, legandosi a lui da profonda amicizia: l’amicizia tra Montaigne e Charron è uno dei più celebri esempi di sodalizio filosofico. Dopo un breve soggiorno a Cahors, chiamatovi dal vescovo per riorganizzare l’insegnamento della teologia nella propria diocesi, Charron tornò a Parigi nel 1595, in qualità di rappresentante, presso il Parlamento, del clero d’Aquitania. Otto anni più tardi si spense nella capitale francese, lasciando ogni suo avere in eredità al cognato del defunto Montaigne. Il testo Tre verità contro tutti gli atei, idolatri, giudei, maomettani, (nel francese del tempo, Trois veritez, e, in quello contemporaneo, Trois vérités), che vide la luce nel 1593 ha toni marcatamente apologetici: si difende il cristianesimo contro le altre dottrine evocate nel titolo. L’opera Della saggezza (in francese, De la sagesse) risale al 1601 e ha un carattere quasi profano. Appare decisiva l’incidenza del pensiero di Montaigne. L’opera è un’accorata esaltazione del cattolicesimo illuminato e della tolleranza religiosa, con un chiaro invito, rivolto soprattutto ai propri compagni di fede, ad abbandonare credenze e atteggiamenti dogmatici. Il dogmatismo è il nemico principale, dacché è foriero di intolleranza e di conflitti. Solo con un moderato e sobrio scetticismo ci si può aprire agli altri uomini, che seppur non cristiani obbediscono anch’essi alle leggi di natura, le quali hanno un respiro universale e affratellano tutti gli esseri umani fra di loro. Chi, indipendentemente dalla propria confessione religiosa, agisce secondo le leggi naturali e secondo i principi razionali e universali che da esse scaturiscono, agisce infatti in accordo con Dio e con la propria chiesa. Questa e non altra è la vera saggezza, evocata dal titolo. Come si vede, con Charron l’etica tende a separarsi dalla religione, giacché si può essere uomini probi a prescindere dalla religione a cui si afferisce. In Charron la saggezza, che trova le proprie basi nelle leggi della natura e in una ragione universale, non è vincolata ad alcun tipo di religione ma preesiste ad essa. Si potrebbe dire che, per Charron, le religioni sono determinate dall’etica, e non viceversa. Le credenze religiose, in particolare quelle cattoliche, si limiterebbero pertanto a confermare la validità delle fonti naturali dell’etica, non a generarle. Tali postulati furono aspramente combattuti dai gesuiti, che accusarono Charron di eresia e sollecitarono ripetutamente, contro di lui, l’intervento delle autorità ecclesiastiche del tempo. La protezione di cui godette Charron da parte di alcuni alti prelati, fra cui il vescovo di Cahors, gli permise tuttavia di passare indenne attraverso tali critiche e di morire serenamente a due anni di distanza dalla pubblicazione delle sue Trois vérités. Cartesio, in una lettera del 23 novembre del 1646, cita Charron, criticandolo – insieme con Montaigne – per aver attribuito alle bestie l’intelletto: “quando gioco con la mia gatta, chissà se essa non si diverte più ancora di quanto non mi diverta io?”, aveva detto Montaigne nei suoi Saggi. In maniera analoga, anche Charron valorizza gli animali, ritenendo che essi abbiano l’intelletto e, in ciò, distinguendosi appunto da Cartesio, che sarà convinto che le bestie siano semplici “macchine”. Proprio Cartesio critica Charron per aver sostenuto che “che c’è più differenza tra uomo e uomo che tra uomo e bestia”. Del resto, l’antitesi tra Charron e Cartesio appare lampante anche nel modo in cui essi intendono il sapere. Cartesio muove da quel dubbio radicale che, per Montaigne e per Charron, è l’approdo ultimo: se Charron e Montaigne, con il loro pirronismo temperato (nous n’avons aucune communication à l’être, scrive Montaigne), si arrestano alla scepsi, Cartesio la mette in campo solo per superarla e per disabilitarne la funzione (il dubbio come base per approdare alla certezza). Sicché, oltre al Socrate del “non sapere”, l’altro eroe filosofico di Montaigne e di Charron è l’Eraclito del “tutto scorre” (πάντα ῥεῖ), al quale si richiamano per evidenziare come ogni cosa sia destinata a passare e a consumarsi: il pensiero di Montaigne e di Charron è in continuo movimento eracliteo, dacché la realtà stessa è incessantemente in fieri, priva di punti saldi e inamovibili, sia per quel che riguarda le cose del mondo, sia per quel che concerne la vita del soggetto. Lo scetticismo è, così, fondato su basi ontologiche, nella convinzione che la realtà stessa muti incessantemente, alla maniera eraclitea.
FRANÇOIS DE LA MOTHE LE VAYER
François de La Mothe Le Vayer (Parigi 1588 – ivi 1672) è stato un filosofo, un erudito e un profondo conoscitore dei classici. Il suo nome è legato precipuamente alla “filosofia del dubbio” e, dunque, a uno scetticismo temperato, peraltro decisamente diffuso nella Francia del XVII secolo. Uno dei tratti salienti – anche se non esclusivi – dello scetticismo francese (di Montaigne e di Charron, oltre che del nostro autore) è l’adesione al cristianesimo, a tal punto che si è, più volte, parlato di un apparentemente paradossale “scetticismo cristiano”. Tra gli scritti più importanti di La Mothe Le Vayer meritano di essere richiamati i Dialogues faits à l’imitation des anciens par Orasius Tubero (pubblicati con falsa data e falso luogo di stampa tra il 1630 e il 1633) e De la vertu des païnes (La virtù dei pagani, 1642). Quest’ultima opera è significativa soprattutto in ragione del fatto che l’autore vi sostiene, entro certa misura, la preferibilità dei pagani rispetto ai cristiani: i pagani, infatti, erano intrinsecamente tolleranti e mai si macchiarono di guerre civili condotte a causa della religione; ciò che invece avviene coi cristiani, il cui monoteismo li conduce all’integralismo, al dogmatismo e, in ultimo, alla guerra. Le guerre di religione scuotono profondamente la coscienza di La Mothe Le Vayer non meno di quella di Montaigne e di Charron e lo inducono a elaborare un sobrio scetticismo come via aurea per aggirare il rischio del dogmatismo, del fanatismo e della guerra. Se la guerra è condotta da chi si ritiene detentore della verità, ne segue che lo scetticismo di chi proclama irraggiungibile la verità costituisce la forma filosofica ideale per neutralizzare la possibilità atroce della guerra. Il nostro autore si occupa anche, inter alia, della questione della lingua, con una serrata critica di Vaugelas e dei puristi: è il tema al centro delle Considérations sur l’éloquence françoise de ce temps (1637). Assai prossimo all’ambiente di corte, decisamente gradito a Richelieu, chiamato (1639) nell’Académie appena fondata, La Mothe Le Vayer fu nominato da Anna d’Austria precettore di Filippo d’Orléans e, in seguito, del delfino, il futuro Luigi XIV (1652-60). Negli anonimi Dialogues faits à l’imitation des anciens par Orasius Tubero, indubbiamente il suo testo più noto e – da subito – più controverso, ma poi anche nell’Hexaméron rustique (1671), il gusto spiccatamente erudito si compiace e si diletta: il saggio scettico è armato di una sana ironia, propria di chi, ben sapendo dell’inattingibilità del vero, sa vivere con leggerezza e con divertimento, godendo dell’effimero. La conoscenza non può essere certa perché – come già per il Montaigne dei Saggi e per il Charron di De la sagesse – la realtà stessa è fluttuante, proiettata nel flusso eracliteo del divenire. Sono recuperati temi di Montaigne e di Charron e, sulla loro scorta, si enfatizza la radicale debolezza della ragione umana al cospetto di una realtà sempre cangiante, di cui intrinsecamente non può esservi conoscenza certa. La Mothe Le Vayer contrappone tra loro gli usi, i costumi e le dottrine, mostrando come sia letteralmente impossibile selezionarle come “vere” e come canoni di giudizio. Lo scetticismo di La Mothe Le Vayer si evince dalla forma argomentativa, oltre che dal contenuto dubitativo: egli, infatti, rimette in lustro gli insegnamenti di Sesto Empirico e di Cicerone; argomenti a cui non riescono a sottrarsi nemmeno le prove dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima. Lo scetticismo di La Mothe Le Vayer affiora anche nella sfera etica, ove l’autore propone un modo di comportamento e un ideale di vita scetticheggiante: come in Charron, anche in La Mothe Le Vayer la morale viene disgiunta dalla religione, cosicché anche l’appartenente ad altre fedi può egualmente essere un uomo probo e integro. È, infatti, l’etica a fondare la religione, e non viceversa. Su queste basi, il saggio scettico di cui La Mothe Le Vayer tratteggia il profilo si presenta come colui il quale, affrancatosi dalle scorie del dogmatismo, vive sereno e in equilibrio col mondo e con la società tutta. Per questa via, La Mothe Le Vayer anticipa e rende possibili le successive riflessioni di Bayle e di de Fontenelle. Pur facendo professione di fede cristiana, La Mothe Le Vayer propone una prospettiva laica e secolarizzata, in cui lo scetticismo come impossibilità di attingere il vero si pone come base ineludibile per la convivenza pacifica tra gli esseri umani a prescindere dalla loro diversa fede religiosa. La Mothe Le Vayer rigetta la possibilità di una ragione naturale e di un criterio di verità che poggi su di essa. Respinge altresì il senso comune: nel suo Opuscule ou petit traité sceptique (1646) lo liquida come la sentina di tutti i pregiudizi. Il mondo nuovo che le scoperte geografiche e scientifiche hanno portato alla conoscenza dei moderni rende assurdo ogni dogmatismo: la varietà prismatica delle culture e dei costumi porta alla sospensione del giudizio, all’epochè scettica (ἐποχή). Così si spiega anche l’inadeguatezza del consensus gentium a giudizio di La Mothe Le Vayer: data la varietà delle culture, non esiste nulla su cui si dia il consenso universale della razza umana. Così scrive il filosofo: “que si nos anciens ont estimé cela si ridicule veu la multitude de tant et si diverses nations, comment le nommerons nous aujourd’huy que pour la descouverte de nouveaux mondes, nous avons veu une si nouvelle face de la nature, et s’il faut ainsi dire, une humanité si differente de la nostre?”. Secondo quanto rilevato anche dai Pensieri di Pascal, basta attraversare il fiume per trovare un diverso ordine di valori e di verità. Come la pluralità delle culture e delle genti, così anche la molteplicità delle fedi diventa, come già ricordato, un argomento a favore dello scetticismo e del relativismo. Riti, credenze, leggi e tradizioni della religione cristiana, islamica, giudaica, pagana, delle culture orientali o africane, smarriscono ogni nesso gerarchico. Tutte le fedi risultano inficiate da una logica decisamente umana, troppo umana: nessuna può legittimamente dirsi più razionale rispetto alle altre. E lo scetticismo relativistico diventa così, una volta di più, lo stile filosofico ed esistenziale che è d’uopo seguire secondo La Mothe Le Vayer.