Nature

LIMITE

“Nulla di troppo”.
(Iscrizione sul tempio di Delfi)






A cura di Diego Fusaro

V’è un concetto tipico della Grecia classica che più di ogni altro mi ha sempre affascinato e che mi pare essere il più importante della mentalità dei greci. È il concetto di limite o, se si preferisce, di “giusta misura”. Quanto questo concetto fosse importante per i greci è provato, oltretutto, dal fatto che sull’antico tempio di Delfi era scritto, a caratteri cubitali, “nulla di troppo”. Era un invito, rivolto a ogni essere umano, a osservare la regola della giusta misura nella propria condotta di vita. Addirittura, i greci chiamavano gli uomini con l’espressione “i mortali”, a sottolinearne la finitudine e il carattere limitato nel tempo. Le stesse pene che, nell’immaginario greco, gli dèi infliggono ai mortali che si sono comportati in modo sconveniente sono sempre concepite come punizioni all’insegna dell’assenza del limite: penso a Sisifo, che illimitatamente deve ricondurre il suo macigno in cima alla montagna; penso, ancora, a Prometeo, che, per aver ingannato gli dèi, è condannato a vedersi divorare all’infinito il fegato dalle aquile. E, infine, la mia mente corre a Tantalo, il cui supplizio inflittogli dagli dèi consiste nel bere e nel mangiare senza poter mai estinguere la sede e placare la fame. Che cos’è il limite? In termini generali, esso coincide con ciò che è a distanza di sicurezza dall’eccesso e dal difetto e, dunque, con una giusta medietà. È, per così dire, la giusta proporzione che fa sì che le cose siano nella loro pienezza d’essere, nella loro perfezione. Così, ad esempio, il coraggio è ciò che si colloca nel giusto mezzo rispetto all’eccesso dell’ardimento e al difetto della viltà. E la generosità, similmente, è una medietà rispetto all’eccesso della dilapidazione dei propri beni e del difetto dell’avarizia. La giusta misura e il limite sono fondamentali non sono per l’etica, come ho appena mostrato, ma anche per l’estetica e per la politica. Non è forse vero che il bello è sempre legato a un’idea di proporzione, in forza della quale – supponiamo – una statua ci piace proprio perché le parti sono armoniche e con forme ben delimitate? E, ancora, non è forse inconfutabile che una città o uno Stato giusti sono quelli in cui non vi sono cittadini né troppo ricchi, né troppo poveri? Insomma, volendo riassumere quanto detto, potremmo sostenere che il bello, il buono e il giusto sono sempre connessi con l’idea del limite e della giusta misura, mentre, al contrario, il brutto, il cattivo e l’ingiusto sono sempre correlati con l’illimitatezza e con l’assenza di misura. Epicuro ci insegna che i veri piaceri sono quelli misurati, che non comportano l’eccesso. La nostra epoca, tuttavia, sembra aver voltato le spalle all’idea del limite, per aderire all’opposta dimensione dell’illimitatezza. “Tutto senza limiti”, promettono le suadenti retoriche della pubblicità. E, in effetti, l’uomo contemporaneo ha trasformato in stile di vita ordinario e massimamente degno di essere perseguito quello che, per voi greci, corrispondeva con il carattere tipico delle punizioni divine. Soprattutto, i contemporanei sono in balia della spasmodica ricerca illimitata del piacere e della ricchezza. Quest’ultima, soprattutto, non conosce limiti: per sua natura, tende all’infinito e attiva una funesta linearità, per cui ogni guadagno è inteso come una tappa provvisoria in vista di nuovi e maggiori guadagni. Se, invece, ci atteniamo all’immagine greca della giusta misura, la vera ricchezza consiste nel disporre di quanto non eccede il limite, e dunque di quanto basta a vivere dignitosamente: né troppo, né troppo poco. Epicuro spiega che il vero povero non è chi non ha tanto, ma chi vuole sempre di più.

Citazioni

"È necessario comparare la vita ad uno slancio, perché nessun'altra immagine, tratta dal mondo fisico, vale a esprimerne con altrettanta approssimazione l'essenza. Tale è la mia vita interiore e tale è pure la vita in generale. Se, nel suo contatto con la materia, la vita è paragonabile a un impulso o a uno slancio, considerata in se stessa, essa è un'immensità di virtualità, un compenetrarsi reciproco di migliaia di tendenze: le quali, tuttavia, saranno 'migliaia' solo quando verranno rese esteriori le une alle altre, ossia spazializzate. Allo stesso modo, di un sentimento poetico esprimentesi in strofe, in versi, in parole distinte, si può dire che esso conteneva in sé tale molteplicità di elementi particolari, e che tuttavia, chi l'ha prodotto è stata la materialità del linguaggio. Ma attraverso le parole, i versi, le strofe, circola l'ispirazione indivisibile che costituisce l'unità del poema". (H. Bergson, "L'evoluzione creatrice")
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