Nature

LINGUAGGIO

“L’essere che può essere compreso è linguaggio” (H.-G. Gadamer, Verità e metodo)






A cura di Diego Fusaro

Particolarmente difficile mi pare ogni tentativo di definizione del linguaggio e della sua essenza. Eppure noi umani possiamo con diritto definirci gli animali che parlano, ossia i soli a disporre, propriamente, di ciò che siamo soliti appellare linguaggio. Addirittura, i greci impiegavano la medesima parola – logos – per definire la “ragione” e il “linguaggio”. Ma che cos’è, dunque, il linguaggio? In una sua prima definizione, lo potremmo intendere come la coscienza dell’individuo resa intersoggettiva, cioè messa in comune con altri, a disposizione della comunità. Non è, forse, vero che, parlando, i nostri pensieri vengono trasmessi ad altri e si fanno, in tal maniera, pubblici? La linguistica, ossia la scienza che ha per oggetto il linguaggio, giunge in nostro soccorso: e ci spiega che esso coincide con il complesso definito di suoni, gesti e movimenti attraverso il quale si attiva un processo di comunicazione. Il linguaggio, dunque, è il pensiero comunicato, reso espressione che viene trasmessa ad altri. Ma, al di là di questa pur importante determinazione, qual è il rapporto tra il linguaggio e le cose? Ad avviso di taluni, il linguaggio sarebbe puramente convenzionale: del tutto arbitrariamente, cioè, gli uomini avrebbero stabilito di chiamare le cose con i nomi che le esprimono. Secondo la linea interpretativa di altri, invece, il linguaggio dovrebbe essere inteso come qualcosa di naturale: quasi come se, per il suo tramite, fosse la realtà stessa a parlarci. In questa seconda accezione, se noi chiamiamo le cose in un certo modo, ciò dipende dal fatto che l’espressione linguistica stessa che le esprime, lungi dall’essere frutto di una convenzione, dice l’essenza stessa della cosa in modo naturale. Le cosiddette espressioni onomatopeiche sembrerebbero suffragare questa ipotesi, Epicuro: tali espressioni hanno la prerogativa di riprodurre, attraverso i suoni linguistici del linguaggio, il rumore o il suono proprio dell’oggetto nominato. E, così, contribuiscono a disvelarne l’essenza. Pensiamo, ad esempio, a verbi come gracchiare, strisciare e rimbombare: non v’è, forse, nella parola stessa un richiamo quasi naturale alla realtà che essa nomina? Al di là di questa diatriba intorno al carattere naturale o convenzionale del linguaggio, quel che è certo è che esso, comunque lo intendiamo, è la prova del fatto che l’essere umano è un animale comunitario: che vive con i suoi simili e che ha esigenza di comunicare con loro, facendo del suo stesso pensare un gesto relazionale e, appunto, comunitario. Non è forse vero che il linguaggio implica sempre una relazione tra soggetti che, mediante segni, si scambiano pensieri, emozioni, idee e stati d’animo? Oltre a questo, dobbiamo anche considerare la pluralità delle lingue specifiche che caratterizzano l’umanità. Il linguaggio, infatti, non è uno per tutti, in ogni tempo e in ogni luogo. Esiste, al contrario, nella concreta pluralità delle lingue parlate: le quali variano di luogo in luogo e, se storicamente considerate nella loro evoluzione, anche nello stesso luogo. L’italiano che parliamo oggi è diverso non soltanto dal francese, dal russo e dal giapponese, ma anche dall’italiano che, negli stessi luoghi, parlavano i nostri nonni e, prima di loro, i nostri più remoti avi. Questo aspetto ci deve indurre a riflettere sul fatto che la lingua è una realtà viva e in continua evoluzione: è, per così dire, l’orizzonte in movimento in cui si incontra il passato con il presente, in cui, cioè, la lingua parlata un tempo muta, ora conservando alcune sue espressioni, ora abbandonandone alcune, ora acquistandone di nuove. Questa pluralità, che è tale nel tempo e nello spazio, chiede di essere considerata come una ricchezza, come la prova più splendida della varietà e della pluralità a cui sa dare vita il genere umano. Per questo, dobbiamo opporci con forza all’idea di sostituire la pluralità delle lingue, come pure taluni vorrebbero, con un’unica lingua valida in tutto il pianeta: per l’umanità intera si tratterebbe di un impoverimento, non di un arricchimento.

Citazioni

"Nella catastrofe del tempo nostro, carnefici e vittime sono anzitutto, gli uni come gli altri, involontari testimoni dell’atroce miseria nella quale siamo immersi. Per avere il diritto di punire i colpevoli, bisognerebbe anzitutto purificarci dal loro delitto, presente nell’anima nostra sotto impensati travestimenti. Ma se quest’operazione ci riesce, quando l’avremo compiuta non avremo più nessuna voglia di punire, e se ci crederemo costretti a farlo, lo faremo il meno possibile, e con estremo dolore". (S. Weil, “La prima radice”)
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