PASSIONE
“Nella storia nulla di grande è stato fatto senza passione”.
(G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia)
A cura di Diego Fusaro Ciascuno, nella nostra vita, è senza posa attraversato da passioni, peraltro assai differenti tra loro. Esse lo pongono, per così dire, in una condizione di dipendenza da fattori esterni e lo espropriano, almeno in parte, dal pieno controllo di sé. Dal turbamento all’ira, dall’odio all’impeto, le passioni presentano tutte, almeno mi pare, un tratto comune: ossia la loro capacità di prevaricare la nostra soggettività e di porci, per ciò stesso, in una condizione di sudditanza da stati esterni, che non abbiamo liberamente scelto e che, anzi, ci troviamo a subire. Lo stesso lemma “passione”, del resto, deriva dal latino passio, che a sua volta trova la propria più remota radice nel greco pathos, da cui deriva il nostro termine italiano “patimento”: “patire” – questo è l’etimo originario dal quale il vocabolo “passione” deriva – non allude, forse, a una condizione di passività, per via della quale al soggetto capita qualcosa, che egli si trova, appunto, a subire senza averlo decretato volontariamente? D’altro canto, il termine passione si contrappone direttamente ad “azione”, che invece indica una condizione di piena attività del soggetto. Con la passione, in modo diametralmente opposto, si allude ala condizione di passività da parte del soggetto: questi si trova sottoposto a un’azione o a un’impressione esterna. Di quest’ultima subisce l’effetto sia nel fisico, sia nell’animo. La filosofia di Epicuro è, nel suo complesso, un tentativo di disciplinare le passioni, facendo in modo che prevalga la atarassia, ossia, letteralmente, la “imperturbabilità”: termine che potremmo anche rendere, con diritto, come “assenza di passioni”. Mi pare, tuttavia, che questo obiettivo non sia concretamente realizzabile e che, quand’anche lo fosse, non sarebbe in sé positivo. Le passioni sono, in effetti, costitutive del nostro essere al mondo: la nostra vita è animata da passioni, sia negative (come l’odio e la paura), sia positive (come la brama e il desiderio), e sarebbe del tutto utopico pensare di poterle, in un modo o nell’altro, rimuovere. Senza di esse, d’altro canto, la nostra vita sbiadirebbe e diverrebbe, se mi concedi la metafora, priva di colori. Più sensato mi pare, invece, provare a disciplinarle, nella piena consapevolezza tanto della loro ineliminabilità, quanto della loro importanza per la nostra esistenza. Platone impiega, a tal riguardo, un’immagine significativa. Sostiene che la nostra anima è come un carro alato: l’auriga è la ragione, che deve procedere lasciandosi trasportare da due cavalli. Quello bianco simboleggia la parte spirituale della nostra anima e quello nero rimanda, invece, alla parte passionale. L’auriga non può certo annientare il cavallo nero: se lo facesse, la biga resterebbe ferma o, peggio, deraglierebbe. Deve, allora, disciplinarlo, operando affinché esso non si ribelli e non prenda il sopravvento: anche in questo caso, infatti, ne scaturirebbero conseguenze nefande per la biga e per il suo tragitto. Fuor di metafora, non si può vivere senza passioni, né affidandosi soltanto ad esse. Occorre, di conseguenza, temperarle e mantenerle sotto il controllo della ragione, di modo che non prendano il sopravvento e non conducano la nostra esistenza nei precipizi in cui inevitabilmente finirebbe, qualora la nostra ragione fosse essa stessa spodestata dalla passione. Per questo motivo, con una immagine che desumo da Aristotele, noi dobbiamo produrre una “catarsi”, ossia una purificazione, “delle” passioni e non “dalle” passioni. In definitiva, la retta vita mi pare quella fondata su un giusto equilibrio tra le ragioni e le passioni, proprio come nella metafora della biga impiegata da Platone: solo quando il cavallo nero opera, ma sempre sotto la sorveglianza dell’auriga della ragione, la biga della nostra vita procede con avanzare sicuro e in direzioni certe. |