FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE
“Chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi” (J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca)
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE
di Antonietta Pistone
Quando si parla di educazione bisogna fare un distinguo tra l’attività spontanea ed involontaria, rivolta a dirigere il comportamento dei ragazzi secondo un determinato orientamento; le tecniche, i mezzi e le strategie utilizzate per raggiungere l’obiettivo preposto; i principi ispiratori di ogni intervento formativo. La prima strada è quella propriamente detta dell’educazione, che viene impartita per lo più dai genitori, o dai familiari vicini al ragazzo, e si integra perfettamente con la tradizione, la cultura, la storia della famiglia e del popolo di cui si è parte. La seconda coincide con quella che, scolasticamente, viene definita didattica, e comprende l’insieme degli interventi scolastici operosamente praticati dai docenti sugli educandi. La terza è la vera e propria filosofia dell’educazione, e riflette a livello teorico sullo scopo della formazione, relativamente ai mezzi, alle tecniche, alle strategie operative, anche e soprattutto rapportandosi agli obiettivi finali che ogni metodo educativo voglia realizzare. L’azione formativa che si esplica in famiglia, attraverso l’intervento involontario dei genitori sul soggetto in età evolutiva, comprende tutti quegli interventi volti a rafforzare il senso della trasmissione ereditaria del patrimonio di valori e di consuetudini accumulate nel tempo. Generalmente fa affidamento ai precetti categorici che costituiscono il bagaglio indispensabile della formazione religiosa e morale della persona umana. Spesso, questo tipo di educazione familiare tende a trascurare l’aspetto dell’istruzione e dei contenuti, fortemente privilegiato, invece, dall’istituzione scolastica, a partire dalle programmazioni disciplinari che i docenti predispongono ad inizio d’anno. La differenza sostanziale che intercorre tra il programma e la programmazione disciplinare consiste proprio nel fatto che mentre il programma traccia gli elementi sostanziali di contenuto che si vogliono percorrere insieme in classe, la programmazione prevede anche che vengano indicati i mezzi, le tecniche e le strategie operative delle scelte didattiche. L’insegnante, dopo aver individuato gli obiettivi disciplinari, deve anche saper rintracciare le metodologie più efficaci attraverso le quali pensa e crede di poter raggiungere gli scopi della programmazione proposta al consiglio di classe. Il programma fa, perciò, riferimento agli aspetti di contenuto dell’istruzione, laddove la programmazione contempla gli elementi didattico-metodologici della formazione educativa. Sebbene la metodologia didattica sia, allo stato, una scienza euristica ed empirica, che procede per prove ed errori, è anche lecito aspettarsi che il docente non debba pretendere di verificare la bontà o meno del proprio metodo, esclusivamente soppesandolo attraverso i tentativi effettuati in classe. Si rende necessario, allora, fare affidamento ad un insieme di principi filosofico-teoretici cui si possa ispirare la gamma degli interventi metodologici e didattici da adoperare. Questo complesso di nozioni, che fa riferimento ai valori e al significato dell’educazione, intesa come formazione, oltre che come istruzione, costituisce la filosofia dell’educazione propriamente detta. Essa risulta patrimonio irrinunciabile ed imprescindibile dell’educatore e del docente. Punto di riferimento iniziale e finale di ogni azione formativa, che debba necessariamente commisurare scopi e obiettivi, ma anche mezzi e strategie metodologiche, a partire dai principi teorici da quella fissati e legittimati. Chiarita la distinzione dei differenti ambiti di competenza, è naturale approdare in questa sede a parlare del concetto di educazione, attorno al quale ruota tutta la nostra ricerca. Si potrà comprendere appieno la differenza tra educazione involontaria e spontanea, didattica e filosofia dell’educazione, solo quando ci saremo intesi perfettamente su cosa significhi educare. Domandandoci se sia possibile, attorno all’idea di educazione, far convergere i vari punti di vista e le opinioni dei molti in una sola dottrina pedagogica che veda tutti gli operatori della formazione concordi nell’affermare una definizione comunemente accettata dalla comunità scientifica. Certo è che la pedagogia non può qui assolutamente disfarsi della filosofia. Ma anzi deve far ricorso a quella costantemente, per meglio scegliere, definire, ed operare. Si può concordare che educazione sia sinonimo di cultura. Perché l’una e l’altra sono prodotto dell’uomo. Ma questa somiglianza può essere scorta secondo due modalità. Per la prima, l’educazione[1] è cultura in quanto trasmette da una generazione all’altra l’intera tradizione familiare, religiosa, morale e storica di un gruppo sociale e di un popolo. E siamo d’accordo che non si possa fare a meno di considerare questa tipologia di intervento formativo con il suo carattere di priorità, dal momento che chi non conosca gli usi, le tradizioni, le abitudini sociali della sua famiglia e della sua nazione, viene immediatamente stigmatizzato ed allontanato, finendo per vivere emarginato da tutto il consorzio umano di cui fa parte. Ma il concetto di educazione come cultura comprende anche, unitamente all’insieme dei vissuti storicamente tramandati, il prodotto finale di ogni intervento umano sul mondo, che deriva alla società dall’impegno di tutti i suoi membri che abbiano proficuamente utilizzato a loro vantaggio quei precetti morali e religiosi, e tutto il patrimonio culturale ricevuto in eredità, per produrre nuovi orientamenti, valori, sensi e significati, adattamenti intelligenti, in vista del cambiamento attivo ed operativo sulle interazioni con gli altri e sull’ambiente. La prima possibilità coincide con la formazione, la seconda con la civiltà. Il passaggio dall’una all’altra modalità di interpretazione avviene nel XVIII secolo, in pieno Illuminismo, ad opera di Kant, che scrive «La produzione, in un essere ragionevole, della capacità di scegliere i propri fini in generale (e quindi di essere libero) è la cultura. Perciò la cultura soltanto può essere l’ultimo fine che la natura ha ragione di porre al genere umano»[2]. Ed Hegel avvalora dicendo «Un popolo fa progressi in sé, ha il suo sviluppo e il suo tramonto. Ciò che anzitutto si incontra è qui la categoria della Cultura, della sua esagerazione e della sua degenerazione: quest’ultima è per un popolo prodotto o fonte della sua rovina»[3]. Qui davvero la cultura, come prezioso derivato della formazione educativa di un popolo, si fa presupposto certo della storia dei popoli, nel bene e nel male. Bisognerebbe riscoprire questo valore intrinseco dell’educazione civica, senza la quale non esiste al mondo civiltà che sia in grado di competere con nessun’altra. Ad un popolo barbaro e incivile nei modi, e gretto nei comportamenti, quale tipo di contenuti di civiltà potranno mai essere proposti? Ogni cultura, che sia veramente tale, non può che risiedere primariamente in un animo gentile. Solo uno spirito ben educato saprà accogliere e coltivare in sé i germi del sapere, della conoscenza e della sapienza. Perché ogni apprendimento significativo dovrà poi divenire nuova fonte di saggezza dei popoli. E per divenire tale deve contemporaneamente formare la persona educando. I Greci chiamavano paidéia, l’educazione. Mentre per i Latini essa coincideva con la humanitas. E Maritain ne L’Educazione della Persona scrive a proposito del bisogno impellente di scuole di umanità. Volendo intendere con ciò la necessità, per ogni civiltà, di possedere dei riferimenti obbligati nei valori educativi che fondano ontologicamente l’uomo e la donna di cultura. Siamo erroneamente abituati a considerare abbinati nella medesima persona il titolo di studio con il suo livello di civiltà e di educazione. Spesso, tuttavia, ci dobbiamo dolorosamente ricredere. E ci rendiamo poi conto che non necessariamente la gentilezza dei modi e le lauree coesistono amabilmente. Eppure dovrebbe essere reputato molto più grave assistere alla mancanza di decoro in chi ha avuto la fortuna di studiare, pregiandosi di un titolo accademico, rispetto a chi ha dovuto misurare la fatica quotidiana del tirare a campare, provando sulla propria pelle quanto sia duro e arduo barcamenarsi con l’ingiusto destino di chi non possiede il presupposto della liberazione della coscienza dalla schiavitù del padrone. Proprio Hegel, con la sua dialettica servo-padrone[4], mostra come i rapporti tra gli uomini siano sempre stati improntati, sin dagli albori della storia, alla risoluzione del conflitto inevitabile tra colui che possiede beni e mezzi di produzione, e che perciò comanda in virtù del suo potere economico, e colui che deve di necessità assoggettarsi perché privo di ricchezze e di terre di proprietà. Solo la cultura, il sapere, costituiscono strumento di riscatto della condizione servile di chi non ha potere economico sufficiente per imporre all’altro il suo dominio. Ma la cultura è pace, nonviolenza, dialogo, interazione, confronto, gentilezza, educazione. Non esiste cultura che si possa imporre eteronomamente con la forza. Perché la cultura rifiuta in sé ogni espressione coatta dell’agire. Perché solo chi la persegue sa cosa voglia significare e rappresentare il suo prezzo, che è premio a se stesso. Perché cultura, educazione e virtù sono sullo stesso medesimo piano, e l’una dall’altra inscindibili. Perché tutte concorrono alla formazione complessiva della persona umana. E non esiste uomo che sia tale senza educazione, senza virtù, senza cultura. Poesia, eloquenza e filosofia sono per gli antichi le arti fondamentali da esercitare per garantire il sapere. Un sapere che deve necessariamente essere condiviso, spendibile e fruibile in comunità. Se quindi è impossibile un’educazione senza filosofia, è altrettanto inconcepibile una conoscenza che non passi attraverso l’espressione della comunità dialogante nella polis. L’uomo è animale politico, per Aristotele, perciò l’educazione deve essere formazione alla socialità, al saper stare assieme, condividendo. Ma si deve anche poter nutrire degli ideali di umanità, che facciano riferimento a Platone, immaginando l’uomo come poter essere, come non-ancora, e fornendo esempi di modelli educativi, che coincidono con quelli che vengono oggi normalmente riconosciuti come principi di filosofia dell’educazione e metodi didattici, facendo uso di strategie applicative che orientino al successo verso il fine conseguito. Dopo quanto detto si capisce che il ruolo della famiglia rimane fondamentale. Perché se educare vuol dire anzitutto formare ai valori della tradizione, e non soltanto trasmetterli in modo passivo; se educare vuol dire compiere opera di civilizzazione e di progresso culturale, non è possibile per un popolo un’idea di educazione che non passi per i modelli spontaneamente utilizzati nella pratica pedagogica della gestione familiare. La famiglia è così la prima agenzia educativa, non solo in senso temporale, ma anche dal punto di vista strettamente ideologico. Secondariamente viene la scuola, con la sua didattica e le sue metodologie, ispirate a fini e principi della filosofia dell’educazione, ma affinate nella gestione della pratica della situazione d’aula. In classe le strategie operative si scelgono di volta in volta, ma soprattutto si rendono compatibili con il gruppo degli allievi e con le situazioni che ci si trova a dover fronteggiare nell’immediato e sui tempi lunghi. Il buon insegnante, che è anche un valido educatore, è abile nel programmare interventi a lunga scadenza, ma non si perde d’animo di fronte all’emergenza. Soprattutto, comprende appieno il valore del lavoro di squadra, nel quale si tende ad interagire progressivamente con i colleghi, gli operatori sociali, se necessario gli psicologi, chiamati in causa. Uno dei problemi maggiormente sentiti e vissuti dalla attuale classe docente è quello del bullismo, inteso come una costante manifestazione di comportamenti aggressivi e devianti, posti in essere da uno solo o da più allievi nei confronti di altri compagni o degli stessi insegnanti, ed in alcuni casi eclatanti diretti persino contro la dirigenza, i collaboratori del preside o i vicari. Le espressioni di questo manifesto disagio cui tutti, più o meno disarmati, assistiamo nelle scuole, vanno dall’uso di un linguaggio forbito di epiteti poco gentili, ad azioni violente nei riguardi degli altri, allo scopo di ottenere ciò che non si è in grado di realizzare attraverso il linguaggio ed il dialogo pacato, con modi assai poco legittimi dal punto di vista strettamente scolastico. Entro questa concezione di educazione che si cerca qui di proporre, è ben chiaro che questi comportamenti sicuramente censurabili sono il frutto di una grave carenza culturale. Intesa qui come profonda ignoranza delle regole basilari dell’atteggiamento corretto e civile, che la società si impone per realizzare il benessere della collettività, e la convivenza pacifica all’interno del consorzio umano. Le regole, le norme, sono fondamentali per un buon vivere. Quando non si riconoscono i giusti presupposti dello stare assieme in modo democratico si sfocia, prima o poi, nell’anarchia, nell’illegalità, nel disprezzo della legge, nel rifiuto dell’interazione dialogante come presupposto di ogni convivenza democratica. Al contrario, il concetto di umanesimo espresso dalla cultura, contempla sia il suo carattere aristocratico, di attività prevalentemente intellettuale e spregiativa nei confronti degli impieghi manuali, sia il suo essere indagine di tipo naturalistico, che esula l’uomo e le sue attribuzioni. In entrambi i casi, la cultura così intesa si conferma speculazione teoretica, conservandosi con queste medesime caratteristiche, eccetto l’espressione del naturalismo, per tutto il Medioevo, durante il quale vengono predilette le arti del Trivio, grammatica, retorica e dialettica, contro quelle del Quatrivio, geometria, aritmetica, musica e astronomia. Arti dette liberali, cioè adatte agli uomini liberi, che avevano lo scopo di indottrinare alla vita ultraterrena, attraverso le attività di natura religiosa, anche grazie alla speculazione filosofica. La filosofia, pur conservando una posizione di centralità nella cultura, divenne ancilla theologiae, nel senso che prestò il suo contributo al perfezionamento dei doveri religiosi, e alla scoperta della verità dogmatica ed eterna. La cultura tornò, così, al suo ideale naturalistico solo nel Rinascimento, che riuscì a far convergere tra loro un’idea di sapere in cui la verità dipendesse dalla ragione umana, emancipandone la ricerca dal dogma di fede, con la convinzione che la storia dell’uomo, autore del proprio destino, coincidesse con la sua responsabilità di azione pratica ed operativa sul mondo, al fine di attuare il cambiamento possibile ed auspicabile. In tal senso, anche la religione acquisì la nuova funzione di tecnica di salvezza, in grado di aiutare a vivere meglio su questa terra, piuttosto che proiettarsi dalla storia esistenziale già nell’esperienza ultraterrena di un eventuale aldilà. Lo spostamento dell’asse dal teocentrismo all’antropocentrismo è evidente nella filosofia di Pico della Mirandola che, nel suo De hominis dignitate, riconosce pienamente all’uomo quella dignità di cui poter andare fiero nei confronti della natura e del mondo animale. Dignità che consiste nell’uso possibile delle due facoltà della libera scelta e dell’intelligenza del pensiero. L’uomo diviene così microcosmo che ripropone, nel suo piccolo, tutta la grandezza del creato, macrocosmo di Dio. Ormai la cultura si fa espressione incontaminata della storia umana, rifiutando il binomio che aveva dominato incontrastato durante tutto il Medioevo, di una verità che potesse presentarsi con i caratteri dell’assolutezza e della certezza eterna e dogmatica. La debolezza esistenziale e la precarietà del peccato, rendono l’uomo soggetto e signore della sua verità. Facendone un individuo responsabile di fronte al suo proprio destino personale ed universale. La stessa interpretazione religiosa di un messaggio divino che prende spunto dalla bontà paterna del Dio del Nuovo Testamento, finisce per rinnegare del tutto quel Giudice duro e severo che puniva i peccatori, relegati al ruolo passivo di penitenti senza coscienza soggettiva, condannati a subire il limite metafisico della loro precaria fragilità ontologica. Nel Rinascimento viene ancora confermato il carattere aristocratico della cultura contemplativa, come di attività riservata ai migliori, i dotti. Ma, allo stesso tempo, comincia a comparire il valore politico del lavoro, come attività che nobilita l’uomo, andando oltre il mero livello teoretico del sapere ideale. La cultura cominciò a perdere definitivamente il suo carattere aristocratico nell’Illuminismo, quando iniziò in Francia la tradizione dell’Enciclopedia del sapere, come di un insieme di conoscenze vissute in quanto patrimonio di tutta l’umanità. «”Essere colto” non significava più possedere soltanto le arti liberali della tradizione classica, ma conoscere in una certa misura la matematica, la fisica, le scienze naturali, oltrecchè le discipline storiche e filologiche che si erano venute formando. Il concetto di cultura cominciò, allora, a significare “enciclopedismo” cioè conoscenza generale e sommaria di tutti i domini del sapere»[5]. Fu questa concezione del sapere enciclopedico che Croce poi lamentò, ritenendola responsabile di formare l’uomo con tante conoscenze e tuttavia privo del possesso della conoscenza vera, che è la sapienza. La cultura positivistica, che aveva finito per dominare incontrastata tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, aveva esaltato la convinzione che tutto lo scibile dovesse essere sottoposto al vaglio della matematica e della fisica, nella certezza che anche le scienze umane potessero essere studiate e interpretate alla stregua di rapporti deterministici, per nessi consequenziali di causa ed effetto, adoperando gli stessi metodi delle scienze della natura. Un armonico ed equilibrato rapporto dell’uomo con se stesso poteva invece essere recuperato, sempre secondo Croce, attraverso lo studio convergente della Storia e della Filosofia, nell’intento di ricostruire quell’approccio educativo alla persona umana, nella sua integralità, anche attraverso una formazione generale e completa dal punto di vista strettamente umanistico. Ma la crescita esponenziale dell’industrializzazione in tutti i paesi del mondo ha reso, nel tempo, sempre più difficile la realizzazione di questo ideale educativo. La scuola deve formare competenze e specializzazioni tecnico-scientifiche in grado di immettere nel mondo del lavoro profili specializzati e professionisti capaci di competere a livello internazionale per efficienza e produttività. Tutto questo contrasta apertamente con l’ideale di una cultura umanistica e generale in senso lato. E conferma la tendenza sempre più esasperata della scuola al tecnicismo. Eppure sono sempre più evidenti a tutti le disfunzioni determinate nella società da questo orientamento specialistico della formazione educativa, che finisce per dimenticare la persona come valore intrinseco ed indipendente dalla sua capacità produttiva in termini di efficienza sul lavoro e di reddito procapite. Disfunzioni profonde che vanno ad incidere pesantemente su tutto il fabbisogno mondiale, e che conducono ad una disperata corsa all’accaparramento delle risorse disponibili, si pensi all’acqua e al cibo. «il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: ‘‘L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale’’»[6]. La necessità indifferibile di ritornare ad una cultura che si faccia scuola di umanità, nell’intento di salvaguardare il vero progresso umano, che è sintomo di civiltà per le nazioni, è ampiamente sottolineata anche dall’ultima Enciclica di Papa Benedetto XVI Caritas in veritate, nella quale, facendo costantemente riferimento alla Populorum progressio di Papa Paolo VI, Ratzinger sostiene come il vero progresso risieda nella riscoperta dei valori della persona umana, già propri dell’umanesimo integrale della tradizione cattolica francese, che si trovano, ad esempio, in Maritain[7]. Se, da una parte, vi è sempre più l’esigenza di ottenere profili professionali specialistici di lavoratori in grado di svolgere perfettamente la mansione per la quale sono stati assunti, dall’altra la crisi economica e valoriale cui assistiamo impotenti, suggerisce di fare ritorno all’antico, per porre rimedio agli squilibri di una personalità settoriale e parcellizzata, che crea uomini monchi ad una sola dimensione. Qui il discorso pedagogico ed educativo diventa, di necessità economico-politico, perché l’esigenza di formazione di una civiltà deve finire per collimare con la cultura, le tradizioni, la lingua, i costumi, la religione, la fede filosofica, e con la storia dei popoli, i quali hanno l’urgenza di radicarsi nel passato per poter liberamente progettare il loro futuro. Un futuro degno di essere abitato e vissuto da uomini liberi dalle catene dell’ignoranza e della schiavitù. La stessa specializzazione richiede il confronto costante con figure professionali diverse e differentemente qualificate, per poter realizzare quell’indispensabile sincretismo lavorativo che culmina nella collaborazione dell’équipe tecnica al fine di attuare un’integrazione proficua dei compiti e delle mansioni di ognuno. L’uomo colto è libero e aperto ai cambiamenti. Rivolto al futuro in dimensione progettuale, perché saldamente ancorato al passato. Capace di astrazioni operative che gli provengono dall’abituale consuetudine con l’esercizio del pensiero filosofico. L’uomo colto è, però, anche un individuo che è parte integrante di una civiltà, che ha assimilato modi e comportamenti dalla storia del suo proprio popolo. In questo senso, se ogni educazione è sintomo di un’espressione culturale della civiltà dei popoli, è altrettanto vero che ogni educazione ha presupposti e fini differenti a seconda della tradizione culturale delle persone cui è rivolta. E seppure i fini e i valori di culture diverse dovessero coincidere, sarebbero comunque differenti le strategie applicative, i metodi e i mezzi per ottenere quegli stessi scopi. Ogni modello educativo presuppone una storia differente, ma anche una pedagogia politica in evoluzione e cambiamento continui.
[1] N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, pag. 279, TEA, Milano 1993.
[2] E. Kant, Critica del Giudizio, § 83. d
[3] F. Hegel, Phil. Der Geschichte, ed. Lasson, pag. 43.
[4] Cfr. F. Hegel, La Fenomenologia dello Spirito.
[5] N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, pag. 205, TEA, Milano 1993.
[6]Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, par.25, Roma 29 giugno 2009.
[7]J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, Parigi 1959.
LA DIDATTICA DELLA STORIA
LA DIDATTICA DELLA STORIA
Dal volume TEORESI E PRASSI DELLE SCIENZE UMANE
di Antonietta Pistone
Edito da Bastogi, editrice italiana nel mese di marzo 2009
Nel testo Problemi e metodi di storia antica lo storico Finley sostiene che in Grecia Tucidide, Senofane, Senofonte, Polibio, Ecateo e Strabone consideravano come fonti proprie per la ricostruzione degli avvenimenti, il racconto tramandato per tradizione orale e la narrazione, ascoltata da altri, di fatti e accadimenti. La teoria di Croce-Veyne ritiene, come riferisce Finley che «[…] dai Greci a noi l’intelligenza della storia si è arricchita: non già che noi conosciamo i principi o i fini degli avvenimenti umani, ma di essi abbiamo acquisito una casistica assai più ricca[…]». E questo, proprio per il fatto che gli storici successivi hanno potuto disporre di una maggiore quantità di fonti e di una tradizione scritta che i loro predecessori non possedevano. Inoltre di un metodo di raccolta ed analisi dei dati, che tiene conto anche dei progressi delle più moderne e sofisticate tecnologie a disposizione, e di un’esperienza storica che si è andata, nel tempo, accumulando. La prima forma di tradizione storica è, dunque, orale e risiede nella memoria collettiva dei popoli. E sulla consuetudine si fonda la legislazione, che non è scritta ma basata sull’abitudine, quell’habitus di cui parla Aristotele nella sua Etica nicomachea, e che forma l’agire in un determinato modo. Tradizione orale, memoria collettiva e consuetudine, ma anche fede imprescindibile nei racconti ascoltati, e nella credibilità del testimone. Inoltre «inventiva e immaginazione dello storico» come sostiene Meyer, sono indispensabili per colmare le lacune con fantastiche e avvincenti avventure. La cultura greca è cultura del dialogo e della dialettica, come è ampiamente dimostrato dalle filosofie di Socrate, Platone, ma anche dai Sofisti, che puntano la riuscita della loro professione sul potere trascinante dell’argomentazione retorica. E Aristotele mira al raggiungimento della verità attraverso l’enunciato, vero o falso che sia. L’antichità si prospetta, insomma, come una civiltà della parola e della narrazione orale, capace di trascinare e di affascinare, come fosse una metafisica della natura, dove gli elementi sono ad un tempo interpretati come forze vive ed energetiche. È la storia del mito, dove la verità appare e si disvela sotto forma di poesia. Quando il diritto comincia ad apparire nella sua forma positiva, come stesura organica di un corpo di leggi, le Dodici Tavole dei Romani, cambia e si modifica anche l’idea di storia, perché mutano i rapporti tra gli individui. La civiltà romana è caratterizzata dal concetto di cittadinanza, come appartenenza ad un organismo statale, sia nella forma repubblicana che in quella dell’impero, fortemente improntata al possesso di determinate qualità individuali, che rendono gli uomini degni di rivestire ruoli determinati all’interno dell’urbs. La città si circonda di mura, e pietrifica il diritto e la memoria. Sallustio, Livio, Tacito, Cesare, sono gli storici dell’imperialismo romano. Essi narrano la storia come vicenda umana scevra da qualsivoglia forma di tipizzazione, ed al contempo come aspirazione ad ideali quali il potere personale e l’esaltazione della guerra che già Aristotele giustificava come strumento di dominio territoriale e di appropriazione di spazi. Cicerone, con le sue lettere offre uno spaccato dell’epoca e Virgilio mostra una visione ancora poetica delle origini. L’impero si crea attraverso l’espansione territoriale. Così Finley riferisce «[…] era universalmente accettata nell’antichità l’idea che la guerra fosse una condizione naturale della società umana». La guerra di allargamento dei confini è privilegiata rispetto all’azione bellica difensiva. Il dominio della nazione, le personalità dei condottieri, possono emergere in battaglia. Ma la guerra è anche intesa come strumento di purificazione, una sorta di purga dell’umanità che elimina con semplicità agghiacciante il diverso e ciò che è fonte di imbarazzo sociale. La democrazia del dialogo greco viene soppiantata dall’aggressione dell’esercito imperiale romano. Le fonti sono scritte perché devono testimoniare la grandezza delle imprese e degli eroi che hanno combattuto con valore per lo stato e per Roma. Di conseguenza si pone il problema della loro decodificazione. Scrive Finley, sempre a proposito dell’implementazione contemporanea dell’intelligenza storica «Un’interpretazione storica è un complesso di risposte ad un insieme di domande. La documentazione non propone nessuna domanda. È lo storico stesso a farlo, e ora egli possiede un idoneo apparato di concetti per la costruzione di ipotesi e di modelli esplicativi». Ovviamente questo lavoro diventa più semplice quanto maggiore è il numero dei dati a disposizione, anche se poi complica la problematicità stessa della loro interpretazione. Ad ogni modo, tutto il mecenatismo augusteo altro non è che la giustificazione, colta e filosofica, di un potere imperiale. Inoltre, nell’Eneide di Virgilio vi è la favolosa avventura dell’eroe troiano che giunge sulle coste laziali per fondare Albalonga. Nasce così il mito delle origini. La grandezza e la potenza egemonica dei militari si fonde con la narrazione delle mitiche origini del popolo. Il crollo dell’impero romano, che per Pirenne cade in seguito all’invasione islamica, e che per Lombard è causato dalla debolezza economica delle città occidentali, che importano più prodotti di quanti non ne esportano, svela l’impossibilità di tenere insieme, governandolo con capacità, un vasto impero e culture così distanti le une dalle altre. Il 476 segna l’inizio del Medioevo, epoca chiamata in tal modo quasi a voler significare una sua presunta irrilevanza storica, come se fosse solo un periodo di passaggio tra l’imperialismo romano e la rinascita dell’Umanesimo, che torna a riconfermare il potere dell’uomo
sulla terra. Duby nel Sogno della storia, sostiene che prima della fine dell’Impero romano un grandioso evento ha segnato in modo indelebile l’umanità. Il cristianesimo, e la nascita di Cristo sono un fenomeno dalla portata rivoluzionaria in ambito culturale. La stessa storia lineare ha impostato le sue periodizzazioni distinguendole in epoche prima e dopo Cristo, il cui anno di nascita definito anno zero significa un tale capovolgimento di valori culturali da far ritenere che addirittura la storia cominciasse, in modo del tutto diverso, dopo di Lui. Scrive Duby «Per i cristiani […] vi sono due storie: una storia dell’umanità carnale, discendente, e una storia della salvezza, ascendente. Il Cristo le assume entrambe: è morto nell’abiezione, è risuscitato nella gloria. Ed è questo avvenimento storico – la resurrezione la mattina di Pasqua – a rappresentare il punto zero di ogni cronologia». Prima il senso carnale, del negativo e del peccato, annullato poi nella salvezza. La caduta dell’impero romano assume, in questa prospettiva, il tramonto dell’onnipotenza dell’imperatore, che pretendeva di essere adorato come un dio. Difatti, le invasioni barbariche e l’arrivo dei Musulmani, hanno minato le strutture imperiali almeno quanto i valori evangelici, le crisi economiche e demografiche, le mutazioni climatiche. Contro l’idea della guerra come mezzo di dominio si andava affermando sempre più il peso delle ideologie, delle scuole, del pensiero filosofico e teologico. È la rivoluzione delle idee che la Chiesa, divenuta istituzione, ha temuto e frenato imbrigliandola nei tribunali dell’inquisizione e negli indici dei libri proibiti. Questi sono certo gli aspetti meno nobili dell’evo oscuro. Ma non si deve dimenticare che Medioevo fu anche sinonimo di sapere universitario, sviluppato proprio dalla tradizione amanuense dei monaci e delle abbazie. Che oltre alla feudalità curtense che per Duby è «caratterizzata dall’asservimento dell’uomo all’uomo», ed è dedita alla produzione per il consumo, si sviluppa anche una civiltà signorile e cittadina attraverso la realtà dei comuni, che apre la strada a nuove forme di guadagno e di economia. La ricchezza della terra viene gradualmente sostituita dalla concezione del capitale che si deve accumulare e reinvestire su nuovi mercati. Le crociate per Le Goff, contrariamente a quanto crede Villari, «hanno alimentato l’antisemitismo, e fomentato il fondamentalismo islamico, attraverso […] il concetto di purezza del sangue che […] condurrà alle teorie razziali, uno dei grandi demoni dell’Europa». La stessa tesi sostiene anche Runciman, che ritiene le Crociate responsabili di aver distrutto la cultura musulmana. Tuttavia, gli spostamenti marittimi verso l’oriente, hanno aperto e sfondato quelle mura comunali, consentendo ai traffici mercantili di approdare verso nuovi porti. E le città marinare, costituendo in oriente i propri fondaci, contro la concorrenza ebraica, hanno dominato la scena dei traffici che si sono, infine, espansi in tutta l’Europa. Tanto che lo stesso Le Goff giunge poi a sostenere che il Medioevo, che termina proprio nel 1492 con la scoperta dell’America, ha fondato lo spirito europeistico, anche attraverso la costituzione delle monarchie nazionali, come poteri che si vanno a sostituire a quelli locali, nella fase espansiva dell’economia in ripresa «L’Occidente medievale conosce, soprattutto a partire dal X secolo, ma forse addirittura dal VII, una fioritura economica che non sarà realmente interrotta neppure dalla crisi del Trecento […] più di crescita che di declino […] La popolazione cresce di tre volte […] da 15 milioni a 50 milioni di abitanti […] Il Portogallo s’era staccato dalla Spagna […] antiebraica e antimusulmana, costituendo una facciata atlantica dell’Europa rivolta verso l’Oceano, verso l’Africa occidentale e, con Cristoforo Colombo, verso la futura America (1492)». Sono proprio i nuovi traffici, infatti, l’aspettativa del viaggio e il desiderio di scoperta che porteranno i Portoghesi in America. La storia medioevale era cantata dai trovatori e raccontata in forma di favola avventurosa, come la chanson de geste dei cavalieri. Il dolce stil novo di Dante della Divina Commedia rende in poesia il terrore dei medievali per il peccato e la pena dell’aldilà. Nel Quattrocento la filologia umanistica ha come preciso obiettivo l’accertamento della verità dei documenti. Tuttavia Gabriele Pepe, insigne studioso medioevale, sosteneva l’importanza dello studio dei diplomi imperiali, ritenendoli fonti storiche già prima che la diplomatica diventasse una vera e propria scienza. Cosa che accade solo nel 1861 con la pubblicazione del De re diplomatica libri sex da parte del Mabillon. La storia si pone nell’ottica dell’accertamento dei fatti, attraverso la veridicità sostanziale dei documenti, e molti risultano apocrifi come la Donazione di Costantino dimostrata falsa da Lorenzo Valla. Nel Cinquecento fioriscono le utopie politiche. La storia è costruita su tipi ideali il cui richiamo è Platone unitamente agli altri storici greci. Ma queste utopie vengono tacciate di antistoricismo. Sono ancora l’espressione di una storia più vicina ad una favola stupefacente ed ideale, sebbene vi sia un costante richiamo ed uno spiccato interesse per l’amministrazione politica cittadina. Anche l’espressione artistica deve trovare una sua validità pratica nella gestione della cosa pubblica, esempi in tal senso sono il Guicciardini, e Machiavelli con il suo Principe. Ma è, paradossalmente, la Rivoluzione scientifica del Seicento ad aprire nuove prospettive per la ricostruzione storica. Il costante richiamo all’osservazione empirica e all’esperimento si pone contro le pretese metafisiche e dogmatiche di saperi, già messi in discussione nel Quattrocento e durante tutto l’Umanesimo rinascimentale, come la stessa interpretazione dogmatica del pensiero di Aristotele strumentalizzata, peraltro, dalla chiesa medioevale. Viene messo al bando tutto quanto si propone come autorità indiscussa, ponendo in primo piano l’interesse per l’uomo come individuo appartenente alla sua storia. Vengono abbattute le aspettative di assolutismo scientifico dogmatico della scienza, intesa non più come mero razionalismo idealistico, ma in quanto insieme di ipotesi sulla realtà, che nascono da problemi pratici del quotidiano, dove la contraddizione è sempre pronta ad emergere sulla lineare consequenzialità del procedere logico assiomatico. L’uomo è ritenuto unità inscindibile di corpo ed anima. Individuo fallibile e peccatore per la Chiesa, ed essere finito destinato ad un’esistenza limitata nel tempo e nello spazio. Vico, con i corsi e ricorsi storici, con la ciclicità dell’esperienza che incontra costantemente la contraddizione come possibilità dello smacco, della perdita, dell’errore, contro la linearità rigorosa del procedere deduttivo inferenziale della logica e della metafisica classiche, scopre la problematicità dell’esistenza. Nel sostenere che il vero corrisponde al fatto egli anticipa le strutture spazio temporali di Kant, in quanto forma dell’esperienza possibile e verosimile. Mentre Giannone, Sarpi, Muratori, Filangieri, Galiani e Genovesi riconoscono tra le cause dell’arretratezza del meridione rispetto al nord d’Italia la presenza della Chiesa e del malgoverno spagnolo. Entrambi, con l’intolleranza fomentata dall’antisemitismo e dalla lotta contro
gli islamici, hanno ingessato nella fissità dogmatica delle pretese metafisiche la possibilità storica dell’uomo che si attualizza nella concretezza. Ritengo che il secolo dei lumi abbia principiato la storia moderna, come prodotto dell’umana ragione, libera e autonoma di farsi nella scelta, sebbene da quella limitata e vincolata. L’individuo esprime il coraggio di pensare e di essere le sue proprie alternative, il suo se stesso autentico, rompendo gli schemi, fidando nel progresso e nella scienza, senza la pretesa di giungere a verità metafisiche ed indistruttibili. Da un lato vi è il senso del progresso lineare della storia, dall’altro è comunque in agguato la possibilità dell’errore, dello smacco e dell’involuzione. Ogni caduta è messa nel conto. Le battute d’arresto sono previste. E vi è una differente maturità della ragione, che corrisponde ad un modo nuovo di pensare l’uomo. La ragione critica non è scettica, perché ripone fiducia nelle sue possibilità, ma non è nemmeno dogmatica, perché sa di essere fallibile, cioè storica. Dopo Kant l’uomo acquisisce la precisa consapevolezza di contrarre esperienze limitate nel tempo e circoscritte nello spazio. La storiografia non è cosa distinta e altra dalla didattica della storia. Non è possibile insegnare storia senza rappresentare le idee di coloro che hanno materialmente scritto quella storia. I giovani devono sapere chi hanno davanti, quale opinione esprime il testo che leggono. Per Vico è l’uomo comune che fa la storia. I suoi autori prediletti sono Platone, che anticipa la tipizzazione ideale di Weber; Tacito, che descrive l’uomo reale; Grozio per il suo giusnaturalismo come richiamo costante alla legge naturale dei popoli; Bacone, perché ipotizza una comunità scientifica aperta, capace di lavorare in équipe e di rendere pubblici i risultati delle sue attività di ricerca. Insomma, Vico pensa ad una storia costruita con attenzione scientifica, cioè rigorosa, come frutto di lavoro interdisciplinare. Bisogna farla finita con la storia monumentale degli storici, che narrano le vicende dei popoli, delle nazioni, degli eroi. Che fanno la storia delle guerre, e dividono i popoli tra vittoriosi
e sconfitti. Ma anche la storia categoriale dei filosofi è perdente. Non si può pensare di sistematizzare e classificare gli uomini, designandoli concettualmente in schemi prestabiliti. Bisogna combattere la violenza, al pari di qualsivoglia preteso dogmatismo. Le false categorie, gli schemi concettuali, che mortificano la vita nell’illusione di produrre falso sapere. Etichettando l’uomo, e alienandolo senza conoscerlo. Insomma, bisogna fondare una Scienza nuova. Che non abbia pretese di asettico scientismo, senza tuttavia essere dogmatica. Oggi non si può pensare ad una didattica della Storia che non tenga nel debito conto la storiografia. Si può ben dire che entrambe le discipline coincidano. Insegnare storia deve voler dire essere capaci di proporre ricerche e indagini. Poter utilizzare gli strumenti di ricognizione delle fonti che anche lo storico usa. Dimostrare abilità nella scelta e nella selezione dei documenti. Nello studio e nell’analisi critica che si conduce. Saper indirizzare i giovani, insegnando loro a porsi domande ed interrogativi sensati. La storia è fatta da noi tutti. Ogni cosa che appartiene all’uomo è storica, in quanto, come direbbe Husserl, ne è una sua sustruzione, mentre lo spazio disegnato è la sua conformazione. La città parla dei suoi abitanti, a cominciare dalle costruzioni, dalla edilizia urbana, fino a giungere ai monumenti. Bisogna smetterla con il considerare storia l’evento, il fenomeno eclatante ed eccezionale. Storia è la vita quotidiana di un popolo, la sua cultura di pace, il modo di avvicinarsi agli estranei, a tutto ciò che rappresenta qualcosa di altro da sé. La banalità delle scelte di ogni giorno, la loro finitezza, conchiusa e limitata nel tempo preciso dell’arco di una vita. Questa coscienza della propria intrinseca storicità i giovani devono impararla perché, possedendola, possano cominciare da tale consapevolezza ad affrontare la vita. Così la storia diventerà maestra del senso, al pari della filosofia. Non per risolvere i problemi, ma per imparare a vederli nella loro giusta dimensione, per poterli gestire e dominare. Consapevolmente, senza presunzione alcuna di verità. Per l’appunto, in modo critico. Come si può negare il senso storico dell’Illuminismo? Direi piuttosto che l’uomo comincia ad acquisire il valore critico della propria storicità proprio nel Settecento. Il progresso scientifico e le rivoluzioni, quella industriale inglese e quella culturale francese, portano al rafforzamento degli stati nazionali. Nel pensiero filosofico si insinua nuovamente il germe dell’onnipotenza. E alla storia provvidenziale e cristiana del Manzoni si sovrappone la necessità ideale dello spirito hegeliano come incarnazione razionale del destino nella storia. All’incessante fluire del divenire eracliteo si sostituisce la potenza della necessità dell’essere e del pensiero di Parmenide. Hegel concepisce nella sintesi l’esistenza della contraddizione logica, così come la possibilità necessaria del suo superamento. Ma le categorie di Hegel, al pari di quelle kantiane, si mostrano astruse, vuote e asettiche. Nel panlogismo che tutto
il reale giustifica in nome di una razionalità superiore, esse sono negazione dello spazio e del tempo empirici, rivalutati poi dall’esistenzialismo come possibilità e determinazione nella scelta in quanto contraddizione materiale e storica. Interprete di questa istanza dialettica della storia, come continua contrapposizione e sviluppo, è il marxismo, chiamato anche materialismo storico. Marx intende la storia come costante fluire e defluire di conflitti, che si generano tra le classi sociali sulla base delle reciproche differenze economiche. Ciascuna classe, in particolar modo il proletariato, deve prendere coscienza della sua appartenenza ad una specifica categoria sociale, e portare avanti le proprie ragioni. Per forza di cose, derivando un conflitto di interessi, le classi entrano in competizione tra loro. I conflitti, che sorgono sempre per motivi materiali sfociano nelle rivoluzioni, che fungono da valvola di sfogo delle energie sociali e del malcontento e costituiscono una purga, perché eliminano il surplus impulsivo della società lasciando sopravvivere il meglio. Finley scrive in Problemi e metodi di storia antica «Per Marx […] la guerra è una forma “naturale” del comportamento umano […] il fattore di base della crescita economica e di conseguenza della trasformazione della struttura sociale». Questa visione interpretativa della storia risulta parziale. È pur vero che gli interessi economici sono un movente imprescindibile nella valutazione dei fatti storici. Ma si possono ridurre l’uomo e le sue scelte alla sola gestione dell’economia? Per amor del vero bisogna richiamare con forza l’attenzione al nostro presente, nel quale la classe operaia è ben lungi dal subire lo sfruttamento degli imprenditori dell’epoca di Marx, né le donne sono sottoposte a maltrattamenti e i bambini ad orari di lavoro massacranti. Questa realtà raccapricciante, che pure ha fatto storia, fortunatamente non esiste più. Dunque il materialismo di Marx oggi pare anacronistico e fuori luogo, qualora lo si voglia presentare come unico criterio interpretativo della storia. Ad ogni modo gli si deve attribuire il merito di aver saputo proporre una visione reale dell’idealismo hegeliano che nella sua pura idealità giustificava i regimi totalitari, come la stessa dittatura del proletariato di Marx. Di contro a questo tipo di storiografia il positivismo di Vailati, Villari e di Salvemini propone per lo studio della storia i metodi propri delle scienze esatte. Osservazione empirica, raccolta dei dati e loro classificazione sistematica, verificando puntualmente il ripetersi del fenomeno, in assenza o presenza di determinate componenti strutturali. Lo storico deve possedere intuito e deve essere capace di inferire da pochi elementi indiziari la conclusione ipotetica di un fenomeno. Con il fiuto di un investigatore, dagli elementi raccolti deve giungere a stabilire la verità dei fatti. Questa metodologia di ricerca applica alla storia il rigore della sociologia, e la interpreta come l’instaurarsi di situazioni prevedibili, al verificarsi di determinate condizioni. La regolarità dei fenomeni sociali che si susseguono è verificata con cadenze predeterminate, tipiche delle ipotesi costruite dalle scienze naturali, come già Bacone faceva con l’induzione. Mill e Comte, con la fisica sociale, propongono un siffatto approccio. Ma l’Ottocento è il secolo della storia e della storiografia filosofica. Proprio per questo motivo, fioriscono dappertutto studi che indicano la strada da intraprendere per lo studioso, interessato al problema. La grande scuola dello storicismo tedesco, rappresentata da Dilthey con l’Introduzione delle scienze dello spirito e con la loro Fondazione nel 1905, introduce alla storiografia contemporanea, e segna l’inizio della didattica storica del Novecento. Essa si pone come frattura nei confronti delle categorie kantiane, perché le ritiene astratte e vuote; dell’idealismo hegeliano che giustifica i totalitarismi attraverso la concezione del dispiegarsi della ragione assoluta nella storia; del marxismo e del materialismo storico, rifiutandosi di interpretare la storia alla luce dei conflitti di classe e dei movimenti economici di una società; del positivismo che intende studiare l’uomo alla stessa stregua delle scienze della natura, attraverso causalità meccaniche. Per Dilthey la storia è prodotto umano. È cultura e civiltà, dirà poi Spengler nel Tramonto dell’occidente. Essa si oppone alla natura, che è necessità, con il suo dinamismo organico, con la sua vitalità empirica. Le scienze della natura devono essere spiegate attraverso meccanismi causali. Il fine dell’uomo è il suo dominio sulla realtà. E la storia è connessione dinamica evolutiva. Spengler ritiene che le civiltà, come prodotto storico, sono destinate al tramonto. La storia, diversamente dalla natura, non si ripete. Essa può soltanto rivivere nella memoria di chi la ricostruisce. Le fonti devono essere selezionate sulla base di interessi propri dello storico. Mentre per Ranke è possibile una storiografia oggettiva, Droysen, Zeller, Burckhardt, Mommsen, Niebuhr ritengono che lo storico selezioni i materiali rispettando i personali interessi e la sua visione del mondo. Questo tipo di approccio storiografico, porta per un verso allo scetticismo di Simmel. D’altra parte Troeltsch e Meinecke, come Rickert riconoscono, nei valori di riferimento dello storico, l’esistenza di un richiamo costante ad una verità assoluta, quasi religiosa. Windelband, invece, distingue le scienze in nomotetiche, della natura, e idiografiche, cioè storiche. Insomma, lo storicismo tedesco ha sottolineato che vi è necessità di un differente approccio alle scienze dello spirito, e che la scientificità della storia non è assolutamente paragonabile a quella delle scienze naturali, che possono essere descritte attraverso un intrinseco meccanicismo causale con metodi di categorizzazione sistematica, evidenziando la regolarità dei fenomeni. Il mondo della natura è mondo di necessità, laddove quello della storia è mondo di libertà. Tuttavia Max Weber, respingendo lo psicologismo di Dilthey propende per un’interpretazione ideale dei tipi storici. Quasi
tornando alle categorie filosofiche, egli ritiene che lo storico possa, nel fenomeno specifico, estrapolare una razionalità ideale tipizzandolo, un po’ come faceva Platone col suo metodo utopico. Attualmente, si propende per una storia econometrica, sul tipo di quella proposta da Jones, demografica e statistica, come prospetta Lucia Valle nella sua Didattica modulare della storia «La demografia storica testimonia il passaggio della ricerca dalla “Grande Storia” alla piccola storia […] Non è storia d’élite, ma piuttosto […] storia della vita quotidiana di un popolo “muto”, sfornito di segni storici evidenti, impegnato in un duro rapporto di adattamento/trasformazione rispetto alle risorse economiche disponibili e alle condizioni ambientali […] La nozione di storia demografica viene trattata didatticamente per far emergere il concetto di storia strutturale, a completamento ed integrazione della storia narrativa[…]». Ma è importante anche una storia sociale sul modello proposto dagli annalisti francesi Febvre e Bloch. Una storia, cioè, che tenga conto di tutte le dimensioni dell’uomo. Che sia psicologica, sociologica, antropologica. Che comprenda il sentimento religioso di un popolo, della sua civiltà culturale. Che si preoccupi del modo di educare i fanciulli e delle strutture scolastiche, in rapporto al territorio e alla sua gestione politico amministrativa. Una storia economica, dei partiti e dei movimenti ideologici. Degli spostamenti delle masse sul territorio. Delle variazioni demografiche. Della modificazione degli spazi nella loro occupazione abitativa, e del tipo di sfruttamento che si fa del suolo. È cambiato, nel tempo, il concetto filosofico di uomo. L’esistenzialismo, il personalismo, la fenomenologia, hanno posto l’accento sulla sua storicità esistenziale. Gli annalisti francesi hanno empiricizzato le categorie kantiane dello spazio e del tempo. Le hanno arricchite perché le hanno riempite dell’uomo, conferendo ad esse un senso ed un valore sperimentale che il formalismo di Kant non poteva annettervi. L’ermeneutica di Gadamer ha puntualizzato come l’uomo sia, in ogni sua attività, comprensione ed interpretazione del mondo. Il pregiudizio che Bacone voleva eliminare, per purgare la mente, oggi viene ritenuto precondizione indispensabile per la precomprensione del fatto storico. L’uomo è storia delle sue esperienze attuali e pregresse. Anche quando fa scienza, sia nell’analisi che nella sintesi della ricostruzione, non può tralasciare la sua propria umanità storica, i suoi pregiudizi, la sua visione del mondo. Fare storia vuol dire interpretare il passato, comprenderlo attraverso una ricostruzione seria e puntuale dei fatti e dell’accaduto. Ma l’atto della ricostruzione è già, implicitamente, un’interpretazione come sostiene Gadamer in Verità e metodo. La mente non è tabula rasa, e la storia propone e progetta un senso ed un valore, nella conservazione della memoria storica e nel rispetto dell’alterità dell’altro, presentandosi come possibilità di interazione dialogica tra individui. Contro le tentazioni dell’onnipotenza costruttivista, la Favola delle api di de Mandeville ci mostrava, già in epoca illuminista, come fosse possibile verificare storicamente il susseguirsi di effetti imprevisti ed inintenzionali per cause intenzionali. Il caso, l’imprevisto, in storia sono la regola. L’uomo non è prevedibile come la natura. Vi è, in Gadamer, un richiamo costante all’esperienza, ritenuta il banco di prova della verità del fatto storico. In essa, tuttavia, non bisogna ricercare la conferma delle ipotesi pensate, come faceva Aristotele e come vogliono i neopositivisti. Questi ultimi, con il loro verificazionismo induttivo, falsano la sperimentazione empirica, costringendo i fatti a rispondere alle loro previsioni mentali. Popper, attraverso il realismo ed il razionalismo critico, rifiuta questa interpretazione della scienza. Per lui, come per Gadamer, l’esperienza autentica, direbbe Heidegger, è negativa, e si risolve nello smacco, mostrando la falsificabilità dell’ipotesi formulata. Cosa significa questo? Bisogna diventare scettici sotto il profilo scientifico, e ritenere che non siano possibili, per l’uomo una scienza ed una metafisica? Ovviamente, contro il nichilismo nietzschiano, la morte dei valori e lo scetticismo, si propone una visione adulta del mondo e della storia. Essa è una nuova filosofia realista, proprio perché non scettica. Ma critica, cioè consapevole della sua storicità, del fallibilismo intrinseco in ogni ipotesi scientifica o storica che sia. Vattimo nel suo scritto Il pensiero debole evidenzia come non sia possibile, oggi, pensare in senso forte alla maniera dei filosofi dell’antichità, costruendo grandi sistemi di pensiero. La debolezza propria dell’uomo contemporaneo è, ad un tempo, sintomo della sua grandezza, come soggetto della razionalità critica e storica. Bisogna, però, evitare che la storia diventi un problema di linguaggio, come accade per gli analisti, e come lascia intendere lo stesso Heidegger, il quale ritiene che l’intuizione umbratile della realtà è la sola verità possibile per l’uomo, che costruisce poi la sua metafisica nel linguaggio. È pur vero che senza lo strumento linguistico non si potrebbe dominare il mondo circostante, e che l’uomo ha bisogno di conferire all’oggettualità un nominalismo concettuale, capace di organizzare, ordinandolo, il reale. Come sostiene Ricoeur l’uomo ha bisogno di simbolizzare. Ma personalmente mi trovo a dare ragione a Popper e ad Emilio Betti, quando sostengono che l’ermeneutica non deve diventare una presunta costruzione razionale dell’oggetto nel linguaggio, attraverso il conferimento del senso e del valore. L’oggetto resta confermato nella sua realtà. Il fatto storico, come tale, esiste. Il soggetto si fa carico, consapevolmente, della sua precomprensione e della predisposizione a conoscere, intesa come apertura spirituale. Ma mentre Betti ritiene che sia possibile conoscere ed interpretare la totalità del reale, Popper propende per una conoscenza sempre parziale, limitata nel tempo e nello spazio. Il fine rimane l’uomo, nella comprensione della sua totalità olistica, inteso come la persona di cui parla Mounier, sebbene attraverso esperienze pur sempre parziali. Ricoeur, però, polemizza con la falsa coscienza che hanno costruito il materialismo storico, la volontà di potenza nietzscheana, l’io freudiano come sintesi di es e super-io. Popper aggiunge alla lista Hegel e gli idealisti, Platone che ha pietrificato la
società, immobilizzandola nella sua repubblica utopica, Socrate che si presenta come possessore della verità, Eraclito, il cui divenire è diventato necessità stocastica paragonabile all’essere di Parmenide, insieme ad ogni totalitarismo, dogmatismo, e assolutismo politico. Popper propende per una sola verità, e ritiene che lo storicismo abbia diviso l’uomo. Dilthey ha separato le scienze della natura da quelle dello spirito, creando una doppia verità. Da un lato la necessità della natura, dall’altro la libertà umana della storia. Vi è, perciò, necessità di costruire un nuovo concetto di scienza. È possibile una metafisica trascendentale, in senso kantiano. L’uomo può e deve conferire senso e valore alla sua esperienza storica e scientifica. Sia la storia che le scienze devono essere sottoposte al criterio di falsificazione. Pur riferendosi entrambe ad una realtà fattuale ed oggettuale, esse sono costruzioni razionali dell’uomo, ed in quanto tali risentono della storicità esistenziale, spaziale e temporale. Ogni teoria è scientifica perché si rappresenta una visione del mondo, ma lo studioso deve lavorare con la costante consapevolezza della sua superabilità storica. Deve accettare la possibilità della contraddizione, non intesa come mera possibilità logica, bensì come falsificabilità metodologica. La storia non è lineare, ma problematica, come sostiene Furet. Ciononostante si deve superare sia l’induzione per enumerazione, essendo la possibilità dell’esperienza potenzialmente illimitata, sia quella per eliminazione, per lo stesso motivo che falsifica l’induzione per enumerazione. Ogni ricerca muove da problemi, e procede per risoluzione di problemi, interrogando la realtà circostante e le fonti. L’osservazione del reale, che è comunque di tipo induttivo, non può prescindere da una sua inscindibile interpretazione teorica, attraverso la formulazione di ipotesi mentali, di congetture razionali, che devono essere comprovate sul piano empirico sperimentale, perché la comunità scientifica possa accettarle come consacrate teorie. Ciò non toglie che lo studioso si debba muovere con la precisa consapevolezza della validità storica della sua tesi, il che implica ad un tempo la possibilità futura di un suo superamento. Il nuovo paradigma di Storia che si intende portare all’attenzione dei giovani si basa sull’idea che il passato sia un processo problematico da ricostruire. La sua conoscenza stimola il senso critico ed educa la coscienza civica delle future generazioni, perché esse possano giungere a sapere, saper vivere con gli altri, saper essere. Questo concetto di Storia presuppone il suo insegnamento disciplinare come fondamentale per la formazione umanistica. Abbandonata l’idea di una Storia che si racconta nel suo dispiegarsi lineare e favolistico, ci si pone il problema di far comprendere ai giovani lo spessore culturale della tradizione orale e scritta, e l’importanza ed il peso che le fonti assumono, nell’ambito di tale ricostruzione. Perché, così come per la Filosofia, l’obiettivo principale che la scuola intende raggiungere, con l’insegnamento della Storia, lungi dall’essere un sapere mnemonico dei fatti, è la formazione e la maturazione delle coscienze. I giovani devono sì possedere la cognizione materiale degli avvenimenti, ma soprattutto devono saper discernere dalla narrazione i fondamenti concettuali, come strutture portanti del pensiero critico attraverso cui si snodano i fatti. E padroneggiare al contempo nozioni basilari di metodologia della ricerca storica, per essere in grado di ripercorrere mentalmente il cammino di indagine dello
studioso, e poter leggere i contenuti con acutezza e spirito di riflessione. La ricostruzione del processo storico non può prescindere dalla raccolta dei dati disponibili. Essa si esplica attraverso la catalogazione seriale e la sistemazione statistica degli elementi utili, ai fini della interpretazione degli accadimenti in chiave ermeneutica. Il che comporta una lettura ed un’analisi delle fonti in termini sintattici e semantici, per il loro significato letterale, e la loro collocazione contestuale. Una significazione del dato storico, quindi, compreso alla luce del suo proprio senso intrinseco, e al contempo collocato nel contesto di riferimento euristico precedente, oltre che in quello di inserimento logico e sequenziale successivo. Questa interpretazione è data dallo storico in dipendenza dell’uso che fa dei documenti. Perché la storia non sia solo un’interpretazione antiquaria delle “reliquie” del passato, né un’esposizione monumentale dei modelli della realtà, ma affinché diventi osservazione critica dei fatti accaduti, essa deve avere come suo imprescindibile presupposto la lettura delle fonti. Le fonti storiche a disposizione si distinguono in primarie e secondarie. Primarie sono tutte le testimonianze dirette di un avvenimento. Secondarie sono le fonti interpolate, e comunque manomesse in precedenza dal narratore. Anche il tempo è un selettore delle fonti storiche, poiché determina l’usura o lo smarrimento dei documenti. Gli storici poi apportano ad essi un ulteriore taglio, scegliendone alcuni e scartandone altri, ai fini della loro collocazione contestuale. Lo studioso rinviene le fonti in tutti i documenti scritti, nella tradizione orale dei popoli, ed in tutte le testimonianze monumentali e paesaggistiche che possono raccontare qualcosa del passato e degli uomini che hanno occupato quei siti. La sintassi letterale del documento è primo ed imprescindibile compito dello storico, ma per una ricostruzione seria del
passato è altrettanto indispensabile conoscere i luoghi che hanno visto nascere quei segni dell’umanità. Ogni espressione dell’uomo non può essere scissa dal suo ambito di gestazione. La cultura è una sovrastruttura. Essa rappresenta il tentativo dell’umanità di tenere a freno le forze selvagge ed incontrollate della natura. Di porre ordine e sistematizzare. Il segno dell’uomo ha un referente nel suo luogo di nascita, ed in quel luogo va collocato per comprendere il suo più intimo
significato. La scrittura è un mezzo di comunicazione che deve essere integrato da altre forme espressive. Esistono i segni verbali, non verbali e scritti. Ma vi sono anche i simboli, come l’insieme di tutte le edificazioni monumentali, e le divisioni territoriali, con cui i popoli, per abitare uno spazio geografico, hanno scritto la loro storia. Lo studioso deve essere capace di ritrovare ed interpretare le fonti materiali del passato, ma altresì deve essere abile nel saper convertire in fonte ogni indizio territoriale che gli parli di un popolo. L’uomo, difatti, è storia perché vive in un tempo preciso e determinato, ma questa esistenza, proprio perché temporale, si estrinseca in uno spazio geografico, che finisce per parlare il linguaggio del popolo che lo occupa, facendolo divenire suo proprio e circoscritto territorio. Bisogna, pertanto rivalutare il rapporto della fonte con il suo luogo di ritrovamento. Ed al contempo, soprattutto nelle scuole secondarie superiori, testimoniare l’importanza del territorio, come spazio geografico, per conferire ad ogni avvenimento storico un preciso valore contestuale. Far comprendere ai giovani che se un determinato fatto si è svolto con modalità tipiche, ciò è dovuto anche al suo dispiegarsi in quello specifico ambiente, oltre che al suo svolgersi in quel preciso momento. Coinvolgendo in prima persona i discenti nel percorso di ricerca, e muovendo dal manuale solo per apprendere la basilare cronologia degli eventi e lo svolgimento dei fatti accaduti. La capacità del docente si rivela sostanzialmente nel saper instillare negli animi dei giovani le motivazioni a procedere in modo autonomo, ponendosi domande e azzardando risposte plausibili per ogni ipotesi formulata. Insomma, creando quelle motivazioni che inducono l’interesse critico per la materia scolastica. La Storia dell’umanità comincia dal graffito che un antropoide ha scalfito su una roccia. Ma quel segno è il primo tentativo dell’uomo di assoggettare e modificare uno spazio territoriale, dopo averlo occupato. Ogni ambiente finisce per parlare del popolo che lo abita, perché l’uomo comincia a fare Storia nel momento in cui comincia
a comunicare, a parlare di sé, e a far parlare di sé le cose e gli spazi che lo circondano. La Storia nasce da un’impronta che l’uomo lascia sulla pietra, consegnandola al tempo ed ai posteri. Un segno sulla parete rocciosa, attraverso il quale il primitivo si offre, proponendosi ai suoi figli con tutta l’angoscia dell’ignoto, la disperazione della morte e la paura del limite. Un’orma che grida per affermare l’esistenza, che graffia per superare il dolore della sua fatuità. Si comprende, così, se ci si vuole riappropriare fino in fondo delle autentiche radici culturali, il valore didattico della storia locale. Il discente, aiutato dall’insegnante, deve imparare a conoscerla e a ricostruirla. Il metodo privilegiato è quello delle esercitazioni scolastiche, di laboratorio, attraverso la ricerca sistematica
delle fonti, la loro selezione e catalogazione seriale, la lettura statistica dei dati risultanti. Infine la riflessione e la conclusione critica, individuale o di gruppo, che inducono a supportare un’ipotesi interpretativa. Questo modo di insegnare la Storia, avvicina la materia alle esigenze pratiche di comprensione del territorio in cui il giovane vive, rendendola meno astrusa e distante dai suoi più immediati interessi. La didattica così impostata prevede l’uso delle più avanzate tecnologie, dalla fotografia, al documentario, alla mappa concettuale, all’ipertesto. Ogni avvenimento resta inserito
in un contesto spaziale e concettuale, che gli conferisce un senso più completo e globale. Il giovane può così collocare le sue conoscenze in una rete di informazioni, aventi significato multi ed interdisciplinare. Ciò comporta e garantisce, a livello didattico, l’implementazione dell’esperienza culturale e valoriale, facilitando, sia per l’insegnante che per l’allievo, il feedback e la retroazione, nel percorso formativo. In accordo a questo metodo si allineano le indicazioni dei Programmi Brocca. Il manuale, che per anni è stato ritenuto la fonte privilegiata di insegnamento della materia, viene ad assumere una valenza strumentale. Esso fornisce lo spunto ad approfondire i contenuti di partenza, dai quali deve prendere le mosse il lavoro di ricerca vero e proprio. La conoscenza critica della propria realtà locale, dal punto di vista storico e sociale, favorisce nel giovane la formazione di un atteggiamento di curiosità riguardo al passato, con l’intento di rapportarlo al suo presente. Al contempo produce il rispetto delle diversità culturali, la tolleranza dell’alterità dell’altro, chiunque esso sia, e contribuisce alla formazione di una cultura umanistica in senso lato, poiché stimola il desiderio di confronto eclettico con le altrui esperienze. Il sapersi rapportare all’altro, mettendosi in discussione, il ritrovarsi nell’altro attraverso il dialogo, che ricompone le differenze nella comune umanità, è il fine morale che la Storia, come disciplina scolastica, si propone di perseguire. Il presupposto teorico di siffatto obiettivo didattico è nel binomio uomo-natura, direttamente proporzionale a quello tempo-spazio. Di queste categorie ideali ne rappresenta l’attuazione concreta, nel fluire della vita. Il tempo interiore umanizzato nella durata diviene quello naturalizzato degli istanti scanditi nello spazio, allorché l’uomo uscendo da sé, deve misurare la sua continuità psichica con la frammentazione del territorio esterno. E così come l’uomo finisce per dominare la natura, allo stesso modo il tempo modifica gli spazi, costringendoli a parlare di lui. L’altro è perciò la sua storia perché vive il suo tempo, ed è la sua natura perché per vivere il suo tempo deve modificare il suo spazio. E lo si ritrova nel suo tempo solo quando si può
comprendere come ha assoggettato il suo spazio. La Storia così intesa rappresenta sia il fluire che l’avvicendarsi problematico del pensiero. Questo pensiero che muove le masse e determina gli orientamenti di un popolo si estrinseca nella sua azione sul territorio. Il suo inarrestabile ed inafferrabile corso, si è d’un tratto cristallizzato. E immobilizzato in forme che lo hanno reso immortale ed eterno, si è fatto interprete della tensione umana verso l’assoluto, costringendola a dare delle risposte esaurienti, sebbene non definitive. L’uomo e la sua storia hanno un senso ed un valore. Questo senso e questo valore devono essere riscoperti, e ritrovati. Umanizzando le scienze, contro ogni pretesa assolutizzante degli scientisti, così come degli analisti. La tecnica ed il linguaggio sono mezzi, e non possono e non devono diventare fini. Qual è il futuro della storia, e della sua didattica, allora? Mi piace intenderlo come presentazione ai giovani dei fatti, attraverso le loro molteplici interpretazioni storiografiche, mostrandole come sintesi di un lavoro interdisciplinare.
Educare al senso della storia, a partire da quella della propria individualità, fino alla storia familiare, scolastica e sociale in senso lato. Sviluppare un rapporto costante con la memoria e la tradizione, a partire dalla famiglia, come prima forma di socializzazione. Per poter poi proporre la storia come ricerca sul campo, muovendo dalla ricostruzione di piccoli aspetti della storia locale, e rimaneggiando le fonti, per azzardare interpretazioni. Utilizzare le moderne tecnologie informatiche, il computer ed internet, per ricerche individuali e di gruppo, e per rendere il lavoro sistematico. Proporre il concetto di eredità culturale della storia, per sostituirlo a quello di causalità.
Difatti, oggi interessante e vivace è il dibattito sulla ereditarietà storica o sulla pura causalità dei fatti più significativi che regolano la vita del nostro tempo. Il problema che attualmente affligge gli studiosi, nel momento in cui si accingono ad esaminare le paure dell’Occidente, riguarda l’uso indiscriminato delle moderne tecnologie. Il Medioevo è stato caratterizzato dal timore delle guerre,
delle carestie e delle pestilenze, quasi fossero un presagio della fine del mondo e del castigo che Dio infliggeva agli uomini. L’Occidente teme oggi una catastrofe ambientale. Il Medioevo, storicamente tormentato dalle invasioni barbariche, e filosoficamente oscurato dalla confusione del paradigma gnoseologico con quello metafisico, viveva nella asfittica chiusura della cultura monastica e della economia curtense. Nel timore di aprirsi all’ignoto, di varcare le Colonne d’Ercole della conoscenza e di commettere il peccato di superbia contro Dio creatore, riteneva la Bibbia libro di scienza oltre che di fede, accettando senza discernimento critico la sua autorità. La società post-industriale ha confuso tra loro il paradigma scientifico e quello tecnologico. La ragione è asservita alla tecnica, al solo fine di ricavarne vantaggi economici e politici. La cultura è stata massificata e resa schiava dei regimi e delle mode. Nel Medioevo la cultura della Chiesa impediva alla Scienza di progredire, sciolta dai vincoli dogmatici, sul suo cammino verso l’emancipazione dell’umana ragione. Oggi la totale assenza di valori e di punti di riferimento basilari, fa della Scienza una tecnica arida e distante dall’uomo, in quanto portatore di valori spirituali, perché incapace di interpretarlo come suo soggetto. La Scienza ha un suo senso specifico nel servire l’umanità. Non è pensabile una ricerca che sia fine a se stessa. Dovendo assolvere a questo suo nobile compito, ponendosi al servizio dell’uomo, essa non può misconoscere i valori morali ed etici
che la rendono, per questo, finalizzata al progresso della vera razionalità. Una razionalità che tenga in conto la globalità dell’uomo, radicata nella natura degli istinti, e nobilitata nella sovrastruttura del pensiero, che si fa cultura. Dal passato, il presente ha ereditato la mancanza di vera libertà intellettuale e scientifica. Assistiamo, oggi, all’illusione di una ragione libera da vincoli
dogmatici. In realtà, se prima essa era asservita al potere della Chiesa secolarizzata, oggi si presenta inaridita dalla tecnologia capitalistica, usata come è a fini politici. Una ragione davvero libera è, purtroppo, tuttora un’utopia. Essa deve ancora essere liberata. Ma la sua emancipazione non può che passare per l’uomo. Solo una rivalutazione dell’umanesimo integrale, delle filosofie personalistiche, basate sul riconoscimento dell’altro, del tu dialogico, dell’alterità olistica, può concretamente “liberare” la ragione. Una ragione libera deve assumersi la propria responsabilità nei confronti della natura, che deve poter dominare senza distruggere. Deve tenere presente l’uomo come fine della sua ricerca, e capire che preservare l’equilibrio ecologico equivale a proteggere anche l’uomo e le specie animali. Deve rivalutare l’arte come espressione della vita. La dimensione psichica come elemento della spiritualità. I valori come punti di riferimento per la Scienza. L’etica come salvaguardia critica per le tecniche ed il loro uso. In una parola, per liberare la ragione bisogna umanizzare la Scienza, assecondando quella ricerca del senso cui già Husserl
faceva riferimento nella Crisi delle scienze europee. Tra gli anni ’50 e gli anni ’60, si assiste al boom economico, industriale e demografico del dopo guerra, che incrementa gli agi e la condizione di benessere, inducendo la errata convinzione che la felicità possa essere acquistata al supermercato. Se si tiene conto che questo fenomeno segue alla povertà e agli stenti dovuti al collasso economico del periodo bellico, è anche comprensibile come ciò sia potuto verificarsi agevolmente. Il mito americano del facile consumo, si è poi radicato per imitazione, passando oltre i beni di prima necessità, portando la gente a credere che anche il potere e il successo, si possano
apprendere e trasmettere come un’arte. Sicché vivere diventa un produrre velocemente per consumare in fretta. E la velocità diventa il mito di ogni forma della ragione. C’è la velocità della produzione, quella del consumo, quella del pensiero, e quella delle macchine. E la velocità diventa superficialità, a scapito della profondità. Ovviamente, la ricchezza concentrata nelle mani di pochi
detentori del potere determina l’implementarsi delle aree di povertà e di emarginazione, sia economica che culturale. Il ‘68, con le sue lotte studentesche ed operaie, mira a ristabilire proprio quest’ordine e questo equilibrio, che sono stati infranti. È il pensiero divergente che irrompe nella Storia, contro l’ordine precostituito ed apparente dei regimi di potere. Così, gli anni ’70 saranno caratterizzati dalla cultura di massa, dove tutto viene omologato. E se da un lato anche la cultura si fa merce massificandosi, dall’altro emergono i gruppi settari dei Figli dei fiori, degli Indiani metropolitani, insieme a nuove filosofie, che inneggiano allo spirito di libertà individuale. E mentre la cultura si globalizza e si specializza alle culture e l’economia si apre all’Europa, comincia a manifestarsi il bisogno di emergere, tipico dell’individualismo. Difatti, quanto più ci si confronta con gli altri, attraverso un dialogo economico, politico e culturale aperto, tanto più si ritorna ad implementare la propria personalità e ad esaltare la propria tradizione locale. La libertà dai vincoli dogmatici, prima imposti dalla Chiesa, porta, negli anni ’80, a ritenere che non esista una verità assoluta, sia in ambito morale, sia in ambito scientifico. Viviamo perciò, oggi, in un’epoca dominata dal relativismo nichilistico, dalle filosofie esistenziali, che convergono attorno al pensiero debole, in una costante incertezza, priva di riferimenti validi, alla ricerca, come Peter Pan, dell’isola felice. Abbiamo ereditato dal passato l’illusione della ragione, troppo vincolata ed asfittica quella del Medioevo, troppo anarchica ed amorale la nostra. La ragione non può asservirsi alle verità di fede, perché queste sono intuitive, laddove quella, nel suo procedere per inferenze deduttive, è coerente con gli assunti del processo logico, e si rimette alla teoria della dimostrazione matematica. Non può asservirsi alla tecnica, in quanto strumento materiale, essendo essa il fine. Non può essere strumento del capitale, perché essa non è merce, e non si vende. Non deve corrompersi al servizio del potere politico, perché essa rifugge i lacci del servilismo, rappresentando, nella sua forma pura, la massima espressione di libertà dello spirito. Urge, oggi, una nuova ragione, sia filosofica che storica. La valorizzazione della totalità e della globalità dell’uomo, muovono dal recupero del suo tempo storico come categoria ereditaria, come patrimonio di cui riappropriarsi. Ma se importa il riafferrare il tempo come eredità del passato, bisogna al pari rafforzare le identità territoriali, poiché la storia mondiale si produce a partire da quella locale. La coscienza dell’appartenenza al territorio diventa appropriazione dell’identità culturale, ed al contempo vivo senso di partecipazione alla propria cittadinanza. Il passato è, perciò, eredità culturale e valoriale, di cui riappropriarsi, attraverso la categoria del tempo storico, a partire da quella dello spazio territoriale nel quale si vive. Muovendo, cioè, dalla conoscenza consapevole delle dinamiche della storia locale. Ovviamente questo discorso va affrontato con serietà e competenza, sia metodologica e didattica, che contenutistica, nelle aule scolastiche. Perché la Storia divenga una disciplina a forte spessore educativo, ed acquisisca la dignità di sapere per categorie concettuali, in grado di modificare il pensiero, nel suo porsi a contatto con la realtà. Ma è possibile, oggi, il presente come storia? Dalla tesi di Alberto De Bernardi, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna, che si occupa di problemi riguardanti la didattica, si evince che la preoccupazione maggiore degli studiosi riguarda, oggi, il modo di fare storia sugli argomenti della nostra contemporaneità. La questione tocca in particolare il millennio che si è ormai chiuso. Terminando il ventesimo, comincia il ventunesimo secolo. Dunque è legittimo che gli storici si occupino del Novecento come categoria
storiografica. Ma è complesso guardare al presente con il distacco necessario a garantire una qualche pur minima presunzione di veridicità. La storia si distingue dalla cronaca, perché mentre quest’ultima è pura narrazione dei fatti accaduti nel tempo della contemporaneità, essa è, invece, memoria degli accadimenti del passato, lontani dallo sguardo dello studioso, sia nel tempo che nello spazio. Il presente, come categoria temporale, meglio si presta ad un’analisi cronachistica di tipo descrittivo. Manca, difatti, la giusta distanza temporale, per permettere all’osservatore di sedimentare le rilevanze morfologiche che lo caratterizzano. L’insegnante di storia, infatti, suole presentare gli argomenti attraverso una sistematica strutturazione in blocchi logici significativi. A questo approccio didattico ben si prestano le metodologie modulari. Esse, smontando la disciplina nelle sue componenti logico-sintattiche, oltre che significativo-semantiche, consentono al docente di progettare percorsi programmati attraverso unità, assolutamente indipendenti tra loro, sebbene
sequenzialmente collegate. Ogni unità, in quanto blocco significativo, esprime una rilevanza, cioè una tappa necessaria allo svolgimento della programmazione nel suo complesso, costituendo un’area di sviluppo potenziale che l’allievo può raggiungere, attraverso l’istruzione in quel compito preciso, per l’acquisizione dell’abilità prevista come obiettivo. Ovviamente l’abilità pragmatica matura anche attraverso l’acquisizione di capacità critiche del pensiero, che consentano al giovane di muoversi con destrezza nella realtà sua propria, utilizzando categorie interpretative, tipiche della lettura storiografica che ha esaminato nei suoi percorsi formativi. L’insegnamento della storia ha, difatti, come sua precipua e diretta finalità, quella di promuovere lo sviluppo del pensiero critico, e la formazione di abilità sociali, oltre che di una coscienza civica che sia davvero libera, consapevole e matura. L’attuale didattica della storia suole sottolineare il valore di queste unità tematico-morfologiche, che esplicitano le rilevanze della disciplina predilette dal docente per la costituzione dei percorsi strutturali. Difatti, non si impartiscono informazioni, ma si tracciano percorsi progettuali di ricerca. La lezione è un cammino finalizzato all’apprendimento significativo
per scoperta. Per insegnare storia, bisogna saper fare storia. L’argomento che si intende affrontare deve essere individuato proprio attraverso queste cosiddette rilevanze, che si evincono dall’insieme dei fatti più significativi, che caratterizzano un’epoca, e che contribuiscono a sistematizzare la sua categorizzazione concettuale e sostanziale. Grazie a questo metodo di presentazione didattica, diventa facile determinare le pregnanze fondamentali di un periodo storico, definendole, come abitualmente si fa, con pochi termini essenziali. Queste rilevanze storiche che il docente propone ai giovani, per disegnare un percorso facilmente accessibile, che sia alla portata di tutti, costituiscono la morfologia strutturale della disciplina, cioè la sua fondazione epistemica. La storia è, infatti, scienza, perché la ricerca viene affrontata con tutti i metodi propri della investigazione, classificazione, selezione e categorizzazione delle fonti siano esse primarie
o secondarie. Ma quanto più ci si avvicina alla contemporaneità, tanto più l’osservazione scientifica assume i connotati propri di una ricerca sociale, che utilizza i metodi delle scienze umane in senso lato, per appropriarsi di quelle memorie che costituiscono parte integrante della propria continuità culturale, territoriale e locale, fino ad assumere la portata di un recupero delle personali radici familiari. E qui rientra il discorso dell’educazione al senso storico, che travalica di gran lunga il valore della singola lezione fatta nell’aula scolastica, perché abbraccia l’intero uomo nella sua significatività sostanziale di tempo e di spazio. Il problema che pone una ricostruzione storiografica che sia molto vicina, appunto, nel tempo e nello spazio, riguarda proprio il concetto di distanza mentale dai fatti che si vogliono rappresentare. Lo spessore culturale della storia non viene messo in discussione, ma gli accadimenti devono decantare. Lo storico deve poter praticare da essi il distacco teoretico. Perché le categorie concettuali vanno sedimentate. Deve cioè costruirsi, attorno ad una specifica interpretazione storica, la sua coscienza collettiva. Che equivale a pretendere, per ogni tesi, che questa venga accreditata dalla comunità scientifica, per poter essere adottata come criterio comprovato e valido di interpretazione storiografica. È proprio questa sedimentazione che viene a mancare quando un concetto non decanta nel tempo. La notevole mole numerica, e la varietà polimorfa delle fonti, che ci offre la contemporaneità, prospetta l’ulteriore problema legato alla loro conoscenza e selezione. È più semplice disporre di una fonte già accreditata, piuttosto che andarne alla ricerca. Purtuttavia, è proprio questo il compito più arduo cui deve sottoporsi la professionalità docente, se si vuole tracciare un percorso significativo che abbracci la post-modernità. I giovani, infatti, si sentono più coinvolti se vengono motivati allo studio di questioni attuali. Senza voler, con ciò, sminuire la portata epistemica degli eventi del passato. Si deve ricordare che la memoria delle esperienze pregresse costituisce un ottimo filtro interpretativo, e una chiave di lettura sempre valida per il presente. Quelle rilevanze che vanno oggi modificandosi, rispetto al passato, riguardano la gestione del potere e dei nazionalismi. Il nostro mondo non è privo di contraddizioni. Mentre procede, per un verso, alla globalizzazione che si attua con l’abbattimento delle frontiere doganali e l’unificazione monetaria, commerciale, linguistica e culturale, va poi intensificando il decentramento fiscale ed amministrativo, a livello regionale, nell’ambito delle nazioni. Incentivando l’iniziativa privata e la politica dei capitali e del consumo. L’accentramento dei poteri nazionali va sempre più scomparendo, mentre nell’accettazione tollerante e pacifica delle alterità e delle diversità culturali, si vanno strutturando le identità ideologiche e riemergono le idealità nazionali. Ma la difesa dell’appartenenza culturale allo spirito di una nazione, unitamente alla orgogliosa consapevolezza della propria origine in una ben nota territorialità, non si fanno spregio dell’accettazione del diverso. Le discriminazioni razziali, culturali ed economico-sociali, non hanno più alcun senso. Scomparendo il legame con la territorialità immediatamente percepibile, la distanza si è abbreviata a scapito della scomparsa fisica della realtà. Ciascuno, oggi, possiede le stesse identiche potenzialità, navigando sulla rete. È come avere in pugno il mondo. Un mondo dove, distrutte le gerarchie monocentriche, ogni punto della rete resta immediatamente collegato con altri infiniti punti del globo. Dove ogni nuovo nodo sequenziale può rappresentare il vertice di una differente gerarchia, per diventarne poi, a sua volta, la base. Ma annullando le distanze spaziali, l’uomo rischia di compromettere seriamente il rapporto con la sua corporeità, e con quella dell’altro. La velocità, insomma, a scapito della profondità. Una miriade di stimoli virtuali, di informazioni sempre nuove in viaggio nella rete mondiale, smarriscono all’uomo il senso della sua esistenza e del rapporto con i suoi simili. Qui andrebbe affrontato il discorso dell’uso razionale e ragionato delle tecnologie. Apparentemente liberi, gli uomini potrebbero trovarsi minacciati da nemici virtuali, potentissimi, perché capaci di sconvolgere le coscienze e di strumentalizzarle. Il capitalismo del Novecento ha prodotto merci materiali e macchine di ausilio al lavoro dell’uomo. Esso ha rappresentato l’espressione più forte del taylorismo e del fordismo. Il Socialismo ha lottato contro l’alienazione del lavoro e la mercificazione strumentale. Oggi il pericolo è quello di un’alienazione delle coscienze. La civiltà della globalizzazione produce idee. Sotto questo aspetto potrebbe apparire come la più intellettuale delle società. Fino a quando le ideologie di chi lavora e ricerca metodicamente non verranno strumentalizzate dagli organi di potere, per ottenere il consenso, o finalizzate al mercato ed alla rapida e costante riconversione industriale. Viene da chiedersi, con terrore, se oggi ci siano ancora veri intellettuali, disposti a morire per le proprie idee. Penso, piuttosto, che a tener gonfio il portafogli importi molto a tutti. Anche a scapito della propria coscienza. Il prossimo Hitler potrebbe
essere un terrorista informatico, un pirata, esperto programmatore di computer. La sua guerra sarebbe la più subdola che esista. Ci vincerebbe tutti con un lavaggio del cervello, modificando le strutture gerarchiche del world-wide-web. Riconvertendo la produzione. Come a dire, pulendo il mondo a colpi di mouse. Altro che verdi!
BIBLIOGRAFIA
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Alberto De Bernardi, relazione universitaria “Il presente come storia”
IL BISOGNO DI FILOSOFIA
Dal volume TEORESI E PRASSI DELLE SCIENZE UMANE
di Antonietta Pistone
Edito da Bastogi, editrice italiana nel mese di marzo 2009
Nel mondo contemporaneo, dominato dalla tecnologia informatica e dalla velocità, insegnare ai giovani una disciplina come la Filosofia presenta notevoli problemi, posti dalla necessità di giustificare l’utilità pratica di tale apprendimento. Sempre più spesso, difatti, il docente è costretto a dover fornire agli allievi spiegazioni chiare e concise circa il valore ed il senso della Filosofia. Comunemente si crede che la speculazione verbale, così come le elucubrazioni mentali, siano assai poco significative per la quotidianità. Risulterebbe certamente più vantaggioso conoscere nozioni di economia, piuttosto che vagheggiare attorno a problemi di ordine metafisico o morale.
Eppure, quanto più se ne parla, anche a livello di statuto epistemologico e di competenze in grado di trasmettere, tanto più la Filosofia trova spazio nelle scuole secondarie superiori. La stessa riforma Moratti, estendendo a tutti gli indirizzi di studio l’impostazione gentiliana[i] , prevedeva la sua introduzione nei licei tecnologici[ii]. Si è finalmente compreso che una scuola che intenda formare[iii]
deve saper adoperare tutti gli attrezzi culturali necessari allo scopo. Ed è consolante, sebbene attraverso tante contraddizioni, apprendere che anche i Ministri della Pubblica Istruzione abbiano capito quanto bisogno ci sia di Filosofia nel mondo del lavoro, e nella società in generale. L’uomo incapace di riflettere è solo un vuoto simulacro senza anima né intelletto. L’abilità di sentire l’appartenenza al genere umano si estrinseca tutta nell’attitudine a partecipare alle emozioni degli altri, esercitando il valore prezioso della condivisione fraterna che lega l’umanità intera. Il senso della Storia, percepito come memoria propria di ciascun individuo, e cammino intrapreso nel tempo da tutti i popoli del presente e del passato, si accompagna alla consapevolezza di essere parte integrante di una comunità sociale e civile, cronologicamente anteriore all’idea di stato. Se i docenti di Filosofia riuscissero a trasmettere ai giovani la consapevolezza che attraverso lo studio e l’approfondimento di questa disciplina essi potranno finalmente giungere al possesso di se stessi, avrebbero già fatto molta strada nel ribadire il ruolo e il fondamento del loro insegnamento scolastico. Per tradizione ormai consolidata, si sa che l’esercizio della scienza filosofica si esplica essenzialmente attraverso l’attività del pensiero speculativo attorno ai massimi problemi dell’uomo.
E, parimenti, si sa che l’uomo contemporaneo ha problemi differenti da quello che viveva nelle colonie greche dell’Asia Minore, culla delle prime ricerche metafisiche intorno all’arché originario. Attualmente la disquisizione attorno al fondamento ontologico del reale è argomento caduto in disuso. La sua desuetudine è imputabile all’interesse rivolto con sempre maggiore preoccupazione all’uomo come tale. La filosofia che ha dominato recentemente è proprio l’esistenzialismo, perché
interpreta la presenza storica dell’umanità come processuale dipanarsi del segmento esistenziale che si esplica tra la nascita e la morte. La precarietà del percorso che tutti chiamano vita è oggetto di problematiche legate alle questioni educative e formative, al sentire religioso, all’attività politica, alle relazioni umane intersoggettive. Nulla di più distante dal quesito metafisico sul fondamento ontologico originario. Molti hanno chiamato questa ragione contemporanea, che manca dell’impalcatura solida delle grandi sintesi razionali, pensiero debole. Quasi a voler intendere che la Filosofia abbia smarrito, ormai, i suoi oggetti speculativi forti, destinati a trovare risoluzione in ben altri ambiti scientifici, per divenire l’anticamera della riflessione salottiera e pigra. Come recuperare, allora, il senso forte della ricerca ontologica in Filosofia diventa problema fondamentale per giustificare lo statuto epistemologico di una scienza educativa di primo piano e valore. Il suo ruolo, accanto alle altre discipline scolastiche, deve essere riscoperto nella sua integrità, per conferire all’esercizio filosofico del pensiero dignità propria e statura metodologico-didattica. La Filosofia, difatti, vanta rispetto alle altre discipline la capacità di comprendere l’uomo nella sua totalità di persona, cioè di unità inscindibile di corpo e anima. Per questa sua specificità costituzionale, che gli insegnanti hanno l’obbligo di conoscere e di esercitare con professionalità,
essa assume un ruolo principe tra le materie scolastiche impartite agli allievi. La Filosofia possiede, difatti, anche qualcosa in più, che va molto oltre il contenuto disciplinare e problematico argomentativo. Prevedendo, accanto alla dissertazione tematica, la riflessione sui metodi di apprendimento, e divenendo essa stessa strumento didattico e tecnica empirica. Ed in quanto tale metafilosofia. Che si parli di Filosofia in quanto scienza teoretica, o di metafilosofia in quanto riflessione sistematica sui principi pedagogico didattici concernenti le modalità pratiche del suo insegnamento, la speculazione ruota sempre attorno ad un unico oggetto di osservazione e di approfondimento: l’uomo. La sua realtà problematica rappresenta il divenire della filosofia nelle varie forme specialistiche: filosofia politica, etica e morale, gnoseologia, pedagogia, metafisica ed epistemologia. Recuperare, perciò, una teoresi ontologicamente fondata per un pensiero che possa dirsi a buon diritto “forte”, potrebbe, dunque, voler dire riappropriarsi fino in fondo dell’oggetto della Filosofia. La riscoperta della persona umana, nel suo valore integrale, posta al centro di qualsivoglia tipo di approfondimento teoretico filosofico, si rivela sempre più la strada giusta da percorrere, sia a livello contenutistico disciplinare, sia, soprattutto, per quanto riguarda il discorso sulla metodologia didattica e le strategie utilizzabili dal docente. Provando ai giovani allievi dei corsi di Filosofia il peso teoretico, ma anche l’importanza pragmatica di un siffatto approccio alla disciplina, si andrebbe anche a dimostrare il valore concretamente umano dell’indagine filosofica, sfatando il mito dell’inutilità della speculazione, intesa come riflessione approfondita sulle problematiche di fondamento e di senso. Le sole che possono conferire significato vero alla comune universale avventura di esistere.
DAL MITO AL LOGOS
Le origini del pensiero filosofico si intravedono nella curiosità dell’uomo di fronte al mondo naturale, presente come mistero inspiegabile alla ragione. Aristotele sostiene che la filosofia, come ogni forma di speculazione critica sul reale, muova dalla meraviglia. «Colui che dubita e ammira sa di ignorare; perciò il filosofo è anche amatore del mito: il mito consiste infatti di cose mirabili»[iv]. Curiosità e meraviglia, dunque sono le motivazioni iniziali e le prime spinte che inducono l’uomo a
porsi gli interrogativi fondamentali circa la propria esistenza. Le classiche domande Chi siamo, da dove veniamo, verso cosa ci muoviamo, dove stiamo andando. Lo stupore primigenio e il sublime sguardo che illumina gli occhi, induce la problematizzazione dell’essere al mondo, e porta alla domanda sul senso e sul valore della presenza individuale, così come di quella universale. Negli Eroici furori[v] Bruno, per giustificare la sete di sapere e la ricerca metafisica, così fa dire a Tansillo: «… Essendo l’intelletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezione commensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là; perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni genio de intelligibile ed appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intelletto l’eminenza del fonte delle idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e … compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore … Sempre vede che quel tutto che possiede, è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente absoluto… ma bello per partecipazione…». Ed è metafisica la domanda imprescindibile ed ineludibile di ogni riflessione razionale. «Perché l’essere e non piuttosto il nulla?» si chiedeva Leibniz affrontando il problema di conferire un senso finalistico alla realtà, nel tentativo di superare la visione meccanicistica del mondo a lui contemporanea. Interpretando logicamente il quesito leibniziano, si può rispondere a questo interrogativo soltanto attraverso l’ammissione dell’esistenza dei contrari e della contraddizione. Vi è l’essere e vi è il nulla. E vi è l’essere proprio perché vi è il nulla. Esistono entrambi, non potendosi pensare un essere come assoluto perfettivo, senza il nulla, come suo corrispettivo assoluto privativo. Varcando i confini del lecito Cusano e Bruno ritenevano l’infinito come la somma dell’essere e del suo opposto, che è il nulla. Se si pensa poi ad un universo creato da Dio, allora si deve anche supporre un cosmo immenso, i cui confini, sebbene tuttora ignoti e sconosciuti, sono senz’altro finiti. Infatti, se il mondo fosse infinito coinciderebbe con Dio, che è appunto infinito. E paradossalmente si giungerebbe ad una forma atea di panteismo e monismo di tipo spinoziano, che non è possibile accettare né presupporre. Agli albori la filosofia si è posta gli interrogativi metafisici sulla natura, e non potendola spiegare con la certezza della scienza, l’ha immaginata attraverso il mito. Tuttavia, la pretesa di risalire alle cause prime della realtà, la curiosità del suo porsi problematicamente nella dimensione della scoperta di fronte alle situazioni della vita, hanno da sempre contrassegnato la ricerca filosofica come una forma di speculazione metafisica. Non volendo attribuire a questo aggettivo alcuna pretesa di ordine teologico. Piuttosto conferendo al termine una valore teleologico e finalistico, quasi fosse un’attribuzione di senso. Lo stesso Bruno vede come impossibile il pieno possesso della verità assoluta per l’uomo. E la ricerca, iniziata con l’ardore passionale dell’amante, si conclude, dopo tanto furore, nella identica visione indistinta con cui era cominciata, perché Atteone diventa cieco alla vista del sole metafisico e potrà, da allora in poi, percepire soltanto ombre. D’altra parte, la filosofia nasce come desiderio e spinta istintuale verso la conoscenza del bene e del male. Se l’uomo avesse da principio saputo tutto non avrebbe cercato nulla. Persino il peccato originale viene spiegato come l’allontanamento dalla casa del Padre perché, pur avendo gratuitamente ogni dono, l’uomo cerca un senso alla propria individuale esistenza. Alla metafisica va riconosciuto il significato di un’intuizione primordiale, quasi preconscia, anteriore a qualsivoglia sistematica e razionale rappresentazione del pensiero. Come se agli albori della speculazione filosofica si potesse trovare la magia dell’Umanesimo rinascimentale, delle tradizioni ermetiche e magiche. Dello sguardo commosso e poetico. Del lirismo sentimentale da cui principia ogni innamoramento e ogni sentimento, risvegliandosi nella sua dolcezza. Come un primo sguardo incerto sul mondo quando al mattino le immagini si confondono ancora nella visione offuscata e sonnolenta dell’umbratile chiaroscuro. Dove le rimembranze del sonno e dei sogni si confondono, mescolandosi con i raggi luminosi del sole, che nella sua limpida luce riconduce pian piano alla realtà. Che il cammino filosofico sia stato pressappoco questo è intuibile. Resta difficile, però, stabilire se l’uomo contemporaneo abbia raggiunto una verità soddisfacente, stabile fonte di certezza. O non appaia piuttosto ancora più disorientato di prima, quando si rappresentava il reale in forma mitica. Muovendo dallo sguardo sognante del pensiero, fino alle grandi sintesi razionali della filosofia classica, sembra che l’umanità abbia raggiunto l’equilibrio della ragione. Platone, che pure usa fare costanti riferimenti al mito, comincia la sua esperienza filosofica per ragioni politiche.
Già i Sofisti e Socrate avevano abbandonato l’indagine metafisica per dedicare le personali energie alla comprensione dell’uomo. Ma l’intellettualismo socratico contamina l’intera speculazione classica, fino ad Aristotele, tanto che Platone nella Repubblica conclude sostenendo che la giustizia si identifica con la sapienza e con la scienza. Difatti, solo il possesso della verità rende buoni, poiché chi conosce il bene lo pratica indiscutibilmente. La sapienza si attua nell’equilibrio razionale delle tre anime «…alla ragione spetterà il comando, in quanto è saggia e provvede all’anima tutta, mentre la parte irascibile dovrà obbedire a lei ed esserle alleata … E l’una e l’altra, così allevate e veramente esperte, ciascuna nel proprio compito, reggeranno la parte concupiscibile, che ha in noi la forza maggiore, per sua natura insaziabile di ricchezze: e saranno custodi di questa, temendo che, ubriacandosi dei cosiddetti piaceri del corpo, diventi grande e forte, e non attui più la propria funzione, sforzandosi di asservire e di comandare quella parte che non le spetta». Deve perciò governare il sapiente, che è poi il filosofo. Ugualmente pensa Aristotele nell’Etica Nicomachea. Con la differenza che per il “filosofo” la sapienza da sola non basta. Essa deve concretamente attuarsi esplicitandosi come abilità e capacità ad agire in modo coerente con i fini che razionalmente sono stati scelti in quanto obiettivo dell’azione morale «…Il saggio è tale non solo per il fatto di sapere, ma anche per il fatto di saper mettere in pratica … il temperante fugge i piaceri … il saggio persegue una vita senza dolori … non è possibile essere buoni … senza saggezza…». La saggezza è, dunque, continenza e medietà, cioè equilibrio razionale. I grandi sistemi classici, con le sintesi speculative, stabiliscono il primato della ragione teoretica, e fondano i presupposti della logica del ragionamento scientifico. In particolare il principio classico di identità aristotelica si pone a fondamento della teoria della dimostrazione deduttiva. Per quanto complete nella struttura e nella coerenza interna, esse sono visioni comunque parziali dell’uomo. Conferiscono quelle certezze, quel senso e quella sicurezza, tanto ostentati in seguito dai razionalismi e dai tecnicismi propri delle rivoluzioni scientifiche. L’uomo teme il caos, e l’esigenza di ordinare la sua esistenza lo conduce spesso ad annientare la sua dimensione più vera e più nobile, che è quella dello spirito e dell’ irrazionale. Il mondo nebuloso ed indistinto si presenta così, finalmente, nella chiarezza delle idee di Cartesio. In quel cogito fonte di incrollabile
fiducia nella ragione che respinge ogni irrazionalismo o scetticismo. Contro ogni espressione più immediata ed irruente della vitalità umana, la filosofia classica, con la sua logica dell’identità, accettava solo le certezze fondate ed evidenti. Gli assiomi incontrovertibili ed inoppugnabili. Le dimostrazioni lineari, le cui verità sono deducibili per sillogismi dovendosi dimostrare nel procedimento inferenziale formalmente corrette. Lo stesso Cartesio che si opponeva con forza al dogmatismo che i medievali avevano conferito al pensiero filosofico di Aristotele, propugnava, sebbene attraverso l’esercizio del dubbio metodico, una struttura saldamente coerente nella sua linearità sequenziale, scartando ogni possibile contraddizione, anche in ambito etico. Ad ogni modo, nel Seicento, lo studio della natura diventa finalmente possibile secondo una metodologia scientifica e razionale. Bacone intende conoscere la natura per dominarla, e Galilei propone di osservare empiricamente ed induttivamente il fenomeno per poterlo comprendere attraverso previsioni, la cui successiva conferma trova nella sperimentazione pratica la sua attuazione concreta. L’uso delle sofisticate tecnologie di osservazione permette di potenziare i sensi nell’accostarsi alla percezione sensibile della realtà. L’induzione e la deduzione scientifica vengono elevate a leggi filosofiche di interpretazione del mondo da Newton, che propende per la scelta delle spiegazioni più semplici, causali, che tengano conto del principio di continuità della natura e delle qualità primarie inerenti tutti i corpi materiali. Ma anche questo sapere scientifico trova la sua più rispondente attuazione nel riferimento diretto alla pratica empirico osservativa e sperimentale, che si conclude con la verifica delle ipotesi induttive ed il loro controllo, al fine di giudicarle valide
e convertibili in teorie accreditate. Già la Filosofia tardo antica ed il pensiero cristiano della Scolastica avevano rivalutato il sapere in funzione del fare. La grande innovazione del Medioevo è nella considerazione olistica dell’uomo, riconosciuto come unità inscindibile di mente razionale e volontà. Questa volontà legata alle peccaminose tentazioni della carne porta l’uomo a deviare dal retto cammino verso la Verità metafisica. Il Medioevo, compiendo un errore teoretico, confonde la
Gnoseologia con la Teologia e, pur esaltando Agostino il valore euristico della ricerca come fosse un percorso totalizzante e assolutamente coinvolgente per l’uomo corporeo e per il suo spirito, dirà poi nelle Confessioni[vi]«…Avevo trovato la perla preziosa … eppure esitavo ancora … Così avevo due volontà, una vecchia, l’altra nuova; una carnale, l’altra spirituale, che si combattevano fra loro e combattendosi laceravano il mio spirito…». Agostino sa perfettamente cosa sia il Bene, ma ciononostante persiste nel compiere il Male. Ecco la definitiva caduta del paradigma intellettualistico e deterministico del pensiero di Socrate e di tutti i Filosofi classici greci. Sarà proprio questo riconoscimento globale della dimensione olistica della volontà umana, difesa dalla dottrina della Chiesa attraverso la Filosofia tomistica[vii], ad influenzare e modificare il corso della Scienza filosofica successiva. Se nell’Umanesimo rinascimentale il piano ontoteologico viene distinto da quello puramente gnoseologico, tuttavia il metodo problematico di ricerca induttiva origina e si rafforza quanto più diviene preponderante il peso della natura materiale, intesa a partire dalla sua corporeità organica e fisica. E il predominio dell’esperienza sull’atto razionale del pensiero caratterizza la forma speculativa dell’Empirismo inglese che ritiene l’anima una tabula rasa. Diversamente pensa Kant[viii] che, con la sua sintesi criticista, ridona preminenza all’attività razionale pura. La sintesi a priori è il fondamentale presupposto di ogni scienza che voglia dirsi tale. Ma è soprattutto nella temperie culturale illuministica che il detto kantiano «Sapere aude!» trova la sua pregnanza reale. «…L’illuminismo è l’uscita della ragione dallo stato di minorità…». Bisogna, cioè, trovare il coraggio di pensare. L’atto puramente intellettivo viene interpretato nella sua funzione innovativa e divergente rispetto alla tradizione accreditata. Proprio come ugualmente sostiene l’esistenzialista Heidegger quando prende atto della diffusa incapacità di pensare e di «…Un deserto che cresce…». Egli comprende la necessità e l’urgenza di una innovativa ragione critica, laddove la miseria della Filosofia e la caduta della Scienza nel tecnicismo svelano questa
attuale incapacità di «…Pensare il più rilevante…»[ix], indagando il senso. Questo tipo di ricerca filosofico speculativa non può prescindere da un atteggiamento riflessivo che coinvolga, secondo
Hegel[x] e tutti gli idealisti romantici, la storicità della tradizione e la totalità dello spirito nel suo farsi diveniente nella Storia «Nello studio della Scienza… è importante e indispensabile assumere su di sé la fatica del Concetto. La Scienza esige la concentrazione sul Concetto in quanto tale, sulle determinazioni semplici, come per esempio l’essere in sé, l’essere per sé e l’autouguaglianza…Secondo il mio modo di vedere… tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come “sostanza” ma…come soggetto…». Masullo, studiando Hegel, aggiunge «Mentre la Metafisica classica si interroga sull’Essere in sé, ovvero sulla sostanza o soggetto come se si trattasse di altro dalla comprensione umana, con Hegel si compie il riconoscimento critico che ciò di cui in fondo si parla, di qualunque cosa ci si trovi a parlare, è il “soggetto” nel senso del “comprendere”[xi]». Solo attraverso la continuità dei tre tempi storici, recuperando il passato e vivendo pienamente il presente, può l’Umanità progettare il suo futuro. La coscienza fenomenologica di cui parla Husserl[xii] si abbevera alle fonti dei vissuti esistenziali. Essa è, prima di ogni altra cosa, consapevolezza pregnante della corporeità soggettiva che si sperimenta nel mondo come presenza sensibile accanto ad altre presenze. «Io sono certo di essere un uomo che vive in questo mondo… e di ciò non ho il minimo dubbio… Non é stato posto il problema della costituzione dell’intersoggettività, di questo noi-tutti, a partire da me, cioè “in” me». Il corpo come “ciò che appare” diventa coscienza critica e progettuale nella sua funzione adattativa all’ambiente. L’intelligenza è facoltà di produrre abilità e competenze mentali e pratiche. Capacità, come direbbe Dewey, di manipolare e modificare l’ambiente in relazione ai propri bisogni primari fisici e spirituali. Sempre più, dunque, la facoltà del pensiero si identifica con lo sviluppo della competenza. E la Filosofia deve nutrirsi dell’apporto di altre Scienze, sia umane che naturali, per implementare le proprie interpretazioni sul mondo. «…Tutti gli assiomi – continua Husserl – sono fondamenti apodittici ultimi…». Eppure, benché la Filosofia debba strutturarsi a partire da poche verità evidenti ed indimostrabili, tuttavia essa è storica, proprio in quanto è il prodotto del pensiero speculativo teoretico dell’uomo esistenziale. Con Gödel nasce in Matematica la Teoria dei Modelli, che chiarisce come ogni sistema scientifico non sia altro che un’interpretazione del reale entro una struttura ben organizzata di tipo assiomatico nucleare e di teorie molecolari complesse. Essa è assai prossima alla concezione filosofica sottostante l’interpretazione ermeneutica di Gadamer[xiii] ed il Circolo storico della Comprensione. Ogni interpretazione è sempre storica e limitata, e si fonda sui pregiudizi culturali ormai nel tempo acquisiti. Pertanto si offre come una visione critica del reale, senza alcuna presunzione di oggettività. Piuttosto con la consapevolezza di essere sempre ulteriormente e metodologicamente falsificabile nel corso della Storia. Se per Hegel è la Filosofia, in quanto Spirito, l’approdo ultimo della coscienza critica, Gadamer al contrario ritiene che non vi possa essere coscienza che non sia storica «Non nel sapere speculativo del concetto giunge a compimento l’autocoscienza dello spirito, ma nella coscienza storica… La comprensione è un caso particolare di applicazione di qualcosa di universale ad una situazione storica concreta e determinata… Un sapere generale che non sa applicarsi alla situazione concreta rimane privo di senso»[xiv]. Anche Popper[xv], unitamente a tutta l’Epistemologia falsificazionista contemporanea, riconosce nel fattore discriminante della Storia il solo imprescindibile criterio di valutazione delle
Scienze e dei loro modelli ermeneutici. «Lo storicismo è tutto un errore… – dice Popper – nessuno può anticipare il futuro perché nessuno lo conosce… La Storia ci mette sempre davanti a una rivoluzione imprevedibile, come quella elettronica… Il futuro è aperto… Le democrazie sono attrezzate per difendersi dalle dittature…». Altrettanto, il fallibilismo può rappresentare un’àncora di salvezza nei confronti dei pericoli provenienti da un uso dogmatico indiscriminato della ragione nelle Scienze e in Filosofia. Oggi più che mai la ricerca filosofica non può disconoscere il suo stretto legame con le Scienze naturali e psicologiche e con quelle umane e storiche. La positiva novità rappresentata dal pensiero di Gadamer e Popper viene prospettata nell’uso di un metodo univoco di ricerca per tutti gli ambiti del sapere, riconfermando l’unità della ragione umana in tutti i suoi aspetti, intellettivi ed emotivi. Il metodo euristico epistemologico rivaluta il peso dell’ipotesi mentale per deduzione, sposandola con la pratica osservativa ed empirica e provandola nella verifica e nel controllo dei dati rinvenuti e del ragionamento teorico, attraverso la conferma o la smentita sperimentale. Questo modo di procedere, per tentativi, prove ed errori, aperto alla possibilità positiva e negativa dello smacco, è costitutivo di una forma della razionalità che accetta per principio il confronto ed il dialogo costruttivo con la parte avversa, nell’intimo convincimento di potersi trovare a dover affermare ed accettare anche la ragione degli altri. Questa ragione critica, che apprende dagli errori del passato e che valuta positivamente proprio le esperienze esistenziali più dure, è un obiettivo cui bisogna tendere attraverso una collaborazione interdisciplinare di tutta la Comunità scientifica e politico sociale. Dall’Ottocento in poi, con la nascita delle Scienze sperimentali, dotate ciascuna di un proprio individuale statuto epistemico e di una singolare fondazione, si è scivolati nell’errore di credere che si potesse frantumare quell’inscindibile unità dell’uomo che è la totalità mente corpo per fondare, sull’esempio del dualismo cartesiano, due ambiti autonomi e distinti del sapere. Questo “orrore” dello Storicismo, principiato da Dilthey, si è reso più acuto quando i Neopositivisti hanno preteso l’adozione dei metodi cosiddetti esatti delle Scienze positive unitamente al verificazionismo induttivo. Dimenticando la Rivoluzione scientifica del Novecento e la nascita della geometria ellittica e parabolica ed i teoremi di Hilbert e Gödel, che hanno determinato l’insorgere della Teoria dei Modelli. Ciò che Gadamer e Popper si pongono come obiettivo è l’unità metodologica per la fondazione epistemica di tutto il sapere, unificando i procedimenti di osservazione e rilevazione statistica dei dati con un’approfondita analisi critica di quelli, ed un’interpretazione ermeneutica del senso proprio di ogni ricerca che si voglia presentare come un progetto di risoluzione dei problemi. Con la precisa consapevolezza dei limiti ontologico strutturali di ogni modello interpretativo del reale che sia inserito in un orizzonte storico esistenziale, in equilibrio dinamico ed osmotico all’ambiente. Si potrà così costruire una ragione filosofica, critica, capace di umanizzare le Scienze e di unificare il linguaggio, riconoscendo nell’uomo il loro Soggetto storico ed il loro Signore. Questo cammino impervio, di crescita per la coscienza, non può che compiersi entro un ambito di proficuo scambio dialogico interdisciplinare, ed attraverso un paziente lavoro di collaborazione e condivisione in équipe tra Filosofi, Scienziati e Storici. Perché si possa finalmente popolare quel deserto della ragione, impedendogli di avanzare ulteriormente a portare danni irreparabili entro un orizzonte dove si vuole costruire la pace. E si possa infine realizzare la società aperta cui Popper aspirava, fondata sulla democrazia e sul confronto dialogico, critico e costruttivo. Nella quale essere intellettuali di sinistra implichi il rispetto primario per i bambini, in quanto più deboli e bisognosi di esempi edificanti. Ed il rispetto per l’uomo in generale, seguito “dalla culla alla tomba” da un welfare state che lo assista nei bisogni fondamentali perché possa elevarsi infine a quelli dello spirito. La nostra coscienza civile, perciò, deve farsi carico del problema politico a partire dal suo peso educativo e formativo. E le istituzioni dovrebbero sensibilizzare ai problemi sociali nell’ambito scolastico, abituando al dialogo critico e costruttivo, alla ricerca e alla riflessione di gruppo, spronando la collaborazione ed il lavoro interdisciplinare, motivando all’esplorazione guidata con competenza nel proprio spazio e attraverso il proprio tempo storico. Il giovane deve essere abituato ad abitare e modificare gli spazi in cui vive, in modo intelligente, in funzione di un sempre migliore adattamento futuro. Ugualmente, deve poter capire il proprio tempo attraverso la conoscenza del passato e le proiezioni futuribili in avvenire. L’acquisizione del senso critico procede di pari passo con la capacità di discriminazione e di scelta, con il successo pragmatico dell’interazione sociale, con l’uso intelligente del linguaggio,
inteso quale strumento di manipolazione simbolica del reale. L’accettazione del fallibilismo come Filosofia di vita induce la consapevolezza di non poter evitare gli errori ed infonde la forza ed il coraggio di saper da quelli imparare a cambiare in meglio, sia la nostra interpretazione filosofica e politica del mondo che quella storica e scientifica in senso lato. «Le possibilità del futuro sono aperte – conclude Popper – E ciò significa per noi una grande responsabilità».
LA CATEGORIA LOGICA DELLA POSSIBILITÀ
Il mondo che immaginava Popper, unitamente ai falsificazionisti, era governato dalla legge logica della possibilità. Tale legge nasce dalla riflessione filosofica ellenistica degli Stoici, che per primi discutono criticamente i tre fondamenti della logica classica[xvi] di Aristotele. Per il Filosofo ogni argomentazione sottoposta al tribunale della ragione[xvii], deve essere giudicata necessariamente vera o falsa. Intendendo, attraverso queste due definizioni, spiegare anche il valore logico argomentativo di affermazione e negazione. Non di rado, infatti, per la logica classica una proposizione affermativa viene definita vera, mentre una proposizione negativa è ritenuta falsa. Il ragionamento utilizzato da Aristotele per giungere alla verità è detto, nei Topici, sillogismo[xviii]. Questo tipo di argomentazione deve necessariamente concludere con uno dei due valori di verità,
poiché «Tertium non datur»[xix] dice il Filosofo, «… nessuno può ritenere che la medesima cosa sia e non sia, come alcuni credono che dicesse Eraclito…»[xx]. La novità della logica proposizionale stoica consiste, pertanto, nell’ammettere l’esistenza di un terzo valore: quello della possibilità. La categoria logica in questione è sintomo di una nuova apertura del pensiero classico, che stempera la stocasticità del terzo escluso di Aristotele, ed avvicina l’uomo alla realtà quotidiana, ai suoi bisogni e desideri, conferendo alla ricerca filosofica un obiettivo poco apprezzato fino ad allora, e consistente nel raggiungimento dell’equilibrio psichico e fisico e della felicità. La filosofia delle grandi sintesi del pensiero antico, difatti, non aveva mai avuto come suo fine l’uomo e la sua felicità. Scopo della ricerca filosofica di Aristotele era stata la definizione dell’essenza del reale[xxi]. La filosofia ellenistica sposta la sua attenzione speculativa sull’uomo e fa della ricerca della felicità terrena l’obiettivo della sua riflessione. La vita umana è finita ed esprime il senso di una precarietà insita nello stesso limite intrinseco alla natura tutta. Il mondo e l’uomo non sono definibili entro gli spazi incorruttibili ed eterni della Verità metafisico ontologica. E sebbene la precarietà dell’esistenza reclami un fondamento assoluto, resta sempre più mortificata dagli eventi qualsivoglia presunzione gnoseologica. Se ogni conoscenza muove da sensazioni, soggettivamente percepite, bisogna consentire un margine di errore, una zona dell’incertezza, l’umbratile indefinito del non più occulto, sebbene non ancora vividamente noto. E questo spazio della sospensione del giudizio, che diventa poi assenza di certezza per gli scettici, e ricerca di divertimento[xxii] per gli epicurei, è il regno del possibile per gli stoici. Dunque «tertium datur», si può con loro ben dire. A dispetto delle teorie sostenute dalla gente comune, ostinata contro l’esercizio del pensiero, la scienza filosofica ha dimostrato ampiamente di sapersi superare, colmando il vuoto di senso pratico che le grandi sintesi razionalistiche hanno prodotto nella Storia della Filosofia attorno al sapere inteso come saper fare in abilità e prassi. Il pensiero critico non è vuota e inutile fantasticheria che distoglie dalle ambasce quotidiane. E il filosofo contemporaneo è ben lungi dal chiudersi nella sua torre eburnea a ruminare pensieri. L’esercizio della scienza filosofica presuppone un interesse fondato e saldo per l’attività speculativa e critica. Tuttavia, referente immediato della riflessione del filosofo resta sempre il reale, inteso come mondo naturale, come pluralità di soggetti, come insieme di creazioni dell’intelligenza e rete di relazioni intersoggettive. La certezza di tale consapevolezza implica una capacità concreta a saper stare con gli altri, per ascoltarli e comprenderli. Unitamente ad una spiccata sensibilità ai problemi. E ad una passione non comune per il potere argomentativo delle questioni poste sul tappeto dall’Umanità in cammino nella Storia. Necessaria è anche una buona dose di equilibrio e di distacco, che consentono di interagire positivamente nelle situazioni più critiche. Ed un saldo equilibrio interiore, privo di alcuna presunzione nel conoscere e possedere la verità. Torna utile, pertanto, la categoria logica del possibile. Oggi che il mondo contemporaneo si mostra con tutti i caratteri della complessità poliedrica e polisemica, l’apertura verso il possibile può divenire addirittura modello ontologico di interpretazione del reale. Non che si voglia indebolire il pensiero[xxiii], come credono gli esistenzialisti[xxiv]. Piuttosto si tratta di arricchirlo e complicarlo con l’introduzione di nuove categorie
mentali.
LA LOGICA DEGLI STOICI
La logica proposizionale[xxv] è detta così perché fondata sullo studio della proposizione che, per gli Stoici, può essere vera, falsa e possibile. La logica stoica è, a sua volta, suddivisa in dialettica e retorica. La dialettica è costituita dalle cose significate, che sono gli oggetti di riferimento; e dalle cose significanti, cioè dai simboli del linguaggio utilizzato per indicare i referenti. Comprendere significa lasciarsi impressionare dalla percezione degli oggetti: cioè dare l’assenso alla rappresentazione sensibile. Infine, la comprensione vera e propria presuppone l’atto dell’afferrare il significato. Questo è il livello della conoscenza vera, chiamata rappresentazione comprensiva. Solo il saggio possiede, però, anche il potere argomentativo sulle proprie conoscenze. Esso consiste nella capacità di difendere una tesi gnoseologica attraverso l’uso del ragionamento e del
linguaggio verbale, che porta tutti gli argomenti a favore e contro, per uscire vincitori da una disputa retorica. Il potere argomentativo della verità è, pertanto, capacità riconosciuta all’uomo saggio che, pensando con chiarezza e determinazione, non si fa confondere dalle contrarie argomentazioni dei suoi avversari. Le certezze di cui parlano gli stoici sono, comunque, sempre fondate su conoscenze empiriche. È evidente la contaminazione con la filosofia di Eraclito[xxvi] che, con la sua concezione metafisica del divenire, inteso come logos e polemos, aveva superato la staticità dell’Essere parmenideo, introducendo la nozione di contraddizione e negazione, in quanto elementi interpretativi del reale. Anche l’idea di verità muta sostanzialmente. Essa non è più intesa come possesso assoluto, raggiungibile una volta per tutte, ma come processo in fieri, che si costruisce gradualmente, ed è soggetto a mutamento. La verità deriva, pertanto, dall’accordo con l’essere delle cose. E il saggio si distingue dagli uomini comuni per la sua capacità di adeguarsi alla razionalità dell’universo, e di uniformarsi alla legge del fato[xxvii], per la quale il mondo conoscibile risulta essere il migliore dei mondi possibili. Non si tratta di un’accettazione rassegnata del proprio destino, quanto piuttosto della ricerca simbiotica di armonia e di unione fusionale con il tutto. Questa perfezione è complessa, ed è il prodotto di un superiore accordo con le cose caratterizzato dal fluire nel divenire costante della contraddizione, della differenza e della negazione. Si apre così lo spazio della possibilità, che si genera nella processualità costante degli eventi, concatenati dalla sequenzialità dell’implicazione logica[xxviii] del “se… allora”, e tenuti assieme dalla legge di causalità che si oppone all’esistenza del caso nella vita dell’uomo. Tutto diventa ragione, cioè logos, inteso come ragione e ragionamento al tempo stesso.
IL NUOVO CONCETTO DI VERITÀ
La categoria logica della possibilità, scoperta dagli Stoici, modifica il corso del pensiero filosofico. Da quel momento storico la verità non è più contrassegnata da un valore assoluto. Soprattutto non è semplice distinguere vero e falso. Difatti, proprio l’apertura del possibile modifica lo spazio di transizione e di passaggio da una categoria all’altra, del vero e del falso, dando luogo a tutta una gamma di sfumature collocate nel mezzo. Allo stesso modo, cambia anche il tipo di ricerca che aspira alla verità. Non si tratta, ormai, di partire da nozioni a priori, universali e razionali. E non si opera il ragionamento attraverso la deduzione logico argomentativa utilizzata da Aristotele nell’Organon. Ammettere la possibilità, come altra categoria logica, e concepire un processo conoscitivo ed apprensivo che muova dalla realtà percepita dai sensi, costituiscono le due scoperte del pensiero filosofico antico che vanno ad incidere profondamente anche sulle modalità di costruzione della verità. Se ogni conoscenza è sempre, fondamentalmente, di natura empirica, allora ogni ipotesi proposizionale deve, di necessità, partire da nozioni derivate dall’esperienza. «…senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche…», avrebbe poi detto Kant[xxix] nel Settecento. Ma questo muovere dall’esperienza, implica il ricorso alla logica argomentativa di tipo induttivo. Soltanto attraverso questo tipo di inferenza, infatti, è possibile risalire dal particolare, oggetto dell’atto del percepire con gli organi di senso, all’universale, come tipica categoria apodittica che modifica l’ipotesi in teoria scientifica, cioè in sistema razionale di leggi tra loro compatibili e congruenti. La categoria del possibile nasconde una visione metafisica del mondo che abbandona qualsivoglia paradigma di semplicità, per propendere verso la teoria della complessità. Non è la distinzione a caratterizzare questa concezione dell’universo fisico e psichico dell’uomo, bensì l’opposizione[xxx], la contraddizione[xxxi], la commistione dei contrari, in continuo fluire osmotico alla ricerca di equilibri sempre nuovi e vitali. La logica diventa, perciò, sistema della ragion pura, ma anche e soprattutto universo concettuale, e «…regno del puro pensiero…»[xxxii]. Ed, in quanto tale, da insieme di leggi del ragionamento, si fa concezione del mondo. Questo tipo di logica induttiva ed empirica, che parte dall’esperienza perché da quella vuole costruire la sua idea di verità, mette al centro dell’universo filosofico l’uomo, in quanto individuo e soggetto. E fa strettamente dipendere la verità da colui che la costruisce. Si comprende, pertanto, come ad una concezione del mondo e ad un’idea di verità filosofica, corrisponda anche un concetto di uomo, in quanto creatore ed ideatore di quelle verità. Impartire l’insegnamento filosofico vorrà, perciò, significare anche un avvicinamento dei giovani a questa idea di verità non precostituita, ma tutta da ricercare con ardore e passione, attraverso la fatica quotidiana. Nel tentativo, sempre in fieri, di conferire senso e significato alla propria esistenza. E di poter fare ricorso, nei momenti difficili, ad un bagaglio di valori umani e storici intramontabili ed universali. Non in quanto frutto di verità assoluta ed eterna, ma proprio in quanto espressione di un progetto di vita di un’umanità che ci appartiene e che sentiamo nostra, assolutamente. L’uomo nuovo che la scuola vuole istruire, formare ed educare esprime la complessità del mondo nel quale vive. Non si può pretendere di educare giovani avulsi dalla loro storia ed esperienza, individuale e familiare, ma anche scolastica e sociale. L’insegnante di filosofia ha, in questo compito, un ruolo preminente, anche per il semplice fatto di trovarsi ad essere, forse più degli altri colleghi, nella situazione culturale vantaggiosa di possedere gli attrezzi del mestiere più consoni alla comprensione della persona umana. Individualizzare l’insegnamento significa pensare agli allievi, in quanto persone complesse, in ogni momento dell’attività didattica. Dalla programmazione curricolare, alle attività trasversali, facenti parte del piano dell’offerta formativa della scuola. Questa personalizzazione[xxxiii] dell’attività di insegnamento deve poter coinvolgere il singolo docente, come l’intero consiglio di classe. La personalizzazione deve però poi spingersi oltre, fino alle attività previste e programmate dal collegio dei docenti. Il POF, progettato come attività di programmazione curricolare di tutto l’Istituto, prevede un insieme di attività sinergiche che per un verso sono rivolte a rinvigorire il senso dell’educazione scolastica inteso ad istruire nelle competenze di base; per un altro presenta un’apertura della scuola stessa nei confronti del territorio, e finisce per significare un rafforzamento del tempo dell’extra scuola e delle correlate attività extra curricolari. Si può ascrivere, questa tendenza del POF, come una sua contraddizione interna. Che mira a rafforzare l’istituzione scolastica, ma che finisce con il depauperarla di quelle che sono sempre state le sue finalità forti e caratterizzanti: l’istruzione nelle competenze di base e l’educazione della persona umana, a scapito di una formazione alle abilità già tutta rivolta al mondo del lavoro. Come a dire che una scuola troppo preoccupata di impostare la propria azione didattica a sviluppare soprattutto le capacità formative professionali può compiere l’errore grave di tralasciare momenti fondamentali del processo educativo, a tutto discapito dell’azione globale di formazione della persona. Il POF è costruito su una concezione dell’insegnamento inteso come ricerca di tipo epistemologico, se riferita alla struttura contenutistica disciplinare, e di tipo didattico, se pone attenzione alle metodologie, agli strumenti e ai mezzi adottati per esercitare praticamente
l’intervento educativo, che è sempre istruttivo e formativo nel suo complesso. Ciò che deve essere assolutamente evitato, soprattutto nelle scuole secondarie superiori, è la caduta nel tecnicismo della pratica di insegnamento. La filosofia è una disciplina che abitua a riscoprire il valore della cultura unitaria, che gli antichi ritenevano fonte di saggezza. Trasmettere ai giovani questa convinzione è estremamente necessario per rinsaldare l’identità storica di appartenenza, e il radicamento[xxxiv] sul territorio nel quale si vive. Chi deve integrarsi nel mondo del lavoro deve sentirsi parte attiva di una comunità. La scuola non può perdere di vista il suo principale obiettivo, che è quello di formare ma soprattutto di istruire alle competenze generiche di base, il possesso delle quali garantisce quella disponibilità all’apertura nei confronti delle esperienze di vita, e al tempo stesso rinvigorisce la flessibilità mentale che permette un proficuo inserimento dei giovani, a pieno titolo, nel mondo del lavoro. Il docente deve, anche a fatica, sobbarcarsi dell’onere di intraprendere la costruzione di relazioni interpersonali significative con i propri allievi. Perché, puntando in questa direzione, potrà essere in grado di coinvolgerli proficuamente, stimolando la loro motivazione intrinseca attraverso interventi efficaci e mirati, ad apprendere la filosofia dai problemi che nascono dalla concretezza dell’esperienza esistenziale quotidiana. Ciò che importa sapere ai genitori, quando iscrivono un figlio a scuola, è cosa possono aspettarsi di ritrovare in lui, in termini di capacità e di formazione in uscita, alla conclusione del corso di studi. È perciò necessario che il docente abbia chiarito con se stesso gli obiettivi che intende raggiungere con ciascun allievo. La filosofia educa persone integrali, dotate di senso critico, aperte e flessibili, capaci di dialogare e di interagire nel rispetto dell’altro. Forse nessun’altra disciplina curricolare riesce ad interpretare compiutamente le istanze della personalizzazione dell’insegnamento come può, invece, fare la riflessione speculativa filosofica. Per questo motivo è lecito pretendere la sua introduzione in tutti i corsi di studio della scuola secondaria superiore. Nella convinzione che anche i bambini di scuola elementare siano già in grado di porsi domande filosofiche. I loro “perché” rafforzano questa tesi.
[i]Si ricordi che la riforma del 1923 del ministro Giovanni Gentile prevedeva per i Licei, classico e scientifico, istituiti insieme agli Istituti tecnici con la legge Casati del 1859, l’insegnamento della filosofia ritenuta fondamentale, insieme alla storia, per la formazione delle future classi dirigenti del paese. A livello metodologico didattico si raccomandava ai docenti un costante richiamo ai testi filosofici, onde evitare un uso improprio del manuale scolastico adottato. L’idea di fondo della riforma Gentile era la coincidenza della filosofia con la sua storia, e con la storia dell’uomo in generale. Da cui discendeva l’identità tra la filosofia e la storia della filosofia.
[ii] Si ricordi, a questo proposito, che già la Commissione Brocca aveva parlato, nel 1992, di introduzione della disciplina filosofica in tutte le scuole secondarie superiori raccomandando una diversificazione di programmazione didattica. E propendendo per una metodologia che prediligesse un insegnamento di tipo storico-problematico.
[iii] Resta, comunque assai controversa la questione della formazione scolastica. La scuola, difatti, per sua intima costituzione è deputata ad istruire. Il concetto di formazione è, invece, strettamente legato alla necessità di fornire ai giovani da immettere sul mercato del lavoro un addestramento professionale. Pertanto, quanto più si anticipa all’età scolare il momento della formazione professionale, tanto più si andrà a svuotare la scuola della sua propria peculiarità, consistente nell’educare alle cosiddette “competenze di base”, utili e flessibili ad ogni futuro approccio di tipo umano e spendibili anche nel mondo del lavoro. II compito “necessario” della scuola consiste, pertanto, nell’istruire a quelle competenze specialistiche e trasversali. La formazione professionale è “desiderabile” ma, se assolutizzata, risulta insufficiente. Tale concezione di una scuola come istituzione che educhi istruendo la si può agevolmente ritrovare in Vertecchi, Le sirene di Malthus.
[iv] Si tratta della maggiore opera di Aristotele La Metafisica.
[v] L’opera di Bruno è del 1585.
[vi] L’opera di Agostino risale all’anno 397 d.C.
[vii] San Tommaso esplicita il concetto di dimensione unitaria della persona come totalità inscindibile di anima e corpo nel suo scritto L’unità dell’intelletto del 1270 per contrastare le tesi degli Averroisti che propendevano per l’esistenza di un intelletto universale e separato. La religione cattolica salvaguarda la dignità della persona, esaltandola nella sua dimensione globale e nello specifico della individuale particolarità esistenziale.
[viii] Kant scrive la sua Ragion pura nel decennio che decorre tra il 1770 ed il 1780. Il suo problema fondamentale è la fondazione di una metafisica come scienza. Il progetto iniziale resta incompiuto ed il Filosofo approderà ad una forma di agnosticismo. L’oggettività del noumeno, che nel Medioevo aveva destato la grande questione degli Universali, è in se stessa inconoscibile. Si può costruire una nuova oggettività trascendentale intersoggettiva, relativamente al piano gnoseologico, attraverso le categorie del giudizio. La Rivoluzione Copernicana di Kant fonda i presupposti del contemporaneo soggettivismo scientifico e critico e le categorie spazio temporali permetteranno lo sviluppo dell’ermeneutica di Gadamer e del circolo storico della comprensione.
[ix] Si tratta della critica mossa da Heidegger nel suo libro del 1951 Che cosa significa pensare? alla ragione contemporanea, incapace di porsi la fondamentale domanda di ogni Filosofia sul senso dell’Essere. Ovviamente le conclusioni cui giungerà il filosofo saranno l’impossibilità di pensare filosoficamente se non in termini metafisici, ed il rifiuto del pensiero categoriale proprio delle classiche Filosofie sistematiche. Il pensiero autentico è quello divergente della rottura nei confronti della tradizione, e spesso riaffiora nell’ombra, nel chiaroscuro e nel non detto. Il vero si oppone alla logica razionale, e si lascia scoprire nel sentimento poetico, come Heidegger sostiene nella sua raccolta di poesie del 1954 L’esperienza del pensare. Si ritrovano qui ovvi richiami al Bruno degli Eroici furori.
[x] Questa tesi è portata avanti da Hegel nella sua opera maggiore La fenomenologia dello spirito del 1807.
[xi] Si vede bene che questo “comprendere” potrebbe essere inteso come un’anticipazione dei temi ermeneutici di Gadamer.
[xii] Husserl affronta il problema della conoscenza nella Crisi delle Scienze europee del 1936. Come farà poi Heidegger prende atto della carenza di un pensiero critico e di una coscienza razionale di tipo filosofico che si ponga a guida delle scienze, perché queste non si perdano nel tecnicismo smarrendo l’uomo come loro primo soggetto. Il dubbio metodico cartesiano gli permette la riduzione fenomenologica nell’epoché, che attua la sospensione del giudizio sul mondo circostante fino a ritrovare gli assiomi apodittici sui quali poter fondare la conoscenza per dirigerci intenzionalmente sul mondo in funzione operativo pragmatica e attraverso l’uso del linguaggio.
[xiii] Gadamer sviluppa la sua Filosofia ermeneutica in Verità e metodo nel 1960, impostando la problematica contemporanea come un programma folto di differenti interpretazioni, corrispondenti ad altrettante visioni del mondo sostanzialmente storiche. Persino il linguaggio diventa un sistema strutturato identificativo del popolo che lo adotta, espressione contestuale di una filosofia di vita. Il problema della Scienza potrebbe perciò avviarsi ad una soluzione sulla base della comprensione linguistica al di là dei rischi di equivocazione sempre presenti. Lavorare in questa direzione implica però uno sforzo per la costruzione di un linguaggio comune a tutta la Comunità scientifica, ed una reciproca comprensione dei vissuti, rivalutando il significato del pregiudizio inteso come possesso culturale e acquisito per tradizione nel passato.
[xiv] Implicita è qui la critica alla morale formale di Kant e ad ogni forma di sapere che sia incapace di tradursi in atto, mentre è evidente la positiva considerazione per il binomio aristotelico tra virtù e saggezza pratica, che va oltre quello platonico ispirato al possesso della sapienza meramente teoretica.
[xv] Popper ne’ La lezione di questo secolo scritto nel 1974 guarda con amarezza agli orrori del Novecento, attribuendone la responsabilità ai tre grandi mostri del Capitalismo, Nazismo e Comunismo. Nemici dichiarati della società liberale e del pensiero critico, hanno attuato sul pianeta le più pericolose forme di soprusi contro le libertà costituzionali praticando il totalitarismo politico. Gli intellettuali dogmatici e poco aperti alla democrazia hanno avuto in ciò un ruolo negativo di primo piano. Bisogna imparare la lezione e riparare attraverso il fallibilismo metodologico che si oppone alla presunzione
politica così come al verificazionismo scientifico dei neopositivisti del circolo di Vienna. Qui il problema filosofico e scientifico si ricongiunge con quello propriamente storico politico, quasi a riconsacrare quell’unità globale della persona e dell’umanità.
[xvi] I tre principi della logica classica sono: identità, non contraddizione e terzo escluso. Il principio di identità sostiene “A è A”, per significare l’uguaglianza di ogni realtà con se stessa. Il principio di non contraddizione sostiene “A non è non A”, per spiegare che ogni realtà non può essere diversa da sé e uguale ad un’altra. Il principio del terzo escluso sostiene “A o è A o è non A”, per affermare che ogni realtà è vera o falsa.
[xvii] Ne parla Kant quando nella Ragion Pura spiega il senso della personale ricerca filosofica «intendo restituire un tribunale alla ragione». Egli vuole comprendere i limiti della mente umana, per sondare le possibilità gnoseologiche della ragione stessa, relativamente alla questione del noumeno. Anche la sua ricerca muove, quindi, da una domanda di tipo metafisico.
[xviii] Per sillogismo si intende un ragionamento in cui, poste due premesse, una detta maggiore e l’altra minore, ne discende una terza, chiamata conclusione. Il sillogismo può essere di due tipi: induttivo, se da una premessa particolare giunge a conclusioni universali; deduttivo, se da una premessa universale porta a conclusioni particolari. Il sillogismo di tipo filosofico argomentativo è quello deduttivo, che non scopre nulla di nuovo. Il sillogismo induttivo, invece, viene utilizzato nel ragionamento scientifico ed ha come suo obiettivo la scoperta di nuove verità empiriche e sperimentali. Il sillogismo si dice anche dialettico, se argomenta da opinioni mutevoli; apodittico, se le sue premesse sono universalmente vere.
[xix] «…non è… possibile che ci sia qualcosa tra due proposizioni contraddittorie, ma è necessario affermare o negare una cosa di un’altra, quali che esse siano. Questo risulta chiaro quando si sia definito che cos’è il vero e che cos’è il falso. Infatti dire che l’essere non è, o che il non-essere è, è falso; il dire che l’essere è, e che il non-essere non è, è vero: perciò chi dice “è” o “non è” o dice il vero o dice il falso; ma né dell’essere né del non-essere si può dire “non è o è”…» Aristotele, La Metafisica.
[xx] Aristotele, La Metafisica.
[xxi] Si ricordi che Aristotele definisce nella Metafisica l’essenza come ciò per cui una cosa è quella che è, e come sinolo di materia e forma di ogni realtà conoscibile.
[xxii] Si faccia qui riferimento alla radice etimologica del verbo latino divertere: distogliere, allontanare, nel senso di distrarre.
[xxiii] Il Pensiero debole è recente opera dell’esistenzialista italiano Gianni Vattimo. La sua tesi propende per una filosofia in crisi, che ha smesso di cercare il fondamento ontologico del reale, il cui futuro è un pensiero incapace di forti sintesi teoretiche.
[xxiv] Tra i più noti si ricordi Nicola Abbagnano, padre dell’esistenzialismo italiano.
[xxv] «…gli Stoici sognano un gran numero di ragionamenti indimostrati, ma ne espongono specialmente questi cinque, ai quali sembrano ridursi tutti i rimanenti: quello che dalla connessione e dall’antecedente conclude il conseguente, come “Se è giorno, c’è luce. Ma è giorno, dunque c’è luce”. Quello che dalla connessione e dal contrario del conseguente conclude il contrario dell’antecedente, come: “Se è giorno, c’è luce. Ma non c’è luce dunque non è giorno”. Quello che da un collegamento negativo e da una delle parti del collegamento conclude il contrario dell’altra parte, come: “Non è giorno e notte. Ma è giorno. Dunque non è notte”. Quello che da un collegamento disgiuntivo e da una delle parti collegate conclude il contrario dell’altra, come: “O è giorno o è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte”. Quello che da un collegamento disgiuntivo e dal contrario di una delle parti collegate conclude l’altra: “O è giorno o è notte, ma non è notte. Dunque è giorno”…» Sesto Empirico, Schizzi pirroniani.
[xxvi] «…negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo…l’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia…» I Presocratici, Testimonianze e frammenti.
[xxvii] «…mi sembra che date due dottrine degli antichi filosofi, l’una di quelli che ritenevano che tutto avvenisse per fato e che questo fato imponesse la forza della necessità… l’altra di quelli cui sembrava che vi fossero moti volontari dell’anima non retti da alcun fato, Crisippo, come arbitro onorario, abbia voluto trovare un medio termine; e, pur inclinando piuttosto dalla parte di quelli che intendono liberare i moti dell’anima dalla necessità, usando le sue argomentazioni scivola nelle difficoltà in modo tale che, contro voglia, finisce col dare supporto alla tesi della necessità del fato…» Cicerone, De fato.
[xxviii] «…si prenda ad esaminare tra queste, per il momento, la cosiddetta proposizione ipotetica Questa risulta composta da una proposizione duplicata oppure da proposizioni fra loro differenti e collegate per mezzo della congiunzione “se” o “se davvero”: così, ad esempio, da una proposizione duplicata e dal “se” congiunzione viene a risultare la seguente ipotetica: “se è giorno, è giorno”; invece da proposizioni fra loro differenti e collegate mediante la congiunzione “se davvero” viene a risultare quella che suona così: “se davvero è giorno, c’è luce” …ragion per cui, se si rispetta questa premessa e se il conseguente tien dietro all’antecedente, anche l’ipotesi risulta vera; se, invece, questa premessa non viene mantenuta, l’ipotetica risulta falsa. Perciò, prendiamo subito le mosse da questo punto e mettiamoci a considerare se si possa trovare una qualsiasi proposizione ipotetica che sia vera e rispettosa delle premesse suddette» Sesto Empirico, Contro i logici.
[xxix] Si tratta della Critica della ragion pura.
[xxx] «…invece di parlare secondo il principio del terzo escluso (principio dell’intelletto astratto), si dovrebbe dire piuttosto: tutto è opposto… il risultato prossimo dell’opposizione posta come contraddizione è il fondamento che contiene in sé tanto l’identità quanto la distinzione come superate e deposte a puri momenti ideali…» Hegel, Scienza della logica.
[xxxi] «…è uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell’ordinaria rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità… la contraddizione viene ordinariamente allontanata, in primo luogo, dalle cose, da ciò che è vero e dal vero in generale; si afferma, che non v’è nulla di contraddittorio. Essa viene poi anzi, rigettata sulla riflessione soggettiva… la riflessione vale in generale… come un’accidentalità, quasi un’anomalia e un transitorio parossismo morboso…» Hegel, Scienza della logica.
[xxxii] Hegel, Scienza della logica.
[xxxiii] La legge 53/2003, meglio nota come “Riforma Moratti”, fa espressamente riferimento, unitamente alla questione del tutor e del portfolio degli studenti, alla personalizzazione dell’insegnamento. Questa nozione di personalizzazione dovrebbe comprendere e superare quella, ormai desueta, di individualizzazione, perché fa riferimento ad un’idea di uomo, inteso come unità inscindibile di anima e corpo. Difatti, mentre l’idea di individualizzazione potrebbe essere fraintesa a giustificare anche un isolamento dell’allievo dal gruppo dei pari, durante l’esperienza didattico curricolare; la personalizzazione pone massima attenzione ai processi di integrazione dell’allievo all’interno del gruppo classe, valorizzando anche quelle risorse culturali non definibili entro i termini di un’esperienza di tipo specificatamente curricolare. Per questo motivo nella riforma, ideata dal Pedagogista Giuseppe Bertagna, si parla anche di abolizione del tempo pieno a favore del tempo dell’extra scuola, e di certificazione di competenze. Sottolineando il ruolo dell’autonomia, che può essere attuata proprio a partire dalla suddivisione istituzionale proficua del tempo scuola, pianificando un calendario annuale di attività cadenzate dai ritmi di lavoro e di riposo per le festività programmate. Effettivamente il merito di aver parlato per primo di “personalizzazione” dell’insegnamento è ascrivibile al ministro Bassanini, e alla sua legge 59/’97 sull’autonomia scolastica, ripresa dalla legge 275/’99. L’insegnamento personalizzato era, così, riferito al curricolo individuale dell’allievo, posto in relazione con quello espresso dalla programmazione di tipo ministeriale per tutto il territorio nazionale, e con quello scolastico del Pof, che è espressione della convergenza di intenti tra attività locali presenti sul territorio e scuola, e tra programmazione ministeriale ed esigenze dell’istituto, in quanto soggetto giuridico autonomo.
[xxxiv] Vedi Simone Weil, La prima radice.
L’EDUCAZIONE DELLA PERSONA SECONDO MARITAIN
L’EDUCAZIONE DELLA PERSONA SECONDO MARITAIN
di Antonietta Pistone
L’Educazione della persona[1] è un volume che raccoglie gli scritti di interesse pedagogico del Maritain, prospettati in una visione neo-tomistica. L’autore è fermamente convinto della necessità di una fondazione filosofica della Pedagogia, e distingue i fini educativi dai mezzi, dai metodi e dagli strumenti utilizzati per raggiungerli. Lo stesso concetto di educazione, che non è attività umana rilevante esclusivamente per il suo significato pragmatico, presuppone l’idea di uno sviluppo finalizzato, entro cui si debbano intuire gli obiettivi formativi, interpretati come prospettiva ultima del processo evolutivo didattico, sempre in fieri relativamente agli orientamenti adottati e alle persone coinvolte. Solo dandosi un indirizzo filosofico la Pedagogia potrà acquisire la struttura ed il valore di una scienza autentica. Ma la sola Pedagogia possibile, per il Maritain, è quella cristiana che si avvale dell’orientamento proprio dell’umanesimo integrale che, da Aristotele fino a tutto il pensiero cattolico, interpreta l’uomo come sinolo di anima e di corpo, unità inscindibile ed indissolubile di spirito e materia. Il personalismo pedagogico ne è la disposizione corrispondente, che rivaluta profondamente sia la personalità del maestro che quella del suo discepolo, nella relazione educativa tra i due soggetti intercorrente. L’educazione liberale è il fine di questo approccio formativo, che deve fornire allo studente una conoscenza generale di base, non di tipo nozionistico ma secondo verità e bellezza, che divengano apprendimenti significativi in vista di una comprensione quanto più possibile ampia ed universale. L’inclinazione tecnico-professionale, indispensabile per poter accedere alla dimensione del lavoro e della operosità sociale, è comunque secondaria rispetto alla formazione liberale, che investe l’uomo nella sua interezza e globalità. L’idea tomistica di persona riguarda l’aspetto dell’intelligenza, oltre e più rispetto a quello della sensibilità empirica. L’empirismo inglese, infatti, considera l’uomo solo ed esclusivamente alla stregua delle sue capacità di percezione, e l’intelletto come facoltà di livello superiore a quella dei sensi, ma solo per gradi di differente intensità. Laddove la concezione tomistica reputa le facoltà intellettive diverse ed altre, superiori, qualitativamente parlando, rispetto a quelle che coinvolgono le sensazioni semplici. Il personalismo rifiuta, inoltre, le tesi puramente naturalistiche, che riducono l’uomo ad un insieme di bisogni e di interessi individuali; così come quelle socialistiche, che considerano l’educazione un «allevamento di un animale per l’utilità dello Stato»[2]. Questi due orientamenti sono ritenuti da Maritain il risultato dell’immanentismo moderno, che ha finito per negare ogni valore alla trascendenza umana, chiudendo l’uomo nelle diadi uomo-natura e uomo-società. Solo il personalismo rappresenta, invece, il richiamo ai valori. In quest’ottica, vanno perciò distinte dall’educazione una teoria dell’educazione ed una tecnica dell’educazione: la prima riguarda la pragmatica dei processi formativi, spesso e volentieri spontanea e non razionalizzata; la seconda si occupa dei principi filosofici cui deve ispirarsi un avviamento pedagogico; la terza concerne l’applicazione pratica di quegli obiettivi di propensione pensati in sede teoretica. Il personalismo ritiene imprescindibili direttive dello sviluppo l’orientamento e i valori educativi, piuttosto che la prassi, contrastando, di fatto, l’approccio americano, per una pedagogia ispirata agli scopi della società democratica e libera. Partendo dal presupposto che la conoscenza umana, che è ritenuta in se stessa un fine, muova dall’intuizione e non dai problemi reali, ogni apprendimento deve poi ricondursi alla verità, conformemente a ciò che esiste oggettivamente, come essere del reale. Scopo e gioia della conoscenza sono disinteressati, perché vengono riconosciuti come valori in se stessi. La verità fa l’uomo libero, e l’educazione liberale compie questo cammino di liberazione delle coscienze, che cercano la verità e la sapienza come beni. Il possesso della scienza è sempre acquisizione di un sapere tecnico, inferiore a quello della sapienza, che è godimento della verità, del bene e della bellezza, cui deve tendere ogni insegnamento che voglia instaurarsi come habitus significativo per il soggetto. L’intelligenza naturale, che apprende scientificamente, differisce dall’intelligenza delle virtù intellettuali, che si perfeziona in sapienza. Ogni educazione liberale ha il compito di formare all’intelligenza delle virtù intellettuali, passando attraverso l’intelligenza naturale delle scienze. E diviene, in tal modo, educazione ai valori, etica e scienza del bene. Maritain insiste sulla differenza tra l’individuo, sottoposto alle leggi naturali e a quelle dello Stato, e la persona, che trascende sia la natura che lo Stato. L’uomo è persona, in quanto valore in se stesso, che si evolve nella Storia attraverso le leggi dell’amore. Entro tale visione umanistica si deve superare l’approccio razionalistico di Cartesio, caratterizzato dal dualismo anima corpo, in favore della posizione tomistica, che recupera l’unità inscindibile della persona umana. Anche l’educazione deve perciò modificare i suoi metodi in tale direzione, valorizzando una formazione intellettiva rivolta alla contemplazione dei valori elevati dello spirito, onde evitare lo specialismo tipico dei tecnicismi, che svalutano la dimensione olistica a vantaggio di una tendenza parziale ad una sola dimensione di sviluppo. Ciò non vuol dire affatto discriminare l’educazione alla manualità, che deve invece essere favorita perché l’orientamento all’applicazione pratica delle abilità conseguite diventi uno degli obiettivi formativi delle scuole di ogni ordine e grado. La formazione teorica deve di necessità accompagnarsi anche all’educazione alla mano, che libera dalla schiavitù della disabilità e della incompetenza pratiche, facendo ad un tempo percepire ai fanciulli il valore liberatorio delle virtù intellettuali, che sono da intendersi come pregio a se stesse, da conseguire come fine e scopo dell’impegno, piuttosto che come mezzi per ulteriori e diversificati obiettivi esistenziali, quali il denaro ed il potere, la competitività, nelle società capitalistiche contemporanee, che hanno smarrito del tutto i valori della persona e dell’intelletto. Il post-moderno ha difatti svuotato l’uomo di ogni pregio intrinseco, ed ha finito col prediligere ed elevare ad obiettivi dell’attività sociale il nichilismo strumentale del tecnicismo competitivo e scettico, fondato sulla preminenza del potere politico conferito dal denaro e dal capitale. Al contrario, una educazione che abbia di mira quegli aspetti contemplativi propri di chi coltiva le virtù intellettuali riesce a creare in classe un clima di operoso silenzio fondato sulla capacità di concentrazione e di meditazione di cui sono capaci anche gli allievi molto piccoli dei gruppi di lavoro montessoriani. La facoltà contemplativa è tipica del pensiero intuitivo e se si mostra con criterio di priorità nei bambini fino alla comparsa del pensiero discorsivo e del linguaggio, è anche vero che la si può accrescere nel tempo, formandone l’abitudine, dopo averla adeguatamente stimolata ed esercitata in maniera duratura. Per incentivare lo sforzo alla meditazione e alla concentrazione in vista della contemplazione intellettuale è necessario formare ad un metodo che abbia come suo obiettivo principale la ricerca della verità, contrastando fortemente l’inclinazione all’applicazione meccanica e passiva delle acquisizioni conseguite senza ansia di conoscenza e sete di sapere; così come l’abitudine a mandare a memoria regole e formule prestabilite, che nulla ha di divergente e creativo per la dimensione del sapere organizzato in modo significativo e intelligente. Di contro, il bisogno di acquisire sempre nuove conoscenze, sentite come valore in se stesse, trova ricompensa nella gioia conseguita attraverso la maturazione della sapienza intellettuale. Fondamentale, in tal senso, diventa anche l’attenzione al rapporto intercorrente tra educatori e giovani. Gli adulti non sono plasmatori di anime. Non devono imporsi ai discepoli in alcun modo. Il loro ruolo pedagogico è essenzialmente quello di assecondare gli interessi e le inclinazioni degli allievi per poterle favorire attraverso l’amore e l’autorità intellettuale e morale. Perché ogni vera educazione che si rispetti deve necessariamente avere anche un bagaglio di valori etici cui fare riferimento immediato. Perciò il compito della scuola non è solo quello di istruire il tecnico o lo specialista, ma anche e soprattutto quello di formare la persona educando l’uomo. L’educazione progressiva e liberale è da intendersi, pertanto, come una costante opera di liberazione delle coscienze in vista dell’acquisizione progressiva, da parte dei giovani, di una indipendenza critica anche dalle scelte del mondo degli adulti. Intendendo come libertà la capacità di conoscere se stessi fino in fondo per decidere di sapere cosa si vuole dalla propria vita, con la consapevolezza che questo tipo di libertà sia cosa ben diversa dall’anarchia e dal libertinaggio senza regole. «Vetera novis augere»[3] scrive Maritain. Le nuove acquisizioni non devono contrastare con quelle precedentemente acquisite, ma devono accrescerle ed arricchirle. E i veri maestri sono docenti di sapienza oltre che cultori della disciplina che insegnano. Perché solo la sapienza serve a trasmettere una conoscenza unificata del sapere. Intanto quest’opera di liberazione delle coscienze dei giovani pretende, da parte dei loro educatori, un’altrettanto profonda indipendenza ideologica e di ricerca. Realtà, queste, che si ritrovano con grande difficoltà concentrate insieme nelle nostre scuole, in cui si pretende dai docenti che restino fedeli ai programmi ministeriali e ancorati al testo adoperato come manuale di riferimento. L’autonomia implica scelte libere davvero. Ed appare un controsenso che si possa chiedere di educare in libertà a chi è stato condannato per contratto alla schiavitù. Un’educazione liberale pretende quindi, come sua inevitabile precondizione, la libertà interiore della classe docente, la sua autonomia di giudizio, l’esercizio della capacità critica nel valutare ed operare scelte consone ad una società democratica, che si fondi sulla capacità di pensare in modo davvero autentico. L’educazione deve essere intesa, al pari della medicina, come un’«ars cooperativa naturae»[4], in cui il principale agente del processo formativo non è il maestro ma lo scolaro. «L’avventura educativa consiste in un incessante appello all’intelligenza e al libero arbitrio dei giovani. Il dono più prezioso, che un educatore possa avere, consiste in una specie di rispetto sacro e affettuoso per l’identità misteriosa del fanciullo, la quale è una realtà nascosta che nessuna tecnica può raggiungere. L’incoraggiamento è tanto fondamentalmente necessario quanto l’umiliazione è pregiudizievole»[5]. Credo sia questo il passo più illuminante e significativo di Maritain sulla sua idea di educazione. L’attenzione alla libertà di scelta, ed il sacro rispetto per l’identità dei giovani, diventano un dono prezioso dell’educatore ai discepoli che, prima di istruirli, li conosce e li ama per quello che sono. E, amandoli, desidera vederli crescere e maturare come donne e uomini liberi, senza coartare alcun aspetto della loro tenera individualità. Danilo Dolci scriveva che «ciascuno cresce solo se sognato»[6]. Ed il solo capace di sognare ciò che il suo discepolo non è ancora è il maestro, che guarda con occhi discreti ma attenti fino in fondo all’anima dei suoi allievi. La capacità di introspezione è certamente una dote innata, che si struttura però anche con l’esercizio continuo al dialogo e al confronto interattivo, di chi sa mettersi in ascolto dell’altro, per comprenderlo pienamente, imparando a leggere oltre i silenzi e le parole non dette. La scuola del tecnicismo è una testimonianza esemplare della vuota superficialità diffusa che ha colpito al cuore le istituzioni formative, pilastro della società democratica e libera. Una scuola che forma solo ed esclusivamente in vista di un posto di lavoro, è un’azienda dello Stato che produce uomini e cultura allo stesso modo in cui si potrebbero produrre giocattoli o armi da guerra e banconote. Perché strumentalizza la persona ad un obiettivo estrinseco al suo stesso valore. L’educazione liberale va oltre l’informazione, per strutturarsi in progressivi apprendimenti significativi. La formazione della persona umana è un’impresa laboriosa e lenta, di cui molti educatori non avranno il modo né il tempo di vedere i frutti. Uno degli strumenti imprescindibili della libertà democratica è la scrittura. Ma per imparare a scrivere bisogna, primariamente, imparare a leggere, apprezzare l’importanza del libro, manipolarlo, scoprirlo, sfogliarlo. Il servizio di libertà che il sapere rende alle coscienze passa, necessariamente, attraverso la liberazione dalle catene della servitù in cui prostra l’ignoranza, intesa non solo come non-scienza, ma soprattutto come disprezzo per tutti quei valori immortali ed eterni della humanitas di ciascuno. Amare un libro è come imparare ad amare un amico, che svela i suoi segreti. Saper leggere è acquisire l’abilità del mettersi in ascolto. Oggi si fa un gran parlare di tutto. Ci si sente per poco esperti enciclopedici detentori di ogni branca dello scibile. E non si comprende quanto parlare di chiacchiere vuote si finisce col fare in giro, per la mancanza di competenza all’ascolto attivo dell’altro. Che non è atto del sentire, ma del comunicare in modo empatico e profondo con tutto l’essere, partecipando completamente al suo vissuto, al suo dolore, ma anche alla sua gioia; condividendo sogni o aspettative, anche soltanto attraverso l’esperienza del loro racconto. Che scoramento prende, invece, quando in un’aula scolastica si assiste allo starnazzare di voci professorali che, incapaci di dire e ascoltare, sanno solo reprimere con la forza dittatoriale sogni, speranze, desideri dei giovani. Perché è da questa dolorosa frustrazione che discende il fenomeno del triste abbandono degli studi. Il fallimento della scuola si concretizza, difatti, quando la ricerca di un lavoro viene ritenuta più gratificante, attraverso la ricompensa del denaro, rispetto al dover soggiacere quotidianamente alle umiliazioni scolastiche imposte da docenti che non sono capaci di insegnare e che, tuttavia, continuano a rimanere in cattedra, garantiti da un sistema politico ed istituzionale vergognoso e lassista. Ciò non vuol dire che bisogna togliere rispetto alla figura professionale del docente. Al contrario, se chi insegna fosse in grado di assumere una posizione autorevole, per quanto conosce e per come sa trasmetterlo agli allievi, incentivando l’amore per il sapere e la gioia della ricerca, probabilmente anche il ruolo sociale dell’insegnante se ne gioverebbe, riacquistando quella stima e quella considerazione generali, ormai perdute nella percezione collettiva. Non sono veri educatori né i dittatori, che si vogliono imporre ai fanciulli in modo eteronomo, né tanto meno gli anarchici, che nell’illusione demagogica di concedere la massima libertà possibile ai giovani, in realtà fanno loro un grave danno, rinunciando al dovere di educarli, e al tempo stesso illudendoli che la libertà coincida con il libertinaggio. Queste due categorie di falsi educatori sono entrambe menzognere traditrici del compito formativo che hanno assunto nei confronti degli alunni e delle loro famiglie, verso l’istituzione e la società tutta. La dignità umana si forma nel rispetto dei valori di libertà, uguaglianza, fraternità dei popoli, che la legge deve garantire attraverso il riconoscimento della laicità religiosa, dell’autonomia politica, delle scelte sessuali di tutti. Perché la scuola liberale non può dimenticare che sta educando l’uomo in quanto cittadino. Perciò gli insegnamenti fondamentali sono quelli di storia, filosofia morale ed educazione civica. La scuola, intesa come ambiente di vita, e non come luogo di insegnamento e di ricezione passiva, deve essere organizzata come un laboratorio che produce idee nuove, a partire dai giovani, spontaneamente riuniti in gruppi di lavoro e di ricerca, che riproducono, in piccolo, le strutture istituzionali dello Stato democratico. Un’altra disciplina degna di essere contemplata nel curricolo di studi liberale è quella della storia delle scienze, per una scuola in cui vi siano «meno fatti da ricordare e più gioia intellettuale da provare»[7]. «L’obiettivo dell’educazione liberale di base non è l’acquisto della scienza in se stessa o dell’arte in se stessa e delle virtù intellettuali che esse comportano, ma piuttosto di cogliere il loro significato e avere una certa comprensione della verità e della bellezza che esse comportano e che non cessano di arricchire il patrimonio della cultura. Noi cogliamo il significato di una scienza o di un’arte quando comprendiamo il suo oggetto, la sua natura, la sua portata e la specie particolare di verità o di bellezza che essa ci scopre»[8]. L’educazione liberale si estende dall’infanzia alle scuole superiori e all’università, in cui diviene “scuola di umanità orientata” dalla presenza della disciplina filosofica, che si pone come termine primo ed ultimo di raccordo degli insegnamenti specialistici. Grande attenzione viene riservata alla suddivisione del tempo, in tempo occupato dallo studio, tempo libero dedicato al riposo, e tempo di libera occupazione, utilizzato per coltivare l’approfondimento delle discipline umanistiche, liberali ed intellettuali. La formazione religiosa e morale è un obiettivo di primo livello entro questa concezione pedagogica. In particolare l’educazione alla cristianità, attraverso il recupero della tradizione ebraica. La concezione di uno Stato laico, indipendente dalla Chiesa, non collima con il mutuo isolamento delle due istituzioni. Ma comprende il senso di una collaborazione discreta tra i due ambiti. Nella Chiesa l’uomo agisce come cristiano. Nello stato egli vive e sceglie in qualità di cittadino. Ma orientamento religioso e scelte civili non possono essere del tutto separate tra loro, essendo l’una espressione dell’altra, nell’unità della persona. La loro frattura è piuttosto esemplare manifestazione del disordine spirituale di cui oggi ci si lamenta e si soffre. Gli stessi studi accademici non possono non contemplare nei loro insegnamenti la disciplina teologica, che è sapere radicato nella rivelazione e razionalmente sviluppato. Differente dal sentimento spirituale della religiosità popolare. L’università laica, non atea, deve orientare l’uomo alla storia delle religioni, che sono sempre prodotto esistenziale elaborato in risposta ai bisogni degli intellettuali di tutte le epoche. Lo scopo di tale disciplina è quello di disporre alla sapienza attorno alle religioni. Donde l’esigenza di un’educazione cristiana come completamento di qualunque aspetto tecnico-specialistico della formazione professionale. Perché per il cristianesimo l’uomo è sinolo di anima e di corpo, ed entrambi, immortali e destinati alla risurrezione, sono necessari a formare la persona, che non è concepibile, come invece sostengono l’induismo, il buddhismo, l’orfismo pitagorico e il platonismo, solo attraverso la vita dello spirito. Il corpo non è il carcere dell’anima, ma è tempio dello Spirito Santo, e la salvezza dell’uomo, la sua redenzione e ascesa, cominciano già dall’esperienza terrena, che viene rivalutata significativamente, come passaggio che forma in vista dell’aldilà. Senza del quale è impossibile alcun tentativo di riscatto e di liberazione. «A mio avviso – scrive Maritain – ciò che è richiesto è di sbarazzarsi degli assurdi pregiudizi che risalgono al Rinascimento e che bandiscono dalle spiagge benedette dei programmi scolastici un buon numero di autori e di materie, sotto il pretesto che essi sono specificamente religiosi, e per conseguenza “non classici”, quantunque interessino essenzialmente il tesoro comune della cultura. Gli scritti dei Padri della Chiesa sono parte integrante della cultura umanistica, tanto quanto o più ancora di quelli dei poeti drammatici elisabettiani; S. Agostino e Pascal non ci istruiscono meno di Lucrezio o Marco Aurelio»[9]. Un’educazione cristiana deve rispettare i medesimi precetti di una formazione laica, proponendosi di contemplare il sacro senso della verità e della libertà intellettuale degli allievi, a partire dall’indipendenza ideologica dei docenti. Bisogna, però, a questo punto operare una distinzione tra intelligenza naturale e virtù intellettuali del filosofo, dell’artista o dello scienziato. La prima è attitudine spontanea alla curiosità, le seconde sono perfezionate attraverso l’impegno e lo studio personali della filosofia e della teologia, così come delle arti e delle scienze tutte. La formazione filosofica dovrebbe prevedere, unitamente all’apprendimento della Storia della Filosofia, anche quello dei problemi filosofici fondamentali. Mentre la preparazione teologica dovrebbe essere rapportata alle questioni delle scienze in senso lato. Pare, insomma, che il Maritain intenda la formazione liberale delle scuole di umanità orientate, essenzialmente come apprendimento della sapienza e della cultura umanistica, attraverso lo studio dei testi filosofici e teologici, indispensabili a completare gli insegnamenti specialistici e tecnici, professionalmente diretti. Vi è anche una netta propensione alla salvaguardia della dignità del lavoro manuale, che è fondato nella tradizione cristiana, se Gesù era figlio di un falegname. Ma bisogna smetterla col discriminare la cultura popolare, ancestralmente legata alla manualità, da quella liberale, per tradizione orientata all’esercizio delle virtù intellettuali. La scuola deve insegnare anche un mestiere pratico. Ed è importante che gli allievi di tutti gli orientamenti sappiano gestire la manualità in funzione della produttività operativa e creativa degli oggetti, prima che dei progetti. Per rendere applicativi questi interventi è primariamente necessario sgombrare le menti dei pregiudizi da sempre legati all’operosità o meno meritevoli di attenzione e di impegno. Il lavoro umano, secondo lo spirito evangelico, è da intendersi come un servizio rivolto agli altri. La gestione dell’insegnamento deve, invece, seguire percorsi ludici che si vadano alternando con quelli di studio propriamente intesi. Nelle scuole orientate a sviluppare le virtù dell’intelletto, gli allievi si cimenteranno in modo ludico con quegli aspetti della cultura manuale, per apprendere abilità pratiche. Al contrario, negli indirizzi professionali, gli alunni “giocheranno” con gli apprendimenti intellettuali, per acquisire la capacità di giudizio critico e di discernimento. Il Maritain continua sostenendo l’importanza dell’orientamento ideologico della scuola nazionale, che non deve permettersi di entrare in contrasto con quelli che sono i valori riconosciuti dalla famiglia di origine. Qui sembra, ad onor del vero, che il personalismo si spinga troppo oltre, a divenire educazione del cittadino, che è da sempre figlio ed elemento di una struttura familiare. È opportuno ricordare che l’attuale società civile conta un notevole numero di famiglie disfatte, che non hanno nulla a che vedere con quei nuclei formativi primigeni di cui parlava il Maritain quando scriveva nel 1946 il saggio conclusivo dell’opera L’educazione della persona, intitolato Il problema della scuola pubblica in Francia. Risulta quasi impossibile, poi, ad un’analisi più approfondita, riuscire a distinguere il singolo individuo da quello che è il suo nucleo familiare, quasi che il fanciullo si portasse dietro, anche materialmente, il fardello delle esperienze educative ricevute in famiglia. In questa prospettiva, la scuola sarebbe un ripetitore passivo di nozioni già apprese. E si riconoscerebbe nella famiglia un ruolo primario, non solo in senso temporale, ma anche dal punto di vista sostanziale, nella formazione dei soggetti in età evolutiva, che finirebbero così per discriminare il ruolo della scuola, come istituzione che ha un peso reale nell’educazione. Soprattutto, si perderebbe della scuola quello che è il suo compito primigenio, di costituire, secondo gli intenti di Postman, una sorta di termostato regolatore con l’ambiente esterno, rappresentando la controparte necessaria dei fatti e dei valori altrove significati, per consentire ai suoi utenti di sviluppare davvero quella dimensione aperta e ampia, anche in prospettiva. Il fanciullo non appartiene alla famiglia più di quanto non appartenga allo Stato. Il giovane è figlio e cittadino, ma prima di tutto è se stesso, ed ha il diritto-dovere di esserlo. Né la famiglia, né tanto meno la scuola, possono coartare la vera natura dell’adolescente, quanto piuttosto hanno il dovere di assecondarla e di sostenerla nella sua crescita e nel suo sviluppo. Non è pensabile che un intervento educativo sia formativo se eteronomo e coatto. Un’educazione liberale è, prima di tutto, un’educazione alla libertà. Se questo è l’indirizzo, gli strumenti non possono essere contrari agli obiettivi finali. Anche i metodi formativi, perciò, andranno rivalutati, riconsiderati e rimodulati su queste istanze di democrazia e di indipendenza degli individui. La pretesa del Maritain di riconoscere nella famiglia il fulcro centrale di riferimento del processo educativo si fonda sull’idea di appartenenza del soggetto al proprio nucleo originario. Anche questa è un’assunzione di certezze tutta da dimostrare. Non ci si può sentire appartenenza prima di desiderarlo, per il semplice fatto di condividere determinati ideali, aspettative, valori. Ma nemmeno si può presupporre che l’essere nati all’interno di un determinato nucleo familiare, piuttosto che di un altro, debba finire col determinare necessariamente la condivisione di quegli ideali e di quei valori familiari. Si deve cominciare a ritenere un diritto della persona umana quello di poter rigettare per intero l’educazione ricevuta in famiglia. E questo diritto di libertà democratica, che non è rinuncia all’educazione, né libertinaggio anarchico, può essere esercitato dai giovani solo ed unicamente col sostegno degli adulti che offrono, in quanto educatori, numerosi modelli di riferimento, tra i quali ciascuno possa scegliere quello che più gli è confacente. Nella ferma consapevolezza che non sempre la famiglia di origine è in grado di fornire esempi edificanti, ed in tal caso il peso maggiore della formazione ricade sulle istituzioni e spetta alla scuola, che non può ridursi, perciò, ad essere un mero ripetitore di idee già sufficientemente elaborate dalla società e poi acquisite dai gruppi per conformismo. L’idea educativa di Maritain pare si possa qui allineare con quella impositiva ed eteronoma del Rousseau dell’Emilio, che distingue nei ragazzi un’età della ragione, in cui si potrà lasciare libertà di scelta, da una precedente in cui è necessario decidere in modo autoritario anche per l’altro, implicitamente ritenuto incapace di pensare e di autodeterminarsi. È, invece, da accogliere l’invito con cui l’autore termina il suo lavoro, in vista di un concetto di educazione che sia rivolto ad «abituare l’anima alla vita interiore e al raccoglimento, e a fare crescere in essa il vigore personale della coscienza»[10]. Se le nostre attuali istituzioni educative fossero in grado di raggiungere solo questo tra gli obiettivi raccomandati dal Ministero della Pubblica Istruzione, già potremmo sentirci unanimemente e pienamente soddisfatti. Il che, evidentemente, non è ancora. Né possiamo dire se, e quando mai, si verificherà.
Studio pubblicato sulla rivista Pianeta Cultura
[1] L’opera fu edita a Parigi nel 1959 con il titolo originale Per una Filosofia dell’Educazione.
[2] J. Maritain, L’Educazione al bivio.
[3] J. Maritain, L’educazione della persona, La Scuola Editrice, Brescia 1962, pag. 46.
[4] Ivi, pag. 48.
[5] Ivi, pag. 49.
[6] Cfr. la poesia omonima di D. Dolci.
[7] J. Maritain, L’educazione della persona, La Scuola Editrice, Brescia 1962, pag. 64.
[8] Ivi, pag. 63.
[9] J. Maritain, L’educazione della persona, La Scuola Editrice, Brescia 1962, pag. 91.
[10] J. Maritain, L’educazione della persona, La Scuola Editrice, Brescia 1962, pag. 143.
IL RUOLO DEL DOCENTE
IL RUOLO DEL DOCENTE[1]
di Antonietta Pistone
Nella relazione di ingresso in ruolo, dopo l’anno di formazione e di prova 2005-2006[2], scrivevo che l’insegnamento è una missione impegnativa che coinvolge interamente, perché la scuola produce cultura, ma è soprattutto il luogo di incontro di persone che maturano e crescono insieme. Il compito della classe docente è impegno etico, che si caratterizza per l’educazione ai valori fondamentali ed eterni dell’umanità. Il docente deve possedere la struttura epistemica della disciplina che insegna, ma deve al contempo essere un buon comunicatore, in grado di coinvolgere nella dialettica dell’interazione ogni singolo allievo. La tradizione scolastica italiana si caratterizza sin dalla Riforma Gentile del 1923 per la predilezione verso i saperi umanistici. La nostra scuola, fondata su tali presupposti, appare retrograda nei confronti del modello tecnocratico tedesco in cui tuttora predomina il mondo del lavoro, come elemento di confronto della didattica e come obiettivo finale del sistema di istruzione. La scuola progressista del futuro, nell’intento di recuperare decenni di tradizione umanistica in cui era del tutto assente l’aspetto tecnico scientifico dell’istruzione, propende ad un’educazione che sia davvero per tutto l’uomo nella sua interezza. Una scuola del futuro che riconosca alla classe docente, depositaria della cultura di un popolo e di una civiltà, quella sacralità commemorata da Platone nella Repubblica. La scuola è stata coinvolta nel nichilismo dei valori che ha toccato, più o meno gravemente, tutte le istituzioni sociali. La tecnologia è cieca ed immiserisce l’uomo ad una sola dimensione, quella tecnica. I valori culturali, etici, umani e laici costituiscono il presupposto di qualsivoglia educazione che intenda liberare l’uomo. La cultura è strumento di affrancamento e di riscatto, dalla schiavitù delle passioni, dei vizi, della noia e della passività. Anche i valori dello spirito, della religiosità, sono emblemi da recuperare. Eppure nelle scuole oggi si assiste ad episodi di insubordinazione ai docenti, e di incomprensione tra compagni dello stesso gruppo classe. Evidentemente c’è qualcosa che non funziona nel profondo. E la scuola, che appartiene a tutti, non può non interrogarsi su problemi così decisivi per il suo futuro. La cultura è patrimonio dell’umanità perché non vuole padroni. Gli insegnanti devono essere persone libere e senza pregiudizi, capaci di inculcare i valori dell’indipendenza e dell’autonomia interiore. «Educazione è azione formatrice della capacità di pensare, volere e sentire con autentica libertà. Questo concetto critico è una piattaforma teoretica molto lata sulla quale s’incontrano pacificamente contrastanti pedagogie per un comune dialogo costruttivo. L’educazione, infatti, libera l’uomo dalle sue numerose schiavitù interne ed esterne e lo fa progressivamente sempre più capace di azioni libere, autonome e personali. L’uomo libero è colui che pensa con la sua testa e che irraggia tutt’intorno la serenità, il gusto e la bellezza del suo stato. Egli è artefice del suo destino, padrone dei suoi atti, coraggioso, sveglio e vigilante» scriveva mio zio che mi ha trasmesso la passione per la filosofia e la storia, oltre che per la scrittura ed il giornalismo, nel 1968, quando era un giovane professore di trentacinque anni (Spigolando tra i pensieri in La scuola del crepuscolo, Pietro Pistone, Litostampa Minervini, Giugno 1968, Molfetta). Quest’uomo, che è poi diventato docente di storia e filosofia, oltre che giornalista, e che ha collaborato presso l’Università degli Studi di Bari e Napoli con il prof. Antonio Corsano, ha lottato per la libertà e la trasparenza fino alla fine, come un novello Socrate, sempre andando contro i suoi personali interessi. Considerato dai più un ingenuo si è battuto per l’espressione incondizionata del pensiero, come forma di liberazione delle coscienze dei giovani. Spesso ne ha pagato direttamente le conseguenze. Ma non si è mai piegato, e non ha mai avuto padroni. Io credo come lui che la scuola debba riacquistare quel ruolo di prestigio che in qualche modo, in questi ultimi anni, le è stato sottratto. «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni di insufficiente dignità e di insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettono in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. Vi sono certo dati sconcertanti di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza talvolta, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo scarsamente efficace di certe impostazioni sono sì un dato reale e anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto benché grave, di superficie. Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di fronte a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana […]», scriveva Aldo Moro il 21 novembre del 1968. Ormai è necessario ricercare una legge morale per la società e lo stato, un’anima nuova che si faccia linfa vitale della cultura e dell’uomo. La scuola, in vista della costruzione di questo dinamico equilibrio, che accetti il cambiamento per incorporarlo progettualmente e fattivamente, ha un ruolo di primo piano nella formazione delle coscienze civili e politiche dei giovani. Alcuni pedagogisti gridano allo scandalo, e invocano autorità ed autorevolezza. Non credo sia questa la soluzione all’immobilità del nostro presente. Inviterei a riflettere sul vuoto di senso, sul deserto heideggeriano che ci circonda. Sulla morte di Dio e sulla fine della morale e dei valori di cui parla Nietzsche. Sul suo necessario ateismo, inteso come adulta presa d’atto che, seppure ci sia stato, Dio non tornerà mai più. Questo ateismo, insieme con il suo conseguente smarrimento, costituiscono la medesima situazione psichica di molti dei nostri giovani allievi. Il nichilismo non va rifiutato. Qualcuno oggi dice che va attraversato fino in fondo. E che l’inferno del nulla sia preferibile alla verità preconfezionata, comodamente offerta ed onorata dalla tradizione. I giovani hanno il diritto di intuire una strada che sia realmente percorribile. Un futuro libero e democratico, degno di essere vissuto nel disprezzo dell’emarginazione, del razzismo, dell’intolleranza. Piuttosto che imporre regole eteronome dettate con la forza, la scuola dovrebbe ricominciare ad educare, con la Storia, maestra di vita, e con l’Educazione civica, il cui insegnamento fu introdotto proprio dal costituzionalista Aldo Moro, che fece poi abolire le leggi razziali fasciste. Bisogna inculcare nei giovani i valori forti della Filosofia, che si interroga costantemente sul destino dell’uomo, cercando di rendergli possibile il raggiungimento della conquista più ardua, che è quella della felicità. Una felicità esistenziale e storica, che non abbia nulla di trascendente, né che aspiri a verità assolute e dogmatiche. Che sia semplicemente consapevole di sé, dei suoi propri vissuti empirici, e che si assuma il compito oneroso del prendersi cura, del fare attenzione, del dialogare con l’altro, imparando ad ascoltare oltre il sentire e a guardare oltre il superficiale atto del vedere. [… ] Non credo nell’educazione formale, troppo spesso vuota di contenuti reali. […] Ma la conquista di un equilibrio democratico e maturo si dimostra sempre assai difficoltosa da raggiungere nell’immediato, avendo bisogno di tempi lunghi e dilatati per realizzarsi pienamente. L’autogestione resta il mio obiettivo. L’autonomia del porsi domande per camminare insieme con l’insegnante, che lungi dal sentirsi il depositario dello scibile, è comunque e sempre una persona che si interessa di cultura, e che ha piacere di approfondire, facendo un percorso comune a quello dei suoi stessi allievi. […] Il mio si conferma un metodo scomodo e faticoso nel breve periodo. Ma, alla lunga, risulta vincente per tutti, favorendo un clima di positivo ascolto e collaborazione tra docente e allievi. I giovani, infatti, lasciati liberi di organizzare il tempo individuale di studio, si responsabilizzano e raggiungono autonomamente determinati obiettivi di contenuto disciplinare, attraverso una competenza finale che si attesta, per la maggioranza di loro, sugli obiettivi minimi. Sono d’accordo con il filosofo Giovanni Gentile che riteneva fondamentale la conoscenza delle discipline storico-filosofiche per ciascun futuro dirigente o uomo politico. In questo senso anche io ritengo che l’educazione liceale si confermi formazione privilegiata, sebbene universalmente estendibile in linea teorica. Nell’epoca post-moderna ci si trova proiettati a vivere nella cittadinanza globale. Nessuno può dirsi estraneo ai fatti accaduti, né agli eventi storici che, seppure lontani nel tempo, finiscono imprescindibilmente per influire sugli aspetti più pregnanti della civiltà contemporanea. Il male peggiore è, oggi, l’indifferenza che, nell’ignoranza, rende ogni aspetto del reale uguale a tutto il resto. Le prospettive storico-politiche sono tutt’altro che rosee, perché è difficile da vivere e da comprendere l’attuale momento storico. La storia, magistra vitae, insegna ad interpretare in modo critico e problematico il passato per capire meglio il presente, ed evitare, in futuro, che si ripetano gli errori già commessi. Ma non è facile smuovere le menti dei giovani, spesso già conformistiche e plasmate dalla mentalità degli adulti che hanno vicino. D’altra parte è improbabile che un adolescente abbia avuto il tempo di fermarsi a riflettere profondamente sulle sue convinzioni. I miei alunni più capaci ed intelligenti mi mettono in grave difficoltà ed imbarazzo quando si tratti di affrontare con loro le problematiche dell’immigrazione. Le questioni sociali dei rom sono percepite essenzialmente come un fastidioso problema della contemporaneità, ritenendo che sia più conveniente per determinate categorie sociali e ceppi razziali, che questi portatori di disordini restino ghettizzati ai margini della civiltà, che lavorino pure agli impieghi più umili purché non diano fastidio. Ugualmente per le violenze sessuali, di cui sono unanimemente ritenuti responsabili dai più. Ho tentato di far capire ai miei allievi come sia difficile avvicinare la diversità, e quanto questo sia, nonostante tutto, un compito doveroso ed impellente per le nostre generazioni, che hanno ancora sulla loro pelle gli effetti devastanti dei campi di concentramento e dei pogrom. Ho riportato loro la memoria dei nostri italiani che nella seconda metà dell’ottocento hanno sfidato la fortuna, emigrando in America, per mantenere moglie e figli che spesso restavano in patria ad aspettare quattrini per potersi sfamare, e vivere in modo più degno e decoroso di quanto non facessero prima. Non di rado mi sono trovata davanti un muro di gomma, impenetrabile. E proprio dai giovani che dimostravano di possedere maggiori abilità critiche e dialettiche. Non mi sono spaventata né irretita, pur nella consapevolezza del ruolo sempre più scomodo di chi vuole tentare l’impresa di aprire la mente delle nuove generazioni ad uno sguardo ampio e prospettico, che includa la polimorfa complessità del reale. Troppo torpore ha atrofizzato la versatilità, la leggerezza, l’abilità di modificare le proprie opinioni per incontrare davvero l’altro, al fine di stabilire una relazione significativa e costruttiva. La stessa difficoltà ho incontrato nell’affrontare il tema della religione, ed in particolar modo quello della reale natura di Dio, e della fede. La maggior parte degli alunni crede, e si dichiara cattolica, anche per tradizione. Ma quelli che tra di loro si definiscono atei, sono profondamente convinti delle loro opinioni, e rifiutano anche la possibilità di una fondazione metafisica in senso forte, come ricerca ontologica dei valori morali. Tuttavia, il vero incontro, sosteneva giustamente Socrate, è fondato sul dialogo, che è sempre una forma di introspezione clinica in cui ciascuno mette in gioco se stesso e l’altro, senza la benché minima presunzione di stare nel giusto. Il mio sogno è quello di una scuola che abitui i giovani al confronto dialettico con gli altri, compagni e insegnanti. Ma è, al tempo stesso, una meta ancora utopica, che si può tentare di costruire, e per la quale vale ancora la pena di esserci, per approntare una sfida alla post-modernità. I miei programmi dello scorso anno risentono di questa impostazione. Ho trattato la filosofia ebraica, perché sentivo la necessità di trasmettere loro, unitamente all’esperienza devastante del nichilismo nietzscheano, anche la fede in una speranza possibile. Quest’anno ho, invece, recuperato il sintetismo idealistico di Rosmini, anche attraverso la fondazione ontologica dei valori di cui parla lo storico della filosofia Pier Paolo Ottonello. Si trattava di trasmettere la speranza nella persona umana, ormai distrutta dalla criminalità organizzata, dalla Mafia, dal mondo onnivoro della droga, che hanno travolto l’uomo. Perché un siffatto scenario lascia un orizzonte di disperazione e di vuoto negli occhi dei giovani. Mentre doveva tornare a splendere la luce, dopo aver varcato insieme le colonne d’Ercole del peccato di Ubris, del patto di Mefistofele che tutto promette affidandolo alla scienza e alla filosofia. Certamente vi è in ciò la presunzione che la ricerca possa in qualche modo rendere l’uomo felice. Ma in questo caso si trattava di far capire loro che la persona resta un valore. E che un valore immenso, nel cui fondo si agita per il credente la presenza, immagine del Dio Creatore, deve essere comunque riconosciuto nello sguardo dell’altro, nelle sue parole, nel dialogo di relazione, in cui un io ed un tu vengono ad incontrarsi per avvicinarsi mutuamente, reciprocamente affinarsi e modificarsi. Dopo aver attraversato senz’altro per intero l’inferno del nichilismo. Abbiamo bisogno di scuole di umanità. E non esiste scienza al mondo che sia capace di esprimere la grandezza dell’uomo, il suo intrinseco valore, la memoria storica, fedelmente custodita nel patrimonio della civiltà e del suo popolo, che non possa essere distrutta dalla violenza efferata dell’uomo sull’uomo. La guerra è il male peggiore. Eppure, dopo due guerre mondiali, non lo abbiamo ancora capito se, evidentemente, esiste l’odio razziale, la presunzione della razza perfetta e pura, incontaminata, che deve primeggiare sulle altre. Quanto più cresce e si affina la cultura scientifica e tecnologica, tanto maggiormente vi è un bisogno intrinseco di filosofia, che faccia di se stessa uno strumento di educazione alla pace dei popoli e tra i popoli. L’intercultura non deve restare un sogno. Necessita doverosamente di divenire un imperativo categorico kantiano per la nostra umanità. La pace tra civiltà resta possibile solo attraverso un reale incontro tra le differenti culture. D’altra parte la vera conoscenza muove sempre dall’amore. Fino a che il patrimonio delle civiltà non saprà insegnare il rispetto reciproco della storia dei popoli, le culture resteranno tra loro sempre “altre” espressioni di società. Credo fermamente che insegnare oggi storia e filosofia sia un compito ingrato, spesso mal pagato in termini di soddisfazione economica, sempre oneroso e impegnativo, e per questo coinvolgente. Non esiste nulla di più vero per l’uomo che non rappresenti il confronto con la diversità, e non implichi il dialogo comunitario e condivisibile della relazione autentica, che riconosce nel volto dell’altro la trascendenza di Dio, secondo il mirabile insegnamento di Lévinas. Perché solo allora l’altro è concepito come totalità olistica di anima e corpo, sinolo aristotelico di materia e forma, leib come unità dei vissuti psichici, e non Körper, organismo vivente, secondo l’insegnamento della filosofa tedesca Edith Stein. Il personalismo si propone, allora, come via di fuga dal nichilismo, suggestivo ed ammaliante, ma pericoloso per la sua eredità troppo pesante da lasciare ai giovani la prospettiva di desolazione e di disperazione dolorosa. Ho poi voluto spegnere le certezze del personalismo nella precarietà della filosofia dell’esistenza di Heidegger, dopo aver studiato l’approccio fenomenologico della coscienza intenzionale e del suo residuo. Il personalismo rimane una soluzione, ma è necessario prospettare anche l’interrogativo, la domanda, la ricerca di senso, il vuoto, il deserto, il nulla. Il compito della filosofia e della storia è, per il futuro, un pesante fardello di ricostruzione della speranza negata ed umiliata. C’è bisogno di una nuova etica, che dia senso e significato alle prospettive umane. Una nuova ecologia che renda abitabile la terra per le prossime generazioni. Una morale che si riconosca nel rispetto della persona umana, come valore imprescindibile ed ineguagliabile. Che avvicini la scienza all’uomo, alla sua mente, ma anche al suo cuore. Necessitiamo di una storia che non sia favola, ma che riscopra il valore delle grandi narrazioni edificanti del passato, sulle quali poter costruire nuovi orientamenti. Dobbiamo imparare a riconoscere il peso di una storia che si faccia politica nel senso vero della parola, e che riscopra, come Hannah Arendt sosteneva, il ruolo sociale della polis greca, laddove “fare politica” volesse dire inequivocabilmente preoccuparsi della città e della sua amministrazione. Qualcosa che implicasse direttamente un ruolo precipuo per ogni cittadino che volesse dirsi tale, fino ad essere disposto a sacrificare la propria vita, come fece Socrate, come sono oggi disposti a fare tutti coloro i quali lottano quotidianamente per fare doverosamente e fino in fondo il proprio dovere: insegnanti, magistrati, uomini politici, giornalisti, che restano vittime di un sistema omertoso e colludente con la Mafia. Spero di aver insegnato ai miei alunni la fede negli ideali più alti del loro compito, in quanto cittadini dello Stato italiano, attraverso la lettura di alcuni articoli della Costituzione, che esalta il lavoro come valore e attaccamento al dovere. Ma spero di averlo insegnato anche, e soprattutto, con l’esempio che ho loro quotidianamente offerto.
[1] La presente relazione è stata da me scritta per la conferma in ruolo su passaggio di cattedra dalla classe di concorso per l’insegnamento di filosofia e psicologia (A036) alla classe di concorso per l’insegnamento di storia e filosofia (A037), avvenuta in coda all’anno scolastico 2008-2009
[2] Si tratta della prima relazione di ingresso in ruolo, per la classe di concorso di filosofia e psicologia (A036)
ANTONIO VIGILANTE E LA BARCHETTA DI VIRGINIA, MANIFESTO PER UNA SCUOLA IMPROBABILE
ANTONIO VIGILANTE E LA BARCHETTA DI VIRGINIA, MANIFESTO PER UNA SCUOLA IMPROBABILE
di Antonietta Pistone
La realtà della scuola necessiterebbe, oggi più che mai, di spiriti critici, capaci di rompere con il passato che domina incontrastato nelle nostre istituzioni. Vivi interlocutori della verità problematica e sofferta, che vuol dire ricerca, dialogo, interrelazione, incontro, cammino da fare insieme. Senza nascondersi le insidie, le difficoltà, gli inganni, la menzogna sempre in agguato. Mentori virili di nuovi orizzonti. Navigatori accorti dell’ignoto. Non per ridimensionare e sminuire il buono che ancora c’è nella realtà educativa scolastica, ma con il preciso intento di aprire nuove strade alla conoscenza e alla formazione. Senza divenire preda di un troppo facile autocompiacimento. Un coraggioso impenitente, acuto osservatore dello stato dell’arte è Antonio Vigilante, che nel suo Manifesto per una scuola improbabile[1] compie un’analisi spietata e disincantata della situazione formativa contemporanea, confessandosi con semplicità al lettore, prima in quanto studente, poi come professore liceale. «Si discute su cosa insegnare, un po’ meno su come farlo; per nulla su dove farlo. Eppure questa sarebbe l’unica vera riforma della scuola. Una riforma strutturale»[2]. Le scuole sono luoghi di formazione per eccellenza. Non sfugge però all’occhio che sono brutte. Edificate male, senza criteri antisismici, e prive delle più elementari norme di sicurezza. Tanto che insegnare ed imparare, stare a scuola, ormai diviene paradossalmente un mettere seriamente a repentaglio la propria vita. Poi, ma non meno secondariamente, le nostre scuole sono anche esteticamente brutte, costruite con scomodissime e niente affatto salutari sedute, in ambienti squallidi e indecorosi, provvisti di arredi antiquati, sempre uguali da troppo tempo. Con colori smorti, che fanno assimilare gli edifici scolastici più ad ospedali e carceri che a luoghi di gioia e di crescita della persona umana. E tutto questo, accade evidentemente perché l’educazione non è sentita più, ormai, come una nobile scienza formativa, quanto piuttosto come un’imposizione eteronoma all’uomo. La prima evidenza che emerge dalla lettura de La barchetta di Virginia è, difatti, proprio la disillusione dell’autore nei confronti della pedagogia, scienza tanto venerata nel passato, quanto oggi brutalmente umiliata dalla realtà educativa dominante, «Non sono più un grande ammiratore della pedagogia. In questi anni l’ho vista offesa troppe volte. Qualcosa mi è rimasto, però, dell’antica fede. Due o tre massime […] La prima è un verso di Danilo Dolci. “Ciascuno cresce solo se sognato”. La seconda è di tanti e di nessuno. Dice, più o meno: la bellezza educa»[3]. Se crediamo che la bellezza sia uno degli elementi fondamentali dell’educazione, non possiamo accettare che i luoghi deputati alla formazione dei giovani siano spogli e tristi, e che ricordino più lo stato d’abbandono di un day after, che la rinascita dello spirito alle arti e alle scienze dello scibile umano. Non si comprende, poi, come si dovrebbe conciliare il sogno che l’insegnante immagina possa un giorno diventare realtà per il suo allievo, guardando nel profondo della sua anima come nessuno potrebbe fare, con gli improperi che alcuni insegnanti rivolgono ai propri alunni. Le classi difficili sono un problema per tutti. E tenuto conto della difficoltà reale per i docenti, anche quelli più motivati, nel proporre con alcuni ragazzi più complicati una relazione profonda e costruttiva, che si fondi sulla effettiva conoscenza della personalità, spesso gli stessi presidi, sempre l’intero consiglio di classe all’unanimità, ritengono di doversi disfare al più presto di questi soggetti che rompono le scatole, promuovendoli, così, tanto per alleggerire la zavorra della scuola. Questi bastardi, generalmente ragazzi difficili perché provenienti da situazioni familiari o sociali border line, sono poi considerati «materiale umano scadente»[4]. L’autore si sente, a questo punto, in grande imbarazzo nel suo compito di educatore. Diventa sempre più complessa la scelta tra educare o abituare a stare al mondo. Perché educare vuol dire formare la persona umana, nella sua globalità olistica di anima e corpo. «Quelle parole erano stranamente, dolorosamente in contrasto con le parole di cui mi ero riempito la testa all’università, quando ero un fedele seguace della pedagogia. Molto contava, per dire, la parola persona. Indicava l’uomo, considerato nel modo più pieno possibile, nell’interezza delle sue possibilità, nella sua apertura a sé stesso, all’altro, all’alto; l’uomo come essere degno di un rispetto sacro»[5]. Entro questa concezione della scuola l’attenzione ai saperi che formano l’intelletto hanno la stessa importanza dei luoghi che i corpi degli adolescenti in crescita andranno ad occupare per gran parte del loro tempo. Perciò le scuole dovrebbero essere belle, belle perché capaci di infondere negli animi amore e passione per la cultura; belle perché costruite con i criteri della gioiosa abitabilità e funzionalità, oltre che con tutti i crismi dell’edilizia contemporanea antisismica, e messe a norma per garantire contro ogni eventuale incidente che possa sciaguratamente verificarsi al loro interno. «Un professore non ha un posto nel quale incontrare singolarmente lo studente per discutere dei suoi problemi o anche solo dell’andamento didattico. Con un po’ di buona volontà, si trova il modo di farlo nel corridoio»[6]. Personalmente trovo il problema della carenza di spazi a disposizione per dialogare a dir poco vergognoso, per la trascuratezza con la quale è superficialmente snobbato. Il divario con il docente universitario, già per tanti versi iniquo e profondamente umiliante della competenza professionale dell’insegnante liceale, qui si fa abisso incolmabile, che di necessità finisce per penalizzare il già precario e superficiale rapporto con gli studenti, spesso bisognosi di maggiore cura e di dialogo interpersonale. Danneggiati dalla carenza di strutture edilizie seriamente orientate al migliore svolgimento possibile dell’attività didattica, questi giovani, che sono persone, e che rappresentano il futuro dell’umanità, vengono tenuti in aula, nell’immobilità fisica e psichica, mummificati dallo spettro della scolarizzazione, che è silenzio, passività, non reattività. L’alunno scolarizzato è quello che non risponde mai all’insegnante, che non crea mai il caso, non accende polemiche, subisce tutto, anche l’ingiustizia, per totalizzare il massimo voto in condotta. E gli insegnanti, che pretendono il doveroso rispetto formale ed il lei del distacco gerarchico, che segna la distanza e l’asimmetria della relazione di docenza, sono ben felici di poter contare su questi non troppo rari esemplari, che aumentano il loro livello di gloria personale, promuovendo la metodologia didattica dell’insegnamento da loro praticato, e convincendoli sempre più che l’attività di docenza sia più simile ad un lavoro di guardia feroce e di controllo poliziesco, che a una serena esperienza di crescita, senza veli e senza maschere di comodo. Oggi materiale umano domani forza lavoro, questa scuola delle bestie da soma è più vicina ad un circo in cui gli insegnanti fanno la parte dei domatori. E tutto questo è ritenuto all’unanimità perfettamente normale. Nessuno si chiede perché mai si debba essere spietati esecutori di ordini dall’alto, piuttosto che ricercatori euristici di nuove metodologie per la didattica. «L’altro, l’alunno non scolarizzato, è invece uno che risponde, che protesta, che si muove, che parla. È un essere umano che sta cercando di resistere all’opera con la quale si vuole fare di lui un materiale umano, per ora; una forza lavoro in futuro»[7]. Questa tipologia di giovane rifiuta l’immobilità della morte che domina incontrastata la realtà delle nostre istituzioni scolastiche. Nietzsche parlava delle chiese come dei cimiteri di dio. Ma credo che alcune realtà scolastiche abbiano ormai di gran lunga superato i cimiteri religiosi. Divenendo tempi della cultura dogmatica, perché indiscussa e indiscutibile, le nostre scuole sono scadute a nuovi sepolcri dello spirito, in cui si commemorano ogni giorno, per almeno duecentocinquanta giorni all’anno, nient’altro che defunti. «Non è un caso che la cultura scolastica si sia ridotta ad un culto dei morti, ad una santificazione che sfiora in modo grottesco il vilipendio di cadavere. Sappiamo di vivere in un’epoca di profonda crisi culturale. Abbiamo la consapevolezza di essere dei nani, ed è questo che ci fa apparire come giganti gli autori del passato»[8]. Una scuola dei morti, perciò, esaltati per di più come giganti sulle cui spalle ci arrampichiamo disperatamente noi nani odierni. Dimenticando che «I giganti, in realtà, non sono mai esistiti. La terra è stata sempre e solo solcata da uomini»[9]. Viene così da pensare che non resti altro che adeguarsi e, abbandonando ogni velleità educativa in senso forte, rassegnarsi ad abituare a stare al mondo. Non disdegnando il compromesso, la possibilità dell’illecito, la sporcizia o il groviglio, che dir si voglia. Perché la vera immondizia, feccia dell’umanità scolarizzata, non è il lerciume delle strade di Napoli; né il disastro ecologico ambientale che abbiamo vergognosamente provocato al pianeta. Il male è l’illegalità profonda dei comportamenti, che è sfiducia abissale nello stato e nelle istituzioni, nella scuola, nella famiglia, divenuta ormai l’epicentro della violenza sociale. Nelle situazioni problematiche la società, la scuola, le istituzioni tutte, dovrebbero sostenere il peso della formazione che la famiglia non è in grado di assumere per sé. Ma, poiché la scuola e lo stato sono realtà fantasma, l’abbandono e la deprivazione culturale vengono compensati dalla Mafia, che è la sozzura della società, difficilmente accettabile come scusa solutiva delle incongruenze. Non ci si rassegna a lasciar passare l’illecito mafioso come “normale”. Non si può dire società una realtà che sia profondamente e costantemente segnata dall’indebito. Vigilante si rende però anche perfettamente conto di non poter spiegare alla luce della filosofia buddhista la sporcizia della società a tutti i giovani che, prima o poi, ce ne chiedono il senso. E si sente terribilmente solo e smarrito di fronte a tale interrogativo. Chi potrebbe dargli torto? Cosa può dire di sensato un docente in risposta ad un alunno che gli chieda conto di ciò che impara, del mondo di carta che la scuola propone, quando lo si mette spietatamente a confronto con l’amara e dura realtà che tutti abbiamo oggi davanti agli occhi, e con la quale siamo chiamati più o meno sistematicamente a misurarci? I valori che si vogliono impartire, che dovrebbero rappresentare la misura dell’orientamento di vita, non reggono alla profonda scossa, sin dalle fondamenta. E si rischia di formare uomini semplici, ingenui, incapaci di resistere alle prove del mondo. E cosa dire di fronte alla realtà del suicidio degli adolescenti, in costante aumento per i motivi più apparentemente futili ed insignificanti? Forse gli educatori sottovalutano il disagio giovanile. O questi giovani hanno una fragilità emotiva di gran lunga superiore al nostro livello di soglia stimato accettabile. Perciò la scuola, la famiglia, hanno già fallito, in entrambi i casi. La diagnosi è già troppo problematica. Il correttivo è in via sperimentale. Dire di aver individuato una soluzione accettabile sarebbe proferire un autentico non senso. Dunque, siamo al punto di partenza. L’educazione è un metodo euristico. E nel tentare, di errori se ne commettono troppi. Bisognerebbe correggere almeno il numero degli sbagli ritenuti possibili, per configurarsi buoni educatori. Ma anche questa è una falsa questione, che pare un sofisma già in partenza. L’adolescenza resta di per sé un’età complessa, resa ancora più difficile dagli esemplari educativi imposti dalla società e dalla scuola. Lo stesso parlare di modelli formativi metterebbe in difficoltà qualunque vero educatore, che sappia come si può crescere in maniera più consapevole camminando insieme al maestro, che è alla ricerca di un’idea di formazione al pari del suo proprio allievo. Laddove il modello educativo si pone come punto di riferimento eteronomo e distante dalla realtà dell’educando. Quando penso all’educazione mi vengono in mente i fiori, perché ritengo che formare voglia dire far crescere, veder sbocciare, cogliere la fragranza e il profumo dell’essere. Il fiore, curato dal giardiniere, non si muta in rosa se è tulipano. Il giardiniere cura semplicemente il boccio del tulipano per vederlo sbocciare in tutta la sua bellezza. Ogni educatore è come un bravo giardiniere che curi con la stessa attenzione la rosa e il tulipano. Non ama più l’una e meno l’altro. Il suo intento è quello di veder fiorire la bellezza in tutti i suoi colori e profumi. Non potrebbe, nemmeno se lo volesse, mutare un fiore in un altro. L’educatore che voglia cambiare le persone, che si voglia proporre come modello da imitare pedissequamente, correrebbe il rischio di far appassire i suoi fiori, bruciando le occasioni più belle di crescita e di formazione che, coltivate, potrebbero diventare momenti di bellezza e di stupore nella fioritura. La meraviglia di cui Aristotele[10] tesseva le lodi, ponendola come origine di ogni atto del filosofare, diventa qui rispetto profondo dell’alterità, dell’unicità, dell’originalità della persona umana, di cui ci si prende cura attraverso l’educazione e la formazione. Purtroppo la nostra scuola violenta l’adolescenza in boccio, costringendo per decine di anni i giovani all’immobilità passiva, abituandoli a gongolare sulle spalle dei genitori, per annichilirne ogni ruolo produttivo, dal punto di vista sociale. L’adolescente, soprattutto se di buona famiglia, deve studiare. L’esperienza del lavoro viene così ritardata. E la condizione di infanzia prolungata dei ragazzi determina una paralisi economica e produttiva che si estende a macchia d’olio a tutta la società, amplificando ulteriormente l’iniziale danno educativo. Complici di questo parassitismo la tv, oltre che la famiglia, luogo dove prospera la violenza. «La televisione, che ha denaro, acquista i drammi veri o finti delle famiglie e li mette in scena davanti a milioni di telespettatori. Non è solo questione di cattivo gusto. È un attacco alla dignità dell’essere umano. La televisione arriva nell’intimo delle relazioni, dove è costretto ad arrestarsi anche il peggiore dei totalitarismi; strappa il pudore, acquista le storie personali, la narrazione di sé. La televisione celebra sé stessa come forma attuale della Provvidenza. Tutto le è possibile»[11]. La tv trasforma così i giovani in un popolo di fruitori passivi, incapaci di riflessione e di senso critico. «La famiglia, come la scuola (e come la Chiesa), è il luogo in cui si preserva l’inesauribile riserva di moralismo e di ipocrisia degli italiani […] Il fascismo italiano – perché il fascismo non è un accidente storico, ma qualcosa che appartiene radicalmente all’anima italiana, frutto marcio di secoli di educazione cattolica, di servilismo, di crasso maschilismo – celebra qui il proprio trionfo»[12]. Insomma, le istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto di quei valori di educazione e di democratica convivenza civile finiscono per diventare un ulteriore strumento di perversione e di dittatura, luoghi dell’ipocrisia e della menzogna. E le cose non vanno poi molto meglio ai docenti, che si dibattono con la democrazia parodistica dei collegi, con le loro fasulle e pilotate votazioni, che vedono pendere la bilancia sempre dalla parte del dirigente scolastico proponente, e con la farsa dei consigli di classe, nei quali vengono sistematicamente silurati da tutto il corpo docente i rappresentanti degli studenti che tentino timidamente di affrontare le effettive problematiche del gruppo classe. Risultato, il silenzio amaro e deprimente dei docenti, durante i collegi, e dei giovani rappresentanti durante i consigli di classe. Eppure la scuola, che scolarizza e normalizza i “bastardi” per portarli dalla barbarie alla civiltà, si riconosce anche obiettivi elevati, dal punto di vista pedagogico, che risultano però ancora utopici, perché tuttora irrealizzati. Il lusso cui si vuole tendere è «Il mondo in cui la cultura non è uno strumento di competizione, ma la gioia di conoscere e creare, in cui il lavoro non è una maledizione, ma la costruzione comune di un mondo a misura d’uomo»[13]. Salta immediatamente all’occhio che questa aspirazione è condannata a rimanere una chimera a scuola, in cui la didattica è pensata proprio come strumento di competizione. Sembra di ritrovarvi una Castalia minore, quella provincia pedagogica che Hesse immaginava nel Gioco delle perle di vetro. Una sorta di attività culturale globale, che racchiudesse in sé la totalità dei linguaggi, dalla matematica alle scienze, dalla storia alla geografia, dalla filosofia all’arte e alla musica. Questo gioco perverso, del rincorrere un senso trasversale che porti ad un percorso interdisciplinare, lo si può apprezzare in tutto il suo splendore durante l’ultima farsa della scuola-diplomificio (la chiamo così perché, giunti all’ultimo anno bisogna davvero impegnarsi molto per farsi bocciare). I candidati devono mostrare alla commissione di aver saputo legare tra loro le pillole di saggezza ricevute in dono dai loro docenti durante i cinque anni di studio liceale. E presentano tesine, percorsi o mappe concettuali che evidenzino le reciproche interconnessioni tra i vari ambiti del sapere appreso. Spesse volte sono costretti a veri e propri voli pindarici. Ma il risultato finale è garantito comunque anche grazie all’apporto non indifferente fornito dai docenti del corso. Se questa operazione di costruzione di un sapere totale fosse reale, e corrispondesse alla formazione appresa e significante dei discenti, sarebbe davvero sintomo di maturità e di crescita consapevole. Il problema è che le tesine (i percorsi) sono il frutto di un vero e proprio rastrellamento di informazioni tratte da internet, attraverso il copia-incolla. E risultano quasi sempre una frettolosa operazione di raccordo su nozioni raccogliticce e niente affatto assimilate, che di significativo, nel senso pedagogico della parola, hanno dunque assai poco. Ma come può il docente indurre quella fame di cultura che ormai è quasi del tutto assente negli alunni liceali? La professionalità insegnante dovrebbe possedere gli strumenti e i metodi per indurre nei giovani questo appetito del sapere, per poterlo sostituire all’attuale anoressia delle conoscenze. Anche qui si lavora per approssimazioni. Le ultime riforme della scuola chiedono di introdurre tra le metodologie didattiche tutti quegli strumenti elettronici di cui normalmente i giovani fanno uso sin dalla prima infanzia. Cellulari, computer, internet, tv, cinema. Assai meno accattivante è la stampa, che invece risulterebbe molto più educativa. L’abitudine a leggere il quotidiano in classe induce il dibattito su argomenti di cronaca e storia contemporanea, formando negli adolescenti quel senso di cittadinanza e quella ragione critica, tanto importanti oggi più che mai in un mondo in cui domina l’appiattimento dei valori e delle culture. Gli ausili informatici sono, appunto, strumenti vuoti, che necessitano di essere riempiti dall’interno, con i contenuti tradizionali del sapere. Il problema resta dunque identico. Come far innamorare i giovani della cultura? Come far loro comprendere che spesso proprio quelle attività che vengono ritenute inutili ed insignificanti sono i migliori strumenti della crescita personale? Inevitabile che prima o poi questi adolescenti demotivati debbano riconoscere la verità di tali affermazioni. Ma quando ciò avverrà sarà spesso troppo tardi, se il piacere degli studi non è stato coltivato prima dalla scuola. Invece sempre più frequentemente gli insegnanti si comportano come i genitori di un anoressico, e credono che la patologia si possa risolvere con grandi scorpacciate nozionistiche che vengono, immancabilmente, rigettate con la stessa velocità con la quale si credeva di poterle introdurre. Un piatto invitante deve essere arricchito anche da un nuovo sapore. Se la minestra è sempre la stessa, e per di più riscaldata, al nostro allievo passerà anche quel poco di fame che gli era ancora rimasta. È ovvio che il problema principale del tempo che ci appartiene si delinea essenzialmente come perdita dei valori culturali del passato, con i quali non ci troviamo più, ormai, a fare i conti. Una volta dominavano i modelli crociano e gramsciano, l’uno orientato al recupero di una cultura umanistica in senso classico, l’altro alla lotta intellettuale che vedeva nella cultura uno strumento di riscatto e di crescita per la democrazia, la giustizia e la libertà. Oggi l’unico valore riconosciuto alla cultura è quello che viene definito strumentale. Una cultura strumentale è una cultura che serve a qualcosa; e che per servire a qualcosa deve essere direttamente indirizzata alla ricerca di un’occupazione. Deve perciò specializzarsi, ed essere settoriale. E il docente diventa il freddo depositario della cultura specialistica. «Il docente che coinvolge è quello che ha una vera passione ideale, che ha valori in cui credere, che ama la polemica ed il confronto. Ma un docente del genere è un ospite sgradito nelle asettiche scuole di oggi. Crea problemi, suscita inquietudini – fa politica. Lo stato seleziona docenti burocrati, più che intellettuali. Puoi aver pubblicato dieci libri, ad esempio: non costituiscono un titolo valido. Non è in alcun modo incoraggiata la ricerca autonoma. Non esistono contributi ministeriali per i docenti che vogliano pubblicare libri. Non c’è contatto diretto tra docenti ed università […] Quello che abbiamo perso è il senso collettivo e non strumentale della cultura. La cultura come ricerca comune della verità e del bene, come un pensare, un fare che non appartiene né a me né a te, ma è di tutti e che quindi non può giustificare alcuna competizione»[14]. La nostra scuola, inoltre, non permette nemmeno di socializzare davvero in modo libero, sia perché mancano le strutture idonee, sia perché anche la socialità è stata settorializzata e ghettizzata nei luoghi del puro e semplice divertimento senza contenuti culturali. Al di fuori dei quali resta la solitudine del mezzo televisivo vissuto in maniera solipsistica. Bisogna prendere atto che i giovani non leggono, ed è per questo che sanno scrivere sempre meno. Le loro distrazioni, perciò, non comprendono mai (o quasi) la lettura impegnata di un testo filosofico. Gardner sosteneva che l’intelligenza non è una facoltà unitaria. E che esistono ben otto tipologie differenti di intelligenza, tra le quali vi sono la memoria, la capacità riflessiva, l’interazione dialogica, l’adattamento cognitivo. La scuola che pretende di ridurre tutti gli apprendimenti a meccanismi mnemonici è una scuola che ha fallito i suoi obiettivi formativi in partenza. L’insegnante deve saper leggere dentro gli alunni, per individuare il loro stile cognitivo, la loro intelligenza individuale, senza pretendere di fossilizzare la conoscenza su uno standard già fissato in anticipo. La divergenza mentale è la piena capacità di apertura al nuovo, che implica anche la ricerca dell’originalità. Ma per lavorare in questo senso c’è bisogno di acquisire una flessibilità mentale non indifferente, che viene spesso temuta ed osteggiata, soprattutto dai docenti con più anni di servizio alle spalle, che interpretano le nuove metodologie della didattica come un attacco destabilizzante ai loro metodi pedagogici. Una volta nelle scuole esisteva quella educazione del cuore che interpretava la relazione di insegnamento come relazione umana ed affettiva. Non si insegna se non ciò che si ama. E non si insegna se non a chi si ama. Ed è crescendo nell’amore del docente che l’allievo matura la sua spiritualità intellettiva. Egli viene sognato dal suo insegnante per ciò che potrebbe essere e non è ancora. E impara a guardare se stesso con lo stesso sguardo amorevole del suo docente. Diventando infine quel sogno incarnato nel suo futuro. Una scuola che non sogna, che non pensa, che non progetta, non ha nulla di buono da insegnare. Il lavoro del docente, quando è vero impegno, si fa missione di tutta una vita, che rifugge la monotonia del quotidiano nella creatività dirompente del nuovo che si fa ogni giorno a cominciare dall’attimo dell’ascolto e della riflessione. Invece le nostre aule sembrano campi di battaglia in cui stia per scoppiare la bomba da un momento all’altro. La disposizione dei banchi e dei posti tradisce la necessità della classe di sottrarsi allo sguardo del docente, di fuggirgli quanto più possibile verso il muro, che è l’agognato approdo rassicurante cui tutti aspirano, proprio come gli ultimi posti indietro delle file. Un altro schermo è rappresentato dal manuale, àncora di salvezza durante le verifiche. Bisognerebbe limitare l’uso del libro di testo, con intelligenza. Non si può chiedere all’insegnante di rinunciare ad un suo punto di riferimento, che sembra anche essere pedagogicamente uno strumento positivo per l’adolescente. Nei prossimi anni, però, si parla di libri on line, scaricabili direttamente da internet, e visualizzabili in classe dalle lavagne interattive, strumenti di ultima generazione che andranno a sostituire, in un tempo non troppo remoto, la classica lavagna di ardesia. Forse, attraverso queste nuove classi laboratorio, si potrà cominciare a sviluppare la didattica in rete, approfondendo qualsivoglia tipo di contenuto all’istante, per estrapolarlo, facendolo diventare elemento vivo e significativo del personale lavoro del docente o dell’allievo. Come c’è bisogno di stimolare il lavoro di ricerca, ugualmente è necessario abituare i giovani a coltivare l’arte e la passione per un lavoro manuale. Era d’accordo sull’importanza del valore del lavoro anche Locke, educatore del gentleman. Pensiamo a Spinoza che intaglia le lenti, a Gandhi che fila e a Tolstoj che fa il calzolaio. Lo stesso Don Milani credeva che i giovani dovessero essere istruiti alle attività pratiche, e il metodo della Montessori è tutto rivolto al fare creativo del fanciullo, che acquisisce, così, l’abitudine alla concentrazione indispensabile al lavoro intellettivo, tanto difficile da raggiungere per i nostri allievi, abituati alla distrazione annichilente dei mezzi informatici e della tv. La scuola è lo specchio della società che la ospita. La nostra scuola dovrebbe essere laica, perché la nostra società è democratica e non confessionale. Ciò significa che non deve operare discriminazioni di alcun tipo, e deve educare alla Costituzione e all’antifascismo. Mostrando tolleranza per le differenti fedi religiose dei propri allievi e insegnanti. Così come non deve fomentare odi e violenze di tipo politico. E non sostenere alcuna appartenenza se non quella di tutti alla cultura del proprio paese e della propria storia. Se la relazione educativa è ciò che conta davvero «per quanto ferito tu possa essere, per quanta rabbia tu possa avere, per quanto forte possa essere il tuo odio della vita, non puoi restare lo stesso, una volta che qualcuno sia giunto a sognarti»[15]. Vigilante conclude così il suo pamphlet, che prende il nome da una barchetta realizzata e regalata al suo professore dall’alunna Virginia, con alcuni punti del manifesto della scuola, che si possono sintetizzare nei principi generali, nelle strutture, nell’intellettualità, nel lavoro, nel presente, nella laicità, in una scuola per tutti, nel territorio e nella relazione, «La scuola non deve condurre le nuove generazioni al livello attuale della società, ma andare oltre […] La critica della cultura le appartiene per essenza. La scuola improbabile educa alla ricerca di sé, all’orgoglio, alla verità, non alla timidezza, alla paura, all’ipocrisia. La scuola improbabile lavora per la decostruzione dell’identità italiana, vale a dire per l’antifascismo […] La scuola improbabile è strutturalmente rispettosa delle persone che accoglie. Occorre che le scuole siano belle come le chiese e come le banche, perché ciò che si fa in una scuola non è meno sacro di ciò che si fa in una chiesa o in una banca […] La scuola improbabile è il luogo in cui la cultura non viene semplicemente trasmessa, ma creata, elaborata, approfondita […] ogni scuola diventa anche un centro di ricerca […] Nella mia scuola improbabile tutti, figli di operai e figli di ingegneri, devono apprendere un’arte manuale in un laboratorio di falegnameria, di ceramica, di elettronica […] La scuola improbabile sviluppa in primo luogo la capacità di attenzione e di interpretazione del proprio mondo […] La scuola improbabile è laica […] Dalla scuola improbabile escono persone che pensano alla cultura come uno strumento, sì, ma a disposizione di tutti, un mezzo di elevazione collettiva e non individuale […] La scuola improbabile è un pezzo vivo di città, non un recinto chiuso, non una provincia pedagogica […] Da una parte, gli studenti vivono la città, frequentano i luoghi del potere, quelli del lavoro e quelli della bellezza; dall’altra i cittadini entrano nelle scuole per imparare, per discutere, per festeggiare […] La scuola improbabile favorisce i rapporti umani profondi e significativi, crea le condizioni per una relazione educativa – cioè erotica, nel senso che s’è detto – reale. Sono abolite le gerarchie, sono aboliti il lei ed il voi. È abolita l’autorità»[16].
Antonietta Pistone
Articolo pubblicato sulla rivista Pianeta Cultura
[1] A. Vigilante, la barchetta di virginia, manifesto per una scuola improbabile, Rainone editore, Bergamo 2006
[2] Ivi, pag. 8
[3] Ivi, pag. 9
[4] Ivi, pag. 14
[5] Ivi, pag. 13 e seg.
[6]Ivi, pag. 11
[7] Ivi, pag. 15
[8] Ivi, pag. 17
[9] Ibidem
[10] Aristotele, La Metafisica, libro primo
[11] A. Vigilante, la barchetta di virginia, rainoneeditore, Bergamo 2006, pag. 25
[12] Ivi, pag. 27 e seg.
[13] Ivi, pag. 34 e seg.
[14] Ivi, pag. 41 e seg.
[15] Ivi, pag. 52
[16] Ivi, pag. 54-60
RIPENSARE L’AUTORITÀ?
RIPENSARE L’AUTORITÀ?
di Antonio Vigilante[i]
La pubblicazione di un libro di pedagogia intitolato Ripensare l’autorità1 è un segno dei tempi. Fino a qualche anno fa un titolo del genere sarebbe apparso eccessivo, provocatorio, mentre oggi non è da escludere che contribuisca a far lievitare le vendite del libro. Una campagna mediatica senza precedenti ha convinto l’uomo della strada che la scuola italiana è allo sfascio per mancanza di autorità e di disciplina, che ordinariamente nelle aule scolastiche avvengono atti di violenza, esibizioni più o meno goliardiche riprese con i telefonini e pubblicate su internet, libertà sessuali degne di certe commedie sexy all’italiana degli anni Ottanta. E così l’uomo della strada ed il governo si ritrovano felicemente concordi nel tuonare contro il lassismo e nell’invocare – e decretare – più rigore (così come si trovano d’accordo nell’esigere una certa durezza verso gli stranieri, la cui pericolosità è dimostrata ogni giorno, ed oltre ogni dubbio, dai telegiornali).
Considerato il contesto, è da ritenere dunque che le tesi di questo libro siano tutt’altro che marginali nel dibattito attuale sull’educazione. Segnano una via, indicano una tendenza, esprimono un’esigenza. Non è probabilmente inappropriato, per queste tesi pedagogiche e per le scelte politiche che ad esso sembrano corrispondere, parlare di neo-autoritarismo. Dal vecchio autoritarismo si distingue perché non giustifica l’autorità tout court, non considera l’obbedienza e la gerarchia come cose positive in sé, ma ritiene l’autorità uno strumento necessario per orientare gli educandi e per condurli verso la libertà. Alla base di questa riscoperta dell’autorità c’è una precisa diagnosi dello stato attuale della società. I genitori e gli educatori, si dice, non sono più in grado di assumersi la responsabilità di educare, rinunciano al loro ruolo per preferire quello più comodo di amici dei loro figli e dei loro studenti; il risultato è che abbiamo una generazione senza padri, senza modelli, che per questo è allo sbando. Non avendo modelli positivi, i giovani si abbandonerebbero a quelli negativi, non disponendo di indicazioni etiche chiare, si lascerebbero sedurre dall’irrazionale e dal male. «Oggigiorno, sotto l’aspetto dell’antropologia pedagogica, si assiste a una crisi di riconoscimento da parte degli adulti verso le proprie responsabilità educative e verso le esigenze di crescita delle nuove generazioni», afferma Luigi Pati (p. 27). E Vanna Iori: «I giovani, nel cammino verso l’età adulta, hanno bisogno di punti di riferimento, di valori e di modelli per decidere se scegliere di farli propri, rifiutarli, modificarli. L’attuale assenza di proposte da parte dei genitori che hanno perduto il ruolo di referenti educativi sta producendo effetti di disorientamento» (p. 77).
Questa è la prima ragione del neo-autoritarismo. La si può naturalmente contestare, osservando che comporta una raffigurazione puramente negativa degli adolescenti e dei giovani del nostro tempo, trascurando ad esempio un fenomeno positivo come l’impegno nel volontariato e lasciandosi condizionare dal sensazionalismo dei mass-media; né è inopportuno ricordare che le lamentele sui giovani non sono cosa nuova: ogni generazione guarda alle precedenti con un misto di disprezzo e di compassione. Soprattutto, si può contestare la relazione causale tra il (preteso ed ipotetico) sbandamento dei giovani e la (pretesa ed ipotetica) rinuncia alla responsabilità educativa da parte degli adulti. Ammesso che abbiamo una nuova generazione di nichilisti, come essere certi che ciò sia dovuto ad errori e mancanze nell’educazione e non, piuttosto, al sistema economico capitalistico ed al consumismo, le cui conseguenze negative sull’identità sono state denunciate da decenni? Perché non individuarne la causa nella sostanziale mancanza di potere, nella esclusione dei giovani dalla vita economica e politica del paese, nella considerazione di essi come semplici destinatari passivi dei processi economici, acquirenti di prodotti più o meno costosi mantenuti dalla pubblicità e dai mass-media in uno stato di infanzia prolungata? Perché non considerare il carattere artificiale della adolescenza stessa, che è dovuta al ritardo con cui nelle società industrializzate le nuove generazioni entrano nel mondo del lavoro. E ancora: che senso ha isolare il malessere giovanile da quello della generazione adulta? Se immoralità c’è nelle giovani generazioni, essa non è in nulla superiore a quella degli adulti. In una società che ha una classe politica corrotta, una economia con larghi settori che sopravvivono anche grazie alla illegalità, un diffuso sfruttamento di soggetti stranieri verso i quali monta sempre più il razzismo, bisogna forse meravigliarsi che nei giovani vi sia ancora qualche riserva di moralità. Ma, si dirà, questo conferma appunto la diagnosi. Questi adulti corrotti sono incapaci di educare: di qui la crisi dell’educazione. E sia. Ma bisogna allora chiedersi ancora due cose. La prima: basta evocare l’autorità e l’autorevolezza per trasformare di colpo il mondo degli adulti in una ordinata società di educatori, di persone profondamente morali, di esempi da seguire? La seconda: come mai abbiamo una società così corrotta?
La seconda ragione del neo-autoritarismo è antropologica. Abbandonato a sé, si dice, l’uomo diventa facilmente preda dei suoi istinti peggiori, che sono potenti e fortemente radicati in lui. Luigi Pati evoca Il signore delle mosche di Golding, e scrive: «L’assenza di regole è da lui [da Golding] collegata direttamente al prevalere della naturalità del male che, nel tempo in cui prende il sopravvento, fa dire a Ralph, uno dei pochi ragazzi del gruppo capace ancora di percepire il valore dei principi morali: ‘Io ho paura. Ho paura di noi. Voglio tornare a casa. O Dio, voglio tornare a casa!’» (p. 15). Come è noto, l’idea del romanzo venne a Golding dopo una sorta di esperimento che tentò come insegnante in una scuola elementare. Lasciò la classe, una quarta elementare, a sé stessa, per vedere cosa sarebbe successo. Ed accadde il peggio: fu costretto a rientrare, prima che si giungesse alla rissa aperta. Naturalmente non è possibile negare una certa propensione dell’essere umano alla violenza, ma occorre ben più di un «esperimento» del genere per giustificare il pessimismo sulla natura umana. In realtà, sarebbe stato strano se quei bambini si fossero comportati in modo esemplare. Prendete venti bambini, metteteli insieme in un luogo nel quale sono costantemente sotto lo sguardo di una autorità, nel quale ogni loro azione è concessa se ha il consenso dell’autorità, nel quale occorre costantemente reprimere i propri bisogni per conformarsi a quanto richiesto dalla autorità, e privateli improvvisamente dell’autorità: il risultato sarà il caos, e non per una pretesa negatività della natura umana, ma perché qualsiasi sistema va in crisi se viene a mancare un suo elemento centrale. Se avesse avuto la pazienza di attendere un po’, Golding avrebbe probabilmente scoperto la capacità di quei bambini di giungere ad un diverso equilibrio. Nel suo romanzo, i bambini abbandonati sull’isola cercano di organizzarsi, di darsi regole senza gli adulti, ma presto prevalgono logiche violente che conducono alla lotta di tutti contro tutti. Immaginiamo che la storia sia vera, e chiediamoci: cosa ha condotto ad un tale esito disastroso? La malvagità innata nell’essere umano? L’incapacità di stabilire una autorità che le ponga un freno? O non sarà piuttosto, al contrario, proprio il tentativo di riprodurre maldestramente il mondo adulto, con la sua autorità? La maggior parte della sua vita sulla terra, l’essere umano l’ha vissuta in società di caccia e raccolta essenzialmente pacifiche, prive di autorità e di disuguaglianze sociali. Migliaia di anni di storia umana dimostrano il contrario dell’assunto di Golding. Prendete però una combriccola di agenti di borsa e lasciateli su un’isola deserta. C’è una buona probabilità che giungano a scannarsi a vicenda, e non per la pretesa malvagità della natura umana, ma perché hanno interiorizzato il modello violento e competitivo che caratterizza le relazioni umane nelle società capitalistiche. La storia recente, del resto, mostra che intere nazioni possono diventare preda di una vera e propria follia omicida e scatenare la propria violenza mimetica contro vittime innocenti. Per quanto resti sempre un residuo di incomprensibilità, un certo stupore di fronte all’assurdo dei campi di sterminio, è difficile ormai contestare che quell’orrore storico ha a che fare con la struttura autoritaria della società e dell’educazione, con la gerarchia ed il conformismo, con l’ideologia dell’ubbidienza ai capi. Nel romanzo di Golding dei bambini diventano violenti per mancanza di autorità; nella storia, interi popoli diventano violenti per la presenza dell’autorità. Certo, il neo-autoritarismo non intende riproporre la gerarchia e l’obbedienza ai capi, considera tutto ciò come un eccesso da condannare; ma quella tragica esperienza storica non dovrà indurre chi si occupa di educazione a pensare una educazione che sia l’opposto esatto di quel sistema che si è rivelato così pericoloso per l’umanità? Basta condannare gli eccessi dell’autorità? Non bisognerà piuttosto cercare una alternativa?
La terza ragione del neo-autoritarismo è fenomenologica. La relazione educativa, si dice, non può fare a meno dell’autorità, poiché si tratta di una relazione naturalmente asimmetrica. E’, questa, una convinzione ampiamente diffusa tra i pedagogisti, e non solo tra quelli consapevolmente e apertamente neo-autoritari. L’educatore e l’educando, si dice, sono su piani diversi, ed è propri questo che rende possibile l’educazione. Vanna Iori scrive che «la relazione educativa è non-paritaria nei suoi elementi, per poter essere armonica nella sua globalità» (p. 67), per Luigi Pati «il fraintendimento della parità tra interlocutori di diversa età provoca il venir meno delle occasioni di dialogo e di proposta contenutistica e valoriale» (p. 22), mentre Lino Prenna afferma addirittura che l’autorità «si pone come principio di ogni relazione» (p. 35).
Tra chi educa e chi viene educato esiste una disuguaglianza di fatto, evidente soprattutto quando c’è una notevole differenza di età, ad esempio tra un maestro elementare ed i suoi alunni. Ma questa disuguaglianza di fatto non può condurre ad alcuna disuguaglianza di diritto. Nemmeno i sostenitori del neo-autoritarismo negano che l’educando e l’educatore abbiano gli stessi diritti e la stessa dignità umana. Tuttavia, sostengono, resta fondamentale l’asimmetria, lo sguardo dall’alto dell’educatore. Al di fuori della relazione educativa, qualsiasi atteggiamento di superiorità è mal tollerato ed incompatibile con quella uguaglianza di tutti che è il fondamento stesso di una società democratica. Se considerasse con sufficienza il fruttivendolo che gli incarta la verdura, il professore apparirebbe come una persona tutto sommato poco civile, nonostante la sua cultura. La società democratica non tollera atteggiamenti di superiorità. Non c’è fattore culturale, economico, sociale che possa giustificare il sentirsi ad un livello superiore rispetto a quello degli altri. Cosa cambia quando si parla di educazione? Perché ciò che non è tollerato fuori dai contesti educativi è considerato necessario in un contesto educativo?
Quando si considera inevitabilmente asimmetrico un rapporto educativo, lo si pensa come una relazione tra A, l’educatore, e B, l’educando, nella quale è fondamentale che B si muova e progredisca verso A. L’educatore rappresenta il modello dell’educando. Quando lamentano la crisi dell’autorità, i neo-autoritari deplorano fondamentalmente, come abbiamo visto, la mancanza di modelli educativi. E’ necessario dunque che A non sia al livello i B, perché se così facesse non potrebbe rappresentare un modello per lui, e non vi sarebbe alcun dinamismo. Se l’educazione deve comportare un progresso per l’educando, allora è indispensabile che vi sia un verso-dove, e che questo sia rappresentato dall’educatore. Per dirla con le parole di Hölderlin, «il fanciullo, come l’albero, cerca ciò che è più alto di sé».2
I neo-autoritari presentano l’autorità come il giusto mezzo aristotelico tra l’autoritarismo ed il permissivismo. L’autorità è il giusto esercizio del potere dell’educatore sull’educando; l’autoritarismo rappresenta un eccesso, un potere arbitrario ed irrazionale, mentre il permissivismo è la rinuncia irresponsabile ad esercitare qualsiasi influenza sull’educando. Se le cose stanno così, è difficile contestare l’idea di autorità. Ma c’è qualcosa che non torna. Se il permissivismo non è il contrario dell’autorità, ma ne costituisce la degenerazione (e credo che sia in effetti così), in cosa consiste una educazione non autoritaria?
Riconsideriamo il modello della relazione educativa. Vi sono A e B. Poniamo che A, l’educatore, non si consideri ad un livello superiore a B. C’è il rischio che scompaia il dinamismo dell’educazione. A e B potranno essere compagni di giochi, non persone impegnate in una relazione educativa, perché manca il verso-dove. Poniamo però che A, invece di proporsi e concepirsi come modello educativo di B, sia lui stesso in cammino. Questo fatto imprevisto reintroduce il dinamismo all’interno della relazione educativa. In questo caso abbiamo due persone che sono in cammino. Non più B procede verso A, che è il suo modello, ma A e B procedono verso un punto ulteriore. Detto in modo più concreto: l’educatore non è più il termine della relazione educativa, ma colui che accompagna l’educando in un processo di crescita che riguarda anche lui stesso. Per questa via l’educazione si fa concreta, poiché non è più solo la crescita dell’educando, ma la crescita comune, la cum-crescita, dell’educatore e dell’educando.
Quello appena delineato è il modello di una educazione non autoritaria. Restano, nella relazione educativa non autoritaria, tutte le differenze legate alla cultura ed all’esperienza, ma esse non giustificano più alcuna simmetria, perché l’educatore sa che la sua cultura e la sua esperienza sono insufficienti, necessarie di ulteriori integrazioni, di nuovo cammino.
Nella concezione autoritaria e neo-autoritaria, l’educazione è sostanzialmente un travaso di esperienza e di conoscenza da una generazione all’altra. L’autorità rappresenta e garantisce la continuità di una tradizione. Essa, scrive Pati, è «l’unico modo per incamminarsi positivamente con le nuove generazioni verso un futuro di cui si ignorano i contorni, ma che proprio per tale ragione chiede di essere costruito sotto il segno della continuità e delle scelte di valore» (p. 31). Ma è possibile un incamminarsi con in una relazione asimmetrica? Ed è la continuità, ciò di cui abbiamo bisogno? Ciò di cui si avverte il bisogno, oggi, sono scelte di rottura, di discontinuità con il passato. Dalla nostra tradizione abbiamo ricevuto i valori umanistici, che sono preziosi e vanno preservati, ma che non hanno impedito all’occidente di procedere verso la violenza (le due guerre mondiali, i campi di concentramento e l’atomica dovrebbero essere sempre presenti alla coscienza di chi oggi riflette sull’educazione), verso la sopraffazione dei paesi più deboli, verso la distruzione dell’ambiente. Occorrono oggi nuovi valori, nuove scelte. Nel modello non autoritario, l’educazione è una riorganizzazione dell’esperienza, una critica del passato e del presente, un vaglio attento dei valori. Elemento vitale del processo non sono la custodia dei valori del passato e il rispetto della tradizione, ma la tensione verso il futuro e l’attenzione al presente.
Per i neo-autoritari, l’autorità non è un fine, ma un mezzo. Essa serve a condurre alla libertà ed al governo di sé. Una volta raggiunto questo scopo, essa scompare. Come scrive Luigi Pati, essa «attraverso un primigenio legame di subordinazione, dipendenza, ubbidienza, ha da favorire la conquista di livelli sempre più alti di libertà personale» (p. 29), mentre Prenna evoca l’autorità liberatrice di Laberthonnière (p. 44). L’autorità non come opposto della libertà, ma come via alla libertà. Qui bisogna intendersi, evidentemente, su cosa si intende per libertà. Se lo si chiede ad un adolescente, risponderà senza troppi dubbi: libertà è fare quello che si vuole. Questo è per Pati ed i neo-autoritari un fraintendimento. La vera libertà non è senza condizioni, ma sotto condizione (p. 25). Riflettiamo un momento. Affermando che libertà è fare «ciò che si vuole», l’adolescente caratterizza la libertà come autonomia. Ora, se quell’espressione ci lascia perplessi, è perché ci figuriamo che quello che l’adolescente vuole sia diverso da quello che piace a noi. Immaginiamo alcool, droga, sesso sfrenato. Se l’adolescente, facendo quello che vuole, si dedicasse alle opere pie, non avremmo nulla da ridire. Libertà è darsi da sé la propria legge. Gli autoritari d’ogni tempo sostengono che ciò non è possibile se non attraverso l’eteronomia. Qui si pone evidentemente un problema logico. Sappiamo che esiste una relazione tra il mezzo ed il fine. E’ lecito nutrire qualche perplessità di raggiungere un fine attraverso un mezzo che ne è la negazione. La retorica di questi anni ci ha abituati a termini oscenamente ipocriti, ossimorici, come guerra umanitaria, ma occorre essere davvero in malafede per credere che le armi possano portare qualcosa di diverso dalla distruzione e dalla sopraffazione. E così per l’autorità liberatrice. La libertà cui si giunge attraverso l’autorità è una libertà finta. La libertà di chi può andare apparentemente dove vuole, in realtà è costretto ad andare dove vogliono gli altri, poiché gli è stato mostrato un solo percorso, e non ha la mappa per orientarsi al di fuori di esso (o è troppo terrorizzato per farlo). L’autonomia e l’eteronomia coincidono. La legge degli altri è stata interiorizzata ed è diventata la propria legge. Solo quando è certo che questa operazione sia conclusa, l’educatore molla la presa. Non ha più bisogno di chiedere ubbidienza. Ormai l’educando può obbedire a sé stesso. Ha interiorizzato l’autorità, ha in sé l’alter cui ubbidire.
Questa autonomia è una beffa. Non v’è autentica autonomia che non sia anche, in qualche misura, neonomia, ricerca di un nuovo nomos e di un nuovo ethos. La persona realmente autonoma e libera non è quella che fa propri le leggi, le regole, i valori della sua società, ma quella che li passa al vaglio, li esamina attentamente e criticamente, ne accetta alcuni, ne rifiuta altri, ne crea di nuovi. Alla libertà si giunge solo attraverso la libertà. Non quella finta di Rousseau e di buona parte della pedagogia moderna e contemporanea che si pretende progressista, né quella altrettanto finta dell’evasione e della diversione, ma quella impegnata, difficile, sofferta di persone che insieme, esponendosi costantemente al rischio dell’errore e dell’inganno, ma aprendosi anche alla possibilità di imbattersi in qualche verità, ricercano, esplorano, valutano, costruiscono. E distruggono.
Articolo pubblicato sulla rivista Pianeta Cultura, Anno II, Numero 3
1 Aa. Vv., Ripensare l’autorità. Riflessioni pedagogiche e proposte educative, a cura di L. Pati e L. Prenna, Guerini, Milano 2008. Le osservazioni che seguono riguardano soprattutto i saggi di Luigi Pati, Lino Prenna e Vanna Iori. Altri interventi, come quella di Luisa Santelli, esprimono posizioni più sfumate.
2 F. Hölderlin, Le liriche, tr. it., Adelphi, Milano 1993, p. 407.
[i] Pedagogista, insegnante liceale di Scienze Sociali. Dottorando in “Dinamiche formative ed educazione alla politica” presso il dipartimento di Scienze pedagogiche e didattiche dell’Università degli Studi di Bari.
L’EDUCAZIONE È PACE
L’EDUCAZIONE È PACE
di Antonio Vigilante[i]
Chi legge e studia gli scritti di Gandhi, di Capitini, di don Milani – dei maestri della nonviolenza che sono stati anche grandi educatori – non mancherà di osservare che in loro manca quella che oggi si chiama educazione alla pace. Non che manchi, naturalmente, la consapevolezza della importanza della educazione per la creazione di una civiltà pacifica, che è anzi il centro stesso della loro riflessione pedagogica; manca invece un percorso specifico all’interno della più ampia impresa educativa. In altri termini, l’educazione alla pace è l’educazione tout court. Solo educando, vale a dire lavorando e lottando perché le persone possano sviluppare pienamente, liberamente, senza paura sé stessi, si superano la violenza, il dominio, la guerra. L’educazione alla pace è una educazione settoriale, si affianca alla educazione alla democrazia, alla legalità, alla affettività eccetera, come se si trattasse di completare con dei dettagli (anche se con dettagli decisivi) il piano formativo generale. Di più: il rischio è quello di mirare ad adeguare, attraverso l’educazione, un certo modello umano, considerato desiderabile, di pervenire ad una sorta di personalità pacifica o nonviolenta. Una tale progetto pedagogico, che sulle prime appare assolutamente condivisibile, è in realtà viziato alla radice da una impostazione violenta, poiché c’è violenza ogni volta che si cerca di plasmare il libero divenire di un essere umano secondo un modello prestabilito.
Non si rifletterà mai abbastanza sul rapporto tra educazione e violenza. Non mi riferisco alla violenza più evidente, quella fisica, che pure è stata massicciamente presente nelle istituzioni educative, e non è affatto scomparsa dai contesti familiari. Non mi riferisco nemmeno alla violenza di concezioni educative oppressive e totalizzanti, quali quelle documentate (e denunciate) da Alice Miller. Mi riferisco alla violenza sempre in agguato nel pensare, nel tentare la prassi educativa, anche quando questo pensare, questo tentare sono mossi dalle migliori intenzioni.
Leggiamo Rousseau, il padre della pedagogia moderna: «Fate esattamente il contrario del vostro allievo – scrive nell’Emilio – : lasciategli sempre credere di essere lui il padrone, ma siate sempre voi ad avere le redini in pugno. Non v’è soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà: la sua stessa volontà viene ad essere così nelle vostre mani. Il povero fanciullo che niente sa, che niente può, che niente conosce, non è interamente in vostro potere?».1
Padrone, redini, soggezione. La relazione educativa è una relazione di potere. L’obiettivo è lo stesso della peggiore pedagogia nera, ma lo strumento è più raffinato. Non va molto diversamente nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie. Il docente, il genitore hanno una certa idea di dove vogliono portare l’alunno, il figlio; hanno richieste, solo soddisfacendo le quali si diventa bravi alunni e bravi figli; ed hanno un sistema di punizioni, di disconferme, di umiliazioni per quei figli e quegli alunni che non sono come loro desiderano. Non meraviglia che le scuole e le famiglie siano spesso luoghi senza pace. La scuola, in particolare, funziona secondo una logica di selezione/espulsione che è intrinsecamente violenta. E’ difficile negare che espellere qualcuno da un gruppo umano sia una forma di violenza. Si obietterà che è una violenza necessaria ed ineliminabile. Ne convengo; ma con una precisazione: in questo contesto. Vale a dire, nelle società capitalistiche, la cui legge è la competizione sfrenata, appena contrastata dalla retorica sulla democrazia e i diritti umani.
Anche educare alla pace, dunque, può essere una cosa violenta, se si cerca di fare degli studenti di una classe, o dei propri figli, un certo tipo di persona, sia pure una persona pacifica, mite, tollerante. Cosa diversa è educare nella pace. In questo caso l’enfasi non è sul fine futuro dell’educazione, sul modello pensato dall’educatore che lo studente o il figlio devono realizzare. Educare nella pace vuol dire far sì che le situazioni educative, qui ed ora, siano pacifiche. Perché ciò accada, occorre che vi sia simmetria nelle relazioni, una comunicazione piena, una accettazione reciproca, una esperienza autentica ed aperta al nuovo.
È opinione diffusa tra i pedagogisti e gli educatori che ogni relazione educativa non possa che essere asimmetrica, riguardare cioè persone che sono su piani differenti. Se così non è, si dice, viene a mancare per l’educando la guida di cui ha bisogno. È il caso di quei genitori o docenti che si pongono come amici dei loro figli o studenti, di fatto, si dice, abdicando al loro ruolo. Affinché vi sia educazione occorre che vi sia una giusta distanza. Questa opinione è legata a doppio filo alla concezione della educazione come imposizione di un modello umano. L’educatore rappresenta colui che incarna il modello e lo trasmette, l’educando colui che prende forma progressivamente secondo quel modello. L’educatore è il punto terminale della tensione dell’educazione, che è appunto un processo che va dall’educando all’educatore – dal figlio al genitore, dallo studente al docente. I primi diventano come i secondi; i secondi fanno da modelli per i primi. Ora, la caratteristica di chi fa da modello è quella di restare immobile. Il docente e il genitore impegnati in una relazione educativa asimmetrica sono fissi, fermi nella loro presunta perfezione. Abbiamo qui una doppia violenza. Da una parte, l’educando è vittima di violenza perché non può esplorarsi liberamente, ma è chiamato a conformarsi ad un modello pensato da altri; dall’altra, l’educatore è vittima di violenza perché è costretto a fissarsi nel ruolo del modello educativo, e per farlo deve nascondere le sue fragilità, le incertezze, i segni della sua umanità necessariamente imperfetta. In una relazione educativa simmetrica l’educatore non è un modello fisso, né l’educando tende verso di lui. Entrambi tendono verso qualcosa di ulteriore. Sono entrambi in ricerca del vero, del bene, del bello, del giusto. Queste cose non sono possesso sicuro del docente o del genitore; anche lui è alla ricerca. Educatore ed educando stanno facendo lo stesso cammino, e nessuno dei due conosce la destinazione.
Solo in una relazione simmetrica è possibile una comunicazione profonda. Un modello non comunica: trasmette. Il processo è unidirezionale. Il dialogo, quando c’è, è fittizio. Il docente fa domande di cui già conosce la risposta. Non c’è ricerca comune, non sono possibili risposte alternative. Comunicare vuol dire mettere in comune. Il docente-modello comunica, mette in comune il suo sapere, senza però ammettere che quello stesso sapere può essere scomposto, rielaborato, arricchito, magari anche messo in crisi in un gruppo di ricerca costituito da lui ed i suoi studenti. Inoltre, non comunica null’altro al di fuori del proprio sapere. La sua umanità resta fuori dalla scena. Ciò fa parte della giusta distanza. Comunicare il proprio sapere non è comunicarsi. Questo è possibile solo tra persone impegnate in un cammino comune, in una ricerca aperta, nella quale ognuno può portare qualcosa di essenziale. Nella relazione educativa asimmetrica l’educando è segnato solo dalla negatività e dalla mancanza. Quando se ne afferma la centralità, lo si fa in modo retorico; in sostanza, è il docente – il genitore – colui che è in possesso di ogni positività (cultura, valori, competenze, eccetera). Non c’è comunicazione autentica, se non c’è ascolto, e non c’è ascolto, se non si ritiene che la persona che parla possa dire qualcosa di importante per noi. Nel pensiero pedagogico di Capitini, il maestro porta nella relazione educativa il senso doloroso del limite e la consapevolezza dei valori, il fanciullo porta l’apertura ad una realtà liberata.2 Entrambi contribuiscono all’incontro – il più straordinario incontro che sia possibile tra esseri umani – con qualcosa di essenziale. Entrambi hanno qualcosa da comunicare. Comunicando profondamente, essi mettono in comune quello che sono. La comunicazione si fa comunione, accettazione e riconoscimento reciproco.
L’educazione è pace – cioè educazione piena – quando la nozione si fa esperienza, e l’esperienza si fa intelligenza. Il primo passo è la conoscenza ricevuta, la nozione, il dato trasmesso attraverso la lezione disciplinare del docente o quella di vita del genitore. E’ un primo passo assolutamente insufficiente, anche se in molte realtà che si pretendono educative non si tentano passi ulteriori. Oltre il dato e la nozione procede l’esperienza. «Dicam enim tibi, Catule, non tam doctus quam, id quod est maius, expertus», scrive Cicerone (De Oratore, lib. II, XVII, 72). Esperto, che è più che dotto. Mille nozioni non fanno un’esperienza. L’esperto è colui che ha messo alla prova le nozioni, e ciò facendo ha messo alla prova anche sé stesso. Il dotto è al sicuro, confortato dal sistema del sapere, inserito in un mondo ordinato di conoscenze. Chi fa esperienza si sporge verso il nuovo, rischia, si espone alla possibilità dell’errore, dello scacco, della sofferenza. Il dotto ha ricevuto un patrimonio che attraverso di lui giungerà intatto a quelli che verranno dopo di lui, l’esperto cerca di accumulare patrimoni diversi, e facendo ciò rischia di perdere ciò che già ha. Il dotto ha di fronte a sé un mondo pacificato dalla conoscenza, reso stabile e certo, ordinato e prevedibile. Chi fa esperienza fronteggia la realtà, si cimenta con essa; così facendo, interrompe la ripetizione e fonda la possibilità della novità. Ma il suo orizzonte resta quello di un dominio, di un disciplinamento della realtà da parte del soggetto. Educare all’esperienza vuol dire favorire il sorgere di una umanità in tensione costante con la realtà, aperta e protesa verso il nuovo, in grado di realizzare un umanesimo nel quale molto contano la scienza e la tecnica. Questo è molto, ma non è tutto. Per usare la terminologia di Capitini, siamo nella dimensione dell’amministrazione del mondo. C’è una dimensione ulteriore, un passo oltre l’umanesimo. Capitini parla di religione, dando alla parole un significato che nulla ha a che fare con le chiese, le fedi, i dogmi, perfino con il credere o non credere in Dio. Religione è fare i conti con la realtà, portare l’esperienza fino al punto in cui ci porta al contatto con le cose stesse, e con ciò che noi stessi siamo. Non c’è più il fronteggiarsi dell’esperienza umanistica. Religio indicava latinamente non solo la fede e la devozione, ma anche la scrupolosità. Religioso era colui che seguiva il proprio dovere, che si faceva scrupoli. Che faceva attenzione. Ogni esperienza, seguita scrupolosamente, condotta coerentemente fino all’estremo, porta alla intelligenza. Si consideri una cosa qualsiasi. All’inizio, di quella cosa sappiamo ciò che abbiamo imparato a scuola o abbiamo letto su un libro. È il primo livello, quello della nozione. Possiamo andare oltre, prendere quella cosa, maneggiarla, modificarla, nutrirla, prendercene cura. Stiamo facendo esperienza di quella cosa. Essa ci è ora infinitamente più vicina. Ma la esploriamo per trarne vantaggio, per farla rientrare nel sistema universale delle cose utili, che funzionano, che appagano. Può succedere, però, che quell’oggetto cessi di significare per noi in base alla sua usabilità. Che ci colpisca per sé stesso, che ci interpelli, che richieda tutta la nostra attenzione. Quando ciò accade, siamo oltre l’esperienza: siamo entrati nel campo dell’intelligenza. Possiamo limitarci ad osservare per qualche istante, tornando poi ad una considerazione utilitaristica, oppure possiamo lasciarci condurre fino al fondo della cosa. Fima Numberg, il protagonista di un bel racconto di Amos Oz, si sorprende ad osservare uno scarafaggio. «Fima osservò le piccole antenne che fremevano producendo pigri semicerchi. Ebbe modo di notare una massa di minuscole, rigide setole, in forma di baffi. Scrutò le zampe filiformi, che gli parevano piene di articolazioni. Scoprì la delicata struttura delle ali affusolate. E si riempì di un timor sacro di fronte all’esile e accurata costituzione di questa creatura, che ormai non gli faceva più schifo, anzi gli pareva incredibilmente sofisticata… ».3 Questa è intelligenza. La visione che Fima ha di uno scarafaggio è radicalmente diversa da quella corrente. L’attenzione lo porta a vedere la meravigliosità di una creatura oggetto del disprezzo universale. L’intelligenza, che vede fino al fondo, sa cos’è il rispetto – guarda meglio ciò che uno sguardo distratto ha fissato in una nozione, in un giudizio.
L’intelligenza, che è una sorta di fenomenologico andare alle cose stesse, riguarda anche sé stessi. L’attenzione assoluta con cui Fima osserva lo scarafaggio può essere applicata all’atto stesso di guardare, non all’oggetto, ma al soggetto stesso. Ciò accade raramente. La maggior parte delle nostre azioni avvengono inconsapevolmente, in modo sostanzialmente automatico. Non siamo presenti nelle nostre azioni. L’intelligenza di sé – che è quella che chiamiamo meditazione, e che altrove chiamano bhavana, coltivarsi – riconcilia con sé stesso un soggetto disperso nel mondo delle sensazioni e dei processi mentali, restituisce densità alla sua temporalità, verità alle sue azioni. Un uomo intelligente è infinitamente aperto alle cose e pienamente consapevole di sé stesso, abbandona la posizione violenta del soggetto che ha da dominare il mondo attraverso la conoscenza e la prassi e si pone in osservazione, in ascolto, in contemplazione delle cose, dei viventi, degli altri uomini – e di sé stesso.
Tra la pace e la violenza passa la stessa differenza che c’è tra lo stupore e la stupidità. Il bambino guarda il mondo con una attenzione amorevole, stupita, gioiosa. Con gli anni, la sua apertura al mondo lascia il posto alla conoscenza, al sistema dei nomi e dei concetti, alle nozioni. L’artista riesce a recuperare quello sguardo, ad osservare nuovamente ogni cosa, ogni persona come un mistero, un assoluto che non trova il proprio significato in un sistema di significati, di rimandi, di usi, ma che dev’essere interrogata per rivelare il suo vero nome («Inteligencia, dame/ el nombre exacto de las cosas», scriveva Jiménez in Eterninades). Tuttavia l’arte stessa spesso diventa nozione, quando non mercato. L’opera d’arte viene osservata con lo sguardo del conosciuto, che come quello della Medusa tramuta in pietra ciò che è vivo, sistema, ordina e tacita ciò che parla, interpella, provoca.
L’educazione è una lotta per l’intelligenza, contro la stupidità. In questo senso essa è pace. Perché la violenza, il contrario della pace, è sempre stupida. La violenza è la debolezza propria di chi non regge l’affronto della realtà, di chi resta stordito, più che stupito da essa. I suoi sensi sono ottusi, le fonti della bellezza sono per lui aride, perché non ha la pazienza di attendere che esse sgorghino dalle crepe aperte nel sistema dei nomi e delle idee.
Se si dicesse che il fine dell’educazione è sviluppare l’intelligenza così intesa, si cadrebbe nell’errore di cui si parlava all’inizio. Il momento dell’intelligenza è il momento presente. C’è educazione quando l’intelligenza accade. Il compito degli educatori è quello di favorire, non in un futuro più o meno lontano, ma qui ed ora, questa rivelazione della bellezza.
Articolo pubblicato con il titolo L’educazione nella pace per l’intelligenza, contro la stupidità, sulla rivista Azione nonviolenta, Numero 6 – Giugno 2009, pag. 10
1 J.-J. Rousseau, Emilio, tr. it., Mondadori, Milano 2008, p. 137.
2 A. Capitini, Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Nistri Lischi, Pisa 1953. Per una analisi illuminante della relazione educativa in Capitini, si veda G. Falcicchio, I figli della festa. Educazione e liberazione in Capitini, Levante, Bari 2009, pp. 64 segg.
3 Amos Oz, Fima, tr. it, Feltrinelli, Milano 2007 (2 ed.), p. 76.
[i] Dopo la laurea in Pedagogia, si è perfezionato in Bioetica. Collabora a diverse riviste, svolgendo ricerche che privilegiano il pensiero etico-politico contemporaneo. Vive a Foggia.
INTEGRAZIONE INTERCULTURALE ED EDUCAZIONE
INTEGRAZIONE INTERCULTURALE ED EDUCAZIONE
di Antonietta Pistone
La società contemporanea del postmoderno si connota e contraddistingue come era della globalizzazione. Il nostro è un mondo nel quale gli scambi avvengono tra miriadi di informazioni diverse diffuse su scala planetaria attraverso la rete del web. Ciò che si scambia sono informazioni contro denaro. Se nella società industriale il fine dello scambio era il capitale, oggi è l’informazione ricevuta in tempo reale. Non esiste al mondo un punto che si possa definire come polo gerarchico preminente da cui partono le notizie, perché internet permette a chiunque di essere in ogni momento in qualunque parte del globo. Dal punto di vista educativo e politico si pone il problema della integrazione culturale delle differenti razze. Ma per far coesistere tradizioni e civiltà assolutamente diverse le une dalle altre è indispensabile pensare anche la differenza intercorrente tra le varie idee di uomo che da sempre hanno dominato la scena della storia del mondo. Oggi si parla di sviluppo integrale della persona umana, ripercorrendo a ritroso il cammino del filosofo francese Maritain, il quale si riferisce ad una concezione globale dell’uomo, cattolicamente inteso come unità inscindibile di anima e corpo. In effetti, la tradizione filosofica classica dell’antica Grecia, con Socrate, Platone e Aristotele, propende per un uomo dominato dalla ragione e dall’intelletto. L’intellettualismo etico non è altro che l’espressione di questa limitata concezione umana, che interpreta l’agire morale come esclusiva conseguenza della scienza e della conoscenza. Tanto da far dire agli antichi che felice è l’uomo virtuoso e saggio, perché costui, conoscendo il Bene, compirà necessariamente il Bene. In tale posizione deterministica dell’etica antica è del tutto assente la nozione di volontà nell’agire morale. E l’uomo greco è fittiziamente libero, dal momento che gli manca la possibilità effettiva di esercitare la sua libertà di scelta tra le due alternative morali possibili: il Bene e il Male. La morale cattolica rovescia completamente il paradigma dell’intellettualismo etico filosofico. Con il messaggio evangelico e la predicazione di Cristo l’uomo nuovo acquista la sua piena e concreta libertà di scelta tra le due alternative etiche del Bene e del Male. Conosco il Bene, tuttavia compio il Male – dice Agostino nelle Confessioni. A voler significare la grandezza tutta umana della caduta e del peccato che si misura con la scelta etica, consapevole e responsabile, ponderata e fortemente voluta. La libertà, nel pensiero cattolico, si esercita attraverso la volontà di agire ed operare per il Bene. La volontà, poi, si forma attraverso l’intenzione retta che permette all’uomo di collimare, nella sua vita, con le scelte eticamente compiute. L’uomo nuovo è unità inscindibile di corpo e anima. Il corpo è tempio dello spirito. La materialità della persona non viene mortificata e svilita come avveniva per gli antichi. Se per Platone il corpo è sinonimo di peccaminoso, per il cattolico l’uomo non è pensabile se non attraverso il corpo. Queste differenti concezioni della persona umana sono alla base di pedagogie che compiono scelte educative completamente dissimili le une dalle altre. Per gli antichi ciò che andava educata era essenzialmente la ragione. Solo con Aristotele si comincia a scorgere nel sinolo, unità di materia e forma, una pedagogia che sia rivolta a tutto l’uomo. Ma persiste ancora l’intellettualismo, che svaluta la scelta morale compiuta per buona volontà. Con il cattolicesimo, e con la morale della chiesa ortodossa, l’uomo è totalità globale di spirito e materia corporea. Pertanto l’azione pedagogica deve esplicarsi di necessità su tutta la persona, e l’educazione diviene formazione integrale, che è trasmissione di contenuti e di patrimonio culturale, ma al contempo creazione di valori, vero bagaglio per l’esistenza quotidiana. La Chiesa ortodossa d’Oriente si divide nello scisma con la Chiesa cattolica d’Occidente quando a capo della chiesa occidentale viene posto il Papa, vicario di Cristo e depositario del potere temporale dello stato e di quello spirituale delle anime dei fedeli. Ciò che la Chiesa ortodossa contesta alla Chiesa cattolica è il dogma dell’infallibilità dei Papi, ai quali oppone la figura molto più ridimensionata del Patriarca di Costantinopoli. La spiritualità ortodossa è dinamismo, interiorità ed ecumenismo. Il peccato è una mutilazione della vita che è stata donata da Dio. Il digiuno abitua a controllare il corpo e permette di comprendere che esistono al mondo dei valori dello spirito che sono molto più importanti di quelli puramente materiali. Il digiuno è, così, inteso come nutrimento dell’anima, ed avvicina a Dio attraverso il recupero di alcune virtù, che invece il peccato allontana: la tolleranza, la serenità, il rispetto degli altri e della loro diversità, la generosità, l’altruismo, l’umiltà, la modestia. L’uomo deve riconoscere il bisogno di Dio e dell’Assoluto che rappresenta. Avvicinarsi a Dio, umile e perfetto, rende l’uomo simile al proprio creatore. La chiesa ha il compito di richiamare alla memoria quanto di buono si è perduto e abbandonato col peccato. Il sabato è giorno sacro dedicato al riposo. L’amore resta il fondamento dell’uomo e della Chiesa stessa. Anche per i cattolici l’amore è il fondamento della morale e del diritto, che trova i suoi presupposti ontologici in Dio. Essendo l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio stesso. “L’amore promette infinità, eternità-una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere…”, esordisce Papa Benedetto nella sua prima enciclica “Deus caritas est”. Costruire a scuola valori veri per un’integrazione interculturale che avvicini uomini e civiltà profondamente differenti, e formare quell’identità europea che tutti sognano come un traguardo possibile per il futuro, implica impegno e coerenza da parte del corpo docente. Noi insegnanti abbiamo l’obbligo di promuovere una cultura che si riconosca in valori della e per la collettività. Il filosofo ebreo Lévinas in “Totalità e infinito” del 1961 scrive della fenomenologia del volto dell’altro, sostenendo la positività dell’incontro con la diversità, superabile attraverso il dialogo costruttivo e pacifico. Se i nazisti avessero avuto il coraggio di guardare negli occhi gli ebrei, probabilmente non ci sarebbe stato alcun olocausto. Hannah Arendt ne’ “La banalità del male” del 1963 spiega come le peggiori nefandezze della storia siano state causate da esseri insignificanti, servi e schiavi del potere istituzionale, ridotti a burattini senza fili nelle mani dei potenti. Se non vogliamo che si ripeta lo scempio dell’uomo bestia di cui parla Nietzsche, che si trasforma nell’assassino di Dio, uccidendolo per grettezza e per ignoranza, precipitando nel nichilismo dei valori, dobbiamo aver fede nella scuola in quanto istituzione dotata di un compito assai gravoso nei confronti della società. L’educazione è liberazione delle coscienze dalla schiavitù dell’ignoranza e della forza bruta, emancipazione e riscatto dell’individuo, che si integra sempre più proficuamente con il contesto sociale di cui fa parte, secondo l’originale interpretazione del pedagogista americano Dewey. Le ragioni del cuore, quelle che le religioni dell’oriente ortodosso ci raccomandano, sono oggi da riscoprire con forza. Anche attraverso una nuova etica dei valori della comunicazione e dell’agire comunicante, come sostiene Habermas. Un futuro di pace è possibile solo dove attecchisca una cultura del dialogo e del confronto reciproco tra le civiltà. Nessuna contrapposizione violenta può risultare vincente. L’educazione che auspichiamo, per essere integrale, deve rivolgersi a tutta la persona, e rivalutare quegli aspetti dell’intelligenza emotiva ed affettiva che hanno diritto ad essere coinvolti pienamente nel processo di formazione globale. La nostra società contemporanea rischia di diventare asettica e asfittica nella sua ossessione per la tecnologia e la razionalità scientifica. L’uomo ha un cuore che si sviluppa insieme con la sua mente. Dimenticare le ragioni del cuore, diceva Pascal, equivale a ridurre la persona a mera espressione matematica e geometrica della sua stessa esistenza. E noi certamente, in quanto docenti ed educatori, questo non lo vogliamo.
Antonietta Pistone
Docente di storia e filosofia
Articolo comparso sul Provinciale di Foggia, anno XVIII-n.5, maggio 2006