QUALCHE MIO SCRITTO
“Ognuno vuole e ritiene di essere migliore di questo suo mondo. Chi è migliore, esprime solo questo suo mondo meglio degli altri” (Hegel)
In questa sezione, trovate alcuni miei scritti filosofici risalenti a periodi diversi della mia vita. Se vi interessa ciò che scrivo, potete anche leggere i miei libri. |
BREVE INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA
BREVE INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA
In questa breve introduzione cercheremo di spiegare che cosa sia la filosofia , perchè sia importante conoscerla e l’ importanza che essa rivesta nella vita quotidiana . Che cosa é la filosofia ? In realtà non esiste una vera e propria definizione di ” filosofia ” , sebbene in tanti abbiano nel corso dei secoli provato a darne una loro ; sappiamo con certezza che la parola ” filosofia ” derivi dal greco e che letteralmente significhi ” amore per il sapere ” ( filos + sofia ) ; essa é un modo di pensare che possiamo collocare a metà strada tra la scienza e la religione . La filosofia , infatti , é razionale come la scienza , ma globale come la religione . La principale differenza tra scienza e religione consiste proprio nel fatto che l’ una per spiegare determinati fatti si serve della ragione , l’ altra della fede . La filosofia , dal canto suo , cerca di dare una spiegazione a tutto , ma sempre servendosi della ragione ; il che non significa che essa spieghi tutto , tuttavia porta ad un sapere che riguarda un pò di tutto . Per esempio la filosofia si é spesso cimentata nel fare un’ indagine sui principi della realtà : ci fu chi sostenne che essa derivasse dall’ acqua , chi dall’ aria e addirittura chi dall’ infinito . Si parla spesso di filosofie orientali , ma di fatto esse non esistono , o meglio , si tratta solamente di religioni e tradizioni : la filosofia nasce in Grecia , pur avendo attinto molto dall’ Oriente . Le sue due caratteristiche principali sono l’ atteggiamento critico con cui essa si propone di esaminare la realtà e il non riguardare nè i contenuti nè il modo in cui essi sono stati acquisiti . La filosofia nasce nel momento in cui il sapere viene visto come un valore ; la nostra cultura , invece , tende a dare importanza solo a quei saperi che possono essere ” utili ” , rifiutando invece quelli che si considerano inutili : per esempio , si va a scuola non di per sè per ottenere il sapere , ma piuttosto per trovare un lavoro . Aristotele , uno dei più grandi filosofi antichi , introdusse il concetto del ” sapere per il sapere ” , dove il sapere diventa un valore di per sè , pur non trovando magari applicazioni pratiche . La filosofia per Aristotele era la più nobile delle scienze proprio perchè ” non serve a nulla ” , ossia perchè non ha quel vincolo di ” servitù ” ed é assolutamente libera : proprio perchè priva del legame di servitù é il più nobile dei saperi . La nostra società , invece , vede il sapere in modo alquanto simile a come lo vedevano le società pre-greche : gli Egizi , ad esempio , si servivano della matematica in senso ” utile ” , ossia per calcolare le entrate e le uscite , mentre invece si servivano della geometria per tracciare correttamente i confini degli appezzamenti terrieri che venivano abitualmente cancellati dalle inondazioni del Nilo . Per fare un altro esempio , i Mesopotamici sfruttavano l’ astronomia per calcolare le stagioni . L’ idea del sapere é senz’ altro vero che i Greci l’ han derivata dall’ Oriente e dalle sue società lussurreggianti di miti e tradizioni , ma l’ idea del sapere per il sapere é tutta loro . Pensiamo alla vicenda narrataci da Eraclito , vissuto ad Efeso nel 500 a.C. circa : racconta che il poeta Omero fosse interrogato da alcuni fanciulli e che quelli gli facessero l’ indovinello ” cosa é che se prendiamo ci lasciamo dietro e se non prendiamo ci portiamo appresso ? ” ; Eraclito racconta che non essendo stato capace a rispondere ( la risposta corretta , per curiosità , era : ” i pidocchi ” ) si uccise . Analoga é la vicenda della Sfinge , che amava fare indovinelli e quesiti e che si uccise perchè Edipo seppe risolverli . Si potrebbe andare avanti all’ infinito con gli esempi che testimoniano quanto fosse importante per i Greci il sapere , ma forse é meglio capire perchè la filosofia sia nata proprio in Grecia . Nasce qui soprattutto per via del rapporto che la Grecia aveva con le altre civiltà , dalle quali venivano a conoscenza di spiegazioni mitologiche della realtà ; con i primi filosofi cominciarono a discostarsi sempre più dal mito e a prediligere il logos , la ragione . Già Aristotele faceva notare che anche il mito ha , in qualche misura , una valenza filosofica perchè cerca di spiegare un pò di tutto e quindi una sorta di filosofia esisteva già nei miti . Non c’é quindi da stupirsi se uno dei maggiori filosofi greci , Platone , darà un valore filosofico ai miti, arrivando addirittura ad inventarne alcuni di sana piante ; Giordano Bruno , nel 1500 , riprenderà miti classici per attribuire loro valore filosofico altamente positivo . Ma in fin dei conti quale é la differenza tra ragione ( logos ) e mito ( muqos ) ? Il mito é una spiegazione tradizionale , il logos é razionale : nella concezione della realtà in chiave mitologica c’é un rapporto diverso con gli oggetti presi in esame rispetto alla concezione filosofica , la quale esamina tutto con lo stesso distacco di un medico che studia una malattia su un paziente o un chimico che studia le molecole . Il mito invece tratta le cose come ” persone ” : l’ inciampo in una pietra viene visto , per dire , come lo scontro di due persone . E finchè c’é un rapporto persona – persona non potrà mai nascere un atteggiamento scientifico , che invece presuppone il concetto di legge naturale . Particolarmente raffinato e apprezzabile é il modo in cui Platone vede la filosofia : ai suoi occhi essa é come l’ amore , ossia la sapienza é un qualcosa che non si potrà mai acquistare definitivamente e proprio per questo si tratta di un’ infinita ricerca che non potrà mai dirsi terminata ; così come chi é in preda all’ eros non possiede mai definitivamente cosa cerca , anche il filosofo non potrà mai far totalmente sua la sapienza, ma non per questo dovrà rinunciarvi! La posizione del filosofo é per Platone a metà strada tra la divinità e l’ignorante , una via di mezzo “privilegiata” perchè sarà continuamente stimolato alla ricerca per diventare pari alla divinità ( omoisis qew ) e per non restare ignoranti come la gente comune . C’é poi chi dice che la filosofia é una ” materia ” stupida , assurda , inutile , brutta , indecorosa e che quindi non vorrà mai dedicarvisi … ebbene costoro non sanno che facendo questi ragionamenti stanno già ” filosofando ” … Ma in fin dei conti , si deve o non si deve far filosofia ? Anche se rispondete ” no ” , sappiate che state già facendo filosofia perchè state ragionando ; sappiate inoltre che la filosofia mette tutto in discussione e che non prende niente per buono ed é quindi ancora più efficace della matematica , che invece parte da postulati , ossia da verità prese per buone ma indimostrabili. Ma in buona sostanza i filosofi chi sono? Risponde Nietzsche, il folgorante profeta del superuomo : “si possono concepire i filosofi come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l’ uomo possa elevarsi” ( La volontà di potenza ) . Filosofo é chi non si limita a prendere le cose per come sono senza indagare , bensì é chi si pone sempre dei quesiti ; pensiamo all’ insistente interrogativo socratico ti estin ; d’ altronde Socrate stesso era del parere che una vita trascorsa senza porsi domande fosse indegna di un uomo. Ciò che ci contraddistingue dalle bestie, come noteranno bene pressochè tutti i filosofi, é la ragione , il pensare ed esprimere ciò che pensiamo : il pensare é indubbiamente uno dei massimi piaceri concessi al genere umano e perchè non servirsene? Perchè trascorrere l’ intera vita senza esercitare la dote che ci distingue dalle bestie ? A questo punto, però, si potrà contestare che una cosa è studiare la filosofia in sè, un’altra cosa è studiare la storia della filosofia, come si fa a scuola; tuttavia Hegel, a suo tempo, faceva notare che lo studio della storia della filosofia coincide con lo studio della filosofia stessa: e non potrebbe essere diversamente. Chi studia la storia della fisica, della matematica ecc., s’introduce automaticamente nello studio di quelle scienze. Ma per poter riconoscere il progresso della filosofia come svolgimento dell’Idea, nella formazione e nell’apparenza empirica in cui la filosofia si manifesta storicamente, bisogna possedere già la conoscenza dell’Idea; alla stessa maniera come, per poter giudicare le azioni umane, occorre possedere i concetti di ciò che è giusto e conveniente .
IL RAPPORTO FILOSOFIA – MATEMATICA
Non entri chi non sa la matematica ( Platone )
INTRODUZIONE
Da sempre vi é un rapporto indisgiungibile tra la matematica e la filosofia:già nell’ antichità vi erano stati notevoli tentativi di avvalersi della matematica in ambito filosofico e non : anzi , é bene dire che spesso la matematica finiva lei stessa per essere una forma di filosofia : prendiamo il caso di Eratostene , vissuto tra il 280 e il 200 a.C. , che arrivò , anche se in modo piuttosto rudimentale , a calcolare il valore della circonferenza della Terra in modo molto preciso ( addirittura più preciso di Cristoforo Colombo ) . Interessanti sono anche le vicende del filosofo Talete , che oltre a calcolare l’ altezza delle piramidi sfruttando l’ ombra da esse proiettata , diede vita al famoso teorema che porta il suo nome e che dice che un fascio di rette parallele determina su due trasversali insiemi di segmenti proporzionali . Ad avvalersi della matematica furono anche i pitagorici e Platone stesso , il quale diceva che se é vero che le sensazioni possono ingannarci é altrettanto vero che la matematica ci dà certezze inconfutabili : che 2 + 2 = 4 é vero sempre , sempre lo é stato e sempre lo sarà . C’ era la convinzione che la realtà fosse interpretabile in termini matematici : i pitagorici dicevano : ” il numero é il principio ” ; in altre parole essi si erano accorti che tutti gli enti come caratteristica hanno la misurabilità ; non a caso il pitagorico per eccellenza , Pitagora , elaborò il teorema che porta il suo nome che dice che in un triangolo rettangolo la somma dei quadrati costruiti sui cateti é equivalente al quadrato costruito sull’ ipotenusa . Ci si era già spesso serviti della matematica per interpretare il mondo fisico : pensiamo al cosmo platonico , formato dai 5 solidi regolari o agli atomi democritei dotati di caratteristiche esclusivamente quantitative . Tuttavia , nonostante si fosse intrapreso il cammino dell’ uso della matematica , con Aristotele essa passa in secondo piano e dovrà aspettare per tornare in auge fino al Rinascimento . Viene spontaneo chiedersi perchè ad un certo punto il metodo matematico , che pareva il più appropriato , venga messo da parte per poi essere ripreso nel 1400 e per diventare , infine , con Galileo lo strumento principale per lo studio della realtà . Per capire il motivo di quest’ abbandono durato grosso modo 2000 anni va detto che per poter costruire un’ applicazione sistematica della matematica é necessario avere strumenti materiali ed efficaci : non basta dire , per esempio , che vi é rapporto matematico tra i fenomeni , ma bisogna anche dimostrarlo , come farà Galileo , il quale arriverà a dire quali sono questi rapporti . L’ intuizione platonico – pitagorica di interpretare la realtà con la matematica era buona , ma in fondo non avevano i mezzi idonei per farlo ed é quindi giusto che sia prevalso Aristotele e la sua concezione qualitativa : é indubbiamente vero che per noi moderni parlare di qualità come i colori , i sapori e gli odori é assurdo oltre che impreciso , ma a quei tempi aveva più senso dire ” é caldo ” che non tirare in ballo rapporti quantitativi che non posso dimostrare . E’ ovvio che dire che una cosa era calda o fredda ( in modo qualitativo ) era più efficace che non scervellarsi in misurazioni che non potevano essere corrette ; l’ intuizione che la quantificazione della realtà fisica fosse fondamentale l’ avevano già avuta , come detto , i pitagorici e Platone stesso , ma non avevano avuto successo proprio perchè privi di un armamentario strumentale portante : é molto suggestivo il modello cosmico in termini quantitativi proposto da Platone , con i 5 solidi regolari ciscuno con le sue qualità ( il tetraedro rappresenta il fuoco , per esempio , perchè spigoloso come una fiamma ) ma non può reggere se paragonato a quello qualitativo di Aristotele con i 4 elementi ( terra , acqua , aria , fuoco ) : quest’ ultimo é più semplice ma più sensato , perchè il primo mi mette di fronte a quantità senza però spiegare fino in fondo come vadano intese e quali siano i rapporti : già Epicuro rifiutava la composizione degli elementi e del cosmo sulla base dei 5 poliedri regolari , che Platone non era stato in grado di dimostrare indivisibili : se non sono indivisibili , diceva Epicuro , perchè mai si dovrebbe ritenere che le altre figure siano formate da questi , se questi a loro volte sono formati da altri ? In altre parole é inutile dire che la realtà é fatta di quantità se non sono in grado di quantificare , perchè finirò per fare come i pitagorici , che , non potendo fare della matematica un uso effettivo , finirono per provare a cogliere delle somiglianze tra le caratteristiche dei numeri e quelle della realtà ( per esempio per loro il numero due corrispondeva al genere femminile , il tre al maschile , il cinque al matrimonio perchè 3 + 2 = 5 ) . Gli unici campi in cui i rapporti matematici ipotizzati dai pitagorici e da Platone potevano essere concretamente verificati erano quello musicale e quello astronomico : il suono di una lira varia in rapporto col variare delle corde dello strumento e in cielo esiste un ordine preciso e le stelle con ciclicità ritornano in determinate posizioni . Nel 1400 invece assistiamo finalmente al recupero della matematica , che , come abbiamo detto , era stata lasciata in disparte da Aristotele fino al Medioevo ; come mai ? In primo luogo va detto che il Rinascimento é caratterizzato dal recupero dell’ antichità e dal disprezzo per tutto ciò che é medioevale o inerente a quel periodo : ebbene Aristotele nel Medioevo era stato il filosofo più inflazionato , il ” maestro ” di tutti gli altri , come dice Dante e di conseguenza i Rinascimentali non lo apprezzano e preferiscono altri filosofi , quali Platone , i pitagorici e i neoplatonici , per esempio . La rinascita della matematica va quindi ricollegata all’ anti – aristotelismo . Tuttavia nel 1400 – 1500 non vi é ancora la possibilità ( che ci sarà invece nel 1600 a partire da Galileo ) di una misurazione vera e propria della realtà e si fa un uso pre – scientifico della matematica . L’ esempio più significativo di quest’ uso della matematica é senz’ altro rappresentato dal tedesco Cusano : il suo punto di partenza sono le verità scientifiche delle quali si serve per arrivare a verità che vanno oltre la scienza , verità che si possono giustamente definire metafisiche : egli per definire il rapporto che intercorre tra la nostra conoscenza e Dio dice che é lo stesso rapporto che si instaura tra un poligono inscritto e la circonferenza alla quale é inscritto : il poligono e la circonferenza , per definizione , non saranno mai uguali tuttavia man mano che si moltiplicano i lati del poligono ci si avvicina sempre di più alla circonferenza ; così l’ uomo può avvicinarsi sempre di più a Dio senza mai raggiungerlo definitivamente . Sempre Cusano sostiene che la conoscenza consiste nell’ instaurare rapporti di proporzione tra quello che già non conosciamo e quello che non conosciamo ancora ; é come se nella nostra mente avessimo degli ” attaccapanni ” dirà in seguito qualcuno : ogni nuova conoscenza va collegata , confrontata e proporzionata alle precedenti : in fin dei conti il paragone usato da Cusano per descrivere il processo conoscitivo é quello dell’ equazione dove bisogna trovare la x ; si deve stabilire un rapporto e cavare fuori la x : tutti i rapporti conoscitivi vanno così . Cusano arriva perfino a paragonare Dio ad una cerchio il cui centro é dappertutto e la circonferenza non é da nessuna parte . Quello di Cusano é un uso della matematica piuttosto simile a quello fatto da Platone , che stimava moltissimo la matematica ( non a caso diceva : ” Dio sempre geometrizza ” ) e le attribuiva un valore propedeutico per la filosofia ; inoltre va senz’ altro ricordato che , una volta constatato che il vero mondo é quello intellegibile delle idee , Platone non aveva esitato a dare maggior valore ai numeri ideali rispetto alle idee stesse : i numeri ideali non sono altro che le essenze stesse dei numeri ( il numero ideale 7 é l’ essenza del 7 , e così via ) e in quanto tali non sono sottoponibili ad operazioni aritmetiche : mentre il 7 ” sensibile ” ( del nostro mondo ) é molteplice ( in un’ espressione scritta su una lavagna può comparire più volte ! ) , il 7 ideale é unico : ciascuna idea risulta collocabile in una precisa posizione del mondo intellegibile , a seconda della sua maggiore o minore universalità e a seconda della forma più o meno complessa dei rapporti che essa intrattiene con le altre idee : in altre parole per Platone le idee stesse sono regolate dai numeri ideali . Tuttavia , ritornando a Cusano , che si avvicinava molto a Platone per l’ uso della matematica , va detto che molti altri pensatori di quell’ epoca si avvicinavano invece all’ uso pseudo – matematico dei pitagorici : Giordano Bruno , che ha una concezione della matematica che sfuma con quella della magia , é uno di questi . Con il 1600 e con Galileo ci sarà una vera e propria rivoluzione scientifica : la matematica in questo periodo riveste essenzialmente due funzioni : da un lato viene usata come strumento di indagine della realtà , dall’ altro essa diventa modello metodologico anche per cose non strettamente quantificabili : una cosa é dire ” affermo che il mondo fisico é fatto di quantità e lo indago servendomi della matematica ” ( ed é quello che fanno tutti gli scienziati ) , un’ altra cosa ( più strettamente filosofica ) é dire ” se il metodo di ragionamento della matematica funziona così bene in ambiti matematici , perchè non provare ad usarlo anche fuori dagli ambiti matematici ( per esempio in ambiti politici , metafisici , ecc. ) ? ” E’ in questo periodo che si afferma il meccanicismo ( già propugnato da Democrito ) , che è l’immediata conseguenza della quantificazione della scienza : la connessione necessaria con cui in matematica le diverse proporzioni geometriche o le diverse operazioni aritmetiche e algebriche discendono le une dalle altre diventa in fisica la necessità con cui la causa è connessa con l’effetto . Solo in questa maniera posso arrivare a leggi fisiche . In altri termini il meccanicismo , come dice Cartesio , consiste nel ridurre tutto ad estensione e movimento , eliminando dal modo di indagare la realtà ogni riferimento agli aspetti qualitativi e badando solo a quelli quantitativi , riducibili a quantità , perchè gli altri o non esistono o preferisco non prenderli in considerazione . Misurabile é quindi l’ estensione , il movimento ; non potrò indagare le qualità ( i colori , i sapori , gli odori , ecc . ) . L’ immagine che meglio descrive il mondo visto in chiave meccanicistica é quella del tavolo da biliardo che ben spiega come la causalità venga ridotta a urti tra corpi ( il mondo é un insieme di enti materiali che si urtano ) , facendo così venir meno il complesso apparato delle quattro cause di Aristotele ; in paricolare nella tradizione aristotelica l’analisi qualitativa della natura era strettamente connessa con la prospettiva finalistica . Però non scompaiono tutte e 4 le cause aristoteliche perchè parlando di urti tra corpi é evidente che si parla anche di causa efficiente ( l’ urto ) e causa materiale ( ciò che si urta é pur sempre un corpo ) . Non vengono invece più prese in considerazione la causa formale , che era quella che esaminava soprattutto le qualità ( le forme ) , e soprattutto quella finale ( gli urti non avvengono certo in vista di un fine ) perchè non possono essere oggetto di un’ indagine quantitativa . Anziché in termini di ” cause finali “, la nuova scienza interpreterà quindi le connessioni tra i fenomeni come ” cause efficienti ” e meccaniche . Ma questo nuovo metodo di approccio con la realtà ha due sfumature : la prima , più debole e più metodologica , consiste nel dire che la realtà é matematicamente interpretabile ( si limita ad indicarmi come studiare la realtà ) ; la seconda , più forte e più ontologica , dice che la realtà é fatta di realtà quantitative . Galileo dirà che la natura é come un libro e come tutti i libri é scritto in caratteri ; i caratteri di questo libro sono matematici : ma Galileo é ambiguo : vuole dire che la matematica é l’ alfabeto per interpretare il libro della natura o é ciò che la costituisce ? Galileo diceva : ” Io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi ; ma perchè é scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto , non può esser da tutti letto : e sono i caratteri di tal libro triangoli , quadrati , cerchi , sfere , coni , piramidi ed altre figure matematiche , attissime per tal lettura ” . Per poter interpretare questo libro e leggerlo , come per qualsiasi altro libro , bisogna imparare l’ alfabeto . L’ alfabeto in cui questo particolare libro é scritto é l’ alfabeto matematico ; se prima di leggere questo libro fisico che é la natura bisogna conoscere l’ alfabeto della matematica , allora per Galileo prima di studiare la fisica bisogna studiare la matematica . E’ un’ ottima rappresentazione del rapporto che Galileo ha instaurato tra matematica e fisica , rapporto che é sostanzialmente quello in vigore ai giorni nostri . Ma quest’ affermazione del libro della natura risulta ambigua perchè può significare due cose ; Galileo riprende essenzialmente idee platonico – pitagoriche ; l’ idea che il libro della natura sia scritto in caratteri matematici era ben presente nel Timeo di Platone : c’ erano i 4 elementi fondamentali ( terra , acqua , aria e fuoco ) apparentemente si distinguono in termini qualitativi , ma in realtà nella loro radice profonda si distinguono in termini quantitativi : ciò che distingue un elemento da un altro é la forma geometrica delle particelle di quell’ elemento . La forma del fuoco era piramidale : il fuoco brucia apparentemente per caratteri qualitativi , ma in realtà per caratteri quantitativi : la fiamma é fatta a forma di piramide spigolosa e proprio perchè spigolosa ci dà l’ impressione di bruciare . La novità di Platone rispetto ad Empedocle che aveva elaborato questo sistema dei 4 elementi e ad Aristotele che verrà dopo , é che per lui queste manifestazioni qualitative sono apparenti , esteriori , ossia nascondono le manifestazioni più profonde , quelle quantitative . Il fuoco é diverso dalla terra perchè ha forma geometrica diversa : l’ uno é piramidale , l’ altra cubica , dice Platone . Da un certo punto di vista Platone aveva preso quest’ idea da Democrito , che aveva detto che ci sono qualità che esistono ” fusei ” ( per natura ) e ” nomo ” ( per convenzione ) ; la forma e la dimensione degli atomi per lui sono quantitative e oggettive ( ” fusei ” ) , ossia esistono di per sé ; quelle che invece chiamiamo qualità ( sapore , odore , colore ) per lui sono l’ effetto qualitativo sui nostri organi di senso di queste quantità : esistono solo per convenzione , come effetto soggettivo sui nostri organi di senso . Ora la posizione di Democrito , quella di Platone e quella di Galileo sembrano uguali ; pare che tutti e tre vogliano dire che ciò che esiste per davvero nella realtà sono le forme geometriche . Però in Galileo non é chiarissimo ( probabilmente perchè non era neanche chiarissimo nella sua testa , visto che esulava un pò dai suoi interessi ) se é convinto che nella realtà esistano solo gli aspetti quantitativi e che gli aspetti qualitativi siano solo la manifestazione esteriore e coglibile soggettivamente di queste quantità , oppure se é convinto che le caratteristiche quantitative sono le uniche analizzabili in termini matematici ( e quindi rigorosi ) e sono quindi le uniche cose da prendere in considerazione . Sono due affermazioni diversissime : posso limitarmi a dire che nel mondo esistono alcune caratteristiche quantitative e altre qualitative ; le uniche studiabili in termini matematici saranno ovviamente quelle quantitative . Siccome solo la matematica consente di dare interpretazioni rigorose della realtà ( leggi fisiche ) e solo le cose quantitative possono essere oggetto d’ esame della matematica , studierò solo le cose quantitative . Gli altri aspetti della realtà non mi interessano , non li tengo in conto perchè tanto non sono oggetto di misurazioni rigorose . Spesso Galileo sembra dire semplicemente questo , senza avvicinarsi così alle tesi di Platone e Democrito , senza cioè sostenere che esistano solo le quantità e che le qualità siano solo un’ apparenza superficiale . E’ ben diverso dal dire che la realtà é fatta solo di aspetti quantitativi . Nel caso esistessero , comunque , le caratteristiche qualitative Galileo le escluderebbe senz’ altro dal suo ambito di indagine . Quando per esempio studia la gravità , dice ( ammettendo quindi che esistano le cose qualitative ) di non porsi il problema di sapere cosa sia la gravità ; sarebbe un’ indagine qualitativa della realtà la ricerca dell’ essenza della gravità ; Aristotele aveva proprio agito così , in termini qualitativi : lui non si é mai posto il problema di trovare in termini quantitativi la legge matematica in base alla quale le cose cadono , bensì si chiedeva cosa fosse la gravità : e rispondeva dicendo che essa non é altro che la tendenza naturale dei corpi a raggiungere il loro luogo naturale . Egli esamina la realtà ma non formula leggi scientifiche . Galileo fa l’ opposto : non si occupa di che cosa sia la gravità ( dice di non voler ” tentare l’ essenza ” , trovare l’ essenza ) , ma come si comporta , la sua legge di comportamento . La differenza di atteggiamento tra Galileo e Aristotele viene generalmente sottolineata dicendo che Galileo non si chiede nè il cosa nè il perchè , ma il come ; Aristotele invece si chiedeva proprio questo : che cosa é e perchè si comporta così ? Ed in fondo queste due domande finivano per essere la stessa cosa : nella teoria delle quattro cause infatti Aristotele si chiedeva per 4 volte perchè ; ma 2 di questi perchè finivano per essere ” che cosa ? ” ; quando si chiedeva la causa materiale ( ” di cosa é fatto ? ” ) e quella formale ( ” che forma ha ? ” ) , si chiedeva contemporaneamente cosa e perchè . Galileo invece vuole sapere il come ; apparentemente é una ricerca più superficiale di quella aristotelica , ma non é così : si cerca di scoprire la legge matematica del comportamento . Per lui non é importante sapere che cosa sia il peso , ma sapere che i corpi pesanti si muovono secondo una determinata legge matematica . E da Galileo in poi le leggi fisiche non dicono il che cosa e il perchè , ma il come : nelle leggi dei gas non mi si dice che cosa é un gas e perchè agisce così , ma solo come si comporta : a temperatura costante volume e pressione sono inversamente proporzionali ( per esempio ) : al comportamento di una grandezza corrisponde quello di un’ altra : c’ é solo il come . Altre volte però Galileo sembra abbracciare tesi meccanicistiche ; il meccanicismo é il vedere il mondo come puramente quantitativo . Per sostenere la tesi che esistano solo caratteristiche quantitative Galileo usa l’ esempio del solletico : una piuma é un oggetto indubbiamente materiale – quantitativo : tuttavia quando facciamo con essa il solletico ad un’ altra persona , essa suscita un effetto qualitativo ( il solletico appunto ) . In realtà si é fatto notare che quando fa quell’ esempio dice ” vo pensando che ” : mentre é certo che sul piano metodologico bisogna tenere in considerazione solo le caratteristiche quantitative , sul piano metafisico gli viene un sospetto dettato dal fatto che mentre non riesco ad immaginare che le caratteristiche quantitative esistano senza le cose cui si riferiscono , invece le qualità sì : riesco ad immaginare il giallo senza immaginare ciò cui si riferisce , un’ illusione . E’ solo un sospetto che tutto sia in termini quantitativi ; è un sospetto che però non riesce a dimostrare del tutto . E’ certo che vadano studiate solo le caratteristiche quantitative , ma gli viene il sospetto dal solletico , dal fatto che certe caratteristiche si possono separare dall’ oggetto , che effettivamente il mondo sia fatto di caratteri matematici . Si era accorto di un possibile controsenso tra due affermazioni che lui fa : una volta detto che non ” tenta le essenze ” diventa contradditorio fare affermazioni metafisiche : se voglio esaminare solo il come , mi contraddico se esamino come sia fatta la realtà : solo in termini quantitativi ? O anche in termini qualitativi ? Quello che in Galileo é solo un’ osservazione metodologica e un sospetto metafisico , diventa un’ affermazione definitiva metafisica in Cartesio , Hobbes e così via ; l’ immagine del mondo nel 1600 sarà essenzialmente meccanicistica . C’ é una grossa differenza : per Galileo il meccanicismo é un metodo di indagine , un meccanismo metodologico , il come approcciare con la realtà . Non é del tutto lecito il passaggio da meccanicismo metodologico a meccanicismo metafisico – ontologico : non c’ é un passaggio logico che porti a dire che il metodo corretto di indagare la realtà sia l’ uso delle caratteristiche quantitative e che quindi esse sono le uniche che esistano . Sarebbe vero il contrario : se sapessi che la realtà é fatta in termini puramente matematici , allora potrei dire che l’ unica materia per studiarla é la matematica : i platonici e i pitagorici la pensavano così . Per dirla in una frase sola , dalla scienza galileiana é derivata una metafisica meccanicistica . Interessante é l’ idea di esaminare con il metodo matematico , il più preciso a nostra disposizione , anche realtà non propriamente matematiche ; Cartesio dirà che così come per risolvere un problema complesso occorre scomporlo in più parti semplici da ricomporre una volta risolte , anche con il pensiero bisogna agire così : ” dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente ” . E’ evidente come in questo caso venga applicato il metodo matematico anche quando la matematica non é applicabile : Cartesio , che oltre ad essere grande filosofo fu anche illustre matematico ( pensiamo al piano cartesiano ) tanto da arrivare a proporre un metodo di indagine della realtà assolutamente matematico , unendo filosofia e matematica , che da sole , a suo avviso , erano inefficaci : la filosofia si occupa in modo non rigoroso di cose reali , la matematica si occupa in modo rigoroso di cose non reali. Ma é interessante notare come Cartesio metta anche in dubbio la fondatezza delle verità matematiche in un primo tempo, avanzando la bislacca ipotesi del genio maligno : chi non ci dice che siamo stati creati da un genio malvagio che impiega tutta la sua onnipotenza per ingannarci , per farci credere che 2 + 2 = 4 , per farci prendere per certe cose false ? Senz’ altro é un’ ipotesi non ragionevole , ma molto interessante; poi Cartesio , durante il suo percorso filosofico , smaschererà questa ipotesi bizzarra e dimostrerà una volta per tutte l’ inconfutabilità delle verità matematiche , arrivando addirittura a sostenere , sulla scia di Galileo , che lee verità evidenti , ossia quelle matematiche ( del tipo 2 + 2 = 4 ) l’ uomo le conosce alla pari di Dio ; nelle verità evidenti la differenza di conoscenza tra Dio e uomo non é qualitativa ( 2 + 2 = 4 lo so io come Dio ) , ma quantitativa ( Dio conosce molte più verità evidenti rispetto all’ uomo ) . Interessante é poi quanto fa Spinoza una generazione dopo Cartesio : egli applica all’ etica il metodo matematico ( la sua opera più importante si intitola : ” Etica dimostrata alla maniera della geometria ” ; di fatto i numeri non vi compaiono , ma si possono trovare teoremi , definizioni , corollari … ) , o quanto fa Hobbes che lo applica alla politica e arriva perfino a sostenere che pensare non é altro che fare calcoli : quando dico che la rana é verde sommo l’ attributo ” verde ” alla sostanza ” rana ” , quando dico che la rana non é verde sottraggo l’ attributo ” verde ” alla sostanza ” rana ” . Non c’é poi da stupirsi se la prima calcolatrice l’abbia inventata un filosofo, Pascal , vissuto anch’ egli nel 1600 , il secolo della matematica e della fisica. Tuttavia il primitivo modello di calcolatrice elaborato da Pascal verrà rielaborato e perfezionato da un altro grande filosofo del 1600 , Leibniz , una sorta di genio universale la cui cultura spaziò nei più vasti campi . Egli si contende con l’altro grande filosofo e scienziato di quegli anni ( Newton ) l’ invenzione del calcolo infinitesimale; egli sentiva così forte la presenza di un ordine, al di là della molteplicità presente nel mondo, da dire: ‘se segnassimo a caso dei punti su un foglio di carta , si potrebbe individuare sempre e comunque un’equazione matematica tale da rendere conto di quanto fatto’. E’ interessante quanto ha sostenuto il pensatore scozzese David Hume nel Settecento: a suo avviso la matematica è una mera “relazione tra idee”, un far emergere il predicato attraverso l’analisi del soggetto. Ad esempio, l’espressione “il triangolo ha 3 lati” è una relazione tra idee in quanto è implicito nel concetto di triangolo il fatto di avere tre lati, per cui nel dire che il triangolo ha 3 lati non si aggiunge qualcosa al soggetto, anzi, lo si estrae da esso analiticamente. Per Hume svolgere un’espressione algebrica significa prendere il concetto in questione, analizzarlo, ed estrarne le conseguenze, con l’ovvio risultato che l’intera matematica finisce per essere nient’altro che un’enorme tautologia, in cui si esprime ciò che è implicito. Questi giudizi, da Hume definiti “relazioni tra idee”, Kant li ribattezzerà “giudizi analitici a priori”: analitici perchè implicano un’analisi tutta interna al concetto del soggetto, e a priori perchè non derivano nè dipendono dall’esperienza, ma sono veri ancor prima di essa. Tuttavia Kant non è d’accordo con Hume sul fatto che la matematica sia costituita da giudizi analitici a priori, poiché altrimenti essa finirebbe per configurarsi come una ripetizione eterna di concetti già presenti, seppur solo implicitamente, nei numeri stessi; al contrario, dice Kant, la matematica ha per oggetto cose assolutamente certe, poiché a priori e dunque non smentibili dall’esperienza, ma anche arricchenti, in quanto non è una pura e semplice relazione di idee per cui dal concetto di 3+3 si desume analiticamente il 6. Se così fosse, del resto, la matematica perderebbe di valore e, con essa, anche la fisica newtoniana, di cui Kant è strenuo difensore: la matematica deve dunque dire cose assolutamente certe ma che, nello stesso tempo, arricchiscano la conoscenza ed è per questo che i giudizi che la costituiscono sono “sintetici a priori”. quando mi trovo di fronte all’espressione 7+5=12 non è vero che analizzo i concetti di 7 e di 5 e ne estraggo il 12 come relazione tra idee; al contrario, 7+5 è un materiale di lavoro, un’indicazione dell’operazione che devo svolgere. Ne è un fulgido esempio il fatto che i bambini contino servendosi di oggetti materiali, come ad esempio le palline: le raggruppano e le affiancano una alla volta e, una volta sommate, ottengono il risultato. Ed è quello che, secondo Kant, facciamo anche noi mentalmente. Ora, è evidente che un’operazione di questo genere non rientra nell’ambito delle relazioni tra idee, dei giudizi analitici a priori. Si tratta di un’operazione sintetica, di costruzione (e non di analisi), ma nessuno si sognerebbe per questo di considerarla a posteriori, come derivata solo e soltanto dall’esperienza, sebbene si usino materialmente delle palline: ciascuno di noi considera le verità matematiche del tipo 7+5=12 come assolutamente certe, e le certezze derivano dall’apriorità, ovvero dalla non-smentibilità empirica. Che la matematica non sia smentibile dall’esperienza risulta evidente dal fatto che se un prestigiatore infila prima 7 e poi 5 palline in un recipiente e, mostrandoci il contenuto, non vediamo 12 palline, abbiamo la certezza che c’è stato un trucco, nessuno penserebbe mai che possano essere più o meno di 12. Questo vuol dire che se anche l’esperienza ci fa vedere che 5+7 non dà 12, noi continuiamo ad essere certi che 7+5 dia 12; tutto questo dimostra l’apriorità (sono giudizi certi, non derivati nè sconfessabili dall’esperienza) e la sinteticità (sono giudizi costruiti nel corso della dimostrazione) della matematica. Per il grande pensatore inglese novecentesco, Bertrand Russell, ‘La matematica non possiede soltanto la verità, ma anche la bellezza suprema, una bellezza fredda ed austera, come quella della scultura’: egli scorge nella matematica una forma di bellezza, proprio perchè i passaggi matematici, nel loro rigore e nella loro freddezza, sono espressione di una verità inconfutabile e, come avevano insegnato Platone e san Tommaso, ciò che é vero é anche bello, anche se non sempre ciò che é bello é vero. Un altro grande pensatore del Novecento, Edmund Husserl, si occuperà di matematica, ed in particolare del concetto di numero: esso a suo avviso deriva da un atto unitario della mente, che dirige intenzionalmente la sua attenzione su molteplicità di oggetti riuniti in ‘aggregato’ specifico (ad esempio un insieme di mele). A partire da questo, esso procede a ricavare per astrazione il concetto generale di aggregato, concepito come come collegamento collettivo delle unità costitutive di una molteplicità; procedendo a contare tali unità, si arriva al concetto di numero. Husserl riconosce l’ esistenza autonoma dei numeri come forme generali, cioè come strutture rappresentative costanti del soggetto, le quali condizionano l’attività conoscitiva. A questo punto, però, dopo che abbiamo citato il concetto di numero, viene spontaneo chiedersi in che cosa consista la differenza tra matematica e filosofia ; la vera differenza che possiamo ravvisare tra di esse é che mentre la matematica si serve dei numeri per svolgere espressioni , equazioni , sistemi e quant’ altro , la filosofia si chiede se i numeri esistano o meno , proprio come fece Husserl . E’ una domanda più difficile di quanto possa sembrare che trova le sue origini ai tempi di Platone e di Aristotele ; per il primo i numeri esistono realmente , come enti dotati di essere : se ho un gruppo di 6 libri significa che esso partecipa all’ idea del 6 ( il numero ideale 6 ) , dice Platone : il ragionamento che lo porta ad attribuire consistenza ontologica ai numei é essenzialmente questo ( in parte già accennato ) : I Numeri ideali sono le essenze stesse dei numeri ( il numero ideale tre é l’ essenza del tre , e così di seguito ) . In quanto tali , essi non sono sottoponibili ad operazioni aritmetiche . Il loro status metafisico é ben differente da quello aritmetico , appunto perchè non rappresentano semplicemente numeri , ma l’ essenza stessa dei numeri . In effetti , non avrebbe senso sommare l’ essenza del due all’ essenza del tre e così via . I Numeri ideali , quindi , costituiscono i supremi modelli dei numeri matematici . Inoltre , per Platone i Numeri Ideali sono i primi derivati dai Principi primi , per il motivo che essi rappresentano , in forma originaria e quindi paradigmatica , quella struttura sintetica dell’ unità nella molteplicità , che caratterizza anche tutti gli altri piani del reale a tutti gli altri livelli . Inoltre , Aristotele ci riferisce : ” Platone afferma che , accanto ai sensibili e alle Forme ( idee ) , esistono enti matematici intermedi fra gli uni e le altre , i quali differiscono dai sensibili , perchè immobili ed eterni , e differiscono dalle Forme , perchè ve ne sono molti simili , mentre ciascuna Forma é solamente una e individua ” . Platone ha introdotto questi ” enti matematici intermedi ” per i seguenti motivi : i numeri su cui opera l’ aritmetica , come anche le grandezze su cui opera la geometria , non sono realtà sensibili , ma intellegibili . Però , tali realtà intellegibili non possono essere Numeri Ideali nè Figure geometriche ideali perchè le operazioni aritmetiche implicano l’ esistenza di molti numeri uguali ( pensiamo ad esempio ad un’ equazione dove , per dire , il numero 6 può comparire diverse volte ) e le dimostrazioni e le operazioni geometriche implicano molte figure uguali e molte figure che sono una variazione della medesima essenza ( pensiamo a molti triangoli uguali e molte figure che sono variazioni della medesima essenza , ossia triangoli di vario tipo : equilatero , isoscele … ) . Invece , ciascuno dei Numeri Ideali ( così come ciascuna forma ideale ) é unico , e inoltre i Numeri Ideali non sono operabili . Se si tiene presente questo , risultano chiare le conclusione platoniche sull’ esistenza di enti matematici aventi caratteri ” intermedi ” fra il mondo intellegibile e il mondo sensibile . In quanto sono immobili ed eterni , gli enti matematici condividono i caratteri delle realtà intellegibili , e cioè delle idee ; invece , in quanto ve ne sono molti della medesima specie , sono analoghi ai sensibili . Il fondamento teoretico di questa dottrina sta nella convinzione radicatissima in Platone , di genesi eleatica , della perfetta corrispondenza fra il conoscere e l’ essere , per cui ad un livello di conoscenza di un determinato tipo deve necessariamente far riscontro un corrispettivo livello di essere . Di conseguenza , alla conoscenza matematica , che é di livello superiore alla conoscenza sensibile , ma inferiore alla conoscenza filosofica , deve corrispondere un tipo di realtà che ha le corrispettive connotazioni ontologiche . Questa dottrina non scritta ( e solo allusa nei dialoghi ) é essenziale per comprendere l’ impianto ontologico e gnoseologico della Repubblica , e quindi costituisce un tassello assai importante del sistema platonico . Inoltre , spiega assai bene l’ importanza pedagogica che Platone attribuiva alle matematiche , che nell’ Accademia dovevano preparare i futuri dialettici e politici nello Stato ideale . Si noti che , in questa complessa prospettiva teoretica , Platone non fa dipendere la sua metafisica e la sua dialettica dalla matematica e dai suoi metodi , ma , al contrario , ” fa dipendere la matematica dai principi metafisici in modo strutturale ” . Appunto in quanto deriva dai principi metafisici con tutto ciò che da questo consegue , la matematica ne può presentare un’ immagine , che aiuta a risalire al modello originario e quindi a preparare la mente alla dialettica che di essi tratta . Aristotele invece prende come punto di partenza della sua fisica che tutte le cose materiali che vediamo intorno a noi esistono ; per Aristotele non esistono da soli e separatamente quelle cose che per Platone esistevano ( in particolare quelle caratteristiche quantitative che Platone diceva esistere di per sè) , come gli enti matematici , i numeri : per Platone c’era il triangolo in sè e poi gli altri triangoli sensibili . Per Aristotele è l’opposto : esistono i triangoli materiali e poi quello immateriale , che però non può mai esistere come realtà autonoma . Platone aveva minuziosamente dimostrato che noi quando dimostriamo ci riportiamo all’idea di triangolo . Per Aristotele esistono prima i triangoli materiali e poi quello immateriale : quello “ideale” per Aristotele non è nient’altro che una nostra creazione , siamo noi che facciamo un’astrazione : esso esiste solo come risultato di un processo di astrazione da noi operata . Due libri hanno la forma di parallelepipedo : Platone direbbe che imitano l’idea di parallelepipedo . Per Aristotele no , è l’opposto : si fa un processo di astrazione dove poco per volta si tirano fuori le caratteristiche : i due libri non hanno colori uguali , quindi tolgo i colori ; hanno scritte diverse , quindi tolgo le scritte ; sono imprecisi , tolgo le imprecisioni ; privato di tutte le caratteristiche mi rimane solo più la forma di parallelepipedo : il processo consiste essenzialmente nell’asportare via le differenze tra i due libri . Diciamo che la matematica indaga cose che di per sè non esistono perchè le si creano con l’astrazione e che indaga cose immutevoli perchè il parallelepipedo è sempre esistito . Per Platone il parallelepipedo esiste nell’iperuranio , per Aristotele nel mondo terreno , nei due libri , per esempio . La fisica studia quel mondo fisico che Platone non amava : le sostanze materiali che di per sè esistono ma sono mutevoli . In particolare la fisica studia gli enti naturali . Di conseguenza per Aristotele i numeri ( e noi siamo più propensi a pensarla come lui come cultura generale ) non hanno esistenza propria , ma ” parassitaria ” come qualsiasi altro ” accidente ” : accidente é ciò che per esistere ha bisogno di una sostanza cui riferirsi ( il giallo per esistere ha bisogno di una casa o di un vestito , per esempio , perchè di per sè non esiste ) ; alla stessa maniera i numeri per esistere devono avere sostanze cui riferirsi : non esisterà di per sè il 3 , ma esisteranno gruppi di 3 cose ( 3 libri , 3 cavalli , 3 case … ) . Tuttavia , se li penso , in qualche modo dovranno pur esistere i numeri ! Ma viene spontaneo chiedersi : e se nessuno contasse più , i numeri continuerebbero a esistere ? Un’altra domanda che riguarda strettamente l’ambito filosofico è perchè la matematica sia applicabile al mondo fisico : come possiamo applicare formule matematiche al mondo che ci circonda? Una prima risposta a tale quesito fu data dai Pitagorici e da Platone: a loro giudizio, esistendo effettivamente i numeri nella realtà e non essendo pure e semplici “invenzioni” della mente umana, essi saranno naturalmente la chiave di lettura della realtà stessa, di cui fanno effettivamente parte. Diversa e, per molti versi più complessa, è la risposta di Kant: secondo Kant noi non percepiamo le cose come esse effettivamente sono in sé, ma come ci appaiono, modificate dalle nostre strutture mentali e dal fatto stesso di essere percepite nello spazio e nel tempo. Infatti, tutte le realtà con le quali veniamo a contatto esteriormente le percepiamo filtrate dallo spazio, mentre tutte le percezioni che abbiamo nella nostra interiorità sono scandite dal tempo; ma poiché ciò che percepiamo “fuori” di noi in qualche modo lo interiorizziamo, riceveremo filtrate nel tempo anche le percezioni a noi esterne. Il tempo diventa allora il filtro tanto delle sensazioni esterne quanto di quelle interne, risultando pertanto superiore allo spazio. Ora, dice Kant, lo spazio e il tempo sono i fondamenti, rispettivamente, della geometria e dell’aritmetica , nel senso che costruisco le figure geometriche nello spazio ed effettuo i calcoli aritmetici nel tempo: vale a dire che l’aritmetica è costruita nel tempo (prendo mentalmente l’unità e l’aggiungo), mentre la geometria è costruita nello spazio (traccio figure in esso), ma anche nel tempo, poiché tendo ad interiorizzare tutto ciò che è fuori di me: il che implica che si possa applicare l’aritmetica alla geometria, proprio perchè hanno in comune l’essere nel tempo. Non c’è poi da stupirsi se si possono applicare la matematica e la geometria al mondo come ci appare, filtrato dallo spazio e dal tempo: il mondo al quale applico la matematica è inquadrato nello spazio e nel tempo, proprio come la matematica e la geometria. Ne consegue che la matematica deve per forza essere applicabile al mondo come esso ci appare, e tuttavia non è detto che essa sia anche applicabile al mondo come è in sè, indipendentemente dall’essere da noi percepito.
IL MATRIX E LA SUA FILOSOFIA
Nel 1999 usciva un film che avrebbe rivoluzionato completamente la cinematografia, tanto per gli effetti speciali quanto per i contenuti proposti: si trattava di Matrix, un vero e proprio compendio filosofico da gustare al cinema. Alla base del successo l’avvincente vicenda, la bravura del protagonista (Keanu Reeves), la raffinatezza degli effetti speciali, la spettacolarità dei combattimenti di arti marziali. Tutto qui? Forse no: c’è anche una visione del mondo che richiama vivamente alla mente diverse tappe della tradizione filosofica occidentale. Il protagonista, Neo (interpretato da Keanu Reeves), da qualche tempo vive assillato da interrogativi cui non riesce a dare risposte che lo soddisfino: é come se, dentro di sè, avvertisse che in ogni atomo della realtà che lo circonda c’é qualcosa che non quadra. Egli viene contattato da Morpheus, un famigerato ‘pirata virtuale’ ricercato dalle autorità: quest’ultimo é infatti convinto che Neo sia un uomo al di fuori del normale, destinato a salvare l’intera umanità dal dramma che la affligge; ma di che dramma si tratta? Morpheus ha contatto Neo proprio perchè si é accorto che ha presagito questo dramma che si protrae da secoli ed é convinto che spetti a lui aiutarlo: l’intero genere umano é soggiogato alle macchine, delle quali un tempo si serviva: dopo una ribellione da parte di queste ultime, i ruoli si sono invertiti: le macchine sfruttano gli uomini per sopravvivere e li tengono incatenati, avvalendosi della loro energia. Nell’ambito delle percezioni, il mondo che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi é reale, ma nell’ambito della realtà, esso é una beffa, non esiste: si tratta solo di immagini virtuali inviate al nostro cervello dalle macchine che ci tengono schiavi. Dunque, ogni cosa che ci circonda non ha un fondamento al di fuori della nostra mente: le macchine, le case e le strade non sono altro che immagini virtuali inviate al nostro cervello dalle macchine dominatrici; il mondo intero é un programma (Matrix appunto), un inganno ordito dalle onnipotenti intelligenze artificiali che ci controllano. Naturalmente Neo, per quanto avesse potuto presagire che qualcosa non andava, era lungi dall’immaginare tutto questo e, in un primo tempo, non riesce a capacitarsene. Questo é il dialogo del primo incontro tra Neo e Morpheus:
Morpheus: Immagino che in questo momento ti sentirai un po’ come Alice che ruzzola nella tana del Bianconiglio.
Neo: L’esempio calza.
Morpheus: Lo leggo nei tuoi occhi: hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede solo perché aspetta di risvegliarsi. E curiosamente non sei lontano dalla verità. Tu credi nel destino, Neo?
Neo: No.
Morpheus: Perché no?
Neo: Perché non piace l’idea di non poter gestire la mia vita.
Morpheus: Capisco perfettamente ciò che intendi. Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c’è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo. Non sai bene di che si tratta, ma l’avverti. È un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto. È questa sensazione che ti ha portato da me. Tu sai di cosa sto parlando…
Neo: Di Matrix.
Morpheus: Ti interessa sapere di che si tratta, che cos’è? Matrix è ovunque, è intorno a noi, anche adesso nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo dinanzi agli occhi, per nasconderti la verità.
Neo: Quale verità?
Morpheus: Che tu sei uno schiavo. Come tutti gli altri sei nato in catene, sei nato in una prigione che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore, una prigione per la tua mente. Nessuno di noi è in grado purtroppo di descrivere Matrix agli altri. Dovrai scoprire con i tuoi occhi che cos’è. È la tua ultima occasione: se rinunci, non ne avrai altre. Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più.
(….)
Morpheus: Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da una sogno così non ti potessi più svegliare, come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?
Neo, sebbene in un primo momento si dimostri alquanto reticente, decide di collaborare con Morpheus e di tornare nel ‘mondo vero’ per poi combattere contro le macchine e liberare l’umanità dalle catene. Dunque Morpheus induce Neo ad assumere una pastiglia, con un effetto formidabile: Neo si libera dalle catene dalle quali era avviluppato e termina la propria esistenza come schiavo delle intelligenze artificiali: apre gli occhi per la prima volta. Infatti, quel che fino ad allora aveva visto, non erano altro che immagini virtuali percepite dal suo intelletto, e non dai suoi occhi:
Morpheus: Benvenuto nel mondo vero.
Neo: Sono morto, vero?
Morpheus: Tutto l’opposto.
Scena 3
Neo, cui si devono ricostituire i muscoli atrofizzati, apre gli occhi.
Neo: Mi fanno male gli occhi.
Morpheus: Perché non li hai mai usati.
Scena 4
Morpheus e Neo all’interno di Struttura, programma di caricamento simile a Matrix.
Neo (toccando una poltrona): Questo non è reale?
Morpheus: Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello.
Questo è il mondo che tu conosci (Morpheus accende un televisore e mostra immagini del nostro mondo): il mondo com’era alla fine del XX secolo e che ora esiste solo in quanto parte di una neurosimulazione interattiva che noi chiamiamo Matrix. Sei vissuto in un mondo fittizio, Neo. Questo è il mondo che esiste oggi (Morpheus mostra le immagini di città distrutte, oscurate da una spessa coltre di nubi). Benvenuto nella tua desertica, nuova realtà. (…)
Un corpo umano genera più bioelettricità di una batteria da 120 volt ed emette oltre 6 milioni di calorie. Sfruttando contemporaneamente queste due fonti le macchine si assicurarono a tempo indefinito tutta l’energia di cui avevano bisogno. Ci sono campi, campi sterminati, dove gli esseri umani non nascono, vengono coltivati. A lungo non ho voluto crederci, poi ho visto quei campi con i miei occhi, ho visto macchine liquefare i morti affinché nutrissero i vivi per via endovenosa. Dinanzi a quello spettacolo, potendo constatare la loro limpida raccapricciante precisione, mi è balzata agli occhi l’evidenza della verità. Che cosa è Matrix? È controllo. Matrix è un mondo creato al computer per tenerci sotto controllo al fine di convertire l’essere umano in questa (una pila).
Neo: No! non è possibile! Io non ci credo!
Morpheus: Non ho detto che sarebbe stato facile: ho detto che ti offrivo la verità.
Finalmente Neo accetta la nuova condizione e, insieme agli altri uomini liberatisi dalle macchine, si dà da fare per restituire la libertà all’intero genere umano, non senza difficoltà: infatti, per compiere tale operazione occorre rientrare in Matrix, nel malefico programma virtuale che il genere umano si é abituato a chiamare ‘mondo’ ed esso brulica di nemici, ossia di intelligenze artificiali nelle vesti di esseri umani. Alla fine, comunque, Neo e Morpheus riescono nell’impresa e il genere umano può dirsi libero. Ma, al di là della storia avvincente e frizzante, sullo sfondo di Matrix vanno ravvisate le più disparate concezioni filosofiche: il film ruota tutto attorno all’opposizione tra mondo vero e mondo fittizio, spacciato per vero: l’opposizione tra la vera verità e la falsa verità, insomma tra verità e menzogna, tra verità e apparenza, un dualismo cardinale in tutta la filosofia occidentale fino a Nietzsche. La verità è altra rispetto a quella che ci appare; addirittura forse c’è qualcuno ci fa balenare di fronte un bel gioco di vuote fantasmagorie, per ingannarci e tenerci sottomessi in catene. Il film potrebbe in parte essere fatto valere come una rappresentazione del pensiero (gnoseologico e politico) di Platone . Ricordiamo infatti che già il filosofo greco aveva distinto tra mondo vero (il mondo delle idee) e mondo apparente (il mondo sensibile in cui viviamo). In particolare Matrix sembra riscrivere il mito della caverna di Platone. Riassumiamolo brevemente: all’interno di una caverna uomini schiavi sono incatenati alla roccia, costretti a guardare di fronte a sé verso il fondo della caverna. Fuori della caverna si erge un muretto, dietro al quale camminano, nascosti, degli uomini che portano sulle proprie spalle statue rappresentanti tutte le cose esistenti. Dietro a questi uomini arde un fuoco che proietta sul fondo della caverna le ombre delle statue; gli uomini schiavi, costretti a guardare davanti a sé e impossibilitati a voltarsi, scambiano le ombre che appaiono sulla parete della grotta per la vera realtà. Se uno schiavo riuscisse a scappare, dice Platone, inizialmente sarebbe accecato dalla luce del sole, ma poi finalmente riuscirebbe a vedere chiaramente la verità, di cui le ombre sono solo una pallida copia. Se poi volesse tornare nella caverna per rivelare agli altri schiavi la verità, non sarebbe creduto ed anzi verrebbe ucciso. Neo in qualche modo rappresenta l’uomo-filosofo che riesce a uscire fuori della caverna (Matrix) e a vedere finalmente la vera realtà. All’inizio egli è abbagliato dalla luce, ma, una volta abituatosi e una volta riconosciuta la verità, torna nella caverna, in Matrix, per liberare gli altri uomini. La verità però fa paura e non tutti gli uomini hanno il coraggio, la costanza, l’interesse di accettarla, e chi invece la proclama rischia anche di fare una brutta fine… Cypher, il traditore del film, il compagno di Neo e Morpheus che svela i piani alle intelligenze artificiali, rappresenta questa umanità pigra, timorosa, legata alle proprie sicurezze, dunque ostile ai profeti della verità: è meglio restare ignoranti piuttosto che conoscere verità che possano stravolgere radicalmente la nostra vita, questo è il succo del discorso di Cypher . Fortunatamente però Neo non subisce la stessa sorte di Socrate (avremmo certo preferito il contrario, visto che l’omicidio di Socrate fu reale, mentre il successo di Neo rimane comunque il lieto fine di un film di fantascienza…) e riesce a restituire la libertà al genere umano.. Matrix può anche essere letto come la trascrizione del dubbio cartesiano. Per Cartesio di tutto posso e devo dubitare: dei miei sensi che spesso mi ingannano, dell’esistenza del mondo esterno, della distinzione tra sogno e realtà, ed anche delle presunte verità matematiche. Chi mi assicura che ciò che vedo esista, oltre che nella mia testa come idea, anche nella realtà? Così come i sensi mi ingannano quando il remo immerso in acqua mi appare spezzato per un inganno ottico, chi non mi dice che essi non mi dicano mai la verità? Ma, per voler portare il dubbio all’esasperazione, chi mi assicura che 2 più 2 faccia 4? Magari sono stato creato da un dio maligno, che si diverte a ingannarmi, mi fa credere che 2 più 2 faccia 4, mentre invece fa 5… E se fossi stato creato da un genio maligno, il quale impiega tutta la sua onnipotenza per farsi beffe di me, la realtà che mi circonda potrebbe benissimo non esistere fuori dalla mia testa: si potrebbe solo trattare di una sfilza di immagini virtuali inviate al mio cervello dal genio maligno (e così é in Matrix). L’unica cosa che si salva dal dubbio è la mia esistenza come essere pensante: dubito di tutte le cose appena elencate, quindi ci deve essere qualcosa che dubita: ciò che dubita deve per forza esistere. Solo di qui posso cominciare a costruire un sapere certo, saldo e inconfutabile. Anche Neo è chiamato a mettere in dubbio tutte le sue antiche certezze ed egli lo fa, sebbene con una certa riluttanza iniziale. Ciò che gli è sempre apparso come la verità, è in realtà un inganno, una tremenda impostura, un mondo fittizio costruito ad arte dalle macchine (il genio maligno di Cartesio). Il primo passo per trovare la verità sarà anche per lui prendere consapevolezza di sé, convincersi di essere “l’inviato”, riconoscersi come Neo e non come signor Anderson (il suo nome nel mondo fittizio) : anche Neo, come Cartesio, é chiamato a mettere in dubbio ogni cosa per prendere atto della propria esistenza come soggetto pensante; e il fatto di esistere come soggetto pensante é l’unica verità certa di cui egli disponga in partenza. Ma in Matrix possono essere anche scorti i portati della filosofia di Schopenhauer: centro della filosofia del pensatore tedesco è la distinzione (di forte sapore kantiano) tra fenomeno e noumeno. Il primo è il mondo della rappresentazione, il mondo così come noi ce lo rappresentiamo, quindi il dominio dell’apparenza, il “velo di Maya”, il regno dell’illusione e della menzogna che nasconde la verità. Il noumeno è invece la stessa verità che si cela dietro il fenomeno e la nostra rappresentazione, una verità dura e crudele: tutto è Volontà, tutto è cieco e irrazionale impulso di vivere. Tale Volontà non ha altro scopo che riprodurre se stessa. Da questo punto di vista anche l’amore non è che un’illusione tramite cui la vita, ingannando i singoli, perpetua se stessa, viene a coincidere con l’attività sessuale, finalizzata com’è alla pura e semplice riproduzione delle specie. Anche in questo caso non mancano significativi parallelismi con il nostro film: il mondo virtuale creato con Matrix non è che un bel gioco illusionistico, atto a nascondere la verità, ovvero il dominio e l’istinto di sopravvivenza delle macchine. I singoli uomini non hanno alcun valore se non come mezzi per garantire la continuità della specie delle macchine: essi “sono coltivati” da queste per ottenere alla fine delle pile con cui alimentare la propria vita. Come vincere la Volontà di vivere? Per Schopenhauer attraverso tre stadi: 1) l’arte (farsi “puri occhi del mondo” di fronte alle opere d’arte); 2) l’etica della pietà, della giustizia e della carità (mettersi nei panni degli altri, assumendo su di sé la loro sofferenza, amandoli disinteressatamente); 3) l’ascesi (ritornare nel nulla-tutto del Nirvana). Anche per Neo la salvezza passa, mutatis mutandis, attraverso i medesimi passaggi: compatire Morpheus e amare Trinity, contemplare con distacco i codici e linguaggi informatici che costituiscono il mondo virtuale, scorgere la nullità stessa di questo mondo (“Il cucchiaino non esiste” dice ad un certo punto Neo). Tuttavia, in Matrix vi sono anche elementi della filosofia di Nietzsche : in primo luogo, in tutto il film non si fa mai riferimento a Dio, nè per chiedergli aiuto nè per lamentarsi della disastrosa condizione in cui é ridotta l’umanità: Dio non c’é; non é forse questo uno dei tanti aspetti di quel nichilismo, previsto in modo profetico dallo sfolgorante profeta del Superuomo, che avrebbe imperversato nell’era moderna? Viene sì profetizzata la venuta di un ‘messia’, di un salvatore: ma egli esula del tutto dalla sfera divina, è un uomo imbevuto di eroismo (Neo) e, in quanto tale, non può sentire come estraneo tutto ciò che è umano ( Homo sum: nihil humani alienum mihi puto aveva già detto Terenzio secoli addietro), come la disgrazia e la servitù in cui è ridotta dell’umanità. E sotto questo profilo si possono cogliere anche agganci con la filosofia di Marx: per l’uomo l’essenza suprema é non già Dio, ma l’uomo stesso e infatti il fine della missione dell’intrepido Neo é proprio la liberazione del genere umano, non la venerazione di un presunto Dio; ed egli lotta per ridare la libertà a tutto il genere umano, non a presunte “razze” superiori, come spesso si è voluto erroneamente credere che il superuomo nietzscheano fosse tenuto a fare. Neo sembra poi essere un personaggio nietzscheano al pari di Zarathustra per le caratteristiche del superuomo che egli incarna: consapevole della propria superiorità, egli si realizza pienamente nella guerra condotta contro le intelligenze artificiali; cosciente della catastrofica situazione e della fasullità del mondo, egli non risolve la propria volontà in un ‘no’ alla vita, ma in una piena accettazione degli eventi ( amor fati ), facendo prevalere ed estrinsecando la propria infinita volontà di potenza. Ma la filosofia che più di ogni altra informa il film è, a mio avviso, quella di Marx : la rivolta della massa umana contro le macchine può essere letta come la rivoluzione proletaria profetizzata dal filosofo comunista; il fatto stesso che tutti gli uomini siano schiavi e costretti a ‘vendere’ la loro forza lavoro generando un plusvalore per le macchine, può avere una singolare chiave di lettura: Marx era convinto dell’esistenza di una legge tendenziale di caduta del saggio di profitto , con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche mani. E questo, a sua volta, forma, secondo Marx, un binomio indisgiungibile con l’ immiserimento crescente degli operai : con l’avvento delle macchine, che possono sostituire il lavoro di molti operai, aumentano i disoccupati e, quindi, anche l’offerta di forza-lavoro sul mercato, cosicchè anche per questo aspetto i salari tendono a diminuire: aumenta la povertà e il numero dei disoccupati, di conseguenza il capitalista può tenere più bassi i prezzi dei salari e guadagnarci di più. E in Matrix il processo descritto da Marx é giunto al culmine: tutta l’umanità é una massa di operai controllati dai macchinari. Non solo: l’uomo ” diventa un semplice accessorio della macchina ” troviamo scritto nel Manifesto del partito comunista e ciò che vediamo in Matrix altro non è se non il frutto estremo di questo asserto. La stessa accanita guerra che le macchine portano avanti contro Morpheus e Neo rievoca per molti aspetti la caccia spietata contro lo spettro del comunismo che viene delineata nell’incipit del Manifesto .
IL RAPPORTO FILOSOFIA – MAGIA
Magus significat sapientem cum virtute agendi (G.BRUNO)
La magia si affaccia per la prima volta sul panorama filosofico con il neoplatonismo ed in particolare con Plotino . Fino ad allora era prevalsa la concezione aristotelica del sapere per il sapere , ossia del vedere nel sapere in quanto tale un valore in sè : d’altronde la filosofia era nata in Grecia proprio con questo scopo , l’ indagare la realtà senza però operare su di essa , bensì raggiungendo un sapere solido e personale . La filosofia non serve a nulla e proprio per questo é il più nobile dei saperi diceva lo Stagirita . Ora il neoplatonismo vede la realtà come livelli legati da complesse relazioni e comincia a nascere l’idea , presupposto fondamentale della magia , che l’ intero mondo sia un’ armonia e che toccando la corda giusta si possano avere risultati su altre “aree” della realtà ; si pensa l’intera realtà come un insieme di segreti e di corrispondenze . D’altronde Plotino condivideva la dottrina stoica del legame di simpatia tra tutte le cose e ciò non può che condurre a porre l’ulteriore questione dell’ efficacia delle operazioni magiche . Per quel che riguarda gli effetti magici sul corpo Plotino , conformemente del resto alle credenze diffuse nel suo tempo , pare disposto a riconoscere questa efficacia ; diversa é la questione dell’ anima : solo quella irrazionale , in quanto collegata in maniera più stretta al corpo , può subire l’influsso della magia . Ma , d’altra parte , attribuendo un maggior potere all’ anima razionale , propria dell’ uomo , Plotino può individuare in essa lo strumento capace di reagire alle forze magiche ostili e dissolverle , rendendole del tutto inefficaci . Tuttavia va ricordato che uno scrittore latino originario dell’ Africa , Apuleio , si era già occupato in qualche modo di magia : nel 158 a Sabrata , presso Tripoli , egli subisce un processo per magia . Apuleio nega che gli siano imputabili operazioni magiche , ma , attenzione , non esclude la possibilità della magia , anche ricordando che in persiano “mago” significa sacerdos . Nelle sue Metamorfosi le pratiche magiche sono rilevanti nello sviluppo della vicenda : come Lucio, il protagonista dell’ opera trasformato in asino , Apuleio non era forse insensibile alla curiositas per queste operazioni . Quella di Apuleio rimane comunque una trattazione embrionale del concetto di magia , più che altro a livello letterario , ben lungi dall’ esposizione neoplatonica . Ma la magia troverà un terreno di sviluppo fertilissimo nel Medioevo e , soprattutto , vedrà in Ruggero Bacone un suo strenuo difensore : egli condivide con il francescano Adam Marsh il senso del pericolo di un avvento dell’ Anticristo , mago capace di approfittare delle discordie che tormentano il mondo cristiano e servirsi del potere della sapienza per trasformare ogni cosa in male . L’idea del sapere volto a mutare la realtà é fortissima in Ruggero Bacone : egli sostiene di aver individuato la “vera magia” , che opera in conformità alle operazioni della natura e della tecnica e può dare un contributo alla scienza . Il ricorso ad essa é essenziale per il sapiente nel suo rapporto con il mondo degli incolti , dei simplices : per diffondere il suo sapere ed educare il mondo dei semplici il vero sapiente deve assumere la veste esterna del mago , ricoprire di un velo i principi della scienza e della tecnica e trasmetterne soltanto i risultati , in modo che anche gli incolti possano usarli bene sotto la guida dei sapienti e della Chiesa , punto di riferimento essenziale della filosofia baconiana e medievale . Ma é nel Rinascimento , forse ancora più che nel medioevo , che prolifica l’arte magica e trova sostenitori entusiasti in pensatori quali Marsilio Ficino o Pico della Mirandola , il vivace ingegno dell’ Accademia fiorentina , o Giordano Bruno , l’ irrequieto nolano autore di un De magia . L’attenzione generale di cui gode la magia in questo periodo é da ricercare essenzialmente nello spirito degli umanisti , desiderosi di esaltare la libertà e la potenza dell’ uomo in tutte le sue sfumature e , indubbiamente , l’ idea di poter operare sulla natura non può che piacere . Ma se in Ficino la magia e l’astrologia vengono considerate non già manifestazioni di superstizione , ma tecniche pienamente legittime , rivolte o allo studio dell’ ordine naturale ( l’astrologia ) o alla realizzazione del dominio dell’ uomo sulla natura ( la magia ) , per Pico le cose stanno diversamente : egli apprezza con estremo entusiasmo le arti magiche , che consentono all’ uomo di dominare la natura imponendosi su di essa , proprio perchè vi scorge una esaltazione del libero arbitrio umano , ma non può assolutamente accettare l’ astrologia : l’ idea che tutto sia prevedibile tramite la consultazione degli astri é un’ evidente limitazione del libero arbitrio umano , che trova invece la sua massima esaltazione nella magia . Un discorso simile vale per Giordano Bruno , che arriva perfino a vedere la matematica come un qualcosa assai vicino alla magia : non a caso il processo che lo porterà a bruciare vivo sul rogo il 17 febbraio 1600 comincia con l’ accusa da parte del nobile veneziano che lo ospitava e pare che egli lo abbia denunciato per dispetto , in quanto Bruno gli aveva promesso di insegnargli la magia – matematica , ma lui era insoddisfatto degli insegnamenti . Al di là di questa vicenda personale , é interessante notare l’ interessamento di Bruno per la magia , ossia la capacità di trasformare la realtà : da un passo di Bruno emerge che cosa egli effettivamente intendesse per magia ; il passo dice : grande magia sarebbe quella di uno che fosse in grado di passare dall’ unità alla molteplicità e dalla molteplicità all’ unità .La magia é da lui intesa come capacità di cogliere i meccanismi secondo i quali l’ unità si articola nella molteplicità , e la molteplicità é tutta “ricomposta” nell’ unità . In un altro scritto il Nolano dà una definizione del mago , colui che esercita le arti magiche : magus significat sapientem cum virtute agendi . La magia , spesso circondata nei secoli precedenti di un’ aura demoniaca , diventa nel Rinascimento la positiva scienza della trasformazione , segno concreto del dominio dell’uomo sugli elementi . Possiamo addurre esempi anche in campo letterario : pensiamo al celeberrimo poema dell’ Ariosto , l’ Orlando furioso : per tutto il poema aleggia un clima magico e il personaggio in cui meglio si può ravvisare la presenza del magico é Astolfo , l’ alter ego dell’ autore , l’ intrepido cavaliere munito di un corno capace di atterrire i nemici col suo suono assordante , colui che sale sulla luna in groppa all’ ippogrifo per recuperare la ragion perduta di Orlando . Ma va subito specificato un particolare : Astolfo , pur avvalendosi quasi esclusivamente di oggetti magici , muove sempre e solo verso fini razionali . Anche nel poema del Tasso , La Gerusalemme liberata , vi é in qualche misura presente la magia , sebbene in modo meno radicale e diffuso che nell’ Ariosto : il valoroso Rinaldo viene incaricato , sul finale dell’ opera , dal “pio” Goffredo di “disincantare” il bosco popolato da elfi , nani fate e quant’ altro . Tuttavia é sulla Tempesta di Shakespeare che dobbiamo soffermare la nostra attenzione : considerata il momento conclusivo , il punto d’ arrivo ed in un certo senso il sigillo della creazione artistica del poeta , la Tempesta , opera a cavallo tra il ‘500 e il ‘600 , ripropone la questione del magico . Nel bel mezzo dell’ Oceano , su un’ isola sperduta , dimorano Prospero e sua figlia Miranda , allontanati dal ducato di Milano per mano del fratello di Prospero , invidioso del potere concentrato nelle mani di Prospero stesso . Prospero , che é l’alter ego dell’ autore alla pari di Astolfo per l’ Ariosto , si destreggia con estrema abiltà tra gli oggetti magici e ha perfino come alleato un piccolo spiritello dell’ aria , Ariele : servendosi del proprio mantello magico egli fa naufragare sull’ isola stessa in cui dimora la nave con a bordo il perfido fratello , il suo equipaggio e l’ alleato re di Napoli per poi potersi riconciliare con lui ; sempre con i suoi poteri magici egli fa in modo che il bel Ferdinando , figlio del re di Napoli , e sua figlia Miranda si innamorino e si sposino . L’ Astolfo ariostesco e il Prospero shakespeariano , oltre al fatto di essere alter ego degli autori , presentano evidenti analogie : entrambi sono personaggi fittizi che danno spazio alla fervida fantasia dei poeti ed entrambi si servono delle arti magiche esclusivamente per muovere verso fini razionali . Tuttavia tra i due intercorre un’ enorme differenza , talmente grande che ha portato alcuni a definire la Tempesta come vero e proprio testamento letterario di Shakespeare : mentre Astolfo tra gli strumenti magici si trova perfettamente a proprio agio , tanto da sembrare nato apposta per loro , e non si sognerebbe mai di separarsene , Prospero , al contrario , sul finire dell’ opera rinnega la magia , una scienza che egli non esita a definire “rozza” , preferendo avvalersi delle sue forze , “poche” , come egli afferma , piuttosto che degli incantesimi e dei libri magici con i quali chiunque può dominare sugli altri e che , soprattutto , se mal usati possono rivelarsi funesti . Ed é proprio il netto rifiuto della magia che fa della Tempesta il vero testamento spirituale di Shakespeare e che lo inquadra pienamente nel clima culturale che si stava respirando nell’ Europa e , soprattutto , nell’ Inghilterra di inizio ‘600 . Infatti il XVII secolo segna il prevalere della matematica e la riscoperta della ragione , caduta un pò nell’ oblìo nel medioevo quando aveva ceduto il passo alla mistica e alla fede . Certo nel 1600 , così come con qualsiasi altra scoperta , si finì per entusiasmarsi eccessivamente e in modo un pò ingenuo per la ragione , tanto da proclamarla onnipotente , senza sottoporla ad un più critico esame . senza porsi l’interrogativo “quanto può la mia ragione?” . E’ evidente che , paradossalmente , questo acceso entusiasmo acritico per la ragione finisce per diventare irrazionale proprio perchè non ci si chiede neanche se essa abbia o meno dei limiti . Sarà poi nel 1700 , con l’ avvento dell’ illuminismo , che si sottoporrà la ragione ad un più critico esame , sebbene già Locke nel ‘600 avesse avuto l’intuizione : ecco allora che Kant istituirà un vero e proprio tribunale della ragione , dove la ragione é allo stesso tempo imputato e giudice : imputato nel senso che si indaga su quali siano i suoi limiti e il suo campo di applicabilità , giudice nel senso che é proprio lei che indaga e giudica se stessa ! Certo questa smisurata fiducia nella ragione umana , che sarà tipica di pensatori quali Cartesio , Spinoza e Hobbes , é ben lungi dall’ investire il pensiero di Shakespeare , tuttavia egli ne risente quando avverte l’incompatibilità e la rozzezza della magia , un’ arte che esula totalmente dal rigore della ragione umana . Non si può poi fare a meno di citare uno dei più acerrimi nemici della magia , un contemporaneo e compatriota di Shakespeare , Francesco Bacone ( da non confondere con il medievale Ruggero ) . Francesco Bacone , volendo rifondare il fatiscente edificio del sapere in modo razionale ed efficace , si ripropone di buttar giù l’antica costruzione che poggiava su fondamenta mistiche e magiche per riedificare il tutto su basi razionali e stabili , che segnano il passaggio di secolo (dal ‘500 al ‘600 ) . Ed egli ravvisa nella magia qualcosa di arazionale e incompatibile con il nuovo secolo , caratterizzato dall’ imperare della ragione umana : ecco allora che occorre assolutamente staccarsi dalla magia , che si era pienamente affermata nel medioevo e ancora di più nel Rinascimento . Francesco Bacone accetta l’idea tipica della magia del sapere per potere , il sapere volto ad avere risvolti sulla realtà ed é altresì convinto che il sapere per sapere di stampo aristotelico non serva a nulla , tuttavia non può accettare che questo sapere sia estraneo alla ragione e sia riservato ad una stretta cerchia elitaria : il mago , lo stregone e così via . Il sapere deve essere un bene comune , dice Francesco Bacone , perchè comune a tutti gli uomini é la ragione , di cui tutti disponiamo nella stessa misura : se qualcuno fa più strada di altri é solo perchè la conduce con un metodo migliore ; é l’idea tipica del 1600 . Ecco allora che con Francesco Bacone il sapere diventa un bene comune a tutti gli uomini e i progressi non vengono effettuati da singoli dotati di eccezionali capacità , bensì sono frutto di un sistematico lavoro di gruppo . Il sapere non deve essere trasmesso in modo oscuro , come facevano i maghi , riprendendo una tendenza di matrice eraclitea , bensì deve essere comprensibile per tutti e va quindi espresso nella lingua nazionale . Con Francesco Bacone assistiamo ad un evento importantissimo : il passaggio da magia a scienza , dove a lavorare per produrre non é più il singolo , ma l’ equipe . Rimane comunque fortemente radicata l’idea del sapere per potere , che poi caratterizzerà la rivoluzione industriale , della quale Francesco Bacone é considerato precursore teorico . E l’idea secondo la quale la magia sarebbe un sapere rozzo e primitivo é coglibile nella Tempesta di Shakespeare che , per molti versi , può essere vista come emblema del passaggio di secolo : nel momento in cui Prospero rinnega le arti magiche e si separa dai suoi strumenti e dai suoi sortilegi può essere visto in chiave simbolica il passaggio da 1500 a 1600 . D’altronde vi fu anche chi sostenne che Francesco Bacone e Shakespeare fossero la stessa persona , ipotesi poco accreditata dalla veridicità storica e più che altro consolidata dalla tradizione leggendaria . La critica baconiana alla magia trova la sua massima espressione nella Nuova Atlantide , rimasta incompiuta : Francesco Bacone e i suoi compagni di viaggio naufragano e approdano per caso sull’ isola di Bensalem , al cui governo vi sono gli scienziati , e non i filosofi , che erano stati da Platone posti al vertice della sua società utopica . Si tratta di una vera e propria tecnocrazia , dove , tuttavia rimangono degli elementi magici e misteriosi , che Bacone lo sapesse o no : d’altronde egli risente molto della tradizione magica anche nel linguaggio di cui si serve : nella sua lotta contro i pregiudizi ( idola ) , parlerà di idola tribus e di idola specus , termini molto prossimi al linguaggio magico .
DISSERTAZIONE SUI NUMERI
Non entri chi non sa la matematica ( Platone )
Una volta tanto ho intenzione di mettere in disparte le classiche operazioni numeriche per lasciar spazio ad un’ indagine che sta a monte delle operazioni stesse : i numeri , quelle entità con le quali facciamo addizioni , sottrazioni , moltiplicazioni , divisioni e quant’altro , esistono ? E se esistono, che cosa sono ? Non é certo un problema da poco ! Già 2400 anni fa , circa , Platone si era posto il problema : che cosa esiste ? Ecco allora che aveva tirato in ballo il concetto didunamis (potenza) secondo il quale esisterebbe tutto ciò che può (dunatai ) compiere e subire un’azione . Esisteranno quindi tutti gli enti materiali che ci circondano , é evidente , perchè possono allo stesso tempo compiere e subire azioni : il cane corre e può essere accarezzato , ad esempio , quindi esiste . Ma con questa definizione si é costretti ad ammettere anche l’esistenza di enti immateriali : le idee , ossia quelli che noi definiamo oggetti del pensiero , dovranno avere una loro esistenza proprio perchè subiscono l’azione di essere pensati ; l’idea stessa di giustizia agisce anche nel senso che le cose giuste partecipano di essa : se una cosa é giusta vuol dire che ci sarà un’idea di giustizia . Di conseguenza , e qui arriviamo al dunque , in qualche misura esisteranno anche i numeri come oggetto del nostro pensiero . Secondo l’illustre filosofo Aristotele i numeri esistono , certo , ma come pure e semplici astrazioni : egli effettua un’importantissima distinzione tra sostanza ( ciò che per esistere non ha bisogno di null’altro all’infuori di sè ) e accidente ( ciò che per esistere ha bisogno di una sostanza cui riferirsi ) . Così la terra o il libro saranno sostanze proprio perchè dotati di esistenza autonoma , il blu o il marrone saranno accidenti perchè potranno esistere solo se abbinati ad una sostanza : il blu e il marrone di per sè , spiega Aristotele , non esistono , bensì esistono libri blu e terra marrone . Gli accidenti si trovano dunque ad avere un’esistenza che potremmo definire “parassitaria” , ossia totalmente legata ad una sostanza cui riferirsi . Ritornando al discorso dei numeri , Aristotele non esita a collocarli tra gli accidenti : il 2 o il 3 , di per sè , non esistono , bensì esistono gruppi di due o tre sostanze : tre libri , due penne , due case … Non é sbagliato dire che , in un certo senso , il numero é l’ultima cosa che permane man mano che si tolgono a due o più oggetti le differenze : i due libri hanno colori diversi , tolgo il colore ; hanno scritte diverse , tolgo le scritte ; hanno dimensioni diverse , tolgo le dimensioni ; alla fine , quando li avrò spogliati di ogni cosa , resterà solo il numero : sono due . Così ragione Aristotele e così siamo portati a ragionare anche noi : non ci sogneremmo mai di sostenere che il 2 o il 3 esistano di per sè senza sostanze cui riferirsi . Tuttavia ci fu Platone , che tra l’altro di matematica se ne intendeva molto più di Aristotele , a sostenere l’esistenza dei numeri sganciata dalle sostanze : il 2 o il 3 per Platone esistono non solo nelle cose materiali (sostanze) che ne partecipano (2 case , 3 gatti …) , ma addirittura come enti a se stanti:se ho un gruppo di 6 libri significa che esso partecipa all’ idea del 6 (il numero ideale 6) . Questa strana concezione dei numeri deriva dall’impianto metafisico stesso di Platone : per lui al quesito “che cos’è x ?”(dove x sta per bello,giusto…) la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l’idea in questione(per esempio l’idea di bellezza,di giustizia…).L’idea è dunque un “universale”:ciò significa che i molteplici oggetti sensibili,dei quali l’idea si predica,dicendoli per esempio belli o giusti,sono casi o esempi particolari rispetto all’idea:una bella persona o una bella pentola sono casi particolari di bellezza,non sono la bellezza.Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento,soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente se stesse;proprio questa differenza di livelli ontologici,ossia di consistenza di essere,qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti.L’attività di un artigiano,per esempio di un costruttore di letti,è descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni che mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell’ idea del letto,alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero.L’idea è quindi dotata di esistenza autonoma,nè dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata;essa è ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano.La partecipazione all’idea,per esempio,di bellezza rende un determinato oggetto sensibile bello. Le idee hanno quindi una quadrupliceplice valenza : 1)ontologica : i cavalli esistono perchè copiano l’idea di bellezza ; 2) gnoseologica:riconosco che quello é un cavallo perchè nella mia mente ho l’idea di cavallo ; 3) assiologica : ogni idea é il bene cui tendere,lo scopo a cui aspirare ; 4) di unità del molteplice : i cavalli esistenti sono tantissimi e diversissimi tra loro , ma l’idea di cavallo é una sola . Ora anche i numeri sono idee e hanno pertanto le prerogative delle idee : così come quel cavallo é bello perchè partecipa all’idea di bellezza , esso é uno perchè partecipa all’idea di uno ; così come i cavalli materiali sono una miriade ma l’idea di cavallo é una , così anche i 3 scritti sulle lavagne o sui fogli sono una miriade ma l’idea di tre é una sola , da cui tutti gli altri tre dipendono . I numeri sono sì idee come le altre , ma si tratta di idee particolarmente complesse tant’é che Platone non esita a collocarli su un livello superiore : i numeri ideali , ossia le essenze stesse dei numeri , in quanto tali , non sono sottoponibili ad operazioni aritmetiche . Il loro status metafisico é ben differente da quello aritmetico , appunto perchè non rappresentano semplicemente numeri , ma l’ essenza stessa dei numeri . In effetti , non avrebbe senso sommare l’ essenza del due all’ essenza del tre e così via . I Numeri ideali , quindi , costituiscono i supremi modelli dei numeri matematici . Inoltre , per Platone i numeri ideali sono i primi derivati dai Principi primi , per il motivo che essi rappresentano , in forma originaria e quindi paradigmatica , quella struttura sintetica dell’ unità nella molteplicità , che caratterizza anche tutti gli altri piani del reale a tutti gli altri livelli . Inoltre , Aristotele ci riferisce : ” Platone afferma che , accanto ai sensibili e alle Forme ( idee ) , esistono enti matematici intermedi fra gli uni e le altre , i quali differiscono dai sensibili , perchè immobili ed eterni , e differiscono dalle Forme , perchè ve ne sono molti simili , mentre ciascuna Forma é solamente una e individua ” . Platone ha introdotto questi ” enti matematici intermedi ” per i seguenti motivi : i numeri su cui opera l’ aritmetica , come anche le grandezze su cui opera la geometria , non sono realtà sensibili , ma intellegibili . Però , tali realtà intellegibili non possono essere Numeri Ideali nè Figure geometriche ideali perchè le operazioni aritmetiche implicano l’ esistenza di molti numeri uguali ( pensiamo ad esempio ad un’ equazione dove , per dire , il numero 6 può comparire diverse volte ) e le dimostrazioni e le operazioni geometriche implicano molte figure uguali e molte figure che sono una variazione della medesima essenza ( pensiamo a molti triangoli uguali e molte figure che sono variazioni della medesima essenza , ossia triangoli di vario tipo : equilatero , isoscele … ) . Invece , ciascuno dei Numeri Ideali ( così come ciascuna forma ideale ) é unico , e inoltre i Numeri Ideali non sono operabili . Se si tiene presente questo , risultano chiare le conclusione platoniche sull’ esistenza di enti matematici aventi caratteri ” intermedi ” fra il mondo intellegibile e il mondo sensibile . In quanto sono immobili ed eterni , gli enti matematici condividono i caratteri delle realtà intellegibili , e cioè delle idee ; invece , in quanto ve ne sono molti della medesima specie , sono analoghi ai sensibili . Il fondamento teoretico di questa dottrina sta nella convinzione radicatissima in Platone della perfetta corrispondenza fra il conoscere e l’ essere , per cui ad un livello di conoscenza di un determinato tipo deve necessariamente far riscontro un corrispettivo livello di essere . Di conseguenza , alla conoscenza matematica , che é di livello superiore alla conoscenza sensibile , ma inferiore alla conoscenza filosofica , deve corrispondere un tipo di realtà che ha le corrispettive connotazioni ontologiche . I numeri ideali sono superiori alle idee stesse in un certo senso perchè ne regolano i rapporti numerici con cui si rapportano con la realtà . Certo oggi a noi la concezione di Platone sembra molto distante e improbabile e preferiamo quella aristotelica , tuttavia sorge un dubbio che rimette i gioco la teoria platonica : e se nessuno contasse più i numeri continuerebbero ad esistere ? Con la definizione aristotelica , infatti , essi esistono solo come processo di astrazione della mente umana e , se vi fosse un improvviso annichilimento della realtà , sembra quasi che non contando più nessuno i numeri debbano sparire , ma é evidentemente ridicolo dire così . 2 + 2 = 4 é vero anche senza che io lo pensi e quindi pare aver ragione Platone : i numeri hanno esistenza autonoma . Nel medioevo , poi , il dibattito sui numeri assumerà una vivace coloritura dovuta soprattutto alle credenze religiose : che 2 + 2 = 4 lo decide Dio o anch’ Egli deve sottostare a questa verità ? In realtà tutto dipende dalla concezione stessa di Dio a seconda delle posizioni aristoteliche o platoniche : come accennavamo prima , per Platone , accanto al nostro imperfetto mondo sensibile ve ne é uno immutabile ed eterno , di cui il nostro é solo una pallida copia : si tratta del mondo intellegibile delle idee , ossia degli archetipi delle cose che ci circondano . Ora per spiegare come le idee si calassero nelle cose materiali ( ossia come dall’idea di cavallo derivasse il cavallo in carne ed ossa ) Platone era ricorso alla figura del Demiurgo , ossia di un divino artigiano che , attenendosi alle idee , plasmava la materia in funzione di esse dando così vita agli enti materiali e non . Ora il Cristianesimo in buona parte mutua la sua concezione di Dio dal Demiurgo platonico , pur apportando delle notevoli differenze : Dio non si limita a plasmare materia già esistente , ma la crea nel vero senso della parola . Ora , é evidente , i seguaci medioevali di Platone non possono far altro che sostenere , sulla scia del padre delle idee , che Dio , pur essendo onnipotente e creatore , deve per forza attenersi all’apparato ideale che gli sta a monte : la sua onnipotenza si manifesterà nel decidere di creare l’uomo , ma questo creare sarà semplicemente un calare nella materia l’idea preesistente di uomo , cui Dio stesso deve sottostare . A pensarla così saranno i Francescani , un ordine religioso mistico e interessato più che altro ad adorare Dio ; ma contrapposti a loro vi sono i domenicani , che abbracciano non già le posizioni platoniche , ma quelle aristoteliche : per Aristotele non vi é un’idea uomo che sta a monte dell’uomo stesso : la forma uomo ( o idea uomo , se vogliamo dirla con Platone ) esiste incollata all’uomo stesso , é presente in tutti gli uomini e durerà fin tanto che esisteranno uomini : essa non é ante rem , come credeva Platone , ma in re . Non vi é un mondo all’infuori del nostro , nè vi é quel complesso apparato di idee : di conseguenza i domenicani potranno ancora più dei francescani esaltare l’onnipotenza di Dio , il quale non é più costretto ad attenersi a delle idee per creare : la sua onnipotenza si manifesta nell’atto di creare l’uomo in carne ed ossa ma anche nell’atto di crearne l’idea . E questo implica una radicale divergenza nella concezione degli enti matematici : per i francescani 2 + 2 = 4 indipendentemente da Dio : Dio deve sottostare a questa verità e non può cambiarla , anzi deve attenersi ad essa nel creare il mondo . Per i domenicani , invece , che 2 + 2 = 4 l’ha deciso Dio di sua spontanea iniziativa perchè , in assenza delle idee cui é costretto ad attenersi , Dio può tutto : ha deciso che 2 + 2 = 4 , ma avrebbe anche potuto decidere che 2 + 2 = 5 ! Sembra però che ci sia una contraddizione di fondo in questo ragionamento “matematico” : come si spiegano le leggi fisiche , alle quali pare proprio che Dio sia subordinato ? A fornire una risposta é Guglielmo da Ockham : le leggi fisiche ci sono , é evidente , ed é Dio che , nella sua illimitata onnipotenza , le ha poste con la sua potenza ordinata , ma questo non toglie che egli , proprio perchè onnipotente , possa stravolgerle con la sua potenza assoluta : ha deciso che gli oggetti lasciati cadano verso il basso , ma potrebbe benissimo cambiare le carte in gioco (proprio perchè non ci sono le idee cui deve attenersi) facendo cadere gli oggetti obliquamente . E i miracoli non sono forse la prova di quanto dice Ockham ? E’ Dio che stravolge le leggi fisiche ; può allo stesso modo decidere che 2 + 2 = 5 anzichè 4 : le verità matematiche per i domenicani non sono quindi un qualcosa di immutabile e di assolutamente certo perchè Dio potrebbe decidere da un momento all’altro di mutarle ; per i francescani , al contrario , esse sono assolutamente inconfutabili proprio perchè Dio stesso deve attenersi ad esse . Cartesio nel Seicento , il secolo della matematica e dell’imperare della ragione , arriverà a dire che le verità matematiche che l’uomo é riuscito ad acquisire , tramite sforzi immani e secoli di ricerca , egli le conosce alla pari di Dio : in altri termini , secondo Cartesio , che 2 + 2 = 4 lo so io esattamente come lo sa Dio : tutto quel che c’è da sapere nella verità 2 + 2 = 4 lo sappiamo , così come lo sa Dio . Sul piano qualitativo siamo dunque alla pari di Dio ( ciò che sappiamo in ambito matematico lo sappiamo esattamente come lo sa Dio ) , su quello quantitativo siamo nettamente in svantaggio : la quantità di verità matematiche che noi conosciamo é infinitamente minore rispetto a quella conosciuta da Dio : questo vale solo per quel che riguarda la matematica , la forma di pensiero più precisa e rigorosa di cui siamo in possesso . Dunque sia noi sia Dio possiamo conoscere con certezza le verità matematiche e sia noi sia Dio dobbiamo sottostare ad esse , ossia non possiamo fare nulla per cambiarle : da notare come Cartesio sia molto più vicino alle idee francescane che non a quelle domenicane sotto questo profilo e , non é un caso , egli é un platonico . Va poi senz’altro ricordata la celebre ipotesi cartesiana del genio maligno , con la quale il pensatore francese arriva a mettere in discussione perfino le verità matematiche : chi non mi dice di essere stato creato da un genio maligno che impiega tutta la sua onnipotenza per ingannarmi di continuo ? Chi non mi dice di essere stato creato da un genio maligno che mi ha costruito tale da credere e prendere per certo che 2 + 2 = 4 quando in verità 2 + 2 = 5 ? E’ interessante questa ipotesi bislacca perchè in un certo senso stravolge il modo di pensare , ci toglie il terreno da sotto i piedi , ci fa crollare addosso il mondo . Tuttavia , basta dimostrare che non siamo stati creati dal genio maligno per rimettere le cose a posto e per far ritornare indiscutibili le verità matematiche e Cartesio lo fa con una certa abilità argomentativa : sono a conoscenza della mia imperfezione perchè dubito perfino delle verità matematiche e ciò che dubita , evidentemente , é imperfetto ; ma per dire che una cosa é imperfetta devo avera nella mia testa l’idea di perfezione (come potrei dire che una cosa é imperfetta se non so cosa é la perfezione ?) ; ma chi me l’ha messa in testa ? Io no , di sicuro , perchè sono imperfetto : deve avermela data qualcosa di perfetto : Dio , che esiste ed é perfetto . Se Dio é perfetto , naturalmente , sarà buono e viene quindi scartata l’ipotesi del genio maligno : posso affermare con sicurezza che 2 + 2 = 4 , con una tale sicurezza che Dio stesso non potrebbe smentirmi . Come tutti sapranno in un’espressione algebrica o anche nel più comune dei calcoli ( 1 + 1 = 2 ) non vi é nulla che non avvenga necessariamente , nel senso che si deve per forza arrivare ad un risultato , non vi é la libertà di scelta : 5 + 4 dà 9 e non potrebbe essere altrimenti . I calcoli numerici , nella loro perfezione , esprimono dunque una necessità e dissipano ogni possibilità . Da questa considerazione muoverà la concezione stessa di Dio del filosofo olandese del Seicento Benedetto Spinoza : Dio , che per il pensatore olandese é l’intero universo in tutte le sue manifestazioni , se é perfetto come vuole la definizione stessa di divinità non può che esprimere una necessità proprio come un calcolo del tipo 2 + 2 = 4 : ciò che avviene in campo divino e quindi (proprio perchè Dio non é altro che l’intero cosmo) tutto ciò che avviene nel mondo , non può che avvenire necessariamente : con Spinoza viene a cadere il libero arbitrio dell’uomo , il quale , facendo parte dell’universo-Dio , é anch’egli manifestazione di Dio . Tutto nel mondo avviene in modo perfetto , e il mondo intero potrebbe essere letto come una grande espressione : non c’é possibilità che 2 + 2 dia 5 come non vi é possibilità che le cose vadano diversamente da come vanno . D’altronde il concetto stesso di libertà implica la possibilità di errore e di impotenza del soggetto , prerogativa che stona notevolmente con le istanze di Dio . Probabilmente a molti la concezione spinoziana sembrerà un pò forzata , quasi a dimostrare un anelito del pensatore a trovare nel mondo una perfezione numerica che in molti casi pare davvero inconcepibile . Tuttavia non ci si deve stupire troppo : dobbiamo tenere a mente che Spinoza vive nel Seicento , il secolo della fisica matematizzata , il secolo in cui si cerca di ricorrere sempre e solo alla matematica ; in quegli stessi anni un altro grande pensatore , Thomas Hobbes , arriva a dire che pensare significa svolgere sottrazioni e addizioni : dire che una penna é blu significa addizionare alla sostanza penna l’attributo blu per ottenere così la penna blu allo stesso modo in cui 2 + 2 mi dà 4 ; viceversa , dire che la penna non é blu significa sottrarre l’attributo blu alla sostanza penna , esattamente come 6 – 2 mi dà 4 . Quella di Spinoza , di Hobbes , di Cartesio e di molti altri filosofi di quegli anni sembra una vera e propria esasperata corsa al numero , dettata dalla consapevolezza che la matematica costituisca il sapere più preciso di cui l’uomo disponga , talmente preciso da essere identico a quello di Dio . Tuttavia a dichiarare guerra all’idea che la matematica sia il sapere più preciso a nostra disposizione sarà il filosofo nichilista dell’ Ottocento Federico Nietzsche : Nella Volontà di potenza , all’aforisma n° 628 , egli dice testualmente : E’ illusione che qualcosa sia conosciuto quando abbiamo una formula matematica per ciò che é avvenuto : abbiamo solamente designato , descritto : nulla di più ! In realtà con questa altisonante asserzione il folgorante profeta del superuomo ha scoperto l’acqua calda : intendo dire che 200 anni prima di lui il fisico e matematico Galileo Galilei aveva preso atto della medesima cosa : con le formule matematiche e con le leggi fisiche non mi si dice il ” cosa ” e il ” perchè ” , ma il ” come ” ; ossia non si indagano le essenze e le cause delle cose , ma le modalità di funzionamento : pensiamo alle leggi sui gas , dove mi si indicano semplicemente i rapporti tra volume , pressione e temperatura . D’altronde esula dagli obiettivi della materia l’indagine sulle essenze e sulle cause . Con i numeri e quindi con la matematica si investiga in modo rigoroso un mondo di per sè inesistente , puramente ideale , alla pari di quello platonico : nell’enunciazione del principio di inerzia , tanto per fare un esempio , mi si dice che in assenza dell’ attrito un oggetto lanciato perdurerebbe nel suo moto all’infinito : ma in quale parte del nostro mondo non vi é attrito ? Allo stesso modo disegnamo e dimostriamo su triangoli rettangoli , ma il triangolo rettangolo esiste solo come costruzione mentale ! Cartesio si accorse di questo limite della matematica , cercando di superarlo integrandola con la filosofia , la quale presenta a sua volta dei limiti : se la matematica investiga in modo rigoroso cose inesistenti , la filosofia investiga cose esistenti in modo non rigoroso . Ecco che Cartesio ebbe il grande merito di congiungere questi due lacunosi mezzi di indagine per dar vita ad un metodo efficace , che indaga le cose esistenti ( come la filosofia ) in modo rigoroso ( come la matematica ) . Questo non vuol dire che si debbano infilare i numeri con la loro perfezione in ogni dimostrazione filosofica , bensì significa investigare ogni cosa con il metodo matematico , perfino il pensiero e Dio . Non bisogna accettare nulla per buono , si deve scomporre ogni problema complesso in tanti problemini semplici per poi , risoltili , riunirli nel problema iniziale e soprattutto bisogna ritornare sui passaggi già fatti per espungere gli eventuali errori . Si deve , in altri termini , unire l’astratto e rigoroso della matematica al concreto e fisico della filosofia : e del resto il piano cartesiano non é altro che un’ applicazione di questa idea , l’unire il fisico all’ astratto . Nietzsche ha colto bene l’idea che la matematica e i numeri non ci facciano conoscere l’essenza profonda e le cause delle cose , ma sbaglia nel momento in cui per questo motivo sembra disprezzare la matematica e gli enti numerici : lui stesso nella Gaia scienza abbraccia con gioia l’ateismo che , a suo avviso , si impossesserà dell’ Europa , salutandolo come un’ autentica illuminazione d’aurora , come una liberazione del pensiero e dello scibile umano dalle redini del divino : Ogni rischio dell’ uomo della conoscenza é di nuovo permesso ; il mare , il nostro mare , ci sta ancora aperto dinanzi , forse non vi é ancora mai stato un mare così aperto : ebbene , senza l’ apporto dei numeri e della matematica , la nave della conoscenza umana non può che naufragare , nonostante l’ “apertura” del mare non minacciato da inquietanti presenze divine .
MARX E EPICURO DUE MATERIALISTI A COLLOQUIO
“ La filosofia, finchè una goccia di sangue pulserà nel suo cuore assolutamente libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a Epicuro: ‘empio non è chi rinnega gli dèi del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi’. La filosofia non fa mistero di ciò. La dichiarazione di Prometeo – ‘detto francamente, io odio tutti gli dèi’ – è la sua propria dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dèi celesti e terreni che non riconoscono come divinità suprema l’autocoscienza umana .” (Marx, “Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro”)
SULL’UTOPIA
L’UTOPIA: DAGLI ALBORI DELLA STORIA FINO AD OGGI.
E’ ANCORA POSSIBILE UN PENSIERO UTOPICO?
Che cos’è un’utopia? E’ una terra di perfetta armonia, dove vige la giustizia e da dove le iniquità sono state bandite, anzi, dove propriamente non sono mai esistite, a dispetto della società in cui quotidianamente ci troviamo a vivere, fluttuante tra le imperfezioni e i difetti della peggior specie. Nel linguaggio comune, si dice che è utopico un progetto immaginario, una fantasticheria che non è realizzabile, ma che se lo fosse sarebbe un bene: ogni tanto fa a tutti piacere sottrarsi all’ordinarietà della vita per trovar rifugio nelle sconfinate lande dell’utopia, del mondo fatto su misura per noi. “Utopia” è un termine greco, anche se non furono i Greci a coniarlo, ma un pensatore cristiano vissuto in età rinascimentale, Tommaso Moro: inappagato della realtà in cui viveva, del clima di accesa intolleranza che in quegli anni si respirava nell’Inghilterra dilaniata dai conflitti religiosi, egli volle immaginare un’isola felice, sulla quale gli abitanti conducessero una vita migliore, più umana e solidale.
A quest’isola immaginaria attribuì il nome di “Utopia”, giocando sulla bivalenza del termine: esso infatti, può derivare tanto dal greco ou – topos (luogo che non c’è), quanto da eu (bene) + topoV (luogo felice); in un certo senso, comunque, i due significati erano compresenti nell’accezione in cui Moro intendeva la sua isola fantastica, visto che essa era sì un luogo inesistente nella realtà, ma anche un luogo felice, in cui regnava la concordia e la pace tra gli uomini. I motivi che hanno indotto nella storia i pensatori a prendere le distanze dalle società reali e a rifugiarsi in costituzioni e paesi immaginari, frutto della loro fervida fantasia, possono essere tanti: primo fra tutti è senz’altro la profonda insoddisfazione nei confronti dello stato di cose, un senso di amara delusione per il paese in cui si vive. Di fronte a ciò però, sembrerebbe più saggio mobilitarsi per cambiare le cose che non estraniarsi e trovare asilo politico in fantasmagoriche città che, almeno nella realtà, non esistono: il problema è che mutar le cose non è semplice, e anzi, talvolta è impossibile.
Questo è il caso di Tommaso Moro, che nulla poteva fare di fronte ad una società ingiusta come quella inglese, che vedeva ogni giorno crescere la massa dei nullatenenti grazie a quei brutali atti di violenza con cui i terreni comuni venivano espropriati e passavano nelle mani dei signorotti locali. Ma, tornando indietro nei secoli, è anche il caso di Platone, il filosofo ateniese che, dopo aver per qualche tempo nutrito la speranza di far diventare filosofo il tiranno di Siracusa, venne smentito e da lì nacque il suo disincanto: uno stato perfetto, in questo mondo, mai c’è stato né mai ci sarà, e l’unica cosa saggia che si possa fare è provare a tratteggiarne uno, assolutamente ideale, che serva da modello e, al contempo, da critica a quello reale.
Ed è su questi presupposti che ebbe origine la “Repubblica”, il poderoso scritto in cui Platone tracciava uno stato perfetto, destinato ad essere preso a modello per interi secoli, dai comunisti, dai socialisti e, in qualche modo, perfino dai nazisti, che nei loro zaini custodivano sempre una copia del testo, affascinati soprattutto dalla vita “cameratesca” e dalla selezione “eugenetica” proposta da Platone. Solo Popper si accorse delle insidie che si annidavano nello scritto platonico, cogliendo in esso una forma di “società chiusa”, che, in quanto già perfetta, non ha alcun bisogno di “aprirsi” al confronto con altre società: ed è questo, secondo il pensatore viennese, un carattere in qualche misura comune a tutte le utopie, in quanto tutte avanzano la pretesa di essere modelli perfetti; dal canto suo, invece, la “società aperta” non è perfetta, ma ha coscienza della propria imperfezione ed è perciò stimolata al confronto con le altre società, per potersi così perfezionare incessantemente.
Le critiche mosse da Popper all’utopia non sono certo fuori luogo, anche se, forse, un po’ forzate: si ha quasi l’impressione che Popper, nella foga, finisca per dimenticare che si tratta di utopie, ossia di società paradigmatiche, che sono sì perfette, ma inesistenti e, al contempo, irrealizzabili, cosicchè non è del tutto corretto criticarle come se già si fossero concretizzate. Lo stesso Platone era pienamente cosciente dell’inattuabilità del suo ambizioso progetto: ed è per questo che, successivamente, egli lo accantonò e passò a delineare, nel suo scritto “Le leggi”, uno “stato secondo”, ossia un’altra società, meno perfetta, ma – a differenza dello “stato ideale” – non incompatibile con la realtà. Ciò non toglie che anch’essa fosse in qualche misura utopica e altamente rivoluzionaria, mirante a contestare la città di Atene in carne ed ossa, quella città che aveva mandato a morte Socrate, il suo uomo migliore. In questo senso, un’utopia è un progetto pensato a cui la realtà deve tendere, ma con cui non potrà mai identificarsi: non ci sarà mai lo stato ideale immaginato da Platone, ma potrà esserci uno Stato che si ispira il più possibile al progetto platonico, pur con un inevitabile margine di differenza, dovuto in buona parte alla naturale impossibilità di calare perfettamente un’idea nella materia concreta. In questo senso, l’immagine che probabilmente meglio esprime il significato delle utopie è quella delle idee kantiane: esse sono forme mentali a carattere infinito e, per questo, non possono mai trovare un corrispettivo nella realtà finita; così l’idea di Dio, di anima e di mondo non potremo mai applicarle alla realtà, “riempendole” di contenuto empirico, ma ciò non toglie che esse abbiano un ruolo costitutivo ed euristico, servono cioè a guidare l’indagine verso sempre maggiore unitarietà e sistematicità, sono il faro che illumina il mio conoscere.
Nella prospettiva kantiana, tenderò dunque a sistematicizzare all’infinito il mio sapere, a organizzare le mie conoscenze interne “come se” potessero essere attribuite ad un’unica sostanza (l’anima), oppure ad organizzare tutte le mie esperienze esterne “come se” appartenessero ad un unico mondo, o ancora ad organizzare tutte le mie conoscenze (interne ed esterne) “come se” fossero effetti di un’unica causa (Dio). Sotto questo profilo, anche l’utopia è un’idea: è un fine a cui aspirare, pur nella consapevolezza della sua irrealizzabilità; sono tenuto a cambiare lo stato di cose in vista del progetto utopico, pur sapendo che non potrò mai raggiungerlo completamente. E’ un modello a cui tendere all’infinito, è una strada infinita che porta alla perfezione, forse perché è ricercando l’impossibile che abbiamo sempre realizzato il possibile.
Eduard Bernstein, nel suo scritto del 1899 “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”, legge in chiave kantiana il socialismo, arrivando a proclamare che la rivoluzione profetizzata da Marx non ci sarà mai: il socialismo è, ai suoi occhi, un’idea kantiana, un modello di società perfetta da seguire, ma che non troverà mai una realizzazione. Chi si abbandona ad immaginare società utopiche, lo fa perché non appagato dalle società reali: Leibniz, ad esempio, con uno spirito esasperatamente ottimistico, sostiene che tra tutti i mondi possibili, Dio ha creato il migliore, cosicchè perde di significato sperare in società migliori. Nel Novecento, Ernst Bloch insiste sul fatto che la realtà data non appaga mai pienamente il soggetto e, sotto questo profilo, non è “vera”: la verità cui tende il soggetto, immaginando e bramando quel che gli manca, non è data, ma è utopia che trascende il presente in direzione del futuro. Il pensiero utopico può scoprire tracce del futuro nel passato e oltrepassa sempre il dato per mirare al futuro, che assurge in posizione di primato. Esso, però, si distingue dalla pura e semplice fantasticheria in quanto media con quel che intende oltrepassare, cioè con le tendenze reali operanti nel presente, come aveva insegnato il maestro Marx: sotto questo profilo, esso è – secondo Bloch – utopia concreta, possibilità reale.
Al centro del pensiero utopico c’è, dunque, la nozione di dialettica, indispensabile per inserirsi in maniera efficace all’interno delle contraddizioni che presenta la realtà e collegarsi al movimento reale della storia per realizzare la verità utopica. La speranza , come attesa trepidante del nuovo apportatore di salvezza, occupa una posizione di primato tra gli affetti. Con queste riflessioni, Bloch elabora un’ontologia del “non-essere-ancora”, per la quale è costitutivo dell’essere in generale il non essere ancora, l’anticipare il futuro e il mirare ad esso: la sua realtà è realtà di qualcosa che è nel futuro e il futuro è già reale come possibilità oggettiva. Da ciò egli fa derivare che il regno della libertà – vera utopia – non è il regno di Dio, ma il regno dell’uomo nuovo su una terra nuova, cioè il regno della fine dello sfruttamento dell’uomo e della natura, in cui natura e uomo possano trovare il proprio compimento in un’alleanza pacifica tra di loro, venendo a formare un armonioso binomio indisgiungibile. Ma non tutti i progetti ideali a cui tendere sono, necessariamente, utopie, nell’accezione di “luoghi felici”: non sempre, infatti, le idee sono superiori alla realtà – cosa di cui Platone pare non essersi accorto. Ed è quindi bene operare una distinzione tra “utopico” ed “utopistico”: un progetto utopico si distingue da uno utopistico per il fatto che è altamente positivo, degno di essere concretizzato; sotto questo profilo, l’abolizione della schiavitù può essere definita utopica, un modello “buono” da cui trarre ispirazione. Al contrario, qualora non sussistesse la schiavitù, sarebbe utopistico il progetto di ripristinarla: sarebbe cioè un qualcosa di negativo, indegno di essere applicato.
Ma quale potrà essere il criterio per giudicare se un’utopia ha carattere utopico o utopistico? Esistono valori assoluti? Esistono, cioè, cose utopiche in sé e altre utopistiche in sé? Forse, già solo per il fatto che non tutti concordano su cosa sia utopico e cosa invece utopistico, è più corretto ritenere che la pietra di paragone siano gli uomini, in particolare la maggioranza: ciò che ai più pare un progetto utopico, sarà tale; ciò che, viceversa, ai più pare utopistico, sarà utopistico. Che i singoli individui si trovino d’accordo, è cosa difficile: ad esempio, a Popper il progetto di società ideale proposto da Platone pare utopistico; a me può invece sembrare utopico, ma non è possibile dire chi abbia ragione in assoluto, sebbene io possa dare per scontato che quelli che per me sono valori, lo siano in assoluto, a tal punto da delineare una città in cui quei valori diventano universalmente validi. Quasi tutti gli “ingegneri” di città utopiche nel corso della storia si sono accorti, o almeno hanno intuito, di come, vivendo in una società, si finisca per adeguarsi ad essa e ai suoi costumi, vivendola come l’unica possibile e non come una fra le tante: quasi come se si venisse assorbiti e inghiottiti dalle sue strutture, perdendo la propria autonomia di pensiero.
Questo avviene, probabilmente, perché il nostro pensiero prende sempre le mosse dal contesto materiale in cui ci muoviamo: così chi vive in Europa troverà assolutamente assurde le usanze invalse in Oriente, senza accorgersi che le sue di Europeo, agli occhi di un Orientale, presentano lo stesso carattere di assurdità. Di ciò si accorsero in primo luogo i Sofisti, con quel loro relativismo che investiva ogni ambito della realtà: ma non furono i soli; nell’età in cui risplendevano i Lumi della Ragione, Montesquieu compose una lettera che immaginava scritta da un gruppo di Persiani in visita a Parigi, destinata a dei loro amici in Persia. Da essa traspare un senso di sconcerto per le usanze europee, così diverse da quelle persiane: l’ovvio e il quotidiano diventano l’assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato all’ottica del relativismo culturale: la Francia e l’Europa non sono più il centro, ma solo un angolo del mondo. Ora, chi vive arroccato nella sua società, senza guardar fuori, nutre la convinzione che ciò che non rientra nelle tradizioni in vigore in essa, sia diverso e quindi inferiore, di minor valore e dunque da combattere: fatta eccezione per i Sofisti, che si accorsero, con estrema acutezza, di come non esista un vero, di cui sarebbero in possesso i Greci, ma una miriade di verità (per dirla con Pirandello, la verità è una, nessuna e centomila), cosicchè le tradizioni dei Persiani sarebbero vere per i Persiani, quelle dei greci sarebbero vere per i Greci e così via, la restante parte del popolo greco rimaneva fedelmente legata ai costumi della sua città, senza osar discostarsene. Anche perché l’uomo greco era polithV nella misura in cui compartecipava delle attività della polis: Socrate stesso, di fronte all’infamante accusa di sovversione della religione e di corruzione dei giovani, rifiuta di evadere e di trasgredire la legge, perché, così facendo, commetterebbe ingiustizia non verso i suoi calunniatori, ma verso la poliV, nei confronti della quale egli è profondamente debitore.
Questo attaccamento alla società così come essa si presenta nella realtà – attaccamento che si è conservato fino ai giorni nostri -, sfocia facilmente in quella che Marx definiva “ideologia”, cioè quel particolare atteggiamento che mira a legittimare lo stato di cose, inteso come espressione della massima razionalità. In tal prospettiva, è vittima di un’ideologia il padrone che si schiera in difesa del feudalesimo, il borghese che argomenta in favore del capitalismo, e anche colui che assume le difese della società in cui vive, senza sviluppare alcuna istanza critica verso di essa. Potrebbe essere questo il caso del già citato Leibniz, fervido sostenitore dell’idea che il mondo in cui viviamo è il migliore tra quelli possibili; lo stesso Hegel sostiene che la realtà esistente è espressione della razionalità e, pertanto, è inutile cercare società alternative. Lo stesso Aristotele, a differenza del maestro Platone, che aveva constatato con amarezza la frattura incolmabile tra ideale e reale e la netta inferiorità di quest’ultimo, non dà spazio all’interno del proprio sistema a progetti utopici, poiché – com’egli ama spesso ripetere – la natura non fa nulla invano: ogni cosa è, secondo Aristotele, giustificata nell’economia del tutto ed è orientata ad un preciso fine, con la conseguenza che non c’è bisogno di alzare lo sguardo a fantastici “mondi migliori”.
A cavallo tra Ottocento e Novecento, Karl Mannheim riprende in un certo senso la concezione marxiana: egli riconosce che gli utopisti sono individui e gruppi scarsamente concreti, poco rispettosi della realtà effettuale e in genere incapaci di “diagnosi corrette” relativamente al mondo in cui vivono. Dall’altro, però, sottolinea che il loro proiettarsi verso situazioni o idealità nuove ha una considerevole valenza positiva e innovatrice, capace di rivoluzionare la realtà. In effetti, mentre il pensiero ideologico è essenzialmente quello dei gruppi dominanti, che tendono a nascondere lo stato reale della società allo scopo di mantenerlo così com’è (e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice), il pensiero utopico assume un atteggiamento risolutamente critico nei confronti di tale società e tende a elaborare una nuova direttiva per un’azione trasformatrice della realtà. L’utopia si configura così come una realtà che non c’è ma che può essere realizzata: una verità forse prematura ma ricca di un suo irriducibile valore, alla quale è bene tendere fin d’ora.
Delle principali utopie della storia d’Occidente, Mannheim esamina alcuni esempi concreti: la prospettiva chiliastica degli anabbattisti, il liberalismo/umanitarismo settecentesco, il socialismo/comunismo del secolo successivo. E Mannheim fa una vigorosa difesa dello spirito utopico nel mondo contemporaneo: egli conosce bene le cause, anche assai fondate, che hanno condotto la moderna civiltà d’Occidente a diffidare dei movimenti utopici, così spesso emotivi e irrazionali, ma è anche convinto che la passionalità e la fede degli utopisti sono dei valori da non perdere: soprattutto in un’epoca caratterizzata dal crescente successo di una mentalità prosaica, razionalistica nel senso più ristretto del termine, privilegiante il mero funzionamento meccanico dell’esistente. Di qui il vivo elogio mannheimiano della dimensione intellettuale dell’utopia: la sola in grado di rilanciare quella tensione spirituale (trasformatrice ed emancipatrice della realtà) che appare oggi più che mai indispensabile. Così egli scrive nel suo celebre saggio del 1929, “Ideologia e Utopia”:
“La completa sparizione dell’elemento utopico del pensiero e della prassi dell’individuo verrebbe a dare alla natura e allo sviluppo dell’uomo un carattere radicalmente nuovo. La scomparsa dell’utopia porta a una condizione statica in cui l’uomo non è più che una cosa. Ci troveremmo allora dinanzi al più grande paradosso immaginabile: al paradosso, cioè, che l’individuo proprio in quanto ha conseguito il massimo livello di razionalità nel controllo della realtà, resta senza ideali e diviene una pura creatura impulsiva”.
La distinzione fondamentale – che campeggia a partire dal titolo – è tra ideologia ed utopia: di fronte allo stato di cose, si può assumere un atteggiamento conservatore, volto a legittimare la realtà (in questo caso si ha l’ideologia), oppure ribellarsi ad essa, contrapponendo un modello ideale e giusto a cui far riferimento (si parla allora di utopia). Ma sui caratteri dell’utopia nel Novecento – su cui insiste Mannheim – torneremo più avanti, dopo aver messo in chiaro le concezioni affiorate nelle età precedenti. Piuttosto, pare che, per alcuni versi, l’utopia possa essere terra di frontiera tra la “reazione” e il mito: come vedremo meglio più avanti, Cicerone tratteggia uno stato utopico non proiettato verso il futuro, ma teso al passato, a restaurare cioè quei valori andati perduti. Fino a che punto è legittimo parlare, in questo caso, di utopia, e non – piuttosto – di nostalgico rimpianto? Ora, se l’utopia è un concetto dalle forti connotazioni rivoluzionarie, di rottura sì con il presente, ma in vista del futuro, a che titolo possiamo definire “utopico” un progetto che aspiri a restaurare modelli sorpassati dalla storia? Ma è ancora più problematico, forse, tracciare un netto confine tra l’utopia e il mito, tra il progetto ideale e l’immagine irreale: è difficile stabilire la differenza, anche perché spesso l’utopia tende a sfumare nel mito, e viceversa. Eppure, secondo Sorel le due cose sono diversissime: l’utopia è un’invenzione di istituzioni immaginarie, un rifugio per sottrarsi alla realtà; il mito, invece, è qualcosa di più profondo, che corrisponde ad un complesso di immagini in grado di agire sull’istinto, sprigionando in questo modo l’azione.
Benchè entrambi rivolti alla prassi futura, il mito si definisce attraverso la sua contrapposizione all’utopia: mentre quest’ultima è una rappresentazione intellettuale che può essere razionalmente esaminata e discussa, e che quindi non ha un effetto pratico dirompente, il mito è l’espressione immediata per immagini della volontà che attende di tradursi in azione. In questo senso, non ha alcuna rilevanza il fatto che il contenuto del mito sia o non sia realizzabile: in ogni caso esso diventa il potente motore dell’azione dell’uomo e la sola fonte di creazione di nuova realtà. In questo senso, il mito è una pulsione irrazionale e istintiva, capace di smuovere la realtà in modo improvviso, mentre l’utopia è piuttosto una ragionata riflessione sulle contraddizioni del presente, una riflessione che – proprio in quanto tale – è destinata a dare i suoi frutti, nel caso li dia, solo sul lungo termine.
Sembrerebbe, da quanto detto finora, che l’ “ingegnere” di città utopiche si faccia portavoce di un messaggio relativista, quasi come se si proponesse di delineare stati diversi per mettere in luce la relatività di quei valori che nella società in cui vive sono assolutizzati. In realtà, propriamente, le cose stanno in altri termini: l’utopista, nel corso della storia, non è un relativista, poiché il suo ufficio non è solamente quello di mettere in evidenza l’irrazionalità che regna nel reale e la relatività dei suoi valori, ma è anche di fissare valori incrollabili, universali, i migliori che ci siano. E del resto, se tutto fosse in balia di un fluire costante, immerso in un relativismo totale, una società ideale non varrebbe più di una reale, essendo in tal modo caratterizzate da un identico tasso di relatività: l’utopista mette sì in mostra come si tenda ad adeguarsi alla città in cui si vive, ma lo scopo di questa sua azione non è quello di propugnare il relativismo, bensì quello di chiarire che la società in cui viviamo e che a noi pare la migliore possibile, in realtà sia imperfetta, del tutto inadeguata rispetto a quella utopica da lui disegnata, dove invece si potrebbe vivere la miglior vita possibile, in un luogo che viene spesso connotato con le caratteristiche tipiche del “locus amoenus”. In tal senso, un magnifico esempio di locus amoenus, non privo delle connotazioni utopiche, è l’isola di Calipso, nella quale Ulisse entra a contatto con una natura verdeggiante e policromatica, di cui l’uomo è parte integrante, e conduce una vita divina, salvo poi abbandonare l’isola per far ritorno ad Itaca, nel mondo della realtà.
L’utopista è, come abbiam detto, convinto dell’irrazionalità del reale, cui contrappone la razionalità della città utopica, con i suoi valori universalmente validi: anche se, ad onor del vero, il fatto che ogni città utopica delineata nella storia rispecchi i valori ideali propri della sua epoca, sembra deporre a favore del relativismo; eppure, se leggiamo le più grandi opere utopiche, ci accorgiamo facilmente di come alcuni valori siano ricorrenti e quasi invariati: da Platone fino ai socialisti utopisti dell’Ottocento, nella società ideale è stata abolita la proprietà, fonte di burrascose contese fra gli uomini e generatrice dell’odio e dell’invidia; ma non solo: anche la comunione delle donne è un tratto spesso comune, lo troviamo già nella “Repubblica” di Platone, e viene predicato ancora da Marx, che pure non voleva assolutamente essere etichettato come utopista. Ma un’utopia può essere proiettata nel futuro oppure nel passato: così Esiodo, nelle “Opere e i giorni”, contrappone, alla società a lui contemporanea, una mitica età dell’oro, in cui gli uomini “come dèi vivevano, senza affanni nel cuore, / lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava / la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, / nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni; / morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni / c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra / senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, / sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, / ricchi d’armenti, cari agli dèi beati”. Lo stesso paradiso terrestre dei Cristiani – prima del peccato di Adamo ed Eva -, quel fantastico mondo utopico in cui si viveva senza lavorare e soffrire, godendo a tempo pieno, molto deve ad Esiodo. Anche Platone, nel “Crizia”, immagina una formidabile civiltà del passato, fiorita sull’isola di Atlantide, in cui la vita scorreva serena e felice e in cui la proprietà privata e la guerra erano state eliminate: gli uomini però insuperbirono, peccando di tracotanza e di irriverenza verso gli dèi, e fu per questo che il padre Zeus volle punirli facendo sprofondare l’isola.
Anche alcuni illuministi tendevano spesso a guardare con simpatia al passato: è questo il caso di Rousseau, che, dopo aver preso atto che l’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene, criticava la società del suo tempo, incentrata sul denaro e sulla proprietà e dimentica dei valori più squisitamente umani; ad essa egli opponeva un mitico passato in cui l’uomo era selvaggio ma più umano, un passato che era a quei tempi ancora presente nelle civiltà meno progredite dell’America e che trova nel romanzo “Robinson Crusue” di Defoe una conferma. Ma è soprattutto sul futuro che si affacciano i progetti utopici, un futuro difficile da identificare e da prevedere, un futuro che forse è destinato a rimanere sempre futuro: così Platone, dopo aver prestato attenzione al passato nel “Crizia”, con la “Repubblica” volge lo sguardo all’avvenire. Il punto di partenza è la definizione dell’uomo giusto, in particolare il tentativo di confutare le tesi di certa sofistica che vogliono negare ogni forma di giustizia naturale e propugnare il diritto del più forte. Una tesi difficile da smontare, ma non impossibile: Platone lo fa – per bocca di Socrate – ricorrendo ad un esempio probante: i briganti, coloro cioè che sostengono il diritto del più forte, dopo aver compiuto una rapina, dovranno pur spartirsi il bottino, e per farlo dovranno necessariamente ricorrere a qualche criterio di giustizia.
Ma, allora, se c’è una giustizia vuol dire che è possibile distinguere con certezza il giusto dall’ingiusto e, di conseguenza, che un uomo può essere più giusto di un altro, e così una società più di un’altra: si tratta dunque, per Platone, di capire chi realmente sia l’uomo integro indagando su quale sia la società giusta, al cui delineamento è dedicata buona parte dell’opera. Nella società ideale verranno eliminate la proprietà privata e la famiglia, in modo tale da far sì che scompaiano l’invidia e l’arroganza e ciascuno ami il suo prossimo come un familiare. Nella società platonica non c’è posto per le differenze tra uomini e donne, che peraltro sono talmente irrisorie da essere accostate a quelle che intercorrono tra calvi e chiomati: se anche gli uomini sono congenitamente più forti, non esistono, propriamente, mansioni maschili, che siano interdette alle donne. Indistintamente dal sesso, gli individui sono divisi in classi di appartenenza: al gradino più basso vi sono i produttori, il cui ufficio è di generare benessere per al società; al secondo posto troviamo invece i guardiani, preposti alla custodia dello stato e, infine, al vertice della piramide, sono i governatori, che si identificano con i filosofi.
A partire dalla nascita, essi seguono una rigida educazione volta a far loro acquisire le giuste competenze per governare: nei primi anni di vita vengono educati alla musica e all’attività fisica, successivamente alla matematica, la quale nel sistema platonico occupa un posto di grande rilievo, e, infine, intraprendono la via della conoscenza filosofica. Ciò che risulta più paradossale è che, dopo aver esercitato la pratica filosofica, essi non vorrebbero assolutamente abbandonarla per passare a governare la città: ed è per questo che, secondo Platone, essi devono essere coercitivamente portati sul trono, a prendersi cura dello stato. A capo della città ideale di Platone sta dunque il filosofo, ossia colui che ha raggiunto una piena conoscenza di che cosa sia il Bene e che, pertanto, può scegliere per il bene della comunità: l’itinerario educativo dei futuri sovrani viene anche illustrato, con dovizia di particolari, nel famoso mito della caverna platonica, dove chi si libera dalle catene che lo tengono imprigionato sul fondo della caverna, risale in superficie a contemplare la realtà nella sua essenza ideale, per poi far ritorno nelle profondità da cui si era allontanato, in modo tale da poter illuminare anche gli altri uomini con le conoscenze acquisite.
E’ particolarmente significativo come Platone, artista fra gli artisti, proibisca l’arte nella città ideale, in quanto convinto che essa altro non sia se non una copia di oggetti che popolano un mondo di second’ordine, del tutto inferiore a quello ideale; una copia che, per di più, è incline a trasmettere ai giovani valori esecrabili, a presentare dèi ed eroi in atteggiamenti poco convenienti, in preda a passioni o a collere inaccettabili. Si salvano solo la musica e la poesia patriottica, cui Platone riconosce il merito di indirizzare la gioventù sulla retta via. Parecchi secoli dopo, Plotino riprenderà gli insegnamenti platonici e avanzerà la proposta di far sorgere in Campania una vera città basata sui precetti platonici, cui dare il nome di Platonopoli: nonostante l’amicizia dell’imperatore Galieno, il progetto sfumò per l’opposizione di membri della corte, ma non si deve pensare che esso fosse la reviviscenza del filosofo-politico di stampo platonico; la città a cui Plotino aspirava era piuttosto il rifugio del filosofo e dei suoi compagni e, in questo senso, essa é stata paragonata a una sorta di monastero o convento pagano.
Nonostante l’aspra critica mossa da Popper al disegno platonico, l’utopia della “Repubblica” era destinata a grande successo: già in età ellenistica Zenone di Cizio fu autore di un’opera omonima, in cui immaginava un fantasmagorico stato poggiante su valori comunemente riconosciuti come dis-valori: venivan difese l’abolizione della moneta e dei matrimoni e la distruzione dei templi, era predicata la liceità dell’incesto e, in extremis, dell’antropofagia; la vera comunità doveva, secondo Zenone, ruotare attorno alla comunità degli uomini “buoni”, che egli in seguito avrebbe identificato con il saggio stoico. Anche nella descrizione delle prerogative che si attagliano a questa figura non mancheranno i connotati utopici: il vero saggio sarà, secondo Zenone e gli altri Stoici, colui che saprà vivere con assoluta razionalità, seguendo l’ordine del cosmo e raggiungendo una perfetta armonia con esso: dalla coscienza della sua virtù scaturirà in lui una felicità incrollabile, destinata a non essere nemmeno scalfita qualora fosse torturato nel temibile bue di Falaride. Ma Zenone non fu il solo a rimanere ammaliato dall’utopia platonica: ancora Cicerone, in quel periodo della sua vita che coincise con il suo forzato allontanamento dalla vita politica e il ripiego sulla filosofia, riprese il modello platonico per elaborare il suo “De re publica”, alla cui stesura si dedicò assiduamente per più di tre anni. Lo spunto gli proveniva indubbiamente – almeno per il titolo e per la struttura dialogica – dal capolavoro platonico, ma la realizzazione tendeva più a seguire lo schema dell’altra opera utopica di Platone, il “Crizia”: Cicerone, infatti, non cercò di costruire a tavolino un favoloso stato ideale che potesse realizzarsi in un lontano futuro; al contrario, si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni e per convincere i Romani ad improntare l’educazione dei giovani sulla solida base degli insegnamenti della tradizione. E infatti Scipione Emiliano è, insieme all’amico e collaboratore Lelio, il principale interlocutore del dialogo: Aristotele, nella “Politica”, aveva mostrato come le tre fondamentali forme di governo fossero la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia e come esse potessero capovolgersi nelle loro corrispettive degenerazioni: tirannide, oligarchia e olocrazia.
Partendo da questi presupposti di remota ascendenza aristotelica, Scipione mette in luce come lo stato romano dei “maiores” si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali : l’elemento monarchico si rispecchia nell’istituzione del consolato, l’elemento aristocratico nell’istituzione del senato, l’elemento democratico nell’istituzione dei comizi. Lo stato ideale a cui aveva guardato Platone non era immune da conflitti bellici, tant’è che una delle tre classi sociali che lo contraddistinguevano era costituita appunto dai guardiani: ora, lo stato ideale di Cicerone non è esente dall’imperialismo, alla cui apologia è dedicata buona parte dell’opera. In particolare, si tratta di smascherare le argomentazioni che Carneade aveva addotto, durante la sua ambasceria a Roma, contro l’imperialismo romano: qui Cicerone non dà il meglio di sé, le sue argomentazioni (per bocca di Scipione) sono impacciate, poco concludenti di fronte all’inoppugnabile accusa mossa da Carneade a Roma, sempre pronta ad accorrere in soccorso dei suoi alleati per poter così estendere su di essi la propria egemonia. Se la difesa ciceroniana dell’imperialismo romano appare un po’ deludente, molto più suggestive sono le parti dell’opera in cui tratteggia la figura del “princeps” destinato ad esercitare il potere sullo stato ideale: per mettere in luce come il “rector et gubernator rei publicae” dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche, principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza, Scipione l’Emiliano – in chiusura dell’opera – rievoca il sogno, avuto tempo addietro, in cui gli era apparso l’avo, Scipione Africano, per mostrargli, dall’alto del cielo, la piccolezza e l’insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena, e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell’aldilà le anime dei grandi uomini di stato. Cicerone disegna così l’immagine di un dominatore-asceta , rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua “despicentia” verso le passioni umane.
Ciò che forse passa inosservato di fronte alla magnificenza stilistica del periodare messo in atto da Cicerone nell’opera è come egli tratteggi uno stato ideale dove non sia contemplato un aumento della libertà e dei diritti, ma, piuttosto, con uno sguardo al passato, una involuzione autoritaria ed elitaria, con la quale tenere ancora più distanti le masse dalla gestione della cosa pubblica. Mentre una già grande fortuna arrideva all’opera platonica, c’era anche chi metteva in scena immaginarie città giuste: si tratta del commediografo ateniese Aristofane, che di Platone fu contemporaneo e in più occasioni non esitò a colpire Socrate coi velenosi dardi della satira. Ma Aristofane, si sa, era un commediografo, uno di quelli che, pur di far ridere, non risparmiava nessuno, nemmeno gli uomini politici più in vista, tra cui Cleone (il potente capo del partito democratico): le sue proposte utopiche hanno più i tratti della provocazione che non del modello da seguire, e di ciò è fulgida prova il fatto che vengano abilmente messe in ridicolo le conseguenze che deriverebbero dall’attuazione di quelle società. Ciò testimonia come, in realtà, lo scopo di Aristofane fosse di far ridere gli Ateniesi a teatro più che di proporre modelli alternativi. Nella “Lisistrata”, nelle “Tesmoforiazusai” e nelle “Ecclesiazusai” il commediografo ateniese presenta la “città ideale” come un mondo alla rovescia, costruendo l’utopia in due momenti dialettici: quello “distruttivo” della critica all’esistente e quello “costruttivo” dell’edificazione del modello alternativo. In particolare, Aristofane ha piena coscienza del fallimento della politica maschile, cui contrappone un “potere femminile” instaurato attraverso le congiure delle donne e avente per fine l’armonia e la gestione comune dei beni. Detto così, sembrerebbe un’utopia “seria”, degna di essere perseguita: ma Aristofane condisce il tutto con una buona dose di ironia, quando ad esempio – nella “Lisistrata” – Lisistrata e le altre donne impongono il loro potere rifiutando di avere rapporti sessuali con gli uomini o quando, nelle “Tesmoforiazusai”, processano Euripide, reo di aver diffamato nelle sue tragedie il gentil sesso; ma è soprattutto nell’ “Ecclesiazusai” che emerge il carattere esilarante delle utopie aristofanesche: ci troviamo di fronte ad un nutrito gruppo di donne che, insoddisfatte dalla politica maschile e maschilista, congedano brutalmente gli uomini e occupano i loro posti dell’assemblea, instaurando il comunismo dei beni e delle donne: grazie al primo, nessuno ruberà più, grazie al secondo ogni bambino rispetterà come suo possibile genitore ciascuno degli adulti. Il nuovo regime metterà poi su un piano paritario le donne avvenenti e quelle brutte, perché ogni cittadino, prima di potersi unire alla fanciulla che più gli aggrada, sarà costretto a soddisfare le legittime esigenze di una donna fra le più brutte o vecchie. Il motivo scatenante della rivolta femminile è, nella “Lisistrata”, nobile: l’opposizione all’interminabile guerra che vede combattersi Atene e Sparta; ma gli esiti sono divertentissimi, spesso al limite del paradossale: sul finale, ad esempio, troviamo una gustosa lite fra tre vecchie per il diritto di prelazione che ciascuna vanta sul malcapitato giovane; è l’esilarante conclusione di una commedia che in realtà, nonostante la palese comicità delle situazioni, risulta pervasa da una vena di tristezza, quella tristezza che Aristofane prova nell’assistere al tracollo di Atene, un tempo faro dell’Ellade, ora luogo di perdizione e di smarrimento di ogni principio morale.
Al modello utopico Aristofane era molto legato: ancora in un’altra opera, “Gli Uccelli”, lo ritroviamo. Qui due vecchi Ateniesi, disgustati dal degrado e dall’invivibilità della loro città, decidono di abbandonarla e di cercarne un’altra; ma, poiché città coi requisiti richiesi non ce ne sono, viene loro proposto di fondarne una nuova in aria. Gli uccelli, però , oppongono una ferma resistenza, finchè non vengono persuasi che, con la fondazione della nuova città, potrebbero tornare a dominare, come un tempo, sugli uomini, ricattandoli con l’intercettare il fumo dei sacrifici agli dèi. Non appena fondata la città, la sua salvezza è subita messa a repentaglio dall’improvvisa guerra con la “Città dei baggiani fra le nuvole” e dall’avversione degli dèi per il blocco dei fumi sacrificali. Nemmeno l’ambasceria divina composta da Posidone, Eracle e Triballo riesce nel suo tentativo di far cessare il blocco. L’opera si chiude con l’egemonia degli uccelli, nuovamente padroni del mondo. Il motivo di scontentezza per il reale che induce Aristofane ad ipotizzare una città che – nel senso letterale – non sta sulla terra va ravvisato in un’Atene ormai invivibile, travagliata da problemi di vario genere, politici, economici e militari.
Con gli esempi storici di città utopiche delineate in diverse opere, si può notare come, affascinata dalle precise rappresentazioni della geometria, l’opera dell’utopista assuma da subito una prospettiva totalizzante: la comunità è descrivibile come un gigantesco meccanismo dove i ruoli e le funzioni sociali e produttive sono definiti a priori, una raffinata catena di montaggio in cui la libertà e la dignità individuale vengono sì ampliate, ma comunque regolamentate. Il regolamento e la disciplina costituiscono il cardine del funzionamento della società utopica che sembra garantire il suo successo solo se tutto è prevedibile, solo se tutto è standardizzato. “Chi conosce una sola città le conosce tutte, tanto sono interamente simili tra loro”, sostiene Tommaso Moro nella sua “Utopia”, riferendosi a una delle cinquantaquattro città dell’isola, iniziando una tradizione che arriva fino ai giorni nostri in cui l’urbanistica diventa un cardine del controllo sociale. Chi contravviene alle norme vigenti nello Stato, andrà punito severamente, perché rischia di far scricchiolare le strutture statali: questo è uno di quei tratti comuni che caratterizzano le città utopiche prospettate dai pensatori di ogni epoca. Ciò era già vero per i Greci, ed è per questo che l’utopia rientra nel novero di quei concetti inventati dalla cultura greca, nei confronti della quale siamo profondamente debitori: ogni nostro concetto è filtrato da quella cultura, ne è una rielaborazione.
Anche il mondo latino attinse a piene mani dalla civiltà greca: abbiamo già preso in esame il “De re publica” di Cicerone; ma l’Arpinate non fu il solo a volersi mettere alla prova con il genere utopico. Già Varrone il Reatino fu autore di un’opera intitolata “Marcopolis”: su di essa non sappiamo pressochè nulla perché, purtroppo, è andata perduta; però non è inverosimile pensare che la città utopica così come Varrone la immaginava fosse saldamente legata al passato tradizionale di Roma, e non tanto a valori rivoluzionari. Questo aspetto può essere desunto dal pensiero stesso di Varrone, accanito difensore del “mos maiorum”, ma anche da un’altra sua opera, intitolata “Sexagesis”, in cui raccontava di un personaggio che, addormentatosi da ragazzo, si svegliava a sessant’anni per accorgersi che a Roma tutto era mutato in peggio. Ancora in un altro passo dei suoi scritti, Varrone guarda con ammirazione alla società perfetta delle api, alla loro operosità e alla loro solidale convivenza. Anche Seneca provò – in età imperiale – a tracciare, nel suo scritto “De clementia”, un progetto utopico, imperniato sull’ordinamento del principato: il potere unico è, a suo avviso, il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l’impero. Il problema che si pone Seneca non è tanto quello della forma di governo da assumere, quanto piuttosto quello del sovrano che dovrà detenere il potere, un problema, questo, che verrà ripreso, in età rinascimentale, dallo stesso Machiavelli.
In uno stato basato sul potere assoluto, l’unico freno del sovrano sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà trattenere dal governare in modo tirannico. Sotto tale profilo, l’ideale senecano di clemenza è una misurata commistione di indulgenza e moderazione. Negli anni in cui vive Seneca, si è già sviluppato e diffuso il cristianesimo, nonostante la forte avversione che per esso nutriva Nerone e gran parte del mondo pagano: quella cristiana appare, per molti versi, una delle più grandi utopie della storia, forse quella destinata a godere di maggior fortuna e longevità. Di fronte alle ingiustizie dilaganti nel mondo terreno, sui cui sentieri ciascuno di noi è viandante, il cristianesimo pose riparo costruendo un mondo totalmente altro, che compendiasse entro di sé tutti quei valori che non trovavano spazio per emergere nella mondanità: la giustizia, l’uguaglianza, la felicità, il piacere. Il mondo sospeso nei cieli non era però il mondo degli “Uccelli” di Aristofane, ma piuttosto qualcosa di metafisico, il cui accesso era destinato alle sole anime che avessero dato prova di comportarsi rettamente nella vita terrena. In questa maniera, per usare le parole di Nietzsche, il nostro mondo divenne favola, fu succube di una radicale svalutazione: perso il suo carattere di “autenticità”, la vita terrena diventa un puro e semplice palcoscenico su cui far le prove per selezionare chi è davvero meritevole di accedere alla vera vita – quella celeste – e chi, invece, sarà condannato a subire i patimenti infernali, fino al fatidico giorno del Giudizio Universale. Il Paradiso cristiano diviene così un’idea kantiana a cui tendere e a cui adeguarsi, cercando di vivere degnamente per poter così innalzarsi ai Cieli: e tuttavia l’ideale cristiano finiva per mettere in una cattiva luce il mondo terreno, il mondo su cui ogni giorno ci muoviamo, facendo di esso una realtà depotenziata e di second’ordine, a cui non dar troppo peso per non farsi accecare. In questo modo, l’utopia del Regno dei Cieli non esercita una funzione rivoluzionaria, un’ideale a cui ispirarsi per cambiare il mondo: piuttosto, pare un farmaco da assumere per meglio sopportare – con rassegnazione – le ingiustizie di quaggiù, sperando che lassù tutto proceda diversamente. La realtà per il cristiano non va cambiata, ma sotto-valutata: di fronte alle ingiustizie, non si deve lottare in nome di un progetto utopico, ma, al contrario, si deve volgere lo sguardo al progetto utopico per poterle meglio sopportare.
Gramsci, nei suoi “Quaderni del carcere”, sostiene che “la religione è la più gigantesca utopia”, condividendo la prospettiva crociana, secondo cui la religione altro non è se non una concezione del mondo che diventa norma di vita: Gramsci scorge in ciò una componente altamente utopica, una conciliazione delle contraddizioni che costellano la realtà storica, ma nota un imprescindibile limite nel fatto che tale conciliazione non si traduca nella trasformazione effettiva della realtà storica, ma venga – al contrario – proiettata nell’aldilà. Ciononostante, la religione – e Gramsci ha soprattutto in mente quella cristiana – mette a disposizione degli uomini criteri mediante i quali valutare la discrepanza della realtà storica rispetto ad una compiuta realizzazione di essi e può, secondo Gramsci, fungere da motore di rivendicazioni e rivolte.
Sempre in tema di cristianità, Agostino – come recita il titolo di una sua opera – parla espressamente di “civitas Dei”, ossia di una città divina situata nell’alto dei Cieli e contrapposta a quella terrena, dominata dall’amore in sé. Nella prima, trovano cittadinanza gli uomini giusti, mentre la seconda è popolata dagli ingiusti, angeli ribelli , diavolo e uomini , che vivono accecati dalle passioni materiali e dalla carne.
La lotta che contrappone le due città ritma il corso della storia e prende il sopravvento sullo schema della successione delle età del mondo: sin dalla caduta di Adamo, la razza umana é stata divisa in due città e l’ appartenenza a ciascuna delle due dipende solo dalla grazia divina. Già prima di Cristo infatti alcuni uomini facevano parte della città di Dio. Non ci si deve però far ingannare dal linguaggio impiegato da Agostino nel “De civitate Dei”: per “città terrena” – il cui capostipite è individuato in Caino – egli non intende, banalmente, lo stato, ma piuttosto la società che venera gli “dei falsi e bugiardi”, i demoni, e perciò non vive secondo i veri valori . Nasce di qui la “libido dominandi”, la sete di potere, su cui si fonda la città del diavolo, ossia gli imperi umani , che coltivano i culti pagani. I membri della città terrena rifiutano, infatti, di considerare effimero ciò che essi hanno creato e in tal modo sconvolgono l’ordine delle cose. L’urbanistica agostiniana dà un assetto metodico e filosofico alla città dei cristiani: una città giusta e popolata dai soli individui graditi a Dio.
Questo modello di utopia dominò incontrastato per tutta l’età medioevale, nella quale Dio era riconosciuto come il vertice supremo della realtà e tutto veniva a lui rimandato. In età umanistico-rinascimentale, però, l’uomo tornò al centro della scena, prendendosi il posto occupato da Dio: ma, nonostante la centralità assunta dall’uomo e dalle sue realizzazioni in età rinascimentale, il problema religioso continuava ad occupare una posizione di gran rilievo, soprattutto quando divampò, con estrema violenza, la Riforma protestante e, in risposta ad essa, una altrettanto veemente contro-riforma, in cui le posizioni cattoliche venivano marcatamente irrigidite. Il “cuius regio, eius religio” rappresentava senz’altro un importante passo verso la tolleranza, ma essa rimaneva solamente all’orizzonte: in questo tormentato contesto, Tommaso Moro condannò le contese religiose e le ingiustizie della società inglese nella sua “Utopia”. Alla base della sua costituzione ideale egli pone il netto rifiuto di ogni forma di proprietà privata, intesa – sulle orme di Platone – come inevitabile fonte di dissidi tra gli uomini: gli abitanti di Utopia, pertanto, non lavorano per accumulare ricchezze, ma per provvedere ai beni necessari alla propria esistenza. Il lavoro occuperà solo sei ore della giornata, in modo tale che il restante tempo possa essere dedicato all’istruzione e, in particolare, all’educazione, che deve orbitare intorno alle scienze naturali e alla filosofia morale, l’unica che abbia un risvolto pratico e, dunque, utile sulla vita degli uomini. Per questa ragione, saranno trascurate la metafisica e la logica.
A dispetto della società inglese, dove la proprietà tende ad accentrarsi sempre più nelle mani di pochi, ad Utopia non c’é miseria nè disuguaglianza, il lavoro é obbligatorio per tutti e ognuno lavora per la comunità. In questo modo, la comunione dei beni libera ciascuno dal bisogno e dalla paura , assicura cioè a tutti la vera ricchezza. I prodromi di tale concezione vanno evidentemente rintracciati nella “Repubblica” di Platone. Per quel che riguarda la religione – ed è questo forse il punto più innovativo dell’opera di More – , si tratta di una religione naturale, a fondo monoteistico; pur professando religioni diverse, gli abitanti di Utopia riconoscono nei vari dèi un unico Dio e ciascuno é libero di professare la sua religione e può anche fare opera di proselitismo, ma senza usare mezzi coercitivi, pena l’esilio o la servitù. Il legislatore di Utopia si é di proposito rifiutato di legiferare in materia religiosa e di imporre particolari riti o credenze perché, forse, Dio stesso ama la varietà e la molteplicità dei culti.
Questo motivo, che più che di tolleranza può essere considerato di vera libertà, deriva a Moro direttamente, nell’immagine e nell’espressione, da Cusano e da Ficino: é il motivo che sfronda le diverse ispirazioni religiose dei propri elementi differenziali e le risolve, in definitiva, in un’unica religione entro i limiti della ragione. Solamente gli atei non trovano cittadinanza ad Utopia, perché essi sono, per loro stessa natura, intransigenti e intolleranti. Il progetto utopico elaborato da Moro sarebbe presto stato smentito dai fatti, quando, neanche un secolo dopo la sua morte, sarebbe scoppiata per motivi di intolleranza religiosa la Guerra dei Trent’anni. In quegli anni di forti contestazioni religiose, brulicavano gli scritti utopici, destinati a svilupparsi con estremo successo anche nel secolo successivo: oltre a quello di Tommaso Moro, meritano di essere ricordati “La Città felice” di Francesco Patrizi – scritta nel 1551 e pubblicata a Venezia nel 1553 -, “Il mondo savio e pazzo” (1552) di Antonio Francesco Doni, “La repubblica immaginaria” (1585) di Ludovico Agostini, “Christianopolis” (1619) di Johann Valentin Andreae e “La Repubblica di Evandria” di Lodovico Zuccolo (1625).
Negli anni Venti del Cinquecento erano poi sorte ovunque schiere di “riformati” che non si riconoscevano minimamente in Lutero e che, a loro volta, si facevano riconoscere dalla risoluta negazione del valore del battesimo somministrato ai bambini; questi settari che predicavano con toni accesi l’imminente apocalisse e sapevano affrontare il martirio e la morte, si facevano ribattezzare e, per questo motivo, vennero chiamati col nome dispregiativo di “anabattisti”. Reclutati in massima parte fra le classi popolari, memori delle idee rivoluzionarie di Münzter (cui lo stesso Engels dedicherà “La guerra tedesca dei contadini”), essi appaiono come perturbatori dell’ordine sociale e – è stato soprattutto Mannheim a cogliere questo aspetto – inguaribili utopisti: la società a cui essi aspirano è poligamica, comunistica e solidale, scevra di ogni ingiustizia. Ma la loro era qualcosa di più di un’utopia: era un progetto che rischiava di diventare reale, e fu per questo che l’intera Europa rabbrividì con orrore, torturandoli, massacrandoli, portandoli sul rogo e annegandoli.
Nonostante questa avversità e la mancanza di protezione da parte dei principi, gli anabattisti riuscirono a prendere il potere nella città westfalica di Münster e lo mantennero dal 1533 al 1535: l’utopia diventava realtà, anche se destinata a vita effimera. La tematica religiosa era portante anche nel progetto utopico di Tommaso Campanella, esposto nel suo scritto “La città del Sole”: ancora una volta l’innovazione, l’ansia di rinnovamento, il tentare e l’intravedere strade nuove viene da un religioso, ribelle per l’epoca perché “troppo avanti e ardito” nelle sue intuizioni. Campanella confessò di esser nato “a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi ipocrisia”, ed è appunto queste tre piaghe che egli mira a sconfiggere nella sua città ideale, una città con un regime comunitario, dove la famiglia è la grande assente perché si identifica con lo Stato, è retta da Potenza, Sapienza, Amore, sopra i quali sta il detentore del “vero sapere”. La religione professata dai suoi abitanti è un deismo privo di dogmi, con confessione pubblica e cremazione dopo la morte: alla sommità del monte più alto si trova un tempio di forma circolare, consacrato al Sole, sulla cui volta sono dipinte le stelle maggiori. Al centro della vita pubblica della Città del Sole – su cui non vi è proprietà privata e le donne sono di tutti – è posto il lavoro, considerato l’unico fattore di differenziazione dei cittadini in base alle loro capacità. Il progetto appare in bilico tra l’utopico e l’utopistico, in quanto è sì animato da una sincera volontà di render felici gli uomini, ma, di fatto, non viene lasciato quasi nessuno spazio alla libertà dell’autodeterminazione individuale; il che rende l’utopia di Campanella molto meno moderna di quella formulata quasi un secolo prima da Moro.
Scoraggiato anch’egli dalla politica della società inglese e lui stesso allontanatone per motivi di corruzione, Francis Bacon sviluppò i suoi ideali politici ricorrendo all’utopia: al centro del progetto baconiano, tuttavia, non vi è il problema religioso, ma quello scientifico; la fantastica isola su cui ambienta la sua società ideale, è l’Atlantide di Platone, o, meglio, la “Nuova Atlantide” (come recita il titolo dell’opera di Bacone del 1627 in cui è custodito il progetto); sì, perché il pensatore inglese era solito prendere spunto dai filosofi antichi, ma per criticarli, convinto che la verità – in quanto “figlia del tempo” – risiedesse più nel futuro che nel passato. E’ quasi come se Bacone intentasse una diatriba personale con Aristotele sul piano della logica e con Platone su quello utopico: se Platone aveva posto a capo della sua città ideale i filosofi, e Campanella un sacerdote, ora Bacone riserva il trono agli scienziati, dotati di un sapere pratico in grado di trasformare la realtà. Nell’opera, c’è una continua, pungente polemica contro la sapienza contemplativa e uno slancio entusiastico che annuncia il regno dell’uomo come l’avvento di una nuova era. Per Bacone il “regno dell’uomo” è in realtà la riconquista del paradiso terrestre, l’utopia è un mito del ripristino della condizione edenica. La conoscenza diventa uno strumento di dominio sul mondo, e la società ideale si serve della scienza come guida all’azione: il fine della ricerca scientifica stessa é “l’allargamento dei confini dell’impero umano” attraverso la conoscenza delle cause e dei moti delle cose, poiché è solo conoscendo la natura che la si può padroneggiare.
Ecco perché la tradizione attribuisce a Bacone il motto “sapere è potere”, riconoscendo nel filosofo inglese colui che per primo e in modo più marcato instaurò un forte legame tra il sapere e l’azione. Egli narra di una fittizia tempesta che travolse l’imbarcazione su cui navigava coi suoi compagni costringendoli a naufragare e a chiedere riparo agli abitanti di un’isola sconosciuta, quasi appartenente ad un altro mondo. Si tratta, è evidente, di un naufragio “positivo”, che porta Bacone e i suoi compagni di viaggio a contatto con una cultura più avanzata, una civiltà che conosce tutte le altre, ma che è sconosciuta e che ha sempre saputo rimanere “pura”, senza degenerare attraverso contatti con le altre società; proprio per questo motivo, in un primo tempo si mostra riluttante ad accogliere e a far sbarcare l’equipaggio straniero. Finalmente sbarcati, i forestieri vengono guidati per l’isola, apprendendo come i suoi abitanti attribuiscano ogni singola entità a Dio: gli stessi scienziati che reggono la città possono estendere il loro dominio sulla realtà, trasformarla, alterarla, imitarla, riprodurla, soltanto in quanto la conoscono secondo verità, secondo il suggello su di essa imposto da Dio.
Si capisce bene come, più che di una città, si tratti di un gigantesco laboratorio scientifico, finalizzato all’ “estensione dei confini del potere umano ad ogni cosa possibile”, per poter in tal modo perfezionare la vita di tutti. Si fanno preparati medicinali, si riproducono i fenomeni atmosferici, si generano artificialmente gli insetti, si depura l’acqua salata per renderla dolce, si prolunga la vita dell’uomo, si elaborano strumenti tecnici all’avanguardia, si edificano torri altissime (addirittura mezzo miglio di altezza), si creano pozioni e acque nutrientissime, si sperimentano sugli animali ogni sorta di veleni per meglio provvedere alla salute del corpo umano… il tutto senza l’apporto della matematica, poco considerata da Bacone. Le cascate d’acqua vengono ingegnosamente impiegate come forza motrice e gli abitanti dispongono di aria condizionata, di microscopi, di telescopi, di condotti capaci di trasmettere i suoni a grande distanza, di sommergibili e, perfino, di macchine per volare. Il progetto baconiano può essere però soggetto a critiche: oltre a non essere una democrazia e ad essere fin troppo lontano dal reale, non tiene conto delle differenze tra tecnica e politica, non si accorge cioè che la politica non é fatta di sole scelte tecniche. E l’isola su cui Bacone proietta la sua utopica città scientifica presenta incredibili analogie con quella su cui Shakespeare ambienta la sua commedia “La tempesta”, risalente ai primi anni del Seicento. Certo, qui il riferimento scientifico è assolutamente assente, ma c’è, in qualche modo, qualcosa che ne prende il posto: si tratta della magia, del clima sognante che aleggia nell’opera dall’inizio alla fine e che troverà la sua più compiuta espressione nei famosissimi versi pronunciati dal protagonista, Prospero: “noi siamo della stoffa di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno”. Come nello scritto baconiano, anche ne “La tempesta” il mare è inteso come un qualcosa insieme positivo e negativo, un qualcosa che, al contempo, collega e separa: significativi sono, a questo proposito, le parole di uno dei tanti personaggi che animano l’opera, Ferdinando, il quale dice che “il mare, che spesso ci minaccia, è anche, talvolta, misericordioso”.
Allontanato proditoriamente dal ducato di Milano ad opera del perfido fratello e dei suoi sgherri, Prospero ha trovato riparo insieme alla figlia Miranda su una sperduta isola meravigliosa, regno della magia e degli spiriti. Non appena si presenta l’occasione, Prospero ne approfitta: sapendo che suo fratello e i suoi scagnozzi si trovano per mare, egli scatena una tempesta, servendosi delle sue portentose arti magiche. In questo modo i suoi nemici fanno naufragio e son costretti a sbarcare sull’isola di Prospero, di cui si trovano ora prigionieri. Questi appare, fin dalle prime battute, come un simpatico stregone che, al pari dell’Astolfo ariostesco, si destreggia con incredibile agilità con gli strumenti magici e nelle situazioni più straordinarie, in quella stravagante e caleidoscopica realtà – ma forse sarebbe più opportuno parlare di “irrealtà” – che è l’isola magica: dopo aver fatto naufragare i suoi nemici, riesce a far sì che essi gli domandino scusa e si pentano sinceramente delle loro azioni passate; il tutto è inframmezzato da quadretti divertentissimi, da grovigli di vicende inestricabili. In passato, c’è stato chi ha voluto scorgere in Shakespeare e in Bacone la stessa persona: in effetti, molto ne “La tempesta” sembra deporre a favore di questa tesi; in primis, i tratti fortemente utopici che contraddistinguono le due isole, quella tecnocratica di Bacone e quella magica di Skakespeare; ma poi – ed è questo forse l’elemento più probante – sul finire dell’opera, Prospero rinnega l’arte magica, quella “rozza scienza” incontrollabile, con la quale chi la possiede può far tutto: è la magia che cede il passo alla scienza, riconoscendone la superiore saggezza e modernità; ma sono anche due secoli a confronto: il Cinquecento, con la sua fede nelle operazioni magiche, e il Seicento, con il suo indiscusso predominio scientifico, cosicchè nell’atto con cui Prospero si sbarazza dei suoi arnesi magici è lecito leggere la fine di un secolo e l’inizio di un altro. E’ Bacone che ci invita a prendere atto di come la magia abbia oramai cessato di dettar legge e sia stata soppiantata dal rigore del metodo scientifico; restare ancora legati alle arti magiche, di fronte all’incedere del progresso scientifico, sarebbe – appunto – un’utopia, un progetto irreale al massimo grado. Sorprende anche il fatto che, con “La tempesta”, ci troviamo di fronte ad un’utopia nell’utopia: Gonzalo, membro dell’equipaggio fatto naufragare da Prospero, ad un certo punto (atto II, scena I) si lascia andare – lui che è naufragato su un’isola “utopica” – alla descrizione della società ideale secondo i suoi canoni: “Nella comunità vorrei che ogni cosa fosse fatta al contrario di ciò che si fa ordinariamente. Non ammetterei alcuna specie di traffico, alcun autorità di magistrato. L’istruzione vi dovrebbe essere sconosciuta: non ci dovrebbero essere né ricchezza, né povertà, né impieghi servili; non contratti, non successioni, non divisioni, non confini di terre, non coltivazioni, non vigne; nessun uso di metalli, di grano, di vino, di olio; nessuna occupazione: tutti gli uomini in ozio, tutti; ed anche le donne, ma innocenti e pure; nessuna sovranità…[…] La natura dovrebbe produrre tutte le cose in comune senza sudore e senza pena: non ci avrebbero a essere tradimenti, non fellonia, non spade, non picche, non pugnali, non cannoni e nessun bisogno di alcun altro arnese di guerra. La natura dovrebbe generare da se stessa ogni grascia, ogni abbondanza per nutrire il mio innocente popolo. […] E regnerei, signore, così perfettamente da lasciarmi addietro l’età dell’oro.”
Si tratta di un’utopia all’incontrario, che presenta più i caratteri dello sfogo contro una realtà sentita come profondamente ingiusta, che non quelli del progetto alternativo a cui ispirarsi. In questo senso, non sarebbe sbagliato parlare di sogno ad occhi aperti, atteggiamento che si inquadra perfettamente nel clima onirico che si respira nell’opera. Ancora nella seconda metà del Seicento, Gabriel De Foigny propone – in “La Terre australe connue” – una società senza classi, in cui è centrale la comunità dei beni e in cui si affaccia un’umanità libera dalle passioni e dall’avidità, capace di godere di una beatitudine “naturale”. Nel secolo successivo a Shakespeare e a Bacone, il Settecento, si diffonde a macchia d’olio la fiducia nei lumi di una ragione ritenuta la vera legislatrice della vita umana: più che di utopie sulle carte, il nuovo secolo si nutre di utopie fatte reali; la prima, grande esperienza utopica risiede nell’assolutismo illuminato, ossia nel tentativo dei “philosophes” di coinvolgere e indirizzare l’esercizio del potere dei grandi sovrani europei verso modelli più razionali e meno impopolari; alla corte dello zar Pietro il grande, nelle cui mani è accentrato un potere talmente vasto che spesso si è parlato di “autocrazia”, troviamo niente poco di meno che Leibniz, poliedrica figura di genio universale; Voltaire, dal canto suo, intrattiene stretti rapporti di amicizia e di collaborazione con Federico II il Grande, re di Prussia; Cesare Beccaria, infine, lavora presso gli Austriaci a Milano, dove – con il suo scritto “Dei delitti e delle pene” – dimostra l’assurdità e l’infondatezza del sistema giuridico vigente e riesce a persuadere il governo ad abolire la pena di morte.
Ma è dal fallimento dell’esperienza utopica dell’assolutismo illuminato che scaturisce la seconda realizzazione utopica del Settecento: la Rivoluzione Francese. Quando il popolo prese atto dell’inattuabilità del progetto portato avanti dai “philosophes” a corte e del tracollo di quella che doveva essere una rivoluzione gestita dall’ “alto”, allora apparirà impellente la necessità di riformare la società – in maniera rivoluzionaria – dal “basso” e saranno i ceti popolari ad imbracciare le baionette e a scendere sulle piazze, seminando il terrore e gettando alle fiamme tutti gli antichi residui del feudalesimo, retaggio di un passato ormai incompatibile coi tempi.
La Rivoluzione Francese segnò il realizzarsi dell’utopia borghese, il liberarsi da quei vincoli medioevali che impedivano il pieno sviluppo di una società borghese e produttiva; ma anche in quest’età vennero alla luce scritti utopici che contestavano la proprietà privata, in sintonia con la tradizione utopica che da Platone giungeva fino a Campanella e oltre. E’ questo il caso di Morelly, il quale, nel suo “Codice della Natura” (1755), pone al centro la proprietà comune, base per la socievolezza e – attraverso la ragione e l’attività produttiva – condizione per il passaggio al “comunismo conscio del futuro”. La comunità regola per Morelly la produzione e la distribuzione – evitando in tal modo il commercio privato – , sulla base di un’educazione collettiva morale intellettuale e tecnica che consente ad ognuno di realizzare la propria professionalità. Ad intraprendere la linea comunistica fu anche Francoi-Noel Babeuf, che però – a differenza di Morelly – cercò di dare un risvolto pratico al suo progetto, ordendo una congiura – passata alla storia come “la congiura degli Uguali” – con la quale si proponeva di rovesciare il governo e di concretizzare il suo disegno. Soprannominato “Gracco Babeuf” per le sue posizioni radicali che rievocavano quelle dell’antico tribuno della plebe romana, egli si fece sostenitore della proprietà comune della terra e dei mezzi di produzione, nonché dell’assoluta eguaglianza di tutti i cittadini, proponendo la creazione di una “Repubblica degli uguali”.
Babeuf non si limitava a tratteggiare un progetto ideale, ma forniva anche le strategie affinchè esso potesse essere realizzato: per eliminare la proprietà privata, si doveva a suo avviso far ricorso alla confisca e all’abolizione del principio di eredità; la sua repubblica utopica non potè mai essere realizzata e la congiura ordita da lui e dai suoi sostenitori si concluse in un bagno di sangue, in un massacro generale costato la vita a moltissime persone. Secondo i pensatori dell’età dei Lumi, la ragione sarebbe in grado di dettare leggi giuste ed universali, applicabili sempre e ovunque perché, appunto, razionali: ed è sull’onda di queste considerazioni, che i Francesi tentarono di esportare in tutta Europa la Rivoluzione Francese e i suoi princìpi, senza tener conto – come noterà Cuoco – che le usanze, le norme e i valori cambiano di nazione in nazione, e non sono un qualcosa di atemporale e universalmente valido, che possa essere semplicemente trasferito da un luogo ad un altro: così i princìpi della Rivoluzione, adatti alla situazione francese, si rivelano del tutto inadeguati se trasportati a Napoli, dove assistiamo ad un’autentica ribellione anti-rivoluzionaria (il “sanfedismo”) della popolazione, legata al clero e a valori reazionari.
Ma nel Settecento – soprattutto al di là della Manica – decolla anche l’industria, nascono le fabbriche moderne e, con esse, si sviluppa rapidamente una nuova classe sociale fino ad allora pressochè inesistente: il proletariato, che non ha nulla da vendere se non la propria forza-lavoro e non ha altra ricchezza su cui far affidamento se non sulla prole, mandata a lavorare in fabbrica. Perché il nuovo modo di produzione, fondato sul sistema di fabbrica, potesse affermarsi, era indispensabile che si formasse una massa di popolazione del tutto priva dei mezzi di sostentamento, disponibile a vendere la propria forza-lavoro a chi possedeva gli strumenti di lavoro. In qualche modo, tuttavia, i segni lasciati dalla Rivoluzione Francese permangono: le differenze tra i diversi gruppi sociali non sono più rigidamente fissati dal diritto, ma dall’economia, ossia dal possesso di ricchezze e di strumenti di produzione. L’operaio condannato a lavorare in fabbrica per tutta la vita non si arricchisce, si limita a trarre i mezzi sufficienti per il suo sostentamento, ma genera ricchezza per il capitalista che possiede i mezzi di produzione: di fronte al nuovo assetto di una società in cui cresceva sempre più il benessere ma trovava una sempre meno equa distribuzione, fiorirono numerose opere utopiche che proponevano – almeno sulla carta – società diverse, mettendo un luce come forse fosse possibile un mondo più giusto, in cui tutti potessero raggiungere la felicità. In quest’ottica, Étienne Cabet pubblica nel 1840 “Voyage en Icarie”, un romanzo utopico che prende spunto da Tommaso Moro; nel libro, al capitalismo viene contrapposto un sistema di stampo socialistico-comunistico, dove è chiara l’influenza del comunismo egualitario di Babeuf e Buonarroti e della tradizione illuministica del Settecento francese.
Pur definendosi comunista, Cabet respingeva ogni forma di rivoluzione e propugnava la pace. Icara – capitale di Icaria – è di forma circolare, attraversata nel mezzo da un fiume rettilineo, che sdoppiandosi dà vita a sua volta ad un isola rotonda; le strade a scacchiera sono attraversate da due anelli circolari di boulevards. I negozi sono sotituiti dai magazzini e dagli “ateliers” statali, previsti nella nuova società; i cimiteri, gli ospedali e le officine sono fuori dalla città, immersi nel verde. Nella circolazione si presta particolare attenzione all’incolumità dei pedoni: essi potranno percorrere appositi passaggi coperti, mentre le vetture dovranno circolare all’interno di rotaie, da cui non potranno uscire. Le abitazioni sono standard, ai vari piani corrispondono precise funzioni: la città comprende sessanta quartieri, ciascuno dei quali prenderà il nome da una delle principali sessanta nazioni e ne riprodurrà i caratteri architettonici. Ma Cabet non intendeva lasciare il suo progetto sulle pagine dei libri: era sua intenzione realizzarlo concretamente ed è per questo che egli cerca – con lo scritto “Allons en Icarie” – di raccogliere proseliti; i sostenitori del suo progettono crescono di numero, a tal punto da decidere di imbarcarsi per il Texas, luogo prescelto per la costruzione della nuova città. Nel 1848 l’edificazione della città viene finalmente portata a termine, ma subito nascono i primi dissidi fra i fondatori, dissidi che porteranno – dopo fasi alterne – allo scioglimento definitivo della comunità nel 1895.
Ma quello di Cabet non fu certo il solo progetto utopico maturato nell’Ottocento: l’Europa di quegli anni fu invasa da opere che proponevano modelli di società più giuste e a misura d’uomo, in cui la vita fosse possibile in condizioni decorose per tutte. Ma anche per legittimare la realtà presente, talvolta, si poteva ricorrere a forme utopiche: così Adam Smith sostiene, nel Settecento, che il liberismo è la miglior forma possibile di economia, in quanto esiste una fantomatica “mano invisibile” che fa sì che, dietro l’egoistica ricerca dell’interesse personale condotta dagli individui, vi sia alla fine una distribuzione dei beni diffusa a tutti, seppur in misure diverse. Non è difficile capire come l’ideazione di Adam Smith non sia esente da valenze utopiche. Ritornando alle opere che propongono società alternative nell’Ottocento, si tratta, per lo più, di scritti con venature socialisteggianti e, tra questi, meritano soprattutto di esserne esaminati tre, quelli di Saint-Simone, di Fourier e di Owen, che verranno presi in considerazione dallo stesso Marx: la peculiarità di questi tre autori è di far fronte utopicamente alla realtà scaturita dalla rivoluzione industriale, alla vita di fabbrica, a cui son condannati gli operai, le donne, i bambini e perfino gli animali.
A queste forme di socialismo “utopistico”, Marx ne contrapporrà uno rigorosamente scientifico, che prenderà le mosse dall’analisi scientifica della realtà e delle sue insanabili contraddizioni: dall’irrazionalità del reale e dalle contraddizioni del sistema capitalistico dovrà, secondo Marx, necessariamente scatenarsi una rivoluzione che capovolgerà violentemente lo stato di cose, segnando il passaggio materiale dalla fase capitalistica a quella comunistica, in cui scompariranno lo stato e la proprietà privata dei mezzi di produzione, quella proprietà che fa sì che l’operaio possa essere sfruttato all’inverosimile. L’atteggiamento assunto da Marx è critico in ogni istante, prende e supera le tradizioni precedenti con il modello dialettico desunto dal sistema hegeliano: e così, sul piano politico, accetta la critica al capitalismo ma ne biasima il carattere utopistico che finora l’ha contraddistinta, precisando che dal socialismo utopistico si deve passare al socialismo scientifico , ovvero il socialismo va inteso non come delineamento mentale di una società ideale, bensì come necessaria conseguenza del tramonto imminente del capitalismo.
Studiando in modo approfondito il capitalismo, infatti, è impossibile non vedere come esso, infetto dalle sue stesse contraddizioni, si ribalterà, prima o poi, nel suo opposto: è un’analisi scientifica, una constatazione che si basa su dati di fatto e che porta a prevedere ciò che necessariamente sarà. Le contraddizioni ravvisate da Marx nel sistema capitalistico sono parecchie e, tra le tante, possiamo qui menzionare, come esempio, il meccanismo della concorrenza, la quale tende essa stessa a capovolgersi in oligopolismo.
Nel “Manifesto del partito comunista”, Marx distingue varie forme di socialismo: quello utopistico, quello conservatore e quello reazionario. Nei confronti del “socialismo utopistico”, il filosofo di Treviri dà un giudizio più generoso e benigno rispetto a quello dato agli altri due: a Saint-Simon, a Fourier e a Owen spetta il merito di aver denunciato le contraddizioni e la brutalità del sistema capitalistico, anche se, invece di costruire su queste considerazioni una dottrina scientifica, si sono messi a tavolino – come Platone – a delineare fantasmagoriche società ideali, per di più appellandosi non agli operai perchè imbracciassero i fucili per far la rivoluzione, ma ai capitalisti, affinchè umanamente accettassero di attuare le società giuste da loro tratteggiate. Ma Marx, pur criticandone questo aspetto, riconosce che i limiti degli “utopisti” sono giustificabili dal fatto che ai loro tempi il proletariato non aveva ancora acquisito coscienza di sè e dunque non ci si poteva rivolgere ad esso; è solo ai tempi di Marx che “lo spettro del comunismo” si aggira per l’Europa, pienamente consapevole dei propri interessi e delle proprie potenzialità.
Ma, in sostanza, a che forme di società guardavano questi pensatori? Partendo da Saint-Simon, egli si basò su una filosofia fortemente industrialista, fondata sulla ricerca delle leggi scientifiche di sviluppo della società e sulla centralità delle forme economiche; propugnò la necessità di una battaglia contro gli “oziosi”, eredi della società feudale (clero, esercito e nobiltà), affinchè i produttori potessero conquistare il potere politico. Ma nel tratteggiare la sua società tecnocratica, Saint-Simon commette un grave errore: si scaglia contro i ceti parassitari e sostiene che la società debba essere amministrata dagli “industriali”, ovvero dagli imprenditori e dai lavoratori, senza accorgersi dell’inevitabilità di quello scontro di classe tra proletariato e borghesia che sta alla base della società moderna.
Fourier, dal canto suo, fu un caustico oppositore dell’industrialismo, ricercò forme di armonia sociale fondate sul libero dispiegarsi delle tendenze naturali degli uomini e concepì i “falansteri” come cellule costitutive della futura civiltà armonica. Il falansterio è una comunità di 1620 persone alloggiate in un complesso di edifici con servizi comunali: esso permetterà, nell’ottica di Fourier, una cooperazione non comunistica, in cui il lavoro – frequentemente variato per renderlo attraente e non ripetitivo – coesisterà con la proprietà individuale dei mezzi di produzione e una ripartizione non egualitaria del prodotto. Sui generis è invece il caso di Robert Owen, che esordisce come operaio per poi passare al ruolo di direttore di una filanda e, infine, a quello di imprenditore: consapevole delle ingiustizie dilaganti nel mondo industriale – vissute sulla sua pelle -, egli trasformò il suo cotonificio di New Lanarck in un’azienda modello, pagando salari elevati, risanando l’ambiente morale degradato della fabbrica e migliorando le condizioni generali di vita; tentò anche di fondare una comunità socialista negli Stati Uniti, New Harmony, ma essa fallì.
Con minore simpatia Marx guarda al progetto utopico di Proudhon, la cui idea centrale era quella di realizzare una società basata sulla cooperazione tra i piccoli produttori, con la scomparsa sia dei capitalisti sia dei proletari; e, pur essendo la proprietà privata per Proudhon un furto, essa starebbe alla base di tale cooperazione. Marx tuona contro questa prospettiva: una teoria come quella di Proudhon, che mira ad una società di piccoli produttori senza ricchi e poveri, è una società ideale sganciata dalla realtà e dalla scientificità (non c’è nessun dato di fatto che spinga in quella direzione): non si tratta di attenuare le contraddizioni del capitalismo, ma, al contrario, di far leva su di esse per farlo saltare; la proposta di Proudhon, del resto, vorrebbe trasformare tutti in borghesi, mentre Marx ha in mente una situazione in cui la borghesia sparisce e, con essa, anche il proletariato, poichè la ricchezza della borghesia si fonda sullo sfruttamento del proletariato.
Marx, sfaldate sotto i colpi di una critica demolitrice le utopie dei suoi predecessori, profetizza l’avvento di una società futura senza classi, senza stato e senza proprietà, rifiutando con fermezza il titolo di “utopista” di cui spesso è stato insignito: la sua non è utopia, ma inevitabile realizzazione di una realtà prevedibile scientificamente sulla base del presente; non è un progetto ideale a cui tendere, ma il necessario accadere degli eventi post-capitalistici. Pare tuttavia arduo delimitare i confini che separano, nel progetto marxiano, l’utopia dal realismo: lui che per tutta la vita criticò duramente chi rimase impigliato dai fantasmi delle utopie, fino a che punto non ne fu a sua volta malato? Nei pochi passi della sua opera da cui filtrano brevi descrizioni della futura società comunistica, è facile evincere come essa sia in buona parte connotata dalle caratteristiche tipiche della società ideale: così, ne “L’ideologia tedesca”, leggiamo che l’uomo inserito nell’era comunista è al contempo cacciatore, pescatore, pastore, e critico.
Al di là di questa caratterizzazione arcadica e assai poco moderna della vita nella società futura, Marx prospetta – nella sua “Critica del programma di Gotha” – una fase socialista come intermedia tra quella capitalistica e quella comunista: tramontato il sistema capitalistico, sarebbe impossibile passare immediatamente al momento comunista, in cui vien meno la proprietà, poiché gli individui sono ancora in parte ideologicamente legati alla società passata, basata sul denaro e sulla proprietà; si dovrà pertanto, secondo Marx, attuare una fase intermedia, in cui si realizzeranno quegli obiettivi che il sistema capitalistico si era chimericamente proposto di raggiungere, senza mai riuscirvi: il motto di questa fase di passaggio sarà dunque “a ciascuno secondo il suo lavoro”, espressione che compendia la necessità di una distribuzione dei beni pari al lavoro compiuto, in antitesi al sistema di fabbrica, dove chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Questo socialismo di frontiera si configurerà allora come piena realizzazione di quella meritocrazia (esaltata a gran voce dal sistema capitalistico, ma nei fatti ipocritamente accantonata) per cui ciascuno guadagna in base a quanto produce.
Spianata in questo modo la strada e venuta meno la mentalità imperante nell’età del capitalismo, sarà possibile il passaggio al terzo momento, quello comunistico, in cui al motto “a ciascuno secondo il suo lavoro” si sostituirà quello “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. In questo nuovo modello di società, infinitamente distante da tutte quelle finora realizzatesi (e per questo fortemente utopica), l’individuo sarà compensato sulla base non di quel che produce, ma, al contrario, di ciò di cui abbisogna; in quest’ottica, ognuno sarà tenuto a svolgere prestazioni lavorative pari alle sue capacità, per poi ricevere compensi proporzionali ai suoi bisogni. Le critiche più scontate (e più frequenti) che si possono indirizzare al progetto marxiano fanno leva essenzialmente su due punti: in primis, in una società così organizzata, in cui ciascuno riceverà a seconda dei suoi bisogni e non delle sue prestazioni, abbonderanno i “furfanti”, che faranno il meno possibile, nella consapevolezza di ricevere ugualmente ciò che serve loro per vivere. In secundis, non è forse ingiusto che non ci sia un riconoscimento dei meriti degli individui (indubbiamente non equiparabili), né una distribuzione proporzionale al lavoro?
Una possibile risposta ad entrambe queste obiezioni fa leva sul fatto che, colui che le muove, è ancora storicamente situato in una società di stampo capitalistico e, pertanto, è alimentato da un’ideologia che mira a legittimarla: in altri termini, chi critica il comunismo marxiano lo fa perché lo vede come un qualcosa di diverso da quella società capitalistica in cui si muove e pensa. In direzione anti-capitalistica, ma con un’accentuata attenzione per l’assurdità di gran parte delle convenzioni sociali, si dirigeva anche lo scritto “Che fare?” (il cui titolo sarà ripreso dallo stesso Lenin) di Cernyševskij, in cui lo scrittore russo propugnava utopicamente l’uguaglianza dei sessi e una produzione di tipo cooperativistico, capace di garantire una distribuzione egualitaria dei profitti. In sostanza, tuttavia, per le modalità e le soluzioni prospettate, il progetto era inevitabilmente condannato a rimanere sulle pagine dei libri, senza poter sperare una reale attuazione, nonostante l’Ottocento (ma più ancora il Novecento) sia per molti versi stata un’epoca di incontro della realtà con l’utopia.
Ancora la Francia ne fu la grande protagonista: nel febbraio del 1848, quando pressochè tutta l’Europa fu percorsa da un sisma rivoluzionario che aveva il suo epicentro a Parigi, un socialista moderato, Blanc, fu nominato ministro del lavoro e potè in tal modo far diventare realtà la sua progettazione utopica. Il suo presupposto riposa sulla convinzione che gli operai, se messi nelle condizioni di autogestire le industrie, siano capaci di dimostrare la loro concorrenzialità rispetto ai “privati”: rispetto a questi ultimi, infatti, nei “laboratori sociali” – così Blanc denomina le aziende autogestite – manca il profitto per il padrone e, dunque, i prodotti ultimati costeranno meno, con la necessaria conseguenza che le aziende “private” saranno sgominate dalla concorrenza. Divenuto ministro del lavoro, Blanc potè puntare sulla realizzazione di tali “laboratori sociali”, ma tuttavia fu duramente ostacolato nel suo progetto, a tal punto che vennero creati “laboratori nazionali” – e non “sociali”, come prevedeva il ministro francese -, cosicchè l’ideale di Blanc fu snaturato e costretto a fallire miseramente.
Più di vent’anni dopo l’esperienza dei “laboratori nazionali”, in seguito alla sconfitta militare di Napoleone III, le masse popolari di Parigi furono decisive nelle manifestazioni pubbliche che portarono alla proclamazione della famosa “Comune di Parigi”, primo governo socialista della storia: tutte le mirabolanti società utopiche delineate nella storia trovavano finalmente in qualche modo una loro realizzazione, una concretizzazione in cui rispecchiarsi, il loro primo grande incontro con la realtà; scese dall’alto, si calavano nel reale, scontrandosi con una pluralità di problematiche imprevedibili sulla carta. Ben presto, però, questo stralcio di “realtà utopica” venne bandita dal reale per essere ricacciata verso l’intelligibile, con una repressione feroce che portò alla fucilazione immediata perfino di donne, bambini e anziani; la fiamma della speranza fu spenta e l’utopia tornò ad essere tale, abbandonando il mondo terreno e chi in essa aveva fiduciosamente creduto.
L’impeto utopistico, nonostante le repressioni e i bagni di sangue cui era andato incontro nell’Ottocento, non si smorzò nel secolo successivo, ma, anzi, crebbe di un rinnovato vigore fino ad allora sconosciuto: la Rivoluzione Russa prima, quella Cubana poi, nonché le sterminate rivolte che costellarono la vita politica novecentesca a livello mondiale, portarono l’utopia sul trono, ad insediarsi tra le pieghe della realtà, ma accadde qualcosa fino ad allora sconosciuto e inimmaginato. Quello che, a livello di idea, era considerato pressochè concordemente da tutti un nobile progetto degno di attuazione, quando poi trovava la sua concretizzazione, incontrando la realtà, smarriva improvvisamente ogni suo connotato utopico, cessando di essere un “luogo inesistente” e, soprattutto, “felice” e perfetto, capovolgendosi nel suo esatto contrario: un inferno intollerabile.
Così fu per la Rivoluzione Russa, che dette cittadinanza nel reale all’utopia vagheggiata da Marx nel secolo precedente: liberata la Russia dall’autarchia degli zar e dalla cappa medioevaleggiante che la avviluppava, Lenin seppe modellare la società sui princìpi marxiani – tenendo conto delle differenze del mondo russo rispetto a quello tedesco di Marx – , garantendo al popolo l’uguaglianza, l’abbattimento di ogni divisione di classe e della religione, marxianamente intesa come inutile narcotico che annebbia la mente umana e la aiuta a meglio sopportare una realtà invivibile.
Ma ben presto – con Stalin – vi fu un clamoroso tracollo del progetto avviato da Lenin, cosicchè la società utopica venne sostituita da un’infernale macchina di delitti, di inganni e di tirannia, incapace di garantire ogni forma di libertà all’individuo, ma abilissima nello sbarazzarsi misteriosamente dei suoi nemici politici.
Sorti analoghe si abbatterono sulla Cina comunista, su Cuba e sulla Cambogia: le utopie si tramutavano con impressionante rapidità in anti-utopie o, se preferiamo, in “kakotopie” (da kakoV – topoV), in società a cui le precedenti non avevano nulla da invidiare. Appariva sempre più evidente che l’utopia, nel momento in cui veniva realizzata, cessava di essere tale e veniva inghiottita da quelle contraddizioni del reale a cui si era opposta prima della concretizzazione: in qualche modo, si cominciava a capire che la pretesa avanzata da Platone, da Moro e da tutti gli altri utopisti del passato di cambiare lo stato di cose in nome di un ideale che lo rendesse perfetto era una grande illusione, forse la più grande mai esistita. Come si doveva reagire? Caduta un’utopia, non resta che cercarne un’altra, nella quale riporre le speranze disattese dalla prima, conducendo così una vita immersa nel fluttuare continuo di utopia in utopia, pur nella consapevolezza – taciuta ma a tutti nota – di come cadranno una ad una all’infrangersi con la realtà, quest’imbattibile mostro che si diletta a far strage di progetti ideali.
La conferma di ciò sta nel costante rinascere delle utopie anche dopo il loro fallimento storico: così nel ’68 vi fu una vivace ripresa dell’utopismo e si pensò di essere giunti al momento culminante, alla “fine dell’utopia” – come ebbe a dire Marcuse – ossia al suo trapasso a realtà effettiva e fedele al modello, al suo cessare di essere sogno irraggiungibile. Robert Nozick, nel suo “Anarchia, Stato, Utopia” – prendendo spunto dalle derive utopistiche della Russia e non solo – dice no all’anarchia dello stato di natura e allo statalismo, proponendo invece un’utopia della libertà. Se Wittgenstein, Russell, Picasso, Mosè, Einstein, Socrate, Ford, Gandhi, Sinatra, Colombo, Freud, Edison, Jefferson… voi e i vostri genitori – dice in tono provocatorio liberale Nozick – siete individui differenti, sarà possibile trovare “un genere di vita” unico che sia il migliore per ciascuna di queste persone? Nozick pensa – popperianamente – che dobbiamo abbandonare l’utopia di una società perfetta, valida per tutti, e che, al contrario, dobbiamo prendere in considerazione l’utopia di un luogo in cui la gente sia libera di associarsi volontariamente per tentare di attuare la propria individuale visione della vita, senza imperla agli altri.
L’utopia, dunque, dev’essere una struttura-per-la-libertà, che superi sia l’anarchia (di un ipotetico “stato di natura”) sia lo Stato pianificatore (che obbliga qualcuno a fare sacrifici per aiutare altri). In effetti, il retaggio del naufragio dell’utopia russa pesava sulla coscienza di tutti: non era più possibile pensare ad un’utopia senza che accorresse alla mente la triste deriva di quella russa; consapevole del carattere fallimentare destinato a travolgere ogni progetto utopico, Orwell inscenò, nel suo celebre libro “1984” un’utopia al contrario, una “kakotopia” che ricalcava – se letta in trasparenza – gli sviluppi di quella staliniana.
Al centro del racconto troviamo una società utopica, governata secondo i princìpi del Socialismo inglese che si fonda sull’incontestabile autorità del capo carismatico – il Grande Fratello – onnisciente ed onnipresente, i cui occhi sono telecamere che spiano nelle abitazioni, il cui braccio la “psicopolizia” che interviene al minimo sospetto di “psicoreato” , la cui coscienza si insinua in quella della gente comune e suscita il senso di colpa al solo pensiero di un’eresia. Tutto è permesso: pensare, se si aderisce anche col pensiero ai principi del Socialismo; amare, se lo si fa per la continuazione della società perfetta; divertirsi, se si seguono i programmi TV di propaganda del Partito. Si assiste all’avverarsi del paradosso dell’utopia: libertà è libertà di fare tutto ciò che il Partito desidera che si faccia, dall’utopia si scivola così inevitabilmente nella “kakotopia”.
Il protagonista – Winston, “l’ultimo uomo in Europa” – e la sua compagna lottano per preservare la loro dignità di esseri umani e, immersi ormai nella ideologia dilagante del Grande Fratello – cercano di combatterlo dall’interno del Partito stesso, in nome di quel mondo oramai cancellato, ma ogni ribellione contro chi ha il potere di controllare le coscienze è condannato allo scacco, a tal punto che Winston, sul finale dell’opera, viene convertito dal Grande Fratello.
Anche nel romanzo “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley si respira un’aria fortemente “kakotopica”: se la distopia di Orwell dipinge un mondo di soffocante totalitarismo realizzato attraverso il controllo dell’informazione, il “nuovo mondo” di Huxley, invece, è costruito attorno a un formidabile sviluppo delle biotecnologie, uno sviluppo che tende a travalicare la stessa centralità della persona umana. È un caliginoso mondo di schiavi felici di una servile felicità, conseguita attraverso l’assunzione di pasticche. L’intera utopia di Huxley, in un certo senso, è sapientemente costruita su due citazioni; la prima è di William Shakespeare, da “La tempesta”: “com’è meravigliosa l’umanità. O splendido mondo nuovo che ospita tali persone”. John Savage, il Selvaggio, l’infelice protagonista della storia, ama e sfugge nello stesso tempo: egli conosce tutto Shakespeare a memoria, a differenza degli abitanti del “mondo nuovo”, dove Shakespeare è proibito perché “vecchio”. La seconda citazione compare nel frontespizio del libro ed è di Nicholas Berdiaeff, già Nicholay Berdiayev, filosofo ucraino: “le utopie sembrano sempre più realizzabili di quanto si credesse nel passato. E noi ci troviamo oggi di fronte a un problema ben più angosciante: come evitare la loro realizzazione definitiva?”. Questa è dunque la terribile minaccia per l’uomo moderno: la capacità di realizzare le proprie utopie, vederle trasformarsi, da chimere da inseguire, in mostri terribili da abbattere.
Ma da dove nascono le utopie? In parte – pensiamo a Esiodo o al Platone della città d’Atlantide -, dalla preistorica credenza dell’uomo in una passata “età dell’oro”, cioè dal sogno stesso del paradiso in terra, quale è appunto il “mondo nuovo”. Esso appare paradisiaco a tutti quelli che lo abitano anche grazie all’”ipnopedia”, cioè al condizionamento psicologico nel sonno, e alla “soma”, la droga perfetta resa disponibile dallo Stato. Ma il “mondo nuovo” non è un paradiso per John Savage, l’uomo scandalosamente nato in modo “viviparo” e non “in vitro”, come si fa ormai da secoli nel nuovo mondo. John Savage, casualmente scovato nella Mesa di Malpais, nell’ultima Riserva Indiana, è inizialmente attratto dalla “civilizzazione”, che non ha mai conosciuto, ma poi cambierà gradualmente idea, arrivando a rivendicare “il diritto di essere infelice”.
Finora abbiamo trattato di utopie “filosofiche”: ma anche la scienza ha le sue. Basti ricordare la pietra filosofale, il moto perpetuo e perfino la fusione nucleare controllata. Persino la matematica non è immune da utopismo: così gli antichi hanno inseguito per lungo tempo il sogno della “quadratura del cerchio”, pratica “razionale” con cui avrebbero dovuto ricavare dal diametro, con il solo uso della squadra e del compasso, un segmento pari alla circonferenza, ovvero, in subordine, un quadrato o un rettangolo di pari area del cerchio dato. Ma in tempi più recenti, all’inizio del Novecento, un illustre matematico italiano, Giuseppe Peano, che affascinò Bertrand Russell con il suo formalismo, incappò in un’utopia colossale, pensando di circoscrivere in un “sistema assiomatico completo” l’intera aritmetica, rendendo una verità incontrovertibile il fatto che due più due faccia quattro.
L’utopia di Peano resistette per più di trent’anni, finchè – nel 1931 – Kurt Gödel dimostrò il più famoso e profondo teorema della logica moderna. La scienza aveva rivendicato con Bacone piena cittadinanza negli apparati statali, a tal punto da volersi imporre a capo dello stato, con un’autentica tecnocrazia: ancora sul finire dell’Ottocento, Edwin Abbott Abbott propose, nel suo celebre scritto “Flatlandia”, un mondo situato in un’altra dimensione, un mondo a due dimensioni, piatto come un foglio di carta (da qui il nome Flatlandia), su cui scivolano le figure gemotriche che lo popolano. Si tratta del regno della geometria, dove essa non solo è al potere, ma penetra e anima l’intera realtà. Mondo bidimensionale abitato da segmenti, triangoli, quadrati, poligoni vari e sublimi circoli, la Flatlandia (o Paese del Piano) ci viene descritta con perizia etnologica e candido humour da un suo abitante, un eccellente Quadrato.
In quel mondo, le gerarchie sono immediatamente evidenti: si passa dai volgari e spigolosi Triangoli (gli operai), ai più rispettabili Quadrati e Pentagoni (i professionisti) e ai nobili Poligoni, che si approssimano indefinitamente ai Circoli (i sacerdoti), nei quali la bruta natura angolare è del tutto annullata. Le donne sono Segmenti, e implicita nella forma è la loro natura bassa e infida, ma supremamente potente e temibile, che viene illustrata in alcune pagine di esilarante misoginia. Siamo introdotti alla complessa legislazione e agli insoluti problemi della Flatlandia; veniamo a conoscere la storia spesso drammatica del paese. E infine assistiamo agli emozionanti incontri del Quadrato narratore con il mondo unidimensionale della Linelandia (o Paese della Linea) e con la sconvolgente realtà dello spazio tridimensionale, scoperta attraverso il dialogo con una Sfera. Si rivela a questo punto la sottigliezza speculativa del libro. Il lettore tridimensionale è partito da una posizione di onnisciente superiorità: cio’ che per gli abitanti della Flatlandia è oscuro e inestricabile, appare a lui con assoluta evidenza, così come il nostro mondo, oscuro e inestricabile, potrebbe apparire a una maligna divinità che lo avesse creato come un giocattolo imperfetto. Ma questo meccanismo di mondi concentrici, incompatibili e incomunicanti, in realtà mette in dubbio i nostri stessi punti di riferimento, e il libro si chiuderà con la inquietante ipotesi di una Quarta Dimensione. In un gioco di specchi, questa ultima supposizione ci fa intendere che il nostro mondo tridimensionale è probabilmente osservato da un mondo ulteriore con la stessa superiorità e indifferenza che noi mostriamo verso gli abitanti della Flatlandia, e la prospettiva si apre così su una molteplicità di mondi diversamente ciechi e ignari, incapsulati l’uno nell’altro. A tal proposito, appare particolarmente significativa la dedica iniziale con cui si apre l’opera: “Agli abitanti dello spazio in generale e a H.C. in particolare è dedicata quest’opera da un umile nativo della Flatlandia nella speranza che, come egli fu iniziato ai misteri delle tre dimensioni avendone sino allora conosciute soltanto due così anche i cittadini di quella regione celeste possano aspirare sempre più in alto ai segreti delle quattro o cinque o addirittura sei dimensioni. In tal modo contribuendo all’arricchimento dell’immaginazione e al possibile sviluppo della modestia, qualità rarissima ed eccellente fra le razze superiori dell’umanità solida”.
Non è mancato chi ha voluto vedere nel racconto di Abbott una sorprendente anticipazione della teoria einsteiniana, e infatti il libro è diventato ghiotta lettura di matematici e scienziati. Ma Flatlandia è un universo fantastico, minuscolo e perfetto e, come tale, resta innanzitutto un esercizio inesauribile dell’immaginazione: ma, con occhio critico, possiam notare come sullo sfondo Flatlandia fosse per il suo autore un’utopia. Oltre ad essere presente nella matematica e nelle scienze, anche le fiabe si nutrono di un forte utopismo: pensiamo all’“Isola che non c’è”, il fantastico regno in cui non si cresce mai e Peter Pan, aiutato dai bambini che han smarrito la voglia di diventare adulti, lottano contro le angherie del perfido Capitan Uncino; pensiamo ancora ad “Alice nel Paese delle Meraviglie”, questo incredibile viaggio in un mondo popolato da creature, di sogni e di situazioni che nella realtà ordinaria non trovano spazio. Da ultimo, possiamo accennare brevemente a “Pinocchio” di Collodi, la vivacissima serie di avventure di questo burattino che, – secondo la definizione di Croce – intagliato nel legno di cui è fatta l’umanità, si ribella alle regole che la società prescrive e trova rifugio nel “Paese dei Balocchi”, il regno del gaudio e della spensieratezza, dove la serietà del mondo reale è stata sostituita dal gioco e dallo scherzo. L’attenzione e l’interesse dei bambini per questi mondi irreali testimonia come l’utopicità umana si manifesti, in qualche modo, fin dall’infanzia, per poi non abbandonarci mai del tutto: il bambino stesso coglie, senza mediazioni, come il mondo reale che ha di fronte non sia appagante, ma tenda a reprimere i suoi slanci e a non essere il “migliore tra quelli possibili”; perciò guarda con stupore a mondi “altri”, diversi e straordinari, forse più a misura d’uomo (e di bambino), più vivibili e meno soffocanti. In passato filosofi e letterati si sono sbizzarriti a identificare l’uomo chi come “animal rationale”, chi come “animal symbolicum”, chi come animale parlante: non sembra fuori luogo, tra le tante definizioni, azzardarne una nuova, radicalmente nuova, che intende l’uomo come “animal utopicum”, ossia come quell’unico essere vivente in grado di criticare la realtà in nome di ideali ad essa superiori, a cui far costante riferimento nell’agire. Solo il genere umano, infatti, sa produrre utopie, mondi alternativi e migliori di quello reale: esso solo sa produrli e lottare per piegare ad essi, quanto più è possibile, la realtà.
Certo, nella “Fattoria degli animali” di Orwell ci troviamo di fronte ad un mondo animale che, inappagato dal reale, in cui è soggiogato all’iniquo dominio umano, si rivolta in nome di un mondo idealmente più giusto; ma è facile capire come il mondo animale di Orwell sia uno specchio di quello umano, un abile gioco per mettere in luce i difetti degli uomini e la loro bestialità, l’incapacità di realizzare quegli alti e nobili obiettivi che si propongono. Il mondo animale è per Orwell solo una facciata per penetrare in quello umano, con i suoi ideali e i suoi clamorosi fallimenti, in seguito ai quali gettarsi all’inseguimento di nuovi ideali. L’utopismo che ha accompagnato il genere umano dalle sue origini fino ad oggi è destinato a non spegnersi, ma a brillare di una luce sempre rinnovantesi fin tanto che esisterà l’uomo: abbiamo preso atto della inevitabile impossibilità che l’utopico diventi il reale, non nel senso che un’utopia non possa realizzarsi, ma, piuttosto, nel senso che, realizzandosi, si snatura, diventa altra cosa dal modello originario, come se il contatto con la realtà la depotenziasse, quasi uccidendola, così come al contatto con l’aria alcuni batteri soccombono. L’utopia, in quest’accezione, è incredibilmente vicina al concetto greco di adunaton , con il quale si designa l’impossibile.
Ma utopico non vuol né deve essere a tutti i costi sinonimo di razionale: così Freud, quando cede all’utopismo, non immagina un mondo razionalmente amministrato, ma, piuttosto, un caotico guazzabuglio di pulsioni sessuali incontrollate, che volano libere per l’aria senza dover essere filtrate dalle regole che la società impone per tenerle a freno. In realtà, Freud sa bene che si tratta di un’utopia nell’accezione greca di “non-luogo”, ossia di impossibile realizzazione; più fiducioso nelle possibilità che l’uomo possa finalmente sbarazzarsi dei valori in cui è invischiato e che si trascina dietro da secoli è Nietzsche, traboccante di speranze in un avvenire in cui l’uomo trapassi in “oltre-uomo”, riprendendo contatto con la realtà e scostandosi dagli idealismi che lo accompagnano da millenni. Platone, Moro, Campanella e – entro qualche misura – lo stesso Marx sono convinti che il modello di società ideale da loro ipotizzato sia più razionale della realtà presente, venata da una molteplicità incredibile di contraddizioni e, quindi, da superare; anche Schelling, Fichte e, soprattutto, Hegel restano saldamente legati alla nozione di “razionalità”, senza però arrivare a porla su un piano distinto dalla realtà e ad essa superiore (questo valeva soprattutto per Platone): al contrario, per questi tre idealisti il reale e il razionale coincidono perfettamente, è la realtà stessa che, nelle sue strutture profonde, è assolutamente razionale e, se talvolta non ci appare tale, è solo per un nostro errore di prospettiva. Ciò non implica – come si potrebbe essere indotti a credere – che ogni singolo accadimento sia in sé razionale, ma piuttosto che lo sia il procedere della realtà considerata nel suo complesso, nelle sue strutture generali, con la conseguenza che, in un mondo dove il reale e il razionale sono due facce della stessa medaglia, l’utopismo si sgretola e non riveste più alcuna funzione. Ma lo stesso hegelismo, pur così incline ad intendere la realtà come una totalità processuale necessaria, ha anche aperto spiragli verso l’utopismo ed è stato accolto, in questa sua insolita veste, dagli esponenti della “Sinistra” hegeliana, che hanno recepito il motto “ciò che è razionale è reale” (Hegel, “Lineamenti di filosofia del diritto”) come un’esortazione a battersi per far diventare reale ciò che a livello ideale è razionale e che pertanto merita di trovare cittadinanza nel caotico mondo concreto. Ma, ancora una volta, le vicende del Novecento ci hanno aperto gli occhi, hanno compiuto un’autentica “strage delle utopie”, mettendo in luce come probabilmente sia un bene che esse restino tali, sempre al di là del reale, modelli asintotici a cui avvicinarsi sempre più senza mai raggiungerli definitivamente.
Ma perdere del tutto la fede nell’utopia significherebbe, in fin dei conti, sentirsi appagati dalla realtà presente, che pure è sconvolta da così tante imperfezioni e difetti, e smarrire un ideale dalla cui luce trarre ispirazione per percorrere la strada infinita del perfezionamento. Popper su questo punto ha ragione: una società certa della propria perfezione perderebbe ogni stimolo a migliorarsi e a guardare ad altri modelli. Solo una società “perfetta” come quella delineata da Marx, dove viene meno la necessità di creare utopie e l’uomo stesso diventa Dio, può ripiegarsi interamente su se stessa, senza volgere altrove lo sguardo; ma è dal tragico fallimento del progetto marxiano che si debbon prendere le mosse, tenendo conto che quei problemi che Marx e Lenin avevano erroneamente creduto di risolvere non sono stati risolti da nessun altro, ma incombono ancora oggi in tutta la loro atrocità: la fame nel mondo, il sottosviluppo di alcuni Paesi, l’iniqua distribuzione delle ricchezze che ha da tempo spaccato in due parti distinte la Terra, lo sfruttamento, e mille altri problemi di cui si sente continuamente parlare e della cui esistenza tutti sappiamo, ma che, non per questo, cessano di sussistere. Ed è qui che entra in gioco l’utopia, come modello di società perfetta in cui a tutti sia dato condurre un’esistenza perfetta, felice e pacifica; ma tale modello non deve precipitare dall’alto improvvisamente, come è capitato in Russia o a Cuba, con un immediato intossicamento dell’utopia da parte della realtà; piuttosto, deve essere rincorso nella consapevolezza che non sarà mai possibile attuarlo così com’esso si presenta idealmente: deve, appunto, restare un modello da cui prendere spunto per creare non già una società perfetta, bensì meno ingiusta; non una società dove regni incontrastata la felicità, ma piuttosto dove l’infelicità diminuisca; una società dove la proprietà non venga meno, ma piuttosto riceva una più equa distribuzione. Si tratta – è evidente – di una realizzazione che in parte tradisce il modello, ma lo fa consapevolmente, tenendo presente la grande lezione del Novecento sull’impossibilità di calare in toto l’utopia nella realtà materiale: il modello – proprio perché tale – sarebbe il meglio, poiché metterebbe al bando ogni forma di ingiustizia, di prevaricazione, di guerra, garantendo un mondo che – se idealmente considerato – sarebbe perfetto; ma bisogna fare i conti con la realtà, ed è qui che si è sempre arenato il progetto degli utopisti, accomunati – oltrechè dalla volontà di migliorare il mondo – dalla scarsa attenzione per la realtà, come se si fossero fatti accecare da quell’”Idea del bene” che Platone paragonava al Sole. La realtà non è un qualcosa che facilmente si lasci plasmare e recepisca agevolmente la forma dell’utopia: è anzi, per sua stessa natura, refrattaria e allo stesso tempo ostica, impossibile da padroneggiarsi; e – quel che forse è meno facile a credersi – gli uomini stessi che la popolano, e che di essa sono in certo senso schiavi, lottano per difenderla così come è, svolgendo in questo modo una funzione conservatrice che ben si inquadra nella categoria marxiana di “ideologia”: il benestante, il borghese, l’uomo di Chiesa, non cambierebbero una virgola della realtà, non ne smuoverebbero uno solo degli infiniti atomi che la compongono, perché sono visceralmente attaccati ad essa e alla sua struttura, sono parte integrante del sistema, a al punto da non riuscire a guardare al di là. Ma gli stessi operai e, più in generale, gli sfruttati dal sistema tendono in generale ad assuefarsi all’andamento del sistema, senza accorgersi di come esso possa essere cambiato e, magari, spezzato, per poi essere sostituito da uno diverso: anch’essi finiscono per svolgere una funzione conservatrice, di difesa per la realtà e ostile a chi vuol modificarla. Solo in pochi si sono accorti e si accorgono di come il sistema non sia qualcosa di assoluto, ma piuttosto un ordinamento storicamente determinato, un qualcosa che, pur nella sua datità, potrebbe non esserci: a costoro ogni singola parte della realtà pare contrastante, stridente e da cambiare; ad essa sanno opporre un modello ideale rivoluzionario, capace di ribaltare il tutto in meglio. L’utopia è per loro la lanterna che getta luce sull’oscurità del reale, è assimilabile all’Idea del Bene platonica, che permette di vedere la realtà sotto una nuova e diversa luce, la luce critica della contestazione di ciò che è; dopo averla vista, non possono rimanere nell’inerzia, ma sentono un impulso a cambiare lo status di cose, un impulso che in primis si manifesta nella sua pars destruens come necessità di abbattere il sistema: così oggi vediamo sulle piazze individui che “lottano”, non sanno di preciso per cosa, ma lottano, è filtrata fino ai loro occhi la luce abbagliante dell’utopia, della necessità di cambiare le cose. Combattono in modo rudimentale, senza scopi precisi, poiché non hanno contemplato nella sua interezza il modello utopico: ma hanno presagito la funzione drogante del sistema, la sua carica inibitoria, la sonnolenza che si è impossessata di tutti coloro che ad esso sono piegati e che non riescono a vedere al di là. Questi “guerriglieri” del giorno d’oggi non hanno certezze, ma agiscono in base ad intuizioni: più precisamente, in base all’intuizione che così come è il sistema non va, è gestito da e a vantaggio di pochi, ma ciononostante è difeso dalla stragrande maggioranza, che ne è assorbita e incatenata. Il loro utopismo sta, per ora, nella negazione dei valori e delle regole vigenti: la stessa scienza e la tecnica, per Marx acquisibili mediante il metodo dialettico, diverse sia dall’ideologia, sia dall’utopia, a partire dai pensatori della Scuola di Francoforte e, soprattutto, da Horkheimer sono anch’esse causa ed espressione, al tempo stesso, del dominio totale di una società
MONTAIGNE SCOPRITORE DEL MODERNO E DEL PENSIERO DEBOLE
Montaigne eurhthV del moderno
Tutti concordiamo, almeno in linea di principio, sul fatto che l’età moderna cominci laddove finisce il Medioevo: ma, non appena ci domandiamo quali siano gli autori che incarnano col loro pensiero l’avvio della modernità, le prospettive cominciano a divergere. Una lunga tradizione che trova la sua prima formulazione nella celebre opera di Jacob Burkhardt La civiltà del Rinascimento in Italia e che giunge, passando per diverse e – spesso – contrastanti tappe, fino a Giovanni Gentile, tende a leggere nei trattati celebrativi del genere umano fioriti soprattutto nel Quattrocento la prima e compiuta teorizzazione del moderno: scritti platonici come l’Orazione sulla dignità dell’uomo di Pico e la Teologia platonica di Ficino, o trattati sensu lato aristotelici come il De avaricia di Bracciolini, il De familia di Leon Battista Alberti o il De dignitate et excellentia hominis di Manetti, segnerebbero pertanto la nascita della modernità, di una modernità che tuttavia prenderà piena coscienza di sé soprattutto con il Discorso sul metodo di Cartesio, che del mondo moderno costituisce il manifesto. Ma questa prospettiva, che così a lungo è parsa inattaccabile, scricchiola non appena ci domandiamo quali siano i tratti distintivi del moderno: a tal proposito, la definizione fornita da Hegel pare illuminante; egli asserisce che il moderno consiste in una conversione dal cielo alla terra, mettendo in luce come la differenza più evidente – almeno in prima analisi – tra l’età medievale e quella moderna sia da rintracciarsi in una diversa concezione del mondano e del terreno: mero teatro in cui si vedono all’opera le qualità dei singoli individui che così possono guadagnarsi l’accesso alla vita eterna, il mondo terreno, infestato dai mali e dalla presenza di un diavolo che ci tenta in ogni istante, è per i Medioevali una semplice anticamera al vero mondo celeste, di fronte al quale il nostro perde ogni valore. Al contrario, nell’età moderna – un po’ come era accaduto con i Sofisti e con Socrate dopo le indagini cosmiche e fantasmagoriche dei fusiologoi – gli uomini tornano coi piedi per terra, abbandonando i nebbiosi cieli della vita eterna e prendendo coscienza di come quello in cui quotidianamente si trovano a vivere sia il mondo reale, con l’inevitabile conseguenza che la prospettiva teocentrica cede il passo a quella antropocentrica, le certezze rivelate dai Testi sacri vengono sostituite da una ragione che – ridestatasi dopo il lungo letargo medievale, in cui era relegata al ruolo di ancilla theologiae – torna ad essere socraticamente curiosa di tutto. Ma la conversione di cui parla Hegel non consiste esclusivamente in un abbandono dei cieli della religione, ma anche di quelli – altrettanto nebulosi distanti dalla vita reale – della metafisica e delle sue certezze inattaccabili: le categorie platonico-aristoteliche del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto assolutamente intesi si fanno in disparte e il loro posto è ora occupato da nuovi parametri saldamente legati alla vita nella quale siamo immersi: subentrano le mondane categorie dell’utile, del conveniente, del vantaggioso, tutte accomunate da una rinuncia alla pretesa di cogliere il mondo quale effettivamente è, e dall’accettazione di una più modesta e risicata prospettiva che renda conto di che cosa è al singolo utile di volta in volta. In una tale ottica, le categorie totalizzanti adottate dalla metafisica risultano a dir poco chimeriche ed illusorie, fantastiche e inapplicabili alla realtà, quasi come se nella ricerca platonica e aristotelica delle essenze universali si fossero perse di vista le entità individuali che popolano il mondo reale: il metafisico – tanto quello platonico-aristotelico quanto quello cristiano – può allora essere a ragion veduta accostato a Talete, che – scrutando il cielo – smarriva il contatto con la terra, precipitando nei pozzi e facendosi perciò deridere dalle serve. Ma se la modernità consiste in un ritorno coi piedi a terra dopo il lungo quanto improduttivo volo della metafisica, possiamo davvero dire – in sintonia con la tradizione avviata da Burkhardt – che gli archegeti di questa nuova età siano Pico, Leon Battista Alberti, Ficino, Bracciolini, e tutti gli altri autori di trattati del primo Quattrocento? Se soffermiamo per un attimo la nostra attenzione sulla già citata Orazione sulla dignità del genere umano di Pico ci accorgiamo facilmente di come la conversione dal cielo alla terra sia più apparente che reale: l’uomo è sì per Pico il supremo tra gli esseri del creato, in quanto capace – grazie al libero arbitrio – di innalzarsi a Dio o di abbassarsi ai bruti, ma in definitiva mantiene il cielo come mèta ultima (platonica e insieme cristiana) dell’uomo, restando in tal maniera lontanissimo dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. La stessa immagine dell’uomo che affiora dal pensiero di Ficino pare non riuscire a smarcarsi del tutto dal cielo: pur insistendo egli – in termini spiccatamente antropocentrici – sull’assoluto primato di cui l’uomo (inteso come copula mundi) può vantare all’interno del cosmo, ciononostante non rinuncia a porre Dio come punto supremo a cui l’uomo tende. Sul versante in senso lato “aristotelico” ci imbattiamo in un reale svincolamento dai cieli cristiani, ma non per questo possiamo affermare di trovarci dinanzi al moderno: tutti questi autori (Alberti, Manetti, Bracciolini) restano saldamente legati alla prospettiva aristotelica dell’uomo come campione di virtù, capace di coprirsi di una nobiltà acquisita per merito e non per via ereditaria. Sicuramente questa variante è più “moderna” rispetto a quella di Pico e di Ficino, ancora così legati al “cielo” e distanti dalla “terra”, ma non è ancora corretto dire che in questi autori si trovi la modernità, altrimenti ci troveremmo costretti ad ammettere ch’essa consista in una ripresa anacronistica dell’etica aristotelica della virtù e dell’ottimismo che da essa trasuda. Nella tesi che intendo sostenere, è con Montaigne che si spalancano le porte del moderno, concepito – seguendo la definizione hegeliana – come ritorno sulla terra, ma anche come rifiuto di quel principio di autorità a cui costantemente ricorrevano i Medioevali e come trionfo del dubbio sulla certezza metafisica, aspetto, questo, da cui scaturisce un necessario privilegiamento per le piccole conoscenze che quotidianamente facciamo nella nostra personale esperienza di contro alle grandi quanto illusorie certezze metafisiche di comprendere in toto la struttura del mondo. Sarà pertanto utile fare costante riferimento al pensiero di Cartesio, che abbiamo detto essere l’autore con cui il moderno prende piena coscienza di sé e giunge alla consapevolezza che le modalità di ricerca seguite dai predecessori, se non hanno saputo darci alcuna certezza, vanno abbandonate; si tratterà allora – dopo essersi congedati dalla filosofia precedente – di partire da zero con una nuova indagine, fissando però preliminarmente il nuovo metodo da seguire: ed è a tal proposito che Cartesio stende il Discorso sul metodo. Dunque, dopo esserci sbarazzati degli umanistici quattrocenteschi in quanto o ancora troppo legati a Dio come mèta ultima o dipendenti da un sistema aristotelico di virtù oramai sorpassato, ci troviamo a dover sostenere che il moderno prenda le mosse e da Montaigne e da Cartesio, cadendo così in una (almeno) apparente aporia, dettata dalla così netta diversità tra questi due pensatori: se il moderno nasce sulle ceneri del Medioevo e dà un’immagine del mondo e dell’uomo simile a quella tratteggiata da Cartesio e da Montaigne, se ne evincerà – come minimo -, data la straordinaria differenza tra il pensiero dei due filosofi, che il moderno è segnato da un bifrontismo tale per cui l’uomo montaigneiano, dubitante in un mondo che non dà certezze, convive in perfetta armonia con quello cartesiano, certo delle sue conoscenze assolute che gli permettono di avere conoscenze (laddove esse siano “chiare e distinte”) non meno precise di quelle che ha Dio. E in effetti l’intera modernità è percorsa da due diverse scuole di pensiero, spesso in conflitto tra loro, miranti l’una a cogliere metafisicamente il reale e l’umano (Hobbes, Spinoza, Hegel, Marx) e l’altra (Pascal, Hume, Nietzsche) a mettere in evidenza l’impossibilità di compiere tale operazione, limitando perciò il conoscere umano al dubbio e all’incertezza. Ma, nonostante la convivenza (spesso conflittuale) tra queste due scuole di pensiero che abbiamo visto prendere le mosse l’una da Cartesio e l’altra da Montaigne, pare evidente che quella che pretende di cogliere la realtà e l’uomo nel suo insieme, con sottili stratagemmi metafisici, non sia genuinamente moderna, ma piuttosto segni il protrarsi nella nuova età delle posizioni metafisicheggianti emerse con Platone e Aristotele e passate per il mondo medioevale; Cartesio, che di tale posizione è il padre, sarebbe perciò, più che un nemico di Platone e Aristotele, un loro degno prosecutore, ad essi accomunato dalla volontà di raggiungere certezze salde e inoppugnabili. Sul versante opposto, Montaigne segna realmente il passaggio dai cieli (sia del divino sia della metafisica) alla terra su cui ci troviamo gettati a condurre la nostra esistenza, un passaggio che si palesa come trapasso dalle forme chiuse del sapere metafisico ad un pensiero che si forgia nel contatto con la vita, e che mai oblia le riflessioni dei predecessori. Sia Cartesio sia Montaigne inaugurano l’epoca moderna, ma solo Montaigne è veramente moderno fino in fondo, ed è nelle sue pagine che si riconoscono i lineamenti dell’uomo moderno, fluttuante nel dubbio e lontano dalle chimeriche certezze garantite da una metafisica capace di gettar nebbia sul dubbio stesso, ma non di dissiparlo con l’antidoto della reale certezza. Ci troviamo enigmaticamente dinanzi a due inauguratori dell’età moderna che ne danno due immagini diametralmente opposte, a tal punto che si potrebbe legittimamente dubitare che avessero di fronte la medesima realtà: per Cartesio il moderno è conquista di quella certezza che l’antico non è stato in grado di procurare, per Montaigne è invece rinuncia di cercare una certezza che gli antichi – così pieni d’ingegno e di sagacia – non sono riusciti a conquistare. Tutti e due volgono lo sguardo dal cielo alla terra, ma è solo Montaigne che compie quest’operazione in modo radicale, fino all’estrema conseguenza di un dubbio che arriva ad erodere anche le certezze che maggiormente paiono tali: egli infatti libera l’uomo tanto dalle catene del divino quanto da quelle della metafisica, proponendoci l’immagine di un mondo caotico in cui le certezze vengono a mancare e anche quelle che unanimemente vengono considerate tali non sfuggono ai martellanti colpi del dubbio. Cartesio, dal canto suo, libera la prospettiva dai vincoli dei cieli religiosi, ma non riesce a portare l’istanza di riappropriazione della terra fino in fondo, restando saldamente legato al cielo per quel che concerne la rigorosa veduta metafisica di cui il suo pensiero si nutre. Il suo è – per così dire – un ritorno sulla terra solo a metà. Se gli antichi e illustri filosofi non han saputo raggiungere la certezza, ciò è avvenuto solo in forza dello scorretto metodo da essi dispiegato: sicchè basta mutar metodo per poter comprendere il mondo nella sua interezza, poiché la ragione umana è onnipotente, illimitata e perfetta, a patto che venga correttamente impiegata. E l’onnipotenza della ragione, sulla quale Cartesio imposta l’intera sua filosofia, è quanto di meno moderno possa esserci, giacchè era stata l’età antica che, giungendo in ciò all’apice con Platone e – soprattutto – con Aristotele, aveva nutrito una fiducia illimitata nelle sue potenzialità, senza riuscire ad accorgersi – nella foga – dei limiti intrinseci ed ineliminabili che essa presenta e sui quali non potrà mai trionfare. La ragione così come la intende Cartesio, onnipossente e incontrastata, capace di produrre conoscenze assolutamente certe, verrà non a caso messa alla berlina dai più grandi pensatori dell’età illuministica, che resteranno sì fedeli alle potenzialità gnoseologiche dell’uomo, ma nella consapevolezza che esse siano pur sempre limitate e impossibilitate a conoscer tutto: così Kant instaurerà un immaginario tribunale della ragione, in cui essa svolge la duplice mansione di giudice e di imputato, poiché è essa stessa ad indagare sui propri limiti costitutivi. Ancora Voltaire non esita minimamente ad attaccare Cartesio e la sua concezione della ragione illimitata e inattaccabile, che pretende di conoscere ogni cosa ma che in realtà non arriva a nulla e, più che risolvere i problemi, ne genera di nuovi: così Micromega – nell’omonimo scritto -, gigante proveniente da un altro pianeta, si fa beffe della dottrina del pensatore francese, rivelando invece una certa simpatia per il pensiero di Locke, con il quale Voltaire stesso è in sintonia: di contro alla ragione sconfinata e acritica, dogmaticamente certa di sé, Locke aveva invece ridimensionato tale fede, prospettando l’immagine di una ragione accostabile ad una candela capace illuminarci il cammino, ma di una luce fioca e insufficiente per cogliere la realtà nella sua interezza. Tuttavia, anche per Locke e per gli Illuministi, la ragione resta essenzialmente l’unico mezzo di cui l’uomo dispone nella sua indagine e deve quindi servirsene a trecentosessanta gradi, pur nella consapevolezza che non potrà mai conoscere ogni cosa, ma che potrà almeno portarci a smontare e a dichiarare l’inattingibilità di alcuni concetti tipicamente metafisici tramandatici dalla tradizione. La differenza tra Locke e Cartesio si configura allora come differenza tra il moderno in senso pieno e il moderno in senso parziale, che si è sì svincolato dai cieli della religione, ma resta ancora vincolato a quelli della metafisica: Locke sa bene che ogni nostra conoscenza, per quanto profonda possa essere e sempre e di nuovo integrata da altre, non potrà mai esaurire la realtà; per Cartesio, invece, la ragione può tutto, cosicchè, se ben condotta, può portarci alla comprensione dell’intera realtà. Una ragione siffatta, però, finisce paradossalmente per configurarsi come irrazionale, poiché rinuncia impulsivamente a porsi questioni critiche sulla legittimità del proprio operato: il razionalismo cartesiano tende così a naufragare in un irrazionalismo di fondo. Dicendo che la prospettiva critica, rinunciataria e volutamente distante dalle certezze metafisiche, è quella che sta alla base del moderno, non intendiamo sostenere che invece la veduta cartesiana sia antiquata e sorpassata: chè altrimenti non si spiegherebbe come autori che rientrano a pieno titolo nella modernità – quali Hegel o Marx – restino ancora in certo modo fedeli ad un modello metafisicamente onnicomprensivo del reale; semplicemente, intendiamo sostenere che il loro è il trascinarsi in età moderna di un pensiero che è tutto fuorchè moderno. Dal canto suo, Montaigne – che è e resta un umanista tout court, sebbene sia espressione di un umanesimo ormai in crisi – si muove con una certa circospezione quando tratteggia il campo di applicabilità della ragione, anticipando in tal maniera le riflessioni di Locke e degli Illuministi: lontanissimo dalla prospettiva cartesiana, egli ravvisa nella ragione un proficuo strumento in grado di fornire, più che certezze assolute, utili accorgimenti per la vita comune, validi consigli per muoversi nella caoticità di un’esistenza di per sé priva di certezze; dai cieli della metafisica a cui ancora volgeva lo sguardo Cartesio, Montaigne è tornato coi piedi per terra, soffermando l’attenzione non sulle nebbiose conoscenze metaempiriche e onnicomprensive – che ci inducono a creder di abbracciare tutto, quando in realtà non stringiamo che vento -, ma su quelle orientate all’utile per l’uomo, virando in tal modo verso il moderno (e in ciò la differenza con Cartesio è inconfutabile). Ben si attaglia allora al pensiero di Montaigne l’immagine della ragione come candela in grado di gettare una tenue luce sul nostro cammino: proprio perché si tratta di una candela, resteranno necessariamente oscure molte zone (anzi: quasi tutte) del reale, cosicchè sarà opportuno vagliare con attenzione le opinioni che in merito han formulato gli antichi, poiché la verità non è stata da noi colta più di quanto non lo sia stata da loro. Ecco spiegato il titolo dell’opera montaigneana: “Saggi” innanzitutto nel senso del saggiare con circospezione critica il terreno per appurarsi che esso sia abbastanza consistente per essere percorso, il che mette in luce quell’istanza critica e sempre diffidente verso le presunte certezze che invece manca a Cartesio. Montaigne, più modestamente rispetto al suo collega, non pretende di conoscere il mondo nella sua interezza, ma si accontenta di frugare fra le pieghe dell’animo umano, fluttuando costantemente nel dubbio, dal quale non riuscirà mai ad uscire completamente, rivelando in ciò una matrice scettica. Nel capitolo XXVI dei “Saggi”, egli scrive significativamente: “soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti”, aggiungendo a conferma della funzione conoscitiva del dubbio il verso dantesco: “che non men che saper dubbiar m’aggrada”. Il fatto stesso che nessuno degli antichi – con cui nel suo scritto Montaigne dialoga costantemente in una conversazione al di là del tempo – abbia raggiunto certezze assolute dovrebbe indurci a ridimensionare la nostra convinzione di poter riuscire laddove tutti han fallito, di fronte ad una realtà configurantesi come un groviglio inestricabile, che è a dir poco illusorio credere di poter sciogliere; la posizione del saggio sarà allora quella di chi – liquidando la chimerica pretesa di conoscere il reale nel suo complesso – si accontenterà di piccole conoscenze utili per la vita quotidiana, conoscenze che, in forza di tale aspetto ridimensionato, non possono che essere strutturalmente deboli. Anche Cartesio fa del dubbio il suo cavallo di battaglia, ma in modo del tutto diverso: Montaigne parte dal dubbio e vi rimane, prendendo atto dell’impossibilità di conoscenze “forti” che rendano conto della struttura del reale; in Cartesio il dubbio è un gradino per raggiungere la certezza, si serve di esso per eliminarlo: revocata in dubbio ogni cosa, non appena rinviene nel cogito, ergo sum l’incontestabile punto archimedico su cui far poggiare una conoscenza illimitata e certa, che non possa essere in alcun modo corrosa da dubbi. Anzi, se egli abbatte l’edificio del sapere tramandato dagli antichi è proprio perché esso poteva troppo facilmente essere attaccato (e di fatto lo era) da dubbi in grado di farlo vacillare: il suo obiettivo è di ricostruirlo da zero su nuove basi incontestabilmente certe, che non lascino più alcuno spazio ai dubbi. Tanto più che quello di Cartesio non è un dubbio genuino, di cui egli sia stato effettivamente in balia: il suo è invece un dubitare meramente metodico e artificiale, un voler dubitare su cose di cui in realtà si è certi per considerare quali conseguenze ne derivino.
Merita, a tal proposito, per meglio comprendere questa divergenza di vedute, affidarci ai testi stessi dei due pensatori. Scrive Cartesio nel Discorso sul metodo:
“non imitavo, gli scettici, che dubitano solo per dubitare e ostentano una perenne incertezza: al contrario, ogni mio proposito tendeva soltanto a raggiungere qualcosa di certo, e a scartare il terreno mobile e la sabbia, per trovare la roccia e l’argilla”. E più avanti egli prosegue: “presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo” (Discorso sul metodo, parte IV). Dai due passi testé riportati, affiora chiaramente il proposito e l’esito del pensiero cartesiano: egli muove da certezze che però la tradizione non è riuscita a dimostrare tali, e, per riuscire laddove i suoi predecessori han fallito, Cartesio gioca la carta del dubbio, mettendo strumentalmente in forse ogni cosa per poter trovare un punto assolutamente fermo (il cogito, ergo sum) sul quale edificare una filosofia della certezza. Scrive invece Montaigne: “io non sono pienamente signore di me stesso e dei miei impulsi. Il caso ha più potere di me in ciò. L’occasione, la compagnia, lo stesso tono della mia voce traggono dal mio spirito più di quanto vi trovo quando lo esploro e lo uso per mio conto. […] Mi capita anche questo: non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per l’investigazione del mio giudizio. Posso aver gettato là qualche arguzia nello scrivere. (Voglio dire: spuntata per qualcuno, acuta per me. Ognuno dice ciò secondo le proprie capacità). L’ho smarrita al punto di non sapere che cosa ho voluto dire; e un estraneo talvolta l’ha scoperta prima di me. Se usassi il raschietto ogni volta che ciò mi accade, mi cancellerei del tutto. L’occasione mi offrirà qualche altra volta luce più chiara di quella del mezzogiorno; e mi farà stupire del mio esitare” (I, 10). La prospettiva cartesiana è ribaltata: il dubbio di Montaigne non è artificiosamente impiegato, ma genuino ed in esso egli resta impigliato a tal punto da non trovar via d’uscita: perfino la sfera dell’interiorità ne è contagiata, sicchè l’io non costituisce il punto cardinale su cui far leva per sfuggire al dubbio, ma è anzi un’incerta zona d’ombra alla pari della realtà esterna, una zona in cui non si ha potere e in cui, addentrandosi, si finisce per smarrire la via. Sicché Cartesio si adopera per individuare un metodo in grado di guidare la ragione umana ad una certezza così salda da non poter più essere scalfita da alcun dubbio, e sebbene presenti – nel Discorso sul metodo –, con una forma di modesta autodiminuzione, il proprio procedere come un’acquisizione meramente soggettiva, senza alcuna pretesa di universalità, non si fatica a comprendere come in realtà egli sia assolutamente certo che il suo metodo sia inattaccabile e applicabile universalmente. Dal canto suo, Montaigne mette preventivamente in guardia il lettore, nella prefazione ai Saggi, dal ritenere che il suo scritto sia animato dalla pretesa di dispensare verità o precetti universalmente validi e utili, giacchè “mes forces ne sont pas capables d’un tel dessein”: al contrario, il fine dell’opera appare notevolmente ridimensionato se raffrontato con l’intento universalistico che, seppur taciuto, Cartesio rivendicava, e può essere in certo senso ridotto (ed è ciò che Montaigne stesso fa) all’utilità personale dello scrittore stesso, il quale, nel comporre l’opera, ha l’opportunità di meglio addentrarsi nella conoscenza di se stesso, di quell’io che – come abbiam già rilevato – sfugge alla certezza riconosciuta da Cartesio. Al preteso universalismo di stampo metafisico che soggiace alle opere cartesiane si oppone l’utilitarismo personalistico di Montaigne, che scrive non già per imbandire verità o nozioni valide e utili per tutti gli uomini, bensì per conoscersi meglio (e per farsi meglio conoscere dai suoi amici più intimi), secondo l’antico motto delfico gnwqi sauton. Ma tale solenne imperativo è, nel caso di Montaigne, destinato a rimanere incompiuto, giacchè il dubbio che travaglia il filosofo francese non risparmia neppure la sua interiorità, cosicché può essere a ragion veduta ripreso l’antico aforisma di Eraclito secondo cui “per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos” (Eraclito, fr. 45 Diels-Kranz). Ma – domandiamoci – non è forse il dubbio, questo inseparabile compagno del filosofare montaigneano, una delle più tipiche e abituali componenti dell’uomo moderno? Più che raccoglier certezze, non deve egli seminare dubbi? Ne segue che l’immagine dell’autentico uomo moderno si rispecchia molto più nel pensiero sempre e di nuovo dubitante di Montaigne che non in quello di Cartesio, dogmaticamente riposante su verità già accertate. Pare quanto meno enigmatico che due uomini così diversi e inaccostabili fra loro siano entrambi i fondatori dell’età moderna. Lo scetticismo a cui Montaigne costantemente si richiama è il più fulgido shmeion della sua insofferenza per le certezze di ogni sorta: nello scontro tra il dogmatismo cartesiano e il criticismo montaigneano possiamo leggere in filigrana l’affacciarsi sullo scenario filosofico di quella distinzione – magistralmente colta da Vattimo – tra il “pensiero forte”, certo delle sue verità (in nome delle quali è anche pronto a brandire la spada) e il “pensiero debole”, rifiutante le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive, consapevole dei propri limiti intrinseci e, perciò, pronto ad aprirsi agli altri, poiché – non potendo essere mai data la verità nella sua interezza – è solo dal confronto e dal dialogo che la conoscenza può andare via via arricchendosi, senza tuttavia mai giungere a traguardi ultimi. L’apertura verso gli altri – da Vattimo intesa come un progressivo aprirsi verso le culture “altre”, da sempre tacitate e represse in nome di una presunta verità di cui esse non partecipavano – è presente in Montaigne nella misura in cui egli dialoga con gli antichi e con i contemporanei, introducendo e discutendo – all’interno dei suoi scritti – numerose loro opinioni; Cartesio, dal canto suo, nella fortezza del suo pensare metafisico, non sente questa esigenza, e il suo si configura, più che come un dialogo, come un monologo, tipico di chi è convinto di possedere la verità: nel “Discorso sul metodo”, egli scrive che “a conversare con gli uomini del passato accade quasi lo stesso che col viaggiare. E’ bene conoscere qualcosa dei costumi di altri popoli, per poter giudicare dei nostri più saggiamente […].Ma quando si spende molto tempo nei viaggi, si diventa alla fine stranieri in casa propria”. Da ciò emerge benissimo come il rapporto intrattenuto da Cartesio con gli antichi e, in generale, con gli altri non sia mirante ad un autentico arricchimento del proprio sapere, ma, piuttosto, per prendere coscienza che esistono pensieri diversi dal nostro, a cui però non è bene appressarsi troppo, per non correre il rischio di diventare “stranieri in casa propria”. Per Montaigne, imperando il dubbio, non si può mai aver certezza che quanto asserito dagli altri sia meno vero rispetto alle nostre credenze, poiché manca un termine di paragone a cui riferirsi: da qui scaturisce il costante riferimento al pensiero altrui, ciceronianamente esposto in maniera dossografica, senza mai accordare la palma d’oro a nessuna corrente filosofica, salvo poi nutrire una certa simpatia per le posizioni scettiche. Ma non è per questo motivo lecito nemmeno fare – sulle orme di Socrate – una stabile e dogmatica professione di non sapere, cosicchè la formula perfetta non é quella degli antichi “io non so” (a sua volta ricadente nel dogmatismo) , ma “che so io?”; ciò è forse dovuto al fatto che la realtà stessa sia soggetta ad un fluire incessante che la rende cangiante in ogni momento, cosicchè – riprendendo Eraclito ed Epicarmo – Montaigne può dire che non possiamo immergerci due volte nelle stesse acque o che l’invito a cena non vale più il giorno dopo poiché non siamo più gli stessi. A coronamento di questa situazione abbandonata da ogni certezza, Montaigne si chiede aporeticamente “che cosa veramente è?”, domanda destinata a restare in lui irrisolta. Infatti, a dispetto di quanto crede Cartesio, non siamo in alcun contatto col vero essere delle cose e chi si ostina a voler attingere l’essere, fa come chi volesse, stringere nel pugno l’acqua, che più la stringi e più schizza via dappertutto. Sotto questo profilo, la posizione scettica è da Montaigne riconosciuta come quella che meglio si adegua ad una realtà inattingibile quale è quella circostante, nella quale abitualmente ci muoviamo con troppa certezza, senza interrogarci sul significato delle nostre azioni più comuni. Così Cartesio, partito dal dubbio, lo seppellisce ben presto, ripristinando una certezza ancora più metafisicamente indubitabile di quella tramandata dagli antichi; sull’altro versante, Montaigne – in ciò pirroniano fino in fondo – non trova vie d’uscita e, perciò, resta nel perpetuamente rinnovantesi circolo del dubbio, finendo paradossalmente – al fine di evitare di cadere in contraddizione – per dubitare perfino di dubitare. Sicchè l’uomo della modernità quale viene presentato da Cartesio è l’uomo erede della tradizione umanistica, la pedina fondamentale che si muove sulla scacchiera del mondo terreno, di cui può conoscere anche gli anfratti più nascosti attraverso una ragione metafisicamente “forte”, a cui nulla resta celato; al contrario, l’uomo che emerge dagli scritti di Montaigne è un uomo più attaccato alla mondanità, giacchè si è liberato dei ceppi sia del dogmatismo religioso sia di quello metafisico, ma ciononostante è di inferiore statura rispetto all’onnisciente uomo cartesiano che, equipaggiato di una ragione “forte”, può conoscere tutto; infatti, pur coi piedi per terra, egli non può conoscere fino in fondo la realtà in cui si trova immerso, non è il centro del creato, ma uno degli infiniti granelli che lo costituiscono e – poiché, per dirla con Orazio, parvum parva decent – la conoscenza di cui può disporre – conseguibile con sforzi immani – sarà sempre e comunque debole e incerta, poiché la ragione stessa è affetta da una certa miopia connaturata.
Sarebbe però fuorviante e, al contempo, riduttivo credere che Montaigne approdi al dubbio esclusivamente perché suggestionato dalla lettura del pensiero scettico, giacchè quest’ultimo – a ben vedere – si configura più come conferma che non motore del dubbio montaigneano, acceso primariamente dal particolare momento storico in cui il pensatore francese si è trovato a vivere e di cui il suo pensiero è, in certo senso, uno specchio; non a caso, si tratta di un periodo storico profondamente segnato dall’improvviso crollo di buona parte di quelle certezze che avevano fino ad allora accompagnato l’uomo occidentale lungo il suo cammino. Il primo caposaldo a franare in questa strage di certezze è l’assoluta certezza della propria fede che ogni cristiano in cuor suo nutriva: infatti, con i dissidi religiosi divampati in seguito alla vibrata protesta luterana, che aveva a sua volta acceso la miccia per l’esplodere di altri movimenti di opposizione al cattolicesimo (primo fra tutti il calvinismo), era entrata in crisi la certezza – fino ad allora incrollabile – del cristiano, il quale ora si trova dilaniato dal dubbio nel dover scegliere la vera religione da professare, disorientato dinanzi ad un proliferare di diversi credo religiosi che, per forza di cose, si trovavano a coesistere. La stessa scoperta dell’America aveva travolto la certezza, da sempre nutrita dall’uomo europeo – salvo le eccezioni, che, seppur sporadiche, non mancarono), di essere al centro della terra, certezza ulteriormente demolita dalle teorie di Copernico che, sebbene fossero state presentate dal pensatore polacco solo come ipotesi, prospettavano insidiosamente l’idea che l’uomo europeo non solo non fosse al centro della terra, ma neanche dell’universo, facendo così tramontare definitivamente la prospettiva ficiniana dell’homo copula mundi, trapassante ora nella più mesta constatazione di Giordano Bruno secondo cui umbra profunda sumus (De umbris idearum). Questa congerie di dubbi assillanti confluisce interamente nella riflessione di Montaigne e trova il suo più adeguato adattamento nel pensiero scettico, che per primo aveva messo in luce in maniera così netta i limiti intrinseci un uomo isolato nella fluidità dell’universo e movente verso una verità a cui mai potrà approdare; ed è proprio il pensiero scettico che sventola come vessillo dell’antidogmatismo contrapposto ai “cieli” della metafisica e della religione, che non a caso avevano ravvisato in esso il loro acerrimo nemico, capace di gettar scompiglio nelle presunte certezze metafisicamente propugnate.
Ma, nonostante lo scetticismo che informa il pensiero montaigneano e ne fa un baluardo dell’età postmetafisica, sembra che nel rifiuto cartesiano della tradizione antica, volto a fondare su basi certe e stabili l’età moderna, ci sia molto più di moderno che non in Montaigne e nel suo costante dialogare con i pensatori del passato: si tratta però solo di un’apparenza, destinata a crollare non appena ci domandiamo se l’età moderna, nella sua profondità, si sia davvero svincolata da ogni legame con la tradizione antica o, piuttosto, se non sia ancora strettamente legata ad essa. A tal proposito, Heidegger dice significativamente che noi moderni non facciamo altro che chiosare Platone e Aristotele, mettendo in questa maniera in luce la stretta dipendenza – che Cartesio aveva tentato di recidere – che ci lega agli antichi; ancora Hegel – che pure nell’intendere la filosofia è molto più prossimo a Cartesio che non a Montaigne – propone il proprio sistema come risposta alle domande poste dai Greci, e similmente il pensiero di Nietzsche e di Freud nasce sulle venerabili rovine del mondo antico, di cui la nostra età è figlia. Se ci soffermiamo anche solo brevemente sugli altri pensatori che costellano l’età moderna, non possiamo non ravvisare tale dipendenza col mondo antico e con le sue realizzazioni, soprattutto con quella stagione felicissima della storia umana che coincide con il mondo dei Greci.
C’è un passo – nell’apologia di Raymon Sebond – che costituisce un punto nodale del pensiero di Montaigne, un passo in cui vengono ad incontrarsi pressochè tutte le diverse prospettive del suo pensiero: “quand je me joue à ma chatte, qui sait si elle passe son temps de moi plus que je ne fais d’elle?” Da questa divertente domanda traspare quel dubbio che alimenta l’intera filosofia montaigneana e che arriva a travolgere perfino gli aspetti più scontati della nostra vita quotidiana, quale può appunto essere il nostro rapporto con gli animali domestici: che cosa può infatti garantirmi che, nel momento in cui gioco con la mia gatta, essa non si stia divertendo più di me? Non c’è nulla, evidentemente, che possa dissipare tale dubbio, cosicché peccano di un ottuso dogmatismo coloro i quali vivono nella certezza pregiudiziale di essere al centro del mondo, come voleva la tradizione umanistica da Pico ad Alberti, da Ficino a Valla. Ciascuno di noi finisce per essere in maniera protagorea la misura della realtà che lo circonda, il che non solo è legittimo, ma è anzi del tutto inevitabile, poiché ognuno vede sempre e comunque il mondo coi propri occhi; l’errore nasce quando non ci si accorge della limitatezza della propria debole posizione e si avanza l’assurda pretesa di universalizzarla e assolutizzarla metafisicamente, facendo del nostro debole punto di vista una prospettiva forte e totalizzante, alla quale uniformare la realtà. Montaigne stesso sa bene che, prima facie, la realtà appaia a tutti tale per cui i protagonisti, tanto nel giocare col gatto quanto nel muoverci nel mondo, siamo noi, ma è altresì convinto che tale certezza debba essere scavata, saggiata e, in certo modo, incrinata, poiché riposante su una convinzione dogmatica che può in qualsiasi momento essere messa in dubbio: l’età umanistica dell’uomo in bilico tra il terrestre e il divino (homo copula mundi) è ormai irrimediabilmente sorpassata, ma non certo in vista di quella che sarà la prospettiva altrettanto dogmatica e assolutizzante di Cartesio, ad avviso del quale – non diversamente da Aristotele – l’uomo è un animale pensante il cui ufficio precipuo è di conoscere la realtà, rispecchiandola oggettivamente. Al contrario – se proprio dobbiam dare una definizione che renda conto del pensiero di Montaigne – l’uomo è e resta perennemente un animale dubitante, sospeso nel nulla e sorretto solamente dalla fede, intesa però non in maniera dogmatica, bensì come esito necessario di una ragione troppo debole per farsi strada da sé: tale concezione è contenuta in nuce in questa riflessione montaigneana: “se chiamiamo prodigi o miracoli le cose a cui la nostra ragione non può arrivare, quanti se ne presentano continuamente al nostro sguardo? Consideriamo attraverso quali nebbie e come a tastoni siamo condotti alla conoscenza della maggior parte delle cose che abbiamo fra le mani: certo troveremo che è piuttosto l’abitudine che la scienza a non farcene vedere la stranezza” (I, XXVII) . La stessa sensibilità di Montaigne per il mondo animale – sensibilità che ben emerge nel passo della gatta – pare come non mai moderna ed è anch’essa il frutto di un pensiero che, fluttuando nel dubbio, non può ricadere nella dogmatica convinzione di un’indiscussa superiorità dell’uomo o – ancora peggio – nella credenza cartesiana che gli animali siano mere macchine che, a differenza dell’uomo – “macchina che, essendo stata fatta da Dio, é incomparabilmente meglio ordinata e ha in sè movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra quelle che gli uomini possono inventare” (Discorso sul metodo) -, sono prive di ragione e di sensibilità e si muovono “solo per una disposizione dei loro organi” (Discorso sul metodo, parte V). L’uomo stesso, in una tale dogmatica prospettiva meccanicistica, altro non è se non una macchina pensante o, come ha suggestivamente sostenuto Ryle, una “macchina” abitata da uno “spettro” battezzato “spirito” o “anima”. Dal passo della gatta, poi, emerge chiaramente come Montaigne proietti sempre, con una certa modestia, la propria indagine su realtà quotidiane e, in forza di ciò, più vicine a noi, che le sentiamo a tutti gli effetti nostre perché può accadere che ci poniamo questioni analoghe: l’investigazione cartesiana che si propone di abbracciare tutto lo scibile umano, dall’universo fisico alle passioni dell’anima, appare allora un miraggio di una ragione che si crede più forte di quanto non sia e, nell’avvitarsi su questioni metafisiche sempre più alte, finisce per perdere contatto con la realtà terrena; con Montaigne si affaccia invece finalmente sullo scenario filosofico la ipermoderna categoria dell’utile – preconizzata da Machiavelli -, che detronizza quella – tipica dei tempi d’oro della metafisica – del sapere disinteressato, privo di risvolti pratici e, in virtù di ciò, di qualità superiore. La conoscenza viene in tal maniera subordinata all’utilità, cosicchè – se non produce effetti fruibili – è indegna di essere seguita: tesi, questa, che trova la sua piena formulazione in Bacone prima e nell’Illuminismo poi, che di Bacone è in certo senso figlio. Infine, merita di essere rilevato il gradevole umorismo che permea costantemente gli scritti montaigneani – fedele in ciò alla poetica oraziana del ridentem dicere verum quid vetat? – e che raggiunge uno stato di perfetta sobrietà nella gustosa scenetta di Montaigne che si diverte con la sua gatta; l’umorismo, tuttavia, non era una componente estranea neppure al pensiero di Cartesio, seppur non in maniera così radicata come in Montaigne, che trova il suo diretto precedente in tale gusto per lo scherzo e per l’umorismo raffinato in Luciano di Samosata, a cui è peraltro anche accomunato dal deciso ripudio di ogni dogmatismo – sia di tipo filosofico, sia di tipo religioso – e dalla convinzione che il pensiero umano sia connaturatamente debole. L’antidogmatismo di Luciano – questo antesignano del “pensiero debole” – si coniugava sapientemente con il gusto del comico e dello scherzo, quando egli, nei suoi scritti dissacranti e demolitori di ogni certezza, metteva in forse l’esistenza degli dèi e della loro integrità morale, assestando agli abitanti dell’Olimpo il colpo decisivo già azzardato – ma non inferto con sufficiente forza – dal Prometeo di Eschilo e dagli Uccelli di Aristofane. Del resto, nella Storia vera, l’avversione per ogni dogmatismo sfociava in un divertito e divertente tripudio della fantasia, con l’incredibile viaggio di Luciano – Astolfo ante litteram – sulla luna e su altri mondi infinitamente distanti e diversi dal nostro, fino ad essere ingerito da una balena, anticipando la sorte che toccherà a Pinocchio. Ora, soffermandosi – seppur giocosamente – su questi mondi “altri” rispetto al nostro, Luciano mette in luce come la nostra abitudine a pensarci al centro dell’universo riposi esclusivamente su una dogmatica convinzione, non altrimenti fondata che sull’ignoranza e su preconcetti accumulatisi l’uno sopra l’altro. Egli fa pertanto professione di quel relativismo culturale già predicato da Protagora e che Montaigne – in nome del suo dichiarato scetticismo – recupera, alla luce delle recenti scoperte geografiche che avevano portato a prendere coscienza dell’esistenza di popolazioni abitanti sull’altra faccia del pianeta e viventi secondo norme e costumi diversissimi dai nostri, ma non per questo inferiori e indegni di rispetto. Nella ripresa del relativismo culturale – che necessariamente scaturisce da un pensiero il cui cardine sia un dubbio mai appagato – possiamo leggere ancora una volta una componente assolutamente imprescindibile dell’età moderna, di cui Montaigne si riconferma scopritore, anticipando, in questo senso, le riflessioni relativistiche di Locke (miranti a scardinare la possibilità di idee innate), del Montesquieu delle Lettere persiane, del Voltaire di Micromega e, in generale, dell’intera narrativa di viaggi che fiorirà nel Settecento. Di fronte agli indigeni brasiliani, impietosamente etichettati come “barbari” e “selvaggi” dall’Europa in cui dilagavano le funeste guerre di religione, Montaigne assume un atteggiamento che non tradisce, ma anzi ravviva la sua posizione scetticheggiante e antidogmatica, da cui traspare un relativismo che riecheggia i versi pindarici “la consuetudine (nomoV) è padrona di tutte le cose”: “or je trouve, pour revenir à mon propos, qu’il n’y a rien de barbare et de sauvage en cette nation, à ce qu’on m’en a rapporté : sinon que chacun appelle barbarie, ce qui n’est pas de son usage. Comme de vray nous n’avons autre mire de la verité, et de la raison, que l’exemple et idée des opinions et usances du païs où nous sommes. Là est tousjours la parfaicte religion, la parfaicte police, parfaict et accomply usage de toutes choses. Ils sont sauvages de mesmes, que nous appellons sauvages les fruicts, que nature de soy et de son progrez ordinaire a produicts” (I, 31). Dal rilevato dogmatismo che ci spinge a concepire ottusamente come rozzo e indegno tutto ciò che esula dalle nostre usanze, Montaigne prende spunto per mettere in luce i numerosi aspetti che fanno della civiltà europea dilaniata dai conflitti religiosi un ben più indegno panorama rispetto al mondo dei cannibali: “je ne suis pas marry que nous remerquons l’horreur barbaresque qu’il y a en une telle action, mais ouy bien dequoy jugeans à point de leurs fautes, nous soyons si aveuglez aux nostres. Je pense qu’il y a plus de barbarie à manger un homme vivant, qu’à le manger mort, à deschirer par tourmens et par gehennes, un corps encore plein de sentiment, le faire rostir par le menu, le faire mordre et meurtrir aux chiens, et aux pourceaux (comme nous l’avons non seulement leu, mais veu de fresche memoire, non entre des ennemis anciens, mais entre des voisins et concitoyens, et qui pis est, sous pretexte de pieté et de religion) que de le rostir et manger apres qu’il est trespassé”. L’Europa non è per Montaigne il centro del mondo, né l’uomo è il cuore dell’universo: quelle che a noi paiono usanze ragionevoli, se osservate dal punto di vista di chi non ne partecipa (ad esempio i cannibali, o i Persiani di Montesquieu), si rivelano come morbosi gesti insensati, che poggiano più sull’abitudine che non sulle prescrizioni di una presunta ragione legiferante. Questi, che noi in via del tutto pregiudiziale bolliamo con l’etichetta di “selvaggi”, non possono esser detti barbari solo perché dotati di una cultura diversa, giacchè – se così fosse – noi stessi diverremmo barbari ai loro occhi, e ciascuno lo sarebbe dinanzi ad ogni altro: più che una dogmatica e violenta imposizione delle nostre “verità”, imposte con l’efferata arma della crociata, sarà opportuno aprirsi a queste culture “altre”, tentando il dialogo – ed è quel che Montaigne fa nel momento in cui cerca di comunicare con gli indigeni brasiliani condotti in Francia nel 1571 -, partendo dal presupposto che la ragione debole non ha svelato più a noi che a loro la verità e che, pertanto, la via meglio percorribile resta quella del confronto, attraverso il quale ricomporre quel mosaico dalle mille tessere che è la verità: anzi, a rigore, si potrebbe dire che non si può andar d’accordo perché si è raggiunta la verità – giacchè il raggiungimento di essa è e resta un concetto limite, un’idea nel senso kantiano -, ma, viceversa, che si è raggiunta la verità nel momento in cui si va d’accordo, quando cioè il sordo monologo di una cultura illudentesi di conoscere ogni cosa cede il passo al libero circolo di idee che trova nel dialogo la sua forma più appropriata. In questo senso, si può legittimamente affermare che lo scetticismo di cui Montaigne fa professione in sede etica e gnoseologica non si traduca, sul piano pratico, in un gretto vivere in conformità delle usanze vigenti dettato dall’impossibilità di cogliere la verità delle cose; al contrario, il dubitar di tutto induce Montaigne a dubitare anche della validità delle tradizioni, senza piegarsi – ché sarebbe un dogmatismo – ad esse, ma saggiandole una ad una con la ragione, debole sì, ma non a tal punto da non accorgersi dell’assurdità dei dogmatismi. In maniera piuttosto esplicita, il filosofo francese si richiama, oltreché a Luciano, anche a Plutarco, apprezzandolo per la sua profondità etica e, trasversalmente, per il “debolismo” che percorre, in maniera sotterranea, la sua opera e che trova forse l’apice in questa professione di antidogmatismo che apre spiragli in direzione dello scetticismo: “tutte queste cose, o Favorino, mettile a confronto con le cose dette dagli altri; e se esse avranno un grado né maggiore né minore di probabilità, manda a quel paese le opinioni, ritenendo più degno di un vero filosofo sospendere il giudizio sulle questioni poco chiare, piuttosto che darvi il proprio assenso” (Moralia, 955 c). Questo breve brano ben rende conto dello scetticismo di cui il pensiero montaigneano si sostanzia, e che approda non già a vacillanti certezze che poggiano su basi doxastiche, bensì all’epoch con cui gli antichi Scettici sospendevano il giudizio, arrivando aporeticamente a sostenere che “ che ogni cosa non è più questo che quello” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 61-62).
Con il suo fare spiccatamente antidogmatico e relativistico sul piano culturale, nonché attento al mondo animale, Montaigne – nell’Apologia di Raymond Sebond – si chiede, sulla scia di quanto aveva già fatto l’antico Senofane per smontare la concezione antropomorfica della divinità: “perché un papero non potrebbe dire così: «Tutte le parti dell’universo mi riguardano; la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a infondermi i loro influssi; ho questo beneficio dai venti, quest’altro dalle acque; non c’è niente che questa volta <celeste> consideri così favorevolmente quanto me; sono il cocco di natura; non è l’uomo che mi alleva, che mi alloggia e che mi serve?”. Pur nel dichiarare la sua simpatia per il dubitare di matrice pirroniana, l’afasia a cui approdava la scuola scettica appare inaccettabile quanto improduttiva agli occhi del filosofo francese, che ad essa oppone – mantenendo valido il presupposto che la verità resti sempre sconosciuta – un vivace dibattito che finisce per coinvolgere uomini del passato e del presente in un dialogo metastorico non su come le cose siano, ma su come sembrino ai vari uomini che di volta in volta si sono interrogati su di esse. Non è un caso che questa via fosse già stata seguita dallo stesso Cicerone, anch’egli simpatizzante per la scuola scettica, nella formulazione probabilistica datane da Carneade. Ancora una volta, tuttavia, non si tratta di una dogmatica e acritica difesa delle posizioni tramandateci dai nostri predecessori, recepite come depositarie della verità e da addurre come irremovibili certezze per inverare i propri discorsi: piuttosto, sono dei sentieri già battuti da personaggi dallo straordinario acume intellettuale e che perciò sono degni di essere presi criticamente come modelli su cui plasmare la propria indagine, facendo di essi delle guide e non dei padroni: è questo un tema direttamente mutuato dalla 33° delle Epistulae ad Lucilium di Seneca, a cui Montaigne espressamente si rifà. Infatti, di fronte ad una vita che, per la sua brevità, ci consente di esperire un esiguo numero di cose, non resta che affidarsi al pensiero di chi ci ha preceduto, per poter così estendere – seppur solo virtualmente – la propria esperienza a realtà che altrimenti non avremmo modo di conoscere, in quanto a noi precedenti: da qui nasce l’importanza che Montaigne riconosce alla filosofia e – sulla scia di Machiavelli – alla storia, intesa appunto come la conoscenza di accadimenti che di persona non avremmo mai potuto esperire. Non diversamente da come Aristotele concepiva la dialettica, Montaigne ritiene che la filosofia debba essere esercitata come un costante dialogo con i pensatori del passato, un dialogo in cui però essi possono anche essere criticati e smentiti in nome del dubbio e dell’antidogmatismo: in questo modo, Montaigne scardina un altro dei pilastri dell’età metafisico/religiosa e segna un punto nodale nella conversione al moderno: il principio di autorità (l’ipse dixit) con il quale, anziché argomentare a favore di una tesi, si adduce l’insindacabile giudizio di una personalità autorevole e, perciò, inattaccabile; con la caduta di tale dogmatica difesa degli asserti altrui, ritenuti validi più in forza della loro venerabile paternità che non della loro veridicità, la ragione torna liberamente a muoversi trecentosessanta gradi, estendo la sua presa ad ogni cosa e arrivando a mettere in discussione gli stessi dogmi metafisici e religiosi.
E così, di fronte ad un’Europa dogmaticamente addormentata nel pregiudizio che vuole i “selvaggi” come barbari e indegni di esser qualificati come uomini – e perciò da neutralizzare a tutti i costi, come attesta il caso di Francisco Pizarro e degli altri conquistadores -, Montaigne, pilotato da una siffatta ragione instancabile, ribalta la prospettiva, arrivando a tratteggiare un makarismoV in cui immagina questi uomini più felici di noi, perché immersi nella più assoluta tranquillità, in un regno in cui il rapporto con la natura si è conservato intatto, di contro ad un’Europa funestata dalle guerre, dalla brama del denaro e dalla corruzione che ne deriva: in questa contrapposizione tra un’Europa in balia della corruzione perché accecata dalla sete di potere e un mondo “selvaggio”, incontaminato e ancora in perfetto equilibrio con la natura, Montaigne anticipa ancora una volta l’Illuminismo – specie nella sua veste rousseauiana – e il suo mito del “buon selvaggio”, ingenuo e perciò intrinsecamente buono, pur con la differenza che se l’Illuminismo guarda alle culture “altre” solo per meglio comprendere la propria – restando così in una posizione saldamente eurocentrica -, il dubbio mai appagato che anima la filosofia di Montaigne spinge il filosofo francese ad accostarsi disinteressatamente agli indigeni brasiliani, nella convinzione che sul piano conoscitivo essi non fluttuino nel dubbio più di noi, ma che conducano un’esistenza più genuina perché non (ancora) contaminata dalla virgiliana auri sacra fames che ha appestato la “civile” Europa e dalle tremende macchinazioni ordite per soddisfarla, ignari di quanto “couttera un jour à leur repos, et à leur bon heur, la cognoissance des corruptions de deçà” e del fatto che “de ce commerce naistra leur ruine”. In una tale prospettiva l’Europa diventa, da centro culturale e di civiltà, covo di ogni perversione e fonte di tutte le corruzioni immaginabili, nascenti – in ultima istanza – da quel fatidico allontanamento dalla natura che ci ha portati a credere – metafisicamente – di essere onnipotenti.
L’utile egoistico e la filosofia come meditatio mortis
Uno dei portati principe dell’età moderna è l’indiscussa egemonia dell’utile tanto sulle virtù platoniche e aristoteliche quanto sulla santità cristiana, accomunate dall’essere frutto di una concezione del mondo universalizzata e, perciò, sfuggente alle particolari articolazioni del reale. Non appena volgiamo gli occhi dal cielo alla terra e ci sbarazziamo dell’ingombrante fardello dell’immagine dell’uomo come campione di virtù o come cultore della santità, ci accorgiamo improvvisamente di come ogni nostra azione ad altro non tenda se non alla nostra individuale utilità, prima fra tutte la sopravvivenza, di volta in volta garantita grazie all’accumulo di ricchezza, di potere, di amici e così via. Non c’è azione che si sottragga a questa terribile condanna. Tuttavia accade che la ragione, lungimirante e critica, prenda atto di come sia conveniente, ai fini del perseguimento dell’utile individuale, subordinarlo a quello comune, perché è solo attuando una pace con gli altri individui – miranti anch’essi alla propria autoconservazione e al proprio utile, collimante con quello altrui – che si può garantire una condizione di sopravvivenza di tutti e, quindi, anche di se stessi, uscendo in tal modo dal primitivo stato di natura, retto dalla feroce legge del bellum omnium contra omnes, ed entrando nella società civile. In qualche misura, Montaigne risente di questa lettura dell’età moderna, per la prima volta formulata in maniera esauriente e profonda da Machiavelli, per essere poi ripresa, a meno di un secolo di distanza, da Hobbes: l’uomo moderno, schiavo delle passioni piuttosto che loro signore, ma comunque in grado di indirizzarle grazie all’ausilio di una ragione calcolatrice, si trova costantemente all’inseguimento egoistico del proprio utile, in vista del quale arriva a concepire gli altri individui come meri strumenti funzionali al proprio interesse. Montaigne fa professione di egoismo fin dalla prefazione del suo scritto, allorché avverte il lettore che quanto si accinge a leggere è dedicato alla “commodité particuliere” dell’autore stesso e della ristretta cerchia dei suoi amici; ma è nel capitolo XXXIII, significativamente intitolato De la solitude, che il pensatore francese esprime le sue riflessioni più attente su tale tematica. Pur non respingendo la prospettiva aristotelica dell’uomo animale congenitamente socievole, Montaigne risente delle riflessioni di tipo utilitaristico maturate con Machiavelli e perciò muove dalla convinzione che la situazione ideale sia quella della solitudine, in cui ci si ritaglia uno spazio per se stessi, per meditare e riflettere indisturbati dagli altri e dagli eventi esterni: vi é qualcosa di ascetico in questa maniera di vivere, ma é un ascetismo mondano, che ben si distacca nel suo fine da quello medioevale del monaco isolato nel monastero e che più che al laqe biwsaV degli Epicurei (implicante un vivere lontani dalle vicende politiche, ma sempre e comunque attorniati da una cerchia di amici sinceri) può essere accostato alla massima stoica del saggio autosufficiente e vivente in uno stato di incrollabile autarkeia. Quella a cui mira egoisticamente il saggio, in vista del proprio utile, è “la vraye solitude, et qui se peut joüir au milieu des villes et des cours des Roys; mais elle se jouyt plus commodément à part. Or puis que nous entreprenons de vivre seuls, et de nous passer de compagnie, faisons que nostre contentement despende de nous : Desprenons nous de toutes les liaisons qui nous attachent à autruy : Gaignons sur nous, de pouvoir à bon escient vivre seuls, et y vivre à nostr’aise” (cap. XXXIX, La solitudine). In tal maniera, egli si conferma in bilico tra la vita solitaria ed eremitica e quella a contatto con gli altri, a cui la sua natura aristotelicamente intesa come socievole lo richiama. Aristotele aveva asserito – nella Politica – che solo Dio e le fiere possono condurre un’esistenza solitaria, l’uno perché, nella sua assoluta perfezione, basta a se stesso, le altre perché prive di ragione: ma Nietzsche correggerà la mira, aggiungendo il caso del filosofo, anfibio tra l’animale e il divino, capace di vivere appartato senza contatti con i suoi simili: in questo ripensamento nietzscheano del pensiero aristotelico possiamo in qualche modo dire che si rifletta il modus vivendi di Montaigne e del vero filosofo, quale egli lo intende, proiettato nell’introspezione e alla ricerca – costantemente aporetica – del proprio io, che Cartesio aveva colto in maniera immediata ed autoevidente. E’ l’esortazione agostiniana dell’in te ipsum redi che ritorna, ma completamente trasfigurata, poiché – come abbiamo già sottolineato – nel rivolgersi alla propria interiorità l’uomo moderno non trova quella certezza che, secondo Agostino, mancava nel mondo esterno (noli foras ire […] in interiore homine habitat verum, “De vera religione”, XXXIX, 72), ma si imbatte in un dubbio sempre e di nuovo rinascente e proliferante. Non è un caso che il cogito, ergo sum di Cartesio avesse un suo illustre precedente nel si fallor, sum di Agostino, il quale si serviva – ed in ciò è seguito a ruota da Cartesio stesso – del dubbio come gradino per innalzarsi alla Verità, giacchè è innanzitutto attraverso la certezza di dubitare che si entra in contatto – seppur solo embrionalmente – con la Verità stessa: ma Montaigne rigetta l’ipotesi agostiniano/cartesiana che si possa esser certi di dubitare, poiché riconoscere esplicitamente che si sta dubitando equivale, appunto, ad ammettere che si è in possesso della certezza di non aver certezze, facendo in tal maniera crollare il presupposto scettico.
Stoicheggiante è, in certa misura, la concezione che Montaigne ha del saggio come autosufficiente capace di condurre un’esistenza in egoistica solitudine: e di sapore accentuatamente stoico é anche il suo disprezzo per la morte, tematica, questa, che affonda le sue radici profonde in tempi remoti, ma che senz’ombra di dubbio resta al centro anche della riflessione dell’uomo moderno (da Pascal a Kierkegaard, da Leopardi a Michelstaedter), se ancora Heidegger si sofferma tanto diffusamente, in pieno Novecento, sull’essere-per-la-morte (Zum-Tode-sein). La filosofia stessa si configura agli occhi di Montaigne come meditatio mortis e, come recita il titolo del XX capitolo dei Saggi, “philosopher c’est apprendre a mourir”: richiamandosi a Cicerone, che nelle Tusculanae disputationes si era a ampiamente concentrato sull’argomento, Montaigne si ricollega direttamente al Fedone platonico, in cui Socrate, in procinto di essere giustiziato, così si rivolge ai suoi interlocutori: “tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, addolorarsi di ciò che da tanto tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura” (Fedone, 64 A e seguenti). Contrapposta ad una storia che si qualifica come magistra vitae, in quanto capace di insegnare agli uomini a vivere mostrando loro lo svolgersi degli avvenimenti passati, troviamo dunque una filosofia a cui spetta il meno gratificante compito di indagare sulla morte, che – precisa Montaigne – costituisce “le but de nostre carriere” e “l’object necessaire de nostre visee”, in quanto è il certo traguardo – su cui non pende dubbio alcuno – del nostro esistere. Se è vero che la filosofia deve occuparsi di questioni ultime, allora non v’è alcun dubbio che essa non può che configurarsi come meditatio mortis volta a fugare il vano timore che gli uomini hanno – e che da sempre li attanaglia – di staccarsi dalla vita: in questa maniera, la riflessione filosofica torna a vestirsi delle funzioni terapeutiche assegnatele da Epicuro e, in generale, dal pensiero fiorito in età ellenistica, che dell’etica aveva fatto il baricentro della propria speculazione. Sicchè Montaigne, attingendo ora dallo stoicismo antidogmatico di Seneca, ora dall’epicureismo in versi di Lucrezio, dimostra come la morte, in quanto necessario punto d’arrivo della nostra esistenza, non vada temuta, ma anzi accolta dopo una lunga preparazione durata per tutta la vita: per questa via, sgombrato il campo da quello che da sempre si presenta come il maggior motivo di sgomento e di terrore per gli uomini, è possibile vivere serenamente e in quieta felicità, concependo il termine della propria vita più come un traguardo che non come un precipizio; ecco perché “qui apprendroit les hommes à mourir, leur apprendroit à vivre”. Seneca stesso aveva insistito su come siamo spinti verso la morte fin dalla nascita e su come appartenga inesorabilmente alla morte il passato che continuamente, giorno dopo giorno, ci lasciamo alle spalle, cosicchè la vita viene a configurarsi come un incessante “correre a la morte” (Dante, Purgatorio, XXXIII, 54), o per dirla con le parole – di sentenziosità senecana – impiegate dallo stesso Montaigne, “pendant la vie, vous estes mourant”. Di fronte ad una vita intesa come una corsa verso la morte, l’atteggiamento del saggio di fronte ad essa sarà allora venato da una dissacrante irrisorietà, raggiungibile solo in seguito all’avvenuta presa di coscienza che “il n’y a rien de mal en la vie, pour celuy qui a bien comprins, que la privation de la vie n’est pas mal” e che il termine di una vita umbratile (quale è appunto la nostra) e sempre sfuggente non va temuto, ma piuttosto atteso a piè fermo, con stoico coraggio di chi vi ha a lungo meditato: “il est incertain où la mort nous attende, attendons la par tout”; sarebbe del resto assurdo temere per tutta la durata della propria vita un evento di così breve durata ed è altresì poco conveniente lagnarsi della nostra condizione, in virtù della quale la nostra esistenza non è che un istante: basti confrontarla con quegli animaletti di cui parla Aristotele, che vivono un sol giorno, per poter capire come la nostra, a confronto della loro sia immensa; e, nel caso neanche questo argomento ci persuadesse in via definitiva, possiamo comunque dire – con Seneca (De brevitate vitae, I) – che vita, si uti scias, longa est e che è sufficientemente lunga per compiere le azioni più straordinarie e splendide, tanto più che al filosofo deve interessare la qualità e non la quantità. La tradizione omerica, che guardava con impotente angoscia al breve succedersi delle generazioni umane – solennemente accostate alle foglie – e che trovava in Mimnermo e in Teognide due strenui difensori, viene da Montaigne superata facendo riferimento all’opposta prospettiva di cui portavoce erano Epicuro e la scuola stoica impersonata dalla figura di Seneca, da cui Montaigne risulta influenzato soprattutto nel suo discorrere scintillante di immagini e carico di sentenze moraleggianti, che ricordano da vicino il periodare rapido e conciso senecano. Il giusto atteggiamento a cui conformarsi dinanzi all’incalzare della morte viene dunque – e ciò, da uno scettico quale è Montaigne, si configura come un autentico aprosdoketon – a coincidere con quello – di lucreziana memoria – del conviva plenus che, dopo il lauto banchetto, si alza da tavola felice e soddisfatto del pasto consumato, senza rimpianti e amarezze, poiché consapevole della perenne immutabilità degli eventi che si avvicendano nel mondo (“eadem sunt omnia semper”, De rerum natura, III), per cui può star certo che, morto, non si perderà nulla di cui non sia già stato spettatore in vita. Ma con queste considerazioni, che sembrerebbero – se lette superficialmente – fare di Montaigne un pensatore che ha in gran disprezzo la vita e brama con tutte le sue forze il rapido avvento della morte, il filosofo francese giunge a conclusioni inaspettate: meditar sulla morte è funzionale a vivere bene, poiché solo chi si è liberato dalla schiavitù del timore di morire può condurre un’esistenza tranquilla, in quanto “qui a apris à mourir, il a desapris à servir” e “le sçavoir mourir nous afranchit de toute subjection et contraincte”. La prospettiva iniziale è dunque stata ribaltata: non si deve apprendere a vivere per poter così imparare a morire, ma, viceversa, si tratta di apprendere a morire per poter imparare a vivere, poiché solamente se si afferra – o almeno si presagisce – il senso della morte, subito si disvela anche quello della vita, che – se esaminata in sé e per sé – tende a risultare assurda, inutile e senza una mèta: chi ha appreso a filosofare sa bene che tale mèta è la morte stessa. Possiamo dunque sostenere, con Seneca, che ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, al contempo, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.
Il corpo e le passioni
La metafisica tradizionale, da Socrate a Plotino, passando per Platone e per Aristotele, fino a sfociare nell’età medioevale, aveva intrapreso una lunga e difficile lotta contro le passioni, cercando costantemente di ricondurle sotto la tutela di quella ragione che, sola, poteva guidare l’uomo lungo il suo tortuoso cammino: questa guerra spietata e senza esclusione di colpi si è spesso – ma non sempre: emblematico è a tal proposito il caso di Aristotele – accompagnata alla netta avversione per il corpo, concepito ora come prigione dell’anima, ora come sede idonea per il proliferare di quelle passioni che non possono mai definitivamente essere sgominate dalla ragione, tutt’al più possono esser da essa controllate, come fa l’abile auriga del Fedro (246 a-249d) platonico che si trova a dover guidare un cavallo recalcitrante. L’immagine del saggio stoico che, dall’alto della propria virtuosità, non è nemmeno lontanamente scalfito dalle passioni – immagine che si tramanda fino al Medioevo, per trovare nel monaco ascetico e separato dal mondo il suo nuovo campione – si contrappone a quella meno intransigente del saggio tratteggiato da Platone e Aristotele, che caldeggiano un temperamento delle passioni, pur restando fermamente consapevoli della loro insopprimibilità: ma sono, in fondo, le due facce della stessa medaglia dell’epoca metafisica, segnata dalla convinzione che le passioni possano sempre e comunque essere soggiogate – anche se magari non definitivamente sconfitte. La grande novità dell’età moderna consiste nell’essersi accorti che, non solo le passioni sono una componente ineliminabile dell’uomo, ma che addirittura la ragione ne è docile schiava remissiva, agente come loro ancella: così Hume (Trattato sulla natura umana, Libro secondo, Parte terza, Sez. terza) smaschera la tradizionale posizione metafisica mettendo in luce come la ragione agisca sempre e comunque in maniera funzionale alle prescrizioni passionali e Kant (Critica della ragion pratica, cap. I ) lo segue a ruota, pur ammettendo anche la possibilità di leggi promulgate autonomamente dalla ragione stessa sotto forma di “imperativo categorico”. La prospettiva metafisica e cristiana è spazzata via dalla nuova posizione dei moderni, la cui punta estrema è in qualche maniera ravvisabile nella filosofia di Schopenhauer – che nella ragione vede l’artifizio di cui si serve la volontà per volere nell’uomo –, e che trova una sua compiuta formulazione nella definizione che dà Deleuze dell’uomo come macchina desiderante, mero flusso di desideri. Di fronte ad una siffatta posizione, che nelle passioni scorge l’elemento più caratterizzante dell’uomo, la battaglia contro di esse condotta dai metafisici tradizionali appare non dissimile da quella di Don Chisciotte contro i mulini a vento, una battaglia ingloriosa e del tutto vana. In questo senso, si può dire che sia Montaigne sia Cartesio siano gli archegeti dell’età moderna, proponendo una concezione delle passioni distaccantesi radicalmente da quella tradizionale e fondante quella moderna: per Cartesio esse – di cui fa un’attenta classificazione – sono un qualcosa che sfugge alla presa della ragione, ma non sono perciò etichettate come dannose, in quanto risultano in certo modo utili nella misura in cui ci fan provare qualcosa di fisicamente giovevole; ciò non toglie, comunque, che i loro eccessi debbano essere adeguatamente disciplinati dalla ragione dominatrice, a cui spetta appunto l’ardua funzione di incanalarle verso fini utili al singolo. La prospettiva montaigneana è ancora più moderna: non concependo in maniera così forte la distinzione tra un mondo soggettivo, regno della certezza assoluta e della spiritualità, ed uno oggettivo, a noi esterno e caratterizzato dall’imperare della materia e dell’incertezza, Montaigne, aprendo ogni porta al dubbio e non lasciando spazio alle certezze dell’io, intende le passioni come portatrici di un vissuto, né più né meno vero di quello spirituale, permettendoci di cogliere aspetti del reale che altrimenti non vedremmo, e per di più ce li fa vedere secondo una modalità che altrimenti non seguiremmo. In altri termini, le passioni ci disvelano un mondo – collaterale alla ragione – in cui vige una “verità” – se così possiamo dire parlando di Montaigne – non meno importante di quelle -dubbie- inventate dall’indagine razionale. Il corpo cessa di essere inteso come mero impaccio al procedere della conoscenza intellettuale e si fa ora uno strumento capace di integrarla opportunamente, aprendo i cancelli a verità che, altrimenti, rimarrebbero dischiuse. Ciò è vero per Montaigne, meno per Cartesio, che col corpo intrattiene un rapporto alquanto ambiguo, perseverando – sulla scia della tradizione – nel considerarlo di minore importanza rispetto alla spiritualità: anzi, propriamente, se è immediatamente certo che siamo soggetti pensanti, e dunque esistenti spiritualmente (cogito, ergo sum), che invece siamo corpi materiali è questione da dimostrarsi: “esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch’io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale” (Discorso sul metodo, IV). Le passioni sussistono, inestinguibili e sempre sorgenti, ma, sebbene utili nel caso in cui siano opportunamente indirizzate, ciononostante sono più un’interferenza che disturba l’attività intellettuale che non un apporto ad essa: la prospettiva degli antichi metafisici e religiosi è con Cartesio – qui in fondo piuttosto vicino a Platone – attenuata in senso moderno, ma è solo con Montaigne che il punto di vista cambia davvero, è con lui che le passioni e il corpo divengono strumenti gnoseologici al servizio dell’uomo: sarà, questa, un’istanza tipicamente moderna, sulla quale insisteranno con particolare attenzione Marx, Nietzsche e anche Feuerbach, per il quale – come è noto – “Der Mensch ist was er ißt”.
L’Apologie de Raimond de Sebonde
L’Apologie de Raimond de Sebonde costituisce la summa del pensiero di Montaigne e il punto in cui trovano una loro compiuta sistemazione tutti i capisaldi della sua asistematica riflessione. Tutti quegli scampoli del suo filosofare, che vengono esposti separatamente gli uni dagli altri all’interno dei vari capitoli e – almeno in apparenza – senza una reale connessione logica, sono qui concatenati secondo una puntuale sequenza in cui ciascuno di essi va ad occupare il suo debito posto; sicchè nell’Apologie il pensiero montaigneano viene in qualche modo ad assumere una sfumatura diversa e piacevolmente nuova agli occhi di chi era abituato a leggerlo alla luce dell’asistematicità e del procedere più per richiami casuali di idee che non seguendo un preciso filo logico.
Con questo scritto, che si estende più di ogni altro capitolo degli Essais, il nostro filosofo intende difendere apologeticamente l’istanza critica fatta valere – due secoli prima – dal poco noto medico spagnolo Raimond de Sebonde, il quale aveva difeso la validità della fede cristiana impugnando la tagliente spada della ragione e seguendo, in ciò, la strada già percorsa da Tommaso d’Aquino. Gli esiti ultimi a cui Raimond de Sebonde perveniva e, al contempo, i presupposti da cui muoveva possono essere sinteticamente compendiati nei detti medievali philosophia ancilla theologiae e fides quaerens intellectum, con i quali viene sottolineata da un lato la funzionalità – e dunque la subordinazione – della filosofia verso la teologia, di cui essa è e resta serva fedele, e, dall’altro, la necessità della fede di trovare intendimento. In questo senso, il pensiero di Raimond de Sebond resta saldamente proiettato nel passato e rivolto con lo sguardo agli antimoderni cieli della metafisica e della religione, giacché segue – come abbiam detto – la strada dell’accordo fra fede e ragione, tale per cui non solo le due non si elidono a vicenda, ma addirittura si rinsaldano reciprocamente, trovando l’una nell’altra un proprio sostegno.
Montaigne, che conosce il libro in quanto il padre – a cui era stato donato da ospiti – gli aveva chiesto di tradurglielo dallo spagnolo in francese, riconosce la dignità e la grandezza del progetto di Sebonde, ma non esita a sottolinearne i limiti intrinseci, primo fra tutti il fatto che “i cristiani si danneggiano volendo sostenere con ragioni umane la loro credenza, che si concepisce soltanto per fede e per una particolare ispirazione della grazia divina”. La ragione umana, quella fioca candela che ci rende meno buio il cammino, è congenitamente troppo debole per potersi arrischiare in argomentazioni tanto elevate, sicchè il volersi avvalere dell’umana ragione come strumento per rafforzare la fede è un’impresa del tutto vana in quanto i mezzi umani son del tutto inadatti; certo, il proposito di Sebonde è degno di lode, poiché denota, oltreché un acuto impiego della debole ragione umana, un’intenzione nobilissima: estendere ed ampliare la fede, renderla più ragionevole anche presso coloro che la aborrono ritenendola esulante dai dettami della ragione. Tuttavia, può tale ragione – lacerata da mille dubbi e vacillante nell’incerto, incapace di giungere a verità alcuna, così debole da non riuscir nemmeno a dissipare i dubbi più elementari – rinsaldare quella fede proveniente per via diretta da Dio e, perciò, onnipotente e saldamente certa? In perfetta sintonia con il suo impianto filosofico, che fa del dubbio le sue fondamenta, Montaigne intende percorrere tutt’altra via rispetto a quella battuta da Sebonde, rivelandosi ancora una volta l’eurhthV dell’età moderna: la ragione umana non è così forte da poter dar conferma o – almeno – da non opporsi a quanto attestato dalla fede – come crede Sebonde, sulla scorta di Tommaso -, ma, al contrario, essa è, come avevano insegnato Duns Scoto e – soprattutto – Guglielmo da Ockham, per sua stessa natura infinitamente troppo debole per poter sostenere la schiacciante potenza sconfinata di Dio e della fede, cosicchè essa non può far altro che tacere nella sua piccolezza e quand’anche compie passi portentosi, spingendosi a raggiungere grandi traguardi, ciò avviene sempre e comunque in virtù dell’illuminazione divina che l’accompagna. Il rapporto tra fede e ragione, ritenuto biunivoco da Anselmo, da Tommaso e da molti altri pensatori dell’età medievale, è da Montaigne ricondotto all’univocità: è la fede ad accompagnar la ragione e a farla procedere rettamente, e non viceversa, giacchè il dislivello tra le due è tale che la fede si configura di fronte alla ragione come un gigante dinanzi ad un nano, il cui intervento è completamente vano. Ciononostante, pare che Montaigne non resti coerentemente fedele a questi princìpi nel momento in cui (pag. 698), seppur in maniera istantanea e senza più tornarvi nel corso dell’opera, abbozza una prova razionale dell’esistenza di Dio, imperniata sull’esistenza di un mondo che non abbiamo prodotto noi, contravvenendo alla dichiarazione programmatica della debolezza della ragione umana.
Sembra però che quella professione di scetticismo che Montaigne dichiara a più riprese nel corso degli Essais e che lo porta a dubitar pirronianamente di ogni cosa ceda ora ad una deriva dogmatica, trovando nella fede in un Dio – nella fattispecie, il Dio cristiano – un porto sicuro, entro il quale il dubbio non può insidiarsi a gettar scompiglio: sembra, in altri termini, che Montaigne tradisca la sua matrice antidogmatica abbracciando il dogmatismo metafisico cristiano, che un dubitar condotto fino alle sue estreme conseguenze dovrebbe attentamente evitare (come del resto dovrebbe oculatamente tenersi lungi dal non meno dogmatico ateismo), giocando anche in questo caso la carta dell’epoch. In realtà la contraddizione è solo apparente e si spiega se prestiamo attenzione alla concezione che Montaigne ha della ragione: questa, per sua natura sempre curiosa di tutto e insaziabile dai dogmatismi, è sempre pronta a mettere in dubbio ogni cosa, a tal punto da non posseder certezza alcuna; il suo è un dubitare dettato dalla sua naturale debolezza e miopia, in forza delle quali non potrà mai con le sue sole forze veder la realtà nella sua nudità e svincolarsi dal dubbio che la attanaglia. In questa situazione senza via d’uscita, la fede in un Dio garante della verità è la sola strada che consenta di saltare al di là del muro del dubbio e di non rimanervi avviluppati, come invece accadeva a quel Pirrone – a cui pure Montaigne più volte si richiama negli Essais – che, dubitando di tutto, si lasciava investire dai carri e finiva nei precipizi, in balia ad un dubbio che gli impediva di stabilire perfino che cosa fosse utile e che cosa no: “poiché non sono capace di scegliere, mi appiglio alla scelta altrui e sto al posto in cui Dio mi ha messo. Altrimenti non saprei impedirmi di rotolare senza posa”. La fede come viene intesa da Montaigne si presenta allora non già come una dogmatica e metafisica presa di posizione su come stan le cose, ma, piuttosto, come il prospettarsi, in lontananza, di un possibile acquietarsi del dubbio, il quale resta comunque il fedele e inseparabile compagno dell’uomo sulla via della ricerca: prova ne è che Montaigne si professi ad un tempo cristiano e scettico, certo – per la fortezza della fede – dell’esistenza di Dio e della vita ultraterrena, insicuro – per via della debolezza della ragione – su tutti i restanti aspetti della realtà, ch’egli prova ad esplorare con piglio critico e stabilmente antidogmatico, seguendo le opinioni degli antichi, ma senza aggrapparsi ciecamente ad esse, alla luce di una ragione troppo debole per far chiarezza sul reale. L’istanza antidogmatica e scetticheggiante da cui trae alimento il suo pensiero permette dunque al cattolico Montaigne di criticare aspramente gli usi corrotti e sconcertanti invalsi nell’ambito della religione cristiana, che, nata per estirpare i vizi, “li protegge, li alimenta, li eccita” e che ha saputo dar prova di così grande zelo nel perseguitare i non credenti, tanto nell’età delle Crociate quanto in quella delle guerre di religione contro i Protestanti: dunque la sua impietosa critica non risparmia nemmeno l’uso strumentale e politico che del cristianesimo fanno gli uomini, i quali giustificano e legittimano le loro guerre efferate adducendo come pretesto di aver Dio dalla loro, dimentichi del fatto che “accogliamo la nostra religione solo a modo nostro e a nostra guisa” e che “siamo cristiani per la stessa ragione per cui siamo perigordini o tedeschi”. Sempre la matrice scettica del suo pensiero spinge Montaigne a scoccare i suoi velenosi dardi contro la turpe usanza, nata in seno alla religione, dei sacrifici: come si può pretendere di propiziarsi Dio distruggendo ciò che Egli stesso ha creato? Sarebbe come voler riuscire graditi ad un architetto demolendo la sua opera. In tal contesto, il filosofo francese può dunque rievocare amaramente il verso lucreziano (tantum religio potuit suadere malorum) con cui si fa cenno alle atrocità a cui ha condotto l’impia pietas della religione, in riferimento al sacrificio di Ifigenia, compiuto per garantire una fausta partenza alle navi achee. Questa e mille altre azioni efferate che si sono condotte in nome di Dio altro non sono se non il frutto di una ragione che fantastica di poter interpretare gli imperscrutabili – perché ad essa immensamente superiori – voleri di un Dio che la trascende del tutto, sovvertendo – quando meno ce lo si può aspettare – le regole da Lui stesso fissate. Oltre ad aborrire i sacrifici, occorre anche stare in guardia dalle elucubrazioni partorite dalle menti dei filosofi circa l’anima, la sua natura e la sua immortalità, giacché – nota Montaigne, anticipando alcune riflessioni di Kant – nessuno ha mai potuto farne esperienza né mai potrà finché alloggerà in questo mondo, cosicché, in quanto articoli di fede, sfuggono del tutto alla presa della ragione.
Sul versante opposto rispetto a coloro che – fanaticamente – impugnano la spada per mascherare dietro a motivazioni di ordine religioso interessi economici e politici vi sono quelli che fanno professione di quell’ateismo – intriso di dogmatismo – che è il frutto estremo di un’orgogliosa e superba ragione illudentesi di essere autosufficiente e illimitata; ma non è forse il mondo, nelle sue infinite sfaccettature, il sigillo di una mente divina? Le cose che ci circondano quotidianamente non sono forse vestigia Dei, impronte dell’attività divina che ha voluto il mondo? Per dirla con le parole impiegate dallo stesso Montaigne, “questo mondo è un tempio santissimo, nel quale l’uomo è introdotto per contemplarvi delle statue, non foggiate da mano mortale, ma quelle che il pensiero divino ha fatto sensibili”. Nei ranghi dell’ateismo – già messo alla berlina dal grande Platone, “grande però soltanto di umana grandezza” – finiscono tuttavia per rientrare anche tutti coloro i quali, pur convinti dell’onnipotenza della ragione e dell’inesistenza di Dio, abbracciano la fede per paura, compiendo una conversione meramente esteriore, che non incide minimamente sul loro cuore.
In bilico tra cristianesimo e scetticismo, sostenitore dell’imprescindibile debolezza del pensiero umano, Montaigne non può dunque difendere la fede cristiana facendo leva sulla ragione – ché altrimenti ci troveremmo nella situazione in cui è il nano a prendere in spalle il gigante – ed è per questo motivo ch’egli imbocca una via alternativa, che inciderà profondamente sui pensatori a venire, primo fra tutti Pascal: di contro a chi dispiega una ragione ammantata di una forza infinita, tale da dimostrare l’inesistenza di Dio o, viceversa, da argomentare in difesa della fede, Montaigne si propone di “schiacciare e calpestare l’orgoglio e l’umana baldanza; far sentir loro l’inanità, la vanità e la nullità dell’uomo; strappar loro di pugno le meschine armi della loro ragione; far loro abbassare la testa e mordere la polvere sotto l’autorità e la reverenza della maestà divina”. Egli intende cioè lumeggiare la miseria della condizione umana e far emergere come la fede sia il necessario esito a cui essa debba approdare; finchè l’uomo si riterrà orgogliosamente potente ed equipaggiato di una ragione dai poteri illimitati, non sentirà mai l’esigenza di abbracciar la fede, o, tutt’al più, si illuderà di poterla sostenere razionalmente – come fa Sebonde -, quasi come se essa giacesse su di un piano non superiore a quello della ragione. Ecco perché, agli occhi di Montaigne, gli uomini sono paragonabili alle spighe di grano: come esse si innalzano fieramente quando sono vuote, mentre quando sono piene di grano si fanno umili e si abbassano, così gli uomini sono pregiudizialmente certi della forza incontrastata della propria ragione e, tronfi d’orgoglio, ergono il capo disprezzando la fede, ma, dopo esser maturati e dopo aver saggiato la realtà, prendono atto della miseria in cui versa la loro condizione – tale per cui la loro ragione non può nulla se non dibattersi perpetuamente nel dubbio – abbassano il capo e si gettano fra le braccia di Dio. In questa maniera, è messa al contempo in luce la superbia dell’uomo, quest’animale che “non saprebbe fare un pidocchio, e fabbrica dèi a dozzine”, e la sua intrinseca debolezza, della quale prende coscienza man mano che procede a conoscere il mondo circostante: similmente, anche per Pascal – assiduo lettore di Montaigne – la fede e Dio resteranno assolutamente irraggiungibili dall’umana ragione e costituiranno la mèta di chi ha compreso la miseria della propria condizione di canna esposta alle indomabili forze della natura e non può far altro che affidarsi ad essi, rinunciando di far affidamento sul pensiero, troppo debole per chiarire ogni cosa. Il Dio a cui Montaigne e Pascal si richiamano è lo stesso, è il Dio/persona “di Abramo, di Isacco, di Giacobbe” quel Dio che, a differenza del Dio/motore di Aristotele e di Cartesio – che è il Dio “dei filosofi e degli scienziati” – , non può essere raggiunto dalla ragione umana, ma che anzi sfugge del tutto alla sua debole presa, e anzi è il solo a poter illuminare il nostro fragile pensiero e a conferire un senso alla nostra breve vita. L’uomo è un essere debole, ugualmente, nella prospettiva di Pascal e di Montaigne: il primo asserisce che “l’uomo non è che una canna, la più debole della natura. […]. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo” (Pensieri, fr. 347); il secondo sostiene che “la più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo” e che “non c’è animale al mondo esposto a tante offese come l’uomo: non ci è necessaria una balena, un elefante e un coccodrillo, né altri animali simili, uno solo dei quali è capace di distruggere un gran numero di uomini; i pidocchi bastano a render vacante la dittatura di Silla; il cuore e la vita di un grande e trionfante imperatore sono la colazione di un piccolo verme”. Ed è proprio per via della sua scoraggiante debolezza ch’egli deve, con gesto di umiltà, affidarsi a Dio e al suo Verbo illuminante. L’intera opera montaigneana, intrisa di rimandi e citazioni ad autori del passato, è strutturata in modo tale da far sentire costantemente la voce degli antichi, quella voce che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, ma anche e soprattutto per mettere in mostra come nessuno di essi, per quanto grande e ingegnoso, abbia mai afferrato la verità armeggiando solamente con la sua ragione: ciò non fa altro che avvalorare l’ipotesi della debolezza della ragione umana, ipotesi universalmente valida e che, se investe i più eccelsi filosofi – quali Platone e Aristotele – non può non coinvolgere anche tutti gli altri uomini: un tale argomento impiegato per smontare le altezzose pretese di una ragione illudentesi di essere forte era già stato utilizzato niente poco di meno che da Dante stesso, il quale, dal fatto che né Platone né Aristotele, pur così acuti nel loro ragionare, avessero raggiunto la verità, ne deduceva l’impossibilità della ragione umana di conquistarla e così si esprimeva:
“State contenti, umana gente,
al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir
Maria;
e disïar vedeste sanza
frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per
lutto:
io dico d’Aristotile e di
Plato
e di molt’altri”.
(Purgatorio, III, 37/44)
Viene gradualmente a delinearsi, man mano che leggiamo il testo montaigneano, il vero intento dell’autore: dall’entusiasmo iniziale per l’opera di Sebonde, così acuta e raffinata nel dimostrare l’esistenza di Dio e nello smascherare l’ateismo quale frutto di una ragione applicata surrettiziamente, egli passa rapidamente ad una critica della vana pretesa dell’uomo di far della propria ragione un’arma invincibile, illimitata e capace di tutto, arrivando per tale via a sostenere apertamente la meschinità della condizione dell’uomo, della creatura che è insieme “la più calamitosa e fragile” e “la più orgogliosa”, tale da vedersi al centro dell’universo, svettante al di sopra del creato, quasi come un Dio in terra. E, con siffatto passaggio dalla critica alla pretesa di Sebonde di dimostrare Dio razionalmente alla debolezza della conoscenza umana, viene definitivamente fissata la tematica che informerà il resto dello scritto, ché infatti tutta l’Apologie non mira ad altro se non a demolire le chimeriche pretese di una ragione superbamente ritenuta onnisciente e tale da far dell’uomo il vertice del creato, proprio quell’uomo che non conosce nemmeno se stesso e che si arroga l’assurdo diritto di estendere il proprio barcollante sapere all’intero universo. Gli argomenti con i quali l’uomo crede di poter argomentare in difesa della propria presunta superiorità sono molti e Montaigne non esita a passarli in rassegna, per poi demolirli uno ad uno, sempre puntando sulla debolezza costitutiva del nostro genere: in primis, il grande pregiudizio su cui da sempre riposa la mente umana è di vivere in un mondo creato su misura per l’uomo, che di esso è signore; tale pregiudizio dovrebbe, se non essere sgominato, almeno fatto scricchiolare dall’infinita pochezza di questa “miserabile e meschina creatura” di fronte alla natura, sotto il cielo stellato o dinanzi alle sterminate distese marine. Se poi neanche questi argomenti ci persuadessero di quanto sia assurdo ritenersi al di sopra del resto del creato, potremmo confrontarci con gli animali, i nostri compagni di strada: di fronte ad essi possiamo con certezza affermare di essere superiori? Così si interroga Montaigne, seguendo coerentemente la propria linea scettica e relativistica: che cosa ci vieta di pensare che il difetto che impedisce la comunicazione fra esse e noi non sia più nostro che loro? Parimenti, perché esse non potrebbero considerarci bestie, come noi le consideriamo? Una lunga tradizione che ha trovato in Platone e in Aristotele i suoi più insigni esponenti ha letto la superiorità dell’uomo su tutti gli altri animali nel suo possesso della ragione e del linguaggio: ma possiamo davvero affermare con certezza che solo l’uomo ne sia provvisto? Solo le parole possono veicolare messaggi e servire per comunicare? O non vi è, piuttosto, una ricca e variegata gestualità – presente in parte nello stesso uomo – che permette di comunicare in maniera non meno efficiente delle parole? Quante cose possiamo comunicare con le mani, senza aprir bocca? Non sarà piuttosto che non siamo noi in grado di recepire i messaggi che ininterrottamente gli altri animali ci lanciano? Sarebbe un grave errore sostenere che gli animali non sono in grado di comunicare solo perché noi non siamo in grado di capire i loro messaggi. Essi, poi, sanno non solo comunicare, ma anche ragionare, come fa la volpe che, per attraversare un corso d’acqua ghiacciato, accosta l’orecchio sulla superficie per sincerarsi che sotto non vi sia rumore, quasi come se ragionasse sillogisticamente: quello che fa rumore si muove, quello che si muove non è gelato, quello ce non è gelato è liquido e, dunque, cede sotto il peso. Ugualmente, il cane dell’esempio di Crisippo che, inseguendo la preda, giunge ad un trivio e, per decidere quale strada imboccare, compie un vero e proprio ragionamento: non è andata né di qua né di là, dunque deve essere necessariamente andata per questa terza strada. Allo stesso modo, il cane di cui racconta Plutarco, che, non arrivando con la bocca a lambire l’acqua in una ciotola, immerge in essa un oggetto per farla salire, dà prova di essere perfettamente in grado di ragionare in maniera lucida e non inferiore agli uomini, cosicché non è fuori luogo domandarsi se sia lecito etichettare come scienza solo la nostra e non estendere tale titolo anche al mondo animale, che è addirittura in grado di operare autentiche astrazioni, come è provato dal fatto che, nel sonno, i gatti si agitino e fremano come se fossero nel bel mezzo dell’inseguimento di una preda, il che non può che avvenire per una certa astrazione operata dalla loro mente. Da questa casistica si potrebbe ricavare che non siamo superiori agli altri esseri animati – come ci induce invece a credere il fatto che essi sono da noi diversi -, ma che “non siamo né al di sopra né al di sotto del resto”: ma Montaigne fa un passo avanti, per meglio calpestare l’orgoglio umano: accanto al campo del linguaggio e della ragione, nei quali siamo alla pari con gli altri animali, esistono ambiti in cui risultiamo essere nettamente inferiori, come ad esempio è il caso dell’amicizia, del rapporto con la natura circostante e la fedeltà. Che gli animali sentano più fortemente il vincolo d’amicizia è provato dai molteplici casi in cui, morto il padrone a cui erano affettuosamente legati, essi sono rimasti fedeli alla sua figura; parimenti, come prova della loro superiore fedeltà possiamo ricordare, con Montaigne, il caso del leone che, ferito ad una zampa e sanato da un uomo, quando se lo ritrovò di fronte nel corso di un combattimento di gladiatori non solo non lo sbranò, ma addirittura gli fece le feste, memore dei benefici che ne aveva tratto. Sembra dunque che, dalla iniziale superiorità dell’uomo, garantitagli dal possesso della ragione e del linguaggio, si sia passati, per converso, alla diametralmente opposta condizione in cui a primeggiare sono gli animali, i quali, né più e né meno rispetto all’uomo, sanno ragionare e comunicare fra loro, e che in più sono tendenzialmente leali, amichevoli fedeli nei loro rapporti reciproci e non stravolgono le leggi della natura, cercando il più possibile di adeguarsi ad essa anziché farle violenza. E per quel che riguarda la guerra che cosa dovremo dire? Di tutto il creato, solamente l’uomo risolve le sue contese in vere e proprie carneficine in cui massacra i suoi consimili: è forse questo un elemento che depone a favore della sua presunta superiorità? O non è piuttosto un’ulteriore conferma della bassezza della sua condizione? Si potrà però ancora obiettare, come extrema ratio in difesa dell’egemonia umana, che l’uomo – concesso che non surclassi gli altri animali in quanto ad intelligenza e a linguaggio – supera di gran lunga ogni altro essere vivente in quanto a bellezza, ma Montaigne risponde con ferma decisione, in sintonia con lo scetticismo che anima il suo pensiero, che la bellezza è un parametro relativo, tale per cui agli uomini l’uomo pare essere l’animale più bello, ma per gli elefanti, al contrario, è l’elefante stesso a meritarsi il titolo di più bello. Se del resto l’uomo fosse in assoluto l’essere più bello, come si spiegherebbe che quegli animali che più gli assomigliano (le bertucce, gli oranghi, ecc) sono concordemente stimati essere i più brutti?
Da questo succinto raffronto (su cui Montaigne si sofferma diffusamente) tra mondo umano e mondo animale si evince facilmente come noi non siamo superiori perché equipaggiati della ragione, ma, piuttosto, tali ci riteniamo perché sempre e comunque vediamo il mondo coi nostri occhi, i quali inevitabilmente lo distorcono e lo deformano ponendo al centro noi come soggetti vedenti: similmente, anche un papero potrebbe essere indotto, con argomenti altrettanto probanti, a ritenersi il centro del creato e a considerare l’universo come a lui funzionale. Ancora una volta è lo scetticismo a indirizzare Montaigne in senso opposto rispetto alla convinzioni comuni, a indurlo a smuovere le verità pregiudizialmente accettate: come può la nostra debole ragione sancire in maniera perentoria chi sia superiore e chi inferiore? Essa che non riesce nemmeno ad uscir dal dubbio, che non è in grado di fornir risposta ai problemi che solleva e che man mano che si addentra in essi non fa altro che impantanarsi sempre più? In questa maniera, lo scetticismo montaigneano, calcando sulla debolezza di una ragione che non può far altro che sollevar dubbi destinati a rimanere perennemente irrisolti, non fa altro che mettere in luce la naturale miseria della nostra condizione, tale per cui ci illudiamo di esser colmi di certezze, ma, non appena le saggiamo criticamente, esse crollano tragicamente una dopo l’altra: è in siffatta situazione disastrosa e priva di certezze che si crea il terreno ideale per abbracciare con sincerità la fede.
L’arroganza umana è così forte da spingersi addirittura al di là della presuntuosa convinzione dell’inferiorità degli altri animali e da giungere ad uno spericolato raffronto con Dio stesso, di cui l’uomo – creato a sua immagine e somiglianza – altro non sarebbe se non un riflesso in terra. Imputati di questa superba divinizzazione dell’umano sono agli occhi di Montaigne, ancor prima dei suoi contemporanei, i pensatori dell’antichità, a cui il filosofo francese rinfaccia severamente una siffatta presunzione – frutto di una ragione miope ma illudentesi di vedere distintamente – in forza della quale non si sono avveduti della mutevolezza e dell’instabilità delle pericolanti sorti dell’uomo, “che non è nulla” e che “se pensa di essere qualcosa, illude stesso e s’inganna”. La tracotanza dell’uomo si rivela in tutta la sua portata quand’egli sbandiera le sue deboli e sempre incerte conoscenze millantandole come se assolute e di origine divina, dimentico della bassezza della propria condizione di ente ben più prossimo all’animale che al divino e troppo abile nell’ingannar se stesso. Il principale bersaglio di questa condanna comminata da Montaigne può essere ravvisato in autori quali Lucrezio, che di Epicuro ha fatto una sorta di Dio interra venuto a liberare l’umanità dai timori che la paralizzano, e, naturalmente, Aristotele, il quale ha risolto l’uomo – con un impeto di ottimismo – in un’entità pensante alla stregua di Dio, pur con la differenza che l’umana beatitudine – a differenza di quella divina, esercitata senza interruzione – derivante dal pensare si attua solo nelle intermittenze ritmate dallo scorrere della vita e dalle sue esigenze animalesche (il bere, il mangiare, il riprodursi, ecc). Perfino Seneca – che, insieme con Plutarco, è il beniamino di Montaigne, tant’è che lo definisce affettuosamente “il mio Seneca” – è incappato in quest’errore provocato dalla tracotanza umana, sebbene in maniera più sfumata e meno grossolana rispetto ad un Lucrezio o ad un Aristotele. Questa vena polemica contro gli antichi rivela chiaramente l’approccio antidogmatico che Montaigne intenta con essi, prendendoli come guide che, in quanto umane, sono suscettibili di cadere in errore e, dunque, di esser criticate dalla lungimiranza della ragione critica/scettica: dobbiamo seguire il loro percorso non in virtù della loro austera antichità e autorevolezza, quanto piuttosto perché anche loro si sono arrovellati su quegli stessi problemi che affliggono anche noi, cosicché la lettura dei loro scritti può soccorrerci fornendoci accorgimenti utili e preziosi; in questo senso, Aristotele, più che un Dio infallibile – così lo intendevano i pedanti aristotelici del Rinascimento, contro la cui ottusità Galileo ebbe modo di scontrarsi – a cui affidarsi dogmaticamente, è uno spirito vivace e ingegnoso, da cui prendere spunto criticamente per le brillanti risoluzioni da lui fornite a certi problemi ancora attuali. Ben si capisce, allora, l’aspra invettiva con cui Montaigne tuona contro chi ricorre al principio di autorità e isola il pensiero degli antichi in sfere di vetro – vere e proprie bolle assiomatiche – che non possono essere in alcun caso essere infrante, neanche qualora fossero in palese contrasto con quanto è testimoniato dall’esperienza. Costoro, che divinizzano il pensiero degli antichi – scordandosi che quelli, per quanto ingegnosi e sagaci, erano pur sempre uomini come noi -, quasi come se l’antichità conferisse ad essi in maniera automatica la veridicità, sono da Montaigne bollati con l’infamante marchio di massimi fautori del dogmatismo e di cause dell’assopirsi della ragion critica: il loro atteggiamento, verso cui Montaigne è profondamente insofferente, è il frutto di una ragione cristallizzata nei dogmi che essa stessa si è foggiata e con i quali si illude di aver raggiunto certezze irremovibili, dimentica del fatto che, pur progredendo a mano a mano nella scala del sapere, la nostra miserevole situazione resta pressoché invariata, tale per cui “di nostro non abbiamo che vento e fumo”. Contro il dogmatico ricorso all’ipse dixit – tanto in auge a quei tempi, ma da cui ancora oggi non ci siamo del tutto affrancati -, si leva ancora una volta la possente voce dello scetticismo montaigneano, assetato di una conoscenza approfondita di cui, proprio perché tale, non potrà mai abbeverarsi: “non bisogna che mi dicano ‘è vero perché lo vedete e sentite così’; bisogna che mi dicano se quello che penso di sentire, lo sento tuttavia in realtà; e, se lo sento, che mi dicano poi perché lo sento, e come, e che cosa; che mi dicano il nome, l’origine, e gli annessi e connessi del caldo, del freddo, le qualità di colui che agisce e di colui che subisce; oppure rinuncino alla loro professione, che è di non accogliere né approvare alcunchè se non per mezzo della ragione; è la loro pietra di paragone per ogni sorta di prove: in realtà, è una pietra piena di falsità, di errore, di debolezza e deficienze”.
Tale scetticismo esasperato – e a dir poco enigmatico in un pensatore che fa del cristianesimo e delle sue certezze di cose non viste la sua fede – induce Montaigne a rigettare tanto il principio di autorità quanto la piena adesione ad una scuola filosofica, ché le due cose sono le facce della stessa medaglia che ha nome “dogmatismo”: egli riversa, sì, le sue simpatie sullo scetticismo, ma proprio per questo motivo – ossia per l’interesse accordato ad una non-scuola quale fu quella scettica – non gli risparmia alcune severe critiche, attaccandolo – anche se velatamente – per l’afasia a cui portava e per la sua passiva accettazione dei costumi in uso (sebbene – merita d’esser ricordato – egli vada asserendo d’esser disgustato dalle novità, di qualunque genere esse siano). E così, in pieno accordo con l’eclettismo di Cicerone – di cui tesse a più riprese le lodi -, che, aperto a tutte le scuole – pur con una netta chiusura all’epicureismo -, non si aggrappava mai a nessuna di esse con un atto di fede, ma manteneva sempre critica la propria ragione, costantemente pronta ad accettare il meglio e a respingere il peggio da ogni corrente filosofica, Montaigne è guidato più dalla flebile luce proiettata dalla sua debole ragione che non dal soccorso delle altrui dottrine, a cui ininterrottamente si richiama, ma in maniera sempre critica, per sostenere le proprie idee con una ricca casistica di esempi e di riflessioni acute, più che non per indorarle con l’autorevole voce degli antichi, giacché “ogni presupposizione umana e ogni enunciazione ha tanta autorità quanto un’altra, se la ragione non vi pone differenza”. In questo senso, rifiutando ciceronianamente di sposare una specifica teoria filosofica la cui adesione escluda automaticamente ogni rapporto con le altre – gesto tipico di chi, in mare aperto mentre infuria la tempesta, si aggrappa al primo scoglio in cui si imbatte -, Montaigne può dirsi scettico e, al contempo, nutrire grande simpatia per l’edonismo epicureo e per il disprezzo della morte tipico degli stoici: “la confusione delle usanze del mondo ha causato questo in me, che i costumi e le idee diverse dalle mie non mi dispiacciono tanto quanto mi istruiscono, non mi inorgogliscono tanto quanto mi umiliano nel confronto”. In certo senso, la posizione assunta da Montaigne – aperta e moderna insieme – è in qualche modo vicina, pur con le debite differenze, a quella dell’antico Origene, che concepiva la filosofia come un composito insieme frammentario di sette che si escludono mutuamente e che perciò richiedono necessariamente un’adesione totale, catturando i loro adepti e imprigionandoli come in una palude o in una foresta senza vie d’uscita, cosicché, per evitare di rimanere imprigionati in un solo indirizzo, Origene invitava alla lettura asettica di tutti i filosofi alla luce della verità proveniente da Dio e rivelata nelle Scritture. Similmente Montaigne ci esorta ad aprirci a trecentosessanta gradi e a leggere i testi di questi insigni spiriti del passato, che hanno onorato l’umanità coi loro ragionamenti scintillanti di arguzie e di sapienza, cercando in qualche modo di recepire quanto di utile essi possono averci trasmesso per la vita. Molti di essi, però, proprio perché non infallibili e grandi di una grandezza meramente umana, hanno commesso numerosi errori, primo fra tutti quello – duramente rimproverato da Montaigne – di non aver sufficientemente colto la congenita debolezza dell’uomo e del suo pensare.
Perché mai – si domanda Montaigne – potremmo arrogarci il diritto di definirci simili a Dio, noi che, nella migliore delle ipotesi, a malapena stiamo alla pari con gli animali? Aveva ancora una volta ragione Senofane – il primo grande smascheratore dell’antropomorfismo e della superbia umana del conoscere illimitatamente – a sostenere che se i buoi e i cavalli fossero dotati di mani e, quindi, in grado di raffigurare Dio, lo tratteggerebbero a loro immagine e somiglianza, né più e né meno di come facciamo noi: la lampante prova di come questo superbo miraggio della vicinanza tra l’umano e il divino sia radicata e largamente diffusa risiede nel fatto che ciascuno di noi si senta gratificato se paragonato a Dio, offeso se accostato agli altri animali. Non v’è dubbio alcuno – ad avviso di Montaigne – che questa sprezzante arroganza che alberga nell’uomo gli derivi dalle chimeriche illusioni della ragione metafisica e dogmatica, sempre pronta a fare incetta di punti fermi e dogmaticamente recepiti che si rivelano poi difficili da scalfire perfino sotto i martellanti colpi della ragione nella sua veste critica, la quale, dopo averli accettati passivamente in sede metafisica, non riesce più a sbarazzarsene e si trova inevitabilmente costretta a convivere con queste specie di lenti che colorano la realtà con sfumature che non le appartengono, lenti che finiscono per portare ancor di più alla deriva una ragione già di per sé naufragante per la sua stessa intrinseca miopia.
In questa maniera, la distinzione operata da Platone nella Repubblica tra una matematica che prende le mosse da postulati indimostrati e una filosofia che – così come la intendeva Socrate – mette in discussione perfino gli assiomi apparentemente più saldi appare più teorica che reale e, in certo modo, pare, se non crollare, almeno barcollare fortemente: infatti, l’immagine della ragione che ricaviamo dalla lettura dei Saggi e, in particolare, dall’Apologie, è l’immagine di una ragione sconfitta e umiliata, che dovrebbe platonicamente dubitar di tutto, come fa Socrate coi suoi interlocutori, attraverso la prassi del dialogo e delle sue domande che sfaldano di continuo tutti i punti certi, ma che in realtà finisce per addormentarsi su pregiudizi e postulati che inibiscono la sua attività, non diversamente da quel che avviene alla matematica, se non per il fatto che quest’ultima è in grado di fornirci conoscenze assolutamente certe.
Che il pensiero filosofico dichiari guerra ai pregiudizi e ai postulati, ma che di fatto finisca per esserne imbevuto, si evince facilmente non appena ci soffermiamo sulle riflessioni dei vari pensatori che si sono succeduti fino ad oggi: il loro percorso, costellato di preconcetti e disseminato di capisaldi dogmaticamente accettati, non può che destare in noi un senso di inquietudine e di sfiducia nella filosofia, se davvero il suo compito è – come sostiene Dewey, Experience and Nature, [Esperienza e natura], Open Court Publishing Co., Chicago-London 1925; trad. it. di P. Bairati, Mursia, Milano, 1973, pagg. 43-47 – quello di sgombrare il capo dai pregiudizi che stanno alla base della nostra conoscenza per renderla meno impacciata e più oggettiva; tanto più che, come ha notato Gadamer, la stessa lotta contro i pregiudizi è in certo senso una forma di pregiudizio: è – più precisamente – il frutto del pregiudizio contro i pregiudizi, sicché pretendere di sconfiggerli è tentare un’azione non meno paradossale di quella del barone di Munchausen, il quale, per uscir dal fango, si tirava per i capelli. Montaigne, col suo dubitare inarrestabile, si propone in qualche modo di intraprendere una tal battaglia volta a sgominare i pregiudizi che infestano la nostra mente, o, quanto meno, – nel caso, anche se scoperti, non fossero eliminabili – a metterli in quarantena, nella convinzione che “un’anima libera da pregiudizi è già straordinariamente avanti sulla strada della tranquillità”. Nella sua battaglia contro di essi, il filosofo francese apre un fronte che è, al tempo stesso, moderno e antiquato, se consideriamo che già Socrate, nel suo dialogare, era nei riguardi dei suoi interlocutori, di cui metteva in crisi le certezze pregiudizialmente accettate, pungente e traumatizzante non meno della torpedine e della mosca che pungola il cavallo, e che ancora la tradizione illuministica si propone di abbattere tutti i pregiudizi che affollano e ottundono la mente umana. Ma, a proposito di tale lotta ai preconcetti, – chiediamoci – è più moderna la posizione di chi muove nella convinzione che essi possano essere repressi o quella di chi invece riconosce la loro naturale (e dunque ineliminabile) presenza nella mene umana? E’ più moderno l’atteggiamento di un Kant e di un Protagora, che reputano – come misura di tutte le cose per l’uomo – l’umanità nel suo insieme (Kant), con le sue categorie a priori tali per cui il concepire la realtà sotto forma di sostanze fra loro rapportate da nessi causali altro non è se non deformare la realtà stessa nella sua noumenicità, e l’uomo come singolo (Protagora), per cui ciò che a ciascuno pare vero, tale è per ciascuno? O è più moderno l’atteggiamento di chi pretende di far strage di pregiudizi, come Montaigne o Francis Bacon? Pur nella difficoltà che presenta questo interrogativo, possiamo in qualche misura affermare – anche alla luce delle considerazioni di Gadamer – che la posizione realmente moderna sia la prima, quella che si rassegna a vivere coi pregiudizi e cerca tuttavia di indirizzarli opportunamente, ma ciò non esclude tout court che, a tal proposito, l’atteggiamento di Montaigne sia moderno, se non altro per il fatto che è sicuramente vero che egli si propone di fugare i pregiudizi che albergano nelle menti umane – il disprezzo per le altre civiltà, la convinzione di essere al cuore del creato e di usufruire di una ragione immensamente forte, ecc – e che sono l’emanazione di un’illusione della ragione dogmatica e metafisica, ma al contempo riconosce anche l’inattuabilità di tale progetto, inattuabilità dipendente dall’eccessiva debolezza della nostra ragione, che può sì individuare i pregiudizi che la viziano, ma non è sufficientemente forte per congedarli una volta per tutte.
Lo scetticismo universale della filosofia
Nell’Apologie, l’esito, innovativo e sconcertante al tempo stesso, a cui la meditazione montaigneana approda è l’estensione del proprio antidogmatismo dubitante anche agli altri grandi pensatori del passato, ritenuti troppo grandi e acuti per presentare in via dogmatica le loro idee: “io non riesco facilmente a persuadermi che Epicuro, Platone e Pitagora ci abbiano dato per denaro contante i loro atomi, le loro idee e i loro numeri. Erano troppo saggi per stabilire i loro articoli di fede su una cosa tanto incerta e tanto discutibile”. Tutti i più illustri filosofi dell’antichità avevano perfettamente colto – stando a Montaigne – il carattere mai definitivo e sempre solo provvisorio della conoscenza umana e del suo incessante saltare da un dubbio ad un altro senza mai trovar la quiete della certezza: perfino Epicuro – che Montaigne non esita ad etichettare come “il principe dei dogmatici” – col suo molto sapere, ci insegna che occorre dubitare ancora di più.
Nel suo ardito tentativo di rinvenire la sua stessa matrice scetticheggiante anche nei più grandi filosofi del passato, Montaigne adduce come esempio particolarmente significativo il caso di Platone, e, per avvalorare questa sua tesi dello “scetticismo universale”, per cui non vi fu filosofo che non fosse dubitante di tutto, ne mette in luce lo scetticismo di fondo, o, almeno, quello che lui ritiene tale. Montaigne ci ricorda innanzitutto che dalla formulazione originaria della filosofia platonica trassero origine ben dieci sette diverse – prima prova della mobilità del platonismo e della molteplicità delle interpretazioni a cui esso si presta -, sottolineando come del resto il sommo padre delle idee sempre si servì del dialogo come strumento per filosofeggiare, frantumando e sparpagliando in tal modo in diverse bocche le contrastanti idee – mai certe ed ultime – che affollavano la sua eccelsa mente. Il fatto stesso che l’arrovellante “ti estin;” socratico, motore di buona parte dei dialoghi inscenati da Platone, resti sempre e comunque irrisolto non è forse una fulgida prova della perenne incertezza in cui brancola il nostro miserabilmente debole sapere? Così, nel Cratilo non si riesce a chiarire in via definitiva se i nomi nascano per una convenzione pattuita fra gli uomini o, piuttosto, se disvelino l’essenza stessa delle cose; analogamente, nel Lachete non viene diradato il dubbio intorno a che cosa realmente sia il coraggio, nel Liside non si perviene ad una definizione ultimale dell’amicizia, e così via. Tuttavia, pur nell’assoluta aporeticità in cui tali dialoghi restano sospesi, essi non sono meramente un divertissement letterario, ma hanno una veste profondamente educativa, nella misura in cui sgombrano il campo dalle errate convinzioni che ristagnano nelle nostre menti. Ciò significa, allora, che l’obiettivo che Platone si prefigge non è di guidarci alle certezze, ma piuttosto di dissipare i pregiudizi di cui siamo schiavi ignari: così nel Lachete viene abbattuta l’assurda convinzione che il coraggio consista nell’attendere a piè fermo il nemico, e nel Cratilo si mette in luce come la verità non sia in toto racchiusa nelle posizioni linguistiche – realmente rispecchianti la diffusa mentalità del V secolo a.C. – né del convenzionalismo di Ermogene né del naturalismo di Cratilo.
Tuttavia Montaigne, nell’entusiasmo in lui nato dall’aver ravvisato il suo stesso scetticismo anche in Platone, finisce forse per dimenticare come la filosofia del grande pensatore ateniese nascesse innanzitutto come rinforzo delle certezze (diciamolo pure: dei dogmatismi) di cui si sostanziava il pensiero di Socrate, sempre pronto, sì, a far vacillare i dogmatismi altrui, ma sempre e comunque nell’orizzonte dei suoi propri (il male come frutto dell’ignoranza, l’inconfutabilità della verità, l’immortalità dell’anima, ecc); l’operazione che compie Platone può essere – calcando volutamente la mano – sintetizzata come tentativo di far valere le certezze socratiche tenendo conto delle critiche ad esse (e – in generale – alla possibilità di conoscere il vero) mosse dai sofisti, che per primi avevano realmente sguinzagliato un dubbio divorante tutti i punti fermi su cui poggiava la poliV del V secolo.
Peraltro, proprio Montaigne si lamenta accesamente dell’uso troppo diffuso del pensiero platonico, un uso quasi degenerante nell’abuso, tale per cui non vi è concetto – anche il più impensabile – che non si possa a lui attribuire; ma verrebbe da chiedersi fino a che punto Montaigne stesso, facendo di lui il padre supremo dello scetticismo, non ricada nello stesso errore che egli stesso diagnostica agli altri.
La presunzione della scienza
L’Apologie si apre con un elogio della scienza e della sua utilità: ma, al contempo, accanto ai toni encomiastici con cui esordisce, Montaigne precisa immediatamente che non dobbiamo cadere nell’errore tipico di chi – come il citato filosofo Erillo, ma il discorso può essere esteso all’intera schiera di quelli che non hanno occhi che per essa -, tutto assorbito dalla scienza e dai suoi bagliori, finisce per conferirle dei poteri straordinari, facendone un onnipotente strumento con cui diradare tutte le incertezze in cui siam sommersi e – per così dire – un’infallibile guida nel dedalo di strade percorribili che ci si presentano ogni giorno dinanzi. Il rapporto che fin dall’inizio Montaigne intrattiene con la scienza si delinea come bicipite: da una parte, egli – da buon moderno – non può non apprezzare i vantaggi che essa comporta per la vita umana, il suo saper sempre più escogitare nuove finissime tecniche finalizzate ad un generalizzato “vivere meglio” che – secondo quello che sarà il motto dell’illuminismo utilitaristico – finisce con l’identificarsi con “la massima felicità per il maggior numero possibile di individui”; dall’altra parte, tuttavia, il filosofo francese – in forza del suo scetticismo e della sua convinzione della debolezza del pensiero umano – non può che disapprovare la pretesa, propria della scienza, di arrivare ad una graduale conoscenza, certa ed infallibile, dell’intero creato e delle leggi che lo regolano: sotto questo profilo, dunque, la scienza presenta l’ineluttabile inconveniente di alimentare incessantemente la superbia umana, fornendole combustibile per divampare: man mano che l’uomo acquisisce quelle conoscenze che la scienza garantisce esser certe, egli subito inorgoglisce e si fa altezzoso, fantasticando di aver dischiuso i misteri del mondo di esser entrato in contatto con la verità, dimentico tuttavia del fatto che “non siamo più vicini al cielo sul Moncenisio che in fondo al mare”. Eppure Montaigne è pienamente consapevole di come sia proprio quella scienza, che fomenta la nostra tracotanza e ci fa scordare di essere solo dei miseri esseri mortali, a farci a passo a passo procedere lungo l’interminabile via del progresso, guidandoci in direzione di un sempre più esteso dominio a nostro uso e consumo della natura: infatti, è proprio la ragione lungimirante e calcolatrice che, dismesso l’abito del dubbio e indossato quello di ricercatrice di certezze irremovibili, ci permette di disvelare i segreti della natura esterna e, per ciò stesso, di estendere ad essa il nostro dominio attraverso un’autentica antropizzazione, quella che Bacone, nei suoi scritti, etichetta come una vera e propria “violenza” della natura. Anche in questo caso, il pensiero montaigneano non può essere letto in maniera avulsa dal contesto storico in cui è fiorito: anzi, in certo senso, esso ne è un riverbero estremizzato. Così come il dubitar di tutto trae in Montaigne origine – oltrechè dalla sua indole naturalmente incline a non appagarsi delle certezze di comodo – soprattutto da quella strage di certezze compiute dai Luterani – i quali han fatto entrare in crisi la saldezza del credo religioso -, dai navigatori che han scoperto l’America e dalle rivoluzionarie teorie scientifiche prospettate da Copernico e condotte da Giordano Bruno (in sede filosofica) e da Galileo (in ambito scientifico) alle estreme conseguenze, tali per cui l’uomo europeo non sarebbe né al cuore della Terra né, tantomeno, al centro di un universo che potrebbe essere infinito e che comunque non vede la Terra in posizione preminente, cosicché egli – da copula mundi – diviene un mero atomo tra gli infiniti che compongono l’universo. Proprio dal grande fermento scientifico a cui assistiamo nell’età rinascimentale – che non a caso Hegel definisce come l’età della ragione ridestatasi dal letargo della coscienza infelice medioevale -, quel fermento che segna lo smarcarsi definitivo dai residui – accettati per autorità e troppo spesso fatti valere con la persuasiva arma della condanna a morte – dell’aristotelismo e del cristianesimo, Montaigne resta profondamente scosso, assumendo una posizione mediana che gli consente di approvare le migliorie introdotte dalla scienza, ma, non per questo, di non criticare gli esiti catastrofici a cui essa conduce se ne facciamo un uso smodato: il lato scettico di Montaigne – quel lato che fa leva sull’intrinseca debolezza con cui si muove il nostro pensiero – non può non avanzare le sue riserve di fronte ad una scienza che, diffondendosi sempre più, finisce – pur apportando innegabili migliorie e comodità alla vita – per infondere nell’uomo la superba arroganza di essere onnipotente sul piano conosciuto.
KARL LÖWITH INTERPRETE DI MARX E DI WEBER
Per poter comprendere in tutta la sua portata teoretica il saggio löwithiano su Max Weber e Karl Marx, occorre preventivamente far chiarezza, anche se solo per brevi cenni, sul panorama filosofico in cui esso ha visto la luce: composto nel 1932, il saggio si innesta in quel particolare periodo dell’attività di Karl Löwith che egli stesso ha voluto etichettare come “filosofia antropologica”, con la chiara intenzione di contrapporsi alla “antropologia filosofica” che si stava all’epoca affermando soprattutto grazie ai contributi di Scheler, Gehlen e Plessner. Sulla scia di costoro, anche al cuore dell’indagine di Löwith sta il tentativo di giungere ad un’adeguata comprensione di quell’essere polimorfo che è l’uomo e della posizione da lui occupata nel cosmo: tuttavia, rispetto ai canoni dell’antropologia filosofica, la decisiva novità che egli introduce con la sua ricerca sta nell’adottare, come ancella della filosofia, non la biologia (di cui pure possedeva una salda conoscenza), bensì le scienze umane.
Ad avviso di Löwith, a partire dalla stagione post-classica della filosofia, inaugurata da Feuerbach e dalla sua scoperta del tu come sfera di un rapporto conoscitivo oltre che umano, non c’è sistema filosofico che non veicoli, ora in maniera aperta ora in maniera sotterranea, un ben preciso paradigma di esistenza: si tratterà allora di passare in rassegna i principali pensatori di questa sorprendente età post-classica della filosofia per vedere come, coi loro sistemi, essi tentino di contrabbandare come autentica una ben precisa immagine dell’uomo, che ci invitano ad assumere come paradigma di un modus vivendi a tutto tondo e dai contorni perfetti.
Concretamente, il progetto löwithiano di indagine sull’uomo si attua in un incessante confronto tra coppie di filosofi, prese in esame nell’ambito di ricerca in cui si sono contraddistinte: sicché la disamina delle diverse immagini di uomo propugnate da Hegel e da Burkhardt avviene in una cornice storica; quella di Nietzsche e di Kierkegaard in uno scenario che potremmo definire, lato sensu, esistenzialistico/nichilistico. Si tratta di un confronto in cui Löwith, lungi dal porsi come uno storico delle idee distaccato e asettico, non esita a schierarsi, a criticare, a demolire, a far sua la posizione del filosofo che sta mettendo alla berlina, secondo quella tecnica che Eugen Fink ha brillantemente etichettato come tecnica del “cavallo di Troia”. È come se Löwith stesse inverando il principio hegeliano per cui non si può fare storia della filosofia senza fare filosofia, poiché tra le due sussiste un’immancabile circolarità. La disamina dei diversi pensatori considerati non avviene mai in maniera asettica, ma sempre con intenti teoretici e, per lo più, di critica in nome di quella scepsi (contrapposta alla fede [1]) che Löwith innalza a stella polare della sua ricerca. Senza mai fare del tutto sua una delle posizioni passate in rassegna, il filosofo ebreo le attraversa tutte, smascherandone i vizi, le ideologie, i dogmi e le contraddizioni; fedele fino in fondo alla scepsi, egli non può aver fede in nessun sistema filosofico, proprio perché la fede è il meno filosofico degli atteggiamenti.
Il confronto tra Marx e Weber avviene eminentemente sul campo della sociologia: agli occhi critici di Löwith , essi sono i due più grandi interpreti dell’Età contemporanea: sicché, chi vuole capire il nostro tempo, deve necessariamente far propria o la posizione marxiana o quella weberiana. L’una esclude l’altra, giacché la prospettiva weberiana è il superamento e, allo stesso tempo, il capovolgimento di quella marxiana. Il confronto tra questi due grandi interpreti della nostra Età implica tre condizioni inaggirabili, come rileva Löwith [2]: in primis, che Marx e Weber possano essere effettivamente posti a confronto, ovvero che possano essere messi sullo stesso piano; in secondo luogo, che essi propongano interpretazioni radicalmente diverse dello stesso fenomeno; in terzo luogo, che, al di là delle loro indagini prettamente economiche e sociologiche, il punto centrale, anche se taciuto, della loro indagine sia l’uomo. Ed è questa terza condizione a mettere in luce come il saggio löwithiano rientri a pieno titolo nella cornice della sua filosofia antropologica. Così Marx ci dice [3] che, per essere radicali, bisogna cogliere ogni cosa alla radice e, nel caso dell’uomo, tale radice è l’uomo stesso. E, con lo stesso piglio antropologico, Weber, nelle sue indagini sul capitalismo [4], si domanda quale tipo di uomo fosse necessario affinché potesse sorgere il capitalismo e, come è noto, lo ravvisa nell’uomo protestante del XVI secolo. Sicché entrambi muovono, forse in maniera non del tutto consapevole, da una ben precisa idea di uomo e su di essa modellano i loro sistemi.
Un altro punto comune è quello da cui tanto Marx quanto Weber prendono le mosse: la constatazione che il nostro tempo è signoreggiato da una forza fatale che si è imposta con la stessa necessità tragica con cui il destino si abbatteva nelle tragedie greche. Tale forza incontenibile è il capitalismo, nel quale la nostra epoca si trova ingabbiata: ciò vale tanto per Marx quanto per Weber, anche se poi essi intendono in maniera decisamente diversa la gabbia che ci imprigiona e gli atteggiamenti da assumere di fronte ad essa. Le loro indagini scientifiche si risolvono in un’analisi dell’uomo contemporaneo della società borghese secondo il filo conduttore dell’economia capitalistica, considerata da Weber in maniera neutralmente avalutativa come esito necessario dell’inarrestabile processo di razionalizzazione, da Marx in maniera partitica come alienazione dell’uomo e come privazione di un’essenza che egli è chiamato a riconquistare.
Come Burkhardt è un “uomo nel mezzo della storia” [5], così Marx e Weber sono uomini nel mezzo del capitalismo e della Modernità: nessuno come loro ha diagnosticato con tanta profondità e precisione scientifica la necessità storica del capitalismo, la sua fatale ineluttabilità. Tutte le loro indagini sono in ultima istanza proiettate su questo fenomeno, ma danno esiti assolutamente antitetici. Ma al di là di tale diversità insuperabile nei risultati, li unisce una costante volontà di proporre una terapia oltre che una diagnosi: nessuno dei due si arresta alla mera constatazione che oggi il capitalismo ci domina; entrambi propongono soluzioni, atteggiamenti da assumere o da rifiutare. In definitiva, fatta con grande acribia la diagnosi, essi dismettono il camice dello scienziato e si propongono di salvare la dignità umana (Weber) o di emancipare l’uomo in quanto uomo (Marx). Significativamente, Löwith sostiene che ciò che stimolava il loro lavoro scientifico trascendeva completamente la scienza in quanto tale e trapassava piuttosto in politica (Marx) e in carisma profetico (Weber): instancabili scrittori di mastodontici scritti indecifrabili e agguerriti nemici di personaggi che per noi oggi restano poco più che nomi, Marx e Weber guardano alla scienza come a un trampolino di lancio verso qualcosa di diverso e più alto, che con la scienza stessa non ha più niente a che vedere.
La diagnosi a cui pervengono è la stessa – la nostra è l’epoca dominata dal capitalismo –, ma i modi in cui vi pervengono e le terapie che propongono sono enigmaticamente opposti: per Marx, fedele ai princìpi del materialismo storico, la storia è scandita dalla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione [6], per cui, mutate le prime, devono necessariamente mutare per via rivoluzionaria anche le seconde: in questa dinamica dialettica con cui evolve la storia – che è sempre storia di lotte di classe –, ben poco spazio è concesso alla dimensione sovrastrutturale delle idee. Nella prospettiva marxiana, infatti, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, cioè la loro coscienza: in gergo marxiano, mutando la struttura, muta anche la sovrastruttura, anche se non sempre risulta chiaro come ciò possa avvenire; a tal punto che la storia del marxismo è in definitiva una sfilza di diverse interpretazioni del rapporto tra struttura e sovrastruttura. Quel che è chiaro è che, in Marx, la prima svolge un ruolo egemonico sulla seconda: la forza produttiva del capitalismo si è imposta in maniera necessaria e ha comportato il mutamento rivoluzionario dei rapporti di produzione: quando ormai le forze produttive moderne e, in certo senso, capitalistiche si erano già affermate, la Rivoluzione Francese non ha fatto altro che spazzare via gli antichi rapporti sociali di tipo feudale per far irrompere sullo scenario storico quelli borghesi, nei quali è ora proiettato il moderno scontro di classe tra borghesi e proletari .
La prospettiva weberiana è di segno opposto: dando la precedenza agli elementi sovrastrutturali, Weber è convinto che il capitalismo sia il frutto più genuino di quel processo di crescente razionalizzazione che caratterizza l’Occidente; le cause del capitalismo debbono essere ricercate non nelle condizioni materiali ed economiche, ma nella più alta sfera delle idee. In particolare, nelle pagine de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, egli addiviene all’ardita conclusione che il Geist del capitalismo è sorto come conseguenza dell’etica protestante: essendo la salvezza per i Protestanti decretata da Dio ab aeterno (“giustificazione per fede”), essi ne cercavano gli indizi nel loro successo professionale. Il presupposto su cui poggiavano le loro convinzioni era che, dal successo nel lavoro, si potesse inferire il proprio essere graditi a Dio. Avveniva in tal maniera una vera e propria identificazione tra professione lavorativa e professione di fede: questo punto chiave appare con la massima evidenza nel termine tedesco Beruf, che significa tanto “lavoro” quanto “vocazione”. Quella che il protestante intraprende è dunque un’autentica “ascesi intramondana” per cui egli è strumento di Dio nel mondo: chi lavora con dedizione per tutta la propria vita e riscuote grande successo accumulando ingenti ricchezze, può ritenersi, in forza di tale successo, salvato da Dio. Il lavoro (Beruf) è la sua vocazione (Beruf). Ciò appariva tanto più evidente se si raffrontava il grande sviluppo capitalistico nei Paesi di confessione protestante all’arretratezza dei Paesi di religione cattolica. Da questi presupposti sovrastrutturali nasce secondo Weber il capitalismo: crollato lo spirito dell’ascesi proprio dei Protestanti, è rimasto solo quello del capitalismo. La preoccupazione per i beni, che in origine era solo un “mantello sottile”, si è fatalmente trasformata in quella “gabbia d’acciaio” che è il capitalismo contemporaneo, per cui i beni esercitano un potere “ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia” [7].
Agli occhi di Weber, il grande errore commesso da Marx dev’essere rintracciato, più che nel peso preponderante attribuito alla struttura, nell’errato rapporto con la scienza: essa è stata da Marx impiegata come vernice per coprire e legittimare i suoi convincimenti morali, le sue credenze personali, la sua lettura filosofica del mondo; la scienza come l’ha intesa Marx è al confine con la fede, giacché, oltre a non essere critica e distaccata dall’oggetto della sua indagine, le mancano i presupposti avalutativi che, soli, possono garantire la scientificità di una teoria. Non è un caso che il filosofo di Treviri, nel tratteggiare il funzionamento del sistema capitalistico, gli stia già anche apertamente dichiarando guerra, sostenendo la sua imminente caduta e, al contempo, incitando il proletariato ad adoperarsi perché ciò avvenga. La contraddizione latente nel marxismo è insomma quella di volersi presentare come una scienza e, al contempo, mantenere i caratteri propri di una fede e di un’etica (per di più di un’etica dei princìpi, non della responsabilità), facendo convivere in sé elementi autoelidentisi: o la scienza o la fede, tertium non datur. In bilico tra il “freddo” della scienza e il “caldo” dell’umanismo [8], Marx fa esattamente quel che il vero scienziato deve guardarsi bene dal fare: formula giudizi di valore, fantastica società future, liquida le ideologie in nome di una nuova ideologia. Inoltre Marx ha indebitamente assolutizzato il punto di vista economico, facendone il solo punto di vista valido sul mondo: quello che era un possibile metodo di ricerca si è così capovolto in un vero e proprio dogma che ha reso il marxismo una teoria scientificamente improponibile e tutt’al più accettabile come nuova fede. In quel caleidoscopio di valori e di scorci sul mondo che caratterizza l’Età moderna e che Weber stesso ha battezzato col nome calzante di “politeismo dei valori”, quello economico è uno dei tanti possibili punti di vista che si possono assumere. Proprio in forza di questa surrettizia assolutizzazione, la concezione materialistica della storia, secondo Weber, “predomina oggi soltanto nella testa di profani e di dilettanti” [9]. E proprio in rottura con l’egemonia concessa da Marx all’economia, Weber sostiene l’esistenza di un reciproco condizionamento dei fattori storici, tale per cui è vero sia che i fenomeni economici condizionano quelli extraeconomici sia il contrario (come attesta il caso dell’etica protestante). Per far chiarezza su questo punto cardinale, Weber opera un’attenta distinzione tra i “fenomeni economici” stricto sensu, i “fenomeni economicamente rilevanti” (come le etiche religiose) e i “fenomeni economicamente condizionati” (quelli cioè che sono determinati dall’economia). In questo modo, crolla definitivamente la pretesa marxiana di risolvere l’intera vita dell’uomo e la storia nei fattori economici.
Proprio queste sono le aspre critiche a cui Löwith stesso – memore della lezione weberiana – sottoporrà il marxismo, soprattutto in Significato e fine della storia: qui Marx è qualificato coi poco lusinghieri aggettivi di “dogmatico” e di “idealista”, coi quali Marx stesso non esitava a tacciare i suoi avversari. Il grande errore commesso da Marx risiede, secondo Löwith, nell’aver tratteggiato una vera e propria filosofia della storia che, come ogni filosofia della storia in quanto tale, non può in alcun caso presentarsi come scienza; infatti, come Löwith argomenta tanto nell’Introduzione a Significato e fine della storia quanto in Storia e fede, quelli su cui poggia ogni filosofia della storia sono i “presupposti teologici” di un fine ultimo a cui tutta la storia tenderebbe e che le conferirebbe un senso compiuto, legittimando la fede e la speranza – due atteggiamenti degni più del credente che non del filosofo – nel futuro. A differenza degli antichi Greci, che si erano limitati a concepire la storia come un’enunciazione cronachistica degli eventi e pertanto l’avevano liquidata come addirittura meno filosofica della tragedia [10] (in virtù del fatto che quest’ultima ha il pregio di guardare all’universale), i filosofi successivi al cristianesimo non hanno fatto altro che far propri, seppur in forma secolarizzata, i “presupposti teologici” ed escatologici della concezione cristiana della storia, tutta proiettata verso un futuro a cui si tende progressivamente e in cui risiede il vero senso dell’intero processo storico. Dal tempo circolarmente inteso dei Greci si è dunque passati, col cristianesimo, al tempo concepito come una linea che avanza senza sosta e che tende ad un fine alla luce del quale leggere l’intero processo storico. Se lo storico greco si chiedeva “come si è giunti a ciò?”, quello moderno si chiede “come andrà a finire?”: sicché la prospettiva storica fatta valere dalla Modernità, hegelianamente intesa come una conversione dal cielo alla terra, non è se non una mondanizzazione della “teologia della storia del procursus agostiniano verso il regno di Dio” [11], con la conseguenza che ci si è paradossalmente trovati a tentare di orientarsi nel bel mezzo della storia non diversamente da un naufrago che cercasse un punto di appoggio sulle onde [12]. Se Burkhardt è il più agguerrito nemico di questo atteggiamento secolarizzato (ed è per questo innalzato da Löwith a suo modello), Marx ne è invece il campione: il senso della storia riposa tutto in un futuro non ancora affiorato e che bisogna far affiorare dalle ceneri di un capitalismo ormai barcollante e ineluttabilmente destinato al tramonto; non è un caso che il filosofo di Treviri etichetti l’intera storia, dal paleolitico ad oggi, come una “preistoria”, a segnalare come la vera storia debba ancora cominciare: essa sorgerà nel momento in cui, abbattuta la società capitalistica, verrà meno lo scontro di classe e, con esso, lo Stato, da Marx ed Engels inteso come strumento del dominio esercitato da una classe sulle altre. Agli occhi di Löwith, la prospettiva marxiana è profetica più che materialistica, morale più che empirica, incentrata più sulla speranza che sulla scienza, la quale – come già aveva messo in luce Weber – non costituisce che una vernice legittimante i presupposti fideistici del marxismo. Sulla scia di queste osservazioni, Löwith può rilevare, non senza indignazione, che “il Manifesto del partito comunista è anzitutto un documento profetico, un verdetto e un invito all’azione, ma non è assolutamente un’analisi puramente scientifica fondata su dati empirici” [13]. Per suffragare la sua tesi, Löwith fa notare come lo stesso termine “sfruttamento”, che Marx cerca di giustificare scientificamente con la teoria del plusvalore, resti necessariamente ancorato ad una sfera morale che nulla ha a che vedere con quella propriamente scientifica, che ha da essere apartitica e moralmente super partes. Per asserire che lo sfruttamento sia ingiusto, occorre infatti far riferimento a una ben delimitata idea della giustizia in senso assoluto: ma in tal modo si valicano i confini della scienza e si passa al regno della morale e delle sue prescrizioni. La contraddittoria conseguenza è che Marx ha liquidato tutte le altre teorie della società e tutti i punti di vista non-proletari come “ideologici”, ritenendo non ideologica e dunque verace solo la sua teoria e il punto di vista dei proletari, senza accorgersi che erano anch’essi una forma di ideologia mirante a ben determinati interessi: poiché totalmente alienato, privato dei privilegi borghesi e posto al di fuori della società esistente, il proletariato si trova secondo Marx in una condizione non ideologica e tale da poter redimere l’intera società. Il mondo capovolto che egli vede rispecchia secondo Marx non già una particolare prospettiva sul mondo, bensì il suo effettivo essere capovolto. La stessa idea che la storia evolva dialetticamente per lotte di classe testimonia un evidente abbandono dei canoni scientifici: dietro alla concezione apparentemente empirica e scientifica fatta valere da Marx si nasconde, secondo Löwith, un evidente messianesimo che solo in apparenza contrasta con l’ateismo e l’antisemitismo del rivoluzionario di Treviri. L’intero processo storico che egli delinea non è altro che una riproposizione, addirittura potenziata rispetto a Hegel, dello schema generale dell’interpretazione ebraico-cristiana della storia come “divenire provvidenziale della salvezza verso un fine ultimo dotato di senso” [14]: spia di questa insospettata prigionia entro gli schemi teleologici e messianici è il fatto che per Marx tutta la storia tenda a un fine, si risolva in un progresso graduale, implichi una futura salvezza, induca a vivere nella fede e nella speranza verso l’avvenire. Egli adopera la scienza come mero strumento per poter guadagnare la certezza di ciò in cui ripone le sue speranze e per poterle così contrabbandare come valide ai pensatori del suo tempo, che – muovendosi in una prospettiva fortemente positivistica – credevano solo a quel che la scienza decretava vero. Sicché il marxista si trova sempre e di nuovo in bilico tra l’atteggiamento colmo di speranza del credente che spera in una futura salvezza e l’atteggiamento dello scienziato disincantato che sa con certezza che il capitalismo cadrà con la stessa necessità con cui cade un grave lasciato precipitare. Gli stessi scritti di Marx sono intessuti di questa ambivalenza contraddittoria per cui, da un lato, egli delinea con rigore scientifico il necessario crollo del capitalismo e, dall’altro, esorta con toni messianici i proletari a combattere contro il capitalismo e contro la borghesia, quello stregone che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui stesso evocate [15]. A tal proposito, Löwith nota [16] acutamente che Marx non sarebbe certo riuscito ad entusiasmare milioni di seguaci con la pura e semplice constatazione di una situazione di fatto scevra della vocazione messianica e dai toni fideistici. Del resto, le sempre nuove modifiche apportate dai successori di Marx alla teoria originaria, per portarla all’altezza dei tempi o per giustificarne gli errori di previsione, ne dimostrano la mancata scientificità, il suo – per dirla con Popper – non poter mai essere falsificata.
Le aporie della concezione materialistica della storia furono già avvertite da Marx stesso – nota Löwith – allorché si trovò a discutere [17] dell’arte greca e del fascino che essa ancora esercita su di noi: come è possibile che l’elemento sovrastrutturale di una cultura ormai superata dalle nuove condizioni materiali possa ciò non di meno esercitare una sua influenza su di noi? Mutata la struttura, non dovrebbe essere mutata anche la sovrastruttura? In altri termini, non dovrebbe piacerci solo l’arte a noi contemporanea, frutto della struttura in cui ci troviamo proiettati e consona alla temperie culturale in cui viviamo? La soluzione marxiana al problema appare a dir poco deludente: ad avviso di Marx, infatti, il rapporto tra sviluppo della produzione materiale e sviluppo della produzione artistica non è del tutto parallelo, cosicché, nonostante le mutate condizioni materiali e sociali, i prodotti dell’arte greca, con la loro “eterna giovinezza”, sono ancora oggi oggetto di godimento estetico e ci affascinano non meno di quanto affascinassero i Greci stessi. Oltre a riscontrare la problematicità e la contraddittorietà di questa soluzione (che di fatto fa scricchiolare la teoria marxiana del rapporto dialettico struttura/sovrastruttura), Löwith mette in luce come essa possa essere anche applicata ad un problema affine che, propriamente, non orbitava negli interessi di Marx: come è possibile che l’antico messianesimo eserciti ancora un richiamo così potente per i filosofi moderni e sia il paradigma secolarizzato del materialismo storico marxiano? Anche il messianesimo gode di un’eterna giovinezza e di un intramontabile fascino tali per cui, anche se mutate le condizioni strutturali, esso continua non di meno ad incidere in maniera decisiva? La risposta löwithiana (ma in buona parte già weberiana) è che nel marxismo tanto la scienza quanto il materialismo siano solo una facciata che occulta ma non elimina la tensione escatologica e religiosa di una filosofia della storia che più di ogni altra ripropone il tema agostiniano del procursus e della salvezza finale, a tal punto che “in confronto a Marx la filosofia di Hegel è realistica” [18].
Esaminata la genesi del capitalismo in Marx e in Weber, occorre ora esaminare come i due lo intendano e come si comportino dinanzi ad esso: per Marx – memore della figura del servo e del padrone nella Fenomenologia dello spirito – la società capitalistica è il regno dell’alienazione, ossia dell’estraniazione più totale dell’operaio; un’estraniazione che, secondo la puntuale analisi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, avviene nei riguardi del prodotto del proprio lavoro di fabbrica, nei riguardi di se stesso e nei riguardi della propria Gattungswesen, ossia della propria essenza generica di uomo. Ma le leggi economiche che reggono l’ordinamento capitalistico non sono eterne, come credevano gli economisti classici (Adam Smith più di ogni altro), ma sono piuttosto qualcosa di storico che, in quanto tale, è destinato ad essere superato (aufgehoben) per via delle contraddizioni che in esso si annidano e che Marx smaschera una dopo l’altra nel Capitale. In quanto dominio dell’uomo sull’uomo, la fase capitalistica è dunque destinata ad essere sorpassata: questo superamento si caratterizza come un passaggio da un “regno della necessità” in cui l’uomo è servo della merce e dei padroni ad un “regno della libertà” [19] scaturente dall’instaurarsi della futura società comunistica attraverso una transitoria fase di dittatura del proletariato. Quel che più colpisce è come Marx, che ha descritto con impareggiabile precisione la società capitalistica e le sue storture, fornisca poi descrizioni a dir poco imbarazzanti di quello che sarà il tanto atteso “regno della libertà”, giungendo addirittura a tratteggiare l’arcadico scenario di una società che
“regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico” [20].
Sull’altro versante, Weber propone una soluzione diametralmente (ed intenzionalmente) opposta a quella marxiana: lo sviluppo singolare (Sonderentwicklung) della civiltà occidentale, a suo avviso, è stato occasionato da un processo di crescente razionalizzazione sconosciuto ad ogni altra civiltà e favorito dal fatto che quello cristiano è un Dio assolutamente trascendente, che non ha dimora in questo mondo e che dunque rende possibile un’indagine oggettiva e disincantata della realtà terrena. È in questo modo che si è sviluppato sempre più l’agire razionale, nella sua duplice veste di agire razionale rispetto allo scopo e di agire razionale rispetto al valore. In quest’ottica, il capitalismo non è che il frutto del processo di razionalizzazione e dell’agire razionale rispetto allo scopo. E la graduale razionalizzazione ha condotto, secondo Weber, a un vero e proprio disincantamento del mondo (Entzauberung der Welt), tale per cui il mondo è andato vieppiù svuotandosi degli dèi, delle tante forze misteriose che lo popolavano, dell’aura magica che lo avvolgeva, trasformandosi in semplice oggetto e teatro dell’agire umano. Più precisamente, la crescente razionalizzazione, che contraddistingue la Modernità e che ne costituisce la cifra più autentica, fa sorgere il disincanto nella misura in cui ci permette di “dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale” [21], senza essere succubi di quelle forze misteriose e trascendenti che ormai non hanno più cittadinanza in questo mondo. Il tema del disincanto compare con sorprendente frequenza negli scritti [22] di Weber, che se ne avvale nei contesti più disparati: così, nel saggio sull’etica protestante, il concetto viene introdotto per mettere in luce come, con la religione protestante, si sia definitivamente abbandonata la magia come mezzo di salvezza; negli studi sull’etica economica delle religioni, il disincanto fa la sua comparsa allorché Weber traccia la storia dell’abbandono del mondo primitivo e dell’animismo in forza del razionalismo religioso e allorché egli delinea la graduale secolarizzazione che ha investito l’Occidente e che ha sottratto gli ordinamenti della vita al controllo della religione. È però nell’età contemporanea (grazie all’impiego della tecnica e della scienza, che come effetto sortiscono una sempre maggiore intellettualizzazione del mondo) che il disincanto trova il suo più fertile terreno di sviluppo, concretizzandosi nell’agire razionale rispetto allo scopo più che nell’agire razionale rispetto al valore: il capitalismo segna per l’appunto il trionfo della “razionalità formale” e, di conseguenza, del disincanto di un mondo ormai ridotto a teatro dell’agire umano in vista di ben determinati scopi. E in quest’ottica, il capitalismo, secondo Weber, può essere definito come un particolare tipo di società caratterizzata dalla ricerca razionale dei profitti, dall’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, dallo scambio di mercato razionale, da procedure razionali di contabilità, da sistemi politici e legali razionali. Esso non è che il trionfo della razionalità in ogni campo.
Quello che per Marx era la quintessenza dell’ingiustizia, dell’alienazione e della reificazione, garantita peraltro non già da particolari norme giuridiche (come avveniva per la servitù nell’età feudale), bensì dallo stesso funzionamento capitalistico (per cui l’operaio è assolutamente libero di vendere la propria forza-lavoro o di morir di fame), per Weber è invece l’inaggirabile esito del processo di razionalizzazione che ha coinvolto tutti i settori (l’economia, il diritto, lo Stato, l’arte, il lavoro, ecc) senza alcuna esclusione. Sicché il capitalismo, non meno della scienza di cui Weber tratta nella conferenza del 1919, è un Beruf, una vocazione dell’Occidente sopravvenuta in maniera fatale e dunque inevitabile. In particolare, un ruolo di fondamentale importanza nel preparargli il terreno è stato svolto dalla scienza stessa, che della razionalizzazione è il punto d’approdo: a differenza dell’opera d’arte, la quale compendia entro sé una perfezione insuperabile perché definitivamente compiuta, l’indagine scientifica è destinata ad essere sempre e di nuovo superata da ulteriori indagini che ne smascherano i difetti o che ne approfondiscono le intuizioni, innescando un processo potenzialmente senza fine. Concretamente, in questo processo di graduali acquisizioni destinate ad essere immancabilmente superate dagli scienziati del futuro, la vera essenza della scienza è racchiusa nel motto di Bacone per cui “sapere è potere”; tale motto spalanca le porte al disincanto del mondo nella misura in cui, almeno in linea di principio, prospetta la possibilità di una conoscenza incontrastata e senza limiti, destinata a non essere ostacolata da presunte forze misteriose e incalcolabili. Si capisce in questo modo perché, per Weber, l’ateismo sia oggi l’unico modo di pensare realmente onesto e disincantato: ed egli fu, più di ogni altro, l’eroe di questo atteggiamento. Ma la Modernità, questo inarrestabile processo che tutto razionalizza, tende poi a capovolgersi tragicamente e a far risorgere gli antichi dèi della Grecia, di cui si illudeva di essersi sbarazzata in via definitiva: infatti – nota Weber – ciascuna delle realizzazioni dell’età moderna finisce per rispondere solamente a sé, smarrendo ogni punto di contatto con le altre realizzazioni, con la paradossale conseguenza che ciò che è buono non per questo è anche vero, ciò che è bello non per questo è anche buono, ecc. Si attua cioè un autentico frazionamento dei valori o, per usare l’espressione di Weber, un “politeismo dei valori” dinanzi al quale l’individuo può chinare il capo ad uno dei tanti dèi trascurando gli altri. In questo desolante scenario in cui i valori convivono senza comunicare tra loro, si realizza un tragico smarrimento del senso e della libertà: ci troviamo pertanto a vivere prigionieri di una “gabbia d’acciaio”, ma è in essa che dobbiamo condurre la nostra esistenza sperimentando fino in fondo le chances di libertà che ancora ci restano. Anche per Marx, in ultima analisi, la società capitalistica veniva a configurarsi come una prigione: ma per il pensatore della rivoluzione, vittima della malia hegeliana del superamento dialettico, si trattava di evadere forzando le sbarre e realizzando una vita più umana e improntata alla libertà; al contrario, in Weber regna l’accettazione dello status quo: è in questa “gabbia d’acciaio” che si dà la possibilità di sperimentare fino in fondo la libertà. Quello di Weber è stato significativamente presentato come un “individualismo eroico”, che accetta, senza opporsi, come destino il frazionamento dei valori.
Proprio il suo disincanto, il suo esser privo di illusioni e di chimere, ritenute un inutile orpello da rigettare virilmente (männlich), fu ciò che indusse Löwith ad eleggerlo a suo maestro spirituale. E sulle orme di Weber, Löwith intrattiene con il reale un rapporto meramente teoretico, senza per ciò cedere a una deleteria forma di acquiescenza verso lo status quo, nei confronti del quale mai rinnega l’atteggiamento critico proprio di uno scettico. Alla soluzione di Marx, che cerca utopicamente un superamento del capitalismo rivelando in tal modo la propria incapacità di affrontare la realtà nella sua datità, Weber contrappone il disincantato atteggiamento di chi affronta, senza speranza e senza dèi, la realtà presente guardandola in faccia. In omaggio a Weber e col suo stesso stile sobrio e privo di illusioni, Löwith chiude così il suo saggio Max Weber e il disincanto del mondo:
“Io credo che non tutti – e forse nessuno tra di noi – abbia in dote un simile daimon, che in Weber era nettamente percepibile, perché un tale dèmone contraddistingue solo gli uomini non comuni, significativi. Il nostro mondo moderno è tanto ricco di intelligenze medie e di talenti mediocri, e così povero di vera grandezza e maturità umana, che dobbiamo essere grati di averle incontrate anche una sola volta” [23].
DIEGO FUSARO, 13.01.2005
[1] Cfr. Löwith, Storia e fede, Laterza 1985.
[2] Löwith, Max Weber e Karl Marx, in Marx, Weber, Schmitt. Laterza 1994. Pag.4.
[3] Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione. In Annali franco-tedeschi, Ed. del Gallo, Milano, 1965, pagg. 134-135.
[4] Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, a cura di P. Burresi, Sansoni, Firenze, 1965.
[5] cfr. Löwith, Jacob Burkhardt, l’uomo nel mezzo della storia. Laterza 1991.
[6] Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione, in Opere complete di Marx-Engels, Roma, Editori Riuniti, vol. XXX, pp. 298-99.
[7] Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, a cura di P. Burresi, Sansoni, Firenze, 1965. Pag 185.
[8] Cfr. E. Bloch e la sua distinzione tra “marxismo caldo” e “marxismo freddo”, in Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano, 1983, pagg. 327-328.
[9] Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali. Edizioni di Comunità, Torino 2001. Pag. 167
[10] cfr. Aristotele, Poetica, 1451 B e seguenti.
[11] Löwith, Storia e fede, pag. 151.
[12] Löwith, Marxismo e storia, pag. 345.
[13] Löwith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità 1963, pag.63.
[14] Ibidem, pag. 65.
[15] Marx e Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza 1999, pag 13.
[16] Ibidem.
[17] Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica.
[18] Löwith, Significato e fine della storia, pag.72.
[19] Marx, Il capitale, vol. III, Roma, Editori Riuniti, 1974, pag. 933.
[20] Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24.
[21] Weber, Scienza come professione, Edizioni Comunità 2001, pag.17.
[22] cfr. P.P. Portinaro, Max Weber. La democrazia come problema e la burocrazia come destino, Franco Angeli 1987, pag.44.
[23] Löwith, Max Weber e il disincanto del mondo, in Marx, Weber, Schmitt. Laterza 1994. Pag.121.
MONDO MAGICO, FINE DEL MONDO ED ETNOCENTRISMO CRITICO IN ERNESTO DE MARTINO
1. La critica allo “storicismo pigro”.
“Il mondo magico costituisce un eccellente agone in cui il pensiero storicistico può cimentare se stesso, e conquistare combattendo più larga coscienza delle proprie possibilità e delle proprie virtù”[1].
Due sono i punti nodali della riflessione che Ernesto de Martino svolge ne Il mondo magico sui quali soffermeremo la nostra attenzione: la polemica condotta contro lo “storicismo pigro”, incapace di aprirsi alla comprensione di ciò che è situato oltre i confini della civiltà occidentale, e il tema della “presenza” nel “mondo magico”. Si tratta di due temi strettamente connessi, che, nel loro richiamarsi reciproco, vengono da de Martino costantemente intrecciati, con la conseguenza che non è possibile affrontare l’uno senza occuparsi anche dell’altro. Li analizzeremo anche alla luce delle riflessioni successive che su di essi De Martino svolge nei frammenti sparsi poi editi con il titolo La fine del mondo. E soprattutto in riferimento a questo scritto, inoltre, sfioreremo, seppur solo tangenzialmente, il problema del rapporto intrattenuto da De Martino col marxismo.
Per potersi addentrare nel vivo della polemica demartiniana contro il metodo occidentale di porsi verso le altre culture, occorre prendere le mosse dalla prima delle due prefazioni con cui si apre Il mondo magico: in essa, l’autore mette in luce come il compito fondamentale dell’etnologia storicistica, già tratteggiato in Naturalismo e storicismo, consista nella “possibilità di porre problemi la cui soluzione conduca all’allargamento dell’autocoscienza della nostra civiltà”[2]; a questo ambizioso obiettivo si oppone lo storicismo di Benedetto Croce e dei suoi discepoli, ai quali de Martino imputa l’aggravante di aver preferito elaborare una sorta di “scolastica” crociana, volta a sistematizzare l’idealismo del filosofo napoletano, anziché cercarne sviluppi verso nuove e più alte direzioni. Il loro “storicismo pigro”[3] e “sermoneggiante”[4], dogmatico e intento a tramutare ogni verità in verità spirituale e statica, è assolutamente incapace di guardare al di là della civiltà occidentale, nei cui confini resta imprigionato. Croce stesso, dopo aver fatto valere l’identità tra storia e filosofia all’interno del proprio sistema, aveva prospettato un’immagine della storia dai confini troppo angusti: infatti, intendendola come lo “sfondo omogeneo su cui si stagliano le battaglie che uno Spirito uno e identico combatte attraverso le sue quattro forme”[5], egli l’aveva di fatto identificata con la storia della cultura occidentale, nella convinzione che al di là di essa non si desse storia. È, non a caso, proprio nelle pagine de Il mondo magico che si consuma la frattura demartiniana con la filosofia di Croce, di cui fino ad allora s’era considerato allievo. Allo storicismo crociano, de Martino oppone quello “storicismo eroico”[6] che, rigettando l’inerzia su cui riposava quello dei Crociani, si concentra eminentemente sul “fare” e sul “plasmare” propri dell’uomo, assumendo ogni “incompreso” e ogni “immediato” come spunti di confronto e di allargamento della consapevolezza storiografica.
Uno storicismo di questo genere, che alla staticità preferisce l’attività e il progredire, deve misurarsi col mondo magico: e non in maniera fine a se stessa, bensì per ampliarsi e per prendere coscienza dei propri limiti. È per questa ragione che, ne Il mondo magico, de Martino intreccia senza posa i due momenti dell’analisi del mondo magico e dello studio del modo occidentale di porsi nei confronti di quel mondo. E, in realtà, è soprattutto intorno al secondo dei problemi che orbita l’interesse del filosofo napoletano. Benché in tutta l’opera l’espressione non compaia neppure una volta, de Martino ha già almeno in parte fatta sua quella prospettiva che, negli scritti successivi e ne La fine del mondo, qualificherà con l’etichetta di “etnocentrismo critico”, contrapponendolo tanto all’irrazionalismo quanto al relativismo: in opposizione a quanti, come Croce e Hegel, propugnano un’assoluta superiorità della civiltà occidentale, superiorità in forza della quale il confronto con le altre culture sarebbe inutile e ozioso, e a quanti liquidano sbrigativamente il problema ponendo sullo stesso piano tutte le culture, de Martino è fermamente convinto della grandezza della civiltà occidentale ma al tempo stesso ritiene che tale grandezza si manifesti nella capacità di tale civiltà, l’unica a possederla, di spingersi al di là delle proprie colonne d’Ercole, aprendosi al confronto con le altre civiltà. Come sottolinea acutamente Cesare Cases, nell’ottica demartiniana la civiltà occidentale “non può inverarsi se non negandosi”. Se volgiamo lo sguardo a La fine del mondo, tra le molteplici definizioni di “etnocentrismo critico” che possiamo rinvenire, ve n’è una che chiarisce in maniera particolarmente esaustiva, oltre che icastica, il concetto: de Martino asserisce che l’etnocentrismo critico è l’atteggiamento di chi “pone in causa il proprio etnos nel confronto con gli altri etne”[7] e “si apre alla prospettiva di un umanesimo molto più ampio di quello tradizionale”[8], che il nostro autore, ne Il mondo magico, aveva qualificato come “umanesimo ristretto” perché limitato alla cultura occidentale. L’etnocentrismo è inevitabile – precisa de Martino ne La fine del mondo – nella misura in cui il giudizio che noi occidentali formuliamo intorno alle culture extraoccidentali “non può non essere etnocentrico”[9], ossia fondato su categorie elaborate all’interno della nostra civiltà; ma deve essere critico, ossia non dogmatico e consapevole della limitatezza strutturale del proprio giudizio. In particolare, la presa di coscienza dell’inevitabilità dell’etnocentrismo non dev’essere assunta come la prova dell’impossibilità né della comunicazione tra culture intese come organismi chiusi (Oswald Spengler) né dell’allargamento dei confini dell’umanesimo: a ciò si oppone infatti il “postulato della comune umanità”[10] in base al quale, a prescindere dalle etnie di appartenenza, siamo tutti ugualmente uomini. Questo, che ai tempi de Il mondo magico è un motivo che innerva il pensiero demartiniano in maniera, per così dire, sotterranea e priva di una formulazione sistematica, è diventato ne La fine del mondo un metodo programmatico e consapevole di sé.
Nella prospettiva dell’“etnocentrismo critico”, lo studio del mondo magico è simile allo studio dell’umanità classica condotto dagli Umanisti, il cui ritorno ai “classici” mediò la scoperta di un’umanità più profonda: “il nostro ritorno al magico deve mediare il progresso dell’autocoscienza della cultura occidentale”[11], affinché essa esca fuori di sé non per negarsi ma piuttosto per fare ritorno in se stessa arricchita e, hegelianamente, aufgehoben, “innalzata” in virtù del confronto con l’alterità delle culture non occidentali. Sempre nella prefazione a Il mondo magico, de Martino spiega come il metodo dello “storicismo eroico” che intende seguire sia scandito in due momenti: in prima battuta, si muove dalla “angustia di una Einstellung culturale non consapevole di sé”[12], incapace di affrontare il problema del mondo magico in modo adeguato; in un secondo momento, dopo aver fatto scricchiolare i pregiudizi sul mondo magico dei quali si sostanzia la cultura occidentale, lo storicista eroico “acquista coscienza dei limiti del proprio orizzonte storiografico”[13] e si sottopone ad analisi non solo il mondo magico, ma anche il modo occidentale di accostarsi a esso, smascherandone uno dopo l’altro i vizi interpretativi.
In particolare, il presupposto acritico col quale la cultura occidentale (e de Martino fa anche nomi e cognomi dei destinatari della sua critica, tra i quali spiccano Lehmann, Frazer, Clodd, Lang, Lévy-Bruhl) si accosta al “problema dei poteri magici” consiste, paradossalmente, nel non porsi neppure il problema, dando già per scontata l’irrealtà dei poteri magici: e ciò non deve stupire, alla luce del fatto che le categorie scientifiche tramite le quali opera la nostra cultura presuppongono inevitabilmente una natura “purificata da tutte le ‘proiezioni’ psichiche della magia”[14], in opposizione alle quali è sorta la stessa scienza moderna. Infatti, la pretesa fondamentale avanzata dalla magia – la sospensione delle leggi di natura al fine di operare in essa a vantaggio dei singoli individui empirici – è in se stessa la negazione tout court dell’assunto su cui poggia la scienza. Dunque, “proprio la resistenza ad accettare il problema deve diventare a sua volta un problema per il pensiero”[15].
Sicché, dall’iniziale critica indirizzata allo storicismo, de Martino approda a una più ampia critica del metodo con cui la cultura occidentale interpreta le altre, costringendole entro i suoi schemi e, in ciò, compiendo una vera e propria “violenza”[16] che la rende imputabile di un etnocentrismo che è acritico in misura non inferiore a quello dei popoli primitivi che non riconoscono altra cultura all’infuori della propria. Accostandoci al mondo magico con le nostre categorie interpretative, che si sono storicamente sviluppate in opposizione a quel mondo, non possiamo che travisarlo, o negando la realtà dei poteri magici – liquidati alla stregua di meri errori frutto di una “struttura mentale” – o, nella migliore delle ipotesi, ammettendoli ma nel quadro della nostra natura, come fenomeni dati all’interno della legalità della natura. Nel primo come nel secondo caso, si assolutizza la cultura occidentale e la si immagina anacronisticamente già valida nel passato del mondo magico, come se quegli uomini da noi così distanti fossero vissuti nella nostra stessa epoca senza però raggiungere il nostro grado di cultura. Si tratterà allora di far valere il punto di vista dell’“etnocentrismo critico”, che alla domanda “esistono i poteri magici?” non risponde in maniera scontata e arrogante con un “no”, ma distingue tra la loro irrealtà nel nostro mondo culturale e la loro realtà nel mondo magico, alla luce dei diversi concetti di realtà che animano le due diverse epoche storiche. Spetta a noi moderni interrogarci sul senso del mondo magico, che naturalmente sfuggiva ai suoi attori: in questo senso, il motto di Croce secondo cui “ogni storia è storia contemporanea”, è valido anche per De Martino, a patto che lo si concepisca come uno sforzo immane per recuperare un mondo tramontato e, rispetto al quale, il nostro è, per così dire, un capovolgimento.
2. Il tema della presenza.
“L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza”[17].
La “violenza” del modo occidentale di accostarsi al “mondo magico” risulta evidente soprattutto se si considera quello che de Martino definisce il “dramma della presenza”, concetto che segna il suo avvicinamento all’esistenzialismo heideggeriano (ancorché si tratti, come rileva Cases, di un esistenzialismo visto “da un’angolazione idealistica”[18]): sono infatti mutuate da Martin Heidegger le nozioni di “esserci” (Dasein), inteso non jaspersianamente come l’insieme delle cose presenti nel mondo, bensì come lo specifico essere al mondo proprio dell’uomo, e di “presenza” (Vorhandenheit), concepita come l’“essere alla mano” delle cose nel senso della loro “utilizzabilità” (Zuhandenheit). Di queste due nozioni, de Martino fornisce una declinazione molto specifica e, a tratti, polemica verso Heidegger. In quell’epoca dai contorni ben definiti che è il “mondo magico”, l’esserci nel mondo non è certo né garantito, ma è piuttosto “una realtà condenda”[19], sempre esposta al rischio della labilità e dell’annullamento, a cimenti tremendi che “possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’”[20], al pericolo di perdere l’anima e di non esserci più. Esattamente in questo risiede il “dramma storico” che caratterizza il mondo magico. E la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci è l’angoscia che accompagna sempre e di nuovo l’uomo di quel mondo. A questa prospettiva erano approdati anche i cosiddetti “irrazionalisti” (Lévy-Bruhl, Klages, Dacqué), che però ad essa si erano arrestati, senza accorgersi che il mondo magico è anche percorso dallo sforzo di sottrarsi al rischio di non esserci. In vista di ciò, è la magia a elaborare sempre nuove strategie (guarentigie, compromessi, compensi) per garantire la presenza umana nel mondo, per agire in esso anziché essere agiti da esso. In particolare, sventare il rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che de Martino chiama “l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone”, il quale vive la dissoluzione e il riscatto della sua presenza anche per gli altri. In questo senso, l’esserci quale appare nella riflessione di de Martino assume l’aspetto di un “dover esserci” il cui orizzonte è tracciato da un limite dinamico e costruito socialmente: non si tratta, dunque, di un limite statico, quale è il Dasein heideggeriano, con il quale de Martino polemizza fortemente ne La fine del mondo[21], quando afferma che “il fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere”[22] contro il rischio di non essere più. La polemica anti-heideggeriana era già presente ne Il mondo magico, là dove de Martino metteva in luce come, in opposizione alla prospettiva heideggeriana, secondo la quale il Dasein trova sempre e universalmente[23] dinanzi a sé un oggetto stabile e l’angoscia sorge dal timore di perderlo, nel “mondo magico” la presenza è qualcosa di incerto, che deve essere continuamente fondato. Questa concezione della presenza è antitetica rispetto a quella della cultura occidentale, per la quale l’“io” è un dato che cade al di là di ogni possibile dubbio: dai Greci in poi, passando per il Cristianesimo, siamo abituati a considerare la presenza come l’esserci elementare, fondato e condizionato dal principio – tematizzato da Immanuel Kant – dell’atto della funzione sintetica trascendentale: così intesa, la presenza si mantiene in quanto capace di trascendere, attraverso l’atto, qualsiasi contenuto esistenziale, qualsiasi accadimento emozionale della vita individuale o collettiva. A differenza di noi, che riportiamo immediatamente tutte le nostre percezioni a un “io” trascendentale e stabile, gli uomini del mondo magico non operano tale sintesi e per loro, in forza di questo mancato riferimento a un’unità, i contenuti esperienziali diventano pericolosi per la presenza, in quanto caotici e disordinati, e devono dunque essere disciplinati attraverso la magia. In particolare, la crisi è plasmata e controllata attraverso la ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono il patrimonio collettivo e storico del “così si fa”, nel quale sembra affiorare la categoria heideggeriana dell’anonima indeterminatezza del man; come del resto a Heidegger rimandano le nozioni di “deiezione”[24] (il Verfallen heideggeriano) e di “carattere fattizio”[25] (la Faktizität heideggeriana).
Si tratta però di sfuggire alle secche in cui s’è arenata buona parte della ricerca degli “irrazionalisti”, i quali hanno surrettiziamente inteso come equivalenti l’antica magia e la moderna schizofrenia: è senz’altro vero che lo schizofrenico, non meno dell’uomo del mondo magico, avverte costantemente in pericolo il proprio esserci e si adopera per scongiurare tale rischio; tuttavia, a differenza della magia antica, che rientra a pieno titolo in una “storicità autentica” e che cementa la comunità riaffermando la presenza, la schizofrenia è una “caduta dal piano storico-culturale” che isola l’individuo in una sorta di crisi irrecuperabile in cui non si fa ricorso a tecniche magiche.
Ora l’inossidabile pregiudizio che vizia l’approccio occidentale al mondo magico è quello di aver assolutizzato, come se fosse l’unica possibile, la propria concezione della presenza intesa come un qualcosa di certo e fondata sulla nozione cristiana di persona: per questa ragione, se le credenze e i riti dell’uomo del mondo magico ci paiono superstiziosi, “ciò accade perché indebitamente (antistoricamente) le commisuriamo al ‘ci sono’ deciso e garantito del nostro mondo culturale”[26].
Le nostre categorie storiche sono del tutto inadatte per comprendere un mondo storico entro il quale l’individuazione è ancora un compito che esprime il dramma della presenza: non c’è allora da meravigliarsi che la nostra cultura non abbia affatto colto il dramma proprio di quel mondo e abbia visto in esso, come nel caso paradigmatico di Adolfo Omodeo, soltanto un negativo di cui non si dà storia. de Martino, ne Il mondo magico, è convinto che il “mondo magico” corrisponda a una precisa epoca storica, che ci siamo irrimediabilmente lasciati alle spalle. Più precisamente, quel mondo scompare quando la crisi della presenza non è più problema primario nell’esistenza individuale e collettiva, perché la presenza è ormai stata fissata, consolidata, garantita. I limiti di questa prospettiva sono messi in evidenza da Enzo Paci[27], il quale argomenta in favore dell’eternità del magico, presente in ogni epoca storica alla stregua dell’arte o della morale: anche in virtù di questa critica, ne La fine del mondo il mondo magico perde il suo carattere storico e diventa qualcosa di “eterno”, che può essere ascritto nella più generale Weltuntergangserlebnis[28], ossia nell’“esperienza di fine del mondo” dinanzi alla quale l’uomo si mobilita per salvare il proprio esserci. Ciò non di meno, de Martino mantiene saldamente la distinzione tra schizofrenia e pratiche magiche. Lo stesso esistenzialismo heideggeriano è, ne La fine del mondo, largamente presente, integrato con quello “positivo” di Nicola Abbagnano e con quello sartreano, anche in forza dell’avvenuto avvicinamento demartiniano al marxismo. Anche Karl Jaspers, il grande assente de Il mondo magico, è ora un interlocutore privilegiato di de Martino, anche se in veste di psicologo più che di filosofo dell’esistenza. Affiora anche il tema di una presenza che è avvertita come a rischio oggi non meno di duemila anni fa: venendo meno in De Martino la storicità del mondo magico, il rischio della presenza è esteso all’intero arco storico ed è concepito nei termini dell’esistenzialismo sotto forma di fine del mondo. In questo senso, la “fine del mondo” a cui fa ora riferimento de Martino è una riproposizione della “crisi della presenza” di cui aveva parlato ne Il mondo magico. L’uomo quale lo intende il nostro autore nei frammenti de La fine del mondo, contrassegnato da una finitudine costitutiva, è un esserci radicato in una “situazionalità” inaggirabile ed è in costante trascendimento rispetto a una realtà massiccia e, insieme, opaca: come aveva insegnato Sartre ne L’essere e il nulla, la coscienza umana è costantemente impegnata ad opporsi alla datità dell’essere nullificandola.
3. La critica di Croce e il marxismo
“La lotta moderna contro ogni forma di alienazione dei prodotti del lavoro umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la base elementare di questa lotta, la presenza che sta garantita nel mondo”[29].
In una prima recensione de Il mondo magico, Croce aveva tessuto le lodi dello scritto, qualificandolo encomiasticamente come “ricco nell’informazione, acuto e solido nella dimostrazione e lucido nella esposizione”[30], pur dissentendo dalla convinzione demartiniana secondo cui le categorie con cui si interpreta l’accadere storico, lungi dall’avere un valore assoluto, sarebbero storicamente determinate. Tuttavia, in una seconda e ben più ampia recensione dell’opera, il filosofo napoletano aveva radicalmente mutato giudizio, sottoponendo ad una critica impietosa quell’ammissione demartiniana della storicità delle categorie che, nella prima recensione, era stata rimproverata solo di sfuggita e in maniera benevola. L’errore imperdonabile commesso da de Martino è da Croce ravvisato in un indebito capovolgimento della prospettiva del “vero” storicismo: dimenticandosi che è lo spirito a creare la storia, de Martino ha ammesso l’esatto contrario, facendo dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante avanzare. L’aspetto forse più interessante di questa querelle è che Croce, nel formulare la sua condanna del metodo demartiniano, lo accosta alla “prequarantottesca spiritosa invenzione”[31] del marxismo, che, interessato a trasformare il mondo anziché a conoscerlo, ha storicizzato le categorie interpretative: e non esclude che de Martino sia rimasto abbagliato da questa filosofia che lo stesso Giovanni Gentile aveva bollato come “uno dei più sciagurati deviamenti dell’hegelismo”[32]. Sembrerebbe, a tutta prima, un’accusa infondata, alla luce del fatto che De Martino, ne il Mondo magico, non fa ancora professione di marxismo e la sua adesione al partito comunista avverrà solo due anni più tardi, nel 1950. Eppure egli sembra già orientarsi, in qualche misura, con le coordinate fissate da Karl Marx: non solo per quel che concerne la storicizzazione delle categorie interpretative, ma anche e soprattutto per il finale dell’opera, in cui il richiamo a Marx è evidente:
“la lotta moderna contro ogni forma di alienazione dei prodotti del lavoro umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la base elementare di questa lotta, la presenza che sta garantita nel mondo”[33].
Come nel caso dell’“etnocentrismo critico”, anche in quello del marxismo ci troviamo dinanzi a un orizzonte di pensiero già presente sullo sfondo ma che tuttavia non dice ancora il suo nome né ha piena coscienza di sé: spetterà agli scritti successivi dispiegare ciò che ne Il mondo magico è presente ancora in forma embrionale. Ma si tratterà di un dispiegamento tutt’altro che lineare, se si considera che De Martino abbraccerà il marxismo abbandonando però la storicità delle categorie e, in ciò, “riconvertendosi”[34] alla filosofia crociana, con la quale continuerà a intrattenere un rapporto di odi et amo. In particolare, se volgiamo ancora una volta lo sguardo a La fine del mondo, possiamo constatare come de Martino abbia ridotto la distanza siderale che lo separava da Croce ai tempi de Il mondo magico, riassumendo nuovamente l’assolutezza delle categorie, ma al tempo stesso non si identifichi in pieno con le posizioni del suo maestro, nella misura in cui resta fedele al marxismo: certo, un marxismo eterodosso e, se vogliamo, “eretico”, contraddistinto dal rifiuto di quell’“imbarbarimento positivisico”[35] che riduceva ogni esperienza culturale e religiosa a mera emanazione meccanica della struttura economica. Un marxismo che de Martino, certo non insensibile alle suggestioni di Karl Löwith e di Ernst Bloch, rileggeva soprattutto come secolarizzazione di antichi temi religiosi – la speranza nella salvezza finale, il popolo eletto, la lotta tra due princìpi contrapposti – più che come sistema scientifico portatore di certezze incrollabili. Addirittura, un marxismo coniugato col pensiero di Maurice Merleau-Ponty e incentrato sul problema della “immensa responsabilità”[36] dell’uomo.
Diego Fusaro, 3 novembre 2005
4. Bibliografia
– B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948, n. 10, pp. 79 ss; anche presente in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 241-253.
– E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997.
– E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977.
– G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa 1989.
– M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, 1927; tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, a cura di P. Chiodi.
– K. Jaspers, Philosophie, 1932; tr. it. Filosofia, Mursia, Milano 1972-1978, a cura di U. Galimberti, 3 voll.
– I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781-1787; tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Roma – Bari 2000.
– E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950, in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 254-262.
– J. P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1943; tr. it. L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2002, a cura di G. Del Bo.
NOTE
[1] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 4.
[2] Ivi, p. 3.
[3] Ivi, p. 4.
[4] Ibidem.
[5] C. Cases, in E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 22.
[6] E. de Martino, Il mondo magico, cit. p. 4.
[7] E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 333.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p. 394.
[10] Ivi, p. 395.
[11] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 5.
[12] Ivi, p. 6.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 52.
[15] Ivi, p. 22.
[16] Ivi, p. 213.
[17] Ivi, p. 82.
[18] Ivi, p. 29.
[19] Ivi, p. 97.
[20] Ivi, p. 105.
[21] E. de Martino, La fine del mondo, cit., pp. 669 ss.
[22] Ivi, p. 668.
[23] Già Karl Löwith aveva messo in luce come l’esistenza che Heidegger, in Essere e tempo, presenta come universale sia in realtà la specifica esistenza del borghese cristiano del suo tempo.
[24] E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 160.
[25] Ibidem.
[26] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 76.
[27] E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950, in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 254-262.
[28] E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 236.
[29] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 222.
[30] B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948, n. 10, pp. 79 ss; anche presente in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., p. 241.
[31] Ivi, p. 243.
[32] G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa 1989.
[33] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 222.
[34] È Cesare Cases a parlare espressamente di “riconversione”: cfr. E. de Martino, Il mondo magico, Introduzione, cit., p. 34.
[35] E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 431.
[36] Ivi, p. 441.
HEGEL INTERPRETE DELLA MODERNITÁ.
1. La filosofia della storia
La filosofia della storia non è altro che la sua considerazione pensante: e il pensiero è appunto ciò che non possiamo omettere mai[1].
Ancor prima di addentrarci nella lettura che Georg Wilhelm Friedrich Hegel dà della modernità nelle sue lezioni berlinesi raccolte dai suoi allievi sotto il titolo Lezioni di filosofia della storia, sarà bene soffermarsi, seppur cursoriamente, sulla concezione di “filosofia della storia” elaborata dal nostro autore: e ciò anche alla luce del fatto che la filosofia della storia, al pari della filosofia della scienza, è una delle principali scoperte di quella modernità di cui ci proponiamo di chiarire il senso. Infatti, non elaborarono una filosofia della storia né i Greci, che nel corso storico scorgevano una sequela episodica di eventi sconnessi privi di un senso ultimo e dunque tali da sfuggire all’indagine di una filosofia avente per oggetto l’universale, né i Cristiani, che tutt’al più maturarono una “teologia della storia” nei termini agostiniani del “procursus civitatis Dei”. Pertanto, è solo con la modernità , e in particolare col Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni di Voltaire, che si assiste al sorgere della “filosofia della storia”, ossia al tentativo di interpretare la storia concependola come un processo razionale e in vista di un fine ultimo alla luce del quale acquistano un significato anche i singoli eventi che costellano il corso storico e che, almeno a prima vista, parrebbero frutto del caso. Che la filosofia della storia sia, se non la cifra, sicuramente uno dei tratti essenziali della modernità, lo confermano anche i Postmoderni, i quali individuano uno dei molteplici sensi del “post-moderno” nell’esplosione della storia in una miriade di storie al plurale, nella sua perdita di un significato tale da giustificare una filosofia della storia.
Nella sua introduzione alle lezioni sulla filosofia della storia, Hegel esordisce ponendo l’attenzione sul fatto che il tentativo di trattare filosoficamente la storia potrà sembrare bizzarro, forse una contraddizione in termini: e ciò in forza del fatto che la storia ha per oggetto i singoli fatti ed è tanto più “vera” quanto più si attiene soltanto al dato, senza spingersi oltre, mentre la filosofia persegue con la ragione l’opposto obiettivo di mirare all’universale. Per sfuggire a questa contraddizione, che era stata lucidamente colta dai Greci, Hegel chiarisce come “la ragione governi il mondo”[2], innervandolo dall’interno, in maniera immanente: “la storia del mondo è solo la manifestazione di questa unica ragione, una delle particolari forme in cui essa si rivela”[3]. Così intesa, la storia non sarà se non il dispiegarsi nel tempo di quella stessa ragione che regge il mondo e, pertanto, l’accadere storico potrà essere esaminato filosoficamente.
L’obiettivo principale – e in Hegel assume quasi la forma di un’ossessione – che il filosofo della storia deve porsi è di “eliminare l’accidentale”[4], il caso, gli eventi privi di senso: e, strettamente connesso a questo obiettivo, v’è quello di rinvenire il “senso ultimo del mondo” a cui tende il corso storico nel suo sviluppo. Per questo motivo, specifica Hegel, bisogna convincersi che il contenuto della storia del mondo è razionale e volto a un fine preciso: ciò sfugge agli “occhi fisici”, che nella storia registrano soltanto il caso, ma deve essere colto dall’“occhio del concetto”[5], che, valicando i confini della “superficie”, si spinge in profondità e rinviene il senso situato al di là del groviglio dei singoli accadimenti. In una simile prospettiva, le passioni umane e le alterne vicende che coinvolgono i popoli e che risaltano più d’ogni altra cosa a chi si accosti con gli “occhi fisici” alla storia sono, per chi invece osserva con l’“occhio del concetto”, secondarie rispetto allo “spirito” che produce e governa tutti quegli accadimenti.
La prima categoria con la quale si trova a operare il filosofo della storia è quella del mutamento: la storia, infatti, è lo scenario in cui si avvicendano, in un succedersi instancabile, popoli, stati, individui, forze. In particolare, Hegel, convinto che “la storia non è il terreno della felicità”[6], intende questo alternarsi in senso catastrofistico, come un succedersi di tragedie e di violenze, di soprusi e di calamità che intessono l’esistenza di popoli e nazioni non di rado nascendo dalle migliori intenzioni. Ma dalle ceneri dei popoli e delle nazioni si vedono rinascere nuovi e più alti popoli e nazioni: è da questa constatazione, e in particolare dal fatto che “dalla morte sorge nuova vita”[7], che il filosofo della storia desume la sua seconda categoria, il “ringiovanire dello spirito”[8].
Inoltre, aggirandosi tra le “rovine della storia”[9], in quel “mattatoio” che fa a pezzi quanto di bello l’uomo produce nel corso del suo sviluppo, il filosofo della storia non può non porsi la domanda fondamentale: qual è il fine di tutto ciò? A che scopo tanti sacrifici? In questo modo, si infrange la superficie “sonante”[10] dei fatti storici per salire al più alto e “silenzioso”[11] livello della razionalità che sta dietro ai singoli eventi. La ragione in cerca di uno scopo nell’accadere storico è la terza categoria con la quale deve operare il filosofo della storia: cercando il senso della storia nascosto dietro i tanti singoli accadimenti che ne costellano il corso, la ragione scopre che il mondo è retto da una provvidenza interna, immanente, che la governa non dall’alto (com’era nella concezione cristiana), bensì dall’interno. Si tratta evidentemente, come meglio di ogni altro ha colto Karl Löwith[12], di una “secolarizzazione” della teologia cristiana.
Quale fine della storia, Hegel indica il dispiegarsi dell’idea della libertà umana: la libertà a cui fa riferimento il nostro autore è intesa come la “sostanza”[13] di uno spirito che “tende a perfezionare la sua libertà”, con la conseguenza che la storia è il dispiegarsi nel tempo di questi tentativi. Inoltre, la filosofia della storia assume la forma di una “teodicea secolarizzata”, nella misura in cui mira a farsi una ragione del male nel mondo e garantisce che alla fine il male non riuscirà a imporsi.
Lo spirito è, sì, individuale: ma nella storia esso assume natura universale, determinandosi in un popolo come Volkgeist[14] rispetto al quale le individualità scompaiono e debbono essere considerate solamente nella misura in cui “traducono in realtà ciò che vuole lo spirito del popolo”[15]. E lo spirito del popolo è uno spirito particolare – che si manifesta in un popolo tramite la sua cultura, la sua arte, le sue istituzioni – ma, insieme, è l’assoluto spirito universale, il Weltgeist[16] che, quando un popolo ha esaurito tutte le sue possibilità e tramonta, risorge in un nuovo popolo. Così nel mondo orientale, nel quale lo spirito non è ancora pervenuto alla coscienza della propria libertà, solo uno è libero (il principe); nel mondo greco e romano, nel quale sta sorgendo l’idea di libertà, solo alcuni sono liberi; infine, nel mondo cristiano-germanico tutti diventano liberi.
Di fronte alla storia intesa come il dispiegarsi progressivo dell’idea di libertà, il filosofo della storia deve anche domandarsi di quali mezzi essa si serva: Hegel spiega che, accanto agli “individui conservatori”, il cui valore risiede nell’essere conformi alla spirito del mondo, vi sono “individui cosmico-storici”, ossia personaggi fuori dal comune (Alessandro Magno, Cesare, Napoleone), che con lungimiranza capiscono che, al di sotto della superficie, sta avvenendo un mutamento, ossia che l’attuale spirito del popolo ha esaurito le sue possibilità, ha fatto il suo tempo ed è soltanto un “guscio”[17] che racchiude una nuova essenza: questi personaggi spezzano il guscio e, col loro agire rivoluzionario, fanno salire in superficie ciò che “già esiste nell’intimo”[18]. Ma essi, lungi dall’agire – come pure credono – spontaneamente, sono manovrati come burattini dall’“astuzia della ragione”[19], che si serve di loro come strumenti per far avanzare il Weltgeist verso nuove e più alte forme di libertà.
2. La modernità: il nuovo Zeitgeist
Il sommo e il vero sussistono ora nel sentimento della conciliazione realizzata. L’umanità ha acquistato il senso della effettiva conciliazione dello spirito in se stesso, e una buona coscienza nella realtà sua propria, nella mondanità[20].
Chiarita, nelle sue coordinate essenziali, la filosofia della storia hegeliana, possiamo ora esaminare quale posto il filosofo tedesco assegni alla modernità. E lo faremo anche in riferimento alla Fenomenologia dello spirito, del 1807, alla luce del fatto che parecchi temi affrontati in questo testo ritornano (alcuni invariati, altri declinati diversamente) nelle Lezioni sulla filosofia della storia.
Nella prospettiva di Hegel, la modernità non è né un “processo”, alla maniera della weberiana razionalizzazione che porta al disincantamento del mondo[21], né un “atteggiamento”, secondo la concezione propria di Michel Foucault[22], ad avviso del quale il Moderno sarebbe l’atteggiamento critico che, nato con Socrate e culminato nella figura del “parresiasta” Diogene il Cinico, mai ha smesso di manifestarsi nel corso della storia.
Piuttosto, per Hegel – e in fondo il suo giudizio è, in ciò, molto vicino al nostro senso comune – la modernità è un’epoca dai contorni ben definiti, alla quale si può riconoscere una precisa data di nascita: è infatti con la fine del Medioevo che si ha quello che il nostro autore chiama “il trapasso all’Età moderna”, il cui esordio deve essere riconosciuto nell’Età umanistica e il cui traguardo va ravvisato nella contemporaneità hegeliana e, soprattutto, nel raggiunto dispiegamento del fine della storia: il pieno sviluppo della libertà.
Nel tentativo di comprendere quale sia la cifra della modernità, Hegel segnala quelli che a lui paiono i tratti essenziali della nuova epoca: in primo luogo, egli intende il Moderno come una vera e propria “conversione” dal cielo alla terra; una conversione in forza della quale vengono abbandonati gli astrattissimi cieli della metafisica platonico/aristotelica e, soprattutto, della religione che aveva dominato l’Età medievale, e nasce un nuovo interesse per l’aldiqua, per l’uomo nella sua mondanità e nella sua finitezza.
Una seconda caratteristica del Moderno, fortemente intrecciata con la prima, è il sorgere di quella che Hegel chiama la Weltweisheit[23], il “sapere mondano” incentrato su una verità che acquista vita nella realtà del mondo: un sapere antropocentrico che non ha più nulla a che vedere con quei filosofemi degli Antichi e dei Medievali troppo ambiziosamente volti a cogliere le eterne essenze del mondo o Dio stesso. Questo “espandersi dello spirito, questo desiderio dell’uomo di conoscere la sua terra”[24] si configura specificamente come emancipazione dal principio di autorità e rinascita della curiosità socraticamente intesa come brama di conoscere ogni cosa.
A ciò è connessa la terza peculiarità del Moderno: lo “svegliarsi della coscienza” in contrapposizione al letargo in cui era sprofondata durante il Medioevo, contro il quale Hegel polemizza incessantemente. Anche le Lezioni sulla filosofia della storia, non meno della Fenomenologia dello spirito, sono innervate da una profonda avversione per il Medioevo, nel quale il nostro autore scorge un momento di caduta, di smarrimento e di negatività. Nella Fenomenologia dello spirito, Hegel intendeva il Medioevo come l’epoca della “coscienza infelice”[25] (unglückliche Bewußtsein), nella quale l’uomo vive la scissione tra il finito e l’infinito, tra la propria autocoscienza e la divinità; in forza di questa scissione, la vita “è soltanto dolore”[26] causato dalla consapevolezza della “propria nullità”[27] dinanzi all’infinita grandezza del divino.
Su questa scia, nelle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel spiega come la modernità debba essere intesa come “l’aurora, che, dopo lunghe tempeste, annunzia per la prima volta un bel giorno”[28], in opposizione a quella “lunga, terribile, gravida di conseguenze, notte del Medioevo”[29].
Questo, che alla nostra storiografia contemporanea pare un pregiudizio inveterato degno d’essere combattuto, era, nel contesto romantico/idealistico in cui Hegel è vissuto, in un certo senso una “novità”: contrapponendosi a tutti i Romantici, che avevano tessuto le lodi del Medioevo come epoca della notte e del divino (pensiamo anche solo a Cristianità o Europa di Novalis), Hegel (inaugurando una lunga tradizione che giunge almeno fino a Giovanni Gentile) scorge nel Medioevo il momento in cui la coscienza umana si nega, smarrisce la propria libertà e cerca fuori di sé la propria essenza, provocando la propria stessa infelicità.
Così inteso, il Medioevo è, per l’appunto, una “notte” non tanto nel senso poetico attribuito da Novalis, quanto piuttosto in quello – decisamente più polemico – di un’epoca di buio e di sonnolenza per la coscienza umana, incapace di esprimere le proprie potenzialità: lo spuntare del giorno avviene, come abbiamo visto, col “trapasso all’Età moderna”, in cui l’uomo guadagna l’autocoscienza, è caratterizzato da uno spirito che si sa libero e che, venuta meno la scissione che dilaniava la “coscienza infelice”, ha trovato una perfetta conciliazione con se stesso, mondanizzandosi e ottenendo una completa autonomia che però, almeno in un primo momento, non si capovolge in ribellione contro il divino.
Se interroghiamo ancora una volta la Fenomenologia dello spirito, vi troviamo spunti interessanti: in particolare, Hegel spiega come, con la modernità, la ragione riacquisti fiducia nelle proprie possibilità e renda possibile l’unificazione della coscienza, la quale si rende così conto della propria assolutezza e può avanzare la pretesa di comprendere in sé la realtà nella sua interezza. L’autocoscienza viene a coincidere con la ragione stessa e consegue la “certezza di essere ogni realtà”[30], ricomprendendo entro sé il momento del divino che, nel Medioevo, aveva inteso come un qualcosa di esterno e superiore.
Si tratta ora di analizzare, in concreto, quali siano le realizzazioni in cui si esprime lo Zeitgeist della modernità che abbiamo sommariamente tratteggiato.
3. Le realizzazioni della modernità e i suoi momenti principali
Siamo ormai giunti al terzo periodo dell’impero germanico, e con esso entriamo nel periodo dello spirito che si sa libero, in quanto vuole ciò che è vero, eterno, universale in sé e per sé[31].
Come abbiamo visto sviluppando la concezione hegeliana della filosofia della storia, la modernità è l’epoca in cui lo spirito giunge a destinazione, rendendo finalmente possibile la libertà di tutti gli uomini. Le tre tappe in cui il nostro autore scandisce la modernità sono la Riforma protestante, il periodo a essa successivo e l’Illuminismo: ciascuna di queste tappe fornisce uno sviluppo particolare dello Zeitgeist moderno, producendone specifiche realizzazioni.
La prima realizzazione della modernità su cui Hegel sofferma la propria attenzione è l’arte: essa è un momento di importanza capitale perché lascia affiorare in modo particolarmente chiaro la perfetta conciliazione con se stesso a cui è pervenuto lo spirito. L’arte dell’Età umanistica, infatti, (e Hegel cita le Madonne di Raffaello) è espressione sensibile del puro spirituale e, al tempo stesso, rende bello il sensibile, che il Medioevo aveva tendenzialmente liquidato come momento negativo.
In seconda battuta, Hegel prende in esame la riscoperta dei Classici e l’invenzione della stampa come momenti che testimoniano della curiosità e della volontà di sapere propri dei Moderni, concentrando l’attenzione anche sul destino della Chiesa: con l’avvenuta autonomia dello spirito, dal 1400 in poi, essa non ha più nulla da dire e da quel momento “resta indietro rispetto allo spirito del mondo”[32] e si capovolge in corruzione, volgarità, ipocrisia e superstizione, frenando lo spirito anziché accompagnarlo nel suo sviluppo.
L’inaggirabile conseguenza a cui si doveva pervenire era la Riforma operata da Lutero e favorita dalla particolare “intimità dello spirito tedesco”[33], inappagato dalla superstizione corrotta in cui era precipitata la Chiesa di Roma: in particolare, Lutero è inteso come figlio legittimo della modernità, nella misura in cui sofferma la propria attenzione non su Dio ma sul rapporto che l’uomo intrattiene con Lui, confermando quello spirito antropocentrico e attento al soggetto tipicamente moderno. Inoltre, Lutero segna un momento importante nell’eticità, nel mondanizzarsi del cristianesimo e del suo messaggio (tutti gli uomini sono liberi).
Alla Riforma s’accompagna quella scissione della Cristianità che trova nelle lotte di religione il suo momento culminante: da esse scaturisce il consolidamento dei governi e la differenziazione tra le varie nazioni, le quali vengono da Hegel qualificate come individui aventi un’unica volontà.
È attraverso questa differenziazione che comincia a svilupparsi un complesso sistema di Stati, che Hegel divide in “romanici” e “germanici”: il nostro autore tenta anche di cogliere lo spirito dei vari popoli europei, qualificando i Francesi come pensatori e spirituali, gli Italiani come artistici, solari e individualisti, gli Scandinavi come cavallereschi, gli Inglesi come industriali e, al vertice, i Tedeschi come uomini dell’interiorità e del giusto agire.
Sul piano culturale, dopo la Riforma sorge il periodo “della cultura formale dell’intelletto (Verstand)”[34] inteso come facoltà di distinguere le parti della realtà, scomponendola e mostrandone le singole porzioni indipendenti le une dalle altre: in forza di questa “ragione osservativa”[35] (così la chiamava Hegel nella Fenomenologia dello spirito) e in opposizione alla Chiesa, prende a svilupparsi la scienza sperimentale e, col cogito di Cartesio – che, ancora una volta, pone l’accento sul soggetto e finisce addirittura per identificarlo tout court col pensiero –, nasce la filosofia moderna. Le stesse guerre perdono il loro carattere ideologico/religioso e diventano sempre più guerre politiche.
A questo punto, spiega Hegel, si giunge all’Età dei Lumi, al “nostro mondo”[36].
A tutta prima, è con l’Illuminismo che la modernità sembra trovare la sua massima espressione, nella misura in cui l’uomo trova in sé “il vero contenuto”[37], ogni attività è ricondotta sotto l’egida della ragione ed è rimossa ogni autorità che non sia la ragione umana. Addirittura, con l’esperienza del “dispotismo illuminato”, la ragione umana sale sul trono e regge lo Stato. Di conseguenza, è con l’Illuminismo che, dopo il lungo e tortuoso viaggio della storia, dovrebbe giungere a compimento il pieno dispiegamento della libertà. Eppure non è così: memore della Fenomenologia dello spirito, il nostro autore scorge nell’Illuminismo e, in particolare, nei suoi esiti – la Rivoluzione francese – la più perversa delle realizzazioni della modernità, il suo punto di non ritorno.
Abbiamo già accennato a come, in definitiva, l’Illuminismo non faccia altro che condurre a uno sviluppo radicale tutti i principali portati del Moderno: nella fattispecie, la ragione assume il controllo di ogni cosa e tutto è rimandato al suo giudizio, che è un giudizio critico e dissacrante. Infatti, la ragione – meglio: l’intelletto (Verstand) – pensa l’universale astratto (il giusto, il buono, l’equo, e così via) ma finisce poi per trovare dinanzi a sé soltanto l’individuale concreto: quest’ultimo, naturalmente, contrasta con l’universale astratto e, in forza di ciò, la ragione si fa “violenta” nei confronti dell’esistente, nel quale mai rinviene i propri principi astratti e chimerici. Anziché cogliere la realtà nella sua totalità unitaria e concreta, l’intelletto illuminista la frantuma in una molteplicità di aspetti parziali e astratti.
Ed è per questo motivo che l’Illuminismo non può che portare alla Rivoluzione francese, alla pura violenza contro ogni esistente: a differenza dei Tedeschi, che con Kant hanno trovato nella teoria la loro libertà e sono appagati dalla rivoluzione che hanno compiuto nel Cinquecento con Lutero, i Francesi desiderano una libertà che non sia soltanto teorica, ma anche pratica, seguendo in ciò gli ammaestramenti di Rousseau.
Ma l’Illuminismo e la Rivoluzione si risolvono non nell’auspicata emancipazione universale, ma, perversamente, nel suo opposto, in quell’oppressione soffocante e negatrice di ogni libertà che fu il Terrore giacobino. Tutto ciò che non è ragione, viene “ghigliottinato” e annientato, nella convinzione che la ragione, là dove non scorge tracce di sé, debba annientare ogni cosa come forma di inganno da cui gli uomini debbono liberarsi. La prima e la più grande nemica della ragione è la fede, la quale, nel momento in cui deve giustificarsi dinanzi alla ragione, è perduta. Pertanto quel terrore e quella superstizione da cui l’illuminismo doveva liberare sono stati da esso rinforzati all’ennesima potenza, in quel processo perverso che Adorno e Horkheimer etichetteranno come “dialettica dell’Illuminismo”.
Contro l’ateismo a cui inevitabilmente doveva portare l’Illuminismo, Hegel ripete, ancora una volta, che “riconciliare lo spirito con la storia del mondo e con la realtà può soltanto la nozione, che quanto è accaduto e accade ogni giorno, non solo viene da Dio e non è senza Dio, ma è essenzialmente l’opera di Dio stesso” [38].
Diego Fusaro, 17 novembre 2005.
NOTE
[1] G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1963, 4 voll., a cura di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, p. 3.
[2] Ivi, p. 7
[3] Ivi, p. 9.
[4] Ivi, p. 8.
[5] Ivi, p. 11.
[6] Ivi, p. 82.
[7] Ivi, p. 15.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p. 14.
[10] Ivi, p. 16.
[11] Ibidem
[12] K. Löwith, Meaning in History, 1949; tr. it. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 19794, pp. 73 ss.
[13] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. I, p. 36.
[14] Ivi, p. 43.
[15] Ivi, p. 44.
[16] Ibidem.
[17] Ivi, p. 88.
[18] Ivi, p. 89.
[19] Ivi, p. 97.
[20] Ivi, vol. IV, p. 145.
[21] Cfr. M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; tr. it. La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, a cura di P. Volonté.
[22] M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1997.
[23] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 203.
[24] Ivi, p. 138.
[25] G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, 1807; tr. it. Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, a cura di V. Cicero, pp. 307 ss.
[26] Ivi, p.. 309.
[27] Ibidem.
[28] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 139.
[29] Ibidem.
[30] “Die Gewißheit alle Realität zu sein”: G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 339.
[31] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 146.
[32] Ivi, p. 140.
[33] Ivi, p. 147.
[34] Ivi, p. 185.
[35] “Beobachtende Vernunft”: G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 347.
[36] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 197.
[37] Ivi, p. 192.
[38] Ivi, p. 220.
LA FILOSOFIA DELLA STORIA DI HERDER: UNA PROSPETTIVA GRECO-CENTRICA?
1. La filosofia della storia dell’umanità
Se al mondo di tutto c’è una filosofia e una scienza, non dovrebbe esserci anche una filosofia e una scienza di ciò che ci riguarda più da vicino, cioè della storia dell’umanità nel suo insieme?[1]
Con Johann Gottfried Herder (1744-1803) ci troviamo dinanzi a una figura che non può certo essere collocata nella galassia dei pensatori illuministi: è vero che egli fu allievo di Kant, di cui seguì le lezioni a Königsberg e col quale intrattenne sempre un vivace dibattito, spesso alimentato dalla divergenza di prospettive; ed è anche vero che a Parigi ebbe modo di conoscere i maggiori philosophes. E tuttavia è anche vero che la riflessione del nostro autore è animata da problematiche e da soluzioni che rinviano ad un panorama filosofico che non è più quello illuministico, trovandosi egli a condividere – almeno per un primo periodo della sua attività – la nuova prospettiva filosofica di Schiller e di Goethe, col quale diede l’abbrivio allo «Sturm und Drang», e criticando ferocemente gli «Enciclopedisti» francesi.
Il mutamento di paradigma rispetto ai canoni illuministici risulta lampante se si volge lo sguardo alla concezione che Herder ha della storia, intesa come un tutto organico che si sviluppa nel tempo, e ancor di più se si considera l’animosa polemica che il nostro autore conduce contro la maniera illuministica di intendere la storia come incessante progresso dall’arretratezza delle epoche passate – irrazionali e viziate da pregiudizi – alla superiorità dei tempi presenti. Del resto, la stessa polemica che impegnerà i Romantici e Hegel contro gli Illuministi sembra già tutta in nuce nella critica che Herder muove a Montesquieu, del quale rigetta senza remore il concetto stesso di «legge» intesa come fredda e astratta norma formale, contrapponendo ad essa il «costume» in virtù della sua maggiore vitalità, concretezza e organicità[2]. Liquidando l’Esprit des Lois come una «metafisica fatta per un morto codice»[3], alla quale dev’essere contrapposta una «metafisica fatta per la formazione dei popoli»[4], attenta alla cultura e alle tradizioni più che alle istituzioni statali che ne sono scaturite, il nostro autore sta già segnalando la distanza siderale che lo separa dall’Illuminismo e, insieme, la Weltanschauung che lo accomuna a Goethe e, almeno in parte, a Hegel. Molto significativo, a questo riguardo, è il giudizio di Isaiah Berlin, il quale scorge in Herder «il critico più profondo e più tagliente dell’illuminismo, formidabile come Burke e de Maistre, ma libero dai loro pregiudizi reazionari e dall’astio per l’uguaglianza e la fraternità»[5]. Le considerazioni che il nostro autore svolge in materia di filosofia della storia sono intrecciate a un’incessante critica dei portati della filosofia illuministica.
Il vero filo conduttore della filosofia herderiana può facilmente essere individuato nella sua riflessione sulla storia, alla quale possono essere ricondotte tutte le ulteriori articolazioni del suo pensiero: una concezione sulla quale Herder riflette incessantemente, apportandovi continue modifiche, e che giungerà a una formulazione esaustiva con le Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791), opera destinata a esercitare un’influenza decisiva sul pensiero romantico e sullo storicismo tedesco di fine Ottocento. Nel Journal meiner Reise in Jahre 1769, Herder aveva narrato il succedersi di emozioni che s’erano impadronite di lui allorché, durante il suo viaggio per mare, era entrato in contatto con la natura e con le sue forze vive; e, sull’onda di questo entusiasmo, aveva asserito di voler scrivere una «storia dell’anima umana in genere, nei tempi e nei popoli», volta a mostrare come il Geist della cultura, della religione e della scienza sia passato di mondo in mondo e la «corrente dei tempi» sia giunta fino a noi. Un progetto ambizioso che troverà la sua concreta realizzazione nelle Idee, alla stesura delle quali il nostro autore fu incoraggiato da Goethe stesso. Lungi dall’essere un’opera composta di getto, esse costituiscono piuttosto la tappa conclusiva di un percorso iniziato da Herder parecchi anni prima, rispetto al quale uno dei momenti più importanti è sicuramente dato dallo scritto Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774): di quest’ultima opera, in particolare, le Idee si configurano come una riformulazione più completa e, per molti versi, differente, nella misura in cui viene abbandonato il tono predicatorio che la contraddistingueva. In Ancora una filosofia della storia, Herder era andato sviluppando quella concezione organicistica della storia alla quale resterà fedele anche nelle Idee, anche se in quest’ultima opera verrà meno l’enfasi con cui nella prima si insisteva sul parallelismo tra la vita del singolo uomo e quella dell’umanità nel suo complesso. Influenzato dalle tesi dello svizzero Isaak Iselin, autore di un’importante Geschichte der Menschheit, Herder è convinto che come lo sviluppo del singolo, così anche quello dell’umanità sia scandito da un processo che va dall’infanzia alla maturità, per giungere infine alla morte: e queste tre fasi corrisponderebbero, secondo Iselin, alle tre diverse facoltà della sensibilità, dell’immaginazione e della ragione. Così, nella fase dell’infanzia, corrispondente al mondo orientale, la vita umana – semplice e primitiva – sarebbe dominata dalla sensibilità; nella fase della giovinezza, che corrisponde al mondo greco e romano, predominerebbero invece l’immaginazione e il sentimento e, infine, la fase della maturità, corrispondente all’Europa moderna e al pieno raggiungimento della civiltà, vedrebbe l’egemonia della ragione. Può forse sorprendere il fatto che venga trascurata l’Età medievale, liquidata come un oscuro intervallo del tutto privo di valore: un giudizio che, a ben vedere, sembra rimandare al pensiero illuministico più che a quello romantico e che si ritrova, mutatis mutandis, anche in Hegel. Pur accettando la prospettiva di Iselin, Herder ritiene che essa vada emendata dai troppi giudizi di valore che la innervano (l’Età moderna veniva troppo enfaticamente encomiata in quanto superiore a tutte le altre) e, al tempo stesso, è convinto che si debba insistere maggiormente sull’unitarietà della storia, che è storia dell’umanità nel suo complesso, e sul suo carattere teleologico: proprio in forza del fatto che si configura come un momento che rientra nella totalità della storia umana, ogni mondo (orientale, greco, ecc.) racchiude un senso preciso ed è in sé positivo; aspetto, questo, scarsamente sottolineato da Iselin e – secondo Herder – del tutto trascurato dagli Illuministi. Così, in Ancora una filosofia della storia, Herder sostiene che il mondo orientale corrisponde all’infanzia, la civiltà egizia e fenicia alla fanciullezza, la grecità alla giovinezza, il mondo romano alla virilità, il tardo impero alla vecchiaia, fino a che le invasioni dei popoli barbarici non infondono nuova vitalità al decrepito corpo del genere umano. Possiamo notare, en passant, che lo stesso modello di sviluppo viene impiegato nello studio del linguaggio – altro tema cardinale in Herder – condotto nei Fragmente. Über die neuere deutsche Literatur (1766-1767), ove si asserisce che il passaggio dall’infanzia alla maturità del genere umano sarebbe ritmato dalla transizione dalla poesia alla prosa.
Se ci atteniamo alla linea interpretativa di Karl Löwith[6] – suggestiva ma talvolta fuorviante, nella misura in cui non di rado accomuna posizioni diversissime –, il pensiero di Herder costituisce uno dei principali paradigmi di filosofia della storia del suo tempo, ponendosi come momento di una vera e propria secolarizzazione della concezione cristiana della storia come processo in vista della salvezza finale: non è certo un caso che la domanda ch’è sottesa alle Idee è se Dio, che nella sua infinita bontà ha conferito a ogni cosa il giusto ordine, abbia ordinato anche la storia; una risposta negativa a questa domanda equivarrebbe a uno scacco per la ragione umana, che si troverebbe costretta a negare due delle principali prerogative di Dio: la sapienza e la bontà. Dunque, per evitare di scivolare in questa aporia, è necessario ammettere che la storia, non meno della natura, sia governata in maniera immanente dalla divina Provvidenza e dunque non si risolva in uno spaesante succedersi di eventi episodici abbandonati al caso, ma piuttosto sia il dispiegarsi progressivo di un senso presente in ogni epoca storica e non soltanto o in misura maggiore nella tappe finali di quel processo. Si tratta però di un processo tutt’altro che lineare e irenico: esso assume piuttosto la forma di un avanzare a zig zag, con rientranze irregolari, con anse indecifrabili e non di rado incomprensibile agli occhi degli uomini. La prospettiva di Herder sembra, a un primo sguardo, coincidere con quella che sarà la prospettiva hegeliana: di fronte a quel «campo di lotta di passioni senza senso, di forze selvagge, di arti di distruzione» che è la storia, la ragione umana non può non domandarsi quale sia il senso e spingersi alla ricerca di un disegno più alto, al di là dell’accidentalità che sembra dilagare nel corso storico: e in questo modo giunge a capire che anche la storia ha un senso. Ma, nell’atto stesso di fondazione della filosofia della storia, Herder già segnala – e in ciò risiede la distanza che separa la filosofia della storia herderiana da quella di Hegel – che all’uomo non è dato afferrare il senso della storia, con la conseguenza che, a rigore, soltanto Dio potrebbe essere un filosofo della storia in senso pieno, essendo il solo ad abbracciare in maniera universale e, se vogliamo, dall’«alto» l’intero processo degli accadimenti umani: non è certo un caso se Herder definisce la storia universale come «il cammino di Dio attraverso le nazioni», a sottolineare la decisiva presenza della Provvidenza che scandisce gli accadimenti. Ritmato da leggi cicliche valide per ogni popolo e dall’integrarsi dei risultati conquistati dalle diverse epoche, lo sviluppo storico sfugge alla presa di una ragione che possa afferrarne il senso ultimo: e ciò in virtù del fatto che ogni popolo e ogni uomo si trova calato nella storia, con la conseguenza che chi volesse trovarne il senso ultimo mentre si trova in essa agirebbe non diversamente da quel naufrago che volesse cercare un sostegno nelle onde del mare. Così scrive Herder:
«Sulla terra è fiorito tutto ciò che poteva fiorire, ogni cosa al suo tempo e nella sua cerchia: poi è sfiorito e tornerà a fiorire, quando verrà il suo tempo. L’opera della Provvidenza procede nel suo eterno cammino secondo grandi leggi universali, che noi ci accingiamo ora a considerare da vicino, con modestia»[7].
Ogni qual volta ci si illuda di poter elaborare una filosofia della storia universale, si cade nell’errore degli Illuministi, i quali hanno inteso l’età a loro contemporanea come ulteriore e, per ciò stesso, superiore rispetto alle età precedenti; a questo errore se ne accompagna un altro, non meno grave: quello di distorcere i fatti, strumentalizzandoli e utilizzandoli surrettiziamente come prove volte a suffragare il proprio modello teorico: in tal maniera, anziché leggere filosoficamente la storia, la si mistifica piegandola ai propri convincimenti teorici. Per questo motivo, gli scritti sulla storia di Voltaire e di Hume sono «semplice polvere che il vento disperde»[8]: il giudizio di Herder si accanisce in particolar modo contro Hume, al quale rinfaccia di aver inteso la storia come un «romanzo filosofico», dando una lettura arbitraria degli accadimenti storici.
Se in Ancora una filosofia della storia l’unità del processo è garantita dal parallelismo tra le varie fasi della vita e quelle della civiltà, nelle Idee essa è garantita dal fatto che ciascun popolo che fa irruzione sullo scenario storico rappresenta una particolare determinazione del concetto caleidoscopico e polimorfo di «umanità» (Menschheit), la cui piena realizzazione viene ad essere per Herder l’obiettivo a cui mira la storia nella sua corsa incessante: «l’intera storia dei popoli prende l’aspetto di una scuola di emulazione per conquistare la più bella corona dell’Umanità e della dignità umana»[9]. Così intesa, la storia è il processo tramite il quale il genere umano realizza appieno la propria umanità, arricchendosi via via dei caratteri che vengono incarnati dai vari popoli e dalle loro diverse culture, ai quali Herder riconosce – col preciso intento di opporsi agli Illuministi – pari dignità e importanza. Ogni civiltà, in quanto complesso dei diversi modi di sentire, vedere, giudicare, parlare e agire, crea i suoi ideali collettivi o le sue mete ideali, i quali costituiscono e caratterizzano quella particolare civiltà in un certo modo: la conseguenza che ne discende è che ciascuna civiltà può essere veramente compresa e giudicata secondo la propria scala di valori, le sue regole di pensiero e d’azione. Per questa via, Herder si propone di salvare le singole individualità – sia le nazioni, sia le epoche – che si manifestano nel corso della storia, mettendo in luce come ciascuna età formuli un determinato giudizio storico che, proprio in quanto frutto di quell’età specifica, non può avanzare alcuna pretesa di validità universale. Dunque la pretesa dei philosophes di giudicare le civiltà, le epoche storiche, i personaggi secondo leggi generali e principi universalmente validi è il frutto di una violenza concettuale che impiega l’universalismo come vernice per mascherare un particolarismo etnocentrico. Un giudizio alquanto simile a quello di Jacob Burckhard, il quale etichetterà l’approccio storico fatto valere dall’Illuminismo come una forma di «impazienza retrospettiva»[10], pronta a sacrificare una dinastia di faraoni d’Egitto, pur di giungere al governo liberale del re Amasi, più consono con il suo modo di sentire. Ciò non di meno, tutte le culture, in definitiva, presentano secondo Herder un’identità originaria, perché tutte sono ugualmente espressione dell’uomo e dell’umanità: in particolare, numerosissimi e incredibilmente diversi tra loro sono gli apporti che ciascun popolo ha dato alla determinazione dell’umanità e la loro unitarietà è garantita, ancora una volta, dalla Provvidenza divina operante sotto forma di intelligenza immanente alle forze stesse che promuovono lo sviluppo storico. Nei successivi Briefe zur Beförderung der Humanität (1793), il nostro autore declinerà in modo nuovo ma, a ben vedere, coerente con le Idee, il tema dell’umanità: quest’ultima, man mano che la storia avanza, tende sempre più a dispiegarsi, diventando un ideale a cui tendere e, insieme, un fatto che va sempre più concretizzandosi; intesa come norma e storia insieme, l’umanità viene a rappresentare la sintesi suprema dei più puri valori etico-religiosi, quali l’amore, la libertà, la giustizia e la ragione. La conseguenza – peraltro già tutta presente nelle Idee – è che nel concetto di umanità si stabilisce un’identità fondamentale fra tutte le culture e fra tutti i popoli, i quali costituiscono nel loro complesso quella che saremmo tentati di definire l’unica razza esistente, quella umana, alla luce del fatto che Herder rigetta senza remore il concetto stesso di razza applicato alle diverse genti. Nella storia, non meno che nella natura, l’esistenza e la permanenza di una realtà si fonda su una sorta di perfezione specifica, consistente nello stare tra i due limiti di un maximum e di un minimum: ogni qual volta una civiltà è scesa sotto il minimum e si è alzata sopra il maximum, è andata incontro al suo superamento, che si configura sempre non come sparizione, bensì come rinascita in una nuova civiltà. In questa prospettiva, l’umanità viene a identificarsi con la legge della «ragione e dell’equità», che – già in un saggio del 1785 intitolato Nemesis – Herder esprime simbolicamente con la figura della Nemesi, giungendo a scoprire che essa è non la vendetta (secondo una traduzione letterale del termine greco) ma, piuttosto, la giustizia, la necessaria sanzione degli atti umani secondo un principio di equilibrio. La nemesi, che allo sguardo miope degli uomini pare un’imperscrutabile forma di vendetta, è piuttosto la dea che vigila che non avvenga nessun eccesso, dinanzi al quale essa gira la ruota nella direzione opposta per ripristinare l’equilibrio infranto. Scrive nelle Idee il nostro autore:
«nella natura delle cose domina una legge del compenso, per cui non è possibile turbare un equilibrio politico senza doverne pagare le conseguenze; non è possibile un eccesso di potenza che non rechi in sé il principio della propria rovina»[11].
Questa legge della «ricompensa e punizione» (Wiedervergeltung), viene significativamente equiparata alle leggi del moto dell’urto tra i corpi, rimandando alla natura; non si dimentichi che la nemesi e la «teodicea», col loro imponente tentativo di rimuovere l’accidentalità dall’accadere storico, sono i due grandi ingredienti di ogni filosofia della storia.
S’è accennato a come, nella prospettiva herderiana, tanto la natura quanto la storia siano rette dalle leggi divine: il nostro autore insiste molto sulla continuità tra storia naturale e storia umana, precisando come quello che va dalla formazione dell’universo alla storia degli uomini sia, se letto con gli occhi della ragione, un unico processo storico. Per quel che riguarda la storia naturale, esiste secondo Herder – il quale sostiene la fissità delle specie – un «prototipo», una forma originaria fondamentale, che si ripresenta in tutte le tappe dello sviluppo dei corpi: i diversi fenomeni naturali (inorganici, organici, animali) non sono che complicazioni sempre maggiori di quell’unico prototipo, in modo che le diverse specie vegetali e animali possano essere collocate su un’unica scala evolutiva che culmina nel corpo umano; questo punto è di capitale importanza per far luce sulla concezione herderiana della storia, intesa quasi naturalisticamente come un organo vivente che nasce, cresce e si sviluppa unitariamente pur nelle sue diverse parti culminando nel pieno dispiegamento dell’umanità. Come sottolinea Valerio Verra, nelle Idee si intrecciano armonicamente motivi organicistici di marca leibniziana e istanze naturalistiche di impronta spinoziana[12]. Assai significativo è, a tal proposito, l’insistere del nostro autore sull’influenza che il clima, il territorio e, più in generale, la natura esercitano sullo sviluppo storico e sulla vita di un popolo, pur senza far professione di determinismo biologico: non è certo un caso che le Idee si aprano con un’ampia digressione sulla posizione della terra nel cosmo; una digressione nella quale il nostro autore si sofferma diffusamente anche sulla posizione dell’uomo, definendolo – kantianamente – un essere mediano, che gode di doppia cittadinanza nella misura in cui è un animale fra i tanti (legato alla terra e ai bisogni materiali) e, al tempo stesso, in forza dell’immortalità, della libertà e della razionalità che lo contraddistinguono, è destinato a una più alta dimora. Tra l’uomo e gli altri animali, avverte Herder, c’è continuità: tuttavia, mentre gli animali trovano su questa terra la loro perfezione, grazie ai loro sensi acutissimi e ai loro istinti infallibili, l’uomo può realizzarsi solo imperfettamente su di essa, segnalando già con questa inaggirabile imperfezione la più alta dimora a cui è destinato. Il linguaggio, la ragione, la libertà, la mano e la stazione eretta sono altrettante prove di ciò.
Qualche cenno merita anche la polemica sulla filosofia della storia che vide contrapposti Herder e Kant: quest’ultimo, quando lesse la prima parte delle Idee, non nascose le sue riserve e scrisse, sulle pagine della «Jenaische Allgemaine Literaturzeitung» del 1785, una recensione piuttosto critica dell’opera, prendendo di mira l’impiego herderiano delle immagini a scapito dei concetti, le tesi sull’immortalità, il dissolvimento dell’individuo nella vicenda dell’umanità; a queste critiche, Herder risponderà a tono nella seconda parte delle Idee, mostrando come l’accusa di aver sacrificato l’individuo all’umanità possa essere rivolta allo stesso Kant dell’Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), opera in cui il filosofo di Königsberg sostiene che tutte le disposizioni umane possono svilupparsi completamente solo nella specie. E, a sua volta, Herder attacca Kant – pur senza fare il suo nome –, capovolgendo la nota tesi kantiana secondo cui «l’uomo è un animale che, quando vive tra altri del suo stesso genere, ha bisogno di un padrone»[13]: l’uomo che ha bisogno di un padrone è un animale e la storia ci insegna che, a differenza di quel che crede Kant, lo Stato non è la condizione ultima della perfetta felicità degli uomini, come appare evidente nel caso dei Greci, che pur non avendo avuto uno Stato raggiunsero una felicità decisamente più alta rispetto alla nostra. Questo punto è cruciale, perché adombra meglio di ogni altro la lontananza che separa il nostro autore dal panorama illuministico: egli vede nello Stato un’istituzione fredda, astratta e artificiosa, alla quale preferisce di gran lunga la vitalità organicistica e spontanea della concreta vita dei popoli e delle nazioni. Per quel che riguarda la concezione della storia, pur rigettando l’«abderitismo» di Mendelssohn, che riduceva la storia a guazzabuglio caotico di accadimenti sconnessi tra loro, Herder non accetta neppure la filosofia della storia kantiana, ai suoi occhi colpevole di leggere illuministicamente tutte le epoche storiche in funzione di quella attuale, intesa come più evoluta e razionale.
Kant sottopose a critica, sempre sulle pagine della «Jenaische Allgemaine Literaturzeitung», anche la seconda parte delle Idee, soffermando la sua attenzione sullo stile di Herder – degno d’un poeta più che di un filosofo –, che risolve in immagini e in allegorie ciò che invece richiederebbe l’impiego di concetti. In particolare, il pomo della discordia sembra ora essere il problema della felicità, per il quale i due autori prospettano soluzioni diverse, se non antitetiche: com’è noto, nella prospettiva kantiana la felicità viene ad essere un qualcosa di secondario e integrativo rispetto al valore dell’esistenza umana; dal punto di vista herderiano, invece, la felicità assume un ruolo egemonico, includendo uno sviluppo armonico di tutte le disposizioni umane governato direttamente dalla divina Provvidenza.
2. Il mondo dei Greci
Noi vogliamo imparare ad apprezzare i Greci, senza diventare perciò Greci noi stessi[14].
Nella terza parte delle Idee, comparsa nel 1787, dopo una rapida analisi del mondo orientale e di alcune altre grandi civiltà (i Cartaginesi, i Fenici, gli Egiziani, i Persiani, ecc.), è sviluppato il confronto herderiano con la civiltà greca, al quale s’accompagna un’attenta disamina del concetto di Humanität. Ciò che contraddistingue il mondo orientale è la sua grande staticità, una staticità a causa della quale, dice Herder, «si è arrestato lo sviluppo di tutte le arti e le scienze»[15] e ogni cosa è rimasta sospesa come in un «sonno invernale, fermandosi allo stato dell’infanzia»[16]. Col solito interesse per l’aspetto morale e, congiuntamente, per le influenze climatiche e territoriali, Herder spiega che il mancato passaggio alla giovinezza nel mondo orientale deve essere posto in relazione con la morale di quei popoli, poco favorevole a mutamenti d’ogni sorta e al confronto con le altre civiltà, e con la posizione geografica particolarmente isolata. Come in Ancora una filosofia della storia, il mondo orientale viene assimilato all’infanzia dell’umanità. È particolarmente significativa l’insistenza herderiana sul tema della staticità orientale, un tema che ritornerà – seppur declinato diversamente – in Hegel, ad avviso del quale «l’elemento stazionario» (das Statarische) è la cifra degli imperi asiatici, e in Marx, che vede nel «modo di produzione asiatico» la staticità per eccellenza, rispetto alla quale la storicità non poteva essere introdotta se non tramite la violenza coloniale.
Ciò che invece contraddistingue il mondo greco è il movimento, il suo incessante sviluppo da una fase all’altra: «fin dai tempi antichi qui tutto è in movimento»[17]. La Grecia, nella prospettiva herderiana, viene a coincidere col mattino, in cui sorge il sole, e con una «bella giovinezza»[18] caratterizzata da quella «gaiezza giovanile»[19]che è il momento più incisivo per la Bildung dell’umanità. La grandezza dei Greci è in buona parte dovuta al fatto che essi – a differenza dei popoli orientali – accolsero con profitto gli apporti culturali provenienti da altri popoli, il che rimanda a sua volta alla particolare configurazione territoriale della Grecia: lambita ovunque dal mare e ricca di un pulviscolo di isole, era una terra particolarmente idonea a ricevere gli influssi di altre culture e a favorire una proficua circolazione di idee. Come scrive Herder, «sulle isole, penisole e coste, meglio disposte, era sorto un maggior spirito di iniziativa e una civiltà più libera di quelle che non fossero potute sorgere nella terra ferma sotto il peso di antiche leggi uniformi»[20]. Affiora qui, ancora una volta, l’attenzione herderiana per l’ambiente e per il territorio.
Assimilando la Grecia a un «bel giardino»[21] che diede i frutti più splendidi in ogni ambito (in seguito, portando avanti la metafora naturalistica, si dirà che la penisola italiana era «una serra di una meravigliosa fioritura»[22]), Herder prende in esame alcuni di quei frutti, a partire dalla mitologia, dalla lingua e della poesia dei Greci. Tenteremo di fornire un affresco generale della lettura herderiana del mondo greco, per poi soffermarci più diffusamente sul posto che ad essi il nostro autore assegna nella sua filosofia della storia.
L’analisi herderiana dalla mitologia, dalla lingua e della poesia greche può essere compendiata in questo encomio, con cui il nostro autore apre la sua trattazione dell’argomento: «la lingua greca è la lingua più colta del mondo, la mitologia greca è la mitologia più ricca e più bella che si trovi sulla terra e la poesia greca, infine, è forse la poesia più perfetta della sua specie»[23]; egli si sofferma diffusamente soprattutto sulla mitologia greca che, nata dall’incontro fortunato di miti e leggende provenienti dai popoli più disparati, è confluita mirabilmente nella poesia di Omero, del quale vengono tessute le lodi: vero e proprio «dono della civiltà, di cui nessun altro popolo può vantare l’uguale»[24], Omero occupa nella trattazione herderiana una posizione assolutamente centrale, e non solo nelle Idee. Infatti, già nel Versuch einer Geschichte der lyrischen Dichtkunst (1766), nel tentativo di individuare il momento iniziale e genetico della poesia lirica e, più in generale, di ogni realizzazione umana, Herder aveva distinto tra il «principio effettivo» (Ursprung) e l’«inizio cronologico» (Anfang), ravvisando in Omero l’Anfang ma non l’Ursprung della poesia: infatti, Omero rappresenta sì, nella mentalità collettiva già a partire dai Greci, il momento in cui la poesia è stata vista nascere, ma non bisogna dimenticare che essa fu preceduta da canti e leggende anteriori. Questa, che a tutta prima potrebbe sembrare una divagazione oziosa, è in realtà la significativa testimonianza del fatto che Herder, già nel 1766, volesse evitare le idealizzazioni dei Greci che andavano sempre più diffondendosi ai suoi tempi: se poi ci sia riuscito o meno, è un problema su cui torneremo più avanti.
Ritornando alle Idee, il nostro autore, dopo aver esaminato la mitologia, la lingua e la poesia dei Greci, passa a considerare le loro arti: anche in questo campo, essi hanno realizzato una fioritura magnifica, favoriti da una religione che tendeva a manifestarsi in realizzazioni artistiche formidabili quali i templi e trovando in Fidia l’equivalente di ciò che Omero rappresentò per la poesia epica. In Grecia l’arte potè fiorire splendidamente anche per il fatto che gli Stati ricorsero ai più grandi artisti per realizzare le loro opere e per il fatto che l’animo greco, sotto il «cielo sereno» e azzurro dell’Ellade, era naturalmente predisposto alle arti.
Per quel che riguarda lo Stato – posto che, per le povlei”, sia lecito usare tale espressione – e le decisioni politiche, che non di rado venivano prese dopo aver ascoltato il responso degli oracoli, i Greci commisero certo molti errori, i quali debbono tuttavia essere letti come altrettanti «tentativi della giovinezza che per lo più impara a diventare saggia soltanto a sue spese»[25].
Herder si concentra poi sulla filosofia greca, la quale, benché rivolta soprattutto all’uomo e alla morale, «ha cominciato a lavorare su tre argomenti che difficilmente potevano trovare altrove un’officina così adatta: il linguaggio, l’arte e la storia»[26]. Paradigmatica è, in ambito filosofico, la figura di Socrate, che riportò la filosofia dal cielo alla terra, facendo di essa un sapere essenzialmente dell’uomo e per l’uomo e ponendosi come insuperabile modello di umanità; e, proprio in riferimento alla figura di Socrate e alla sua tecnica maieutica, oltre che ai fenomeni della guerra e dell’efebato, Herder cerca di render conto di quella «perversione di costumi»[27] che fu, ai suoi occhi, l’amor socratico.
Nella sua trattazione del pensiero greco, il nostro autore lascia inoltre affiorare una tesi che, a tutta prima, non può non suonare strana: «la filosofia della storia ha come sua sede precipua la Grecia, perché propriamente soltanto i Greci hanno storia»[28]. Un’affermazione che suona strana soprattutto alla luce delle tesi di Löwith, secondo le quali i Greci, intendendo la storia come guazzabuglio caotico di accadimenti sconnessi tra loro, non l’avrebbero mai sottoposta a interpretazioni filosofiche tali da rinvenire in essa un senso. In particolare, svolgendo alcune considerazioni sullo sviluppo storico dei Greci, dalle origini fino a quella decadenza che avrebbe portato il Geist greco a migrare a Roma, Herder individua la grande cesura nelle Guerre persiane, che, se osservate con la lungimiranza propria del filosofo della storia, già rivelano il germe della futura decadenza, nella misura in cui, tramite esse, venne contrabbandato l’amore per la ricchezza e per il lusso, che fino ad allora erano, se non sconosciuti, certamente poco noti ai Greci.
Mi si scuserà se non mi sono dilungato nell’esposizione delle realizzazioni culturali, storiche e politiche dei Greci: ad esse Herder dedica molte pagine, assai pregevoli dal punto di vista artistico e interessantissime per chi voglia conoscere meglio i Greci. Ciò su cui invece vorrei soffermarmi è quello che, nella trattazione herderiana, mi pare un vero e proprio enigma: il posto che il nostro autore assegna ai Greci nella sua filosofia della storia. Abbiamo visto in precedenza come quella herderiana sia una filosofia della storia organicistica, che tende a risolvere lo sviluppo storico dei singoli popoli e delle singole civiltà come altrettante tappe – tutte ugualmente importanti e con pari dignità – del più generale sviluppo dell’umanità. Eppure, con la trattazione della civiltà greca, Herder sembra palesemente contraddire i propri presupposti, nella misura in cui assegna ai Greci una posizione che non esiterei a definire privilegiata rispetto a quella assegnata a ogni altra civiltà. Egli è pienamente cosciente della contraddizione in cui immediatamente precipiterebbe qualora compisse un’operazione di questo genere: la sua filosofia della storia si rivelerebbe viziata dall’inaggirabile contraddizione di teorizzare la pari dignità tra i popoli e, al tempo stesso, di assegnare la «palma d’oro» a uno di essi; quest’ultimo aspetto altro non sarebbe se non una smentita della presupposta uguale importanza di ogni civiltà e una ricaduta nei pregiudizi di marca illuministica. Ben consapevole di ciò, egli cerca in ogni modo di non cadere in questo errore, che però è sempre in agguato e che non esita ad affiorare nella trattazione herderiana: in generale, si può dire che essa oscilli costantemente tra il tentativo di leggere i Greci come mero momento dell’universale sviluppo dell’umanità e l’opposta tendenza a idealizzarli come paradigma autentico e supremo di esistenza umana a cui guardare con nostalgia. Dunque, la lettura del popolo greco come una tappa tra le altre di quel processo unitario che porta al progressivo dispiegarsi del concetto di umanità, s’accompagna, in Herder, alla concezione dei Greci come modello di un’umanità idealizzata che è insieme oggetto di ritorno nostalgico e di costruzione progettuale del futuro; la conseguenza, inevitabile e contraddittoria, è che i Greci furono più umani di noi ed è ad essi che dobbiamo tornare; in questa maniera, il futuro dell’umanità sembra paradossalmente collocarsi alle sue spalle.
Accostandosi all’esperto botanico, che può dire di conoscere una pianta soltanto quando ne ha contemplato l’intero ciclo di vita, dalla fioritura all’appassimento, Herder dice di voler studiare le tappe della civiltà in maniera organica; ma subito dopo aver svolto questa considerazione cardinale, specifica significativamente che, a rigore, soltanto il mondo greco può essere studiato alla maniera botanica, giacché è il solo, nella storia dell’umanità, ad aver attraversato tutte le fasi, compiendo per intero il proprio ciclo vitale. La prospettiva universalistica di Herder, di questo «morfologo delle civiltà»[29], sembra già qui entrare in cortocircuito, soprattutto se si considera che, sulla base di queste premesse, il nostro autore viene precisando che soltanto i Greci hanno storia in senso autentico. Tutti gli altri popoli o sono spariti troppo in fretta o si sono bloccati nello sviluppo (come la Cina), senza poter attraversare tutti gli stadi della vita. Sicché – altra conseguenza degna di rilievo e di meditazione – è solo guardando ai Greci che si possono formulare alcuni principi cardinali della filosofia della storia (tutto ciò che può accadere accade; ciò che vale per un popolo, vale anche per i rapporti tra i diversi popoli che agiscono l’uno sull’altro come forze viventi; la civiltà di un popolo è la fioritura della sua esistenza, il suo modo di manifestarsi bello ma caduco; la saldezza e la durata di uno Stato si fonda su un equilibrio di forze e non sulla massima fioritura della civiltà). Ma – e qui sta il paradosso del punto di vista herderiano – questi principi di filosofia della storia, desunti dal solo mondo greco e, come logica vorrebbe, applicabili soltanto ad esso, vengono di fatto universalmente estesi – nel quindicesimo libro delle Idee – all’intera vicenda storica dell’umanità. Si tratta di una posizione tutt’altro che esente da contraddizioni: com’è possibile che i Greci, che Herder non esita a etichettare come «caso felice»[30] – si badi bene al termine «caso» (Fall) – vengano assunti come modello di sviluppo di tutte le civiltà, passate e future? Non si tratta forse di un’evidente universalizzazione del modello greco?
Siamo al cospetto di contraddizioni che, come abbiamo già accennato, almeno in parte non sfuggivano al nostro autore, il quale cercò in più modi, se non di rimuoverle, per lo meno di mitigarle: particolarmente significativa è, in questo senso, la polemica che egli intraprese contro Johann Joaquim Winckelmann, una polemica volta a stigmatizzare la nostalgia che il grande storico dell’arte provava per il mondo greco e per la quale Herder stesso provava un’attrazione che doveva essere tenuta sotto controllo[31]. Espressioni di «nobile semplicità e serena grandezza», le statue greche ci restituiscono, secondo Winckelmann, l’immagine di un’umanità in pace con se stessa, in una serena compostezza contrassegnata da semplicità, universalità e misura, frutto di un animo lungimirante che tutto abbraccia e nulla esclude, una grandezza serena che è tale poiché di nulla abbisogna. Ciò si traduce nello sguardo di beata introversione con cui – egli nota – queste statue ci osservano, paghe della propria perfezione, in antitesi con la lacerazione che caratterizza noi uomini comuni; esse sono del tutto transumanizzate, raffigurano un’umanità che non è in lotta con le proprie passioni, ma che le ha già sopite e che alberga in se stessa una perfetta conciliazione di finito e infinito (secondo la definizione di Federico Schlegel: «l’antichità [greca] è compiuta rappresentazione della vita, reale conciliazione di finito e infinito, e, perciò, immune dal loro conflitto»). Questa diagnosi del mondo greco si traduceva immancabilmente nell’auspicio di un ritorno ai Greci e alla loro esistenza, nella consapevolezza che essi rappresentassero insieme l’umanità quale è stata e quale deve tornare ad essere. Un atteggiamento che peraltro non trova in Winckelmann il solo alfiere: sembra piuttosto che tutta l’area tedesca, dall’Età illuministica in avanti, passando per Hegel, Marx, Heidegger e arrivando fino alla «riabilitazione della filosofia pratica» sia vittima di un’irresistibile greco-mania; ammaliati dal loro modo – quasi sempre idealizzato – di intendere l’umanità greca, i pensatori tedeschi non fanno altro che auspicare – in modi e con intenti diversi – un ritorno a quella perfezione originaria. Anche Herder, a mio avviso, cade vittima di questa malia, vivendo però la lacerante esperienza di un’attrazione verso i Greci e di un rifiuto di assumerli come modelli insuperati d’esistenza. Egli rinfaccia a Winckelmann di aver presentato il popolo greco come chiuso in se stesso, senza sottolineare l’eredità che esso ha raccolto da altre civiltà e trascurando l’importanza di altri popoli che stavano fiorendo in contemporanea coi Greci; in questo senso, la teoria winckelmanniana, lungi dall’essere qualificabile come storia in senso autentico, è frutto di una «costruzione dottrinale» che piega la realtà alla propria linea interpretativa. Sbaglia inoltre Winckelmann a pensare che la perfezione greca fosse propria di ogni singolo uomo: è, infatti, celebre l’episodio secondo cui, a chi gli aveva fatto ironicamente notare che i Greci non erano tutti belli e perfetti, ma che erano esistite anche persone quali l’orribile Tersite, Winckelmann rispose stizzito che, in ogni caso, sotto le mura di Troia di Tersite ce n’era uno solo. A questa concezione, Herder oppone quella secondo cui la perfezione greca dev’essere intesa come prerogativa ideale di un popolo più che come effettiva caratteristica di ogni singolo uomo greco; anche alla luce del fatto che Ippocrate ci ha insegnato che anche un popolo bello e fiorente come i Greci conobbe malattie e malanni deformanti. La perfetta umanità greca – che trova la sua massima espressione nella concezione degli dèi come uomini imperituri – dev’essere dunque colta nella sua idealità più che come attributo di ogni uomo greco concretamente esistito.
In realtà, il problema è spostato senza però essere risolto: non meno di Winckelmann, il nostro autore idealizza i Greci e, se anche rivela una maggiore attenzione per le eredità che essi hanno acquisito da altri popoli e le scoperte innovative che altre civiltà fecero a prescindere da quella greca, ciò non di meno il suo giudizio resta fortemente greco-centrico. Un esempio lampante di ciò può essere colto in quanto egli dice dei Romani: «in ciò in cui eccellevano i Greci, i Romani non hanno mai potuto superarli e, viceversa, ciò che era loro proprio, i Romani non l’hanno imparato dai Greci»[32]; è sì ammessa la grandiosità di altri popoli, ma si tratta pur sempre di una grandiosità che non si eleva agli insuperati livelli di quella greca. Il nostro autore chiarisce l’impossibilità della realizzazione dell’auspicio winckelmanniano di un «ritorno ai Greci»: «noi vogliamo imparare ad apprezzare i Greci, senza diventare perciò Greci noi stessi»; «se dunque non possiamo essere Greci, ci sia concesso almeno di rallegrarci del fatto che una volta ci sono stati dei Greci e che ogni fiore dell’animo umano, e quindi anche questo, ha trovato il suo tempo e il suo luogo per il suo sviluppo più bello»[33]; ne segue che degli antichi Greci è lecito parlare come del «popolo che essi sono stati un tempo, che ora non sono più e che non saranno mai più»[34]. Questa posizione, del resto, si accorda perfettamente con le linee generali della filosofia della storia herderiana, secondo cui è esclusa tassativamente la possibilità che ogni civiltà – in quanto connessa al destino di un popolo in un contesto spazio/temporale preciso – possa, per così dire, tornare a fiorire. In questo modo sembrerebbe essere risolto l’enigma della speranza herderiana di un ritorno ai Greci, se non fosse che il Nostro, nell’atto stesso di comunicarci che ogni civiltà vive una volta sola, dichiara anche che le realizzazioni di ciascuna civiltà non vanno mai perdute: anzi, nella misura in cui un popolo ha portato a perfezione una qualche disposizione o una qualche attività, le sue opere restano come modelli e forniscono regole eterne per l’intelletto umano in ogni epoca. Non è certo difficile subodorare come questa precisazione lasci aperta la porta, se non a un ritorno nostalgico ai Greci quali effettivamente furono, almeno a un progetto di riforma dell’umanità in accordo con le insuperabili acquisizioni dei Greci, che costituiscono un’eredità a cui ispirarsi per avere non una nuova umanità greca (come credeva Winckelmann), ma piuttosto un’umanità non inferiore a quella greca.
DIEGO FUSARO, maggio 2006
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[1] J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, 1791; tr. it. Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Zanichelli, Bologna 1971, a cura di V. Verra, p. 66.
[2] J.G. Herder, Reise-Journal, 1769, IV, pp. 465 e ss.
[3] Ivi, p. 466.
[4] Ibidem.
[5] I. Berlin, Vico and Herder: Two Studies in the History of Ideas, 1976; tr. it. Vico e Herder. Due studi sulla storia delle idee, Armando, Roma 1978, a cura di A. Verri, p. 203.
[6] K. Löwith, Meaning in History, 1949; tr. it. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 19794.
[7] J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 341.
[8] J.G. Herder Provinzialblätter, VII, pp. 300-301, in Johann Gottfried Herder Sämtliche Werke, B. Suphan, et al. (eds.), Berlin 1887.
[9] J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 349.
[10] J. Burckhardt, Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1905; tr. it. Sullo studio della storia, P. Boringhieri, Torino 1958, a cura di M. Montinari, p. 143.
[11] J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 271.
[12] V. Verra, Introduzione, in J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit., p. 25.
[13] I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784; tr. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1965, pp. 123-139.
[14] J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, cit, p. 292.
[15] Ivi, p. 279.
[16] Ivi, p. 261.
[17] Ivi, p. 284.
[18] Ivi, p. 281.
[19] Ivi, p. 292.
[20] Ivi, p. 283.
[21] Ivi, p. 286.
[22] Ivi, p. 325.
[23] Ivi, p. 287.
[24] Ivi, p. 291.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 302.
[28] Ivi, p. 315.
[29] W. Rehm, Griechentum und Goethezeit, Leipzig, 1936, p. 85, traduzione mia.
[30] J.G. Herder, Idee, cit., p. 294.
[31] Cfr. J.G. Herder, Fragmente, cit., II, 119; IV, 124.
[32] J.G. Herder, Idee, cit., p. 341.
[33] Ivi, p. 292.
[34] Ibidem.
MARX E L’EPOCA DELLA FALSA APPARENZA
Ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente. (K. Marx, Il capitale)
Uno spettro ossessionante e al tempo stesso ossessionato dagli spettri: è questa l’immagine inquietante di Marx che affiora da Spettri di Marx di Jacques Derrida, uno dei più grandi testi che sul filosofo di Treviri siano stati scritti dopo la caduta del Muro. Che Marx abbia assunto, oggi, i tratti specifici di uno spettro ossessionante che tutti cercano di tenere lontano ripetendo la solita litania funebre secondo cui «Marx è morto», è un punto assodato che nessuno si può sognare di negare: il papa, l’ex Presidente del Consiglio, perfino coloro che si propongono di «rifondare» il Partito comunista muovono dal comune presupposto che Marx sia morto e sepolto, e che la sua sia ormai solo l’esistenza spettrale di chi non appartiene più a questo mondo. Derrida, memore della lezione freudiana, ha il merito di averci insegnato che dietro a quest’operazione di presa d’atto di un decesso si nasconde una sorta di perverso rituale volto a scongiurare il pericolo che il morto risorga e, nel caso di Marx, torni a tormentare i vivi con la sua scomoda presenza. In altri termini, chi annuncia senza sosta la sua morte, sa bene che Marx è ancora vivo e vegeto e che oggi ha ancora molto da dire su ciò che accade nel mondo. Il punto del discorso derridiano che a noi più interessa, ora, è che se se oggi è diventato uno spettro ossessionante, al suo tempo Marx si trovava ad essere ossessionato da un folto stuolo di fantasmi a cui diede ininterrottamente la caccia per tutta la vita: fantasmi numerosi e poliedrici che, come si suol dire, non lo lasciavano dormire e lo perseguitavano senza dargli tregua. Tra questi, quello forse più inafferrabile e pugnace è lo spettro dell’apparenza che occulta ogni cosa in quel particolare momento storico della storia dell’umanità che è il «modo di produzione capitalistico». Prima di indossare i panni del rivoluzionario e compiere prese di Palazzi d’Inverno, se ci si pone nell’ottica marxiana occorre indossare il camice dello scienziato e guardare in faccia la realtà del capitalismo, ossia cogliere la sua essenza squarciando i veli mistificanti che la coprono rendendola invisibile: occorre conoscere a fondo ciò contro cui si combatte. Ma la conoscenza della realtà è tutto fuorché immediata: poiché, come scrive Marx, «le forme fenomeniche si riproducono con immediata spontaneità, come forme correnti del pensiero, il rapporto sostanziale dev’essere scoperto dalla scienza»[1], quest’ultima intesa nella sua valenza di strumento neutro e demistificante in grado di guardare la realtà come essa è.
In questo senso, Marx non è così rivoluzionario e innovativo come spesso lo si presenta, ma, piuttosto, si pone come l’erede legittimo della tradizione filosofica occidentale che muove dai Presocratici (si pensi al noto motto di Anassagora secondo cui «le cose visibili sono ciò che si vede delle cose che non si vedono»[2]), passa per Platone e poi per il Medioevo, fino a giungere all’Età moderna: i fenomeni non si risolvono in ciò che immediatamente vediamo, ma rimandano tutti a qualcosa di ulteriore che non si vede, ma dal quale derivano e del quale attestano l’esistenza; il che, del resto, esprime nel modo più efficace ciò che la tradizione occidentale ha propriamente inteso con l’espressione «fare filosofia», ossia mettersi alla ricerca di ciò che sta oltre l’apparenza per poter spiegare l’apparenza stessa, che altrimenti sarebbe destinata a rimanere un enigma irrisolvibile.
Se letto in trasparenza, tutto lo sforzo teoretico di Marx, dalla culla alla tomba, è racchiuso nel suo tentativo di spingersi sempre al di là dell’apparenza, sotto la pelle della realtà, per scoprire i meccanismi segreti che operano nel profondo e che risultano occultati dai «fenomeni percepibili ad una considerazione superficiale delle relazioni economico-sociali di una società borghese»[3]. Nella prospettiva marxiana, l’apparenza non si limita a ingannare, come spesso si ripete; fa ben di più: mostra l’esatto contrario delle cose, esibendo la libertà dove invece regna la schiavitù, liberi scambi dove dilagano forme di coercizione, semplici «cose» dove invece sussistono rapporti sociali. Essa mostra un «mondo capovolto», e lo fa perché il mondo stesso è a testa in giù: non solo le cose appaiono capovolte rispetto a come sono realmente, ma sono esse stesse, nella realtà, capovolte rispetto a come dovrebbero essere. In altri termini, il mondo è sbagliato ma l’apparenza lo mostra giusto, finendo per santificarlo così come è. Marx tematizza questa discrasia sempre presente tra la realtà e la parvenza sostenendo che «ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente»[4], se cioè, per rievocare una terminologia di sapore kantiano, «fenomeno» e «cosa in sé» non fossero disgiunti. In questo senso, come la critica ha messo pervicacemente in evidenza, «i fenomeni della superficie sono, secondo Marx, forme fenomeniche»[5], le quali «nascondono l’intima struttura della società borghese»[6], legittimandola nella sua forma presente[7]. Ciò significa, molto banalmente, che chi si arresta alla superficie fenomenica della realtà non potrà mai prendere atto delle contraddizioni e delle storture di cui essa è intessuta. In riferimento a Marx, oltre che a Freud e a Nietzsche, Paul Ricoeur impiegava un’espressione molto efficace: «maestro del sospetto»[8]. Con quest’immagine, il pensatore francese metteva assai bene in luce come la realtà quale ci appare si configuri per Marx come una vernice che nasconde un livello più profondo, che deve essere individuato per poter comprendere e trasformare il mondo, contro ogni istanza adattiva. In particolare, come sappiamo, la realtà profonda coincide per il filosofo di Treviri con la sostanza economica: il mondo che ogni giorno percepiamo e in cui siamo perennemente immersi presenta una miriade di rapporti diversi, ma, se solo ci si spinge sotto l’epidermide della fenomenicità, si scopre che sono tutti rapporti «sovrastrutturali» e riconducibili, in ultima istanza, a quella «struttura» economica che, si sa, per Marx ne costituisce l’origine e la spiegazione. Non diversamente da Hegel[9], Marx sembra dunque operare una distinzione radicale tra gli «occhi fisici» e gli «occhi della ragione»: coi primi, comuni a tutti gli uomini, si vede la realtà quale si presenta nella sua parvenza, come un mondo dominato dalle idee e dalla politica, dalla libertà e dall’uguaglianza; coi secondi, appannaggio esclusivo del filosofo critico (benché Marx ben presto, al più tardi nel 1845, rigetti l’etichetta di filosofo), è dato trascendere il velo dell’apparenza e avvicinarsi, come avrebbe detto Husserl, «alle cose stesse», scoprendo che esse sono l’opposto di quel che sembrano. In virtù del fatto che, per Marx, «nella loro apparenza le cose spesso si presentano invertite»[10], non stupisce che chi fa affidamento sui soli «occhi fisici» finisca per credere che a muovere il mondo siano le idee, la religione, la cultura, senza rendersi conto che esse, al contrario, non sono se non l’emanazione diretta del sostrato economico, del «modo di produzione»: mutato quest’ultimo, si trasformeranno anche le prime, e non viceversa, come troppo spesso si crede. Questa inversione di cose, peraltro comune anche alle epoche storiche del passato, è solo una delle molte altre che innervano l’epoca moderna: un’altra, su cui dovremo tornare, è quella che veicolano senza sosta gli apologeti della società borghese, ad avviso dei quali il mondo moderno si presenta come un terreno di pacifiche transazioni armoniche tra possessori di merci che agiscono nel pieno rispetto delle divinità olimpiche della libertà, della proprietà, dell’uguaglianza e di… Bentham[11].
Abbiamo detto che, nella dialettica verità-apparenza, Marx è meno rivoluzionario del previsto, nella misura in cui si ricollega a una tradizione millenaria che affonda le sue radici nel pensiero dei cosiddetti Presocratici: tuttavia, la grande novità che il filosofo di Treviri introduce con la sua riflessione consiste nell’avere, per così dire, «storicizzato» l’apparenza, facendo di essa una manifestazione tipica dell’epoca moderna o, come egli preferisce chiamarla, del «modo di produzione capitalistico»: è in esso che trionfa nel modo più eclatante quella che Marx chiama la «falsa apparenza»[12] (täuschende Schein). Il «capitalismo» – si ricordi, per inciso, che nei suoi scritti Marx non usa nemmeno una volta questo termine – non è caratterizzato soltanto dalla «produzione per la produzione», dalla «valorizzazione del valore» e dall’immane quantità di merci che dà alla luce ogni giorno; a contraddistinguerlo è anche l’apparenza con cui immancabilmente si presentano le cose, come se fossero condannate a non offrirsi mai nella loro reale configurazione. L’epoca moderna – dice Marx –, nella sua opacità, è l’epoca fantasmatica per eccellenza, il regno umbratile in cui hanno cittadinanza fantasmi di ogni tipo: ogni cosa non è che una mera parvenza, un’ombra a cui tuttavia gli uomini danno credito come se si trattasse della realtà. Ciò risulta particolarmente evidente se si guarda a quel «feticismo» tipico dell’economia politica, in forza del quale vengono scambiati per cose quelli che invece sono rapporti tra uomini: per accorgercene, proviamo a volgere lo sguardo a una delle infinite «merci» che popolano il mondo e che vengono affastellate nei supermercati, veri e propri «templi della merce», come li chiamava Benjamin. Se la si considera sotto il profilo del «valore d’uso», non sorge alcun problema: il tavolo serve per mangiare, per appoggiare oggetti, e così via. Ma non appena si consideri quella merce dal punto di vista del «valore di scambio», ecco che succede qualcosa di davvero bizzarro: «il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare»[13]. Che cosa accade alla merce? Essa sembra un mero oggetto che si scambia sul mercato e che può essere acquistato in cambio di una certa quantità di denaro: ti do una certa cifra, e tu in cambio mi dai la merce in questione. Di qui l’impressione di avere a che fare con un semplicissimo rapporto tra cose che si scambiano: e proprio in ciò si annida la parvenza illusoria che deve essere smascherata. Infatti, rileva Marx, «quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica (die phantasmagorische Form) di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi»[14]. Per questa via, la merce viene a esercitare un dominio feticistico sugli uomini, vittime dell’illusione che essa sia semplicemente una «cosa» e non il prodotto del loro lavoro sociale; e, al tempo stesso, nella produzione di merci, i rapporti umani assumono la forma fantasmagorica di rapporti tra cose, la socialità viene feticizzata in coralità: la società capitalistica viene così a configurarsi eminentemente come una società di merci e di mercati, dei quali gli uomini non sono che gli intermediari. Come nella religione i prodotti del cervello umano prendono vita autonoma e vengono venerati come entità di natura superiore, così accade nel mondo delle merci, dove quelli che sono prodotti degli uomini e del loro lavoro sociale sembrano figure indipendenti e del tutto autonome, alle quali gli individui chinano il capo: la sola differenza è che con la religione gli uomini sono dominati dal prodotto del loro cervello, mentre con le merci sono signoreggiati dal prodotto della loro mano. È questo ciò che Marx etichetta come il «feticismo della merce»; a tutta prima, essa sembra un oggetto autonomo, ma se si riesce a superare l’apparenza si scopre che essa:
«rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali»[15].
E di fronte alle merci, si sa, gli uomini si comportano come di fronte ad altrettanti dèi, venerandole ossequiosamente, subendone il fascino irresistibile e, in definitiva, venendo da esse dominati: per averne una prova lampante, basta scendere in strada e vedere uomini e donne che camminano trascinati dal loro telefonino, comportandosi dinanzi alle merci come dinanzi ad altrettante divinità. La potenza descrittiva del discorso marxiano, la sua aderenza al reale, è ancora oggi di un’attualità sorprendente, a tal punto che, se si volesse fare con Marx l’esercizio che Croce faceva con Hegel[16], non si potrebbe che ascriverla tra gli aspetti ancora vivi del suo pensiero: essa mette straordinariamente in luce come siamo in balia di una realtà che produciamo noi stessi ma che è a tal punto opaca da sembrare autonoma e da dominarci minacciosa.
Rispetto alla merce, qualcosa di analogo accade col denaro, che del resto altro non è se non un particolarissimo tipo di merce priva del valore d’uso: anche qui la parvenza copre la realtà, e si ha l’impressione che esso non sia altro se non una pietra, un metallo, una cosa puramente corporea che esiste in natura, quando invece si tratta, ancora una volta, della cristallizzazione di un ben preciso rapporto sociale. Più precisamente, pare che nei rapporti di denaro siano cancellate tutte le antitesi e le contraddizioni della società borghese e che si sia tutti liberi e uguali per il semplice fatto che il denaro funge da equivalente universale. «Basta che tu mi abbia in tasca, non importa chi sei o cosa fai, il colore della tua pelle o la lingua che parli»: questo è l’imperativo apparentemente egualitario del denaro. Ma in verità, se ci si spinge nuovamente oltre la parvenza, si scopre che il rapporto di denaro è già intriso di contraddizioni insuperabili e che, in particolare, in esso è già presente, seppur opportunamente mascherata, la polarità tra lavoratore salariato e capitalista e la disuguaglianza che la contraddistingue: il primo non ha niente all’infuori dei propri muscoli, il secondo ha tutto ciò che si possa immaginare. In questo senso, il denaro non è, come sembra, un qualcosa di neutro che ritma pacifiche transazioni tra individui liberi e uguali: al contrario, esso rappresenta la forma dei rapporti sociali e, al tempo stesso, li sancisce organizzandoli. Non è certo un caso se Marx parli, a tal proposito, della «abbagliante forma di denaro»[17] (blendende Geldform), giocando sul fatto che esso, con la sua lucentezza, abbaglia non solo l’occhio fisico, ma anche quello della ragione, facendogli prendere, appunto, quell’abbaglio in forza del quale non si accorge che ciò che ha dinanzi non è un mero oggetto, ma piuttosto l’espressione di un determinato rapporto sociale che nasce necessariamente da una determinata forma di produzione sociale della ricchezza[18]. Ma il denaro abbaglia anche per un altro motivo: l’operaio che, a fine mese, se lo trova in busta paga ha l’impressione di prendere parte alla ricchezza generale, quando invece il denaro da lui ricevuto non è che «la forma argentata o dorata, cuprea o cartacea, dei mezzi di sussistenza»[19] necessari affinché egli si riproduca come capacità lavorativa, vale a dire come schiavo del capitale. In questo senso – dice Marx – l’operaio «ottiene sì denaro, ma soltanto nella sua determinazione di moneta, ossia solo come mediazione autosopprimentesi ed evanescente. Ciò che egli ottiene nello scambio quindi non è il valore di scambio, non è la ricchezza, ma sono mezzi di sussistenza, oggetti atti a conservare la sua vitalità, a soddisfare in generale i suoi bisogni fisici, sociali ecc.»[20]. In apparenza, col denaro che riceve, l’operaio può fare tutto ciò che vuole; in realtà, è costretto a utilizzarlo per un solo scopo: mantenersi in vita e continuare a lavorare alle dipendenze del capitale.
Veniamo però a quella che, a buon diritto, può essere considerata la più grande illusione che regna nel «modo di produzione capitalistico», quella contro la quale Marx combatte più strenuamente: se si guarda alla realtà come appare nello specchio deformante dell’economia politica, si ha l’impressione che nell’epoca moderna siano finalmente state soppresse la disuguaglianza e l’illibertà che inquinavano i precedenti modi di produzione. In questa maniera, il capitale può tranquillamente venir presentato come la potenza filantropica per eccellenza, quasi come se esso fosse un altro modo di dire civiltà. E, in effetti, questa apparenza è suffragata dai fenomeni che quotidianamente si percepiscono se ci si mantiene sullo strato superficiale della società: essi mostrano uomini liberi e uguali che effettuano scambi senza che su di essi sia esercitata alcuna costrizione, ma per il semplice raggiungimento dei propri fini. Sembra, in primo luogo, che l’operaio e il capitalista stipulino liberamente un contratto di lavoro, in cui si scambiano regolarmente delle merci di cui sono legittimi possessori: l’operaio dà al capitalista la sua forza-lavoro e questi, in cambio, gli corrisponde un salario con cui lo remunera per le ore di lavoro erogate. Ma sotto quest’apparenza si svolgono processi di segno opposto: innanzitutto, al momento del loro incontro sul mercato, non si fronteggiano due persone libere e uguali e, per di più fraterne, ma, al contrario, due individui del tutto diversi e già in conflitto. Infatti, da un lato troviamo un possessore dei mezzi di produzione e di sostentamento, e dall’altro una pura capacità lavorativa vivente che, per poter vivere, deve consumare mezzi di sostentamento e, per produrli, deve impiegare strumenti di lavoro di cui è sprovvista: ancor prima che il contratto sia concluso, si fronteggiano non già due persone libere e uguali, bensì un capitalista e un operaio. Cade in questo modo la prima apparenza su cui poggiano le convinzioni degli economisti borghesi: e il fatto che a fronteggiarsi siano un capitalista e un operaio, dunque due persone tutto fuorché uguali, fa venir meno anche l’altra illusione, quella secondo cui essi entrerebbero del tutto liberamente in rapporto tra loro tramite la stipula di un contratto suggellato da una fraterna stretta di mani. È vero, non grava alcuna costrizione sull’operaio, ed egli è effettivamente libero, formalmente, di stracciare il contratto e di non stringere alcun rapporto lavorativo col capitalista: ma qual è l’alternativa? Molto semplicemente, morire di fame: e questo in forza del fatto che egli è una capacità lavorativa che vive in un insopprimibile stato di bisogno che può essere soddisfatto esclusivamente dalla classe possidente. L’operaio sembra libero di apporre la propria firma sul contratto, e invece è costretto a farlo dalla sua condizione di nullatenente. Da ciò emerge nel modo migliore come il contratto non sia altro che una «fictio juris»[21], una finzione che maschera la costrizione reale dietro l’apparente libertà. In maniera piuttosto eloquente, Marx parla di «apparenza ingannatrice della stipulazione di un contratto fra possessori di merci dotate di eguali diritti e parimenti liberi l’uno di fronte all’altro»[22]. In apparenza l’operaio è libero e uguale al capitalista, in realtà è costretto a firmare il contratto di lavoro che quest’ultimo gli pone di fronte, pena il rimanere disoccupato e non avere di che sfamare sé e la sua famiglia: ecco una prova ulteriore che corrobora come la forma fenomenica delle cose mostri il loro contrario. Cediamo, per un istante, la parola a Marx:
«così svanisce anche l’apparenza che il rapporto possedeva in superficie, l’apparenza cioè che nella circolazione, sul mercato, si fronteggino proprietari di merci dotati di eguali diritti e distinti l’uno dall’altro – come ogni proprietario di merci – soltanto a causa del contenuto materiale della loro merce, del particolare valore d’uso delle merci che hanno rispettivamente da vendersi. Ovvero, questa forma originaria del rapporto non sussiste più che come apparenza del rapporto capitalistico che sta alla sua base»[23].
Il contratto di lavoro non è che un’apparenza: se nell’antichità il padrone di schiavi si impossessava dei suoi «strumenti vocali» senza tante sottigliezze, tramite la rapina e la tratta di esseri umani, nell’epoca moderna tale compra-vendita si è fatta più civile e viene mediata da un pezzo di carta su cui l’operaio deve apporre la propria firma, contribuendo a mantenere in piedi la finzione che tutto avvenga in piena libertà e uguaglianza.
Se poi volgiamo lo sguardo al processo della produzione, ossia a quel processo in cui viene impiegata la capacità lavorativa acquistata, ecco che la discrasia tra apparenza e realtà, anziché essere ricomposta, giunge all’apice: anche qui, fenomenicamente, si ha a che fare con due individui che, liberi e uguali, si scambiano merci nel pieno rispetto dello scambio degli equivalenti, scambio in forza del quale non si dà più di quel che si riceve. In particolare, l’operaio mette a disposizione ogni giorno per dieci ore la propria capacità lavorativa e il capitalista, in cambio, gli corrisponde uno stipendio con cui – questo è il cardine del pensiero degli economisti – lo remunera per tutte quelle ore svolte al suo servizio. Ma in realtà che cosa accade? Anche in questo caso, se si abbandona la superficie fenomenica e ci si cala negli abissi di quello che Marx qualifica come il «laboratorio segreto» del capitale, si scopre una realtà diametralmente opposta a quella mostrata dall’apparenza. L’operaio non viene affatto pagato per tutte le ore svolte al servizio del capitalista: al contrario, delle dieci ore che ha trascorso in fabbrica, soltanto cinque gli vengono remunerate, più precisamente quelle che occorrono per riprodurre la sua capacità lavorativa. Molto banalmente: il valore della capacità lavorativa viene calcolato non in base al suo rendimento, bensì in base al costo necessario per produrla, ossia per garantire la sua sopravvivenza e la sua incessante ricomparsa sul mercato del lavoro[24]. Come ogni altra merce, anche la forza-lavoro racchiude un «valore d’uso» e un «valore di scambio», i quali – come è dimostrato nel primo capitolo del Capitale – sono reciprocamente indifferenti: è proprio in tale indifferenza che riposa il segreto del «plusvalore»; infatti, il capitalista acquista sul mercato la forza-lavoro mirando direttamente a questa «differenza di valore»[25], sapendo bene che il valore d’uso peculiare della forza-lavoro è quello di «esser fonte di valore, e di più valore di quanto ne abbia essa stessa»[26]. Il venditore della forza-lavoro, che – come abbiamo visto – è costretto a venderla dalla sua condizione di indigenza, «realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso»[27], che non gli appartiene proprio come al venditore d’olio non appartiene il valore d’uso dell’olio che ha venduto: in questo modo, la forza-lavoro diventa proprietà del capitalista che, pagandone il valore giornaliero, è suo legittimo proprietario per tutta la giornata: «anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato»[28]. È questa l’inaggirabile conseguenza che discende dall’assunzione della forma-merce e del suo scambio come unico paradigma su cui modellare anche i rapporti umani: ciò che a tutta prima sembra il non plus ultra della libertà e dell’uguaglianza (lo scambio tra due possessori di merci liberi e uguali), nella realtà si rovescia nel suo opposto; come ha scritto molto efficacemente, Etienne Balibar, la libertà e l’uguaglianza vengono a essere «il linguaggio con cui si maschera lo sfruttamento»[29]. Che l’operaio riceva nel salario il pagamento di tutto il lavoro svolto è solo una «forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto»[30]: il rapporto reale, naturalmente, è quello per cui l’operaio, non meno dell’antico schiavo o del servo della gleba, lavora a tutto vantaggio del suo padrone, ricevendo in cambio soltanto i mezzi di sussistenza con cui conservarsi in vita e far proseguire ininterrottamente lo stesso ciclo di produzione; e «questa falsa apparenza distingue il lavoro salariato dalle altre forme storiche del lavoro»[31], tutte accomunate dallo sfruttamento di classe. Se nell’antichità o nel Medioevo esso era immediatamente percepibile, anche in forza del fatto che era sancito dalla legge e dalla politica, nell’epoca moderna è mascherato dall’apparenza, la quale mostra uomini liberi e uguali che effettuano transazioni e nasconde i reali rapporti coercitivi che oggi, non meno di ieri, innervano la società. Alla luce di ciò, non meno del contratto, anche lo scambio esercitato nell’ambito della produzione è uno «scambio apparente»[32]. L’apparenza occulta un altro aspetto fondamentale: l’operaio esce dal ciclo produttivo come vi era entrato, ossia privo dei mezzi di sostentamento (che ha consumato per conservarsi in vita) e dei mezzi di produzione (che continuano ad essere monopolisticamente concentrati al polo opposto, nelle mani dei capitalisti); e dunque nuovamente costretto ad essere inghiottito dal processo di produzione:
«attraverso la pura e semplice continuità del processo cioè attraverso la riproduzione semplice, quel che all’inizio era solo punto di partenza, torna sempre ad esser prodotto di nuovo e viene perpetuato come risultato proprio della produzione capitalistica. Da una parte il processo di produzione converte continuamente in capitale, cioè in mezzi di valorizzazione e di godimento per il capitalista, la ricchezza dei materiali. Dall’altra parte l’operaio esce costantemente dal processo come vi era entrato: fonte personale di ricchezza, ma spoglio di tutti i mezzi per realizzare per sé questa ricchezza»[33].
Per questa via, la critica marxiana porta alla luce una verità assai inquietante che, proprio in quanto tale, doveva essere opportunamente coperta dall’«illusione necessaria» con cui viene velata dagli apologeti borghesi, i quali propagandano senza posa il capitalismo come il regno della libertà e della civiltà nella loro forma più compiuta: dietro alle divinità olimpiche della libertà, dell’uguaglianza, della proprietà privata e dell’utile che risplendono in superficie si nascondono le divinità ctonie dell’asservimento, della disuguaglianza, della mancanza di proprietà e della costrizione economica. L’epoca moderna, che a tutta prima appare come il regno della civiltà e della libertà – si ricordino gli esiti a cui perveniva la filosofia della storia hegeliana –, si rivela, a chi sappia sondarne le profondità inesplorate, come il mondo dello sfruttamento dell’uomo e della sua mancanza di libertà. Il capitale, che in apparenza si configura come l’eden in cui «regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham»[34], rivela ben altra natura se lo si guarda nella sua reale essenza: la natura di un inferno in cui trionfa l’illibertà in luogo della libertà, la disuguaglianza in luogo dell’uguaglianza, la totale privazione in luogo della proprietà, la costrizione in luogo del libero perseguimento benthamiano dei propri fini. Che la libertà sia solo una finzione, l’abbiamo chiarito a sufficienza: l’operaio, di fatto, non è libero di scegliere se entrare o meno nel contratto di lavoro col capitalista, né tanto meno di uscirne, giacché l’alternativa, tutto fuorché allettante, è per lui rappresentata dalla morte per inedia. Che egli sia socialmente uguale al capitalista è sicuramente, tra tutte, la parvenza meno credibile: ancor prima che il processo di produzione abbia inizio, uno ha tutto, e l’altro manca dei beni di prima necessità. Quanto poi al fatto che essi siano proprietari di merci, è fin troppo facile dimostrare come sia un’affermazione priva di riscontri: quale è la proprietà di cui dispone l’operaio? La sua capacità lavorativa, vale a dire il suo corpo, i suoi muscoli e le sue braccia: sembra una proprietà, ma anche qui, se si guarda in faccia la realtà, ci si accorge che in verità è una non-proprietà, uno stato di indigenza e di privazione, una capacità che per mantenersi in vita richiede di essere costantemente alimentata con quei mezzi di sussistenza di cui solo il capitalista dispone. In questo senso, specifica Marx, «lo scambio di lavoro con lavoro – che apparentemente è la condizione della proprietà dell’operaio – ha come fondamento la mancanza di proprietà dell’operaio»[35], una mancanza che è il presupposto e, al tempo stesso, il risultato del processo di produzione, nella misura in cui il prodotto del lavoro finisce sempre di nuovo nelle mani del capitalista. In questo modo, salta in aria un altro presupposto su cui si regge il «modo di produzione capitalistico»: quello secondo cui chi lavora si arricchisce, e chi non lavora va in rovina. La lunga tradizione liberale che va da John Locke fino ad Adam Smith, passando per Malthus e Ricardo, non fa altro che ripetere, declinandola in sempre nuovi modi, la solita filastrocca secondo cui la proprietà privata – una delle grandi «vacche sacre» del capitalismo – risiede nel suo essere il frutto del lavoro umano. Anche tale presupposto non tarda a rivelare la sua natura di apparenza ingannatoria: infatti il capitale, da un lato, «come capitale crescente si appropria in misura crescente di lavoro altrui senza un equivalente»[36], intensificando sempre più l’asservimento a cui è piegato l’operaio, e dall’altro «pone sempre di nuovo la capacità lavorativa vivente nella sua indigenza soggettiva e priva di sostanza»[37], riproducendola cioè come assoggettata alla classe capitalista. Il diritto di proprietà su cui si fonda lo scambio tra i due possessori – liberi e uguali – di merci, e che dovremmo di conseguenza ritrovare anche alla fine del processo di produzione, «si rovescia dialetticamente»[38], dal lato del capitale, nel «diritto di appropriarsi del lavoro altrui senza dare un equivalente»[39] e, dal lato della forza-lavoro, «nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il proprio lavoro stesso come valori appartenenti ad altri»[40]. Hanno ragione i liberali: la proprietà scaturisce dal lavoro; ciò che tuttavia essi non dicono è che si tratta del lavoro altrui. Ancora una volta, l’apparenza mostra le cose invertite: chi lavora non possiede alcunché, e chi è possessore di ogni cosa se ne sta tranquillo senza lavorare.
Infine, si sgretola come apparenza illusoria anche quella in accordo con la quale tutti e due, capitalista e operaio, entrerebbero nel rapporto e lo conserverebbero esclusivamente in vista del loro utile personale, più precisamente dell’arricchimento, come vorrebbe l’utilitarismo ingenuo di Bentham: per il capitalista ciò è sicuramente vero, ma per l’operaio vale piuttosto il contrario, entrando egli in quel rapporto perché coartato dalla sua condizione di indigenza.
Un aspetto piuttosto interessante, e spesso trascurato, dell’analisi marxiana è che l’apparenza non è un fenomeno di classe: essa investe tanto i capitalisti quanto gli operai. La parvenza dello scambio – afferma Marx – «esiste tuttavia come illusione anche nell’operaio»[41], che in molti casi pensa che il suo rapporto col capitalista non sia viziato da alcuna contraddizione o da alcuna forma di sfruttamento; illusione che viene rafforzata, nell’operaio, dalla circostanza in virtù della quale egli è liberissimo di «scegliere a chi vendersi»[42] e di «cambiare padrone»[43], e anche dal fatto che riceve i mezzi di sostentamento nella già ricordata forma «abbagliante» del denaro, forma che ingenera in lui l’illusione di poter partecipare alla ricchezza generale.
In una simile prospettiva, in cui l’apparenza occulta i rapporti reali, rendendo invisibili le catene e lo sfruttamento, la critica marxiana si propone di trovare nella scienza una sua fedele alleata per risvegliare le coscienze degli operai, in modo che essi acquisiscano la «coscienza di classe», per dirla con un termine mutuato da György Lukács[44].
Uno dei punti deboli del discorso marxiano è sicuramente la concezione della scienza che esso fa valere, intendendola come strumento neutro e avalutativo: in ciò figlio del suo tempo, il tempo del Positivismo e dello scientismo senza limiti, Marx crede che scienza e tecnica – se sottratti al loro impiego capitalistico – possano essere strumenti neutri, privi di risvolti ideologici, e per ciò in grado di illuminare la realtà e di liberarla dall’opacità in cui essa è avvolta. Sono state soprattutto le ricerche dei Francofortesi – primi tra tutti Adorno e Horkheimer – ad averci aperto gli occhi, mostrando come questa concezione marxiana della scienza e della tecnica fosse una pia illusione che non corrispondeva affatto alla realtà. La scienza e la tecnica vengono al mondo grondanti di ideologia da ogni poro, per capovolgere una nota espressione marxiana; solo superficialmente esse possono apparire come strumenti neutri che, come comunemente si ripete, «dicono la verità» e «aiutano l’uomo». Almeno in questo, anche Marx, è il caso di dirlo, è caduto vittima dell’apparenza.
DIEGO FUSARO, gennaio 2007
[1] K. Marx, Das Kapital, Band I, 1867; tr. it. Il capitale, I, Editori Riuniti, Roma 1970, a cura di D. Cantimori, p. 592.
[2] Anassagora, DK B 21 a; tr. it. a cura di S. Obinu in H. Diels – W. Kranz, I Presocratici, Bompiani, Milano 2006, a cura di G. Reale, p. 1067.
[3] W. Euchner, Karl Marx, 1982; tr. it. Karl Marx, Mondadori, Milano 1991, cura di C. Vittone, p. 101.
[4] K. Marx, Das Kapital, Band III, 1894; tr. it. Il capitale, III, Editori Riuniti, Roma 1970, a cura di M. L. Boggeri, p. 995.
[5] W. Euchner, Karl Marx, cit., p. 101.
[6] W. Euchner, Karl Marx, cit., p. 101.
[7] «Con il concetto di superficie Marx intende sempre qualcosa che ha a che fare con l’“apparenza” e l’“illusione”, qualcosa quindi che copre e maschera l’essenziale” e che richiede di essere superato in quanto non vero»: O. K. Flechtheim – H.-M. Lohmann, Marx zur Einführung, 1988; tr. it. Marx, Massari, Bolsena 2005, a cura di G. Sgrò, p. 139.
[8] P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, 1965; tr. it. Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967, a cura di E. Renzi, pp. 46 ss.
[9] Cfr. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1963, a cura di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, p. 11.
[10] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 587.
[11] Ivi, p. 208.
[12] K. Marx, Lohnarbeit und Kapital, 1849; tr. it. Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti, Roma 1970, a cura di V. Vitello, p. 55.
[13] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 103.
[14] Ivi, p. 104.
[15] Ibidem.
[16] Cfr. B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel: studio critico seguito da un saggio di bibliografia hegeliana, Laterza, Bari 1907.
[17] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 80.
[18] «Il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose»: K. Marx, Das Kapital. Erstes Buch, Der Produktionsprozess des Kapitals. Sechstes Kapitel. Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses, 1933; tr. it. Il capitale, libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, a cura di B. Maffi, p. 37.
[19] Ivi, p. 66.
[20] K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, 1858; tr. it. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, I, pp. 234-235.
[21] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 629.
[22] K. Marx, Il capitale, libro I, capitolo VI inedito, cit., p. 99.
[23] Ivi, p. 97.
[24] «Il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro»: K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 203.
[25] Ivi, p. 227.
[26] Ivi, p. 228.
[27] Ivi, p. 228.
[28] K. Marx, Lohn, Preis und Profit, 1865; tr. it. Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti, Roma 1984, a cura di A. Santucci, p. 55.
[29] E. Balibar, La philosophie de Marx, 1993; tr. it. La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, a cura di A. Catone, p. 90.
[30] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 590.
[31] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, cit., p. 55.
[32] K. Marx, Theorien über den Mehrwert, 1863; tr. it. Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino 1988, vol. III, a cura di E. Conti, p. 15.
[33] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 626.
[34] Ivi, p. 208.
[35] K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., I, p. 499.
[36] Ivi, I, p. 435.
[37] Ibidem.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem. Cfr. ID., Il capitale, I, cit., p. 626: «l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza-lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza, separata dai suoi mezzi di oggettivazione e di realizzazione, astratta, che esiste nella pura e semplice corporeità dell’operaio, in breve, egli produce l’operaio come operaio salariato».
[41] Ivi, I, p. 234.
[42] K. Marx, Il capitale, libro I, capitolo VI inedito, cit., p. 66.
[43] Ibidem.
[44] Come è noto, l’espressione «coscienza di classe» (Klassenbewusstsein), come del resto lo stesso termine «capitalismo» (Kapitalismus), esula completamente dalla costellazione di parole proprie del lessico marxiano.
PER UNA TEORIA DELL’ARTE IN KARL MARX
PER UNA TEORIA DELL’ARTE IN KARL MARX Esordisco col ricordare una cosa ovvia e banale, ma che è bene precisare perché, come cercherò di chiarire, ha risvolti fondamentali nella «teoria» marxiana dell’arte: Karl Marx non si è mai occupato specificamente del fenomeno artistico, scrivendo monografie e dedicando studi all’esame di quel fenomeno. Questo disinteresse non è certo dovuto alla superficialità dell’autore o alla sua avversione per l’arte in quanto tale, ma deve piuttosto essere posto in relazione col ruolo che egli le assegna nell’ambito del proprio «impianto» filosofico (e le virgolette sono d’obbligo, vista l’asistematicità dell’opera marxiana). Il fatto che Marx non abbia mai scritto un’opera sull’arte, né si sia dedicato specificatamente ad essa, non significa tuttavia che nelle sue opere non affiorino, qua e là, considerazioni di rilievo sul fenomeno artistico. Al contrario, gli scritti marxiani racchiudono un gran numero di riferimenti all’arte e alle sue manifestazioni: a tal punto che, se li si esamina con una certa unitarietà e li si pone in relazione tra loro, diventa possibile ricavarne se non una teoria marxiana dell’arte, per lo meno un tentativo si spiegazione del fenomeno artistico. È alla luce di questo presupposto, del resto, che si spiegano i numerosi tentativi, compiuti da molti studiosi, di individuare una teoria dell’arte in Marx, tentativi che si sono per lo più tradotti nella pubblicazione di raccolte antologiche di brani marxiani (ed engelsiani) dedicati al tema. Il primo tentativo fu quello compiuto nel 1933 da Lifŝic e Schiller, i quali pubblicarono a Mosca un’ampia antologia (con prefazione di Lunaĉarskij), che venne poi nuovamente pubblicata, in forma considerevolmente accresciuta, nel 1937 (in essa sono raccolti in maniera alquanto dispersiva tutti i brani, anche i più insignificanti, in cui figurino le parole «arte» e «letteratura»). Nel 1936 comparve, poi, la raccolta compiuta da Jean Freville (K. Marx – F. Engels, Sur la littérature et l’art, Editions Sociales Internationales, Paris 1936). In Italia, sono finora comparse ben tre edizioni degli scritti marxiani sull’arte e la letteratura: la prima, curata da Valentino Gerratana (K. Marx – F. Engels, Sull’arte e la letteratura, Universale Economica, Milano–Novara 1954); la seconda curata da Carlo Salinari (K. Marx – F. Engels, Scritti sull’arte, Laterza, Roma–Bari 1967); la terza curata da Giuseppe Prestipino (K. Marx, Arte e lavoro creativo: scritti di estetica, Newton, Roma 1976), la quale ha il vantaggio di soffermarsi sul solo Marx. Questi studi segnalano la presenza di un problema esegetico particolarmente sentito dagli interpreti del pensiero marxiano. Col presente lavoro, mi propongo dunque di analizzare i punti dell’analisi marxiana dedicati al fenomeno artistico ed estetico, al fine di ricostruire quale sia il ruolo che Marx gli attribuisce; il mio lavoro sarà articolato in quattro punti, che elenco qui di seguito: a) il valore sovrastrutturale dell’arte e la genesi storica della medesima; b) i problemi e le contraddizioni che l’arte crea alla concezione materialistica della storia; c) il ruolo dell’arte nel modo di produzione capitalistico; d) la funzione che l’arte è destinata a svolgere nella società senza classi. Chiarisco fin da ora che, nella mia trattazione, non mi avvarrò dei contributi del «secondo violino» Friedrich Engels, se non, ovviamente, nei casi delle opere scritte da Marx a quattro mani con lui (ad esempio l’Ideologia tedesca), in cui non è possibile, o comunque non è così immediato, individuare il confine tra le parti scritte dall’uno e quelle composte dall’altro: questo rifiuto è dovuto, da un lato, al fatto che la 1 mia trattazione è dedicata al problema dell’arte in Marx (e non in Marx e in Engels) – ed è per questo stesso motivo che la mia analisi tralascerà completamente di occuparsi degli sviluppi novecenteschi dell’estetica marxista –, e dall’altro alla mia convinzione secondo cui, se anche è vero che per molti versi Engels è stato il fedele portavoce della teoria marxiana, in campo estetico egli si è almeno in parte discostato dall’amico, intraprendendo una strada parzialmente autonoma. a) Entriamo dunque nel vivo della questione, e affrontiamo, come dicevamo, quello che per Marx è il valore sovrastrutturale dell’arte. Ci soffermeremo soprattutto sull’Ideologia tedesca e sui Manoscritti economicofilosofici del 1844. Il punto di partenza della nostra analisi deve essere il risoluto rifiuto marxiano di concepire l’arte come una presunta funzione universale ed eterna dell’uomo o, ancora peggio, come una «categoria universale dello Spirito». L’arte è un prodotto storico che sorge dall’attività degli uomini concreti e reali: non la si può dunque intendere, pena l’andare incontro a fraintendimenti grossolani, come un’attività valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Il che già spiega, almeno in parte, quanto dicevamo in apertura, vale a dire che Marx non si è mai occupato specificatamente, con monografie e saggi, dell’arte. Soprattutto nei Manoscritti, egli ricollega la genesi dell’arte allo sviluppo – storicamente determinato – dei sensi dell’uomo; in particolare, nella prospettiva marxiana, la genesi dell’arte è storica perché inestricabilmente connessa con la graduale educazione dei sensi: infatti, «l’educazione (Bildung) dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo sino ad oggi»1 , e non è una dotazione eterna dell’uomo. Questo assunto comporta una conseguenza piuttosto importante a cui abbiamo già accennato: proprio perché è il frutto dello sviluppo storico, che ha portato – ad esempio – la mano a trasformare una pietra in un coltello (rendendo possibile il nascere della «mano dell’artista») e all’educazione dei cinque sensi, l’arte non è affatto universale né eterna. L’orecchio europeo non riesce ad apprezzare pienamente i ritmi della musica indiana, che gli paiono striduli e rozzi, proprio come davanti a un piatto raffinato e «artistico» il primitivo – dice Marx – non vede altro che cibo, ossia uno strumento per soddisfare un bisogno: infatti, «il senso, prigioniero dei bisogni pratici primordiali, ha soltanto un senso limitato (bornierten)»2 . Proprio per il fatto che «i sensi dell’uomo sociale sono diversi da quelli dell’uomo non sociale»3 , tali uomini avranno necessariamente maturato concezioni artistiche diverse. In forza di queste considerazioni, Marx può sostenere che la musica risveglia il senso musicale non dell’uomo con la «u» maiuscola, ma soltanto nell’uomo che abbia già sviluppato un orecchio musicale, ossia che si trovi a un certo punto dello sviluppo della storia dell’umanità 4 . Quelli che per un indiano o per un uomo dell’antica Grecia sarebbero magari rumori fastidiosi, per un europeo del XIX secolo sono suoni melodiosi qualificabili come forma 1 K. Marx, Ökonomischphilosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, 1932 (1844); tr. it. Manoscritti economicofilosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968, a cura di N. Bobbio, p. 119. 2 Ibidem. 3 Ivi, pp. 118119. 4 Ivi, p. 119. 2 artistica. L’arte non varia storicamente solo quanto alle sue manifestazioni, ma anche quanto al valore che le viene attribuito all’interno di una determinata società: detto altrimenti, Marx sembra suggerire che all’arte vengano assegnate funzioni diverse a seconda del tipo di società in cui fiorisce. Nell’antichità, ad esempio, essa serviva come strumento di propiziazione degli dèi o di narrazione storica (la mitologia); anche nell’epoca del capitalismo, come vedremo, essa risponde a precise funzioni imposte dalla società. Nei Manoscritti, Marx mette anche in luce come anche nel «modo di produzione capitalistico» il senso artistico non sia affatto sviluppato in senso completo, in quanto l’uomo, nella misura in cui è prigioniero dei bisogni e delle preoccupazioni, non è ancora nelle condizioni di fruire pienamente del bello e dell’arte: infatti, «l’uomo in preda alle preoccupazioni e al bisogno non ha sensi per il più bello tra gli spettacoli»5 , e «il trafficante in minerali vede soltanto il valore commerciale, ma non la bellezza e la natura caratteristica del minerale»6 . In particolare, secondo Marx, nella produzione capitalistica «al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è […] subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi»7 , alienazione che impedisce al lavoratore di fruire dell’arte e del bello. È solo tramite il comunismo – di cui nei Manoscritti Marx si definisce per la prima volta seguace – che diventa possibile affrancare i sensi dall’alienazione e dallo stato di bisogno e rendere finalmente possibile un’esperienza estetica a tutto tondo: in questo senso, oltre che la soluzione all’enigma della storia, il comunismo è anche la soluzione all’enigma dell’estetica. Ma su questo punto tornerò successivamente. Nell’Ideologia tedesca, il problema del fenomeno artistico viene declinato da una diversa angolatura, che non contraddice quella dei Manoscritti, ma piuttosto la integra, contestualizzandola nel tessuto della trattazione marxiana (ed engelsiana) della «concezione materialistica della storia» e della scansione della storia umana nei «modi di produzione». In particolare, nell’Ideologia tedesca, il fenomeno artistico è ricondotto a una delle molteplici manifestazioni della sovrastruttura ideologica: non meno della filosofia o della religione, l’arte appartiene al piano sovrastrutturale, ossia a una delle tante forme ideologiche tramite le quali gli uomini concepiscono e si rappresentano, legittimandola, la realtà in cui vivono. A mio avviso, sono essenzialmente tre le considerazioni che si possono svolgere sull’arte a partire da questa impostazione: in primo luogo, l’arte (al pari della filosofia, della religione, e di ogni altra realizzazione culturale), non è affatto autonoma, ma è storicamente determinata, e muta al mutare delle condizioni strutturali. L’arte del modo di produzione antico è diversa da quella del modo di produzione feudale, che è a sua volta diversa da quella del modo di produzione capitalistico, proprio in virtù del fatto che in quei tre modi di produzione è differente la struttura economica, il modo di produrre. Il fatto che, come si dice in Miseria della filosofia, «cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i […] rapporti sociali» 8 significa anche che, insieme a questi ultimi, mutano anche le forme artistiche e la nozione di bello. In questo senso, variando adeguatamente un altro passaggio di Miseria della filosofia, si può dire che il mulino a braccia genera la società col signore 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 116. 3 feudale e con Giotto e Cimabue, mentre il mulino a vapore genera la società col capitalista industriale e con Milton e Goethe9. È in forza di queste considerazioni che Marx invita a riflettere su come le opere di Raffaello «fossero determinate (bedingt) dal fiorire della Roma dell’epoca, giunta al suo pieno sviluppo sotto l’influenza fiorentina, come le opere di Leonardo fossero determinate dalla situazione di Firenze e quelle di Tiziano, più tardi, dallo sviluppo affatto diverso di Venezia» 10. Diventa ora più chiaro che cosa effettivamente intenda Marx quando scrive: «al modo di produzione capitalistico corrisponde una specie di produzione intellettuale diversa da quella corrispondente al modo di produzione medievale»11. Questo modo di vedere le cose, a patto che non venga estremizzato, è assai efficace anche per capire – oltre che le opere d’arte – la storia delle idee filosofiche: spingendoci oltre il discorso di Marx, possiamo qui ricordare che se all’antica società schiavistica dei Greci, che disprezzava il lavoro manuale, corrispondeva una teoria del sapere come «contemplazione», all’industriosa società borghese che fa della produzione il suo credo, corrisponde quella teoria della conoscenza come «produzione» attiva che trova in Kant il suo campione. Il secondo punto su cui desidero richiamare l’attenzione è che, da una simile concezione della genesi dell’arte, deriva una conseguenza fondamentale, che è embrionalmente presente nella riflessione marxiana ma che è stata esplicitata soprattutto dagli interpreti successivi e, almeno in parte, dallo stesso Engels: alla luce del fatto che un’opera d’arte non nasce mai autonomamente, senza influenze dell’«ambiente esterno», ma è – al contrario – sempre il frutto dell’intrecciarsi della dimensione sovrastrutturale e di quella strutturale, non è possibile tentare di interpretare un’opera d’arte (pena il precipitare in equivoci e fraintendimenti) senza riferimenti a ciò che le è esterno, in una sorta di circolo che non si svolge all’interno della sola opera d’arte, ma che rinviene relazioni tra essa e il mondo da cui è sorta. Nulla sembra, dunque, più distante dalla prospettiva marxiana rispetto all’idea secondo cui l’opera d’arte deve essere esaminata in sé e per sé, senza riferimenti al «mondo esterno». Da questo legame che lega a filo doppio l’opera d’arte e le condizioni materiali che l’hanno resa possibile scaturisce, del resto, una conseguenza importante, anch’essa presente – anche se non tematizzata – nella riflessione marxiana: come per le altre forme culturali, anche per le realizzazioni artistiche la verifica della loro validità si ha esclusivamente nell’effettivo confronto col mondo reale. Per riprendere una nota espressione marxiana, potremmo dire che, come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, allo stesso modo non si può giudicare 8 K. Marx, Das Elend der Philosophie. Antwort auf Proudhons «Philosophie des Elends», 1847; tr. it. Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del signor Proudhon, Editori Riuniti, Roma 19988 , a cura di N. Badaloni, p. 69. 9 Ibidem. 10 K. Marx – F. Engels, Die deutsche Ideologie, 1932 (1846); tr. it. L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 20005 , a cura di C. Luporini, p. 382. Traduzione modificata. 11 K. Marx, Theorien über den Mehrwert, 1905 [1863]; tr. it. Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, Roma 19712 , a cura di G. Giorgetti, 2 voll., I, p. 445. 4 un’epoca dalla coscienza che essa ha di sé: occorrerà, piuttosto, ricondurre tale coscienza alle contraddizioni della vita concreta e separare criticamente ciò che, in essa, appartiene all’ideologia e ciò che invece serve ad avere una coscienza non deformata della realtà. Il terzo e ultimo punto – strettamente connesso ai precedenti – su cui intendo portare l’attenzione è l’idea marxiana che l’arte, come tutte le manifestazioni della sovrastruttura, svolga tendenzialmente un ruolo ideologico di giustificazione dello status quo, in pieno accordo con i capisaldi della «concezione materialistica della storia», per cui le idee dominanti non siano altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti. Proprio nell’Ideologia tedesca, Marx ed Engels assimilano l’«ideologia» alla camera oscura12, poiché in essa le cose vengono proiettate in forma capovolta: il «mondo capovolto» (verkehrte Welt), con le contraddizioni e con le ingiustizie che lo innervano, viene a sua volta capovolto nella sua rappresentazione ideologica, e dunque appare «dritto», senza contraddizioni. In questo senso, anche l’arte legittima i rapporti sociali e di produzione esistenti. In realtà, ponendo la questione in questo modo, si rischia di cadere in equivoci e in banalizzazioni: Marx ed Engels hanno sempre rigettato la teoria del «rispecchiamento» e l’idea secondo cui la struttura determinerebbe univocamente, in maniera meccanica, la sovrastruttura. Come è noto, contro simili banalizzazioni, Engels chiarì, nel 1890, che la struttura determina «in ultima istanza» (in letzter Instanz) la sovrastruttura, la quale comunque nella prospettiva sua e di Marx gode di una parziale autonomia, a tal punto che è possibile sostenere che tra la sfera strutturale e quella sovrastrutturale sussiste un movimento di interazione reciproca13. Riportando il discorso all’arte, diventa possibile sostenere che talvolta essa, anziché legittimare la struttura, può opporle resistenza, smascherandone le contraddizioni: si hanno, in questo caso, quelli che noi abitualmente definiamo gli «artisti impegnati», i quali trasmettono nelle loro opere messaggi, persuasioni, denunce; radicalizzando questa prospettiva, potremmo dire che, proprio come in filosofia il pensiero di Marx si oppone al modo di produzione capitalistico, così in ambito estetico le commedie di Aristofane mettono a nudo i limiti del modo di produzione antico e la Divina commedia di Dante critica – dall’interno – i difetti del modo di produzione feudale. b) La riduzione – ancorché sia una riduzione solo «in ultima istanza» – dell’arte a sovrastruttura comporta una contraddizione interna alla «concezione materialistica della storia», contraddizione che fu colta piuttosto acutamente dallo stesso Marx. L’aporia può essere formulata nel modo che segue: perché mai, se in ultima istanza piace ciò che rispecchia il modo di produzione vigente, proviamo piacere estetico dinanzi alle realizzazioni di modi di produzione ormai tramontati? Perché ci piacciono le opere di Giotto o il Partenone? Non dovrebbero forse lasciarci del tutto indifferenti? Qualcuno ha sostenuto che nella presa d’atto marxiana di questo paradosso si cela la comprensione, da parte di Marx, delle contraddizioni insuperabili insite nella «concezione 12 K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 13. 13 F. Engels, lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890, in K. Marx, Le lotte di classe in Francia, Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 40, nota 2. 5 materialistica della storia»14. Proviamo a seguire da vicino il ragionamento marxiano racchiuso nei Grundrisse e svolgere, sulla base di esso, alcune considerazioni. Per quel che riguarda l’arte – precisa Marx – «determinati suoi periodi di fioritura non stanno affatto in rapporto con lo sviluppo generale della società (im Verhältnis zur allgemeinen Entwicklung der Gesellschaft), e quindi neppure con la base materiale, per così dire con la struttura ossea (Knochenbau) della sua organizzazione»15. Con ciò, Marx sta evidentemente ridimensionando i possibili sviluppi del materialismo storico quale era stato formulato ai tempi dell’Ideologia tedesca: è vero che in ultima istanza è la «base materiale» a determinare lo sviluppo sovrastrutturale, ma ciò no toglie che quest’ultimo possa godere di una parziale autonomia, come è per l’appunto dimostrato dal caso dello sviluppo artistico. Benché la società greca fosse per molti versi una società arcaica, fondata sull’istituto della schiavitù (non a caso Marx qualifica il mondo greco anche con l’espressione «modo di produzione schiavistico»), essa godette di un «sovrasviluppo» artistico, che sfociò in opere d’arte ineguagliabili come il Partenone o l’Iliade. In questo senso – sembra suggerire Marx – l’elemento sovrastrutturale può talvolta, almeno in parte, autonomizzarsi e svilupparsi in maniera indipendente, in opposizione con quanto si sosteneva nell’Ideologia tedesca, dove tale possibilità era, se non esclusa, sicuramente non esplicitamente ammessa. Il secondo punto su cui Marx pone l’accento nella sua trattazione riguarda il fascino che l’arte greca continua a esercitare su di noi. Come è possibile che le realizzazioni artistiche di un modo di produzione intercettino l’interesse di uomini appartenenti ad altri modi di produzione? La domanda è formulata da Marx in questi termini: «la visione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia greca, e quindi della [mitologia] greca, è possibile con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive e i telegrafi elettrici? Che ne è di Vulcano di fronte a Roberts & Co., di Giove di fronte ai parafulmini e di Ermes di fronte al Crédit Mobilier?»16 . Detto altrimenti, «la difficoltà non consiste nel comprendere che l’arte e l’epos greci sono connessi con determinate forme di sviluppo sociale»17; sta piuttosto «nel fatto che essi suscitano ancora oggi in noi un godimento artistico (Kunstgenuß) e in un certo senso sono ancora considerati 14 Cfr. K. Löwith, Meaning in History, 1949; tr. it. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 19794 , pp. 65 ss. 15 K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, 1939 (1858); tr. it. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1976, a cura di G. Backhaus, 2 voll., I, p. 36. 16 Ibidem. 17 Ivi, p. 37. 6 norma e modelli ineguagliabili (unerreichbare Muster)»18. Già l’ammissione marxiana secondo cui l’arte greca potè fiorire in una almeno parziale autonomia rispetto alle condizioni materiali dovrebbe almeno in parte contribuire a chiarire le cose; a me non pare affatto, checché ne dica Karl Löwith, che con queste riflessioni entri in cortocircuito la concezione materialistica della storia. Sono invece convinto che, riflettendo sull’arte greca, Marx si stia direttamente riallacciando alle considerazioni estetiche e di filosofia della storia che su di essa erano state svolte da Herder e da Hegel. Penso che ciò affiori soprattutto nell’idea marxiana secondo cui i Greci furono l’«infanzia storica dell’umanità» 19 (geschichtliche Kindheit der Menschheit): quest’idea, come è noto, rimanda direttamente alle Idee per la filosofia della storia dell’umanità di Herder20 e alle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel21, che in effetti costituiscono le due fonti principali (e ciò vale soprattutto per Hegel) della filosofia della storia marxiana. In perfetta sintonia con Herder e con Hegel, Marx è dell’idea che, se di fronte alle realizzazioni artistiche dei Greci proviamo un godimento estetico, ciò avviene non tanto per una contraddizione latente nella concezione materialistica della storia, giacché è evidente che, di per sé, il Partenone esula completamente dal modo di produzione capitalistico, e non trova in esso alcuna possibile spiegazione; avviene, piuttosto, per il fatto che volgendo lo sguardo all’arte greca è come se, per Marx, guardassimo alla giovinezza dell’umanità, intesa – herderianamente e hegelianamente – come un tutto unitario che si sviluppa nel tempo e le cui fasi sono in stretta connessione reciproca, come le diverse fasi dello sviluppo di un unico individuo. È esattamente per questo motivo che, pur stonando se confrontato le fabbriche moderne, il Partenone continua a esercitare su di noi un «fascino eterno»22 (ewigen Reiz), poiché in esso ravvisiamo i tratti di una giovinezza dell’umanità che si configura come uno «stadio destinato a mai più tornare»23. Di qui scaturisce la nostalgia per quel mondo irrecuperabile; una nostalgia che, ancora una volta, è analoga a quella che prova l’adulto per la propria giovinezza passata, e che trova nuovamente in Hegel il proprio punto di riferimento. Infatti, era stato soprattutto Hegel, nelle Lezioni di estetica e nelle Lezioni sulla filosofia della storia, a scorgere nei 18 Ibidem. Traduzione modificata. 19 Ibidem. 20 Cfr. J. G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, 1791; tr. it. Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Zanichelli, Bologna 1971, a cura di V. Verra, pp. 281 ss. Herder parla, a proposito del mondo greco, di «bella giovinezza» (p. 281). 21 G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma–Bari 2003, a cura di G. Bonacina e L. Sichirollo, pp. 189 ss. Hegel vi afferma espressamente che il mondo greco è paragonabile all’«età giovanile». 22 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., I, p. 37. 23 Ibidem. 7 Greci una pienezza originaria e armonica, non ancora lacerata da scissioni, e, per ciò stesso, in perfetto equilibrio con la natura, di cui l’uomo greco si sentiva parte integrante. Naturalmente, il sentimento di nostalgia e, insieme, di godimento estetico scaturente dalla contemplazione delle realizzazione artistiche del mondo antico non deve mai capovolgersi in un’aspirazione a tornare a quel mondo o a quell’arte, poiché – come precisa Marx – «un uomo non può ridivenire bambino, o altrimenti diventa infantile»24: il che, del resto, trova conferma nell’atteggiamento generale di Marx, poco incline a ogni forma di nostalgia per le forme precapitalistiche di esistenza («è ridicolo rimpiangere quella pienezza originaria, proprio com’è ridicolo pensare di dover permanere in questa situazione di totale svuotamento»25), ma non esclude che Marx abbia sempre provato per il mondo greco una fortissima attrazione. Va notato che quanto siamo finora venuti dicendo non contraddice le considerazioni svolte da Marx nei Manoscritti a proposito della genesi storica del senso estetico: il fatto che noi, oggi possiamo apprezzare il Partenone si spiega infatti facendo riferimento a quella Bildung storica dei sensi di cui si diceva nei Manoscritti. Questa prospettiva, a ben vedere, implica che noi – che, in quanto facenti parte del modo di produzione capitalistico, ci troviamo a un più alto livello dello sviluppo sociale e storico – possiamo apprezzare le forme artistiche fiorite nelle epoche passate, nei precedenti «modi di produzione», mentre, per converso, gli uomini appartenenti ai modi di produzione precapitalistici non potrebbero affatto apprezzare le forme artistiche da noi elaborate. In questo senso, penso che per Marx la nota asserzione dei Grundrisse, secondo cui «l’anatomia dell’uomo fornisce una chiave per l’anatomia della scimmia»26, sia pienamente valida anche in riferimento all’arte: con la conseguenza in forza della quale noi possiamo apprezzare l’arte antica, ma gli antichi non possono apprezzare la nostra, non diversamente da come noi possiamo capire la società antica, ma gli antichi non possono capire la nostra. Combinando tra loro l’idea marxiana dell’«educazione» storica dei sensi e l’apparente paradosso del «fascino eterno» dell’arte greca, potremmo dunque ricavarne che, secondo Marx, a noi piace il Partenone ma a Socrate o ad Anselmo da Aosta non sarebbero mai piaciute le poesie di Giacomo Leopardi o i quadri di De Chirico, in forza della «noncontemporaneità» dei modi di produzione. In questo senso, in antitesi con quella che sarà – ad esempio – la concezione dell’opera d’arte di Max Weber, secondo cui nel campo dell’arte «non c’è progresso» 27 (gibt es keinen Fortschritt), Marx sembra sostenere che anche la sfera artistica è soggetta al flusso del progresso, in maniera indisgiungibilmente connessa con l’evoluzione storica e sociale che ritma il corso della storia: noi possiamo capire e apprezzare l’arte dei Greci, i quali invece non avrebbero potuto fare altrettanto con la nostra (supponendo, per assurdo, che fossero potuti venire a contatto con essa). 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 94. 26 «In der Anatomie des Menschen ist ein Schlüssel zur Anatomie des Affen»: ivi, p. 30. 27 M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; tr. it. La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, a cura di P. Volontè, p. 83. 8 c) Il terzo punto su cui desidero portare l’attenzione è il ruolo che, nella prospettiva di Marx, viene assegnato all’arte nel modo di produzione capitalistico. Qual è l’esperienza estetica che si dà nel mondo capitalistico? È soprattutto nelle parti delle Theorien über den Mehrwert dedicate al tema smithiano della distinzione tra «lavoro produttivo» e «lavoro improduttivo» che affiora questo problema nell’analisi marxiana, ancorché esso fosse stato già preso in esame nell’Ideologia tedesca, come vedremo quando saremo giunti all’ultima parte del nostro lavoro. In realtà, le considerazioni che Marx svolge nelle Theorien non hanno come fulcro teorico il problema estetico, ma piuttosto la questione economica del lavoro produttivo e improduttivo: ciò non toglie, comunque, che in tali analisi venga ampiamente affrontato, anche se tangenzialmente e in maniera subordinata, il problema del ruolo assegnato all’arte nel modo di produzione capitalistico. Anche in questo caso, non vi è una frattura teorica con quanto Marx aveva sostenuto ai tempi dei Manoscritti, quando aveva sostenuto – tra le righe – che ogni civiltà attribuisce all’arte compiti e valori diversi, a seconda della propria struttura. Se nel mondo antico l’arte svolgeva una funzione eminentemente sociale, nella misura in cui era finalizzata a tenere unito il popolo greco in una unitarietà di costumi e tradizioni – in quella che Hegel aveva definito la concretezza dell’«eticità» (Sittlichkeit) –, nel mondo feudale l’arte assolve un compito assai diverso, di carattere teologico e di narrazione delle vicende bibliche. Infine, nel modo di produzione capitalistico, l’epoca in cui tutto orbita attorno alla valorizzazione del valore e in cui «ogni realtà, morale o fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore»28, l’arte viene a configurarsi come una delle molteplici maniere in cui si valorizza il capitale. Con lo stesso movimento con cui non produce per soddisfare bisogni, ma al contrario usa i bisogni per valorizzarsi illimitatamente, il capitale si serve dell’arte e del piacere estetico per valorizzarsi; in vista di questo scopo, esso mira a sussumere la produzione artistica, a inglobarla nella produzione di merci che gli è propria. Cerca cioè di trasformare quello che, di per sé, sarebbe un «lavoro improduttivo» in un «lavoro produttivo», vale a dire finalizzato alla valorizzazione del valore. Scrive a questo proposito Marx nelle Theorien: «Milton, che scrisse il Paradiso perduto per cinque sterline, fu un lavoratore improduttivo. Invece lo scrittore che fornisce lavori dozzinali al suo editore è un lavoratore produttivo. Il Milton produsse il Paradiso perduto per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura. Egli vendette successivamente il prodotto per cinque sterline. Ma il proletario letterario di Lipsia, che fabbrica libri (per esempio compendi di economia politica) sotto la direzione del suo editore, è un lavoratore produttivo; poiché fin dal principio il suo prodotto è sussunto sotto il capitale, e viene alla luce soltanto per la valorizzazione di questo. Una cantante che vende il suo canto di propria iniziativa è una lavoratrice improduttiva. Ma la stessa cantante, ingaggiata da un 28 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 7. 9 imprenditore che la fa cantare per far denaro, è una lavoratrice produttiva; poiché essa produce capitale»29 . Una volta che venga sussunto sotto il capitale, il lavoro dell’artista diventa «produttivo» a tutti gli effetti, con la ben nota conseguenza per cui si producono opere d’arte e lavori intellettuali al fine di valorizzare il capitale, e non tanto per (o, almeno, non solo per) realizzare una propria disposizione interiore, un proprio talento. Per questa via, l’arte diventa uno strumento nelle mani del capitale e del suo inestinguibile movimento di autovalorizzazione. L’ambiguità che ne risulta – osserva Marx – è quella in virtù della quale l’artista è tale e, al contempo, è alle dipendenze del capitale: infatti, come nota Marx, «nei confronti del pubblico l’attore è un artista, ma nei confronti del suo impresario l’attore è lavoratore produttivo» 30 che non deve fare altro che impiegare le proprie doti artistiche per valorizzare il valore. Nell’epoca del capitalismo, la produttività di un artista non si misura – nota Marx – sulla base della ricchezza della sua produzione artistica e della sua fecondità intellettuale; al contrario, «uno scrittore è un lavoratore produttivo, non in quanto produce delle idee, ma in quanto arricchisce l’editore che pubblica i suoi scritti, o in quanto è il lavoratore salariato di un capitalista»31. Certo, Marx non è così ingenuo da sostenere che questa mercificazione dell’arte è propria del solo modo di produzione capitalistico: sostiene piuttosto che essa, presente anche nelle precedenti fasi storiche, nell’epoca del capitalismo viene radicalizzata a tal punto che il valore dell’arte in quanto tale passa in secondo piano, cedendo il passo al valore commerciale. In quest’ottica, che le opere d’arte vengano vendute e l’artista sia remunerato, di per sé, «non ha niente a che fare col modo di produzione capitalistico vero e proprio»32: la peculiarità di quest’ultimo risiede piuttosto nel fatto che in esso il valore delle opere d’arte e delle prestazioni dell’artista è misurato soltanto sulla base della sua vendibilità e del profitto che genera, non diversamente da come viene valutato il valore del lavoro dello «schiavo salariato» (Lohnsklave) per eccellenza, l’operaio. Esattamente come un operaio, «un attore, per esempio, perfino un pagliaccio (clown) […] è un lavoratore produttivo se lavora al servizio di un capitalista (dell’imprenditore), al quale egli restituisce più lavoro di quanto ne riceve da lui sotto forma di salario»33. Non importa se la produzione artistica venga considerata dal punto di vista della produzione di merci che «possiedono una forma indipendente e separata dai produttori e dai consumatori»34 (i libri e i quadri, ad esempio), ossia quei prodotti che «sono separati dalla prestazione artistica dell’artista che li esegue»35, oppure come produzione non «separabile dall’atto del produrre come nel caso di 29 K. Marx, Teorie sul plusvalore, cit, I, pp. 599600. 30 Ivi, p. 610. 31 Ivi, p. 277. 32 Ivi, p. 610. 33 Ibidem. 34 Ibidem. 1 tutti gli artisti esecutori, degli oratori, degli attori, degli insegnanti, dei medici, dei preti, ecc»36. Nel primo caso (libri e quadri) viene mercificato il prodotto, nel secondo (attori, esecutori, ecc.) la prestazione artistica. Il fenomeno della sussunzione dell’arte al capitale induce Marx a sostenere che «la produzione capitalistica è nemica di certe branche di produzione intellettuale, per esempio dell’arte e della poesia»37, che sono le meno facilmente permeabili dal meccanismo capitalistico della valorizzazione del capitale. Dunque, nel modo di produzione capitalistico, in cui pure l’«educazione» dei sensi è maggiore rispetto alle epoche precedenti, pare non esserci spazio, nell’ottica marxiana, per l’arte in quanto tale, intesa come fenomeno autonomo e svincolato da finalità estrinseche. d) L’ultimo punto che voglio toccare, con la mia trattazione, riguarda il ruolo che, secondo Marx, l’arte avrà nella società senza classi o, se si preferisce, nel «regno della libertà». Occorre precisare come, anche in questo caso, manchi nelle pagine marxiane un’analisi sistematica del valore dell’arte nella società comunisticamente strutturata, ma ciò non di meno siano presenti riferimenti inequivocabili. Ciò è vero soprattutto se si volge lo sguardo all’Ideologia tedesca. D’altra parte, questa renitenza a tratteggiare dettagliatamente il posto che l’arte occuperà nella società a venire deve essere messo in relazione con la più generale renitenza marxiana a «prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire», ossia a predipingere una realtà che ancora non si è realizzata. Non deve stupire, allora, che i pochi cenni sul futuro ruolo dell’arte compaiano proprio nell’opera marxiana – l’Ideologia tedesca – che più di ogni altra racchiude, sparsi qua e là, accenni futurologici alla società senza classi e alla sua organizzazione. In particolare, il fuoco prospettico attorno al quale ruota il ragionamento marxiano è la contrapposizione tra la massima divisione del lavoro che domina nella società capitalistica e la totale assenza della medesima nella società comunistica, in cui «ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva»38, ma al contrario «può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere»39, andando la mattina a caccia, il pomeriggio a pescare, il pomeriggio facendo il critico, senza diventare esclusivamente né cacciatore, né pescatore, né critico. Al di là di questa utopia dalle tinte arcadiche, ciò che Marx vuole mettere in luce è l’antitesi tra una società (quella capitalistica) in cui la divisione è a tal punto pronunciata che ciascun individuo svolge per tutta la vita un solo ruolo, perché «ha una sfera di attività determinata ed esclusiva (bestimmten ausschließlichen Kreis der Tätigkeit) che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire»40, e una società a venire (quella comunistica) in cui si potrà finalmente realizzare 35 Ibidem. Traduzione modificata. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 445. 38 K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 24. 39 Ibidem. 40 Ibidem. 1 quello che altrove Marx etichetta come l’«individuo totalmente sviluppato»41 (das total entwickelte Individuum), libero di praticare, alternandole, le attività per le quali si sente più portato. Alla luce di questa dicotomia tra presente e futuro, Marx sostiene che il fatto che, dall’antichità fino a oggi, l’abilità artistica sia sempre stata presente soltanto in singoli individui particolari e non nel resto dell’umanità è dovuto esattamente a quella divisione del lavoro che ha sempre accompagnato la storia e che sarà fatta volare in pezzi dalla rivoluzione comunista: «la concentrazione esclusiva del talento artistico in alcuni individui e il suo soffocamento nella grande massa, che ad essa è connesso, è conseguenza della divisione del lavoro»42. In una simile prospettiva, per Marx è del tutto inaccettabile chi, come Max Stirner, pensa di poter spiegare la grandezza di Raffaello facendo riferimento soltanto al suo genio individuale, prescindendo completamente dalle condizioni oggettive in cui egli potè fiorire. Scrive significativamente Marx: «Raffaello, come ogni altro artista, era condizionato (bedingt) dai progressi tecnici dell’arte compiuti prima di lui, dall’organizzazione della società e dalla divisione del lavoro nella sua città e infine dalla divisione del lavoro in tutti i paesi con i quali la sua città era in relazione. Che un individuo come Raffaello possa sviluppare il suo talento dipende completamente (hängt ganz von) dalla divisione del lavoro e dalle condizioni culturali degli uomini che da essa derivano»43 . Nella società divisa in classi e permeata dalla divisione del lavoro, è normale – spiega Marx – che vi siano individui destinati a fare gli artisti e altri a fare gli operai. Ma quando si sarà superata la divisione in classi e la divisione del lavoro, quando cioè si sarà instaurata la società comunistica e ogni individuo sarà un individuo onnilaterale, che potrà cacciare, dipingere e pescare, secondo il proprio capriccio, ecco che – secondo Marx – sparirà la figura dell’artista, come del resto sparirà ogni altra figura di lavoratore parziale e limitato. Più precisamente, secondo Marx: «in un’organizzazione comunistica della società in ogni caso cessa la sussunzione dell’artista (Subsumtion des Künstlers) sotto la ristrettezza locale e nazionale, che deriva unicamente dalla divisione del lavoro, e la sussunzione dell’individuo sotto questa arte determinata (Subsumtion des Individuums unter diese bestimmte Kunst), per cui egli è esclusivamente un pittore, uno scultore, ecc.: nomi che già esprimono a sufficienza la limitatezza del suo sviluppo professionale (Borniertheit seiner geschäftlichen Entwicklung) e la sua dipendenza dalla divisione del lavoro»44 . 41 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Band I, 1867; tr. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti 1964, a cura di D. Cantimori, p. 534. 42 K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 383. 43 Ivi, p. 382. 44 Ivi, p. 383. 1 Nessuno sarà più inchiodato alla sfera di attività particolare che gli è attualmente imposta e potrà finalmente svolgere le attività più disparate, tra cui quella artistica: in questo modo, secondo Marx, l’uomo potrà finalmente recuperare la propria essenza di «ente generico» (Gattungswesen), ossia di ente non geneticamente prefissato a dare vita a una sola forma di oggettivazione sociale. Di qui la nota conclusione che trae Marx: «in una società comunista non esistono pittori, ma tutt’al più uomini che, tra l’altro, dipingono anche (gibt es keine Maler, sondern höchstens Menschen, die unter Anderm auch malen)»45. Solo quando sarà definitivamente superata l’alienazione sarà finalmente possibile un’esperienza estetica a trecentosessanta gradi, perché è solo allora che potranno finalmente svilupparsi pienamente, in maniera illimitata, i sensi dell’uomo: tutti gli uomini potranno fruire dell’arte, e tutti potranno contribuire a crearla. Come è affiorato dal confronto coi testi marxiani – e con questo mi avvio alla conclusione – il problema estetico è in Marx molto più presente di quanto solitamente gli interpreti non siano stati disposti ad ammettere; esso è trattato in maniera frammentaria e senza continuità, in una costellazione di riflessioni sparse nell’opera marxiana e, come ho cercato di porre in evidenza, centrali per comprendere aspetti fondamentali dell’analisi marxiana quali la vexata quaestio del rapporto tra struttura e sovrastruttura e il rapporto tra presente e passato. Il mio lavoro non accampa certo la pretesa di essere esaustivo e di risolvere una volta per tutte i problemi della teoria estetica in Marx: vuole piuttosto configurarsi come un tentativo di avvicinamento a quei problemi, nella consapevolezza che essi costituiscono una matassa complessa, non soltanto perché ingarbugliata, ma anche perché costituita da tanti fili; con questo breve saggio, ho provato a estrarne qualcuno, non certo a trovare il bandolo.