Nature

RIFLESSIONI FAMOSE




Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicchè, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressochè tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E’ evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. (Aristotele, Metafisica I,2,982b)

 

La giusta maniera di procedere da sè o di essere condotti da un altro nelle cose d’amore é questa: prendendo le mosse delle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che é il bello in sè. (Platone, “Simposio”)

 

Se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia. (Aristotele, “Protrettico”)

 

Io vi insegno il superuomo. L’ uomo é qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sè:e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’ uomo?Che cosa é per l’uomo la scimmia?Un ghigno o una vergogna dolorosa.E questo appunto ha da essere l’ uomo per il superuomo:un ghigno o una dolorosa vergogna.Avete percorso il cammino dal verme all’ uomo,e molto in voi ha ancora del verme.In passato foste scimmie,e ancor oggi l’ uomo é più scimmia di qualsiasi scimmia.E il più saggio tra voi non é altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro.Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta?Vedete, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà vi dica: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure! Una volta il sacrilegio contro Dio era il sacrilegio più grande, ma Dio è morto, e sono morti con Dio anche quei sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra è ora la cosa più spaventosa, e fare delle viscere dell’imperscrutabile maggior conto che del senso della terra! (Nietzsche, “Così parlò Zaratustra”)

 

Grande e bello spettacolo veder l’uomo uscir quasi dal nulla per mezzo dei suoi propri sforzi; disperdere, con i lumi della ragione, le tenebre in cui la natura l’ aveva avviluppato; innalzarsi al di sopra di se stesso; lanciarsi con lo spirito fino alle regioni celesti: percorrere a passi di gigante, al pari del sole, la vasta distesa dell’universo; e, ciò che é ancor più grande e difficile, rientrare in se stesso per studiarvi l’uomo e conoscerne la natura, i doveri e il fine. (Rousseau)

 



 

Sicuri dunque e a testa alta, in qualsiasi luogo ci toccherà di andare, avviamoci con passo intrepido, misuriamo ogni angolo di terra, quale esso sia: entro i confini del mondo non vi può essere esilio di sorta; nulla infatti che si trovi in questo mondo é estraneo all’uomo. Da ogni terra lo sguardo si solleva al cielo sempre ad ugual distanza, tutto ciò che é divino dista sempre del medesimo intervallo da tutto ciò che é umano. (Seneca, “De consolatione”)

 

Io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perchè é scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi ed altre figure matematiche, attissime per tal lettura. (Galilei)

 

In luogo del gran numero di regole di cui si compone la logica, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare neppure una volta di osservarle. La prima regola era di non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne. La seconda, di dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente. La terza, di condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l’un l’altra. E l’ultima, di fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla. (Cartesio, “Discorso sul metodo”)

 

Ho lottato, é molto: credetti poter vincere ( ma alle membra venne negata la forza dell’animo ), e la sorte e la natura repressero lo studio e gli sforzi. E’ già qualcosa l’essersi cimentati; giacchè vincere vedo che é nelle mani del fato. Per quel che mi riguarda ho fatto il possibile, che nessuna delle generazioni venture mi negherà; quel che un vincitore poteva metterci di suo: non aver temuto la morte, non aver ceduto con fermo viso a nessun simile, aver preferito una morte animosa a un’imbelle vita. (Giordano Bruno, “De monade, numero et figura”)

 

Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti. Per esempio, la morte non è nulla di terribile (perché altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate): ma il giudizio che la vuole terribile, ecco, questo è terribile. Di conseguenza, quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l’ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l’ha completata non incolpa né gli altri né se stesso. (Epitteto, “Manuale”)

 

Essere o non essere;questo é il problema:se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi,i sassi e i dardi dell’ iniqua fortuna,o prender l’ armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli.Morire:dormire;nulla di più;e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne,é soluzione da accogliere a mani giunte.Morire,dormire,sognare forse: ma qui é l’ ostacolo, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale,ci trattiene:é la remora questa che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti.Chi vorrebbe,se no,sopportar le frustate e gli insulti del tempo,le angherie del tiranno,il disprezzo dell’ uomo borioso,le angosce del respinto amore,gli indugi della legge,l’ oltracotanza dei grandi,i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri,quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale?Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca,se non fosse il timore di qualche cosa,dopo la morte,la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore,a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d’ altri che non conosciamo?Così ci fa vigliacchi la coscienza;così l’ incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero.E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale corso:e dell’ azione perdono anche il nome. (Shakespeare, “Amleto”)

 

La storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe. Uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, membro di una corporazione e artigiano, in breve oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta, una battaglia che si è ogni volta conclusa con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società o con il comune tramonto delle classi in conflitto. Nelle precedenti epoche storiche noi troviamo dovunque una suddivisione completa della società in diversi ceti e una multiforme strutturazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo, feudatari, vassalli, membri delle corporazioni, artigiani, servi della gleba, e ancora, in ciascuna di queste classi, ulteriori specifiche classificazioni. La moderna società borghese, sorta dal tramonto della società feudale, non ha superato le contrapposizioni di classe. Ha solo creato nuove classi al posto delle vecchie, ha prodotto nuove condizioni dello sfruttamento, nuove forme della lotta fra le classi. (Marx e Engels, “Manifesto del Partito Comunista”)

 

L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale. (Blaise Pascal, “Pensieri”)

 

Due cose riempono l’animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Entrambe le cose non posso cercarle e semplicemente supporle come fossero nascoste nell’oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo nell’infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, e inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere solo l’intelletto, e con il quale (ma grazie ad esso anche con tutti quei mondi visibili) io non mi riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale, ma in una necessaria e universale. Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai pianeti la materia da cui è sorta, dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. Il secondo al contrario innalza infinitamente il mio valore, che è quello di una intelligenza, grazie alla mia personalità, nella quale la legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, perlomeno quanto può essere dedotto dalla destinazione finale della mia esistenza attraverso questa legge, che non è limitata alla condizioni e ai confini di questa vita, ma si estende all’infinito. Però, stupore e rispetto possono sì spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza. (Kant, “Critica della ragion pratica”, A 287-290)

 

Tutta la bellezza e la magnificenza che abbiamo prestato alle cose reali e immaginate, io voglio rivendicarla come proprietà e opera dell’uomo: come la sua più bella apologia. L’uomo come poeta, pensatore, Dio, amore, forza; ammiriamo la sua regale generosità, con cui ha fatto doni alle cose per impoverire se stesso e sentirsi miserabile ! Finora il suo maggiore disinteresse fu questo, che egli ammirò e adorò e seppe nascondere a se stesso che egli stesso aveva creato ciò che ammirava. ( Nietzsche, “La volontà di potenza”)

 

Voglio capire come Dio ha creato il mondo. Non mi interessa questo o quel fenomeno in particolare: voglio penetrare a fondo il Suo pensiero. Il resto sono solo minuzie … l’esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. E’ l’emozione fondamentale che accompagna la nascita dell’arte autentica e della vera scienza. Colui che non la conosce, colui non può più provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere. (Einstein)

 

La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali. (Epicuro, “Lettera a Meneceo”)

 

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare. (Antonio Gramsci)

 

Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un’indefettibile fiducia in esso. (Jaspers, “Filosofia”, libro II, cap.1)

 

Perchè la morte ti strappa questi gemiti?Perchè se hai potuto godere a tuo piacimento della vita trascorsa,se tutti questi godimenti sono stati come radunati in un vaso forato,se non sono scorsi via e perduti senza profitto,perchè,come un convitato sazio,non ritirarti dalla vita?Perchè,povero sciocco,non prenderti di buona grazia un riposo che nulla turberà?Se,invece,tutto ciò di cui hai a lungo goduto é trascorso in pura perdita,se la vita ti é di peso,perchè volerla prolungare di un tempo che a sua volta deve terminare in una triste fine e dissiparsi tutto senza profitto?Non posso immaginare ormai altre nuove invenzioni per farti piacere:le cose vanno sempre allo stesso modo. (Lucrezio, “De rerum natura”)

 

Conoscere la ragione come la rosa nella croce del presente e in tal modo godere di questo, questa intellezione razionale è la conciliazione con la realtà, che la filosofia procura a coloro, nei quali una volta è affiorata l’intera esigenza di comprendere, e altrettanto di mantenere in ciò che è sostanziale la libertà soggettiva, così come di stare con la libertà soggettiva non in un qualcosa di particolare e accidentale, bensì in ciò che è in sè e per sè. (Hegel, “Lineamenti di filosofia del diritto”)

 

Il fondamento della critica alla religione é: è l’uomo che fa la religione, e non è la religione che fa l’uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sè e il sentimento di sè dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un’entità astratta posta fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo punto d’onore spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, è l’anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione approda alla teoria che l’uomo è per l’uomo l’essere supremo. (Marx)

 

Così, poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi ce la fanno immaginare. E dal momento che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando considerano gli oggetti più semplici della geometria, e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di essere al pari di chiunque altro esposto all’errore, tutte le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni. Infine, considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando dormiamo senza che ce ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo. Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch’io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche più facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche se il corpo non esistesse. (Cartesio, “Discorso sul metodo”)

 

E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia. Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi: – Dorme, signor Meis? E io ero tentato di rispondergli: – Sì, grazie, dormo, signor Anselmo. Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare. E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? – Dorme, signor Meis? – Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino. – Ah, bene… Ma poiché lei ha l’occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d’inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? (Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”)

 

Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch’io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s’isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m’ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l’arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po’ a sinistra. Di troppo la Velleda… Ed io – fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri – anch’io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura – ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un’onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l’avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch’esse di troppo: io ero di troppo per l’eternità. (Sartre, “La Nausea”)

 

Abbiamo escluso la Filosofia da una gran parte del dominio che si supponeva appartenerle. Il dominio che rimane è quello occupato dalla scienza. La scienza tratta delle coesistenze e sequenze tra i fenomeni: essa li raggruppa da prima per formare generalizzazioni di un ordine semplice o basso, e si eleva a grado a grado a più alte e più estese generalizzazioni. Ma se è così, dove rimane un campo per la Filosofia? La risposta è questa: Filosofia può essere ancora propriamente il titolo da applicarsi alla conoscenza della più alta generalità. […] Le verità della filosofia hanno dunque con le più alte verità scientifiche la stessa relazione che ciascuna di queste ha con le verità scientifiche inferiori. Come ogni più ampia generalizzazione della Scienza comprende e consolida le più ristrette generalizzazioni del suo dominio; così le generalizzazioni della Filosofia comprendono e consolidano le più ampie generalizzazioni della Scienza. Perciò la conoscenza che costituisce la Filosofia è nel genere l’estremo opposto di quella che l’esperienza da prima accumula. (Herbert Spencer, “I primi princìpi”)

 

Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello vien confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono, ma ciascuna di esse dilegua anche sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intero. (Hegel)

 

“Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può essere cioé orientato secondo l’«etica della convinzione» oppure secondo l’«etica della responsabilità». Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuole certo dir questo. Ma v’è una differenza incolmabile, tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione, la quale – in termini religiosi – suona: ‘Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio’, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni”. (Weber, “La politica come professione”)

 

E’ davvero incredibile come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l’umanità. E’ un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d’una fila di pensieri triviali. Gli uomini somigliano a orologi che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta che un uomo viene generato e partorito, è l’orologio della vita umana di nuovo caricato, per ripetere ancora una volta, fase per fase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un breve sogno dell’infinito spirituale naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all’immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre. Nondimeno, e in ciò è l’aspetto grave della vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev’essere pagato dall’intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori, e in ultimo con un’amara morte, a lungo temuta, finalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente malinconici la vista di un cadavere. La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia. Imperocchè l’agitazione e il tormento della giornata, l’incessante ironia dell’attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d’ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene da commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi riusciamo neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi da commedia. (Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione” IV § 58)

 

Se l’essere umano è per l’uomo l’essere sommo anche nella pratica la legge prima e suprema sarà l’amore dell’uomo per l’uomo. “Homo homini deus est”: questo è il nuovo punto di vista il supremo principio pratico che segnerà una svolta decisiva nella storia del mondo. (Feuerbach, “L’Essenza del Cristianesimo”)

 

In questo sottile momento in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Cosi’ persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che e’ umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile nè futile. Ogni granello di quella pietra ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice. (Camus, “Il mito di Sisifo”)

 

Indagare e dubitare sono, fino ad un certo punto, termini sinonimi. Noi indaghiamo quando dubitiamo; ed indaghiamo quando cerchiamo qualcosa che fornisca una risposta alla formulazione del nostro dubbio. Pertanto è peculiare della natura stessa della situazione determinata che suscita l’indagine, di essere fonte di dubbio; o, in termini attuali anzichè potenziali, di essere incerta, disordinata, disturbata. La qualità peculiare di ciò che investe i materiali dati, costituendoli in situazione, non è esattamente un’incertezza generica; è una dubbiosità unica nel suo genere che fa si che la situazione sia appunto e soltanto quella che è. E’ quest’unica qualità che non soltanto suscita la particolare indagine intrapresa ma esercita anche il controllo sopra i suoi speciali procedimenti. Altrimenti nell’indagine un qualunque processo potrebbe aver luogo e riuscirvi fecondo con altrettanta probabiltà che qualunque altro. Ove una situazione non sia univocamente qualificata nella sua propria indeterminatezza, si da uno stato di completo panico: la risposta ad esso assume la forma di attività palesi cieche e selvagge. Enunciando la cosa da un punto di vista personale, noi abbiamo “perso la testa”. Una grande varietà di parole serve a caratterizzare le situazioni indeterminate. Esse sono disturbate, penose, ambigue, confuse, piene di tendenze contrastanti, oscure, ecc… E’ la situazione che ha questi caratteri. Noi siamo dubbiosi perchè la situazione è nella sua essenza dubbiosa. (John Dewey, “Logica come teoria dell’indagine”)

 

Perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili al livello dell’osservazione scientifica la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo. Sarebbe del resto illogico e assurdo, dal momento che ci rallegriamo osservando le loro immagini poiché al tempo stesso vi riconosciamo l’arte che le ha foggiate, la pittura o la scultura, se non amassimo ancora di più l’osservazione degli esseri stessi così come sono costituiti per natura, almeno quando siamo in grado di coglierne le cause. Dunque, non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso. E come Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri che desideravano rendergli visita, ma che una volta arrivati, ristavano vedendo che si scaldava presso la stufa della cucina (li invitò ad entrare senza esitare: “anche qui – disse – vi sono dei”), così occorre affrontare senza disgusto l’indagine su ognuno degli animali, giacchè in tutti v’è qualcosa di naturale e di bello. Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della natura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costituite o si sono formate, occupa la regione del bello. Se poi qualcuno ritenesse indegna l’osservazione degli altri animali, nello stesso modo dovrebbe giudicare anche quella di se stesso; non è infatti senza grande disgusto che si vede di che cosa sia costituito il genere umano: sangue, carni, ossa, vene, e parti simili. (Aristotele, “De partibus animalium” I, 5)

 

Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l’impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell’orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. (Dino Buzzati, “Il deserto dei Tartari”)


 


 

Citazioni

"Siccome le azioni della vita non permettono spesso alcun indugio, è una verità certissima che, quando non è in nostro potere discernere le opinioni più vere, dobbiamo seguire le più probabili; e anzi, anche se non notiamo maggiore probabilità nelle une che nelle altre, dobbiamo tuttavia deciderci per alcune, e considerarle dopo, non più come dubbie, in quanto si riferiscono alla pratica, ma come verissime e certissime, perché tale è la ragione che ci ha fatto decidere per esse". (R. Descartes, "Discorso sul metodo")
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