TESTI CONSIGLIATI
“L’invulnerabilità non consiste nel non essere colpiti, ma nel non restare feriti” (Seneca, De constantia sapientis, 3.3)
Qui trovate qualche testo filosofico che, dal mio punto di vista, merita di essere letto.
ANDREA TAGLIAPIETRA, “ICONE DELLA FINE”
Andrea Tagliapietra, Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti, Il Mulino, Bologna 2010.
L’idea della “fine” sembra suscitare un groviglio di contraddizioni: che si tratti della fine individuale che chiamiamo morte, o della fine collettiva che nella tradizione occidentale prende le forme simboliche dell’Apocalisse o quelle reali della catastrofe, questo evento non può essere veramente “pensato”. Dove si ferma il pensiero sorgono le immagini. Ed è una vasta e lussureggiante foresta di immagini quella che oggi, con la crisi della modernità – il grande quadro che racchiude crisi di ordine ecologico, economico e politico – viene prepotentemente alla ribalta. Le “icone della fine” occupano quegli spazi dell’immaginario che sempre più coincidono con i miti della cultura di massa, del cinema e delle narrazioni popolari. Dal Titanic ad Apocalypse now, da The Day After al Conte Dracula e a Frankenstein, fino alla Mummia e ai vari Zombie e Vampiri, un viaggio attraverso le immagini dell’apocalisse individuale e collettiva che popolano la mente umana.
Andrea Tagliapietra insegna Storia della filosofia e Storia delle idee ed ermeneutica filosofica nell’Università San Raffaele di Milano. Fra i suoi libri: “La forza del pudore” (Rizzoli, 2006), “Filosofia della bugia” (Bruno Mondadori, II ed. 2008), “La metafora dello specchio” (Bollati Boringhieri, 2008), “Il dono del filosofo” (Einaudi, 2009), “Non desiderare la donna e la roba d’altri” (con G. Ravasi, Il Mulino, 2010).
JACQUES BIDET: “IL CAPITALE”, SPIEGAZIONE E RICOSTRUZIONE
JACQUES BIDET: “IL CAPITALE”, SPIEGAZIONE E RICOSTRUZIONE, Manifestolibri, Roma 2010, a cura di S. Petrucciani e M Russo.
Nel momento in cui la crisi economica e finanziaria riporta il pensiero di Marx al centro dell’interesse attuale, questo libro fornisce una chiara ed esauriente introduzione alla lettura del “Capitale”. Nel rileggere l’opera di Marx l’autore non si limita a interpretarla. La riattraversa criticamente mostrando a quali trasformazioni essa deve essere sottoposta per comprendere meglio il nostro presente. Le teorie di Marx sono messe in relazione con le grandi lotte politiche e sociali che hanno segnato il ventesimo secolo e con le molte e contrastanti interpretazioni che ne sono state date, da Habermas a Derrida, da Bourdieu a Foucault. Un testo per leggere “Il Capitale” e per riscoprirne l’attualitа.
ROBERTO MORDACCI, “ELOGIO DELL’IMMORALISTA”
Roberto Mordacci, Elogio dell’immoralista, Bruno Mondadori, Milano 2009.
Un elogio dell’immoralismo contro il moralismo cieco e conformista, la sterile amoralità e l’immoralità fine a se stessa. Tenendo come punto di riferimento costante il pensiero di Nietzsche e muovendosi tra la cultura antica e quella contemporanea, tra suggestioni letterarie e drammaturgiche, l’autore guarda alla morale nei secoli, e considera come vere disposizioni all’agire responsabile la tendenza a dubitare delle verità precostituite e la ricerca autonoma di norme di comportamento, ricavate dall’esperienza.
Indice – Sommario
Introduzione Perché l’immoralismo
1. Ritratto dell’immoralista
La rabbia di Trasimaco
L’ironia di Rameau
Nietzsche immoralista
Il gesto di Gide
2. Le maschere del moralismo
Il moralismo come atteggiamento
Moralismo tradizionalistae moralismo libertario
Tre gradi del moralismo
Due esempi: la bioetica in Italia e il caso Enron
Una tradizione nascosta: i moralisti classici e moderni
3. L’immoralista e il libertino
Il paradosso dell’edonismo
Al di là del principio del piacere
Immoralismo e lotta per il potere: Riccardo III
4. Tentativi di uscire dalla morale: l’amoralista e lo scettico
Fuggire dalla moralità
Scetticismo e immoralismo
Relativismo e assolutismo
5. Immoralismo e autonomia del volere
Il criterio interno della libertà
L’obiezione postmoderna e la risposta del neomoderno
L’eguaglianza
Una tentazione costante
ENRICO DONAGGIO: Una sobria inquietudine.
Karl Löwith e la filosofia
Una sobria inquietudine ripercorre la vita intellettuale di uno tra i più autorevoli filosofi tedeschi del secolo scorso. È la prima biografia dedicatagli, e attinge a un vasto archivio inedito di documenti e corrispondenza con i massimi esponenti della filosofia europea del Novecento (Martin Heidegger, Karl Jaspers, Leo Strauss, Hannah Arendt, Hans-Georg Gadamer, Eric Voegelin, Leo Spitzer, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Arnold Gehlen, Jürgen Habermas e altri ancora). L’uso sistematico di documenti sparsi in diversi paesi (Germania, Italia, Francia, Usa, Giappone) ha consentito a Enrico Donaggio di ripercorrere la vicenda löwithiana (in particolare il suo rapporto con Heidegger, di cui Löwith fu prima allievo e poi critico accanito, l’esilio in Italia, Giappone e Stati Uniti) in una narrazione in cui la ricostruzione biografica si intreccia costantemente con le vicende filosofiche e politiche del secolo. Karl Löwith era nato a Monaco di Baviera nel 1897. Allievo di Husserl e Heidegger, nel 1934, in quanto ebreo, era stato costretto a lasciare la Germania a causa delle persecuzioni razziali. Visse gli anni seguenti in Italia, a Roma, dove strinse amicizia con Delio Cantimori e Guido Calogero ed ebbe modo di conoscere Giovanni Gentile e Benedetto Croce; in Giappone, dove si avvicinò alla filosofia zen e poté osservare da vicino il processo di appropriazione della scienza occidentale da parte dei paesi orientali; e negli Stati Uniti, dove lavorò all’Università di New York. Tornato nel 1952 in Germania, insegnò a Heidelberg fino all’anno della sua morte, nel 1973. Da questi pochi cenni si può ben comprendere come la biografia intellettuale di Löwith consenta una lettura in filigrana di gran parte della filosofia europea del Novecento, con il suo carico di interrogativi sul posto dell’uomo nella natura, sul senso della filosofia e sulle sue responsabilità verso il male che ha lacerato questo secolo. Scritto senza accademismi, in uno stile profondamente partecipe delle vicende umane che travolsero quella generazione, Una sobria inquietudine è un’opera rigorosa, ma fruibile da un pubblico colto di non specialisti.
Enrico Donaggio presenta il suo libro
Come nasce Una sobria inquietudine?
All’origine c’è la lettura dell’autobiografia di Karl Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933. Una vita interessante! Volontario nella prima guerra mondiale, con la prigionia in Italia, il paese che diverrà la sua patria elettiva. Quindi gli anni dell’università, dove Löwith dimostra un fiuto notevole nello scegliere i propri maestri: un premio Nobel per la biologia, la cerchia del poeta Stefan George, Max Weber. E quando la passione per la filosofia prende il sopravvento Löwith, che segue i corsi insieme a Gadamer, Hannah Arendt, Leo Strauss, si permette di snobbare Husserl per seguire, come suo primo allievo, un giovane assistente in procinto di diventare una celebrità, Martin Heidegger. Di questo curriculum fuori dal comune, come del seguito della vicenda – la rottura e il riavvicinamento con Heidegger, l’esilio imposto dal nazismo in Italia, Giappone e Stati Uniti, con il tentativo di comprendere culture tanto diverse, il rientro in Germania, e il fittissimo epistolario con personalità di spicco della cultura europea – traspariva ben poco negli studi su Löwith sin qui pubblicati.
Ha dunque scritto una biografia intellettuale di Löwith?
Questa era la prima intenzione. Mi sono messo in cerca del materiale – diari, lettere, pagine inedite – che, insieme alle opere pubblicate, consentisse di ricostruire il percorso di Löwith, la rete di relazioni umane e intellettuali di cui egli fu un nodo. Non esisteva ancora un luogo in cui questi scritti fossero raccolti, e ho dovuto perciò rintracciarli in varie parti del mondo, impiegando diversi anni. La conoscenza di questi testi mi ha però anche convinto del fatto che l’immagine sin qui consolidata di questo autore – quella di uno storico della filosofia olimpicamente distaccato dai fatti del proprio tempo – era inadeguata. La filosofia è infatti il filtro, il medium di cui Löwith si serve per formulare la sua critica della modernità. Interrogandosi sul senso della filosofia e sulle sue responsabilità verso il male che ha lacerato il Novecento, egli elabora una diagnosi epocale quanto mai suggestiva. Restituire anche questo aspetto della posizione di Löwith costituisce il secondo obiettivo del mio libro.
Di che tipo di libro si tratta?
C’erano due classici modelli che volevo evitare: la biografia di un migliaio di pagine che informa su ogni dettaglio dell’esistenza dell’autore, anche su quelli più irrilevanti ai fini di una comprensione del suo pensiero. E lo studio erudito che, sin dallo stile con cui è scritto, soffoca in una patina di noia il proprio oggetto. Spero di essere riuscito almeno in parte a trovare un’alternativa progettando un volume disposto su due livelli. Il testo vero e proprio che, in forma sintetica e – mi auguro – limpida, offre una ricostruzione essenziale e accessibile della vita e del pensiero di Löwith, collocandola sullo sfondo dell’epoca, dei paesi e dei dibattiti filosofici a cui si intrecciò. E una corposa sezione di “note e approfondimenti” in cui lo specialista o il lettore più curioso trovano le indicazioni per proseguire lungo le molteplici piste che il libro segnala ma, volutamente, non percorre.
Quale profilo di Löwith ne scaturisce?
Wittgenstein ha detto che esistono pensatori che sono come delle vette e altri che sono invece simili ad altipiani. Löwith appartiene senz’altro a questa seconda categoria: studiandolo non ci si inerpica su cime tempestose, ma si vedono molte cose da una prospettiva meno estrema e unilaterale di quella che si gode da un picco solitario. Leggendo i suoi libri si entra in contatto con quanto di meglio la filosofia europea ha prodotto nei due secoli che ci siamo lasciati alle spalle. E non lo si fa nel modo solipsistico, spesso arrogante, di chi si ritiene il depositario esclusivo di pensieri elevatissimi o abissali. Si apprende piuttosto un’arte dei toni sommessi, un approccio mimetico che mira a restituire una polifonia di voci alle quali, in modo discreto quanto deciso, Löwith aggiunge la propria. Questa trama di confronti – con Hegel e Nietzsche, Marx e Weber, Heidegger e Schmitt – nasconde infatti nella sua filigrana una critica alle responsabilità politiche della filosofia e una critica integralmente filosofica della modernità occidentale. Un tentativo, se si vuole, di sopravvivere filosoficamente al Novecento.
Per saperne di più, consultate il sito della Feltrinelli, cliccando qui.
ENRICO DONAGGIO, CHE MALE C’E’.
INDIFFERENZA E ATROCITA’ TRA AUSCHWITZ E I NOSTRI GIORNI
ENRICO DONAGGIO, “CHE MALE C’E’. INDIFFERENZA E ATROCITA’ TRA AUSCHWITZ E I NOSTRI GIORNI”. L’ANCORA DEL MEDITERRANEO, 2005
Dalla quarta di copertina dell’opera:
Enrico Donaggio: “Che male c’è. Indifferenza e atrocità tra Auschwitz e i nostri giorni”. L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2005.
I massacri, le guerre, le torture; immagini come quelle di Abu Ghraib, che fanno ogni giorno il giro del mondo. Un filo di sgomento corre spesso a ritroso dalle atrocità di cui siamo quotidianamente spettatori sino al reticolato di Auschwitz, prima stazione obbligata per chi voglia comprendere quanta barbarie può nascondersi dietro la normalità della vita moderna. E si resta confusi o indifferenti. Queste pagine nascono proprio dal bisogno di fissare i contorni di una tale sensazione. Non indicano delle risposte e, ancor meno, delle vie d’uscita. Si limitano ad azzardare una serie di congetture e a descrivere le forme che l’elaborazione di questo sconcerto ha assunto in tempi peggiori dei nostri. Ma anche a riflettere su quella che può sembrare una forma definitiva di ingenuità o di rassegnazione.
GIANNI VATTIMO, LA SOCIETA’ TRASPARENTE
Vattimo è un pensatore attento al problema della comunicazione, della multimedialità e, in sostanza, della tecnica, anche se – stando a quanto egli stesso ha più volte detto – più che di tecnica sarebbe bene parlare di “tecniche”. A differenza di Heidegger – che nella tecnica scorgeva un’insidia temibile – e di Lyotard (con il quale si trova però in sintonia per quel che concerne la nozione di “post-moderno”), il filosofo torinese guarda con simpatia all’esplodere della comunicazione che ha travolto il mondo dal dopo-guerra in poi: ed è a questa tematica decisiva che è dedicato il suo scritto “La società trasparente”, apparso per la prima volta nel 1989, per poi riuscire, edito da Garzanti, nel 2000. Le ragioni di questa seconda “uscita” sono esposte da Vattimo stesso nella prefazione, in cui spiega che si sono verificate talmente tante e rapide innovazioni in campo tecnologico e politico da richiedere una rivisitazione di alcuni parti dello scritto, pur rimanendo invariato il cuore del problema, ossia il fatto che “la ‘mediatizzazione’ della nostra esistenza ci metta di fronte a (possibilità di) trasformazioni molto radicali del modo di vivere la soggettività, a eventi che rappresentano anche vere e proprie svolte nel ‘senso dell’essere’”.
Fin dalle prime pagine, viene stretto un forte legame tra post-modernità e società dei mass-media e della comunicazione generalizzata: si tratta pertanto di chiarire, in via preliminare, che cosa sia la “post-modernità” per poter così, in seguito, addentrarsi nel problema dei mass-media senza rischi di fraintendimenti. La constatazione di Vattimo, in apertura del libro, è che oggigiorno la parola “post-modernità” è sulla bocca di tutti, a tal punto che è quasi divenuto un obbligo evitarla, per non scivolare nel banale e in quella che pare ormai essere una “moda”. Ma se è vero che tutti impiegano tale termine, è altrettanto vero che si sappia con precisione quali significati siano in esso racchiusi? Con queste riflessioni sullo sfondo, Vattimo avvia la propria indagine, convinto che “il termine postmoderno abbia un senso” e che “questo senso sia legato al fatto che la società in cui viviamo è una società della comunicazione generalizzata, la società dei mass media”. Ma se parliamo di “postmoderno”, lo facciamo – ovviamente – in riferimento al “moderno”, di cui appunto il “postmoderno” rappresenta uno stadio successivo: ma che cos’è, allora, la modernità? Tra le molteplici definizioni possibili, Vattimo ne trova una particolarmente calzante, sulla quale è possibile trovarsi d’accordo: “la modernità è l’epoca in cui diventa un valore determinante il fatto di essere moderno”. In quest’accezione, l’essere moderno diventa un valore e, di conseguenza, l’essere non-moderno si colora di significati negativi, e termini come “reazionario” o “antiquato” diventano spregiativi, poiché deridono chi resta legato al passato senza riconoscere il valore del moderno. Questo atteggiamento è presente nella civiltà occidentale fin dalla nascita della modernità – avvenuta nel Quattrocento -, anche se in origine era latente e solo embrionale: un tipico esempio di questa nuova “cultura” può essere rintracciato nella figura del genio, ossia di colui che crea cose assolutamente nuove, sganciate dal passato. Nell’età illuministica, poi, l’atteggiamento “modernista” ha raggiunto l’apice, considerando il passato come mera serie di errori umani e la storia come “un progressivo processo di emancipazione”. Ora, nell’epoca in cui stiamo vivendo, non è più possibile parlare della storia come un qualcosa di unitario, come “un centro intorno a cui si raccolgono e si ordinano gli eventi”, è tramontata l’idea – o, meglio, l’ideologia – di una storia che scorre unitariamente e ciò è emerso in maniera nettissima soprattutto a partire dall’Ottocento, per trascinarsi fin nel Novecento e raggiungere probabilmente l’apice con lo scritto di Walter Benjamin “Tesi sulla filosofia della storia” (1938), in cui si dice, in sostanza, che la storia come corso unitario è “una rappresentazione del passato costruita dai gruppi e dalle classi sociali dominanti”. In effetti – nota Vattimo – se ci domandiamo “che cosa si tramanda del passato? Che cosa ci riferisce la storia di quel che è accaduto?”, ci troviamo inevitabilmente costretti a riconoscere che essa si fa portavoce non di tutto ciò che è accaduto, bensì di ciò che appare “rilevante”, con la conseguenza, ovviamente, che la storia non può che essere di parte. Sviluppando queste tesi benjaminiane (ma già prospettate da Marx e da Nietzsche), si perviene alla conclusione che “non c’è una storia unica, ci sono immagini del passato proposte da punti di vista diversi, ed è illusorio pensare che ci sia un punto di vista supremo”. E se crolla l’idea di una storia come corso unitario, crolla anche l’idea di progresso (che accomuna gli Illuministi, Hegel, Marx, i Positivisti e gli Storicisti), giacchè quest’ultimo implica che la storia stessa proceda verso un fine, verso il meglio. Infatti, così come noi possiamo concepire la storia in maniera unitaria solo se guardiamo ad essa da un determinato punto di vista che si pone al centro, così il progresso viene necessariamente inteso “assumendo come criterio un certo ideale dell’uomo”. Con la fine della modernità e il trapasso nella post-modernità, tutto ciò si è sgretolato, e non solo grazie alla fine del colonialismo e dell’imperialismo: anche l’avvento della società della comunicazione ha giocato, in tal senso, un ruolo assolutamente fondamentale. Ed è a questo punto che Vattimo introduce la nozione di “società trasparente”, un’espressione che è “introdotta con un punto interrogativo” perché più problematica del previsto.
“Ciò che intendo sostenere è: a) che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; b) che essi caratterizzano questa società non come una società più ‘trasparente’, più consapevole di sé, più ‘illuminata’, ma come una società più complessa, persino caotica; e infine c) che proprio in questo relativo ‘caos’ risiedono le nostre speranze di emancipazione”.
L’inizio della fine della modernità è segnato – come abbiamo visto – dallo spegnersi dell’unitarietà della storia e del suo monopolico punto di vista: nel passaggio al post-moderno, non c’è più un unico punto di vista universalmente valido e accettato, ma, al contrario, vi è un’autentica esplosione di prospettive, di concezioni e di idee che rendono impossibile pensare la storia come un lineare corso di eventi che scorre unitariamente. Questo proliferare di visioni del mondo trae origine dal ruolo dei mass media e della comunicazione generalizzata, cui Vattimo riconosce il grande merito di aver reso la società non più trasparente e cristallina, ma, viceversa, incommensurabilmente più caotica e irriconducibile ad un centro, ad un punto di vista unico. L’asserto di Nietzsche – in “Così parlò Zarathustra” –: “ora che Dio è morto vogliamo che vivano molti dei”, si concretizza nella società postmoderna, in cui “radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo”: non più una sola visione del mondo, ma un’esplosione di immagini. Sono stati i mass media a permettere la dissoluzione dei punti di vista centrali, ossia di quelli che – prendendo in prestito le parole di Lyotard – potremmo definire “i grandi racconti”: ne segue che proprio l’apparente caos della società postmoderna – la quale, lungi dall’essere una società “trasparente”, cioè monoliticamente consapevole di se stessa, è piuttosto un “mondo di culture plurali”, ovvero una società “babelica” e “spaesata” in cui si incrociano linguaggi, razze, modi di vita diversi – costituisce la miglior premessa a una forma di emancipazione basata sugli ideali del pluralismo e della tolleranza ossia a un modello di umanità più aperto al dialogo e alla differenza. Si attua una presa di parola da parte di un numero crescente di sub-culture che, prima d’oggi, erano sempre state messe a tacere e condannate come “diverse” e quindi “non-vere”. In tale prospettiva, risulta inaccettabile la posizione di Adorno e degli altri membri della Scuola di Francoforte, che nei mass media tendevano a leggere un terribile strumento di appiattimento e di imposizione di un dominio unitario; il proliferare di “immagini del mondo” porta con sé la paradossale conseguenza che diventa sempre meno concepibile l’idea di un mondo, di una realtà data unitariamente, cosicchè pare avverarsi la profezia nietzscheana del mondo vero che alla fine diventa favola: non c’è più una realtà data, ma vi sono una miriade di realtà o, meglio, di punti di vista diversi, di diverse interpretazioni che rendono incredibilmente babelica la società, generando un diffuso effetto di spaesamento e confusione: “si fa strada un ideale di emancipazione che ha alla propria base, piuttosto, l’oscillazione, la pluralità, e in definitiva l’erosione dello stesso ‘principio di realtà’”. Fluttuando in questo mare di interpretazioni che rendono impossibile gettare una luce unitaria sulla realtà, si possono trovare vie emancipative, soprattutto partendo dal presupposto che, venendo a mancare un’interpretazione unica, ciò significa che la realtà post-moderna, segnata da un indebolimento dell’essere, non è interpretabile univocamente, ma si fan strada più punti di vista, tutti ugualmente validi. In questo modo, “l’importanza dell’insegnamento filosofico di autori come Nietzsche e Heidegger sta tutta qui, nel fatto che essi ci offrono gli strumenti per capire il senso emancipativo della fine della modernità e della sua idea di storia”. La società postmoderna può dunque essere fatta coincidere con la società dei media, i quali non sono lo strumento diabolico di un’inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera del Grande Fratello di Orwell), ma il presupposto in atto del possibile avvento di un’umanità spaesata capace di vivere in un “mondo di culture plurali” che – poiché non depositarie della “Verità” in nome della quale dichiarar guerra alle altre – possono avvicinarsi e collaborare pacificamente. In altri termini, rifiutando l’equazione adorniana “media = società omologata” e insistendo sul nesso fra i media e l’assetto pluralistico della società “complessa”, Vattimo ha finito per sostenere che grazie al “mondo fantasmagorico” dei media si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti, al punto che la realtà, per i postmoderni, coincide ormai con le “immagini” che tali mezzi distribuiscono. La perdita di centro e l’erosione del principio di realtà (che attuano, sul piano tecnologico, ciò che Nietzsche e Heidegger avevano profetizzato sul piano fìlosofico), implicando la distruzione degli orizzonti chiusi, pongono le premesse sia per un tipo di uomo che non ha più bisogno di recuperare nevroticamente le figure rassicuranti dell’infanzia, sia per quella liberazione delle differenze che è propria del post-moderno. E così, “se con la moltiplicazione delle immagini del mondo perdiamo il ‘senso della realtà’, come si dice, forse non è poi una gran perdita”: mettendo sulla bilancia ciò ch’è perso e ciò ch’è guadagnato, pare proprio che essa penda a favore del guadagnato, poiché è sì vero che ci troviamo di fronte ad un dilagante nichilismo che non è più “alle porte”, ma che è tra noi, ad un’impossibilità di afferrare in maniera decisiva il significato dell’essere, ma da ciò deriva la fine dei “pensieri forti”, convinti di avere in pugno la Verità, pronti ad esser chiusi alle “culture altre” perché prive di tale Verità, nasce un “pensiero debole” che – consapevole dei propri limiti e dell’indebolimento dell’essere – si apre a tali “culture altre”. L’emancipazione che deriva dalla moltiplicazione all’infinito delle immagini del mondo finisce così per coincidere con lo spaesamento babelico in cui ci troviam gettati nel mondo pluralizzato: assistiamo ad un’autentica liberazione delle differenze, il che è particolarmente apprezzabile se prendiamo in esame il caso dei dialetti, ossia delle lingue locali che sfuggono ad ogni determinazione univoca e dettata dall’alto e riportano immagini del mondo ognuna diversa dalle altre. Certo, anche i dialetti sottostanno a regole grammaticali e sintattiche – è evidente -, ma il potenziale liberativo in essi presente riposa sul fatto che possono dar parola a “culture altre”, diverse e plurali, che si fanno araldi di prospettive e di visuali sul mondo.
“Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non è la sola ‘lingua’, ma è appunto un dialetto fra altri. Se professo il mio sistema di valori – religiosi, estetici, politici, etnici – in questo mondo di culture plurali, avrò anche un’acuta coscienza della storicità, contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mio”.
Questo atteggiamento, coincidente con quello nietzscheano del “continuare a sognare sapendo di sognare”, è quello proprio dell’Oltreuomo zarathustriano, che – morto Dio – crea nuovi dei, in un caleidoscopio infinito di immagini del mondo e di valori sempre rinnovantesi. Il potenziale emancipativo che scaturisce dai dialetti è rintracciabile, pur con le dovute differenze, anche nell’esperienza estetica, dove – come nota Dilthey – ci troviamo catapultati a vivere in altri mondi possibili, capendo come, in definitiva, il mondo reale in cui siam chiusi è contingente, relativo, non definitivo. Vivendo l’esperienza estetica, fluttuiamo spaesati tra appartenenza e spaesamento, cogliendo il vero senso della libertà e della pluralità. Scrive Vattimo:
“Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” – minoranze etniche, sessuali religiose, culturali o estetiche- che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti”.
Ma la libertà derivante dall’esplodere della comunicazione generalizzata è dunamiV non enteleceia può passare in atto, ma può anche degenerare nella voce del “Grande Fratello” e della “banalità stereotipata”, del “vuoto di significato”; sta a noi far sì che proceda in una direzione anziché nell’altra, a noi che siamo ancora legati agli orizzonti chiusi e unitari e che non siamo forse ancora pronti ad una cultura “plurale”, a noi che “oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti” (“Filosofia al presente”). In quest’ottica, i nostri punti di riferimento devono essere Nietzsche e Heidegger soprattutto, ma anche pragmatisti come Dewey o Wittgenstein, i quali ci hanno mostrato che “l’essere non coincide necessariamente con ciò che è stabile, fisso, permanente, ma ha da fare piuttosto con l’evento, il consenso, il dialogo, l’interpretazione” e che ci hanno resi “capaci di cogliere questa esperienza di oscillazione del mondo postmoderno come chance di un nuovo modo di essere (forse: finalmente) umani”. Il secondo capitolo dello scritto si intitola “Scienze umane e società della comunicazione”, avente come tesi portante lo stretto rapporto che intercorre fra scienze umane e società della comunicazione: il tratto comune sta nel fatto che sia le scienze tecniche e sperimentali sia le scienze umane “costituiscono il loro oggetto più che non esplorino un ‘reale’ già costituito e ordinato”, il che si inquadra perfettamente con il discorso condotto da Vattimo nel capitolo precedente, in cui si insisteva, appunto, su come nella società postmoderna il mondo “vero” tenda nietzscheanamente a diventare una “favola”, a cedere il passo ai tanti mondi fatti venire a galla dai mass media. Vattimo sostiene che le cosiddette “scienze umane” – dalla sociologia all’antropologia, anche se il termine oscilla nel vago – sono rese possibili, anche se in un rapporto di reciproca determinazione, dal “costituirsi della società moderna come società della comunicazione”: esse sono, al contempo, l’effetto della nascita della società postmoderna e l’elemento che contribuisce al suo incessante sviluppo. Il risultato è che – per dirla con l’Heidegger dei “Sentieri interrotti” – ci muoviamo in un’ “epoca delle immagini del mondo”, ossia in un’epoca in cui, grazie ai supporti tecnici e ai mass media, il mondo si riduce ad immagini, viene svuotato nella sua realtà, non è più consistente come in passato. La tecnica stessa (o, meglio, le tecniche) si esplicitano pertanto soprattutto nel mondo dell’informazione, riducendo il mondo stesso ad immagini, più che nel dominio della natura (secondo quel che invece credeva una tradizione che da Bacone giungeva fino a Marx), cosicchè la società tecnica che oggi impera è essenzialmente la società delle scienze umane, quella che è conosciuta e studiata da esse e che in esse si esprime. Ciò, se non può essere dimostrato, può tuttavia essere avvalorato da esempi: primo fra tutti, la centralità assunta dalle tecnologie informatiche, che – come la mano secondo Aristotele – sono organon twn organwn “strumento degli strumenti”. In secondo luogo, possiamo soffermare la nostra attenzione sulla nozione di “contemporaneità”, con la quale dobbiamo soprattutto intendere “la tendenza alla riduzione della storia sul piano della simultaneità” (la telecronaca diretta, le informazioni via internet in tempo reale, e così via), una tendenza orientata a raggiungere quella che Vattimo chiama “utopia della assoluta autotrasparenza”. Questo atteggiamento programmatico è venuto chiaramente alla luce nell’età illuministica, quando l’uomo ha sentito l’esigenza più che mai di conoscere ogni cosa, riconducendola alla scienza; ma non lo troviamo solo nell’età dei Lumi: ancora Hegel, quando parla di “Spirito assoluto”, o quando i Positivisti parlano di “progresso”, si muovono fermamente lungo questa direttiva; anche Habermas e Apel, se letti attentamente, non sfuggono a questa prospettiva. Se le scienze umane muovessero verso una rigorosa scientificità tale da abolire ogni motivo di parte, ideologico, di interesse, e se la comunicazione ad esse si adeguasse, allora probabilmente la società sarebbe trasparente, come auspicavano gli Illuministi: ma, al contrario, “lo sviluppo intenso delle scienze umane e l’intensificarsi della comunicazione sociale non sembrano produrre un accrescimento della autotrasparenza della società, ma anzi paiono funzionare in senso opposto”; prova ne è l’esplosione di visioni del mondo, di punti di vista diversissimi, che ha colorato lo sviluppo della comunicazione generalizzata, spingendo in direzione di una società meno trasparente e più caotica, sì, ma proprio per questo più propensa da essere un terreno fertile per lo scaturire di un’emancipazione e di una libertà per tutti. Così, se la radio, se la televisione, se internet divulgassero informazioni univoche, appiattite, tutte simili fra loro perché provenienti da un unico punto di vista, la società sarebbe trasparente, ma refrattaria ad ogni forma di emancipazione e di libertà, sarebbe cioè dominata da un gruppo che pretenderebbe di imporre a tutti il proprio punto di vista, fatto passare per “Verità”; così in passato – quando non c’erano i mass media – si sono potute affermare “Verità” quali l’inferiorità della donna e dei neri, l’esser contro natura degli omosessuali, e così via. E il mondo attuale – nota Vattimo – sembra oggi procedere in direzione diametralmente opposta all’autotrasparenza: sembra essersi avviato verso la “fabulazione del mondo”, ossia al fatto che il mondo reale venga sostituito da un caotico pulviscolo di immagini del mondo, tutte diverse tra loro, per cui – nietzscheanamente – il mondo vero diventa favola e ad esistere non sono più i fatti, ma le interpretazioni. Con ciò Vattimo non intende certo abbandonarsi a nostalgici rimpianti idealistici, per cui il mondo reale non esisterebbe, ma sarebbe una mera produzione del soggetto: al contrario, vuol semplicemente mettere in luce come “ciò che chiamiamo la ‘realtà del mondo’ è qualcosa che si costituisce come ‘contesto’ delle molteplici fabulazioni”. Respingendo l’idealismo, Vattimo si discosta anche, in qualche misura, dallo scetticismo e dal relativismo, avvicinandosi invece ad “una disponibilità meno ideologica all’esperienza del mondo, il quale, più che l’oggetto di saperi tendenzialmente (ma sempre solo tendenzialmente) ‘oggettivi’, è il luogo della produzione di sistemi simbolici, che si distinguono dai miti proprio in quanto sono ‘storici’ – e cioè narrazioni che prendono criticamente le distanze, si sanno collocate in sistemi di coordinate, si sanno e si presentano esplicitamente come ‘divenute’, non pretendono mai di essere ‘natura’”. Naturalmente, in questo groviglio inestricabile di “visioni del mondo”, o – per riesumare un’antica espressione leibniziana – di “punti di vista”, le scienze umane non possono fare affidamento sul metodo scientifico, ma devono trovar rifugio in quello ermeneutico, mirante ad una verità reperibile nel dialogo, nel confronto, nella corrispondenza, e non nella fantasmatica corrispondenza ad un presunto stato di cose. E, poiché tale via ermeneutica sa bene che i punti di vista, in quanto tali, sono vessilliferi di porzioni di verità, mai di una Verità data una volta per tutte, ma, ciononostante, guarda al brulicare di tali punti di vista come ad un forte potenziale emancipativo, essa può essere accostata ad un altro concetto nietzscheano (ripreso dallo stesso Ricoeur): quello di “scuola del sospetto”; è vero che non possiamo far strage di ideologie e visioni di parte, sgombrando definitivamente il campo, ma ciò ci permette di capire come la realtà non abbia una sola chiave di lettura, ma, al contrario, si presti a mille, a duemila, a infinite possibili letture, senza che nessuna di esse sia “Vera” e possa arrogarsi il diritto di combattere le altre in nome della propria “Verità”. Ecco perché “il sistema dei media-scienze umane funziona, quando funziona al meglio, come emancipazione solo in quanto ci colloca in un mondo meno unitario, meno certo, dunque anche assai meno rassicurante di quello del mito”. Il capitolo successivo è appunto dedicato al mito, nella convinzione che sia necessario definire in che rapporti si trovi con esso l’uomo postmoderno. E Vattimo nota, in prima analisi, come propriamente non sussista nell’epoca contemporanea una soddisfacente teoria del mito, seppure esso rappresenti uno di quei concetti più ricorrenti: secondo Sorel, il mito era quel complesso di immagini spontanee ed istintive che, a differenza dell’utopia (che è una rappresentazione intellettuale razionalmente esaminabile), ha un effetto pratico dirompente, è l’espressione immediata per immagini della volontà che attende di tradursi in azione. Secondo Lévi-Strauss, invece, il mito è l’espressione dell’attività inconscia dello spirito umano e si struttura come un linguaggio. Proprio muovendo dall’analisi condotta da Lévi-Strauss, Vattimo interpreta il mito come una forma di pensiero anti-scientifico, che non fa ricorso alla dimostrazione e al rigore, ma, piuttosto, alla fantasia, alla narrazione e al coinvolgimento, con minore (se non addirittura nulle) pretese di obiettività. La scienza stessa, nel suo costituirsi, si pone come demitizzazione, ossia come disincanto del mondo: ma ciò significa che il mito viene cronologicamente prima della scienza, poiché quest’ultima nasce appunto come superamento del mito stesso. Su questo punto si trovano d’accordo anche Lévi-Strauss, Cassirer e Weber: ma di fronte a quest’attenzione per il mito non può non destarsi in noi un senso di “disagio” per il fatto che la sua sopravvivenza è legata a filo doppio all’esistenza di una concezione metafisica che oggi pare scomparsa. Come può esistere il mito se manca la metafisica? Da questa insanabile contraddizione risulta evidente come il mito appaia qualcosa di arcaico e inattuale, che non ha cittadinanza nella società attuale e che risulta collocabile solo in un lontano passato dai contorni indefiniti. Proprio sulla nozione di “arcaismo” Vattimo si sofferma diffusamente, spiegando come l’atteggiamento “arcaico” che guarda con sospetto al mondo scientifico possa in qualche misura anche essere detto “apocalittico”: leggendo il mito alla luce della categoria dell’arcaismo, se ne evince che esso non è un qualcosa di ormai superato, ma è anzi una forma di sapere più genuino e autentico rispetto a quello proprio della scienza, e che anzi può permettere un distanziamento dalla scientificità imperante. Non è un caso che la critica della scienza in nome dell’arcaismo e il conseguente recupero del mito e della sua funzione liberatrice stiano alla base della posizione di Nietzsche e di Heidegger, anche se, ad onor del vero, non è possibile far riferimento ad una corrente filosofica dai confini adeguatamente delineati che si proponga di porre al centro il mito: è sì un’alternativa, ma che tende a schizzar via, a non trovare i giusti limiti che la contengano e la regolino, cosicchè non può portare a nulla di certo, e anzi può capovolgersi in un nostalgico e reazionario attaccamento per il passato (sfociando così verso posizioni di estrema “destra”). Accanto all’arcaismo come elemento qualificante il mito, Vattimo prende in esame il relativismo culturale di cui è intrisa la nostra cultura e a cui, in fondo, il “pensiero debole” non riesce completamente a sottrarsi: alla base del relativismo sta la convinzione che “i principi e gli assiomi fondamentali che definiscono la razionalità, i criteri di verità, l’etica e in genere che rendono possibile l’esperienza di una determinata umanità storica, di una cultura, non sono oggetto di sapere razionale, di dimostrazione, giacchè da essi dipende ogni possibilità di dimostrare alcunchè”. Di questo tipo sono, ad esempio, la teoria dei paradigmi nella formulazione di Thomas Kuhn o l’ermeneutica che si richiama a Heidegger. La connessione tra il mito e il relativismo risiede nel fatto che quest’ultimo tende a considerare tutti i princìpi primi – generalmente riconosciuti come razionali – come mitici, ossia oggetto di un sapere sotto forma di mito, esulante dai dettami della ragione. La stessa razionalità scientifica, in definitiva, finisce per assumere la veste del mito. Infine, ancora altra cosa rispetto all’arcaismo e al relativismo è quello che Vattimo definisce come “irrazionalismo temperato” (o anche “razionalità limitata”): secondo la prospettiva dell’irrazionalismo limitato, il mito non si distingue dal sapere scientifico perché ormai sorpassato (“arcaismo”) o perché fa del sapere scientifico stesso un mito (“relativismo”), ma piuttosto perché intende come peculiarità del mito il suo carattere narrativo, del tutto assente nel procedere della scienza. Questa prerogativa – peraltro già perfettamente individuata a suo tempo da Platone – fa sì che al procedere argomentativo e serrato, per dimostrazioni e formule, della scienza si opponga il periodare fluente e narrante del mito, che – nota Vattimo – investe soprattutto tre ambiti del sapere: la psicoanalisi, la storiografia e la sociologia dei mass media. Ciò non toglie che, nella loro specificità, queste tre forme di intendere il mito (arcaismo, relativismo, irrazionalismo temperato) condividano un importantissimo aspetto: nascono dalla dissoluzione delle filosofie metafisiche della storia e, al contempo, non riescono a porre rimedio a tale dissoluzione, configurandosi in tal modo inadeguati e, spesso, contraddittori. Se il pensiero metafisico, che Vattimo altrove designa anche come “pensiero forte”, proponeva come rimedio a tutto ciò una concezione della storia come Aufklärung e emancipazione della ragione, ora questo è divenuto assolutamente impossibile nel momento stesso in cui si è verificata quell’esplosione – provocata dai mass media e su cui ci siamo ampiamente soffermati in precedenza – in virtù della quale hanno preso la parola una miriade di gruppi da sempre ritenuti marginali e, perciò, tacitati, cosicchè ora la storia ha cessato di configurarsi come un corso unitario mirante ad un teloV e si è invece trasformata in un caotico, babelico e spaesante guazzabuglio di immagini portate alla luce da ciascun gruppo. Se prima d’oggi essa era come uno specchio nella sua unitarietà, ora tale specchio è caduto, si è spezzato in un’infinita molteplicità di frantumi che rispecchiano realtà diverse e contrastanti: il progetto portante dell’Illuminismo, del Positivismo e dello stesso Idealismo si è dunque arenato, poiché “la realizzazione dell’universalità della storia ha reso impossibile la storia universale” e la “demitizzazione è stata riconosciuta essa stessa come un mito”. Da ciò deriva una nuova, inquietante domanda: mostrata la miticità della demitizzazione, sono legittimati i tre atteggiamenti – poc’anzi tratteggiati – verso il mito? Dopo aver compreso che l’idea di sbarazzarsi dei miti era essa stessa mitologica, siamo autorizzati a riprendere il mito come prima? Vattimo risponde – quasi giocando la carta dell’Aufhebung hegeliano – che “una volta svelata la demitizzazione come un mito, il nostro rapporto con il mito non ritorna ingenuo, ma rimane segnato da questa esperienza”: ritorniamo al mito come colui che sogna sapendo di sognare, e tale atteggiamento può essere etichettato come “secolarizzazione”. Sul versante religioso, questo si esprime come scoperta degli errori e delle mistificazioni della religione ma, al contempo, come sopravvivenza di tali errori: si è scoperta la loro natura di erramenti, ma non si ha il coraggio di lasciarli alle spalle, quasi come se il progresso rimanesse magicamente vincolato ad essi da un rapporto di nostalgia. Allo stesso modo, – leggendo Max Weber – il capitalismo non è abbandono, ma trasformazione del cristianesimo. Da ciò deriva che “quando anche la demitizzazione è svelata come mito, il mito ricupera legittimità, ma solo nel quadro di una generale esperienza ‘indebolita’ della verità”: nell’eredità del pensiero debole, dunque, accanto al precetto cristiano della non-violenza, c’è anche posto per il mito, il quale però ha carattere indebolito perché passato sotto il giogo della demitizzazione demolitrice, la quale, a sua volta, si è rivelata come mera mitologia. Proprio in ciò, nella demitizzazione della demitizzazione, – oltrechè, naturalmente, nella fine dell’unitarietà della storia – si può leggere il passaggio dal moderno al postmoderno: un passaggio inaugurato da Nietzsche che porta alla conclusione che la verità cessa di essere un fundamentum absolutum et inconcussum, per cui l’uomo moderno che ispeziona il proprio animo non rinviene la certezza irremovibile del cogito cartesiano, ma, piuttosto, “le intermittenze del cuore proustiane, i racconti dei media, le mitologie evidenziate dalla psicoanalisi”. Nell’età post-moderna, dunque, il mito torna a fiorire, ma profondamente mutato nella sua essenza: non è più un qualcosa fortemente contrapposto alla razionalizzazione, ma quasi un superamento tra la scissione apertasi tra razionalismo e irrazionalismo, una sorta di punto di sutura tra i due tale da riaprire “il problema di una rinnovata considerazione filosofica della storia”. Continuando il nostro percorso tra i sentieri de “La società trasparente”, ci troviamo improvvisamente di fronte al problema estetico, cui Vattimo più volte aveva alluso (pensiamo a quando, riprendendo Dilthey, scorgeva nelle opere d’arte possibili “mondi altri”): tratto che accomuna il moderno al postmoderno è appunto l’esperienza estetica come annunciatrice dei “tratti salienti dell’esistenza” (il “senso dell’essere” heideggeriano). A tal proposito, Vattimo prende in esame lo scritto di Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936), mostrando come – al di là dei clamorosi fraintendimenti a cui è stato soggetto – esso ci abbia aperto gli occhi, mettendo in chiaro la sostanziale modificazione a cui è andata in contro l’arte nel suo incontrarsi coi mass media e, più in generale, con la società di massa. Un tempo, l’opera d’arte era avviluppata da un’“aura”, ovvero da un alone di unicità, originalità, irripetibilità e sacralità che è stato spazzato via dall’avvento dei mass media: questi, infatti, introducendo la “riproducibilità tecnica” (pensiamo al grammofono, alla TV, alla radio), hanno fatto sì che l’opera d’arte cessasse di essere un unicum, un qualcosa di irripetibilmente sacro, facendo di essa un “sempre uguale” , un qualcosa di fruibile in ogni istante e in ogni luogo. Questa grande intuizione benjaminiana – alla quale Adorno, Horkheimer e l’intera “Scuola di Francoforte” non ha aggiunto nulla di veramente innovativo – deve essere sviluppata in maniera tale da fornire un’interpretazione dell’arte nell’età postmoderna: ed è quel che Vattimo si propone di fare, imboccando una strada radicalmente nuova, improntata sul confronto tra il saggio di Benjamin e quello – coevo – di Heidegger su “L’origine dell’opera d’arte” (in “Sentieri interrotti”). In quest’opera, Heidegger respinge l’eventualità che l’opera d’arte possa essere mera mimesiV e avvia la propria indagine muovendo dalla constatazione che, in primo luogo, l’opera d’arte è una cosa, arrivando poi – e qui sta la grandezza del genio heideggeriano – a ribaltare la prospettiva, ossia non più a leggere le opere d’arte a partire dalle cose, ma, viceversa, le cose a partire dalle opere d’arte. E’ infatti nel quadro di Van Gogh in cui vengono rappresentate le scarpe contadine che ci è dato capire realmente che cosa siano le scarpe, giacchè lì la loro “strumentalità” è sospesa in favore della loro “cosalità”. Da ciò deriva che la prerogativa essenziale dell’opera d’arte risiede nel suo “mettere in opera” la verità, o – come asserisce Heidegger stesso – nel suo aprire un Mondo sul ritirarsi della Terra. Così intesa, l’opera d’arte secondo Heidegger non può che provocare sul suo osservatore un “urto” (“Stoss” in tedesco): il che è particolarmente curioso, poiché Benjamin stesso – che ha in mente soprattutto il cinema – parla di “Shock” come caratteristica fondamentale dell’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica: questa “poetica” dello shock era stata anticipata dai Dadaisti, i quali concepivano l’arte come un proiettile sparato verso il pubblico, un proiettile che colpiva al cuore le convinzioni, le abitudini, i modi di vedere comuni. Chi, comodamente seduto su una poltrona al cinema, guarda una rappresentazione è secondo Benjamin come un pedone che, immerso nel traffico travolgente della città, deve districarsi tra le vetture senza farsi investire, salvando in tal modo la propria vita; in modo incredibilmente vicino, anche in Heidegger l’esperienza dell’arte è ai confini con la morte, in bilico tra vita e trapasso, non già nel senso benjaminiano del pedone che deve muoversi nel traffico, quanto piuttosto nell’accezione – squisitamente heideggeriana – della morte come possibilità costitutiva dell’esistenza. A provocare lo Stoss è, nella prospettiva heideggeriana, il fatto stesso che l’opera d’arte ci sia anziché non esserci: e – come ricorderà il lettore di “Essere e Tempo” – l’esserci sta alla base dell’angoscia, di quello stato emotivo che rende autentica l’esistenza dell’uomo gettato nel mondo. Certo, se soffermiamo la nostra attenzione sui singoli enti del mondo, cogliamo quella rete di infiniti rimandi intenzionali (da Husserl riconosciuta solo a livello coscienziale) che tra essi intercorrono e che ad essi conferiscono un senso: ma se guardiamo al mondo nel suo insieme? Non possiamo non provare un senso di vertigine nell’accorgerci che esso non rimanda a null’altro e che è assolutamente privo di senso, angosciante. La stessa opera d’arte, sotto questo profilo, trae origine non tanto come ente tra gli altri, correlazionato da una fitta rete di rimandi, quanto piuttosto come aprirsi di un nuovo mondo a se stante, come “messa in opera della verità”, ed è per questo che sortisce su di noi un effetto urtante, di Stoss. L’urto a cui allude Benjamin è qualcosa di più semplice e immediato, è la rapida successione delle scene di un film che ci scuote, che ci impone di stare attenti, come il pedone nel traffico urbano. Ma, al di là di queste differenze, c’è davvero un’analogia tra l’arte secondo Heidegger e l’arte secondo Benjamin? E le loro concezioni offrono qualche connessione con la società dei mass media in cui si trova l’uomo postmoderno? A questi interrogativi martellanti Vattimo dà un’unica risposta, che risolve le due questioni e, al contempo, le salda tra loro: sia in Heidegger sia in Benjamin è fortemente presente l’idea dello spaesamento – tipica della babelica società postmoderna – suscitato dall’incontro con l’opera d’arte, una sorta di estraniamento urtante che per entrambi i pensatori non va superato tentando una ricomposizione, ma, viceversa, va mantenuto in vita. Ricomporlo – nel caso di Benjamin – sarebbe possibile solo a patto di bloccare le immagini del film: ma ciò sarebbe del tutto assurdo, poiché il film cesserebbe di essere tale, si tramuterebbe in una foto. Nel caso di Heidegger, poi, ricomporre lo spaesamento equivarrebbe a fare dell’opera d’arte un ente fra i tanti, riconducendola ad una mera “cosa”, quando Heidegger stesso ha spiegato che l’opera d’arte è qualcosa di più di una cosa (altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, perché si fanno le esposizioni con le patate o con le melanzane anziché con i quadri). In rottura con l’intera tradizione occidentale – dalla kaqarsiV aristotelica al kantiano libero gioco delle facoltà, fino alla hegeliana perfetta corrispondenza di interno ed esterno – che aveva sempre concepito l’arte come momento conciliante di sicurezza e di “riappaesamento”, Heidegger e Benjamin hanno ravvisato nello “spaesamento” il suo tratto costitutivo. Ma se Benjamin è alquanto fiducioso nei confronti della tecnica e della sua riproducibilità, consapevole di come in essa si annidi un potenziale rivoluzionario, poiché apre alle masse – soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia – l’accesso all’arte e alle sue capacità di contestazione dell’ordine esistente, Heidegger ne è invece un severo critico, muovendo dall’amara constatazione di arte e tecnica, un tempo coincidenti (nella tecnh dei Greci era compresente sia il significato di “arte” sia quello di “tecnica”, per cui il tempio era frutto tanto di perizia tecnica quanto di estro artistico), sia destinate ad allontanarsi sempre più, fino a che la tecnica non schiaccerà l’arte. Vattimo però nota come sia troppo riduttivo liquidare il problema del rapporto di Heidegger con la tecnica limitandosi ad etichettare il pensatore tedesco come suo nemico: ed è per questo motivo ch’egli si propone di approfondire il discorso (addentrandosi nello scritto heideggeriano “Identità e differenza”), scavando in profondità per scoprire se – dietro alla concezione della tecnica come Ge-Stell – non si celi qualcos’altro. Ciò che affiora da questa indagine è che “la chance di oltrepassare la metafisica che offre il Ge-Stell è legata al fatto che, in esso, ‘uomo ed essere perdono le determinazioni che la metafisica ha loro attribuito’ (Identità e differenza): la natura non è più solo il luogo delle leggi necessarie delle ‘scienze positive’, mentre il mondo umano – anch’esso duramente sottoposto alle tecniche di manipolazione – non è più il complementare e simmetricamente opposto regno della libertà, campo delle ‘scienze dello spirito’. In questo rimescolio di carte, il teatro della metafisica con i suoi ruoli definitivi tramonta, e per questo può darsi una chance di nuovo avvento dell’essere”. I mass media, dal canto loro, sembrano distruggere l’arte, facendo di essa un evento superficiale e precario, ma mantengono quell’effetto di “urto” riconosciuto da Heidegger e da Benjamin, quella “mobilità e ipersensibilità dei nervi e dell’intelligenza, caratteristica dell’uomo metropolitano” (a cui Heidegger e Benjamin guardano, probabilmente, attraverso la mediazione di Simmel), un urto che si esercita anche come spaesante oscillazione tra angoscia e morte. Senza per questo voler riabilitare la società di massa e l’appiattimento da essa generato, Vattimo mette in luce come l’arte prodotta dai mass media possa sì sfociare nel perverso meccanismo di una “fabbrica della cultura” massificata, ma possa anche deviare verso nuovi orizzonti emancipativi: “l’avvento dei media, infatti, comporta anche una accentuata mobilità e superficialità dell’esperienza, che contrasta con le tendenze alla generalizzazione del dominio, in quanto dà luogo a una specie di ‘indebolimento’ della nozione stessa di realtà, con il conseguente indebolimento anche di tutta la sua cogenza”. In questo senso, l’arte dell’età dei mass media, con il suo effetto decisamente urtante e spaesante, capace di gettare confusione e ambiguità anziché ordine e trasparenza, “può configurarsi (non: ancora, ma forse: finalmente) come creatività e libertà”. Con questa constatazione si chiude il capitolo: quello successivo, intitolato “Dall’utopia all’eterotopia”, si apre con la dichiarazione che il rapporto tra arte e vita si prospetta oggi non più come utopia (come era negli anni del ’68), ma come eterotopia. A proposito di utopia in senso estetico, Vattimo fa una ricca carrellata di pensatori in qualche modo utopisti, fra i quali troviamo Marx, Dewey, Lukàcs, Adorno, Marcuse, Bloch: molti di essi (si pensi a Lukàcs, a Marcuse e ad Adorno soprattutto) essi l’hanno intesa come un riscatto dell’individuo attraverso l’arte, come un riappropriamento dell’essenza dell’uomo. In questa sua accezione, pertanto, l’utopia dev’essere intesa come congiungimento del significato estetico con quello esistenziale, come – per usare le parole di Vattimo – “una unificazione complessiva di significato estetico e significato esistenziale”, dagli esiti tendenzialmente rivoluzionari, il che è stato vero fino al ’68. Dopo tale data, l’utopia ha subito una metamorfosi radicale che le ha fatto perdere le sue caratteristiche portanti: in particolare, con Habermas e il suo costante appellarsi a Kant, pare che si sia decisamente invertita rotta, poiché l’estetico e l’esistenziale sono tornati a correre su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai. Ed è in questo senso che “Habermas esprime […] la caduta dell’utopia e il ritorno a una tranquilla accettazione della separazione dell’estetico”: il suo ritorno a Kant, poi, mette in luce una certa tendenza – non solo habermasiana – emersa dopo il ’68, una tendenza (dettata anche dal secco rifiuto del postmoderno da parte di Habermas) al distacco, alla sordità e alla cecità nei riguardi dei processi di massificazione in continuo sviluppo. L’atteggiamento di cui si fa portavoce il pensatore tedesco di ispirazione kantiana, ma che in realtà finisce per coinvolgere una nutrita schiera di pensatori, può essere definito come un volere a tutti i costi essere ciechi e sordi, un non volersi accorgere che “l’utopia estetica degli anni sessanta, in qualche modo, si sta […] realizzando, in forma distorta e trasformata, sotto i nostri occhi”. Certo, non si tratta più di un’utopia promotrice di rivoluzioni (quale invece era nel ’68), poiché pare essersi adagiata su una sorta di ordine che in passato non c’era, ma, piuttosto, di un qualcosa capace di “fare mondo” e di creare comunità. In tale prospettiva, l’interpretazione più calzante ed adeguata sarà allora quella formulata da Gadamer, che intende l’esperienza del bello come un riconoscersi in una comunità di fruitori dello stesso tipo di oggetti ‘belli’: essa, infatti, si inquadra perfettamente sullo sfondo della società di massa, nella sua esasperata ricerca dell’ “essere alla moda”, del vestire come gli altri, del trovare bello ciò che anche gli altri trovano tale, insomma: del bello come esperienza comunitaria. Sarà allora corretto affermare che, crollata l’idea di una storia come processo unitario, con essa è anche franata la possibilità di un’utopia come sistema unico in cui arte ed esistenza si intrecciano in maniera armonica: da questo cedimento, fioriscono una molteplicità di comunità, ciascuna delle quali riconosce un proprio bello, propri miti e propri modelli, tutti diversi – ma non perciò meno ‘veri’ – da quelli riconosciuti dalle altre. In ciò si realizza la continua oscillazione spaesante e babelica nella molteplicità, tipica dell’età postmoderna: non più il bello come esperienza totalizzante propria dell’intera umanità (come era per Kant), ma tante forme di bello promosse da altrettante comunità, poiché quello che chiamiamo ‘mondo’ è in realtà una indefinita serie di mondi e di culture, così come quella che siamo abituati a chiamare ‘storia’ altro non è se non l’insieme plurale di storie. “Il mondo non è uno, ma molti; ciò che chiamiamo il mondo è forse solo l’ambito ‘residuale’, e l’orizzonte regolativo (ma con quali problemi) in cui si articolano i mondi”: da ciò deriva che, più che di un’utopia, si dovrà parlare di un’eterotopia, ossia di un insieme di mondi eteroi, “altri” e differenti gli uni dagli altri, poiché “viviamo l’esperienza del bello come riconoscimento di modelli che fanno mondo e che fanno comunità solo nel momento in cui questi mondi e queste comunità si danno esplicitamente come molteplici”. Prova ne è la “mobilità” delle mode, il collezionismo di oggetti di mondi e di culture “altri”: ed è per questo che l’errore forse più grave che una comunità possa commettere è avanzare l’assurda pretesa di identificare la propria esperienza, i propri modelli di comunità con quelli dell’umanità intera, scivolando in tal modo nel dogmatismo del “pensiero forte”. Viceversa, secondo gli insegnamenti di Dilthey e di Heidegger, l’opera d’arte apre mondi diversi e possibili, che non sono solo “immaginari” ma che costituiscono l’essere stesso in quanto sono suoi accadimenti implicanti il passaggio dall’utopia all’eterotopia e, accanto a ciò e non senza connessioni, la liberazione dell’ornamento e l’alleggerimento dell’essere. Per “liberazione dell’ornamento” dobbiamo intendere la fine della pretesa dell’arte di essere verità, e, meglio, espressione di una verità metafisicamente intesa che trova spazio sensibile nei versi del poeta, nella tela del pittore o nella sinfonia del musicista: al contrario, l’arte e il bello – lungi dall’essere araldi della verità – sono ornamento, nel senso che aprono rimandi ad altri possibili mondi di vita che, nella fitta rete di collegamenti reciproci, compongono e costituiscono il cosiddetto “mondo reale”, cosicchè si dovrà definire “Kitsch” non ciò che manca di uno stile o di una sua coerenza, ma ciò che avanza la vana pretesa di essere – orazianamente – “monumentum aere perennius”. Ciò è in perfetta sintonia con quanto ci ha insegnato Heidegger, il quale ci ha messi in guardia smascherando ogni posizione che identificasse tout court – in maniera metafisica – l’essere con i singoli oggetti, facendo dell’essere non “ciò che è”, ma “ciò che accade”: in questo modo, è delegittimata ogni nostalgia per l’arte classica e i suoi canoni, l’essere si trova in una situazione di indebolimento e, di conseguenza, dà adito ad una miriade di esperienze estetiche diversificate. Il capitolo che chiude il saggio vattimiano è intitolato “I limiti della derealizzazione”, in apertura del quale il filosofo torinese constata come oramai stiamo vivendo una nuova fase, segnata da grandi innovazioni nel campo dei mass media tali da far appannare l’ottimismo mediatico, ossia l’atteggiamento sinceramente simpatizzante verso il mondo della comunicazione generalizzata: una prima forma di pessimismo, che ha decisamente fatto scricchiolare la fiducia nel mondo mediatico, è affiorato con la Scuola di Francoforte e con le sue apocalittiche concezioni dei mass media come strumenti di appiattimento della società e soggiogamento ad un potere. Ciò è anche dovuto al fatto che molti pensatori, ancora legati all’hegelismo (si pensi al marxismo di matrice hegeliana di cui sono imbevuti Marcuse e Adorno), intendono l’emancipazione derivante dalla Bildung come raggiungimento di un’autotrasparenza tale da far sì che il soggetto colga nitidamente, senza interferenze, l’oggetto: ora, i mass media, con il loro produrre un caos labirintico in cui è possibile districarsi, sembrano andare in direzione opposta e non possono che essere condannati da chi ancora si rifà ad Hegel. Così Adorno guardava con inquietudine alla propaganda nazista attraverso i mass media (soprattutto attraverso la radio), e il “Grande Fratello” di Orwell è l’estrema conseguenza di questo atteggiamento demolitore nei confronti dei media. Eppure – nota Vattimo – con l’avvento dell’elettronica si è avuto un rovescio della medaglia, poiché al modello unilaterale della radio e della TV degli anni dei totalitarismi, in cui esse erano strumenti meramente univoci, grazie ai quali i grandi dittatori entravano nelle case della gente, è andato sostituendosi un modello a rete, che ha smarrito ogni centro: così non più una sola radio o una sola TV, ma una molteplicità indefinita di radio e Tv anche locali, in grado di trasmettere un’infinità di diverse immagini del mondo. La stessa rete internet si configura come una ragnatela che ha sì i suoi gangli vitali, ma che è assolutamente priva di un centro risalendo al quale sia possibile governare il tutto. Sullo sfondo del clima pessimistico che aleggia in certi ambienti filosofici, si staglia all’orizzonte un nuovo ottimismo, poggiante sulla pluralità mediatica e provato dal recente trionfo dell’ermeneutica sulle altre branche della filosofia: l’ermeneutica è assurta a nuova koinh a nuovo linguaggio comune in territorio filosofico, e l’ermeneutica è sovrana solo laddove abbondano le interpretazioni, laddove non vi è una Verità data, una sorta di stella polare a cui fare costante riferimento; trionfa anzi l’opposizione a tutto ciò che si propone come ritorno all’uno, al singolo, a negazione del plurale ed è forse seguendo queste orme che Derrida punta tutto sulla decostruzione e sulla dispersione come abbandono di ogni privilegio del ‘proprio’. Ma Vattimo nota come l’ermeneutica, se davvero intende fare del dialogo non un puro e semplice strumento, ma l’obiettivo ultimo, deve portare fino in fondo la “deriva ‘derealizzante’ intravista da Nietzsche”, l’illuminazione del filosofo tedesco secondo cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Ma cosa significa, in definitiva, “derealizzazione”? Con tale termine Vattimo ci invita a prendere atto di come “il mondo sia un ‘gioco di interpretazioni’ e niente di più e, in virtù di ciò, come l’ermeneutica sia la forma filosofica più adeguata alla temperie culturale in cui ci muoviamo, una forma di filosofia la cui condicio sine qua non è appunto l’esistenza del mondo mediatico come fabbricatore di punti di vista sul mondo e di sue interpretazioni. La prospettiva venata di pessimismo – propria di Adorno e di parte della Scuola di Francoforte – è pertanto superata in favore di un nuovo, positivo atteggiamento che – sulla scia di Marcuse e, soprattutto, di Nietzsche vede la tecnologia come strumento di dominio non sull’uomo, ma dell’uomo: “oggi l’umanità deve innalzarsi al livello delle sue possibilità tecnologiche, immaginare un ideale di uomo che tenga conto e utilizzi fino in fondo queste possibilità”. La stessa tecnh – nota Vattimo – si spinge sempre più verso una deriva estetica, abbandonando la sua originaria terra di mera soddisfazione di bisogni e assolvendo una nuova, fondamentale mansione di marca estetica: la tecnica serve sempre più a produrre oggetti volti al soddisfacimento di piaceri e di miglioramento del benessere, dando un’impronta maggiormente estetizzante alla vita di ciascuno di noi. Non bisogna dunque piangere la derealizzazione come un lutto, ma, viceversa, vedere l’incredibile potenziale emancipativo in essa racchiuso.
CARTESIO: LE PASSIONI DELL’ANIMA
CARTESIO, “LE PASSIONI DELL’ANIMA”. A CURA DI SALVATORE OBINU. BOMPIANI, 2003
Ultimo dei trattati cartesiani, Le passioni dell’anima vede la luce nel 1649, pochi mesi prima dell’improvvisa scomparsa dell’autore.In origine doveva avere solo destinazione privata, a benefìcio della principessa Elisabetta di Boemia, afflitta da numerosi problemi di salute che Cartesio considerava conseguenze di affezioni dell’anima. Precisando puntigliosamente di voler parlare “in quanto fisico”, l’autore trasfigura una materia d’occasione per includerla nel suo piano di ricerca, che mette insieme la visione di una nuova scienza dell’uomo e le prime, rivoluzionarie prove della neurobiologia. Importanti opere filosofiche e scientifiche contemporanee fanno riferimento, anche in modo critico, a questo trattato cartesiano; studiosi come Edelman, LeDoux, Minsky, Gardner, Damasio, Tononi, solo per citarne alcuni, vi si sono ampiamente confrontati nel corso degli ultimi vent’anni. Le note al testo esplicitano i numerosi riferimenti al complesso dell’opera cartesiana, mentre un’ampia bibliografìa, generale e specifica sui tema degli “affetti”, offre un utile strumento per ulteriori approfondimenti. TI testo francese a fronte riproduce fedelmente quello dell’edizione critica di riferimento (Ch..Adam -P.Tannery, CEuvres de Descartes, voi. XI) con le correzioni apportatevi da G. Rodis-Lewis nella sua edizione del Traile (Paris, Vrin 1955, 19702). L’edizione è stata curata da Salvatore Obinu, che con una équipe del “Centro Tnterdipartimentale di studi su Descartes e il Seicento” della Università di Lecce è attualmente impegnato nella prima traduzione italiana integrale delia Corre spandane e di Cartesio. L’edizione è stata eccellentemente curata da Salvatore Obinu, grande esperto del pensiero cartesiano e del pensiero francese.
Trattato che vede la luce nel 1649, pochi mesi prima della scomparsa dell’autore. In origine doveva avere solo una destinazione privata, a beneficio della principessa Elisabetta di Boemia, afflitta da numerosi problemi di salute che Cartesio considerava conseguenze di affezioni dell’anima. Precisando puntigliosamente di voler parlare “in quanto fisico”, l’autore trasfigura una materia d’occasione per includerla nel suo piano di ricerca che assomma la visione di una nuova scienza dell’uomo e le prime, rivoluzionarie prove della psicobiologia. Importanti opere filosofiche a noi contemporanee fanno ripetutamente riferimento a Cartesio; citiamo, per esempio, autori quali Edelman, Penrose, Minsky, Gardner.
PORFIRIO: ISAGOGE
PORFIRIO, “ISAGOGE”. A CURA DI GIUSEPPE GIRGENTI. BOMPIANI, 2004
L'”Isagoge” è una breve introduzione alle “Categorie” di Aristotele, in cui Porfirio (233-305 ca.) – il ben noto discepolo di Plotino e grande commentatore degli scritti di Platone e di Aristotele – scrivendo a un suo allievo, codifica la dottrina dei cinque predicabili (genere, specie, differenza, proprio e accidente), costruendo una struttura logica gerarchica (che è nota come “Albero di Porfirio”) e ponendo il problema degli universali: i generi e le specie hanno un’esistenza reale o solo mentale? L’opera è stata in seguito assimilata a una presente nell'”Organon” di Aristotele, come introduzione generale allo studio della logica, e, nella versione latina di Boezio, è diventata un punto assolutamente irrinunciabile per molti commentatori medioevali: dallo stesso Boezio sino a Pietro Abelardo, Tommaso d’Aquino e Guglielmo di Ockham. Quest’edizione è stata curata da Giuseppe Girgenti, che ha già pubblicato importanti opere su Porfirio. L’introduzione mette in luce la caratteristica operazione porfiriana che consiste nella conciliazione delle filosofie di Platone e di Aristotele rilevando che la mediazione è il paradigma di ogni ‘pensiero forte’. Le note al testo sono brevi ed essenziali e rispondono all’esigenza di chiarire i passi più controversi e difficili. La bibliografia è particolarmente aggiornata, ricchi risultano gli apparati che rendono lo strumento completo per la comprensione di questo irrinunciabile scritto nella storia del pensiero occidentale. L’opera viene presentata non soltanto con il testo originale greco a fronte nell’edizione di A. Busse, ma anche con la versione latina, in appendice, di Severino Boezio nell’edizione di L. Minio-Paluello. L’edizione è stata eccellentemente curata da Giuseppe Girgenti, massimo conoscitore del pensiero porfiriano e grande esperto del Neoplatonismo.
ENRICO DONAGGIO, LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
ENRICO DONAGGIO, “LA SCUOLA DI FRANCOFORTE. LA STORIA E I TESTI”. EINAUDI, TORINO 2005
Dalla quarta di copertina dell’opera:
Enrico Donaggio: “La Scuola di Francoforte. La storia e i testi”. Einaudi, Torino 2005.
I testi raccolti in questo volume consentono di accostarsi per la prima volta o di tornare a rileggere gli autori della Scuola di Francoforte. Dalla politica alla sociologia e alla psicoanalisi, dall’economia, all’arte e alla cultura di massa, questo gruppo di intellettuali attraversò i momenti che segnarono il pensiero e la storia del Novecento. In un intreccio di speranza e pessimismo, rigore e passione, la loro critica della società lancia un messaggio in bottiglia a un destinatario che un giorno forse lo raccoglierà.
Sommario: Introduzione di Enrico Donaggio. – Parte prima: La teoria critica della società. – Max Horkheimer, L’Istituto per la ricerca sociale e la sua rivista; Max Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica; Herbert Marcuse, Filosofia e teoria critica; Erich Fromm, Masochismo e autorità; Theodor W. Adorno, Il carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto; Friedrich Pollock, Capitalismo di stato. – Parte seconda: Modernità e terrore. – Max Horkheimer, Il concetto di ragione; Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo; Theodor W. Adorno, L’industria culturale; Leo Löwenthal, Individuo e terrore; Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, La personalità totalitaria; Theodor W. Adorno, Educazione dopo Auschwitz. – Parte terza: Messaggi nella bottiglia. – Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Aforismi sulla vita offesa; Herbert Marcuse, Progresso e felicità; Theodor W. Adorno, Società; Herbert Marcuse, La tolleranza repressiva; Theodor W. Adorno, La promessa e l’enigma; Max Horkheimer, La teoria critica ieri e oggi. – Fonti. – Bibliografia ragionata. – Indice dei nomi.
MICHEL DE MONTAIGNE: APOLOGIA DI RAYMOND SEBOND
Quand je me joue à ma chatte, qui sait si elle passe son temps de moi plus que je ne fais d’elle?
Composta sotto la protezione di Margherita di Valois, dama tra le più colte, ambigue e stravaganti del Rinascimento francese, questa “Apologia di Raymond Sebond” costituisce il capitolo più organico e ampio dei “Saggi” di Montaigne. Col pretesto di difendere la “Teologia naturale” del tolosano Raymond Sebond dalle numerose accuse che le erano state rivolte, Montaigne concepisce un disegno apologetico della fede cristiana largamente estraneo agli schemi tradizionali e dal quale traspare il ritratto culturale della propria epoca in cui nuove cosmologie, nuovi continenti, nuovi popoli, nuove confessioni religiose, nuove immagini di uomo e di ragione umana irrompono sulla scena storica.
Quest’opera (che rappresenta la mia prima pubblicazione), apparsa con la casa editrice Bompiani nel maggio 2004, è il frutto del lavoro a quattro mani svolto da me e dal mio carissimo amico Salvatore Obinu (a cui rinnovo ancora una volta i ringraziamenti per avermi concesso l’onore di lavorare con lui): io mi sono occupato del lungo saggio introduttivo, Salvatore della traduzione e dei ricchissimi apparati di note. Ciò che ho cercato di mettere in luce nel saggio introduttivo può essere così sintetizzato: la modernità, hegelianamente intesa come conversione dai cieli della metafisica e della religione alla terra e alla mondanità, trova in Montaigne la propria massima espressione. Avverso ad ogni forma di dogmatismo, di fanatismo e di pretesa onnicomprensività della ragione, egli opta per un “pensiero debole” e rinunciatario di ogni certezza definitiva, ma, proprio in forza di ciò, aperto alla tolleranza, alle culture “altre”, al dialogo in tutte le sue possibili declinazioni e perfino alla ragionevolezza della fede, anch’essa però intesa in maniera “debole” (tale cioè da non poter mai portare a quelle guerre di religione che, all’epoca di Montaigne, erano all’ordine del giorno).
Non bisogna che mi dicano ‘è vero perché lo vedete e sentite così’; bisogna che mi dicano se quello che penso di sentire, lo sento tuttavia in realtà; e, se lo sento, che mi dicano poi perché lo sento, e come, e che cosa; che mi dicano il nome, l’origine, e gli annessi e connessi del caldo, del freddo, le qualità di colui che agisce e di colui che subisce; oppure rinuncino alla loro professione, che è di non accogliere né approvare alcunchè se non per mezzo della ragione; è la loro pietra di paragone per ogni sorta di prove: in realtà, è una pietra piena di falsità, di errore, di debolezza e deficienze. (Apologia di Raymond Sebond)
KARL MARX: DIFFERENZA TRA LE FILOSOFIE
DELLA NATURA DI DEMOCRITO E DI EPICURO
Resta tuttavia uno strano, irrisolvibile enigma: due filosofi insegnano la stessa dottrina, nello stesso modo, ma – che contraddittorietà! – essi sono agli antipodi l’uno rispetto all’altro in tutto ciò che rispecchia verità, certezza, applicazione di questa scienza e, in generale, rapporto tra pensiero e realtà.
NOTE DI COPERTINA:
La Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro è la tesi di laurea in filosofia di Karl Marx, conseguita il 15 aprile 1841 a Jena. Il giovane Marx si muove ancora nell’alveo della sinistra hegeliana, ma già sono presenti, in nuce, gli elementi della svolta che lo farà approdare sui lidi del materialismo storico. Epicuro è presentato da Marx come “il più grande illuminista greco”, come colui che portò fino in fondo la critica della religione a favore dell’autocoscienza umana; in questo Marx rompe con la condanna hegeliana di Epicuro, che poggiava su una lunga tradizione risalente a Cicerone e a Plutarco. Dall’attenta analisi delle due forme di atomismo antico, Marx evince la superiorità di Epicuro, per l’attenzione che egli presta al reale, liquidato da Democrito come mera apparenza fenomenica. Marx – ancora completamente assorbito dall’indagine storico-filosofica -interpreta significativamente la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele, domandandosi implicitamente se sia possibile un nuovo avvio filosofico dopo il compimento della filosofia nelle grandi sintesi sistematiche. La risposta che egli propone è esemplare e sintomatica di quello che sarà lo sviluppo del suo pensiero: proprio in questi momenti post-sistematici diventa possibile la ripresa di contatto della filosofia con la realtà, quella sua realizzazione nel mondo esterno che costituirà il cuore della riflessione marxiana. In quest’ottica, la Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro non è che l’inizio di un più ampio studio sull’età ellenistica (in realtà mai portato a termine), al quale Marx stesso rinvia nelle pagine iniziali della sua dissertazione. Il curatore dell’opera è Diego Fusaro (Torino, 1983), studioso di Storia della filosofia presso l’Università di Torino. Sempre per Bompiani, egli ha curato – con Salvatore Obinu – una nuova edizione dell’Apologià di Raymond Sebond di Montaigne ed è inoltre il fondatore del progetto internet La filosofia e i suoi eroi (www.filosofico.net), punto di riferimento on line per il dibattito filosofico italiano.
Karl Marx, Differenz der demokritischen und epikureischen Naturphilosophie: è la troppo spesso ingiustamente sottovalutata tesi dottorale di Karl Marx, da me tradotta, commentata e curata per la casa editrice Bompiani di Milano, in particolare per la collana “Bompiani Testi a Fronte”. È la mia seconda pubblicazione, dopo l’Apologia di Raymond Sebond di Montaigne: in realtà, l’ho composta prima (sul finire del 2002 e a inizio 2003) rispetto all’opera montaigneana ma, per ragioni editoriali che non sto a spiegarvi, è poi uscita successivamente. Prima di parlare dell’opera, è bene spendere qualche parola sul contesto in cui è nata. Sentii per la prima volta parlare dell’opera quand’ancora ero uno studente liceale alle primissime armi: in particolare, il professore stava spiegando in classe la fisica di Epicuro, notando come essa sia una riproposizione di quella democritea, ma non per questo motivo priva di spunti originali ed interessanti (primo fra tutti, naturalmente, la “declinazione” degli atomi dalla linea retta); e, a tal proposito, egli citò il confronto che tra le due filosofie della natura – quella di Democrito e quella di Epicuro – aveva fatto Marx nella sua dissertazione dottorale. Rimasi particolarmente colpito: in primis, perché per le mie conoscenze di allora Marx era eminentemente un filosofo/rivoluzionario, tanto attento alla realtà sociale che lo circondava quanto incurante del passato classico e filosofico (ed è questa un’idea che tende ancora oggi ad essere dominante presso moltissimi studiosi). Mi colpì, in secondo luogo, l’idea marxiana – che da subito mi parve geniale – di mettere a confronto tra loro Democrito ed Epicuro, il loro atomismo simile e il loro modus vivendi diametralmente opposto. Quando – due anni dopo – venne il momento di preparare la tesi liceale, ecco che pensai di andare a recuperare la dissertazione di Marx, di leggermela e di lavorarci: ma, ironia della sorte, scoprii che era introvabile, che in italiano era stata sì tradotta, ma parecchi anni addietro (1962), non in versione integrale e in un numero talmente esiguo di copie che non solo non era reperibile nelle librerie, ma neppure nelle biblioteche meglio fornite. Ciò non di meno, non me la sentii di abbandonare il mio progetto e fu così che rinvenni la tesi, in versione integrale e in lingua sia tedesca sia inglese, su internet. Dopo averla letta, iniziai a lavorarci e ne venne fuori (giugno 2002) la mia tesi liceale, consultabile qui. Dopo aver conseguito la maturità classica, misi on line la tesi e a ottobre dello stesso anno venni contattato via email da Giuseppe Girgenti, assistente di Giovanni Reale e docente presso la Facoltà di Filosofia del San Raffaele di Cesano Maderno, oltre che segretario presso la casa editrice Bompiani di Milano. Aveva visitato il sito e aveva letto con interesse la mia tesi: mi propose allora di lavorare con Bompiani, curando l’edizione della dissertazione dottorale (occupandomi dunque della traduzione, del saggio introduttivo, delle note, ecc). Naturalmente accettai con grande gioia. Proverò ora a mettere in luce l’importanza della dissertazione dottorale di Marx non solo nell’economia del suo sistema, ma nell’intero panorama filosofico dell’Ottocento. A scriverla è un Marx ancora giovane, profondamente intriso di idealismo e di hegelismo (il termine “autocoscienza” ricorre nel testo con un’incredibile frequenza), ma che già lascia trasparire, almeno embrionalmente, i sintomi di un prossimo avvicinamento alla “Sinistra hegeliana”. Ciò emerge chiaramente fin dall’argomento della dissertazione – il materialismo democriteo ed epicureo -, per poi apparire sempre più evidente man mano che Marx procede nella sua trattazione: dopo le grandi sintesi sistematiche ed astratte che pretendono di spiegare il mondo in ogni sua parte e, per ciò stesso, peccano di astrattismo, si ha – per reazione – il germinare di filosofie che non badano se non alla concretezza: in quest’ottica, come dopo i grandi sistemi di Platone e di Aristotele fiorirono le filosofie ellenistiche, così dopo Hegel risplende la filosofia critica e materialista della Sinistra hegeliana. Ma quel che dal mio punto di vista risulta più interessante è il fatto che Marx – sostanziandosi dei valori della filosofia antica – e dovendo scegliere tra il determinismo assoluto alla Democrito e il determinismo con sprazi di libertà alla Epicuro, opti per il secondo. Proprio da ciò è possibile – e questa è l’interpretazione che io propongo nel saggio introduttivo – ricavarne un Marx attento ai problemi della libertà dell’agire umano, da sempre trascurati da certo marxismo (pensiamo all’interpretazione sovietica). Insomma, dalla dissertazione dottorale affiora un’immagine del tutto nuova e originale di Marx, alla cui luce rileggere il marxismo e la figura di Marx stesso, sulla quale pende – da dopo la caduta del Muro di Berlino – una damnatio memoriae tale per cui nell’attuale momento storico si tende sempre meno a parlare di Marx e, soprattutto, a leggerlo.
Rinnovo qui i ringraziamenti ai miei carissimi amici Salvatore Obinu (per l’attenta rilettura del saggio introduttivo e per la paziente revisione della parte in tedesco) e Giuseppe Girgenti (che mi ha molto aiutato nell’impaginazione e nella rilettura dell’intero lavoro), senza il cui preziosissimo aiuto il mio lavoro non avrebbe mai visto la luce.
La filosofia, finché una goccia di sangue pulserà nel suo cuore assolutamente libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a Epicuro: «empio non è chi rinnega gli dèi del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi». La filosofia non fa mistero di ciò. La dichiarazione di Prometeo – «detto francamente, io odio tutti gli dèi»– è la sua propria dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dèi celesti e terreni che non riconoscono come divinità suprema l’autocoscienza umana. (Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro)
DIEGO FUSARO: FILOSOFIA E SPERANZA.
ERNST BLOCH E KARL LÖWITH INTERPRETI DI MARX
Mi chiedo se un marxista abbia mai il diritto di sognare, qualora non dimentichi che, secondo Marx, l’umanità si pone sempre i soli compiti che può assolvere. (V. I. Lenin, Che fare?)
NOTE DI COPERTINA:
Uno dei maggiori problemi irrisolti che Karl Marx ha lasciato in eredità ai suoi interpreti riguarda la legittimità della speranza in sede pratica e teoretica, tanto nella cornice del suo pensiero quanto nel più ampio orizzonte della filosofia. L’intera opera marxiana sembra enigmaticamente in bilico tra le opposte dimensioni della scienza e della speranza. La linea interpretativa adottata da Ernst Bloch e da Karl Löwith scorge in Marx il filosofo della speranza più che della scienza, riconoscendo nella sua riflessione un’ineludibile tensione utopica rispetto alla quale la scienza sarebbe un fenomeno secondario e funzionale. Entrambi sostengono la centralità del momento della speranza in Marx, ma in forza delle concezioni antitetiche di questo sentimento che essi fanno valere all’interno della propria riflessione filosofica, finiscono poi per valutarlo in maniera opposta.
Diego Fusaro è studioso di Storia della Filosofia presso l’Università di Torino: ha curato l’edizione della Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro di Marx (Bompiani, 2004) e – con Salvatore Obinu – dell’Apologia di Raymond Sebond di Montaigne (Bompiani, 2004). È l’ideatore e il curatore del progetto internet La filosofia e i suoi eroi (www.filosofico.net), punto di riferimento per il dibattito filosofico italiano.
Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith interpreti di Marx (Il Prato, Padova 2005) è la rielaborazione della tesi con cui, nel giugno del 2005, ho conseguito la laurea triennale in Filosofia della storia presso l’Università di Torino. Il libro cerca di addentrarsi in uno dei maggiori problemi inerenti al marxismo: quello della speranza, affrontato dal punto di vista di due dei più lucidi interpreti di Karl Marx che il Novecento abbia avuto.
Desidero qui ringraziare soprattutto il prof. Enrico Donaggio e il prof. Enrico Pasini per avermi pazientemente seguito nel mio percorso, per i preziosissimi consigli che mi hanno fornito e per l’attenta lettura del mio lavoro.
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Tanto Ernst Bloch quanto Karl Löwith leggono Marx alla luce di questo paradigma interpretativo che si pone come una vera e propria «ermeneutica della speranza»: ma diametralmente opposte sono le conclusioni che essi ne traggono. Per Bloch, il marxismo è l’erede legittimo delle speranze che da sempre animano l’uomo; al contrario, per Löwith esso non è che un’indebita deviazione dalla filosofia proprio perché il suo nucleo più autentico – la speranza – esula dai sentieri filosofici. (“Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith interpreti di Marx”, cap.1)
Vai alla pagina della collana filosofica “I Cento Talleri“.
DIEGO FUSARO: LA FARMACIA DI EPICURO.
LA FILOSOFIA COME TERAPIA DELL’ANIMA
E’ vano il ragionamento di quel filosofo, dal quale non venga curata nessuna sofferenza umana: infatti, come la medicina non ha nessuna utilità se non espelle le malattie dal corpo, così non l’ha nemmeno la filosofia, se non espelle il turbamento dall’anima. (Usener, fr. 221)
Con prefazione di Giovanni Reale
NOTE DI COPERTINA:
Fin dall’antichità, il pensiero di Epicuro fu paragonato a un potente farmaco finalizzato a debellare i mali dell’anima che da sempre tormentano l’uomo impedendogli di vivere serenamente: ma sappiamo che il termine greco pharmakon racchiude in sé i due opposti significati di medicina e di veleno; e, a ben vedere, la stessa duplicità anima la filosofia di Epicuro, che, nella misura in cui si pone come medicina per l’anima umana, assume il carattere di veleno che distrugge dall’interno la filosofia tradizionalmente intesa come disinteressata contemplazione della verità. La rivoluzione filosofica compiuta da Epicuro in rottura con tutta la tradizione precedente, da Talete ad Aristotele, sta dunque nell’aver invertito il tradizionale rapporto tra uomo e cosmo, tra teoria e pratica: alla classica domanda “com’è fatta la realtà?” si sostituisce l’interrogativo epicureo che sta alla base del suo antropocentrismo filosofico: “come deve essere fatta la realtà e come la si deve conoscere per poter essere felici?”. Ogni specifica articolazione della filosofia epicurea subordinata all’obiettivo di un’esistenza felice e in nulla inferiore a quella propria delle realtà divine.
Diego Fusaro (Università di Torino) attento studioso dell’atomismo greco e dei suoi portati nella modernità: ha curato l’edizione della Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro di Marx (Bompiani, 2004) e ha recentemente pubblicato Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Loewith interpreti di Marx (Il Prato, 2005). E’ l’ideatore e il curatore del progetto internet La filosofia e i suoi eroi (www.filosofico.net), punto di riferimento per il dibattito filosofico italiano.
PREMIO “MARCELLO GIGANTE” 2008
La farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia dell’anima (Il Prato, Padova 2006) il frutto di un lungo periodo di studio dell’epicureismo e dei suoi portati nella modernità (è risaputo che lo stesso Karl Marx fu un grande estimatore del pensiero epicureo) . Epicuro – troppo spesso frainteso e liquidato come vizioso – è un autore profondo, che ha cercato di costruire una filosofia funzionale all’esistenza umana, capace di rasserenare gli animi e di garantire la felicità. Rivolgendosi a tutti, anche a coloro che tradizionalmente venivano esclusi dall’esercizio della filosofia (donne, schiavi, fanciulli), Epicuro ha elaborato un pensiero sistematico e in funzione dell’uomo: addirittura egli si spinge a sostenere, in sede teologica, che gli dei esistono ma non intervengono nel mondo e che l’uomo che vive saggiamente può godere di un’esistenza non meno felice e beata di quella degli dei stessi. L’opera ha vinto il premio speciale dell’edizione 2008 del “Premio Marcello Gigante”.
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Diego Fusaro (a sinistra) e Giovanni Reale (a destra)
Per poter curare gli animi, la filosofia deve inevitabilmente mutare natura, divenendo qualcosa di ben diverso da quel che era prima. E questo mutamento di natura a cui Epicuro sottopone la filosofia – che si trasforma significativamente in prassi filosofica – è destinato ad esercitare una grande influenza sulla nostra tradizione, fino a trovare nel pensiero di Karl Marx il suo punto di incontro più ricco di conseguenze: chi scava in profondità nelle origini e nelle fonti del pensiero marxiano non può non rinvenire Epicuro. (“La farmacia di Epicuro”, cap.1)
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AVERROÉ: IL TRATTATO DECISIVO –
A CURA DI JACOPO AGNESINA
IL TRATTATO DECISIVO sulla natura della connessione tra religione e filosofia
[ISBN 88-89566-19-1] – [2005© Il Prato, Padova]
Averroé, arabo nato nel 1126 a Cordova (Spagna), divenne presto noto in Occidente grazie ai suoi prestigiosi commentari delle opere di Aristotele e Platone: adottati come “testi di riferimento” nella emergente Facoltà delle Arti di Parigi, vennero utilizzati anche da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. «Averoìs ch’el gran commento feo», con queste parole viene ricordato da Dante, che lo colloca nel Limbo, in compagnia di sapienti e patriarchi.
Dissidi interni alla nascente università, porteranno all’accusa – errata – di essere sostenitore della dottrina della “doppia verità”; la sua immagine, così, muterà drasticamente: ne sono lampante prova i numerosi affreschi nei quali è rappresentato con scherno e disprezzo.
Con Il Trattato decisivo sulla natura della connessione tra Religione e Filosofia, sconosciuto nel medioevo latino, Averroé vuole dimostrare che la Religione, se correttamente interpretata, invita alla speculazione razionale. “Il vero non contrasta con vero”, è la formula, di sapore aristotelico, che costituisce lo zoccolo duro delle argomentazioni di questo Trattato; seguendo Averroé, le Scritture e la Scienza non possono che concordare, le contraddizioni che si generano saranno solo apparenti, risolvibili con una lettura allegorica del Testo Sacro. Ma non tutti gli uomini debbono poter accedere a queste interpretazioni: esse sono tanto illuminanti quanto pericolose per la facilità con la quale possono essere strumentalizzate. In forte assonanza con il mito platonico dei tre metalli, Averroé divide il genere umano in tre classi: i Filosofi, che danno un assenso dimostrativo alla verità; i Teologi, che ne danno uno dialettico; e infine le “masse” che si accontentano di un assenso retorico. Pur sottolineando come tutte e tre classi abbiano accesso alla Verità rivelata, questo scritto spinge con decisione verso l’esaltazione aristotelica dell’uomo quale “animale razionale”: è propriamente uomo chi esercita nel massimo grado la parte razionale della propria anima.
La leggenda vuole Averroé tanto preso dagli studi da abbandonare i libri solamente nel giorno del funerale di suo padre e in quello del suo matrimonio. Pur trattando nella dovuta forma quest’aura mitica, egli è senza dubbio una delle più profonde e acute menti speculative che i secoli possano vantare.
La presente edizione de Il Trattato Decisivo sulla natura della connessione tra Religione e Filosofia è curata da Jacopo Agnesina, giovane studioso di Storia della Filosofia presso l’Università del Piemonte Orientale (Vercelli) e creatore del sito di approfondimento e divulgazione filosofica www.portalefilosofia.com.
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La ragione per cui abbiamo ricevuto la Scrittura con entrambi i significati, essoterico ed esoterico, riposa sulla diversità naturale delle capacità umane e sulla differenza delle innate modalità di assenso degli uomini. E la ragione per cui, nelle Scritture, sono presenti passi che, nei loro significati apparenti, si contraddicono vicendevolmente, è che, le persone aventi una scienza ben fondata, in tal modo, vengano chiamate alla riconciliazione di questi passi. Questa è l’idea a cui si riferiscono le seguenti parole dette dall’Altissimo: “Egli è colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti chiari e definiti, che sono la Madre del Libro, sia versetti allegorici. Ma quelli che hanno il cuore traviato seguono ciò che v’è d’allegorico, bramosi di portare scisma e di interpretare fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio e gli uomini di solida scienza. (Averroé, Il trattato decisivo)
E. DONAGGIO – P. KAMMERER: KARL MARX. ANTOLOGIA.
CAPITALISMO, ISTRUZIONI PER L’USO
E. Donaggio – P. Kammerer (a cura di): Karl Marx. Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso
[ISBN 978-88-07-81947-6] – [Feltrinelli, Milano 2007]
Non una classica antologia, che restituisce ogni aspetto dell’opera di un autore, ma un reader impegnato, per un pubblico di giovani curiosi e di adulti interessati o delusi; l’attraversamento, selettivo e parziale, di alcuni fondamentali territori marxiani.
Sono qui raccolte e commentate le pagine più belle e attuali di Marx, forse capaci di dar conto dell’impressione, cruciale per la nostra epoca, che, dopo la rovina di progetti sociali e politici alternativi, spesso condotti proprio in nome di Marx, il capitalismo rappresenti ormai l’unica forma di vita possibile, il destino inevitabile, agognato o temuto, dell’intero genere umano. A un’introduzione dei curatori che fa il punto su Marx e noi, segue un profilo non ortodosso di Marx attraverso documenti e testimonianze biografiche. L’antologia mette quindi a fuoco due tra i principali elementi che danno al capitalismo un’aura di eternità: l’impotenza delle idee e il potere delle cose, con i passi su religione, politica, diritti umani, individuo, utopia, vari riformismi quali forme di liberazione illusorie dal capitalismo, e quelli che spiegano la potenza pervasiva di cose come merce, denaro, capitale, proprietà privata. Seguono capitoli sull’anatomia della società capitalistica proposta da Marx, con la descrizione della condizione di chi lavora e del possessore del capitale, e del loro rapporto conflittuale attuale e futuro. Infine una costellazione di schegge (visionarie e in parte perversamente realizzate dal modello sociale oggi) staccate dal corpo di profezie di Marx su un futuro diverso.
Si sono scelte e commentate le pagine più belle e attuali di Marx, tralasciandone altre certo indispensabili per restituire un profilo completo del loro autore. Lo scopo di questa raccolta è infatti quello di fare luce su un sentimento oggi diffuso: la percezione che il capitalismo rappresenti l’orizzonte insuperabile del nostro tempo, il destino inevitabile, agognato o temuto che sia, dell’intero genere umano. E che qualcosa, comunque, continui a mancare (p. VII).