DIOGENE LAERZIO
A cura di Diego Fusaro
|
Dell’eruditissimo
Diogene Laerzio ignoriamo ogni dato biografico: la collocazione tra fine II ed
inizio del III secolo d. C. si deve al fatto che egli cita il filosofo Potamone
di Alessandria, operante appunto nell’età dei Severi. Alcuni hanno ipotizzato
che egli fosse originario della città di Laerte in Caria, in Asia Minore, come
proverebbe il soprannome “Laerzio” e che fosse platonico, giacché esalta
Platone ed elogia la destinataria dell’opera come “giustamente filo-platonica”
(III, 47). Ma si tratta di congetture. Diogene Laerzio è autore di un’opera
dall’inestimabile valore documentario: la Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, solitamente abbreviata in Vite dei filosofi. Si
tratta di quella che potremmo definire la prima storia della filosofia in senso
autentico, nata con lo scopo di presentare le dottrine dei grandi filosofi
dell’antichità. Anche il primo libro della Metafisica di Aristotele
aveva in fondo i tratti della storia della filosofia, ma bisogna ricordare che
l’intento dello Stagirita era anzitutto teoretico e che dunque egli si
avvicinava alle dottrine dei suoi predecessori con piglio teoretico più che
storico. L’opera di Diogene Laerzio, invece, vuole essere una storia della
filosofia: tenendo fede al titolo, essa espone in dieci libri la biografia e il
pensiero dei principali filosofi, dai primi sapienti fino a Epicuro. Dell’opera
di Diogene non ci sono giunti la dedica (ma da allusioni contenute nel resto
dell’opera apprendiamo che il destinatario era una donna) e l'ultima parte del
libro VII. Si tratta di un vasto compendio bio-dossografico, che illustra vita
e dottrine di 84 filosofi. Diogene apre la sua opera con un ampio proemio in
cui discute delle origini della filosofia e che sembra essere in diretta polemica
con i cristiani, per poi passare all'esposizione della vita, opere (con il pinax,
ossia l’elenco completo degli scritti, divisi per temi) e pensiero dei
filosofi, divisi in “ionici” ed “italici”, seguiti dagli “sporadici” (libri IX-X), ossia i filosofi che non possono essere inclusi nelle due
categorie suddette. È molto interessante il proemio, in cui Diogene discute
sull’origine della filosofia: in opposizione con quanti sostengono che essa è
nata in Oriente (lo stesso Aristotele, nel perduto Magico, aveva propugnato
questa tesi, esponendo le dottrine dei Magi persiani), Diogene Laerzio afferma
con decisione che “la filosofia è una creazione dei Greci: il suo stesso nome
non ha nulla a vedere con una denominazione barbarica”. L’obiettivo polemico di
questo proemio non è tanto Aristotele, quanto piuttosto il clima culturale
contemporaneo a Diogene: un clima che aveva finito per concepire l’Oriente come
culla della filosofia (si pensi ai cosiddetti Oracoli Caldaici e al Corpus
hermeticum). Sicché
il proemio discute dell’origine della filosofia (1-11), del nome filosofia (12),
delle divisioni della filosofia, della successione dei filosofi e della loro
distinzione (13-17), delle parti della filosofia (18) e infine delle scuole
filosofiche (19-20). Nel I libro la trattazione si
sofferma sui “sapienti”, seguiti, nel II libro, dai fisici e da Socrate e i
socratici minori; i libri III-IV sono dedicati a Platone e agli Accademici. Nel
V libro si tratta di Aristotele e dei peripatetici suoi allievi per poi
passare, nel VI, ai Cinici (tra cui spiccano Antistene e Diogene). Il VII
libro, il più lungo e complesso (mancante dell’ultima parte) tratta degli
Stoici, partendo da Zenone e concentrandosi soprattutto su Crisippo. Nel libro
VIII si parla di Empedocle e dei Pitagorici, seguiti, nel libro IX, da
Eraclito, gli Eleatici, Democrito, Protagora e gli Scettici. Il X libro è tutto
dedicato ad Epicuro e alla sua scuola: visto l'interesse epicureo della
destinataria, Diogene inserisce tre lettere di Epicuro (A Erodoto sulla
fisica, A Pitocle sulla meteorologia, A Meneceo sull’etica) intercalando il
suo commento e facendo poi seguire le Massime Capitali come sintesi del
pensiero epicureo, con cui l'opera si chiude. Grande merito di Diogene è anche
quello di averci tramandato questi testi epicurei, i quali sarebbero altrimenti
andati irrimediabilmente perduti. Seguendo un costume diffuso, Diogene compose
anche una raccolta di suoi epigrammi, Pammetros (Raccolta in
tutti i metri), di cui a noi restano 56 componimenti, da lui
stesso inclusi nelle Vite, di scarso valore artistico, ma di grande
eleganza formale e metrica. Le Vite dei filosofi si pongono come un manuale
senza pretese di originalità, ma che è per noi fonte preziosa di testimonianze
e cronologia sui vari filosofi classici ed ellenistici. Con scrupolo erudito,
infatti, Diogene opera su materiali come lessici, repertori bibliografici,
cronologie, e riporta con puntiglio le sue fonti, citando spesso passi degli
stessi pensatori come esemplificazione nell'esposizione della loro dottrina,
fino al caso limite dei lunghi testi epicurei del libro X. Si tratta di un “manuale
biografico”, basato su ottime fonti cronologiche e bibliografiche, risalenti
all’erudizione ellenistica, e dossografico: ma a Diogene mancano lo spirito
critico e l’attitudine filosofica, e la sua esposizione è spesso mancante di
chiarezza o troppo sintetica proprio nei punti salienti delle diverse dottrine
(basti pensare alle cadute nelle sezioni sulle dottrine di Platone, Aristotele
e degli stoici). Detto altrimenti, Diogene, in balia a una curiosità quasi
morbosa, si sofferma per pagine e pagine sulla vita degli autori per poi
liquidarne in poche righe le dottrine: quasi come se a lui la vita dei filosofi
interessasse più del loro pensiero. Un esempio del suo modo di procedere si può
estrapolare da questo passo del III libro, dedicato a Platone, in cui cita in
modo disordinato e ripetitivo le tappe della formazione del filosofo, concedendo
ampio spazio all’aneddoto:
“All’inizio filosofò nell'Accademia, poi nel giardino vicino a Colono, come dice Alessandro nelle Successioni, secondo la filosofia eraclitea. Poi, desiderando gareggiare con una tragedia, ascoltato Socrate davanti al teatro di Dioniso, bruciò i suoi versi dicendo:
Vieni qui, o Efesto, chè Platone ti chiama!
Da allora, avendo vent’anni, dicono, seguì Socrate: dopo la sua morte seguì Cratilo l’eracliteo ed Ermogene, che seguiva la filosofia parmenidea. In seguito, a ventotto anni, secondo quanto dice Ermodoro, si recò a Megara da Euclide con altri socratici. Poi andò a Cirene dal matematico Teodoro; di lì in Italia presso i pitagorici Filolao ed Eurito. Da lì in Egitto, presso i sapienti”.
Così, Diogene si sofferma diffusamente sulla vita di Platone per poi liquidarne rapidamente la dottrina delle “Idee”, come se fosse di poca importanza. Tuttavia, proprio questi difetti ci consentono una sostanziale obiettività e chiarezza nell’esposizione, che si configura come una raccolta di aneddoti e motti celebri, simile alle biografie di Svetonio (a cui lo accomuna l’interesse per i “pettegolezzi”), che non riesce però a cogliere il nucleo filosofico dei singoli pensatori. Una curiosità è che Diogene Laerzio mostri una sorta di venerazione per Epicuro (solo a lui e a Platone dedica un libro intero), con la trattazione del quale si chiude l’opera: ciò ha indotto alcuni critici a ritenere che fosse un epicureo. In effetti, Diogene Laerzio sembra fare con Epicureo ciò che Eusebio di Cesarea fa col cristianesimo: tutta la storia della filosofia, nell’ottica di Diogene Laerzio, si configura come una sorta di “praeparatio epicurea”, ossia come un qualcosa di subordinato e funzionale a Epicuro; similmente a come, per Eusebio, tutta la filosofia non era che una “praeparatio evangelica”.