DIONE DI PRUSA (CRISOSTOMO)
Nato da una famiglia di elevato ceto sociale nella città di
Prusa in Bitinia, Dione si formò, dapprima, negli studi letterari
ed esordì come retore e scrisse addirittura
un’opera contro i filosofi in generale e una contro Musonio
in particolare.
A Roma ebbe dimestichezza con uomini di alto rango e,
a motivo degli stretti legami di amicizia che ebbe con Flavio
Sabino, fu condannato all’esilio, allorché costui fu sospetta-to
di complottare contro l’imperatore Domiziano.
Bandito dalla Bitinia e dall’Italia, costretto a peregrinare
in paesi inospitali e a guadagnarsi i mezzi di sostentamento
con i lavori più umili, privato di tutto ciò che aveva riempito
e allietato la sua vita passata, seppe trovare la sua vocazione
di fondo proprio a causa della sollecitazione di queste
avverse circostanze, e divenne così «filosofo». Egli riscoprì
in tal modo la validità di quella filosofia che nell’esser privato
di tutto e nel condurre una vita di «primitivi» additava,
contro la comune opinione, il più autentico bene.
Dione nacque, probabilmente, nell’ultimo decennio della prima
metà del secolo I d.C. Il soprannome Crisostomo, che vuol dire «Bocca
d’oro», gli derivò dalla sua abilità nel parlare e dalla sua suadente eloquenza.
Il suo esilio durò dall’82 d.C. all’uccisione di Domiziano, ossia
fino al 96 d.C. Ebbe buoni rapporti con Traiano (98-117), alla cui presenza
pronunciò alcuni dei suoi discorsi. Di Dione ci è pervenuto un
complesso di ottanta orazioni, in cui predomina la forma letteraria della
diatriba. Che lo stesso Diogene fosse
diventato filosofo perché esiliato e privato di tutto era una convinzione
comunemente condivisa. Ecco come Dione stesso, in una pagina esemplare,
descrive la propria conversione alla filosofia cinica:
“Gli uomini che mi incontravano mi guardavano e mi giudicavano,
alcuni un vagabondo, altri, un mendicante, alcuni, invece,
un filosofo. Di qui, a poco a poco, mi venne il nome di filosofo,
senza che io lo volessi e che me ne vantassi. Molti dei
cosiddetti filosofi, infatti, si proclamano tali loro stessi,
proprio come gli araldi alle Olimpiadi proclamano i vincitori;
per quanto mi riguarda, invece, essendo gli altri a
darmi questo nome, non potevo sempre oppormi a tutti
quanti. Anzi, mi accadde di ricevere un certo beneficio da
quel nome. Infatti molti venivano da me e mi chiedevano
che cosa io ritenessi che fossero il bene e il male. Di conseguenza,
io fui costretto a meditare intorno a queste cose,
per poter rispondere a quanti mi ponevano quei quesiti.
Inoltre, mi invitavano a presentarmi e a parlare in pubblico.
Fui così costretto a parlare sui doveri degli uomini e su
ciò che, a mio parere, giova ad essi. Mi formai allora la convinzione
che tutti, per così dire, fossero sconsiderati e che
nessuno facesse ciò che doveva fare né considerasse come
potesse liberarsi dai mali che li affliggono, dalla grande
ignoranza e dalla confusione e come potesse vivere una
vita più conveniente e più virtuosa, essendo tutti quanti
agitati e trascinati nello stesso luogo e intorno alle stesse
cose, ossia intorno alle ricchezze, alla reputazione e a certi
piaceri corporei, senza che nessuno di essi fosse capace di
affrancarsi da queste cose e liberare la propria anima, proprio
come cose che cadono in un vortice, son fatte roteare
e son trascinate in circolo senza potersi liberare da esso”.
Gli scritti di Dione che risalgono a questo periodo dell’esilio
ripetono i capisaldi della dottrina cinica, e, in
essi, la figura di Diogene predomina incontrastata.
Questi scritti esaltano in modo particolare la potenza
liberatrice del verbo di Diogene, ribadiscono la validità
della tavola cinica dei valori, ridifendono certi aspetti della
cinica “anaideia” e sottolineano marcatamente l’importanza
della lotta contro il piacere. Ecco un significativo stralcio dal Discorso sulla virtù: “Un tale domandò a Diogene se egli pure fosse venuto
per vedere i giochi ed egli rispose:
«No, ma per prendervi parte anch’io». Quegli si mise a
ridere e domandò quali fossero i suoi avversari. E Diogene,
guardandolo di sotto in su, come era solito, disse: «I più
pericolosi e i più difficili da vincere ed ai quali nessuno dei
Greci sa resistere; non sono però avversari che corrono,
lottano, saltano, combattono col pugilato, lanciano il disco
o il giavellotto, ma quelli che fanno rinsavire gli uomini».
« E chi sono?», domandò. «Sono le fatiche, rispose, le più
rudi e non superabili dagli uomini ben sazi di cibi e pieni
dei fumi dell’orgoglio, che passano tutte le loro giornate a
mangiare e le loro notti a russare, ma che sono abbattuti da
uomini sottili e magri, i cui ventri son più sottili di quello
delle vespe. O tu credi che questi grossi ventri servano a
qualcosa, questi individui che coloro che hanno buon
senso dovrebbero menare attorno, purificare e poi cacciare,
o piuttosto immolare, fare a pezzi e poi mangiare. Come
si fa con la carne dei grandi pesci, che si fanno cuocere nel
sale e nell’acqua marina, per far sciogliere il grasso, come
fanno da noi nel Ponto col lardo dei maiali quelli che
vogliono ungersi. Infatti io credo che costoro abbiano
meno anima dei maiali. Invece l’uomo probo ritiene che le
fatiche siano i suoi maggiori avversari e con questi ambisce
battersi notte e giorno, non per ottenere un ramo di appio,
come le capre, né un ramo di ulivo o di pinoma per
ottenere la felicità e la virtù per tutta la vita»."
Questi avversari, precisa Dione, vanno attaccati con
estrema decisione, come si fa con il fuoco, che, se aggredito
senza esitazione, può essere spento, se no ha un sicuro
sopravvento.
Ma l’avversario di gran lunga peggiore, anche per Dione
così come per gli antichi Cinici, è il piacere, il quale non usa
la forza ma l’astuzia e seduce con funesti farmaci, come fece
la maga Circe di cui parla Omero, la quale attrasse in questo
modo i compagni di Ulisse, per poi trasformarli in porci
e animali selvaggi. Il piacere ci minaccia in tutti i modi possibili, perfino
durante il sonno, mediante sogni insidiosi. Per difendersi
dal piacere è necessario stare lontano il più possibile da esso
o avere commercio con esso solo per lo stretto necessario.
Perciò conclude Dione: “Un uomo veramente forte è davvero veramente tale,
quando è capace di fuggire il più possibile lontano dai piaceri:
infatti non è possibile frequentare il piacere e farne
esperienza durante un periodo di tempo, senza esserne
rovinati. Non appena ha il sopravvento e vince l’anima con
i suoi filtri, subito fanno seguito gli effetti prodotti dalla
maga Circe”.
Alla morte di Domiziano Dione tornò a Roma, e con la
fine dell’esilio ebbe termine anche la sua «vita cinica»; la
sua stessa visione filosofica si allargò, sussumendo numerosi
concetti stoici e perfino alcune suggestioni platoniche.
Risente ancora di forti influssi cinici l’orazione che reca
il titolo “Euboico”, in cui si narra di una famiglia di cacciatori,
la quale lontano dalla città, a contatto con la natura, vive
serenamente, soddisfacendo solamente ai bisogni più elementari
ed essenziali, senza desideri del superfluo e senza
vane ambizioni, e realizza, in questo modo, pur senza saperlo,
la vita ideale. Dione non ha dubbi che il vivere in povertà
e non in mezzo alla ricchezza rappresenti il “vivere conforme
a natura”. Sulla base di questa concezione di carattere squisitamente
morale egli propone la soluzione del problema sociale
della povertà dei ceti inferiori, che nelle grandi città diventava
vieppiù preoccupante: bisognerebbe far uscire dalla
città quelli che egli definisce i «poveri rispettabili», ossia
quei poveri che conducono una vita onesta, portarli a vivere nelle campagne, e qui insegnare loro a procacciarsi i
mezzi di sostentamento nel modo più naturale.
È indubbio che Dione intendeva presentare questo programma
non solo a scopo teorico, ma proprio come concreta
soluzione dei gravi problemi sociali del momento storico
in cui viveva.
Un altro gruppo di scritti di carattere politico composti
nel periodo posteriore all’esilio rispecchia ancora idee ciniche,
fatte però rientrare nella più ampia prospettiva stoica
della monarchia universale di cui è re Zeus.
Il governo ideale è, per Dione, quello monarchico, e il
monarca ideale è il migliore degli uomini, l’uomo più virtuoso.
Leggiamo nella “Orazione IV”, dove i protagonisti sono
Diogene (portavoce di Dione) e Alessandro (che probabilmente
rappresenta, in qualche modo, l’imperatore Traiano,
cui il discorso è rivolto):
“Allora Alessandro chiese a Diogene: «In che modo si
dovrebbe esercitare l’arte regia nella maniera migliore?».
Diogene lo guardò severamente di sotto in su e rispose:
«Non si può esercitare l’arte regia in modo malvagio più di
quanto non si può essere un malvagio onest’uomo! Infatti
il re è il migliore degli uomini, il più coraggioso, il più giusto,
il più umano, ed è invincibile rispetto ad ogni fatica e
ad ogni desiderio»".
Il re deve essere un «pastore di popoli», secondo il celebre
detto di Omero, e deve essere l’imitatore del più grande
di tutti i re, vale a dire del Re che governa l’Universo
intero, ossia di Zeus.
Leggiamo, per esempio, nella “Orazione I”:
“Tra i re, dal momento che, come credo, essi ricevono da
Zeus il loro potere e la loro funzione, quello che, guardando
a Zeus, ordina e governa con giustizia e con bontà conformemente
alla legge e al volere di Zeus, ha una buona
sorte e una fine propizia”. E poco prima Dione precisa:
“Il Re primo e supremo devono sempre imitare i mortali e
coloro che governano le cose degli uomini nell’assolvere
alle loro responsabilità, su quello, per quanto è possibile,
regolando e a quello assimilando il proprio
modo di agire”.
Piegano invece decisamente verso le dottrine della Stoà
l’Orazione XXXVI (dal titolo Boristenico), che contiene una vera e propria cosmologia stoica, e l’Orazione
XII (dal titolo Olimpico), che dimostra come l’idea di Dio
sia innata in tutti gli uomini, Greci o barbari che siano.
Anche in Dione, come nel parallelo Neostoicismo, compare
l’idea della «parentela» e del «legame naturale» che unisce gli uomini agli Dei, e quindi l’idea della
fratellanza di tutti gli uomini.
Come nel parallelo movimento Medioplatonico, in
Dione compare non solo l’idea già sopra indicata che gli
uomini devono «imitare Dio» e «assimilarsi a lui», ma
addirittura la dottrina che il «Dèmone dell’uomo» è il suo
nous, il suo «intelletto»:
“I demoni buoni e cattivi, i quali portano la sfortuna e la
fortuna, non stanno al di fuori dell’uomo: l’intelletto che è
proprio di ciascun uomo, questo
è il Dèmone dell’uomo che lo possiede: il Dèmone di un
uomo saggio e buono è buono, malvagio quello di un
uomo malvagio, e, così, libero è quello di un uomo libero,
schiavo quello di un uomo schiavo, regale quello di un
uomo regale e magnanimo, miserabile è quello di un uomo
miserabile e vile”.