L'ETA' DEI DIRITTI |
Il tema che ci proponiamo di affrontare è quello riguardante le “questioni di diritto” e le “questioni di giustizia”. Esordiamo col dire che la riflessione giuridica si è da sempre focalizzata su un duplice interesse: che cosa può aspirare a essere riconosciuto come norma? Qual è la ratio più profonda, il fondamento, del diritto?
Se volgiamo lo sguardo anche solo al dibattito giornalistico, notiamo come sia ricorrente l’espressione “diritto giusto”, a segnalare come ciò che è di diritto non coincida sempre con ciò che è giusto. In particolare, quando si parla di “diritto giusto”, si coniugano insieme il giusnaturalismo e il positivismo giuridico. Condurremo la nostra indagine tenendo presente che oggi ci muoviamo in una situazione radicalmente mutata rispetto ad anni anche non molto distanti: nel Novecento, dopo le grandi dittature, l’autocoscienza europea è stata dominata dalla percezione della centralità del diritto per la mediazione dei conflitti sociali. Ciò è importante anche per la “democrazia costituzionale”, la cui età è quella successiva alla seconda Guerra mondiale: è quella che, con espressione particolarmente felice, Norberto Bobbio ha chiamato l’“età dei diritti” al plurale; quella che un altro illustre pensatore, Ronald Dworkin, etichetta come l’età in cui “i diritti vengono presi sul serio”. È anche l’età nella quale si ridefinisce il paradigma giuridico dominante (il positivismo) e si impongono nuove teorie, tra le quali la teoria della “discorsività” di Jürgen Habermas. In questa “età dei diritti” successiva al secondo conflitto mondiale, il diritto cessa di essere quel che era stato nell’Ottocento: una “sovrastruttura”, per dirla con Karl Marx (ma anche un non-marxista come Vilfredo Pareto condivide tale idea), ossia un che di marginale rispetto all’economia (pensiamo ancora a Marx), alla religione (qui il riferimento è a Ludwig Feuerbach) e alla scienza (pensiamo ad Auguste Comte). Col Novecento si assiste a un radicale mutamento di prospettiva: in particolare, dopo le due guerre mondiali, l’Europa fonda la democrazia sull’idea di centralità del diritto. La sensazione è che oggi tale centralità sia venuta meno, in una sorta di “erosione” del diritto. Se con le due guerre mondiali si ebbe una vera e propria “catastrofe” del diritto (a tal punto che diritto divenne ordinare lo sterminio degli ebrei o massacrare i sovversivi nei gulag), nell’attuale momento storico (a partire dagli anni ’90 del Novecento) sembra in atto una “erosione” del diritto la quale si manifesta nel fatto che le nostre democrazie costituzionali vedono il progressivo svuotarsi di contenuti delle costituzioni, l’imporsi di nuovi contenuti costituzionali a colpi di maggioranza. A ciò si accompagna anche un’erosione del diritto pubblico: nel mondo di oggi, il mondo della “globalizzazione”, il diritto pubblico si svuota e si tende sempre più a parlare di lex mercatoria, ossia di un diritto che è commerciale più che statuale (sono gli uffici giuridici delle multinazionali a fare il diritto). Il diritto è eroso anche dal ritorno della guerra: essa, negli anni della “Guerra fredda”, non era scomparsa (si pensi anche solo alla guerra del Vietnam), ma sicuramente era contenuta, limitata e aveva un carattere diverso. A partire dagli anni ’90, dopo la caduta del Muro di Berlino, la guerra ritorna in forme di rilegittimazione (s’è curiosamente parlato di “interventismo umanitario”). Questa erosione può essere esplicitata in riferimento a diverse espressioni della prassi giuridica. I filosofi del diritto distinguono tra validità, giustizia, efficacia. Per i positivisti giuridici, il diritto è tale quando è valido: non accontentandosi di ciò, i giusnaturalisti asseriscono che il diritto dev’essere anche giusto. In terzo luogo, occorre che il diritto sia efficace, ossia posto in atto, rispettato: e quando esso non è rispettato, sorge il dubbio che non fosse giusto o che una parte della società non si ritrovi in esso. Ora, il processo di erosione del diritto di cui abbiamo poc’anzi detto ha tutta l’aria di essere al contempo crisi di validità, di giustizia e di efficacia: e lo scenario di oggi pare essere analogo a quello ottocentesco nel quale si muovevano Marx, Feuerbach e Comte, uno scenario in cui il diritto è un qualcosa di marginale. In particolare, sembra che oggi i settori strategici siano tornati a essere l’economia, la religione e la scienza (nella forma di tecnologia). Così, la globalizzazione, che è un po’ la cifra del nostro tempo, è sicuramente un fenomeno eminentemente economico e tecnologico, e lo stesso dilagare del fondamentalismo segna il trionfo della religione. Sicché, dietro la crisi del diritto, si cela l’emergenza di quegli ambiti (economia, religione, tecnica) che sono i più refrattari al diritto e al suo intervento: essi sono anche stati gli ambiti che il diritto (ma non la filosofia) s’è rivelato in grado di governare. E non bisogna farsi ingannare dal fatto che pare che oggi il diritto proliferi in mille forme (ci si prende cura anche dei diritti degli animali): tale proliferazione produce quella che Niklas Luhmann, seppur in altri contesti, chiamava “inflazione del potere”, a significare che l’erosione del diritto si nasconde perfettamente dietro la sua apparente proliferazione.
L’intera tradizione giuridica occidentale s’è retta sulla contrapposizione dicotomica tra giusnaturalismo e positivismo giuridico: il primo è già teorizzato, seppur in maniera un po’ rozza, nell’antichità; il secondo verrà invece pienamente teorizzato nel Medioevo. Inoltre, mentre il primo raggiunge l’apice nella modernità e poi si avvia rapidamente verso il declino, il secondo giunge al culmine tra l’Ottocento e la prima Guerra mondiale. La polarità tra giusnaturalismo e positivismo giuridico è incentrata sul fatto che, per il primo, v’è un diritto che viene prima rispetto a ogni altro diritto e che di quest’ultimo costituisce la fonte (si parla allora di diritto fondato sulla natura); per il secondo, invece, il diritto è un qualcosa che, lungi dallo scaturire dalla natura, è posto dagli uomini. E dunque, se in un certo senso il giusnaturalismo è duale (c’è il diritto di natura e, successivamente, le leggi che gli uomini pongono in riferimento a esso), il positivismo giuridico è, per così dire, “monistico”. Il rapporto tra i due è stato perfettamente esemplificato, nell’antichità, dalle vicende di Antigone e Creonte. L’età moderna arriverà alla conclusione che soltanto il diritto positivo è valido: il massimo esponente del positivismo giuridico, Hans Kelsen, dice significativamente che di diritto ce n’è uno solo e che il giusnaturalismo è una morale o, meglio, una teoria della morale. Nel XVII secolo, già Thomas Hobbes aveva preso le mosse dal diritto naturale per poi fondare il diritto positivo, sostenendo che l’unico diritto valido è quello posto dal sovrano. Il giusnaturalismo è definitivamente “superato” (aufgehoben) da Hegel e, dopo di lui, in molti si accaniranno contro di esso: tanto gli idealisti quanto i positivisti lo rigettano, chiedendosi se ci sia effettivamente una natura umana e se da essa possa poi derivare il diritto.
Se volgiamo lo sguardo al giusnaturalismo, ci imbattiamo in due tesi fondamentali che possono così essere compendiate: a) una parte delle regole della condotta umana, lungi dall’essere storicamente prodotte, sono il frutto di una legge di natura; b) tali regole sono assiologicamente prioritarie rispetto a quelle poste dall’uomo. Una volta che s’è chiarita l’esistenza di leggi di natura, occorre chiarire quali e quante esse siano: ed è a questo proposito che i giusnaturalisti si rivelano in grande imbarazzo, trovandosi in disaccordo e fornendo, non di rado, risposte insoddisfacenti. Se vogliamo, possiamo dire che i giusnaturalisti sono “cognitivisti etici” (pensano cioè di sapere con precisione quale sia il bene), mentre i giuspositivisti sono “relativisti” che ignorano quale sia il bene secondo natura. Al giorno d’oggi, da dopo il secondo conflitto mondiale, questa grande dicotomia tra giusnaturalismo e positivismo giuridico sembra essere diventata meno chiara, più sfumata, dai confini più incerti. Dopo Hegel, quasi tutti i grandi filosofi avevano sottoposto a critica il giusnaturalismo, che era stato difeso soltanto dai pensatori di ispirazione religiosa e dalla Chiesa stessa, fermamente convinta dell’esistenza di un “giusto secondo natura”. Ma con la catastrofe abbattutasi sul mondo intero col secondo conflitto mondiale, il positivismo è oggetto di critiche pesantissime: infatti, diritto positivo erano state le leggi di Norimberga, i “processi fantoccio” dell’età staliniana, e così via. Nel dopoguerra, si cerca allora una terza via che raccolga le eredità del giusnaturalismo e del positivismo senza identificarsi tout court in nessuna delle due: nasce così il costituzionalismo, che ha leggi universali ma scritte, solide ma poste dall’uomo.
Le tappe in cui scandiremo il nostro percorso saranno le seguenti: muoveremo dalla dicotomia giusnaturalismo/positivismo giuridico per metter in luce come, nel Novecento, il quadro teorico sia andato complicandosi, nella misura in cui sono comparsi sulla scena il “decisionismo”, il “normativismo”, il “diritto come istituzione” di Santi Romano, il “realismo giuridico”. Volgeremo lo sguardo anche al primo grande sistematore della teoria della giustizia: Aristotele. Gli ultimi anni, quelli a noi contemporanei, sono caratterizzati dal prevalere della “giustizia distributiva”, in una pesante svalutazione della “giustizia retributiva” (quella incentrata sulla pena). Affronteremo anche questioni di diritto internazionale, notando come il diritto penale, da sempre appannaggio dei singoli Stati, sia diventato internazionale a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokyo e, più recentemente, in quelli del Ruanda e della Jugoslavia. In tempi molto recenti, s’è anche parlato di “giustizia riparatrice”, nella convinzione che col diritto penale non si vada molto lontano: ci vogliono nuove strategie, ad esempio le cosiddette “commissioni verità” del Sudafrica e dell’America Latina che, pur con esiti altalenanti, applicano una giustizia che è non retributiva (non mira cioè a punire i carnefici), bensì riparatrice (mira a risarcire le vittime). Ci porremo inoltre il problema della giustizia oltre lo Stato, ossia di una giustizia che poggi su altro rispetto allo Stato.