HABERMAS, FATTI E NORME |
Proveremo ora ad affrontare alcuni dei problemi già esaminati attraverso il filtro dell’opera di teoria del diritto più sistematica degli ultimi vent’anni: Fatti e norme di Jürgen Habermas (il titolo originale è Faktizität und Geltung, 1992). Si tratta di un libro assai importante perché animato da uno spirito di ricostruzione e dunque dallo sforzo di interpretare in un modello teorico più comprensivo gli apporti di scuole e di autori diversi, in una sorta di sincretismo teorico che si misura con tutte le principali correnti del Novecento (dall’ermeneutica al postmodernismo, fino al positivismo giuridico). Si tratta poi di un testo piuttosto impegnativo, in quanto molto ramificato (si disperde in parecchi rivoli affrontando questioni alquanto particolari) e tale da offrire uno spaccato del dibattito filosofico, giuridico e politico contemporaneo: in particolare, per quel che concerne il versante politico, Habermas rende conto sia del filone “liberale” di John Rawls sia del filone “comunitario” di Charles Taylor, sia di quel tentativo di mediarli che è il “repubblicanesimo”, il quale cerca una via che sia alternativa alla libertà negativa dei liberali e alla libertà comunitaria dei comunitari, rinvenendola nella “libertà dal dominio” tirannico e dispotico.
Quella di Habermas è dunque una grande sintesi sul diritto che lascia trasparire una fiducia (tipicamente illuministica) nello strumento giuridico come strumento di mediazione, fiducia della quale oggi si avvertono segnali di crisi: se volgiamo lo sguardo a L’Occidente diviso (2004), vi troviamo un Habermas più cauto e meno fiducioso, soprattutto se guardiamo alla parte dell’opera dedicata all’identità europea, là dove l’autore nota che “non fanno più presa” le istanze giuridiche come mediatrici; o anche se teniamo presente che, sempre in quel testo, Habermas, a proposito dell’integrazione cosmopolitica del genere umano, mostra che non ci si può attendere nulla di più che una forma di “cosmopolitismo debole” – che poco ha a che vedere con una democrazia cosmopolitica – cioè di un’integrazione debole della società cosmopolitica su reazioni di indignazione verso criminalità di massa percepite e perseguite da tribunali internazionali.
Come avverte lo stesso Habermas nella prefazione, Fatti e norme vuol essere una risposta allo scetticismo dei giuristi: l’autore avverte già un certo disfattismo nei cultori del diritto relativamente alla mediazione e alla soluzione dei problemi di diritto. Egli parla poi del “falso realismo” di chi guarda scetticamente al momento normativo, scorgendo in esso una copertura ideologica: contro questa posizione, Habermas è convinto che si debbano prendere sul serio i discorsi normativi. Dal libro traspare una lampante difesa della “democrazia deliberativa” all’interno di una società sempre più complessa, in aperto contrasto con le tesi sostenute dal teorico dei sistemi Niklas Luhmann, il quale è dell’idea che un sistema complesso non si lasci governare dal centro, cosicché salta la politica tradizionale incentrata sullo Stato sovrano. Come scrive Luhmann, “non è possibile governare una società complessa dal centro senza distruggerla”. Il guaio – nota Habermas – è che se si presta ascolto a Luhmann si rischia di vedere come sola alternativa il mercato, ossia il sistema complesso che si autogoverna. Habermas scrive con l’esplicita intenzione di salvare quanto di positivo egli ravvisa nell’esperienza della statualità moderna (lo Stato di diritto costituzionale), con un’espansione della democrazia e non con una sua rinuncia in favore dell’espansione del mercato: e ciò alla luce della convinzione habermasiana che nel concetto moderno di diritto noi ritroviamo l’idea democratica già sviluppata dai giusnaturalisti classici; detto altrimenti, in Habermas è radicata l’idea di un nesso forte tra diritto e democrazia, anche se gli autori classici (e l’autore pensa soprattutto a Rousseau e a Kant) hanno visto solo una parte del problema. A tal proposito, Luhmann e gli altri critici di Habermas dicono che egli è ancora troppo hegeliano nelle sue convinzioni, che incarnano la “vecchia Europa” della società civile statalizzata, una vecchia Europa che oggi non esiste più.
Nell’approccio comunicativo di Habermas si avverte benissimo una sorta di fluidificazione comunicativa della “volontà generale” di cui diceva Rousseau, tant’è che il concetto di “sovranità popolare” (ogni potere politico nasce dal potere comunicativo dei cittadini) resta centrale nel discorso habermasiano. Certo, Rousseau non parla di “potere comunicativo”, ma in sostanza l’idea non è così distante dalla sua prospettiva. Habermas pensa che all’inizio della modernità vi sia stata una divaricazione di due ambiti: quello morale e quello giuridico-politico, i quali si sono divaricati dalla loro comune matrice, l’eticità premoderna. Tale eticità s’è scissa con la modernità: è questa, in nuce, la teoria habermasiana della “differenziazione sociale” tra l’ambito morale e quello politico. Come è stato giustamente notato, Habermas si muove qui con categorie eminentemente hegeliane, la più lampante delle quali è quella della “bella eticità” greca che dovrebbe essere ricomposta, secondo il nostro autore, dopo la scissione verificatasi con la modernità. Da tale divaricazione sono scaturiti altri due ambiti: i diritti umani e la sovranità popolare. I diritti umani esprimono l’autodeterminazione morale degli individui, mentre la sovranità popolare esprime l’autorealizzazione etica degli individui nella comunità. L’ambito dei diritti umani è stato sviluppato da Kant, quello della sovranità popolare da Rousseau. Tutti e due questi autori, tuttavia, sono rimasti parziali nella loro delineazione del problema, cogliendone soltanto uno dei due aspetti. Dal canto suo, Habermas critica “liberali” e “comunitari” accusandoli di perseverare nell’errore commesso da Kant (i liberali) e da Rousseau (i comunitari). Si tratta di tenere saldamente insieme quei due elementi (i diritti umani e la sovranità popolare) che Kant e Rousseau prima, i liberali e i comunitari poi hanno surrettiziamente separato. A tal proposito, Habermas parla di “cooriginarietà” dell’autonomia morale-giuridica (diritti umani) e dell’autonomia della politica (sovranità popolare), tesi che trova un corrispettivo nel modo habermasiano di guardare al rapporto tra diritto e morale: Habermas è a favore della connessione del diritto con la morale, ma ciò non gli impedisce di criticare l’indistinzione delle due cose fatta valere da Ronald Dworkin. Habermas vede un rapporto di complementarietà tra diritto e morale e cerca una via intermedia tra i giuspositivisti e coloro (Dworkin in primis) che radicalizzano il nesso tra diritto e morale fino a fare del primo una sorta di morale applicata: il nostro autore cerca una posizione di equilibrio tra questi estremi e sostiene che il diritto non è una restrizione della morale, ma una integrazione funzionale della medesima. Tale approccio, evitando gli estremismi suddetti, consente a Habermas di individuare una strada alternativa e intermedia rispetto al dualismo tra “gubernaculum” e “iurisdictio”, dualismo che porta all’erosione della democrazia, erosione che preoccupa molto Habermas, il quale è diffidente nei confronti del paternalismo delle corti costituzionali. La “terza via” habermasiana rivalorizza il momento decisionale della sovranità popolare che passa attraverso la nozione di “potere comunicativo” dei cittadini: una nozione, questa, che rafforza la funzione classica del parlamento come sede di composizione delle diverse posizioni e che deve essere diffuso fino ad assediare le cittadelle del potere costituito. Dietro a questa teoria sta naturalmente la riflessione di Hannah Arendt, che molto ha insistito sull’idea di un potere non verticistico, bensì orizzontale ed esercitato da cittadini liberi ed eguali e circolante tramite la comunicazione.