IL GIUSNATURALISMO |
La nozione di “diritto naturale” resta ignota fin tanto che non si scopre il concetto di natura. L’illustre studioso tedesco della politica degli antichi, Leo Strauss, nel suo libro Diritto naturale e storia (1953) sostiene che il primo filosofo fu il primo uomo che scoprì il concetto di natura: concetto che non è così ovvio come può apparire e che è un’invenzione della cultura greca. In questa prospettiva, per Strauss, la filosofia è più antica rispetto alla filosofia politica, la quale presuppone la scoperta della natura. La natura non si identifica, banalmente, con la totalità dei fenomeni: è piuttosto una precisa porzione di fenomeni in opposizione ad altri. Nel lessico greco, c’era una forte contrapposizione tra la “natura” (fusiV) e la “legge” (nomoV) statuita convenzionalmente dagli uomini. Si può notare come spesso all’origine del potere stia il potere di definizione: infatti, “potere” non significa soltanto condizionare la volontà altrui, ma anche definire i fenomeni. Rispetto alla distinzione tra “natura” e “legge”, la cultura greca aveva primariamente inventato la nozione di “costume” (hqoV), termine che racchiude in sé l’insieme delle tradizioni ancestrali e che Max Weber ha efficacemente etichettato come “l’autorità dell’eterno ieri”. Per poter arrivare alla nozione di natura, i Greci dovettero distaccarsi da quella di “costume”, alla luce del fatto che la credenza in una tradizione è di impedimento per la nascita del diritto: a tal proposito, si tengano a mente le vicende di Socrate, la sua incessante polemica contro la tradizione e i costumi consolidati. Ed è proprio l’allontanamento dalla tradizione, accompagnato al multiculturalismo attestato dallo storico Erodoto, a far sì che l’Io si senta in diritto di opporsi al Noi, alla sfera collettiva: proprio in questa opposizione Io/Noi, vede la luce il diritto naturale, il quale non rimanda a una natura immediatamente percepita, ma presuppone piuttosto una scienza della natura e la rivolta dell’Io contro il Noi e contro le costrizioni che il Noi impone sotto forma di “tradizione”. Questa rivolta costituisce la fonte sia del diritto naturale sia del diritto convenzionale (positivo), i quali nascono a un sol parto. La distinzione tra i due tipi di diritto risulta lampante se prendiamo in esame un passo dell’Etica nicomachea di Aristotele (V, 1134 b):
“Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito”.
Introducendo questa contrapposizione, lo Stagirita afferma che il giusto in senso politico si risolve in una dimensione interna al vivere associato nella poliV: detto altrimenti, è giusto per natura, e dunque universalmente, ciò che noi riconosciamo come giusto nella poliV, mentre il diritto secondo convenzione (il diritto positivo) è quello di Atene, di Sparta, e così via. Non è difficile accorgersi di come nella posizione di Aristotele si nasconda una sorta di imperialismo culturale in forza del quale il diritto di natura, valido universalmente, scaturisca dalla forma di vita politica propria dei Greci. Si tratta di una concezione assai diversa da quella della modernità. Inoltre, per Aristotele anche il diritto naturale conserva un suo margine di adattabilità alle circostanze, cosa che a noi moderni pare stranissima: per gli antichi, infatti, il diritto naturale risiede in decisioni concrete più che in regole fisse, è cioè il frutto della “retta ragione” applicata alle singole situazioni. Per capire la lontananza della modernità da questo modello, pensiamo anche solo a Hobbes, il quale fissa il diritto naturale in leggi ben precise e universalmente valide.
La seconda tappa su cui dobbiamo soffermarci è la filosofia stoica: a differenza di Aristotele, gli Stoici riconoscono un diritto naturale che viene prima rispetto alla poliV. Secondo gli Stoici, non bisogna prendere le mosse dal recinto chiuso della poliV per poi definire il giusto, ma bisogna piuttosto guardare all’universalità delle genti, alla luce del fatto che, già prima che si costituisca la poliV, vi sono leggi valide. Si può dunque affermare che a partire dagli Stoici il “diritto naturale” (ius naturae) diviene sinonimo di “diritto delle genti” (ius gentium). Con la prospettiva stoica, inoltre, la concezione teleologica della giustizia (concezione per cui la giustizia è in funzione del vivere bene) s’accompagna all’accentuazione del momento normativo/imperativo della legge: infatti, gli Stoici prestano attenzione al “fattore volontà”, alla scelta, all’intenzione, al dovere. Va poi sottolineato che gli Stoici per primi connettono la validità del diritto positivo e la sua obbligatorietà al suo accordo con le norme del diritto naturale: per loro, infatti, il diritto della città è valido a patto che sia in accordo con le leggi di natura. Con questa universalizzazione del diritto naturale, gli Stoici compiono un passo in avanti verso l’identificazione di ius naturae e lex aeterna, aprendo un varco alle interpretazioni religiose che interverranno col Cristianesimo: in particolare, con Clemente Alessandrino, la cultura stoica perviene ad Agostino, il quale può affermare nel suo scritto Contra Faustum (XXII 27, PL 42, 418)
“Lex vero aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans”.
Nell’ottica agostiniana, la volontà divina comanda di conservare il diritto naturale e vieta di sconvolgerlo. Gli ingredienti di questa concezione sono evidentemente stoici dal primo all’ultimo (ratio, lex aeterna, voluntas, ecc). In questa maniera, si inaugura il giusnaturalismo cristiano, che in Tommaso d’Aquino giunge all’apice. Egli scrive, nella Summa Theologica (I, 2, quaestio 91):
“Legge naturale è partecipazione alla legge eterna dell’essere razionale”.
Il passaggio decisivo nello sviluppo del giusnaturalismo è dunque compiuto dal Cristianesimo, che si pone anche il problema riguardante la possibilità della deduzione di norme a partire da assiomi generali dettati dalla natura. L’assioma da cui muovono tutti i giusnaturalisti cristiani è un’affermazione troppo generica: bonum faciendum, malum vitandum. Che cosa si può infatti dedurre da questa norma così generale? Duns Scoto mette bene in evidenza come da un principio analitico come questo non si possano dedurre neppure tutti e dieci i comandamenti: la conseguenza è che, per Duns Scoto, l’obbligatorietà dei dieci comandamenti non può essere individuata nella ragione (come credono invece i giusnaturalisti più fedeli agli Stoici), ma proviene dalla volontà di Dio: dicendo che la legge naturale è legge divina come volontà di Dio si salva la coerenza del costrutto, ma si spalanca la porta ai futuri sviluppi positivistici del diritto. Sarà infatti il positivismo giuridico a sostenere che la legge è il frutto della volontà e non della natura: certo, Duns Scoto, riferendosi alla volontà di Dio, non arriva a simili conclusioni, ma resta comunque vero che le anticipa. Egli pone le basi del capovolgimento del diritto naturale in diritto positivo.
Passiamo ora al giusnaturalismo moderno: se vogliamo definirlo in termini generalissimi, possiamo dire che il giusnaturalismo è la teoria della superiorità del diritto naturale su quello positivo; mentre il positivismo giuridico è la teoria dell’esclusività del diritto positivo. Si possono distinguere tre grandi forme di giusnaturalismo: 1) per la Scolastica medievale, il diritto naturale sono i primi principi etici generalissimi, dai quali il diritto naturale procede “per conclusionem et per determinationem”: in quest’ottica, le poche norme naturali hanno per destinatari i legislatori, i quali devono determinarle in relazione alle esigenze delle singole comunità e del “bene comune” (bonum commune). 2) Il diritto naturale è l’insieme dei dettami della retta ragione che forniscono la materia della regolamentazione, mentre il diritto positivo riguarda le norme di organizzazione che ne determinano l’attuazione. Una tradizione razionalista che culmina in Immanuel Kant assegna al diritto naturale il contenuto della regola, al diritto positivo la sanzione. Nella prospettiva di Kant, in particolare, il diritto naturale è provvisorio, quello positivo è perentorio. 3) Il diritto naturale è fondamento o principio di legittimità dell’ordinamento giuridico positivo: è questo il caso particolare di Hobbes. Il contenuto della norma è determinato soltanto dal legislatore umano e tutto si riduce a una sola norma: tra uguali, bisogna mantenere le promesse; tra diseguali, bisogna obbedire ai comandi del legislatore. La norma fondamentale è “pax est quaerenda”: in vista di ciò, occorre mantenere le promesse e, dopo che s’è posto il sovrano, bisogna obbedire ai suoi comandi. Mettendo in rapporto Hobbes e Kant, Norberto Bobbio diceva che in Kant il diritto è tutto naturale fuorché nel meccanismo della coazione, mentre in Hobbes il diritto è tutto positivo, fuorché nel processo di legittimazione. Infatti, in Hobbes il diritto naturale ha la sola funzione di fondare il diritto positivo, mentre in Kant il contenuto del diritto è naturale, e il diritto diventa positivo quando si fa coattivo, ossia quando prevede sanzioni. Ciascuna di queste posizioni va incontro a obiezioni: contro la 1), il positivismo giuridico fa valere un argomento storicistico, per il quale non vi sono principi etici autoevidenti, le leggi naturali sono meramente formali e quindi possono essere riempite con qualsivoglia contenuto. Contro la 2), il positivismo giuridico afferma che ciò che fa di una regola una norma giuridica non è il suo contenuto, ma il modo della sua esecuzione. Contro la 3), il positivismo vede il fondamento non nel diritto naturale, ma nel fatto (è questo il cosiddetto “principio di effettività”): in questa prospettiva, la fonte del diritto sono i fatti storici, coi quali il diritto naturale non ha nulla a che vedere.