IL POSITIVISMO GIURIDICO


 

 

Il giusnaturalismo pare esaurirsi con la Rivoluzione francese, alle cui teorie fornisce un appoggio fondamentale. Georg Jellinek, autore di un’importante Dottrina generale dello Stato (1900), in un precedente lavoro mette in luce come le dichiarazioni dei diritti dell’uomo (e, in particolare, quella americana) avessero la loro matrice nel giusnaturalismo: la stagione di quest’ultimo, però, termina con quell’esperienza, ma non nel senso che si estingue, bensì nel senso che assume una posizione difensiva ed è portato avanti dalle chiese.

Dobbiamo ora volgere lo sguardo alla storia del positivismo giuridico, ai suoi frastagliati confini e alle sue diverse posizioni: e lo faremo in maniera “ideal-tipica”, senza smarrirci nei singoli autori o nelle specificità nazionali. Abbiamo già detto che il positivismo giuridico è una teoria monistica, che riconosce un solo diritto (quello positivo), rispetto al quale quello naturale è una morale o, nella migliore delle ipotesi, una filosofia della giustizia. Il rischio che si corre è di equivocare sull’oggetto di indagine, giacché quando si parla di positivismo giuridico si ha a che fare con tre cose differenti: 1) chi si dice giuspositivista, lo può anzitutto fare semplicemente per evidenziare il metodo con cui si accosta al fenomeno giuridico: più precisamente, il positivismo giuridico è il modo di accostarsi allo studio del diritto come fatto (reale) e non come valore (ideale). In questo senso, il giuspositivista mira a qualcosa che non è la giustizia in sé e per sé, gli interessa piuttosto il diritto com’è e non come deve essere. Egli muove dunque dalle leggi concrete, in aperta polemica con il giusnaturalismo. Al tempo stesso, per positivismo giuridico si può intendere una concezione che, almeno in apparenza, è opposta a quella che abbiamo appena delineato: il giuspositivista è colui che guarda al diritto inteso come meri fatti, cercando di restare fedele alla “avalutatività” (Wertfreiheit) della quale diceva Max Weber. Certo, Weber sapeva benissimo come, nello scegliere un campo di ricerca, lo studioso operi comunque scelte di valore, attribuendo importanza a certi fatti culturali e trascurandone altri: ma, ciò non di meno, lo studioso dev’essere “ascetico”, ossia deve tentare di non cedere all’attrazione esercitata dai valori. Anche il giuspositivista assume dei valori, benché miri all’avalutatività: di solito, il principale valor che egli assume è quello dell’ordine. Sicché, dietro al positivismo giuridico, si nasconde sempre un’ideologia, una qualche credenza in precisi valori (che possono essere l’ordine, la pace, la certezza del diritto, la giustizia legale, e così via). 2) Il giuspositivista muove dalla convinzione che il diritto positivo, per il fatto che è emanazione di una volontà ordinatrice, sia per ciò stesso giusto: non è necessario essere anarchici per subodorare come dietro questa posizione vi sia una ben precisa ideologia, quella del mantenimento dell’ordine vigente e dello status quo. Il giurista romano Ulpiano asseriva che il diritto naturale ha a che vedere con l’istinto di autoconservazione di uomini e animali: se vale ciò, allora – notano i giuspositivisti – il diritto naturale non è se non il diritto del più forte, ossia diritto del pesce più grande di mangiare quello più piccolo. E alla luce di questa accezione “larga” di giusnaturalismo, teorizzata da Ulpiano ma già presente presso i Greci, è nato un filone giusnaturalista conservatore (il sofista Trasimaco, Tucidide, Machiavelli), che legittima pienamente le disuguaglianze sociali; ma il giusnaturalismo avrà anche un filone rivoluzionario. Constatando ciò, il giuspositivista Hans Kelsen dirà che, in definitiva, il giusnaturalismo è un’ideologia buona per tutte le cause, dal liberalismo al socialismo, il che ben adombra come si tratti di una concezione impregnata di valori. Tuttavia, possiamo notare che anche il positivismo giuridico può fare (e spesso fa) riferimento ai valori: con la differenza che, rispetto al giusnaturalismo e alla sua bivalenza (può essere, ed è stato, tanto rivoluzionario quanto conservatore), il positivismo giuridico è tendenzialmente conservatore e amico dello status quo. Ciò non significa che tutti i giuspositivisti siano conservatori: vi sono, infatti, anche critici della tradizione, benché non vi possano in alcun caso essere giuspositivisti rivoluzionari e anarchici, alla luce del fatto che per il positivismo giuridico è il potere la fonte del diritto. Kelsen stesso era un positivista democratico e liberal-socialista, e fu l’inventore della prima carta costituzionale europea: egli era, per così dire, un giurista “di sinistra”, osteggiato senza tregua da Carl Schmitt. E non è un caso che Kelsen erediti il positivismo giuridico nella prima delle due accezioni che abbiamo delineato, intendendolo cioè come studio di fatti condotto avalutativamente.

Queste due concezioni del positivismo giuridico sembrano escludersi a vicenda: ma non è in esse che dev’essere rintracciato il vero nucleo del positivismo. Tale nucleo, infatti, risiede nel fatto che 3) il positivismo giuridico è una teoria del diritto che afferma l’esclusività del diritto positivo in relazione al carattere specifico che questo ha e che è il carattere della coattività. Più specificamente, si tratta di una teoria “statalistica” del diritto, la quale connette tra loro il diritto e lo Stato: e ciò già ci spiega perché una compiuta teoria del diritto positivo non l’abbiano avuta né i Greci, né i Romani, né i Medievali, i quali non conobbero lo Stato, che si forma a partire dal XIV secolo d.C. e giunge all’apice nel XIX secolo. Questa teoria poggia su molteplici presupposti: a lungo, nella storia delle società antiche, il diritto era un’attività di tipo giudiziario; era cioè il detentore del potere a emettere sentenze, risolvendo i casi conflittuali. Egli non di rado agiva in base al proprio arbitrio, che era certamente temperato dalla tradizione ma che non di meno comportava sempre un ampio margine di discrezionalità. La teoria del diritto in senso moderno nasce quando sorge uno Stato che formalizza le sentenze, sottraendole alla discrezionalità dell’arbitrio dell’individuo: con lo Stato, viene a formalizzarsi un complesso di regole che dà vita al diritto e che non presentano lacune né conflitti di norme. Esaminiamo ora i caratteri fondamentali del diritto, al cui nucleo sta la coattività: il diritto è un ordinamento coattivo, è cioè un sistema di norme fatte valere con la forza. Su questo punto, Kelsen è chiarissimo: nel suo scritto Diritto come specifica tecnica sociale (1941), egli dice che il diritto è un “ordinamento coercitivo che monopolizza l’uso della forza”. Non tutti gli ordinamenti sociali sono coercitivi: essi possono indurre certi comportamenti, ma senza prospettare le sanzioni coercitive. Pensiamo alla disapprovazione sociale o alle sanzioni religiose, le quali mancano di coercitività. Kelsen rileva (e in ciò affiora la sua avalutatività) che “la forza è impiegata per impedire l’impiego della forza”: si cerca cioè di minimizzare l’impiego della forza nella società, e il diritto stesso è organizzazione della forza. In ciò risiede la sua coattività. Per quel che riguarda la definizione della norma, il positivismo giuridico adotta la cosiddetta “teoria imperativistica”: le norme giuridiche non sono dettami della retta ragione sui quali si può discutere, sono piuttosto comandi a cui si deve obbedire. Il terzo carattere distintivo del positivismo giuridico riguarda le fonti del diritto: è teorizzata la supremazia della legge, la quale è una norma generale e astratta alla quale si fa ricorso per dirimere le controversie. Non si tratta di un diritto “giurisprudenziale”: anzi, è un procedimento rigido in forza del quale il giudice, che è “la bocca della legge” (Montesquieu), si limita ad applicare la legge. Al giorno d’oggi le cose sono un po’ cambiate, si è avuto un addolcimento del diritto, che s’è fatto più flessibile rispetto ai tempi dei positivisti classici: significativamente, Gustavo Zagrebelsky ha parlato di “diritto mite”. Per quel che riguarda l’ordinamento normativo, il positivismo giuridico ritiene che esso sia un sistema e dunque pretende la completezza dell’ordinamento, rendendolo privo di discrezionalità, di lacune, di antinomie. Per poter definire il positivismo giuridico, occorre anche fare riferimento al metodo della scienza giuridica e della giurisprudenza: la considerazione dell’attività del giurista (piano teorico) e del giudice (piano pratico) come attività essenzialmente logica (“logica ermeneutica” se si interpreta; “logica dogmatica”, se si effettuano deduzioni).

Tutto ciò può realizzarsi (e storicamente s’è realizzato) nello Stato moderno, in cui si attua quella monopolizzazione del potere e della forza che permette il venir meno del pluralismo giuridico che caratterizzava le epoche anteriori all’affermarsi dello Stato: epoche nelle quali v’era pluralità delle fonti, delle organizzazioni, delle coazioni (pensiamo al pater familias romano e alle corporazioni medievali).   

 

 


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