UNO SGUARDO SUL NOVECENTO |
Sul finire dell’Ottocento e nei primissimi anni del Novecento, nasce la “sociologia del diritto” grazie ai contributi di Eugen Ehrlick e di Max Weber. Di qui prendono le mosse gli autori che dominano il dibattito sul diritto nel Novecento: in particolare, Hans Kelsen, fondatore della “dottrina pura del diritto”, con la quale si raggiunge la massima formalizzazione, e Carl Schmitt.
Nel secondo dopoguerra, il dibattito si allarga a nuove esperienze teoriche che vanno al di là delle due categorie del giusnaturalismo e del positivismo giuridico. Per venire a capo del dibattito novecentesco, occorre partire dal fatto che, fin dai primi anni del “secolo breve”, a molti giuristi appare in atto un indelebile processo di crisi del positivismo giuridico: una crisi che noi oggi siamo soliti riferire più agli eventi bellici e in particolare a episodi come Auschwitz o i Gulag.
Si inizia a dire che il positivismo comporta un indebito dominio della voluntas sulla ratio e che in fondo, nell’Ottocento, il positivismo era figlio del giusnaturalismo, come già affiorava dal pensiero seicentesco di Hobbes. La connessione tra voluntas e ratio non s’era sciolta anche grazie a certe filosofie della storia particolarmente ottimistiche, ad avviso delle quali la civilizzazione giuridica avrebbe tradotto in diritto positivo ciò che prima era soltanto un cumulo di leggi morali dettate dalla natura. Sempre nell’Ottocento, il positivismo giuridico diventa ideologia di stabilizzazione delle acquisizioni della Rivoluzione francese, la quale si era mossa in un’ottica giusnaturalistica (si pensi alla “Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo”) e aveva fatto esperienza dei propri esiti tragici (il Terrore giacobino) e delle conseguenze (la Restaurazione). Nel corso dell’Ottocento, si tenta di stabilizzare il cambiamento, conservandolo tramite la messa al riparo dagli esiti nefasti. Questa coniugazione del positivismo con l’eredità del giusnaturalismo viene meno nei primi anni del Novecento, quando appare evidente l’insanabile conflitto tra ratio e voluntas e il cambiamento di natura da parte della legge. Gli autori del Novecento cominciano a distinguere tra “legge in senso materiale” e “legge in senso formale”: la prima manifesta ancora la sua matrice giusnaturalistica ed è la legge positiva intesa come ratio che esprime interessi diffusi nella società. La legge in senso materiale è la risposta che la società grazie al suo governo fornisce alle domande in essa presenti, in un forte legame tra società e governo. La legge in senso formale è invece la legge la cui generalità ed astrazione può relativizzarsi: essa si dice “formale” perché è il prodotto dell’organo istituzionalmente predisposto ad emanare leggi. La conseguenza è che, in una società nella quale sia presente la divisione dei poteri, leggi sono tutte quelle che vengono emanate dall’organo legislativo. E le società moderne producono una quantità ingente di leggi, dando vita a una vera e propria “inflazione” del diritto: a tal punto che non più tutte le decisioni dei parlamenti si chiamano “leggi”, ma cominciano a chiamarsi “disposizioni”, “decreti”, e così via. E ciò anche alla luce del fatto che già nell’Ottocento nascono i partiti politici, i quali diventano sempre più attori centrali della vita politica: essi veicolano interessi particolari (di una classe, di un gruppo, ecc) e pertanto le leggi che essi emanano quando sono al potere sono esse stesse figlie di quegli interessi particolari, con la conseguenza che la legge perde il suo carattere di universalità che l’aveva sempre contraddistinta.
Uno dei principali testi per il ripensamento critico del positivismo giuridico nel Novecento è I tre tipi di pensiero giuridico di Carl Schmitt: questo autore, di fede cattolica, condivide, almeno in parte, le tragiche vicende politiche di Heidegger, aderendo anch’egli al nazismo, che cerca di legittimare col suo pensiero. Ma il succitato testo, che pure esce nel 1934 è il frutto di ricerche condotte anteriormente, ai tempi della Repubblica di Weimar. Nell’opera, Schmitt chiarisce come siano tre le possibili concezioni del diritto: esso può infatti essere inteso 1) come regola (cioè come norma), 2) come decisione, 3) come ordinamento concreto (cioè come istituzione). Schmitt rileva come la regola è sempre astratta, la decisione si ha invece in caso di conflitto concreto, e l’istituzione è la struttura istituzionale e tradizionale. Il teorico del diritto come decisione è Carl Schmitt stesso, che nella sua celebre Teologia politica parla espressamente di “decisionismo”.
Nella nostra analisi, partiamo dal diritto come istituzione: all’inizio del Novecento, proprio in polemica con le “vecchie” scuole del giusnaturalismo e del positivismo giuridico, Maurice Hauriou e Santi Romano (autore de L’ordinamento giuridico, del 1918) elaborano, per strade autonome, una concezione del diritto opposta a quella normativistica propria sia della tradizione giusnaturalistica sia di quella giuspositivistica.
A integrazione della dicotomia giusnaturalismo/giuspositivismo, va detto che il disagio teorico sollevato dal concetto di diritto naturale è avvertito dagli intellettuali tedeschi già all’inizio dell’Ottocento: alla Rivoluzione francese essi reagirono con cauto entusiasmo (Kant), spesso con diffidenza; e tutti mutarono radicalmente giudizio dopo che si attuarono le invasioni napoleoniche col loro imperialismo culturale: si pensi al vecchio Fichte che infiamma gli animi tenendo discorsi patriottici. In particolare, in quegli anni si avvertiva che uscire dal giusnaturalismo, che aveva portato alla Rivoluzione francese e ai suoi abusi, non voleva dire buttare a mare tutta la tradizione giusnaturalistica per precipitare in un vuoto formalismo meccanico e astratto: pensiamo a Hegel che sostiene che la costituzione, lungi dal nascere da un giorno all’altro, è figlia del Volkgeist; e pensiamo anche a Savigny, attento studioso del diritto romano, che polemizza senza sosta contro il meccanicismo individualista dei Francesi, opponendo ad essi una concezione del diritto inteso come figlio di una tradizione nazionale, come un qualcosa di organicistico. E dietro alla teoria del diritto come istituzione sta esattamente questa tradizione “storicista” del diritto nota col nome di “storicismo giuridico”, una nuova categoria che deve essere affiancata a quella di giusnaturalismo e di positivismo giuridico. Nel suo saggio, Santi Romano esordisce trattando con sufficienza il modo di intendere il diritto come “regola di condotta”, ossia come nozione astratta e meccanica, come se il diritto fosse una macchina: a suo avviso, occorre invece partire dal tutto (e non dalle singole parti), in una prospettiva olistica che richiama quella aristotelica. “Per istituzione noi intendiamo ogni ente o corpo sociale”, scrive Santi Romano: tale ente o corpo sociale deve avere esistenza “obiettiva e concreta”, deve essere visibile, “manifestazione della natura sociale e non solamente individuale dell’uomo”. Così intesa, l’istituzione è un collettivo che però assume la forma di un individuo radicato nel suo tempo: è una “unità ferma e permanente”, figlia di uno spirito del popolo che concresce nel tempo e nella tradizione. Ben si avvertono lo storicismo e l’organicismo che stanno sullo sfondo di questa concezione. Anche Schmitt elabora una teoria del diritto come istituzione: è la sua famosa teoria del “nòmos”, basata sull’idea che il diritto abbia a che fare coi processi sociali fondamentali. In questa sua teoria, Schmitt – supportato dagli studi di Giambattista Vico – muove dal verbo greco nemein (da cui deriva nomoV), verbo polisemantico che significa (con straordinaria somiglianza al tedesco nehmen) prendere, occupare, condurre al pascolo, distribuire il bottino. E pertanto il “nòmos” ha a che fare col diritto come ciò che dà misura al prendere, all’occupare, al distribuire, al coltivare: non a caso, Schmitt sostiene che in origine il diritto erano le pietre che demarcavano i confini dei campi.
Tuttavia, quando scrive I tre tipi di pensiero giuridico, Schmitt non è ancora pervenuto a questa concezione, ma ha già teorizzato il diritto come decisione: egli scopre che la volontà che pone il diritto si configura come decisione; quest’ultima è intesa come l’atto in base al quale dal nulla ordinativo (dal caos, dalla confusione, dall’anomia) nasce un ordine. L’idea di Schmitt è che dal nulla iniziale si generi, con la decisione, un ordine giuridico stabile. Dunque, a monte delle norme dell’ordinamento giuridico, sta una decisione concreta, un potere che vuole; o, se vogliamo, un “potere costituente”, come dicevano gli attori della Rivoluzione francese per contrapporre tale potere ai “poteri costituiti” (legislativo, esecutivo, giudiziario). Schmitt nota acutamente come in una prospettiva decisionista si riescano a tenere insieme il diritto e la politica, giacché nella decisione originaria costituente l’ordine giuridico i due livelli, della politica e del diritto, combaciano perfettamente.
Schmitt mette bene in luce come questi tre tipi di pensiero giuridico (il diritto come istituzione, il diritto come norma e il diritto come decisionismo) siano tipi originari, i primi che il giurista incontra sulla sua strada: questi deve scegliere quale sia quello decisivo. Rispetto a questi tre tipi, le due grandi famiglie del giusnaturalismo e del giuspositivismo sono per Schmitt conglomerati alquanto spuri: egli, infatti, è convinto che tale dicotomia, centralissima nell’Ottocento, sia una combinazione di tipi diversi di pensiero giuridico, una combinazione che crea confusione anziché chiarire le cose. Per un verso, il giusnaturalismo è caratterizzato da una commistione della teoria del diritto come istituzione e del diritto come norma, con qualche infiltrazione decisionistica; sul versante opposto, il positivismo è una combinazione di decisionismo e di normativismo.
Schmitt vede in Hobbes il precursore del decisionismo, scorgendo già nel filosofo inglese la commistione di cui s’è detto. Il giuspositivismo ottocentesco era anch’esso una commistione di questo genere: l’idea della centralità dello Stato sovrano rimanda sicuramente al decisionismo, ma poi col passare degli anni il positivismo ha perso forza politica e limpidezza di profilo, smarrendo la componente decisionista e formalizzandosi sempre più, mascherando i veri contenuti della realtà. Di lì è nato quel formalismo che è il normativismo, del tutto privo della componente decisionistica, e che è stato ampiamente criticato dagli autori novecenteschi. Com’è noto, nel suo scritto L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Max Weber sosteneva che il capitalismo, nato grazie alla particolare etica lavorativa e religiosa dei Protestanti, aveva poi finito per svuotarsi del contenuto etico/religioso per diventare una “gabbia d’acciaio”: su questa scia, Schmitt sostiene che il positivismo, in origine, aveva un’anima decisionista mirante a produrre la “normalità” dello Stato, ma col volgere degli anni è rimasta soltanto la macchina astratta delle norme, senza contenuti e senza che si sappia da dove esse effettivamente derivino. Ed è soprattutto Hans Kelsen ad assumere un punto di vista normativistico: quand’egli si domanda che cosa stia al vertice della piramide composta dalle norme, risponde che è la Grundnorm, ossia la “norma fondamentale”, un’ipotesi fittizia finalizzata a chiudere il sistema, che altrimenti resterebbe aperto. Non stupisce che Schmitt si accanisca contro questa concezione fittizia dell’ordinamento giuridico, tipica dei normativisti, i quali compendiano nel loro pensiero il declino del positivismo giuridico.
Il normativismo è l’ideologia di uno Stato sempre più invasivo, che permea con le sue norme tutta la società, ma che lo fa negando se stesso, la sua volontà: esso, infatti, si imbriglia nelle norme che ha posto e deve poi sottostare ad esse. Schmitt spiega che il cosiddetto “Stato di diritto” che sta alla base della teoria giuspositivistica non è altro che la negazione di tutto ciò che di politico c’è nello Stato, con la conseguenza che non si sa più dove sia la sovranità (posto che ci sia ancora). Schmitt insiste molto sul fatto che non si può comprendere il giusnaturalismo se non si postula l’esistenza di un ordine giuridico sociale: infatti, l’esistenza di un “giusto secondo natura” è sempre l’ipostatizzazione di un ordine sociale di tipo istituzionale. Già nel pensiero cristiano è implicita la possibilità del decisionismo sulla base dell’analogia tra la volontà del sovrano e quella di Dio: come diceva Tertulliano, bisogna agire in un determinato modo non perché è buono o bello, bensì perché è Dio stesso a comandarcelo. L’approdo al decisionismo è però negato, in queste prospettive, dalla mancanza dell’idea di un caos totale dal quale si possa costruire un ordine, idea che invece è saldamente presente in Hobbes e nella sua concezione dello “Stato di natura”.
Analogamente, Schmitt mostra la traslazione dal decisionismo al normativismo: inizialmente, il legislatore sovrano emanava le leggi, le quali andarono poi sempre più acquisendo una valenza metacongiunturale, pretendendo universalità temporale e spaziale; in questa maniera, esse finiscono per imbrigliare lo stesso legislatore che le ha promulgate con la sua decisione. Dalla decisione originaria si passa dunque alla norma, alla quale è assoggettato lo stesso legislatore che l’ha posta. Schmitt rimprovera al positivismo che, con questo slittamento dalla decisione alla norma, lo “Stato di legalità”, ossia quello incentrato sulle leggi, prende il posto di quello che tradizionalmente si chiamava “Stato di diritto”, il quale garantiva i diritti dei gruppi ed era incentrato sull’idea di giustizia. La nozione di “Stato di diritto” ha una lunga storia alle spalle: in ambito giusnaturalistico, si riferisce a uno Stato in cui il diritto disciplina il potere al fine di realizzare la giustizia (e, in ciò, coincideva con lo “Stato di giustizia”: pensiamo all’ancien régime); per Schmitt lo “Stato di diritto” è al giorno d’oggi non lo “Stato di giustizia” dei giusnaturalisti, bensì lo “Stato di legalità” dei giuspositivisti (che sono figli della borghesia) che si limita a mantenere la stabilità, la sicurezza e la prevedibilità concreta delle norme e non considera che col volgere degli anni, mutato il contesto, le norme restano invariate e possono diventare inique. Schmitt verrà maturando la convinzione che il nazismo sia la coniugazione perfetta di decisionismo e di diritto come istituzione, nella misura in cui è il singolo uomo (Hitler) a prendere le decisioni e, insieme, v’è un ordinamento corporativo che ha la forma di un organismo che azzera in conflitti all’interno di una rete istituzionale molto complessa (al contrario, la teoria normativistica, che è antiorganicista, come appare evidente in Kelsen, riconosce la funzione positiva del conflitto). Nel concetto di “Stato di giustizia” si colloca allora lo “Stato etico” delineato da Hegel e poi riproposto da Giovanni Gentile come ideologia di riferimento del fascismo; invece, lo “Stato di legalità” è a favore della neutralità dello Stato. Curiosamente, Schmitt tenta anche di fare apparire Hegel come esponente della teoria del diritto come istituzione: il che è anche vero, a patto che si ricordi che Hegel era più liberale di quanto non lo si è voluto far sembrare e a patto che non si carichi la teoria del diritto come istituzione di significati ideologici, come per l’appunto fa Schmitt. Egli sostiene anche che il normativismo è una degenerazione del diritto provocata dall’infiltrarsi in Europa della cultura ebraica, alla quale allude quando parla di popoli che “esistono solo nella legge” senza avere uno Stato (lo Stato di Israele non c’era ancora).
Schmitt è in fondo convinto che la teoria del diritto come norma non sia davvero originaria, come invece sono il decisionismo e la teoria del diritto come istituzione, tra i quali il filosofo del diritto tedesco oscillò per tutta la vita. Del resto, come abbiamo visto, il normativismo implica già l’esistenza di norme poste in essere da un’autorità. Abbiamo già anche accennato a come, per Schmitt, il punto di forza del decisionismo risieda nell’essere il momento di congiuntura tra l’elemento giuridico e quello politico, tra la volontà che pone ordine al caos e la ragione giuridica che conferisce una forma a tale ordine. Quest’ultimo è il prodotto di un’energia che mette ordine e che poi si cristallizza in una forma, secondo un’idea che sarà ripresa anche da Walter Benjamin nel suo scritto sulla violenza e nel Dramma barocco tedesco. L’esempio classico del decisionismo che Schmitt adduce è quello di Hobbes, autore nel quale il passaggio dal caos all’ordine è lampante, e vi è una teorizzazione della sovranità, di quella nozione centrale nella dottrina moderna dello Stato da Jean Bodin in avanti. La nozione di sovranità è cardinale per il decisionismo, giacché nulla più di essa mette in luce il carattere originario del decisionismo. Nel suo celebre scritto Teologia politica (1922), Schmitt dà una definizione di sovranità destinata a godere di grande fortuna: “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. In quest’ottica, la sovranità non è soltanto la summa potestas che si esercita in condizioni normali, ma è un potere originario, è il momento nel quale si rivela la vera origine del potere. Nello stato d’eccezione, vale a dire nel conflitto (in caso di minaccia dall’esterno o in caso di guerra civile all’interno dello Stato), quando cioè si prospetta la minaccia di sopravvivenza per il collettivo, diventa possibile identificare chi è il sovrano, colui il quale decide sullo stato di eccezione. Egli identifica i soggetti che connotano tale stato di eccezione e prende posizione a favore dell’uno e contro l’altro: in altri termini, egli sceglie chi è amico e chi è nemico. Infatti, a partire dal saggio su Il concetto del politico (1928), Schmitt è convinto che l’essenza del politico – in netta polemica col positivismo giuridico, per il quale il politico è definito in base al concetto di Stato, poi a sua volta definito in base al concetto di politico, in un circolo vizioso perverso – stia nella possibilità di distinguere tra chi è amico e chi è nemico. Lo Stato organizza gli amici e li attrezza per affrontare la minaccia proveniente dai nemici: ben si capisce, allora, come sovrano sia chi decide su chi è amico e chi è nemico. Tutte le decisioni politiche avvengono in questa maniera: la decisione come tipo originario fonda sempre un ordine a partire da una minaccia che ha una valenza intrinsecamente politica (certo, vi sono anche decisioni che non hanno immediata valenza politica, come nel caso del giudice che decide nel tribunale). La decisione del sovrano avviene sempre in uno stato di eccezione: e Schmitt rileva come il normativismo alla Kelsen funzioni soltanto là dove c’è già una normalità dei rapporti e il conflitto è stato risolto; infatti, non è la norma a creare la normalità, ma, piuttosto, è la normalità a rendere possibile l’attuarsi della norma. La normalità è prodotta dalla decisione sovrana, che instaura l’ordine: e, a sua volta, la decisione presuppone un’organizzazione concreta di potere, un’istituzione. Per Schmitt, la costituzione non è un mero insieme di leggi costituzionali, che necessitano di un ordine sovrano per diventare attive. Anche sul piano dell’arena internazionale, regnano le decisioni, le quali sono decisioni di guerra, giacché si decide sempre su chi è amico e chi è nemico.