IL NORMATIVISMO DI KELSEN


 

 

Si tratta ora di affrontare il normativismo giuridico attraverso l’esame della “dottrina pura del diritto” elaborata da Hans Kelsen. In questo autore è lampante il passaggio, all’interno del positivismo giuridico, dall’iniziale decisionismo al normativismo, ossia alla sempre più marcata formalizzazione della legge. Kelsen compie una sorta di parricidio nei confronti di Georg Jellinek, ad avviso del quale si può considerare lo Stato da un punto di vista giuridico come mero ordinamento e da un punto di vista sociologico come gruppo di potere, in un dualismo che Kelsen riprende e sviluppa in modo diverso. Secondo Kelsen, infatti, ci si deve occupare dell’ordinamento giuridico come sistema di norme: e, secondo una terminologia kantiana piuttosto in voga all’epoca, Kelsen (che è influenzato soprattutto da Hermann Cohen) dice che occorre porre al centro della propria indagine l’“essere” (sein) e non il “dover essere” (sollen) del quale si occupa la sociologia. Il nucleo della “dottrina pura del diritto” (reine Rechtslehre) è per l’appunto l’analisi del sistema giuridico come ordinamento di norme: e l’espressione “dottrina pura” dev’essere intesa nel senso di dottrina non ideologica, priva di presupposi morali e valoriali, in un evidente richiamo all’avalutatività weberiana. L’oggetto della scienza del diritto è tale per la natura specifica delle norme e non perché si prescrivano modelli o fini da seguire. Come Kelsen spiega nei Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934) e nella successiva Teoria generale delle norme (rimasta incompiuta), il diritto è l’ordinamento giuridico, il quale a sua volta è un sistema di norme: che cosa fonda l’unità della molteplicità delle norme del sistema? Come vengono gerarchizzate? La risposta kelseniana è che l’unità è garantita dalla “norma fondamentale” (Grundnorm), ossia quando la validità è riconducibile a un’unica norma fondamentale che conferisce unità alla pluralità delle norme. L’attenzione di Kelsen si sofferma sul problema della validità e, in parte, dell’efficacia, trascurando però il problema della giustizia (che non a caso rimanda alla sfera dei valori e delle ideologie). Fedele fino in fondo alla sua teoria, Kelsen, quando fu allontanato dall’Università in quanto ebreo e dovette emigrare, sostenne sempre con coerenza che lo Stato nazista era uno “Stato di diritto” poiché v’era un ordinamento giuridico valido ed efficace.

Kelsen distingue tra diversi tipi di sistemi normativi: in particolare, tra “sistema morale” e “sistema del diritto”. La differenza tra le norme morali e quelle giuridiche sta nel fatto che le prime sono valide in forza del loro contenuto, il quale ha qualità immediatamente evidente che dà loro validità, mentre le seconde sono valide non per via del loro contenuto, in quanto qualsiasi contenuto può essere oggetto di diritto. Le norme giuridiche, allora, sono valide perché si sono presentate secondo un metodo specifico: in questa prospettiva, il diritto vale soltanto come diritto posto, nella sua assoluta indipendenza da norme morali. Esattamente in ciò risiede la positività del diritto, il quale è posto autonomamente rispetto alle norme morali, in antitesi col giusnaturalismo. Dunque, la “norma fondamentale”, lungi dall’essere una norma morale, è essa stessa una norma giuridica: secondo la definizione di Kelsen, essa è “la regola fondamentale per la quale sono prodotte le norme dell’ordinamento giuridico”; essa è il punto di partenza di un procedimento e ha un carattere “dinamico-formale”. È esattamente da questa caratterizzazione kelseniana della “norma fondamentale” che derivano le teorie procedurali della democrazia formulate nel Novecento: lo stesso Norberto Bobbio prende le mosse da Kelsen ed elabora una teoria procedurale della democrazia, quest’ultima intesa come sistema di governo nel quale vigono “regole del gioco” che tutti sono tenuti a rispettare.

Nell’ottica kelseniana, la “norma fondamentale” non è qualcosa da cui si possano dedurre le singole norme dell’ordinamento, come se si trattasse di un sillogismo: Kelsen dice esplicitamente che la posizione delle norme ha sempre in sé qualcosa di innovativo a qualsiasi livello della piramide normativa ci si ponga. La posizione delle norme è un atto non di pensiero, bensì di volontà: e ciò vale anche e non di meno per la “norma fondamentale”. In particolare, vale come norma tutto ciò che l’organo costituente pone come propria volontà: e nei Lineamenti di dottrina pura del diritto Kelsen dice che “la coazione deve essere posta nella condizione e nel modo determinato dal primo costituente o dagli organi da lui delegati” e che questa è la “norma fondamentale” (negli scritti successivi rinuncerà a definirla). Kelsen insiste molto sulla coattività, in virtù della quale il diritto è forza organizzata. Egli ammette che la “norma fondamentale” ha solo un fondamento ipotetico, rivelando in ciò l’influenza della filosofia del “come se” elaborata da Hans Vaihinger. Afferma inoltre che se tutte le norme sono poste, la “norma fondamentale” è presupposta come atto di volontà. Muovendosi lungo questo crinale, Kelsen deve affrontare il problema dell’efficacia delle norme, che non possono dirsi valide se non hanno una qualche efficacia nella realtà: si tratta di un crinale pericoloso, perché il decisionismo è sempre in agguato, tant’è che nel Novecento il decisionismo e il normativismo sono fratelli nemici. Il rischio di questa ricaduta nel decisionismo appare evidente quando Kelsen, nella Teoria generale delle norme, dice che “non c’è nessun imperativo senza un imperator”: con tale affermazione, egli sembra accostarsi al pensiero di Carl Schmitt, il quale però pensa la decisione a partire dallo “stato d’eccezione” e cerca di tenere insieme diritto e politica (cosa che Kelsen si guarda bene dal fare).

Sulla base dell’esposizione del pensiero kelseniano, possiamo ora svolgere qualche considerazione sul rapporto tra validità, efficacia e giustizia: il vero problema è quello della giustizia, da sempre centrale nella riflessione giuridica. Per “giustizia” dobbiamo qui intendere la corrispondenza delle norme a valori ultimi, sia che li si intenda come assoluti, sia che li si intenda come relativi. Passando dal piano deontologico della giustizia a quello storico/sociologico dell’efficacia, possiamo dire che una norma è “efficace” quando è seguita dalle persone alle quali è indirizzata. L’ultimo problema è quello della “validità”, vale a dire dell’esistenza della norma in quanto tale una volta accertato che l’autorità che l’ha emanata avesse il potere legittimo per farlo, che quella norma non sia stata abrogata e che essa non risulti incompatibile con altre norme dell’ordinamento (in questo caso si ha quella che i giuristi chiamano “abrogazione tacita”). Se incrociati, i tre criteri della giustizia, dell’efficacia e della validità producono sei diversi casi:


1)     Una norma giusta ma non valida: ad esempio, una norma di diritto naturale, che è giusta ma non è posta da chi ha le competenze per farlo.

2)      Una norma valida ma non giusta: ad esempio, la schiavitù negli Stati Uniti d’America o l’Apartheid in Sudafrica.

3)     Una norma valida ma non efficace: ad esempio, le norme antiproibizionistiche, la cui inefficacia finisce col tempo per incrinare la loro validità.

4)     Una norma efficace ma non valida: ad esempio, le norme non giuridiche (quelle morali, religiose, ecc).

5)     Una norma giusta ma non efficace: ad esempio, le norme giusnaturalistiche.

6)     Una norma efficace ma non giusta: negli ordinamenti repressivi è diffusissimo che la paura della sanzione porti a rispettare una norma che si sa ingiusta.         

 

 


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