IL REALISMO GIURIDICO |
Toccheremo ora un settore del pensiero giuridico di cui non ci siamo finora occupati e che ha grande rilevanza nel pensiero contemporaneo: il realismo giuridico. Di fronte alla crisi congiunta del giusnaturalismo e del positivismo giuridico, precipitato in un vuoto formalismo, abbiamo assistito al generarsi di quelle nuove prospettive (il diritto come decisione, come istituzione, come norma) lucidamente colte da Carl Schmitt. Accanto ad esse, v’è un’altra grande famiglia giuridica, il realismo giuridico: questa dizione s’è imposta a partire dagli anni Trenta del Novecento. Il realismo giuridico deve essere posto in connessione col sorgere della giurisprudenza sociologica e dell’affermarsi della già nata sociologia del diritto. In origine, coi suoi fondatori (Auguste Comte e Herbert Spencer) la sociologia non s’era molto interessata del diritto: come si ricorderà, nel quadro della filosofia della storia positivistica, la fase “critica” (che viene dopo quella religiosa e prima di quella industriale) è quella dei metafisici e dei giuristi, pensatori grazie ai quali scoppia la Rivoluzione francese (infatti, tanto i giuristi quanto i metafisici criticano il pregiudizio, l’impostura, la società divisa in ceti e le sue iniquità). La “fase critica”, in definitiva, era intesa dai sociologi positivisti come categoria dell’intelletto astratto, una categoria utile alla scomposizione della società più che alla sua composizione. Sul finire dell’Ottocento, muta radicalmente l’atteggiamento e il diritto comincia ad essere inteso come elemento di stabilizzazione, di cambiamento disciplinato (e non rivoluzionario) della società, di composizione della medesima. È esattamente in questa prospettiva che vede la luce la sociologia del diritto, sollecitata da interessi socio-politici: essa ha come sua prerogativa l’interessarsi al diritto non nella forma della sua validità, bensì nella forma della sua efficacia. Infatti, la sociologia del diritto affronta il fenomeno giuridico come fatto sociale e non nella sua normatività e coattività. In questa nuova stagione di pensiero nascono opere interessanti, come Comunità e società (1887) di Ferdinand Tönnies, il quale dà molto peso al diritto, e gli scritti di Eugen Ehrlich e di Max Weber; quest’ultimo dedica una sezione di Economia e società alla sociologia del diritto, inserendola nella più ampia problematica riguardante i motivi per i quali si siano prodotti sistemi giuridici formali e razionali in Occidente e non altrove (altrove regnano infatti la giustizia “materiale” e le decisioni discrezionali). L’indagine porta Weber a distinguere tra “sistemi continentali” di derivazione romanistica e “sistemi inglesi”, nei quali si sviluppa un diritto che non è statutario, ma è giudiziario, cioè tale per cui il giudice ha un ruolo protagonistico. La concezione anglosassone del “rule of law” deriva in buona parte da quella degli Antichi, i quali distinguevano tra il “governo delle leggi” e il “governo degli uomini”: Platone optava per la seconda forma, convinto che l’uomo regio potesse essere un miglior governante rispetto a quello che semplicemente si affida all’astrattezza delle leggi, poiché al giusto legale va aggiunta l’equità; dal canto suo, Aristotele opta per la prima forma – il governo delle leggi – perché in fondo le leggi sono molti uomini, come una testa che ha tanti occhi e che per ciò vede meglio rispetto al singolo governante. L’intera tradizione occidentale oscilla tra queste due posizioni: ed è da qui che, in Francia e in Germania, nasce l’idea dello “Stato di diritto”; espressione che gli Inglesi compendiano in “rule of law”, nel quale sono assai intrecciati il governo delle leggi e quello degli uomini distinti dagli Antichi. Nell’Europa moderna degli “Stati assolutisti” l’esperienza della statualità porta a identificare il governo degli uomini col governo tirannico, con la conseguenza che quando si parla di “Stato di diritto” ci si riferisce al “governo delle leggi”. Ma per gli Inglesi e, soprattutto, per gli Americani, i quali non hanno conosciuto il fenomeno dello “Stato assolutista”, il “rule of law” indica insieme il governo delle leggi e quello degli uomini. Così, negli anni ’30 dell’Ottocento, Tocqueville nel suo scritto La democrazia in America si dice sorpreso dal ruolo centrale che in America giocano i giudici, ossia dal potere giudiziario nella vita politica. Secondo gli insegnamenti di Montesquieu, infatti, il potere giudiziario è “nullo”, nel senso che non è un potere politico, dato che il giudice (che è la “bocca della legge”) deve semplicemente applicare le leggi promulgate dal monarca. Com’è noto, Lo spirito delle leggi di Montesquieu si regge sulla tripartizione tra la repubblica (la cui molla è la virtù), il dispotismo (la cui molla è la paura) e la monarchia (la cui molla è l’onore). Ancora oggi, del resto, ci si proclama spesso scandalizzati quando i giudici partecipano eccessivamente alla vita politica e lo si fa richiamandosi indebitamente a Montesquieu, il quale aveva sì detto che il potere giudiziario è nullo, ma lo aveva detto in riferimento alla monarchia e non certo alla democrazia. Se oggi si vuole criticare l’intromissione dei giudici nella vita politica è più opportuno richiamarsi a Tocqueville, il quale si dichiara stupito nel vedere il grande peso del potere politico dei giudici. È inevitabile che in una democrazia costituzionale i giudici siano custodi della costituzione: la corte suprema è l’emblema di ciò. Il “rule of law” della tradizione anglosassone si sostanzia dell’idea del “governo delle leggi” ma anche di quella del “governo degli uomini”, nella misura in cui i custodi delle leggi sono uomini in carne e ossa (i giudici). Quello che abbiamo finora tracciato è il quadro entro il quale si sviluppa il realismo giuridico: e dobbiamo subito precisare che quest’ultimo ha poco a che fare col “realismo politico” (inaugurato da Tucidide), col quale ha in comune soltanto l’appello enfatico al “principio realtà”, con un’esplicita polemica verso un orientamento che troppo spazio concede alle finzioni e ai concetti astratti e chimerici. Ai giuristi realisti interessa il diritto nella sua componente fattuale: come al realismo politico non interessano i governi quali dovrebbero essere, ma quali sono, così al realismo giuridico non interessano le norme come dovrebbero essere, ma come sono. Ciò, in concreto, significa studiare l’efficacia delle norme: e parlare di efficacia vuol dire porre l’accento su un aspetto esterno del fenomeno giuridico, ossia sul fatto che ci siano la regolarità dell’osservanza delle norme e il sanzionamento dell’inosservanza. Così, una norma può essere molto efficace in quanto molto osservata, a tal punto che non è necessario il sanzionamento dell’inosservanza: ma possono esserci norme poco osservate proprio perché manca il sanzionamento dell’inosservanza. Un caso paradigmatico di bassa efficacia della norma è stato quello del “finanziamento ai partiti” nell’Italia degli anni ’80, a causa della mancanza del sanzionamento concreto: quando si risvegliò l’attenzione della magistratura e il sanzionamento divenne attivo, ecco allora che la norma diventò immediatamente efficace.
Oltre all’aspetto “esterno” dell’efficacia, coincidente con l’osservanza della norma, v’è un aspetto “interno”: esso riguarda la motivazione all’osservanza, ossia che cosa concretamente spinga un soggetto a rispettare la norma e che cosa spinga un giudice a far sanzionare l’inosservanza della medesima. Questo aspetto è stato largamente affrontato sul finire dell’Ottocento, anche grazie all’introduzione del concetto di riconoscimento: è stato detto che la motivazione all’osservanza della norma è stato infatti individuato in un processo di riconoscimento (o interiorizzazione) della norma stessa.
Il realismo giuridico (“Legal realism”) si sviluppa eminentemente in area americana già a partire dalla fine dell’Ottocento: in particolare, un riferimento imprescindibile è Roscoe Pound (1870-1964), benché egli non impieghi ancora l’espressione “realismo giuridico”. Egli distingue tra “law in action” e “law in books”: la prima corrisponde al diritto in azione, ossia al diritto come fatto, contrapposto a quello astratto delle dotte trattazioni (appunto, il diritto nei libri, “law in books”). Pound articola bene un fenomeno americano assai diffuso a quel tempo: la “rivolta” contro il formalismo giuspositivistico, rivolta che negli Stati Uniti trova un ambiente particolarmente accogliente anche grazie al “pragmatismo” di James e di Dewey.
Alle posizioni di Roscoe fa eco Oliver Wendell Holmes (1841-1935), il quale in una ricca serie di scritti ha reso popolare l’idea secondo la quale è inutile cercare una sofisticata definizione del diritto: secondo Holmes, diritto sono “le predizioni di ciò che i tribunali faranno”; come è stato detto, si tratta di una definizione che si pone dal punto di vista degli avvocati.
Nell’opera Diritto e mente moderna, Jerome Frank (1889-1957) radicalizza la posizione di Holmes asserendo che il diritto c’è solo dopo le decisioni delle corti; prima che tali decisioni vengano prese, ci sono soltanto congetture e filosofie (nel senso deteriore del termine). Questo per Frank significa anche che si può prevedere ben poco delle future decisioni delle corti (in opposizione a quanto credeva Homes), giacché sono troppi i fattori contingenti che possono decidere sulla produzione del diritto.
Col realismo giuridico ci troviamo dinanzi a una concezione giudiziaria del diritto che si pone da punto di vista di quella che è stata detta “litigation society” (la “società delle controversie”): i realisti giuridici hanno chiaramente visto una tendenza che si è concretizzata, nella misura in cui oggi il diritto è giudiziario ben più di quanto non lo fosse in tempi passati. In questi autori americani, è fortissima la polemica contro il “mito” della certezza del diritto, mito che era fondante per la coscienza giuridica europea tradizionale. Hermann Kantoröwicz (1877-1940) ha acutamente messo in luce come il realismo giuridico abbia a che fare con insiemi di fatti e come per esso la giurisprudenza sia scienza non razionale, bensì empirica.
Nel nord-Europa s’è sviluppata la cosiddetta “Scuola scandinava”, con sede a Uppsala in Norvegia: tra i suoi protagonisti, ricordiamo Axel Hägerström (1868-1939), Knut Olivecrona (1817-1905) e Alf Ross (1899-1979); dietro la “Scuola scandinava” non sta il pragmatismo americano, bensì il neopositivismo logico e la filosofia analitica.