LO STATO COSTITUZIONALE DEI DIRITTI


 

 

Ci soffermeremo ora ulteriormente sul mutamento di natura a cui è andato incontro il positivismo giuridico nel Novecento: in particolare, il problema è capire come il dibattito teorico contemporaneo sia condizionato da un passaggio storico fondamentale, la transizione dallo “Stato di diritto” di tipo liberale allo “Stato costituzionale dei diritti”. Una buona ricostruzione di questi problemi è quella fornita da Gustavo Zagrebelsky ne Il diritto mite (1992), opera che si configura come una sintesi felice delle trasformazioni strutturali dell’universo giuridico nel Novecento. È soprattutto alla luce del testo di Zagrebelsky che concentreremo ora l’attenzione sulla dicotomia tra lo Stato di diritto e lo Stato costituzionale dei diritti. Il primo è l’altra faccia di ciò che è stato detto lo “Stato potenza”: infatti, lo “Stato di diritto” è il tentativo di sottomettere lo Stato al diritto, ma ciò avviene sul versante interno e non su quello esterno, poiché il diritto internazionale riguarda Stati che vedono nella guerra l’extrema ratio per risolvere le controversie. Tutt’al più, sul versante esterno dello Stato si può arrivare a una limitazione delle conflittualità grazie al diritto internazionale, con l’introduzione di regole riguardanti le modalità di svolgimento del conflitto (il cosiddetto jus belli): regole che tuttavia vengono spesso aggirate o svuotate di senso. Esse peraltro non hanno coattività, giacché manca un giudice che garantisca che vengano rispettate. Questa unità tra lo “Stato di diritto” e lo “Stato potenza” è ottimamente compendiata da Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, quando afferma, contro Kant, che non v’è alcun pretore nell’arena internazionale. Hegel dice anche che il diritto è un qualcosa di sacro: ed è in questa sacralizzazione del diritto e del potere che dev’essere ravvisato l’obiettivo polemico di Kelsen quando attacca la moralizzazione del diritto. Nella prospettiva dello “Stato di diritto”, lo Stato è inteso come il produttore del diritto, il quale è a disposizione dello Stato e dunque è eteronomo.

Lo “Stato costituzionale dei diritti” è invece uno Stato in cui la dimensione dello “Stato potenza” è neutralizzata: in anni recenti, s’è a lungo parlato di “Unione europea” (unione che, in un certo senso, è uno “Stato costituzionale dei diritti”), definita come “potenza civile”, a sottolineare come essa non sia uno “Stato potenza”: il potere (economico) che la connota è propriamente un potere civile che non ha nulla a che fare con la potenza intesa nel senso della dottrina dello Stato sovrano. Inoltre, nello “Stato costituzionale dei diritti” il diritto precede la statualità, ossia gode di un’autonomia relativa: così Luigi Ferrajoli dice espressamente che l’elemento del potere come potenza è del tutto superato e i diritti sono prioritari, con la conseguenza che le istituzioni pubbliche sono istituzioni di garanzia dei diritti fondamentali. In questa concezione, non ci sono valori assoluti, ma solo relativi: come spiega Zagrebelsky, ha carattere assoluto soltanto un “metavalore” che si esprime in due imperativi: a) mantenimento del pluralismo dei valori; b) confronto leale dei valori.

Il punto problematico è che cosa si debba intendere per “confronto leale”: l’intera teoria del discorso di Jürgen Habermas tenta di rispondere a questo quesito. Il libro di Zagrebelsky è programmaticamente intitolato Il diritto mite: per la tradizione giuspositivistica, il diritto non può essere mite, giacché esso è organizzazione della coercizione, cosicché quella di Zagrebelsky è una vera e propria dichiarazione di guerra a Kelsen. E nella misura in cui nel “diritto mite” si verifica una contaminazione tra diritto e morale, si verifica con ciò stesso anche una contaminazione tra diritto e politica: e su quest’ultimo punto non c’è conflitto con Kelsen, rispetto al quale Zagrebelsky abbandona il positivismo giuridico e ridefinisce il diritto in modo per lui più coerente rispetto alla democrazia. Si può dunque dire che Zagrebelsky rifiuti il positivismo di Kelsen ma ne accetti la teoria della democrazia: e dunque è sottintesa un’accusa di incoerenza a Kelsen, a cui si rimprovera di essere ancora troppo legato al vetero-positivismo. Si tratta allora di trovare una teoria che non separi così rigidamente politica, morale e diritto, nella convinzione che il diritto debba essere permeato da valori. Alla luce di questa considerazione si spiega il “diritto mite”, che è tale perché composto da leggi, da diritti e da principi di giustizia: e non a caso Leggi, diritti e giustizia è il sottotitolo dell’opera di Zagrebelsky. Come abbiamo accennato, il bersaglio polemico è il positivismo classico, la teoria dello “Stato di diritto” come Stato legislativo in cui centrale è la legge. Lo “Stato di diritto”, infatti, ha a che fare con una concezione rigorosamente legata al presupposto della coattività del diritto, che non può essere in alcun caso “diritto mite”. Invece, nella prospettiva dello “Stato costituzionale dei diritti” lo Stato è costituzionale e la costituzione fa da sistema di unificazione di una società pluralistica, unificazione che avviene non solo tramite la legge, ma anche tramite diritti e principi di giustizia materiale. E nei diritti e nei principi di giustizia v’è un’evidente radice giusnaturalistica, mentre nelle leggi il richiamo è al positivismo. Zagrebelsky dice che nello Stato contemporaneo s’è verificata una “polverizzazione” del diritto legislativo: le leggi un tempo erano generali e astratte, mentre ora sono nate le “leggi provvedimento” e le “leggi retroattive”. Le leggi sono il frutto di un lungo “tira e molla” di contrattazioni tra le persone rispetto alle quali lo Stato assume la funzione di tutore, in una sorta di “mercato delle leggi”. La costituzione deve poi integrare tra loro le leggi, i diritti e i principi. In questa delimitazione rispetto all’orizzonte positivistico, Zagrebelsky si oppone a Kelsen e dice che alla scientia juris avalutativa si sostituisce la juris prudentia, dove la prudenza (che non è scienza) dev’essere intesa quasi nel senso aristotelico del termine. Significativamente, in Legalità e legittimità (1931) Carl Schmitt propone una serie di Stati colti nell’evoluzione europea: tra la fine del Medioevo e l’inizio della modernità si ha lo “Stato giurisdizionale”, il cui baricentro è l’esercizio della giustizia; con lo Stato moderno-sovrano nasce lo “Stato governativo”, il cui baricentro è la funzione esecutiva. Successivamente, si ha lo “Stato legislativo”, che è lo “Stato di diritto” di cui abbiamo già detto: il suo baricentro è il parlamento, l’organo che produce le leggi. Allo “Stato di diritto” è subentrato lo “Stato amministrativo”, il cui baricentro è la burocrazia. Schmitt si fermava qui, ma noi possiamo aggiungere lo “Stato costituzionale dei diritti”, il cui baricentro è la costituzione come organo di integrazione della dinamica complessa di una società pluralistica.

Occorre chiedersi se oggi il nostro concetto di costituzione risponda ancora a tale compito di integrazione: è questo uno dei grandi temi odierni. Vi sono autori che professano un costituzionalismo estremo (tra questi ricordiamo il già citato Ferrajoli) e autori che si chiedono se la costituzione sia ancora in grado di svolgere tale mansione di integrazione.                

 

 


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