Diritti Umani: quale futuro? Storia e prospettive di un concetto

 

Di Cesare Sposetti

 

 

1. Premesse generali: la nostra costituzione

 

Con questa breve relazione tenterò di approfondire il discussissimo tema dei cosiddetti Diritti Umani in un’ottica un po’ diversa dalle solite. Tralasciando infatti il pur importante discorso sulla tutela giuridica degli stessi, proviamo a porre il nostro sguardo sul fondamento stesso del problema, sui pilastri su cui si regge. Sempre meno oggi si discute sul dubbio radicale Perché i Diritti Umani? o meglio ancora Cosa sono i Diritti Umani? Li si da normalmente per scontati, quasi fossero dei postulati da cui per forza di cose non ci è dato prescindere in quanto uomini occidentali[1], perdendo così l’originale valore (e con esso il significato stesso) del concetto. Sintomatiche di quest’ottica (più diffusa di quanto si possa pensare) sono anche recenti sentenze della nostra Corte Costituzionale[2], che rimandano ai c. d. principi supremi dell‘ordinamento costituzionale, considerati assolutamente inderogabili ed immodificabili in quanto connaturati al carattere democratico dell’ordinamento stesso: sicuramente vera l’osservazione che non spetta al giudice costituzionale giustificare l’inderogabilità dei principi fondamentali, e tuttavia non si può fare a meno di notare che il ragionamento su cui vorrebbe basarsi tale immodificabilità, argomentato in particolare ex art. 2[3] ed ex art. 139[4] Cost, risulta piuttosto debole, in quanto sostanzialmente imperniato tuttora su considerazioni formalistiche: posta infatti la rilevanza dei diritti umani in base al disposto dell’art. 2, si pone il problema di come garantire una loro intangibilità, anche da parte del legislatore costituente. Fra i vari argomenti a favore dell’immodificabilità dei principi fondamentali e della prima parte della nostra carta costituzionale (dedicata ai Diritti e doveri dei cittadini), il più diffuso risulta sicuramente quello basato sul già citato art. 139. Infatti si ritiene che la Costituzione, laddove sancisce l’impossibilità che la forma repubblicana possa andare soggetta a revisione costituzionale, sancisca l’immodificabilità della stessa struttura democratica del nostro stato, intendendo con tale espressione l’intera impalcatura di diritti sanciti nella parte prima. Con ciò il problema sembrerebbe risolto, con la massima tutela dei diritti che lato sensu potremmo definire “umani”ivi). Ma siamo veramente sicuri che ciò sia sufficiente? Se un giorno, neanche troppo prossimo, la maggioranza dei cittadini si esprimesse a favore di una compressione di questi diritti[5], ed il Parlamento decidesse di valersi della procedura stabilita dall’art. 138 per modificare dapprima il 139, e quindi le disposizioni interessate, su che basi si potrebbe respingere una tesi del genere[6], che ha certo il sapore dell’artifizio retorico, ma che logicamente potrebbe apparire ineccepibile, se vogliamo continuare a ritenere che il legislatore possa ergersi ancora a “costituente”? La scienza giuridica sostanzialmente elude la questione, ritenendo più corretta la tesi dell’esaurimento del potere costituente[7]: chiusi i lavori dell’Assemblea Costituente con l’entrata in vigore della carta costituzionale il primo gennaio 1948, il legislatore (nonché il popolo che lo elegge) avrebbe perso qualunque potere di influire sul testo costituzionale, o meglio sui soli principi fondamentali (non si pone infatti problema, e la cronaca recente ce lo dimostra, per quanto riguarda la modificabilità della parte seconda sull’ “Ordinamento della Repubblica”), espressione in cui, è da notare, non sono ricompresi solamente i diritti elencati nel testo normativo, ma altri ad essi affini, individuati dalle sentenze della Corte Costituzionale[8]. Le finalità di questa tesi sono sicuramente meritorie e degne di attenzione, volta com’è a porre un freno all’arbitrio del legislatore (e, perché no, anche del popolo..), ma ci si chiede quale efficacia possa avere in concreto, e come possa trovare posto una così forte tutela di quelli che sarebbero i valori sostanziali dell’ordinamento nell’ambito di una teoria tutta formale e formalistica delle fonti. Non per nulla tutta la contraddittorietà di tale tesi emerge evidente in quanto scrive Zagrebelsky ne Il sistema delle fonti: se dal punto di vista dell’ordinamento legale rimane salda l’immodificabilità, “Tutto è invece possibile nel senso del fatto normativo extra ordinem[9]. Traducendo atecnicamente, tutto è possibile nell’ambito della realtà fattuale: bella scoperta! Per legge non si può, ma con la forza sì: grande verità innanzi alla quale si scioglie come neve al sole ogni opposizione all’arbitrio legislativo. Non si può pretendere infatti (si dice) che una costituzione viga con i suoi principi per sempre: prima o poi verrà meno, e verrà meno per un fatto in qualche modo esterno ad essa, extra ordinem, la cui effettività non ci è dato in alcun modo mettere in ombra[10]. Ben labile tutela quella che si basa su astratti teoremi legali: l’attuale stato della tutela dei diritti umani nel mondo insegna, con le altisonanti Dichiarazioni universali dei diritti che vengono sistematicamente violate ogni giorno in molti paesi del globo senza che gli strumenti pattizi, nonché le organizzazioni internazionali a tal uopo istituite possano agire concretamente a difesa della dignità dell’uomo, bloccati da cavilli giuridici e dallo strapotere di alcuni stati all’interno della comunità internazionale.

Questi sono i problemi, in estrema sintesi: non potremo certo esaurire qui la trattazione sul tema, ma possiamo comunque tentare di abbozzare dialetticamente una soluzione per dare un futuro alla categoria stessa dei diritti umani, fin troppo insidiata da ragionamenti quali quelli appena esposti. Dopo aver brevissimamente percorso la storia del nostro concetto, analizzeremo più da vicino i problemi autenticamente filosofici, prima che giuridici, legati ad esso, ed alla fine, consci certo dei nostri limiti, ma non meno determinati nel nostro proposito, vedremo quali possibili rimedi e da quale nuova prospettiva potremo partire ai fini dell’edificazione di una più solida e fondata teoria dei diritti umani. 

 

 

2. Breve storia

 

Posto che il discorso sui c. d. diritti umani risulta di origine piuttosto recente, per lo meno nel senso in cui oggi viene affrontato, ciò non toglie che le profonde problematiche che da esso sorgono accompagnino l’uomo fin dalle origini della sua esperienza. Le radici di un riconoscimento dei diritti umani possono essere fatte risalire già all’antichità, sicuramente nell’ambito della riflessione filosofica classica, nel pensiero di Aristotele e degli Stoici[11], ma qualche spunto in tema può essere individuato persino nella tragedia: pensiamo in particolare al celeberrimo dialogo fra Antigone e Creonte nella tragedia Antigone di Sofocle (V secolo a. C.)[12]. Intendiamoci, non si pretende qui di trasporre una categoria indubbiamente moderna (nonché contemporanea) nell’ambito del pensiero antico, ma solo notare, appunto, le basi, da dove in concreto ha preso le mosse questa fondamentale riflessione. Addirittura si è voluta scoprire una primordiale tutela giuridica dei diritti dell’uomo nel c. d. cilindro di Ciro (custodito presso il British Museum, ma una copia è conservata anche presso la sede delle Nazioni Unite a New York), documento risalente all’epoca dell’imperatore persiano Ciro il Grande (VI secolo a. C.), che contiene, fra le altre cose, anche un primo riconoscimento della libertà religiosa, nonché l’abolizione della schiavitù.

Riguardo alla tematica del diritto naturale (che vogliamo ritenere connessa al tema dei diritti umani, nonostante le numerose e pesanti critiche mosse in età contemporanea a tale concetto), è importante richiamare di sfuggita l’esperienza giuridica romana, ed in particolare l’importanza che rivestivano nel diritto romano arcaico i mores (si potrebbe tradurre con il termine “consuetudini“, ma il significato per i latini era indiscutibilmente più pregnante), i quali venivano considerati vigenti non in virtù di una volontà divina che ne sancisse la validità, o perché diritto della ragione, ma semplicemente in quanto espressione dell’ordine naturale delle cose, della naturalis ratio sottesa nella struttura dei rapporti umani[13], quella stessa che fa sì che alcuni di questi transitino nell’ambito della regolamentazione giuridica ed altri ne rimangano invece naturalmente esclusi.

La riflessione sul nostro tema ha invece conosciuto un certo sviluppo nell’ambito del pensiero cristiano, dalla patristica fino alle sue più compiute elaborazioni nel pensiero medievale. Non si può in questo caso non fare riferimento in particolare alla riflessione di san Tommaso d’Aquino, in particolare sul concetto di Ius, considerato come oggetto della iustitia[14], quale rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose. Ius è sempre qualcosa che sta al di fuori della volontà, che si basa sull’effettivo ordinamento delle cose. In questa ottica Tommaso si muove anche per definire il concetto di Lex, che ripartisce in aeterna (proveniente direttamente da Dio quale Supremo Legislatore, rimane essenzialmente un mistero, e la si può cogliere solo nei suoi effetti), naturalis (che rappresenta, per così dire, il volto umano della legge eterna. È la lex in cordibus hominum scripta, che l’uomo ha in sé quale riflesso della propria condizione di essere creato, che appunto non può non partecipare in qualche modo della natura del proprio Creatore[15]) ed humana (la lex in civitate posita, il diritto posto dal legislatore, la “legge” nel senso più moderno del termine, che avrebbe come fine primario la tranquillità temporale dello stato e che per l’Aquinate non potrebbe che essere in armonia con la legge naturale, essendo pur sempre prodotto dell’attività razionale dell’uomo volta alla realizzazione del bene comune). Della visione cristiana era profondamente intriso anche il pensiero giuridico medievale[16].

Una vera svolta si ebbe in epoca moderna con il filone di pensiero filosofico-giuridico che si suole denominare giusnaturalistico. Basterà qui fare i nomi di Ugo Grozio[17], degli inglesi Thomas Hobbes e John Locke, dei tedeschi Samuel Pufendorf, Christian Thomasius, Gottfried Wilhelm Leibniz e Christian Wolff, dei francesi Jean Domat e Robert Joseph Pothier, tutti vissuti fra il XVII ed il XVIII secolo. I giusnaturalisti procedettero per la via già indicata dai pensatori medievali, individuando nel c. d. diritto naturale null’altro che un diritto conforme alla ragione[18] e alle tendenze socievoli dell’uomo, ma allo stesso tempo se ne distaccarono profondamente nel depurare il loro ragionamento da qualsiasi valenza teologica, ragionando, secondo l’espressione di Grozio entrata ormai nella storia, etsi Deum daremus non esse. Nel clima secolarizzante della rivoluzione scientifica, preceduto dal Rinascimento (che conobbe un forte sviluppo anche in ambito giuridico, soprattutto fuori dall’Italia), anche nella riflessione giuridica si volle rifiutare ogni principio di autorità che comprimesse la libera esplicazione del proprio intelletto: il rifiuto passò sicuramente nella contestazione radicale delle auctoritates del tempo (in primis il Corpus iuris nella sua versione medievale), e dunque anche della pesante influenza esercitata dalla Verità proclamata dalla chiesa cattolica. O meglio, non venne il più delle volte da parte di questi giuristi e filosofi contestata l’autorità della chiesa in sé, quanto rivendicata una maggior libertà di movimento e di riflessione per lo scienziato (nel senso più lato del termine), il cui compito è quello di indagare la realtà, non quello di “tentare le essenze”[19]. Il primo portato di questa concezione in ambito giuridico fu quello della completa laicizzazione del diritto, visto ormai, appunto, esclusivamente come prodotto della ragione[20]. Ma il giusnaturalismo non si risolve in questo. Fondamentali sono infatti le conclusioni cui giungono partendo da queste premesse i pensatori sopra citati: in breve, l’uomo si considera titolare di un certo numero di diritti innati; si ipotizza[21] un originario stato di natura, variamente dipinto, talora quale bellum omnium contra omnes (l’homo hominis lupus di hobbesiana memoria), talora quale età dell’oro, in cui gli uomini vivevano pacificamente ed in armonia seguendo la propria naturale socievolezza, stato di natura cui gli uomini individualmente deciderebbero di porre fine entrando in società, attraverso il più tipico strumento privatistico di manifestazione della propria volontà: il contratto (di qui l’espressione contrattualismo). Mediante tale contratto gli uomini rinunzierebbero, a seconda delle diverse teorie, a tutte o ad alcune libertà proprie dello stato di natura per affidarle a un sovrano, individuale o collettivo[22], in modo definitivo ovvero subordinato alla condizione che rispetti, appunto, i diritti naturali dell’individuo[23]. Ma c’è un’altra importante conseguenza, che solo a prima vista può apparire contraddittoria: se da una parte si afferma che l’uomo è naturalmente titolare di una serie di diritti fondamentali, dall’altra si ribadisce, per la prima volta in modo così netto, che il potere legislativo non può che appartenere al sovrano, in virtù del potere conferitogli con il contratto sociale. Di qui nascono i presupposti del positivismo giuridico che avrebbe caratterizzato la scienza giuridica fino ai giorni nostri, strenuamente aggrappato all’idea (pienamente consacrata a partire dalla Rivoluzione Francese) dell’esclusiva provenienza statuale di qualsiasi statuizione giuridica[24]. Fu proprio a partire dalla Rivoluzione Francese e dall’esperienza napoleonica, che imposero in tutta Europa l’abbandono dell’ormai vetusto sistema del Diritto comune sopra illustrato sostituendovi un sistema interamente imperniato sulle fonti legali di provenienza statuale[25].

Una menzione a parte merita l’esperienza anglosassone, specialmente riguardo al tema dei diritti umani, che solo apparentemente è stato messo in secondo piano dagli ultimi ragionamenti[26]: fu la Rivoluzione Americana, che, come sappiamo, ebbe uno sviluppo assai diverso da quella Francese[27], che sulla scia della riflessione di Locke sancì l’anteriorità dei diritti fondamentali rispetto ad ogni potere positivo (nota Baldassarre che tale visuale sarebbe stata fatta propria anche dal nostro costituente con l’art. 2 della carta costituzionale). Tale consapevolezza del resto in Inghilterra traspare ben chiara da dichiarazioni quali la Petition of Rights del 1628 ed il Bill of Rights del 1689, ma in embrione anche nella celebre Magna Charta libertatum del 1215: caratteristica di queste carte era il fatto che non le si ritenesse dichiarazioni costitutive di diritti nuovi, ma semplicemente ricognitive di diritti già esistenti[28]. Questa esperienza sarebbe stata poi introdotta nelle colonie americane, ed avrebbe profondamente influenzato la stesura della Costituzione statunitense, nonché di numerose “Dichiarazioni dei diritti” emanate da vari stati nord-americani.

Con il periodo rivoluzionario si esaurì in Europa la spinta verso la definizione dei diritti dell’uomo: nel XIX secolo la loro affermazione ricomparirà assai attenuata in alcuni articoli delle costituzioni “ottriate” (si pensi in particolare allo Statuto Albertino del 1848, costituzione breve che confina la trattazione dei diritti fondamentali in pochi e generici articoli).

Per ritrovare un’analoga spinta nell’elaborazione dei diritti umani bisognerà aspettare il secondo dopoguerra, quando sulla scia dei disastri lasciati dal conflitto e dalle spaventose derive di violenza ed aberrazioni giuridiche[29] che lo caratterizzarono, si ebbe un grande risveglio della riflessione sui diritti fondamentali, testimoniato dalla formulazione delle attuali Dichiarazioni dei diritti, in primis la già citata Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948[30]. Tuttavia non si può con ciò ritenere che siano stati risolti tutti i problemi riguardo al rapporto fra principi fondamentali che si suppongono immodificabili e potestà del legislatore. Questo problema è stato accennato nelle premesse, e sarà ora meglio trattato nella parte più strettamente filosofica del nostro discorso.       

 

 

3. I problemi del fondamento

 

Potremmo cominciare a discutere sull’importante tema del fondamento dei diritti umani riportando le linee generali del dibattito fra un giurista ed un filosofo[31], Natalino Irti ed Emanuele Severino. Irti parte da una prospettiva radicalmente positivista, che richiama tra l’altro l’opinione della grande maggioranza degli studiosi di diritto positivo: per diritto non può che intendersi quello in civitate positum. Ogni altro tentativo di individuare un fondamento che sia diverso dal mero volere, una sua giustificazione (in primis quella giusnaturalista), non può che risultare vano, oltre che essenzialmente errato. Per Irti insomma non si può che dare ragione alle riflessioni di giuristi quali Hans Kelsen (esponente di spicco del sopra citato normativismo, celebre per la sua dottrina pura del diritto) e Carl Schmitt, che finiscono per risolvere la validità del diritto nella volontà della sua posizione. Secondo il nostro giurista: “Declinati i fondamenti, il diritto positivo si è ripiegato per intero nelle procedure, che come vuoti recipienti sono capaci di raccogliere qualsiasi contenuto[32]. La validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento”. Più avanti: “La norma ha una validità procedurale, e non una verità di contenuto. Non veritas sed auctoritas facit legem”. Irti insomma parte, si potrebbe dire, da una visione pessimistica riguardo alle capacità intellettive dell’uomo: dato che gli è precluso individuare il fondamento assoluto della validità delle norme, egli si dovrebbe accontentare di un diritto meramente procedurale, da lui appositamente creato, disinteressandosi completamente di cosa questi nomodotti[33] vengano alla fine a contenere. Il contenuto, se pure indagabile, non interesserebbe il giurista. Si noti, qualsiasi contenuto: l’affermazione, per quanto condivisibile fino ad un certo punto, presenta una radicalità tale da risultare inquietante, specie rivolgendo la mente ad alcune esperienze di un passato ancora troppo poco lontano. Le conseguenze sull’intera teorica degli stessi diritti umani sono ben intuibili, e tra l’altro ben esposte da un altro grande giurista, Norberto Bobbio, in un suo famoso testo[34]: “Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico, ma politico”. Se si osserva bene, l’idea di fondo è la stessa: dato che sarebbe impossibile individuare un fondamento assoluto, compito del giurista non può che essere quello di prendere semplicemente atto dell’esistente, dell’attuale ordine politico. Ma qual è l’attuale ordine politico se non quello imposto dal potente di turno? Tanto Pagallo quanto Gentile riportano un’emblematica risposta di Kelsen a chi, nonostante tutto, voglia tentare di indagare cosa stia dietro il diritto positivo: “Chi cerca ancora una risposta troverà – temo – non la verità assoluta di una metafisica né la giustizia assoluta di un diritto naturale. Chi alza quel velo senza chiudere gli occhi si vede fissare dallo sguardo sbarrato della testa di Gorgone del potere”. Il potere, insomma, il diritto del più forte, altra risposta non vi sarebbe. Ed in ogni caso non potrebbe interessare il giurista, ridotto così (sempre per usare un’espressione di Gentile) a mero enzima del potere. Il diritto dunque, per riprendere le critiche mosse da Paolo Grossi[35], diventa primo termine di una semplice equazione con legge (dunque prodotto della volontà, come dice Irti)[36], in radicale contraddizione con tutta l’esperienza giuridica dei secoli precedenti, che ha sempre considerato il diritto anteriore alla legge. Del resto questa radicale debolezza del pensiero umano non è fino in fondo condivisa dai filosofi: così Emanuele Severino, che approva in buona parte il discorso di Irti e lo porta alle sue estreme conseguenze, non teme di rivelare ciò che il giurista ipocritamente rifiuta di rivelare, ovvero la vera sostanza della Grundnorm (espressione tipicamente kelseniana) posta alla base del sistema delle fonti. Secondo il filosofo, questa consisterebbe nell’imperativo dell’indefinito sviluppo della tecnica, dell’ “agire assumendo come forma dell’agire la volontà di accrescere all’infinito la potenza della tecnica”. A questa osservazione Irti non sa rispondere se non criticando Severino di indulgere così in un giustecnicismo surrogato dell’antico giusnaturalismo. Seguendo fedelmente le orme di Kelsen, per il giurista la Grundnorm non può avere alcun contenuto: è semplicemente pre-supposta alla costruzione di un sistema di rappresentazioni convenzionali di norme (dunque un ordine virtuale che per il medio del contratto sociale non farebbe altro che mascherare il reale disordine dello stato di natura), ovvero, se proprio bisogna cercarne un contenuto, lo si può individuare nel “senso del dovere”[37] (ed è chiaro che questa non è una risposta: su cosa si baserebbe tale supposto senso del dovere? Con un’affermazione del genere Kelsen non può che contraddire se stesso, in quanto tale impulso interno dovrebbe trovare un fondamento che vada al di là del semplice piano dell’astratta purezza formale del suo sistema). In ciò insomma sta l’aporia del normativismo: nell’impossibilità di conciliare l’astratta (e convenzionale) purezza del sistema con il reale condizionamento posto dal potere e, in generale, dal caos del primordiale e sempre incombente stato di natura. Solo apparentemente meno problematica è la tesi proposta dai giuristi c. d. istituzionalisti, ed innanzitutto Santi Romano, che nella sua celeberrima opera L’ordinamento giuridico (1918) contesta l’idea che il diritto promani esclusivamente dalla volontà del legislatore (idea come abbiamo visto ampiamente diffusasi a partire dalla fine del XVIII secolo, e cui del resto nel 1960 si sarebbe ispirato Kelsen per la redazione della sua altrettanto celebre opera Reine Rechtslehre), ed afferma che “Il diritto non può essere soltanto la norma posta dall’organizzazione sociale, come spesso si dice, ma è l’organizzazione sociale, che fra le altre sue manifestazioni pone anche la norma”. Ancora, “la legge non è mai, come comunemente si crede, il cominciamento del diritto. […] Il legislatore non è il creatore del diritto nel senso pieno ed assoluto della parola, cioè il primo creatore […]”. Tuttavia, nonostante le promettenti premesse, Romano giunge ad affermare che le norme giuridiche non sarebbero altro che una manifestazione con cui si farebbe valere il potere di un supposto “io sociale”. Come afferma più avanti il giurista, il potere del io sociale è il diritto stesso: insomma si giungerebbe ad un’identificazione fra diritto e potere ancora più radicale di quella prospettata dai normativisti, che per lo meno coprono la tirannia della forza con la foglia di fico della coerenza formale. In ciò consta dunque, in breve, la seconda aporia, quella dell’istituzionalismo.

Riguardo allo specifico tema dei diritti inviolabili, alla luce di quanto si è detto fino adesso, può essere interessante come Baldassarre, analizzando le diverse teorie sul loro fondamento, individui due tendenze fondamentali, una rivolta più verso concezioni giusnaturalistiche e l’altra imperniata su presupposti positivistici. Riguardo alla prima, distingue fra teorie basate su diritti naturali di origine trascendente, diritti naturali di carattere trascendentale (intendendo con questi i diritti che “rientrano in principi che sono il prodotto delle facoltà raziocinanti dell’uomo o, più precisamente, in principi che, rappresentando le condizioni razionali per un’ordinata e libera convivenza civile, sono logicamente antecedenti rispetto ad ogni ordinamento positivo e persino a ogni singolo uomo”), diritti naturali come valori “a priori” materiali (storici) o etico-sociali (concezione che mette in risalto la persona); riguardo alla seconda si distingue in teorie basate su diritti fondamentali incardinati in particolari norme internazionali/sovranazionali, diritti inviolabili come condizioni prime della libertà positiva e della democrazia (concezione diffusa specialmente negli Stati Uniti: in base ad essa tali diritti potrebbero essere dedotti dalle norme costituzionali dirette a riconoscere una forma di stato riconducibile al concetto di democrazia pluralistica), diritti come implicazioni assiomatiche della libertà negativa o dell’indipendenza naturale dell’individuo (a differenza della precedente, tale teoria pone al centro l’individuo).

Uno solo, finalmente, è l’interrogativo fondamentale, per i diritti umani e per il diritto nel suo complesso: com’è possibile sottrarre il fenomeno giuridico dalla mera logica del fatto compiuto? O, più radicalmente, com’è possibile disfarsi di una vera e propria petizione di principio, quale quella  dell’impossibilità dell’uomo di darsi altro regolamento che non sia quello della forza, del dis-ordine che connoterebbe, tanto nel passato quanto nel presente e nel futuro, lo stato di natura dell’uomo? A queste importanti (e non certo facili) domande cercheremo di dare risposta nel prossimo paragrafo.  

 

4. Prospettive e proposte

 

Come “salvare” i diritti umani? Come abbiamo visto fino adesso, l’impalcatura su cui s’è edificata e si regge la tutela di quelli che dovrebbero essere i principi cardine di ogni ordinamento subisce quotidianamente pericolosi scossoni, e ciò perché se n’è voluta fare una categoria formale, un contenitore vuoto, accontentandosi di dire: “Per ora i diritti fondamentali sono questi, e questi bisogna proteggere. In futuro però ben potranno essere diversi”. Diritti umani insomma saranno quelli che ci parrà e piacerà, a seconda della contingenza storica. Non voglio certo negare gli aspetti positivi di una visione del genere (che elude lo spinosissimo problema del fondamento), che indubbiamente ci sono, tanto sul piano teoretico (non possiamo disconoscere l’inevitabile storicità dell’uomo e delle sue opere: ignorarla può portare a gravi conseguenze) quanto sul più tangibile piano pratico e giuridico (non si potrebbe negare al fluire della prassi di individuare nuovi diritti ed archiviare i vecchi). Tuttavia, detto ciò, non si esaurisce il discorso, e non si tocca il vero problema di fondo: cosa significa in concreto che i diritti umani (in tutte le loro possibili manifestazioni, che siano i classici diritti civili e politici, i diritti economici, sociali e culturali, o i più avanzati diritti di solidarietà, fino a giungere alle nuove frontiere rappresentate dalle ben note questioni in tema di bioetica e biotecnologie) si riducono a quelli che nell’attuale contingenza storica sono affermati dai più[38]? Chi l’ha detto che devono essere i più a stabilire tali principi fondamentali? Certo, in base al principio democratico, individualistico e volontaristico. Ma la maggioranza ha sempre ragione? Certo, se per ragione si intende quello che dice la maggioranza! Si potrebbe andare avanti molto con questi paradossi e tautologie, tutte epifanie della debolezza del presupposto di base: che tutto si basi sulla volontà dell’uomo, che tale volontà sia assolutamente libera, e che dunque tale libertà implichi per l’uomo l’assoluta arbitrarietà delle proprie scelte. La massima libertà insomma, per il senso comune, ma anche per una parte del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, è fare-ciò-che-si-vuole: l’unico limite concepibile è quello dato dalla libertà altrui. L’incoerenza logica di questo discorso è fin troppo evidente: come fanno a limitarsi due libertà potenzialmente illimitate? Come si metteranno d’accordo su dove finisce la pretesa di uno e comincia quella dell’altro? Non viene fornito alcun parametro esterno di giudizio. Chi la spunterà? Il più forte. Questo è l’inevitabile esito. Di fronte a questo, due possono essere gli atteggiamenti: o lo si accetta come risposta ultima, di fronte ad una supposta assoluta mancanza di senso della realtà e considerando pallida menzogna ogni tentativo volto a darglielo, o, pur prendendo atto della realtà, si prende atto anche della sua relatività, e si tenta di procedere nella ricerca di un diritto che sia veramente al servizio dell’uomo, non rifuggendo alla basilare domanda di senso che percorre tutta la storia dell’umanità. Perché la seconda alternativa, oltre che più auspicabile, appare in fondo la più corretta? Perché chi afferma che alla base del diritto non può esserci altro che una supposta volontà di potenza, pone già una premessa che dà per dimostrata, o meglio indimostrabile: non può che essere così. Non è forse questa un’opzione metafisica (nel senso più deteriore del termine, quello di verità supposta assoluta)? Postulare aprioristicamente l’asocialità dell’uomo non è poi così diverso dall’affermarne a priori la sua socialità[39], e del resto nella storia si sono alternate e l’una e l’altra tesi. L’idea dello stato di natura deve essere presa per quello che è: una buona ipotesi, ma pur sempre un’ipotesi, su cui è illusorio poter basare il complesso sistema delle fonti del diritto positivo, nonché l’autorità stessa dello stato. Anche qui, non si vuole negare o ignorare tutto il discorso sociologico sulla nascita della comunità, sul perché gli uomini abbiano formato la società, ma significa problematizzare l’approccio alla materia, sempre troppo semplicistico. Veramente deve essere presa come assoluta verità la conflittualità tra l’uomo ed i suoi simili? Ma esiste una verità assoluta? Ecco finalmente l’interrogativo essenziale, cui siamo giunti dopo una faticosa opera di “sfoltimento” delle questioni accessorie. È un interrogativo fondamentale, cui è impensabile che io dia una risposta compiuta, ma posso tentarne almeno un abbozzo. Anch’io, in modo apparentemente contraddittorio con le mie premesse, voglio partire da una condizione iniziale: la limitatezza dell’uomo e la sopra accennata relatività di tutto ciò che attiene l’umano. È anche questo un illusorio e aprioristico punto di partenza? Ma si tratta di qualcosa di ben diverso rispetto all’affermare l’assoluta validità di un presupposto. Non si tratta cioè di sostituire un presupposto (la relatività, appunto) ad un altro (una verità data assolutamente per valida): la limitatezza viene ancora prima di qualsiasi presupposto, è insita nell’uomo, è l’uomo e la sua storia. È condizione, appunto, disconoscendo la quale non si può che cadere in contraddizione. Il passo ulteriore che allora si deve compiere è quello di ammettere che forse ad essere aporetica è anzitutto, come suggerisce Pagallo, la visione stessa di fondamento. Non può che risultare contraddittoria e generatrice di “cattiva infinità” una visione in base alla quale il fondamento fondi senza a sua volta essere fondato (concezione definita come edile). Come concepire allora il fondamento? Si è giustamente proposto di concepirlo in modo non più statico e astratto, ma dialettico e dinamico. In che senso? Abbiamo detto che vogliamo partire dall’originale limitatezza dell’uomo: noi non possiamo, almeno in questa vita (per chi ci crede!), pervenire ad una conoscenza perfetta (nel senso di completa) della realtà[40]. Lo stesso regresso all’infinito generato dalla ricerca del fondamento ne è la prova più evidente. Ciò equivale a dire che l’uomo non può conoscere nulla? No, significherebbe cadere nello stesso errore prima evidenziato, pur nel segno opposto. L’uomo è più che legittimato a ricercare il fondamento (anzi, si può dire che la ricerca dello stesso è doverosa), ma la sua ricerca non dovrà essere rivolta nel senso di trovare per così dire, usando un’espressione aristotelica, un primo motore immobile, un principio statico, quanto piuttosto nel cogliere in ciò che inevitabilmente muta ciò che altrettanto inevitabilmente non può che rimanere eguale, secondo il procedimento dialettico già evidenziato dalla riflessione dei filosofi classici (in particolar modo da Platone). Chiariamo meglio: panta rei (tutto scorre) diceva Eraclito e ripetono spesso stancamente giuristi e filosofi dell’evo moderno e contemporaneo. È vero, ma ciò non significa che nel mutamento non permanga qualcosa, e rimanga sotterraneo, siccome un filo conduttore. Insomma, se veramente vogliamo cercare un fondamento, questo non potrà che essere dinamico, continuamente presente nello scorrere delle cose ed in relazione con le cose stesse, una relazione che non esclude che tale stesso fondamento possa venire a sua volta condizionato. Condizionato, ma non stravolto. In concreto, ad ogni “Dichiarazione”, “Carta dei diritti” o Costituzione si dovrà certo dare un valore relativo, nel senso di ricognitivo di principi che stanno fuori dalla volontà stessa del legislatore che le pone in essere. Valore relativo, perché nel corso dei secoli ben possono mutare le modalità con cui tali principi sono riconosciuti. Si può obiettare allora, come si farà a capire se una dichiarazione sia veramente ricognitiva, o se rappresenti un’arbitraria ricostruzione del legislatore? Per rispondere a questa importante domanda bisognerà tener presente ciò che abbiamo riportato riguardo alla riflessione di San Tommaso sulla Lex naturalis: la conoscenza dell’ordine naturale delle cose[41] non può che avvenire progressivamente, per gradi, in un continuo tentativo di superamento. Tuttavia qui mi distacco dall’Aquinate: il cammino non finirà mai, in questa terra. La conoscenza non sarà mai piena: ci si potrà indefinitamente avvicinare alla verità, ma mai tenerla e farla propria definitivamente. In questo senso parlo di relatività. La relatività non ha solo un’implicazione teoretica, ma anche una fortissima ricaduta pratica: quella della relazione, che si sostanzia nel dialogo. L’uomo non può fare a meno di entrare in relazione con i propri simili, perché è lui stesso relazione: non sono io se contemporaneamente non sono un tu[42]. Questa è la condizione di cui parlavo all’inizio del discorso: se neghiamo questa, si nega l’essenza stessa dell’uomo, o meglio, si nega l’uomo[43]. L’essere-in-relazione è dunque per me ciò che nel succedersi dei secoli si relaziona a sua volta dialetticamente con il progresso delle scienze umane, e con il succedersi delle diverse ricognizioni dei c. d. diritti fondamentali, umani nel senso più alto del termine (e non ridotti a statuizioni al servizio di un io ipertrofico). Detto questo, ben può succedere che il legislatore arbitrariamente definisca “principio fondamentale” qualcosa che non lo è affatto, o, come è più probabile, neghi la vigenza di alcuni principi fondamentali nella loro formulazione più compiuta possibile secondo il periodo storico (in base alle conoscenze del momento: certo, una mano la possono dare le varie dichiarazioni a livello nazionale ed internazionale, ma non bisognerebbe ritenerle esaustive): ebbene, in questo caso, in cui il legislatore abbia smarrito la cognizione della relatività come sopra delineata, ben si può affermare l’ingiustizia della sua operazione, senza che alcun tipo di rispetto della legalità formale possa attenuare tale giudizio di disvalore. A chi è dato di concretizzare nell’attuale periodo storico lo stadio cui sono giunti i principi fondamentali? Non certo e non tanto alla maggioranza statisticamente intesa! È un’operazione autenticamente filosofica, che solo con un dialogo autentico e radicale è possibile portare avanti, pur sempre nella consapevolezza che le forme potranno in futuro cambiare, sempre però, verrebbe da dire, salva rerum substantia.

Bei discorsi: ma in concreto? Basta accontentarsi di dire al legislatore iniquo: “Stai sbagliando?” Non ci possiamo accontentare del semplice (seppur già importante) passo che ci porta ad andare oltre la considerazione della mera coerenza formale dell’opera del legislatore[44]. Come rispondere in concreto a chi, in mala ma anche in buona fede[45] dimentica l’aspetto relazionale dei diritti umani? Non ho la soluzione in tasca, ma avanzerei in particolare una proposta: la giurisprudenza. Sappiamo che da lungo tempo ormai (dal consueto punto di riferimento rappresentato dalla Rivoluzione Francese, ma anche da prima, se consideriamo la riflessione filosofica-giuridica sviluppatasi a partire dalla fine del Medioevo) in gran parte dei paesi dell’Europa continentale la giurisprudenza (ovvero l’attività di iuris dictio dei giudici) ha assunto un profilo piuttosto basso, relegata a funzioni meramente applicative del diritto positivo vigente[46]. Da un certo numero di anni la dottrina, nonché la giurisprudenza stessa, hanno riconosciuto la pochezza di questa visione: il giudice non può applicare la legge senza in qualche modo interpretarla (capovolgendo il brocardo, etiam in claris fit interpretatio), pur nell’invalicabile recinto posto dal testo della legge stessa, si dice, anche se quest’ultima affermazione è a dir poco problematica (si pensi a tutte le questioni sorte in merito alla differenza fra interpretazione meramente estensiva ed applicazione analogica). In che senso questo discorso si inserisce nel precedente? Il diritto, come è stato da più parti autorevolmente rilevato, trova la sua espressione più alta nel processo, che altro non è (o dovrebbe essere: il condizionale è purtroppo d’obbligo!) che un’esperienza della relazione. Il giudice ha per così dire un punto di osservazione privilegiato sulla realtà, trovandosi a mediare fra pretese che si affermano contrapposte. Mediare, appunto. L’interpretazione della legge scaturente da questa mediazione assume dunque un particolare valore, perché dovrebbe essere volta a stabilire, oltre che gli evidenti punti discordanti, anche ciò di comune che le contrapposte posizioni conservano, ed in primis la stessa necessità per loro di entrare in relazione. In concreto, non si chiede certo qui al giudice di fare quello che non può fare, ovvero di atteggiarsi a legislatore[47], ma di riuscire a cogliere nel fluire della prassi, attraverso la dialettica processuale, lo stadio cui la riflessione sul diritto può giungere. È un’opera faticosa e complessa, che ben esemplifica quanto finora si è detto. La giurisprudenza insomma, ben esercitata, può essere un ausilio fondamentale ai fini di una interpretazione evolutiva degli stessi dettati normativi: se il legislatore insomma si dimostra ostinatamente sordo a ciò che la natura relazionale del diritto impone, la spinta per il cambiamento deve poter venire dal basso, dalla realtà delle relazioni umane (sempre contrapposta, per seguire il discorso di prima, alla virtualità dell’ordinamento delle fonti legali). Sono queste alla fine ad imporsi (non c’è volontà di potenza che regga![48]): se non si impongono per via fisiologica (ovvero attraverso l’opera dei legislatori, appunto, ma anche, come sarebbe auspicabile, nella spontanea convivenza fra uomini), si imporranno necessariamente nella patologia (nel processo, ma anche in eventi ben più gravi, come la guerra[49]). Il diritto non può che venire prima della legge.

Per concludere, i diritti umani portano in sé il segno dell’uomo come essere-in-relazione: questo segno percorre tutte le traduzioni sul piano normativo che essi hanno conosciuto, e continueranno a conoscere, in un incessante evoluzione (che è in fondo l’evoluzione dell’uomo[50]). Ove tale evoluzione venga disconosciuta, non solo si potrà dire (e a gran voce) che il legislatore è in errore, ma si potrà porvi rimedio, proprio attraverso l’esercizio del dialogo, che può passare per il medio giurisprudenziale, ma anche in ogni altro mezzo possibile: si badi, questo a livello nazionale, ma anche e soprattutto a livello internazionale! Il concetto di sovranità statuale, nonostante significativi rigurgiti di ritorno all’antico, è ormai sulla via del tramonto. Del resto non è possibile, in un’ottica che non si limiti al mero dato formale, ritenere che l’opzione di fondo dei diritti umani (non le loro mutevoli manifestazioni normative) non sia comune a tutti gli uomini: se da una parte sarebbe pura superbia affermare che la formulazione dei diritti umani concepita more occidentali sia la migliore in assoluto, dall’altra non si può trincerarsi dietro un falso rispetto del multiculturalismo e rinunziare a dare un qualsiasi giudizio di valore nei confronti della situazione presente in altri paesi. Si deve poter dire, senza timore, che in quel paese non si è voluto prendere atto dell’uomo e delle sue esigenze[51], e si deve in ogni modo favorire un’evoluzione, sul piano sopranazionale ma anche su quello interno, verso questa strada. Ma attenzione: un’evoluzione che rispetti la strada percorsa da quel popolo, da quegli uomini! È estremamente dannosa, e lo abbiamo visto, una concezione per cui il sistema di valori “occidentale” è considerato il migliore, e come tale sia “esportabile” ovunque. Quante tragedie scaturiscono da questa illusione! Se è vero che la relatività dell’umano ci sarà sempre (finché ci sarà l’uomo), è altrettanto vero che sempre diversi saranno i modi in cui questa sarà concepita e concretizzata: l’astratta eguaglianza di tutti di fronte alla legge sarà sempre un non senso, se non calata nella sostanziale varietà delle vicende umane[52].

Si tratta, come ho detto, di un cammino lungo e per nulla agevole, ma che deve essere percorso, nella consapevolezza che sarà sempre in indefinita evoluzione, perché solo così riusciremo ad assumerci la più grande, la più vera e, sì, anche la più bella delle responsabilità: essere uomini.

 

 

 

 



[1] Ma davvero riguardano solo l’uomo occidentale? Tenteremo di rispondere a questa importante questione più avanti.

[2] In particolare la sentenza n. 1146 del 1988, ma non per ultima la celeberrima sentenza n. 364 del 1988, che dichiarò incostituzionale l’art. 5 del codice penale laddove non ammetteva la scusabilità dell’errore inevitabile sulla legge penale.

[3] “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

[4] “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.”

[5] Per quanto assurdo possa sembrare. Ma si ricordi che nell’antichità risultava assurda anche l’abolizione della schiavitù..

[6] Tra l’altro neppure troppo peregrina, dato che fu sostenuta da un costituzionalista del rango di Carlo Esposito, il quale sosteneva l’integrale rivedibilità della costituzione.

[7] Così in particolare Livio Paladin e Gustavo Zagrebelsky, entrambi presidenti emeriti della Corte Costituzionale.

[8] Come quelle citate supra in nota. Superata dunque la tesi che vedeva nei diritti inviolabili di cui all’art. 2 cost. semplicemente un’espressione che riassumeva in sé i diritti elencati nel prosieguo del testo costituzionale.

[9] Così in Gustavo Zagrebelsky, Il sistema delle fonti del diritto, Torino, 1988.

[10] Significative in questo senso le tesi istituzionalistiche, di cui fu primo appassionato sostenitore in Italia il siciliano Santi Romano. Di quanto anche queste tesi, così come quelle normativistiche di matrice kelseniana, non possano risultare che strutturalmente aporetiche si darà conto nel prosieguo.

[11] Si pensi a tutta la riflessione politica (in particolare la considerazione dell’uomo quale politikon zwon) ed etica (vedi per esempio il concetto di dikaiosunh: “Disposizione per cui gli uomini sono portati a compiere le azioni giuste, per cui agiscono giustamente e vogliono le cose giuste” “Sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e l’eguaglianza (dikaioV estai o te nomimoV kai o isoV). Passim dall’Etica Nicomachea nella traduzione di C. Mazzarelli)  dello Stagirita.

[12] A Creonte che la accusa di aver trasgredito le proprie leggi seppellendo il corpo del fratello, Antigone risponde: “Ma per me non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike, che dimora con gli dei inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dei (khrugmata agrapta kasfalh qewn). Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero”. Più avanti Antigone dice ancora, significativamente: “La tirannide, fra molti altri vantaggi, ha anche questo, che le è lecito fare e dire quel che vuole” (traduzione di R. Cantarella).

[13] Si potrebbe parlare di una naturalità immanente propria di queste norme: così anche Mario Talamanca, Elementi di diritto privato romano, Milano, 2001. Per i romani poteva assumere un senso solo lontanamente paragonabile al nostro di diritto naturale l’espressione ius gentium, indicante appunto nella sua accezione descrittiva il diritto che la naturalis ratio ha introdotto presso tutti i popoli (Quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit: così Gaio in D. 1. 1. 9). Un significato diverso aveva invece l'espressione ius naturale, che trovava posto in una nuova tripartizione proposta da Ulpiano, che lo mise accanto allo ius civile ed allo ius gentium per indicare con esso lo ius che la natura insegna a tutti gli esseri animati. Tra l'altro il giurista latino trae da questa premessa la strana affermazione che iure naturali omnes liberi nascuntur (D. 1. 1. 4), statuizione che evidentemente fino all’epoca del Cristianesimo è rimasta priva di qualsiasi ricaduta pratica (così sempre Talamanca).  

[14] “Manifestum est quod ius est obiectum iustitiae” (Secunda secundae, q. 57 a. 1). È da notare che san Tommaso riprende un concetto di iustitia molto simile a quello aristotelico sopra accennato.

[15] “Talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur” (Prima secundae, q. 91 a. 2). È molto interessante notare che per Tommaso la lex naturalis non forma una sistema normativo concluso e perfetto in sé, quanto piuttosto un metodo, che permette di procedere in un continuo tentativo di superamento dei limiti connaturati alla ragione umana, la quale non è in grado di cogliere immediatamente l’essenza dell’ordine naturale delle cose, ma che, illuminata dall’insegnamento del Vangelo, potrà arrivare a contemplarlo al suo massimo grado. Questa osservazione ci tornerà molto utile più avanti, quando cercheremo di avanzare una qualche proposta di fondamento dei diritti naturali, pur effettuando i dovuti distinguo.

[16] Per una esauriente trattazione si può fare riferimento alla celebre opera di Paolo Grossi L’ordine giuridico medievale (ult. ed. Roma-Bari, 2006): Particolarmente interessante è l’osservazione che l’assenza di un’istituzione particolare forte che potesse imporre il suo diritto,  e l’eccessiva lontananza delle istituzioni universali della chiesa e dell’impero, abbia fatto sì che l’uomo medievale avesse una particolarissima (per noi) concezione del diritto, come completamente slegato dall’autorità del potente di turno, come vivente una vita propria. Il diritto nel Medioevo era solo in minima parte derivante dalla volontà del sovrano: sopravviveva da una parte negli iura propria delle varie comunità e dall’altra nel suppletivo ius commune, nell’Auctoritas dei testi giustinianei riuniti nel Corpus Iuris e dell’interpretazione datane dai giuristi. La straordinaria sovrapposizione di ordinamenti giuridici differenti, talora raffinata ma anche estremamente complicata, cominciò ad affievolirsi con l’affermarsi dello stato moderno, e fu spazzata definitivamente via dall’esperienza della Rivoluzione Francese, che portò alla luce il principio, tuttora ritenuto valido (seppur ormai insidiato da più parti), della esclusiva statualità del diritto.

[17] Giurista olandese vissuto a cavallo fra il XVI e il XVII secolo, è unanimemente considerato il padre del giusnaturalismo moderno, oltre che della moderna riflessione sul diritto internazionale (nota soprattutto la sua opera De iure belli ac pacis).

[18] “Dictamen rectae rationis” secondo la definizione di Grozio.

[19] La nota espressione è di Galileo Galilei.

[20] In questo senso il legame fra giusnaturalismo e razionalismo di cui rende conto Adriano Cavanna in Storia del diritto moderno in Europa vol. 1 (Milano, 1982).

[21] Da notare, si ipotizza. Di qui la virtualità di tutto il sistema, di cui si darà qui brevemente conto, ben illustrata nel testo di Francesco Gentile Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2001.

[22] È necessario qui riportare anche la teoria in merito prospettata da Jean Jacques Rousseau (nel XVIII secolo) nella sua opera Contrat social: con il contratto sociale l’uomo perderebbe sì la propria libertà naturale (concepita come diritto illimitato nei confronti di tutto ciò che desidera), ma guadagnerebbe la libertà civile e con essa la proprietà di tutto ciò che possiede. Tale libertà civile risulta limitata solo dalla c. d. volontà generale: ma cosa si intende con tale espressione? Rousseau propone due confliggenti impostazioni: la prima individua la volontà generale nella volontà della maggioranza dei cittadini (dunque chi si trova in minoranza non può, per definizione, che essere in errore. Evidentissimi sono i rischi di questa impostazione, e non è mancato chi, basandosi su queste affermazioni di Rousseau, lo ha definito precursore del totalitarismo); la seconda invece affermerebbe l’anteriorità di questa volontà generale rispetto al voto popolare. È chiaro che tali visioni non possono coesistere, e che la loro contemporanea presentazione rappresenti un’aporia irrisolta nel pensiero di Rousseau.

[23] Questa in particolare la visione di John Locke, che individuò i diritti in questione nella libertà, nell’eguaglianza e nella proprietà. Significativamente, a tutela del rispetto del contratto sociale, Locke prevede un diritto di resistenza a favore dei consociati, i limiti ed i modi del cui utilizzo sono però tutt’altro che chiari, come ha messo bene in luce Ugo Pagallo in Alle fonti del diritto: Mito, scienza e filosofia, Torino, 2002.

[24] Non può certo sfuggire l’osservazione che le teorie positiviste cominciarono ad affermarsi proprio quando lo stato moderno muoveva i primi passi: questo la dice lunga sulla troppo frequente ancillarità del diritto nei confronti del volere del più forte.

[25] Di cui ancor oggi rende conto l’articolo 1 delle “Disposizioni sulla legge in generale” al Codice Civile italiano del 1942, laddove solo all’ultimo posto nella piramide delle fonti pone gli “usi”. Bisogna comunque osservare che l’elenco posto da tale articolo risulta ormai ampiamente superato, in primo luogo, dal sistema delle fonti risultante dalle disposizioni della Costituzione del 1948 e, in secondo luogo, da una rinnovata critica al dogma moderno della sovranità, ormai in aperta crisi, specialmente in relazione al sempre maggiore ruolo del diritto internazionale.

[26] Non è possibile infatti comprendere quali sono gli attuali problemi riguardanti la loro tutela, nonché il loro futuro, se non attraverso una panoramica generale, pur sintetica, su cosa l’uomo nel corso dei secoli ha voluto intendere con il termine stesso diritto.

[27] Pagallo nel testo sopra citato efficacemente individua la differenza in una diversa concezione di ordine di cui sarebbero rispettivamente stati portatori i francesi e gli americani: i primi furono mossi dalla volontà di imporre un ordine assolutamente nuovo, mai esistito storicamente, di cui la Costituente è emblematica espressione (si è parlato anche di “mistica dell’anno zero”, riferendosi in particolare all’ardita riforma del calendario operata dai rivoluzionari), mentre i secondi concepirono la rivoluzione come un “ritorno al buon ordine antico”, ad un ordine che da sempre esiste. Di qui le prevedibili differenze tra le “Dichiarazioni dei diritti” americane e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789, riconosciuta come il primo documento in cui fossero abbastanza esaurientemente indicati i “diritti dell’uomo” modernamente intesi (tra l’altro in questa occasione per la prima volta si apprezza l’utilizzo giuridico di tale espressione. Incidentalmente si noti che parlare di “diritti umani” comporta conferire una nuova e più forte posizione all’individuo, posizione certo più scontata nell’esperienza anglosassone, assai meno in quella continentale). All’esperienza anglosassone dedica consistente spazio la voce Diritti inviolabili dell’Enciclopedia Giuridica Treccani (XI, Roma, 1989) curata da Antonio Baldassarre.

[28] Ottica, questa del riconoscimento di diritti preesistenti, che per lungo tempo, nonostante la costituzione, sembrò estranea a buona parte della nostra dottrina e giurisprudenza, ancorata al dogma (proprio del concetto di sovranità) dell’auto-limitazione del potere sovrano. Senza scendere nei particolari, si pensi alla profonda evoluzione che ha conosciuto negli ultimi anni il sistema di rapporti fra cittadino e Pubblica Amministrazione (e la correlata questione della tutela dei c. d. interessi legittimi).

[29] Delle quali fu ritenuto responsabile, non per ultimo, un positivismo giuridico portato alle sue radicali conseguenze.

[30] In conclusione può notarsi la classificazione proposta da Bobbio, riportata da Franco Todescan nel suo saggio Custodia cautelare e diritti umani (in Pena e riparazione, a cura di Franco Todescan e Francesco Cavalla, Padova, 2000), fra una prima fase di elaborazione dottrinaria e teorica dei diritti dell’uomo, a partire dal giusnaturalismo secentesco; una seconda fase, settecentesca, delle “dichiarazioni dei diritti”; una terza fase, contemporanea, che parte dalla Dichiarazione dell’ONU del 1948, seguita dalla CEDU nel 1950.

[31] Riportato nel testo Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari, 2001.

[32] Corsivo mio.

[33] Questa l’immaginifica espressione utilizzata nel testo.

[34] L’età dei diritti, Torino, 1990.

[35] In Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001. Similarmente in Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2001.

[36] Grossi parla in merito di mistica della legge. È comunque curioso notare come un convinto sostenitore dell’assolutismo monarchico quale Jean Bodin (celebre la sua opera Les six livres de la Republique, scritta nella seconda metà del XVI secolo), ancora ammettesse che “c’è molta differenza fra il diritto e la legge, il primo registra fedelmente l’equità; la legge, invece, è soltanto un comando di un sovrano che esercita il suo potere”.

[37] Si parla in merito di conditio per quam dell’ordinamento. Conditio sine qua non sarebbe invece l’effettività, la capacità della norma di imporsi.

[38] E che, seguendo Bobbio, il giurista dovrebbe prendersi cura di tutelare alla luce della sola osservazione empirico-statistica della loro esistenza.

[39] Si pensi al Principe di Nicolò Machiavelli: le osservazioni in esso contenute sono perfettamente condivisibili, specialmente avuto riguardo del periodo storico in cui furono scritte, ma non può sfuggire come troppo spesso siano frutto di un sano, ma semplicistico empirismo. Non voglio addentrarmi in questioni gnoseologiche che non sono in grado di affrontare: mi limito qui ad osservare che limitare la realtà all’empiria è errato prima che pericoloso. Ciò che è spesso appare e si può sperimentare, ma non è detto che ciò che è escluso dal nostro campo di osservazione non esista.

[40] “Adesso vediamo come in uno specchio, in immagine; ma allora vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto” (1 Cor. XIII, 12).

[41] È questo, secondo me, che attraversa e sta dentro i mutamenti della storia.

[42] Questo il grande insegnamento della c. d. filosofia del dialogo, e qui mi riferisco in particolare a Martin Buber ed Emmanuel Levinas.

[43] Questa consapevolezza deriva in me per buona parte, certo, dall’ottica cristiana entro cui mi muovo, ma non ho difficoltà a ritenere che ben potrebbe essere condivisa da chi non crede nel Dio dei cristiani, o da chi non crede ad alcun dio, da chi è “occidentale” e da chi è “orientale”. Questa è la vita dell’uomo. Da cosa lo capisco? Semplicemente dal fatto che negandolo non posso che cadere in continue contraddizioni, perché, appunto, sarebbe come togliere all’uomo il respiro: si può dire quanto si vuole che è una petizione di principio quella per cui l’uomo per vivere deve respirare, ma se non respira muore!

[44] Del resto, a seguire quella, tutto sarebbe “legittimo”: anche Hitler fece tutto nel rispetto della forma..

[45] Pensiamo alle attuali e dolorose questioni in materia di bioetica.

[46] Non è così, come parimenti sappiamo, nei paesi di Common Law. La cosa non dovrebbe apparirci strana alla luce delle considerazioni precedentemente fatte (per questione di brevità evito di addentrarmi ulteriormente nell’argomento, che sarebbe assai interessante).

[47] Questo è del resto il rischio più rilevante nei sistemi di matrice giurisprudenziale: la Common Law insegna!

[48] Questa non vuole essere una visione candidamente ottimista del reale: il male c’è e si prova, ed è scarsa consolazione il pensare che un giorno finirà (quando?). Si  tratta invece di accettarlo, o meglio, di assumersene la responsabilità, consapevoli che, se pure il male esiste e non è scontato che tutto finisca sempre bene, ciò non ci impedisce di essere uomini di Speranza. Anche qui per brevità tralascio ogni ulteriore considerazione.

[49] Si badi: lungi da me giustificare la guerra, negazione somma della relazione! Comunque essa può essere una conseguenza, patologica e distorta, del disconoscimento del diritto. La storia del resto ce lo mostra continuamente.

[50] Ciò, si noti, non è in contrasto con quanto prima affermato sulla relatività come condizione: la condizione precede il mutare, perché la condizione è l’uomo.

[51] Per uomo, lo si capisce ormai, non intendo un sinonimo di individuo: l’uomo non è tale senza la comunità dei suoi simili, e la comunità non è se non di uomini.

[52] Così del resto la riflessione sul ben noto art. 3 della nostra Costituzione. Con questa osservazione non si vuole comunque certo mettere in ombra il fatto che, nella diversità delle esperienze dei popoli, continui ad esistere l’uomo, e che dunque i diritti che essenzialmente ineriscono a tale condizione prima o poi dovranno essere riconosciuti: qui si pone solo l’accento sul fatto che il più delle volte ciò dovrà necessariamente avvenire per gradi, non potendo certo mutare la coscienza di un popolo dall’oggi al domani.



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