Il DISCORSO FILOSOFICO, IL MOMENTO DOGMATICO E L’ORIZZONTE SIMBOLICO
Di Paolo Landi
1. Premessa
Nel pensiero filosofico, il momento dogmatico e quello critico sono intrecciati in modo ricorrente; e se il primo riguarda la posizione di un punto di vista che ha una pretesa assoluta, il secondo riguarda tutti quei contenuti che si possono accettare anche al di fuori di una tale pretesa. Per fare un esempio: nella filosofia di Hegel abbiamo l’assunzione di un assoluto concepito come un’Idea che trapassa nella natura, per tornare a sé in quanto spirito; e a tale proposito, il momento dogmatico è dato dall’affermazione apodittica per la quale tale processo sussiste al di là di ogni dubbio, e non solo si attua necessariamente – o non è possibile che non si attui, per la sua evidenza intrinseca -, ma anche è il processo della totalità, o del tutto. Così, il contenuto di queste affermazioni è assoluto, e il modo di porle lo è altrettanto: come il processo indicato è necessario e non può non realizzarsi, ed inoltre investe il tutto, e quindi il piano di origine della realtà, così il discorso che lo raffigura e si muove seguendo la sua stessa movenza[1], ha un carattere per il quale non può essere negato – ed è l’unico discorso che non può essere negato in questa maniera, ed è il discorso che è in grado di fondare ogni altro possibile discorso.
Ebbene, sotto il profilo critico il contenuto di tale asserzione può essere salvato, concependolo come una posizione del pensiero, che tuttavia è lontana da avere un sostegno necessario – o meglio, intendendolo come una mera supposizione, o come una costruzione che può essere sviluppata dal nostro pensiero, ha una grande ricchezza di senso, ed è in grado di sollecitare la comprensione di varie dimensioni e possibilità della realtà e della nostra esperienza, ma non verte su qualcosa di presupposto, che letteralmente abbia una sussistenza effettiva. Questa limitazione critica, dunque, salva tale discorso nel senso che lo riduce o lo mette tra parentesi, assumendolo senza porlo in un modo affermativo, ed a maggior ragione senza porlo sotto un profilo necessario, od assiomatico.
Ciò posto, è chiaro che il discorso metafisico ha esibito in un modo ripetuto delle pretese del tipo di quelle hegeliane, e quello di Hegel è solo un esempio culminante di un tale genere di pretese. Così, una volta che è stata evidenziata la mancanza di una conferma relativa ad un accertamento sul piano della nostra esperienza, una volta che è stata messa in luce o sperimentata l’assenza di una mera verifica sul piano del nostro pensiero, ed una volta che è stato afferrato il senso inconcludente di un movimento polemico che attraversa in una maniera addirittura ossessiva il pensiero filosofico, rimane da proporre nuovamente l’interrogativo circa tale evento, e la sua linea indefinita. Ma, ancora, la domanda su tale perché è connessa a quella sulla esigenza conoscitiva che è stata legata, e in parte lo è anche oggi, agli intenti dogmatici.
Diciamo allora che l’universo del discorso umano può avere due direzioni: da un lato, quella di una indicazione di verità, la quale è protesa al suo accertamento, e mira ad una sintesi che Hegel aveva delineato come la riunione della verità e della certezza[2]; da un altro lato, quella di una posizione e di una costruzione del senso, la quale non ha una tale pretesa, e insieme alla generazione di libere fantasie, espone una ipotesi od una sembianza di verità, la quale si attesta sulla soglia di quello che è possibile, con modalità che si possono riconoscere, anche, nella attività artistica. Ed in quest’ultimo senso, possiamo allora affermare che il discorso filosofico nei suoi risvolti metafisici sia analogo a quello artistico, e la produzione di senso che anima la filosofia sia analoga o convergente con vari tratti della generazione di senso presente nell’arte medesima. Il che non significa eliminare una distinzione di fondo fra questi due ambiti; ma è importante rilevare che l’arte e la filosofia hanno una loro intersezione molto forte, ove espongono una verità possibile, ed una dimensione di senso che non può essere accertata, e presenta delle generazioni del senso medesimo, che hanno un compito costitutivo piuttosto che obiettivo, o diretto al riconoscimento di un qualcosa che sussiste; e ciò, ove questo non deve poi essere inteso secondo l’accezione, per la quale tale costituzione operata dall’individuo che pratica la filosofia sia in grado di cogliere in una maniera necessaria una dimensione che oltrepassa tale individuo, e, comunque, è presupposta ad esso – ed è presupposta in questo senso, anche ove si tratti dell’atto del pensiero (che, ovviamente, non coincide meramente, e in modo solipsistico, con l’esclusivo individuo che lo assume, o lo adotta, o ne partecipa). E’ poi vero che questa costituzione del senso operata dal pensiero filosofico, con quella istanza creativa che riguarda il suo movimento pensante, non deve avere meramente un valore singolo, relativo all’individuo che la pratica, ed oltre ad essere comunicabile, deve avere una certa connessione significativa con un qualcosa che è presupposto, ed ha un carattere universale; ma, appunto, tale carattere di verità, e tale connessione, non possono essere legati ad un senso necessario ed assiomatico del discorso, che fornisca una garanzia assoluta, per la quale quanto viene affermato debba essere preso in un senso letterale, come riconoscimento certo della verità medesima.
2. L’ orizzonte simbolico
Queste premesse richiedono dunque di individuare il contenuto del discorso metafisico; il quale è dato da qualcosa che oltrepassa quanto può venire accertato in un modo univoco dalla nostra esperienza - al punto da ottenere la modalità della certezza -, e nel medesimo tempo mantiene un rapporto con tale esperienza, e con le modalità ambigue della significazione che è affidata al simbolo. Ed a tale proposito, si deve accettare l’indicazione di Jaspers, per la quale l’orizzonte simbolico apre quanto si può delineare per mezzo di un’immagine che non può avere un carattere obiettivo, anche se possiede un senso universale[3]. Ma, d’altra parte, Jaspers medesimo sembra assumere una posizione dogmatica, nel momento nel quale adotta l’essere, quale orizzonte di una elaborazione simbolica, in relazione alla quale esso viene riconosciuto con certezza. E’ vero che per l’autore il riconoscimento dell’essere spetta all’esistenza, che è una modalità affidata al senso della possibilità; ma tale possibilità, per quanto riguarda il discorso instaurato, per Jaspers è in grado di incontrare con certezza l’essere stesso, che a sua volta non viene altrettanto incontrato nelle configurazioni dogmatiche ad esso attribuite da altri orientamenti metafisici (i quali, in effetti, hanno una posizione più dogmatica di quella di questo autore). In altre parole, per Jaspers l’esistenza è il piano della possibilità di una dimensione che emerge come qualcosa che non coincide con una sfera oggettuale e data, ma nondimeno sussiste in un modo certo, e d’altra parte essa garantisce la sussistenza certa del piano dell’essere, che incontra proprio attraverso questa sua modalità non data[4]; ma al di là di tale presupposto, ci si chiede se la filosofia sia in grado di testimoniare con certezza la sussistenza dell’essere stesso – che, poi, dovrebbe consistere nel piano di origine di ogni dimensione oggettiva e della esistenza medesima, rispetto alla quale esso si dovrebbe aprire con chiarezza e senza equivoci. E ci sembra evidente, per non dire ovvio, che nonostante l’elevato valore di queste indicazioni e della meditazione offerta dall’autore, tutto questo rimanga nello stato di una possibilità, da intendersi questa volta come una condizione circa la quale non possiamo essere certi, ma possiamo solo fornire delle supposizioni, dotate di un certo grado di motivazione e di fondazione, ma prive del carattere risolutivo della certezza medesima.
Al di là di questo scarto nei confronti della posizione di Jaspers, dobbiamo però anche dire che possiamo adottare la sua nozione del simbolo, per interpretare la sua stessa concezione dell’essere: per l’autore, come si è indicato, nella metafisica per come si è presentata storicamente vi è un momento dogmatico, che asserisce letteralmente qualcosa che dovrebbe essere certo e vero, mentre si tratta di cogliere il senso dei contenuti metafisici avanzati, al di là della loro certezza, e come elementi che hanno un elevato valore per il nostro pensiero e la nostra esistenza, sia pure essendo privi della certezza medesima; e inoltre, di Jaspers è giusto adottare anche l’idea che i contenuti metafisici, in quanto simbolici, siano in possesso di un senso che non è univoco, o, nei termini della semiologia, può essere detto come ambiguo, nella accezione di polisenso[5], e quindi può essere inteso come non univoco, ma nemmeno equivoco[6] – o non intrinsecamente confuso e meramente contraddittorio, nella accezione deteriore della contraddizione.
Possiamo allora sostenere che la stessa concezione dell’essere di Jaspers sia metafisica e simbolica, nel senso che non esprime qualcosa di certo, ma indica una possibilità, poiché formula una supposizione che non può essere risolta nei termini della certezza medesima; e in rapporto a questo, abbiamo che il punto di vista di Jaspers è simbolico anche nel senso che il suo discorso, nella sua stessa pregnanza, è ambiguo o polisenso, ed ha quella ricchezza di significato, che è legata alla impossibilità di una esperienza la quale ne provi la certezza e la verità, esibendo un senso unico secondo il quale leggerlo, in relazione a qualche condizione di fatto (anche se di stampo metafisico e sublime, e suscettibile di dispiegare, a partire dalla sua realtà sicura, un alone di significati polisensi).
E, d’altra parte, dal nostro punto di vista, quello che in tale quadro non risulta meramente simbolico, è dato, per un verso dall’assunzione della nostra esistenza, quale ambito del possibile che non ha un carattere di oggetto, per un altro verso dal fatto che l’esistenza è in grado di elaborare delle significazioni dirette a rilevarne la supposta origine assoluta, e ancora, dal fatto che l’idea dell’essere risulta, se non certa, possibile, in quanto consiste in una supposizione ed in una posizione del senso, che hanno dei significati ambigui e polisensi, radicati in un modo forte nel tessuto della esistenza medesima. Tutto questo, poi, è certo, ma tale quadro, oltre alla certezza, possiede quella verità per la quale connota dei significati profondi che parlano al di là di quello che possiamo accertare; senza considerare, poi, che quanto più tale quadro viene articolato ed approfondito, tanto più ai suoi caratteri univoci, si legano, da un lato il piano di una certezza fondata che si espande, da un altro lato quello di una supposizione o di una posizione di senso ambigue che si ampliano in un modo parallelo, e infine, in una certa misura, una rosa di significati dogmatici, che hanno una loro profondità, nella stessa pretesa di fornire per certo quello che non può essere tale.
3. La certezza psicologica
Ma la domanda che adesso ci poniamo è la seguente: quale è il motivo per cui le metafisiche hanno esibito modelli in parte non compatibili, ostentando il possesso di una certezza che ogni volta si è esibita come fallace, anche attraverso il loro conflitto antinomico e intrinsecamente irrisolto? E’ chiaro che in questo caso alla mancanza di una certezza intesa come fondazione evidenziale effettiva, legata al piano della esistenza, a quello della esperienza ed a quello del pensiero, si è sostituita una sorta di certezza psicologica ed enunciata, o predicata, od ostentata, che certamente nasconde un fondo di parziale incertezza, e una certa misura di un atteggiamento inautentico (o volto a negare la presenza della incertezza medesima, che si insinua negli stessi soggetti della enunciazione). E tutto questo trova un certo equivalente, un certo momento genetico ed uno strato storicamente parallelo nelle certezze religiose; ma in questo caso, di fronte ad antinomie e conflitti altrettanto intrinsecamente irrisolti, troviamo una connessione fra lo strato della certezza, e alcune condizioni storiche, dovute alla consistenza ed allo spessore di una tradizione, la cui forza rende palese l’assunzione dogmatica, e la mancanza di un atteggiamento critico più pronunciato di quello che, comunque, a tratti, affiora nell’ambito delle credenze esibite. Diciamo allora che nella modalità dogmatica dell’atteggiamento metafisico, da un lato abbiamo un fondo genetico il quale rimanda alle stesse formazioni religiose, ed alla loro medesima genesi, e da un altro lato abbiamo la formazione relativamente individuale e quindi ‘solitaria’ di alcuni ‘deliri del pensiero’ che, nonostante il loro carattere geniale e la loro imponente ricchezza, sotto il profilo della presunta certezza, e sotto quello della ignoranza del carattere fortemente simbolico di numerosi loro risvolti, pongono dei problemi pronunciati che concernono la sfera psicologica. In altri termini, ci si chiede come è possibile che si siano registrate delle certezze, la cui pretesa evidenzia delle debolezze palesi e insostenibili anche allo sguardo del lettore inesperto (che tuttavia in compenso non è spesso in grado di apprezzare il valore di senso che si nasconde, diciamo così, al di sotto di una forma patologica); e ancora, ci si chiede come è possibile che autori i quali si pongono con lucidità mostrando in un modo implacabile i punti deboli degli avversari, inseriscano nel loro pensiero elementi altrettanto dogmatici e insostenibili, con una logica la quale lega certi aspetti eccessivi collocati entro la loro posizione polemica, con gli aspetti non credibili delle loro asserzioni, rivolte alla pretesa della certezza. E spesso accade, in tal senso, che mentre si nega la valenza suppositiva di certe posizioni dell’avversario, andando oltre la critica del suo atteggiamento dogmatico, si riproduca poi un atteggiamento di questo genere; laddove, invece, ad un pronunciamento di quel tipo, nel medesimo tempo potrebbe essere unito il riconoscimento della necessità di adottare, per proprio conto, una modalità non strettamente assertoria (sia pure mantenendo intatto lo splendore speculativo e, come possiamo dire, l’eccesso di certe posizioni di senso, che arricchiscono la nostra elaborazione del vero).
Una minima risposta a tale quesito psicologico – che è anche relativo ad una sorta di epistemologia della dogmatica metafisica – può essere data, come è stato anche fatto, indicando il carattere di rituale di questi atteggiamenti, e del loro strato innegabile di ‘delirio’ – o di un pronunciato artificio -; ma tale denuncia non deve poi indurre ad una posizione scettica e sostanzialmente debole e inconsistente, la quale neghi la problematica della ricerca del vero, coordinata alla mancata certezza, e la presenza della apertura al regime dei significati ambigui, che è data dal piano di una esistenza - e quindi di una possibilità non oggettiva -, il quale viene a sua volta testimoniato secondo certezza ( e secondo una certa conciliazione del momento della certezza con quello della verità). Tale posizione scettica, infatti, risulta parimenti dogmatica e sostanzialmente cieca, ed oltre ad esercitare una indicazione critica nei confronti della metafisica e in quelli del pensiero religioso, non coglie il loro peculiare strato di senso, ed il loro valore di verità. Da questo punto di vista, occorre dunque molta pazienza, ed è necessario accingersi ad una interrogazione sul senso inquietante di geniali deliri del pensiero i quali sono legati, sia ad una porzione di verità – ed in parte anche ad una certezza relativa ad alcune componenti di quanto viene enunciato -, che ad una funzione etica, che ad un certo valore estetico od espressivo; e ciò vale secondo un legame inestricabile fra il momento del ‘vero’, quello del ‘bene’ e quello del ‘bello’, che anima l’ambito religioso e quello filosofico, e che è legato sia a valenze positive che a valenze negative, anche sotto il profilo etico medesimo[7].
4. Il discorso filosofico e l’ambito artistico
Ciò posto, al di là del carattere psicologico del rituale dogmatico, e della indagine che in questo senso si potrebbe aprire – dotandosi con cautela degli strumenti forniti da una psicologia teoretica ed essenziale, nonché inoltrata al di fuori dei pregiudizi, sempre dogmatici, di varie assunzioni classiche -, rimane da considerare il nesso profondo ed inestricabile fra il carattere speculativo di certe posizioni, e la loro dimensione estetico-artistica, o profondamente espressiva: tale intreccio, infatti, è forse in grado di gettare una luce importante su alcune motivazioni teoriche e linguistiche del dogmatismo medesimo.
Possiamo allora osservare che nell’ambito artistico, se da un lato abbiamo come una libera produzione di immagini, che vengono delineate secondo caratteri di rigore i quali attengono al requisito espressivo, relativo al piano della forma e del significante, parimenti abbiamo dei contenuti, o delle sfere di senso, che hanno una loro radice nella nostra esperienza reale – e nella condizione della nostra esistenza, nonché della sua correlazione con l’ambiente, e con la dimensione del mondo esterno. Così, la sfera dell’arte non è indicativa di un momento completamente arbitrario; laddove, il margine dell’arbitrio nell’arte medesima è dato dalla sua mancanza di un impegno nei termini della certezza, o del requisito dell’accertamento, e dal fatto che le sue opere si muovono sul piano delle libere fantasie, modulate secondo l’esercizio del pensiero e della riflessione, ma estranee a quel dominio di questi ingredienti, che si rinviene nelle varie modalità epistemiche del conoscere nel senso stretto della parola. E d’altra parte, nella filosofia abbiamo invece l’impegno portante del pensiero e della riflessione, ed una maggiore subordinazione dell’ambito delle immagini, che comunque fungono nel campo delle sue produzioni (e, del resto, nel senso più ampio, e nella loro modalità inconscia, come è noto, sono necessarie per qualunque esercizio teorico); ma parimenti, appunto, vari contenuti della riflessione filosofica sono suscettibili di una elaborazione che, come nel caso dell’arte, non può attingere al piano della certezza, o non può pervenire al momento di un effettivo accertamento (sia pure nei limiti indicati dai vari esercizi della scienza).
Rimane poi il fatto che nella filosofia, a vari propositi, abbiamo dei contenuti provvisti della valenza di una posizione di senso, che ha una sua libertà nei confronti di una corrispondenza con quello che sussiste, la quale è analoga a quella dell’arte; e, d’altra parte, tale posizione di senso è congiunta a delle elaborazioni espressive, il cui rigore sul piano del significante avvicina in un modo ulteriore il discorso filosofico alle espressioni artistiche. Laddove, poi, lo stesso atteggiamento dogmatico può rientrare entro delle modalità espressive che hanno degli accenti estetici, od artistici, proprio entro la tendenza a far valere in un modo assertorio quello che è meramente posto, e oltre a non essere fondato in un modo assoluto, al massimo può rientrare nel campo di supposizioni che si sviluppano nella regione di quello che è possibile (secondo delle modalità ragionevoli che hanno un vario grado di attitudine alla credenza, e, in modo complementare, un vario grado di arbitrio).
E’ poi chiaro che il discorso filosofico, nelle sue espressioni più fortemente metafisiche, oltre ad articolare un ambito di senso che ha un valore intrinseco nei confronti della nostra esperienza e della nostra esistenza, è variamente connesso a quel genere di conoscenza, che appartiene a queste dimensioni, e che è suscettibile di varie misure di accertamento; e, d’altra parte, è chiaro che la filosofia, nell’occupare un ambito in un certo modo intermedio tra la sfera scientifica della connessione metodica – e parziale - fra l’ambito della certezza e quello della verità, e la sfera dell’arte – che è affidata a mere posizioni di senso estranee a dimensioni problematiche rivolte al piano della certezza - , si trova collocata in una posizione obliqua e fortemente incompiuta. Ed è altresì chiaro come il carattere artistico delle produzioni filosofiche sia parziale e come legato o imprigionato entro una dimensione di senso, la quale, per motivi di principio del tutto legittimi, impedisce loro di liberarsi, e, in particolare, in certe posizioni dogmatiche, assume un accento che presenta una forma evocativa appesantita dall’andamento assiomatico. Ma al di là delle problematiche psicologiche legate a queste modalità ambigue e irrisolte, si può evidenziare come tutto questo comporti delle modalità espressive peculiari e singolari, che possono stabilire un rapporto reciproco con le espressioni artistiche nel senso stretto della parola – ed anche con quegli ambiti del discorso filosofico, dove il momento artistico si libera con una grande pienezza, magari apportando specifiche limitazioni sotto il profilo teoretico.
5. Il carattere conclusivo, l’ironia involontaria e la limitazione della certezza
Sotto il profilo psicologico, è chiaro come il momento dogmatico delle riflessioni metafisiche sia legato a quella sorta di cerimonia, con la quale si denuncia l’errore dell’avversario, senza tenere conto della sua analogia con il proprio procedimento, e di certe modalità assertorie e dogmatiche, le quali appartengono a quest’ultimo, e si congiungono con l’esperienza dell’avversario medesimo, e la sua stessa ‘patologia’; e, d’altra parte, la ripetizione costante di questa specie di ‘lapsus’ indica quella sorta di uscita dal flusso normale dell’ordine temporale, che tende a indurre l’istanza di una replica continua, e che è esibita da vari contenuti patologici della nostra sfera ideativa.
Ma è chiaro che questo carattere di cerimonia e di una costante dislocazione della percezione psichica che viene messa in gioco, se per un verso alimenta la stessa capacità di articolare comunque dei complessi di senso geniali, per un altro verso si contrappone a quei circuiti aporetici, che si tendono ad evitare, perché non appagano, non solo la mira rivolta all’ambito della certezza, ma anche il desiderio di raffigurare in un modo abbastanza elegante le proprie posizioni di senso; ed infatti, il carattere conclusivo delle espressioni logico-metafisiche, in questo senso comporta il momento espressivo od estetico di una forma, che concilia la pienezza del significante, con l’intensità del senso che viene offerto – mentre le considerazioni aporetiche precludono quella figura della libertà e della autonomia sovrana del discorso, che si attua nelle modalità conclusive delle sue posizioni. L’aporia, infatti, presenta come una specie di posizione sospesa od interrotta del senso, o come l’elaborazione di un senso indiretto, che verte su un senso di base, e nel coglierne il limite riflette in ultima analisi anche sul limite del proprio incedere, tendendo a stabilire una complicazione la quale, nonostante la sua lucidità analitica, compromette, come può essere detto, lo slancio posizionale della generazione del significato – e quindi, la pienezza espressiva che ad esso è associata.
Ciò posto, d’altra parte, nelle posizioni assiomatiche e conclusive del senso la pienezza espressiva è unita ad una ricerca di una fondazione assoluta, la quale, per una ironia involontaria, a certi propositi, nell’esibire una critica nei confronti di vari tentativi di fondazione relativi, non riesce nemmeno a guadagnare quella misura della certezza, che viene raggiunta da questi ultimi; e l’ironia, in tal senso, è data dal fatto che la proclamazione del raggiungimento dell’esito di una fondazione assoluta, e la preoccupazione per le sorti di una certezza suprema, si associano alla perdita di quella misura di certezza che era stata raggiunta da quei termini del discorso, che vengono criticati per la loro indigenza. A tale ironia, poi, in modo curioso, è associata la potenza espressiva di un discorso, che con la sua forza si pronuncia in un modo suggestivo e vigoroso, il quale riesce valido ed utile anche per le prospettive che vengono criticate, e quindi anche per le istanze che rifiutano l’orizzonte dogmatico.
A tutto ciò, si deve aggiungere comunque che per carattere relativo della fondazione e della certezza intendiamo una certa limitazione di questi ingredienti, la quale possiede comunque dei canoni obiettivi, e non intende racchiudere le proprie prospettive nelle modalità dell’arbitrio meramente espressivo – dovuto ad una sorta di mimesi dell’arte -, od in quelle di una scepsi continuata, che non accolga, sia il grado della certezza che può essere conseguito, che la forza del senso che può essere generata al di fuori degli orizzonti della certezza medesima – e con un certo legame suppositivo nei confronti di quest’ultima. E per quanto riguarda tale aspetto, si deve peraltro considerare che una posizione del senso fortemente collocata al di là delle possibilità della nostra certezza, oltre ad avere il carattere di una significazione, possiede quella dimensione del vero, per la quale il senso medesimo è suscettibile di una forma ipotetica, e in qualche modo comunica con gli ambiti che sono raccordabili con un qualche genere di conferma.
6. L’idealismo e il realismo
Potremmo concludere queste annotazioni, considerando brevemente la questione della contrapposizione fra l’idealismo ed il realismo: anche tale questione, infatti, è suscettibile di essere elaborata con degli accenti dogmatici, laddove, invece, potrebbe essere indicata delineando piuttosto i suoi risvolti aporetici, e sottolineando gli equivoci linguistici dai quali può essere gravata.
In rapporto a tale questione, come è noto, l’idealismo tedesco ha composto una versione appunto contraria a quella del realismo, collocandosi su un piano che evidenzia un grande scarto, nei confronti delle posizioni realistiche precedenti e di quelle successive. Ma, appunto, quello che ci interessa di osservare, è che tale scarto è stato legato al uno spostamento tematico in qualche modo vertiginoso, consistente, non tanto nella negazione intrinseca di una dimensione presupposta alla coscienza individuale, quanto nell’apertura di un orizzonte, che in qualche maniera è comunque presupposto a tale coscienza, ma possiede una natura od una fisionomia diversa da quello realistico, nelle versioni che si riferiscono ad un mondo esterno ed a carattere materiale.
Ciò posto, ci interessa considerare che l’indicazione portante della coscienza come di una dimensione interiore – che viene assunta da autori come Hegel o come Husserl -, al di là della problematica della trasposizione dell’ambito interiore in un campo universale, che non coincide con quello individuale – e merita il nome hegeliano di Idea o quello husserliano di Io puro -, è suscettibile di alcuni equivoci, ancora prima di tutte le complicazioni che può comportare tale trasposizione medesima – con le sue immense occasioni di senso.
E infatti, la nostra coscienza individuale può venire considerata come un ambito interiore, in analogia con quello esteriore della realtà fisico-materiale[8]: in tale maniera, abbiamo appunto il paradosso per il quale la realtà esterna e spaziale si presenta come tale, e insieme come fisica e materiale, nel suo rapporto con quella interiore, per cui quest’ultima constata un qualcosa che è indipendente e specifico nei suoi confronti, a partire dalla relazione che si instaura nella sua specifica collocazione – la quale è appunto interna. Ciò posto, è chiaro che concludere il discorso indicando meramente il carattere di una correlazione reciproca e ‘infinita’ tra i due poli, o addirittura stabilendo il primato dell’ambito interiore, ed il carattere meramente relativo o correlativo di quello esteriore, sarebbe del tutto arbitrario; e infatti, se la prima di queste conclusioni allude alla aporia di un gioco reciproco che non è in modo necessario l’unico orizzonte della nostra considerazione, la seconda indica una dimensione interiore universale che abbraccia la stessa condizione interiore dell’individuo, e che implica il problema della correlazione fra il punto di vista di quest’ultimo, ed una componente originaria od assoluta. Così, per quanto concerne tale aspetto della questione, possiamo osservare quello che segue: da un lato, il cardine od il punto di origine della dimensione interiore meramente individuale, non può avere un carattere fondante, per il carattere solipsistico della dimensione di quell’io particolare che assumerebbe tale funzione; e da un altro lato, la presenza di una dimensione interiore universale e assoluta, stabilita anche in base alla esigenza di legare la dimensione esteriore alla evidenza di quella interiore, proprio in base a tale necessità, dovrebbe essere a sua volta fondata su quella dimensione individuale, nella quale soltanto il carattere interiore potrebbe avere la forza costrittiva della fondazione completa che in tal senso è ricercata. Il che richiede allora di abbandonare la pretesa di una fondazione assoluta ed esente da aporie, e richiede di considerare il lineamento di una fondazione legata a tale pretesa, come una componente che per un verso si imbatte in altri momenti aporetici rispetto a quelli criticati, e per un altro verso può essere assunta solo nella modalità di una supposizione, o, se vogliamo, di una rappresentazione meramente posizionale e provvista di senso, ma priva dello strato di quella certezza, che invece viene ricercata.
E in margine, sempre per quanto riguarda gli equivoci che sono legati al carattere ambiguo ed aperto delle nozioni speculative, possiamo osservare come l’assunzione di una dimensione interiore e individuale, connessa ad una dimensione esteriore che viene considerata come indipendente nei suoi confronti, al di là delle difficoltà che essa comporta, come ogni nozione di questo genere, può generare dei fraintendimenti che, comunque, possono essere dissipati.
Così, fra questi fraintendimenti, abbiamo quello per il quale il carattere esteriore può essere inteso in due modi: o come una dimensione esterna che si annuncia al di là della correlazione con la dimensione interiore, o come la dimensione esterna, quale risulta dall’atto o dalla presenza fungente di tale correlazione. Ed a tale proposito, possiamo osservare, ad esempio, che la decisione di nominare come esteriore la dimensione che si annuncia in tale maniera, invece di restringere questo termine soltanto a quanto cade entro tale correlazione con la nostra coscienza, ha una componente convenzionale; per il che, l’uso più o meno ristretto di tale termine, e la possibilità di questa variazione convenzionale e linguistica, non impediscono di comprendere la differenza o lo scarto fra queste due unità tematiche. In altre parole, possiamo stabilire quello che segue: da un lato, abbiamo una dimensione che è esteriore, nel senso che non coincide con quella, interiore, della nostra coscienza individuale, ed è tale da presentarsi con i caratteri pieni e pregnanti del senso dello spazio, e della condizione fisica o materiale, una volta che venga immessa nel suo rapporto attuale con tale coscienza; da un altro lato, abbiamo invece una condizione che è esteriore, appunto nel senso che risulta tale entro la forma di una tale presenza, od in base al momento trascendentale della sua correlazione con la nostra coscienza medesima – la quale, tuttavia, attraverso la sua direzione a priori, o la fungenza del suo cardine, coglie in un modo indiretto una dimensione che non dipende dall’instaurarsi della sua relazione. Ed al di là di questa evidenza, le sue limitazioni non impediscono di rilevare come arbitraria l’esigenza, la quale postuli che l’instaurazione di una relazione abbia sempre il carattere di una sussunzione a priori, ma non possa avere quello di una rilevazione in qualche misura obiettiva – che, pertanto, mediante la relazione colga qualcosa che ad essa si offre, e che non è essa medesima a costituire.
E ancora, nella prospettiva da cui muoviamo, e per la quale è inevitabile che il discorso speculativo abbia sempre una certa valenza simbolica, la quale non può avere il genere di conferma che appartiene ai discorsi epistemici delle scienze naturali, dobbiamo riconoscere che anche in quello che si è indicato si evidenziano degli elementi aporetici; infatti, è chiaro che la presenza, comunque evidente, del carattere per il quale la dimensione indipendente dalla coscienza non ha il senso pienamente esteriore che ad essa compete nel suo rapporto trascendentale con quest’ultima, ma ha una pienezza di indipendenza che può essere detta esteriore o meno, implica la questione di una condizione che sfugge alle possibilità della nostra certezza, e rispetto alla quale le indicazioni di un qualcosa di esterno o di interno, così poste, hanno un margine allusivo. Se, insomma il connotato di quello che è esteriore, e di quanto è interiore, non possono essere fissati in una maniera univoca, lasciando ampi margini al gioco delle decisioni linguistiche, questo aspetto aleatorio indica un orizzonte che non può essere afferrato, e rispetto al quale tali elementi verrebbero articolati in una maniera critica; al che, il registro simbolico del nostro stesso discorso, nel medio di alcune certezze limitate che sono legate ai contesti della nostra esperienza, lascia trasparire quel tessuto tematico, che è oggetto delle considerazioni speculative, e che, in linea di principio, non può mai avere una piena risoluzione.
Ma tutto ciò, d’altra parte, in questo contesto deve valere quale esempio, alquanto limitato, di una modalità del discorso speculativo, che intende sfuggire a quel carattere dogmatico di cerimonia, al quale abbiamo alluso in precedenza.
[1] Cfr. ad es. A. Kojève, da Phénoménologie de l’Esprit, 1933-1939, trad. it. di P. Serini, La dialettica e l’idea morte in Hegel, Einaudi, Torino 1982, pp. 40-41
[2] Cfr. ad es. G. W. F. Hegel, Die Phänomenologie des Geistes, 1807, trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 496, ove l’autore, indicando «il sapere assoluto o lo spirito che si sa come spirito», si riferisce alla «storia concettualmente intesa ed alla «commemorazione» e al «calvario dello spirito assoluto», nonché alla «effettualità (Wirklichkeit)», alla «verità (Wahrheit)» ed alla «certezza ( Gewißheit) del suo trono».
[3] Cfr. K. Jaspers, Philosophie. III, Metaphysik (1932), 1956, trad. it. di U. Galimberti, in Metafisica, Mursia, Milano 1972, p. 105: «La differenza fondamentale tra significati nel mondo e significati metafisici dipende dal rapporto dell’immagine con ciò che essa rappresenta, e cioè se in questo rapporto anche il rappresentato si lascia cogliere come oggetto (Gegenstand), o se l’immagine è solo immagine di qualcosa che non si può raggiungere in nessuna altra maniera; se ciò che è espresso con l’immagine può essere detto o indicato anche direttamente, o se esiste per noi in quanto è nell’immagine. Solo nell’ultimo caso noi parliamo simbolo nel senso pregnante di significato metafisico, che, nell’immagine, deve essere colto esistenzialmente, senza poter essere pensato oggettivamente».
[4] Cfr. K. Jaspers, Philosophie. II – Existenzerhellung (1932), 1956, trad. it. di U. Galimberti, Chiarificazione dell’esistenza, Mursia, Milano 1978, p. 231: «L’esistenza vuol accertarsi dell’originaria certezza che essa possiede dell’essere perché, afferrandola nell’esserci e da essa separandosi, sente che vacilla e si fa equivoca. Senza un processo di autoriflessione su se stessa, l’esistenza non possiede alcuna sicurezza in se stessa, e la certezza sembra abbandonarla».
[5] Per quanto riguarda la semiologia cfr. E. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, p. 343: «La definizione semiotica del testo estetico provvede..il modello strutturale di un processo non strutturato di interazione comunicativa. Al destinatario viene richiesta una collaborazione responsabile. Egli deve intervenire a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, a scegliere i propri percorsi di lettura, a considerarne molti un tempo – anche se mutuamente incompatibili – e a rileggere lo stesso testo più volte, ogni volta controllando presupposizioni contraddittorie. Il testo estetico diventa così la fonte di un imprevedibile atto comunicativo il sui autore rimane indeterminato, talvolta essendo il mittente, talvolta il destinatario che collabora alla sua espansione semiotica». E’ peraltro chiaro che queste osservazioni, in un certo modo, si possono estendere al carattere del senso speculativo, in quanto esso non rientra nello statuto strettamente univoco attinente al sapere scientifico – che, a sua volta, è suscettibile di una chiusura teorica in senso matematico, o di una conferma sperimentale. Ma per un accostamento tra il discorso filosofico e l’ambito artistico, cfr. quanto si rileva più avanti, nel testo.
[6] L’equivocità che in tal senso deve essere esclusa per Jaspers risulta da quello che segue: «Se la cifra interpretata si trasforma in un sapere, e quindi diventa oggettiva e valida, allora, in questa forma sradicata dall’esistenza, la sua equivocità è la stessa di tutto il simbolismo che interpreta» (cit., Metafisica, p. 265). Tuttavia, con una certa convergenza rispetto a quanto si può indicare nei termini di una ambiguità, l’autore accoglie un altro genere di equivocità: «se in generale la cifra, invece di essere interpretata, è custodita nella sua origine, allora questa equivocità non la riguarda. Se però, un’interpretazione della cifra originaria nell’essere pensata diventa a sua volta cifra, allora l’equivocità non è minore, e non è neppure arbitraria, ma dipende dalla molteplicità dei modi con cui l’esistenza possibile se l’appropria. Come possibilità di appropriazione essa diventa univoca solo nell’istante del presente storico dell’esistenza, in una forma non trasferibile e in se stessa in conoscibile. Questa univocità consiste nella insostituibilità della Trascendenza che riempie questa esistenza» (ibidem). Peraltro, l’esigenza che Jaspers avverte, circa la necessità che il discorso metafisico oltrepassi il carattere equivoco del senso, inteso in un’accezione stretta della parola, si evidenzia in quanto indicato nella nota 4, nel testo.
[7] A tale proposito, un’altra osservazione che si deve fare riguarda il fatto che certi aspetti dogmatici in qualche modo non intaccano il valore intellettuale complessivo dei prodotti metafisici, i quali si animano di sensi speculativi e di pregnanza estetica proprio anche mediante la loro inclinazione ostinata. Così, ad esempio, acquistano un particolare rilievo le osservazioni di E. Severino ne La gloria – ove si dovrebbe testimoniare una risoluzione del “Destino della necessità”, secondo un convegno dettato da una armonia assoluta e sovratemporale, costituita da una gioia universale da sempre ed eternamente presente, e dispiegata nell’ordine di una gloria che si attua nella figura apparente del tempo (cfr. La Gloria, Adelphi, Milano 2001, e Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980). E inoltre, si deve sottolineare come per Severino la condizione da lui indicata sia del tutto immanente, oltrepassi abissalmente ogni reperto biblico, non concerna la felicità di un’anima immortale, e indichi l’eternità esclusiva di ogni realtà specifica, sin nei minimi particolari. Ma, d’altra parte, nonostante questo, si deve riconoscere che il testo di Severino, per chi abbia un’adeguata capacità di ascolto, dovrebbe sollecitare ad una meditazione ammirata, sia sotto il profilo speculativo, che sotto quello estetico-espressivo. Peraltro, è utile osservare, come l’imponenza di questo testo di Severino non sia disgiunta dalla pretesa teorica e psicologica, che quanto in esso è detto debba essere preso alla lettera come una sorta di deduzione, da consegnare alla certezza dei contemporanei e dei posteri, i quali, magari, dovrebbero rilevarne il dettato oltrepassando abissalmente la rivelazione biblica (il che pone interrogativi ulteriori); e inoltre, secondo gli intenti dell’autore, un valore sobriamente e severamente assiomatico e geometrico del volume dovrebbe essere congiunto al carattere fastosamente libero e insieme geniale delle sue invenzioni. Per quanto riguarda infine il confronto di Severino con la tradizione biblica, cfr. quello che segue: «La parola greca l’apokálipsis significa “non nascondimento” e, in questo senso, quell’unico evento è l’apokálipsis della Gloria della terra che si è liberata della propria solitudine. Ma l’Apocalisse di Giovanni riprende il testo di Isaia, che, dopo aver espresso sia la volontà di Dio di far diventar altro la terra..sia il nuovo spettacolo di fronte a cui verrà a trovarsi il mortale..aggiunge che “le cose di prima non verranno più nella memoria, né più torneranno in mente”.. e anche “i patimenti passati saranno consegnati all’oblio”.. Ma proprio questo fallimento della memoria e della mente è escluso dalla Gloria della terra. Tutto ciò che una volta è apparso in un cerchio del destino ed è sceso nell’oblio è destinato ad apparire di nuovo, in un unico evento, e a rimanere definitivamente nell’apparire di ognuno dei cerchi della costellazione infinita che all’infinito si dispiega nella Gloria, dopo il tramonto della solitudine della terra» (cit., pp. 550-551).
[8] A proposito di questa analogia, cfr. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1930), 1950-1952, trad. It. di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenogica, Einaudi, Torino 1976, Libro secondo, p. 502: «nel rendersi conto, a prescindere dagli elementi spaziali da cui l’immagine deriva, c’è qualcosa di simile a una direzione, qualcosa che procede da un punto?»; e ancora: «Nella coscienza assoluta abbiamo sempre un “campo” d’intenzionalità, e lo “sguardo” spirituale implicito nel rendersi conto si “dirige” ora su questo ora su quello. – Il problema è di sapere se queste immagini abbiano un significato originario e se esprimano un’analogia originaria (ursprüngliche Analogie)» (ibidem). E’ poi evidente che questa indicazione, al di là della questione della coscienza assoluta, può valere in riferimento alla sola coscienza particolare.