Fedor Michailovic Dostoevskij





"Se Dio non esiste, tutto è permesso".


 

A cura di Loreti Matteo

 

 

 

 

LA LIBERTÀ SECONDO DOSTOEVSKIJ (di Maria Russo)

 

 

DostoevskijQuella di Dostoevskij non è propriamente un’opera filosofica: se si escludono brevi saggi apparsi su varie riviste dell’epoca,  oltre al suo diario nel quale esprime in forma concettuale le idee che poi si incarnano nei personaggi dei suoi romanzi,  egli preferì alla schematicità e sistematicità del trattato la finzione letteraria; la sua è una filosofia dialettica che,  come nei dialoghi platonici,  lascia intravedere nella cadenza della conversazione,  degli scambi di idee tra i suoi personaggi la sua concezione della vita umana,  una concezione vorticosamente incentrata sull’idea di libertà e di dignità. Gide scrisse che i romanzi di Dostoevskij sono i libri più carichi di pensiero che esistano,  pur essendo romanzi. In Dostoevskij filosofia e letteratura si fondono, si compenetrano,  perché se la filosofia è riflessione sulla esistenza è propedeutica alla scelta tra le modalità che questa propone,  e non  mera speculazione; e quindi non può nascere che dall’esistenza,  dalla vita. Il problema fondamentale che attraversa tutta la sua opera,  almeno dalle Memorie del sottosuolo in poi,  è un problema etico e metafisico insieme; quello del bene e del male,  che l’uomo è chiamato a scegliere in virtù della libertà che Dio gli ha concesso.

Nel dibattito filosofico italiano, è stato il filosofo piemontese Luigi Pareyson a portare l’attenzione sulla figura di Dostoevskij, scorgendo in lui le radici di un pensiero tragico al cui centro stanno la libertà e la scelta.

Per capire l’opera,  è tuttavia necessario conoscere la vita dello scrittore Dostoevskij, che contribuisce a mettere in luce il passaggio dalla concezione umanitaristica dei primi romanzi,  da Povera gente a Memorie di una casa di morti a quella metafisica dei grandi romanzi e culminante nel potente e inquietante affresco de I fratelli Karamazov; e ovviamente il contesto storico e culturale della Russia della seconda metà dell’ottocento.

Fedor Michailovic Dostoevskij nasce a San Pietroburgo nel 1821. La sua famiglia discende dalla piccola nobiltà lituana del XVIII secolo. Il padre dello scrittore era un medico militare,  diventato poi col tempo un piccolo proprietario terriero,  dispotico e violento, tanto che verrà ucciso da uno dei suoi servi. La madre,  una donna gentile,  serena,  profondamente cristiana, avvicina per prima Fedor alla religione, leggendogli fin da piccolo brani della Bibbia. Il futuro scrittore viene costretto dal padre a compiere studi tecnici, ma la vocazione letteraria si manifesta in lui immediatamente, tanto da fargli pubblicare a ventiquattro anni il primo romanzo, Povera gente, da lui definito “un romanzo dell’ampiezza di Eugenie Grandet” di Balzac.

Contemporaneamente, egli entra a far parte di un circolo letterario di orientamento politico sovversivo, dove si leggono testi di autori socialisti come Fourier e Saints Simon. Quando il circolo viene dichiarato fuori legge, Dostoevskij viene condannato all’esecuzione capitale con gli altri membri, ma proprio  mentre i condannati sono di fronte al plotone di esecuzione arriva improvvisa l’ordinanza dello zar che commuta loro la pene capitale e dispone quattro anni di lavoro forzato in Siberia. Durante tale periodo, Dostoevskij si avvicina al pensiero slavofilo, riscopre il cristianesimo ortodosso abbandonando le posizioni politiche eversive prima appoggiate. Uscito dal carcere, fonda una rivista letteraria dove si scaglia più volte contro i nichilisti di orientamento socialista che, a suo dire, mettono a repentaglio lo spirito e il senso religioso russo, oltre a destabilizzare la situazione politica, con la loro dichiarata professione di ateismo e la proposta di rovesciare con la rivoluzione l’ordine sociale e politico esistente in nome della rivoluzione. Nel frattempo, è già iniziata la pubblicazione dei grandi romanzi; nell’ordine, Memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, L’idiota, I demoni, e ultimo il capolavoro I fratelli Karamazov, ultimato poco prima della morte, avvenuta nel 1881.

Dostoevskij può essere considerato, come sostiene Nikolaj Berdjaev, “il più grande metafisico russo”. La sua è un’intuizione cristiana del mondo e dell’esistenza umana che ruota intorno alla sacralità della vita, una sacralità che non può avere altra motivazione che non derivi necessariamente dalla sua origine divina. La fede cristiana (ortodossa, s’intende) rappresenta quindi la stella polare che guida Dostoevskij nella sua analisi, a volte crudele ed impietosa, dell’animo umano, del quale scandaglia le profondità che si rivelano alla superficie quando questi abusa della sua libertà e la muta in arbitrio. L’uomo è libero, ci dice Dostoevskij, tragicamente libero, perché è stato creato a immagine e somiglianza di Dio che l’ha messo al mondo dotato di ragione, facoltà che deve saper incanalare per poter cogliere nel corso dell’esistenza la differenza tra il bene e il male. Quando però la “ruminazione cerebrale” (espressione usata da Gide) conduce alla pretesa superomistica di autodeterminarsi da sé, rinnegando Dio e perciò anche la natura divina dell’uomo, la libertà rinnega sé stessa e si ritorce contro l’individuo, conducendo la sua personalità alla dissoluzione. Nessuno come Dostoevskij ha rappresentato con così tanto vigore gli effetti a cui può portare il rovesciamento della natura divina dell’uomo dal Dio-uomo all’Uomo-dio.

La dialettica dostoevskijana squarcia i veli che la filosofia razionalistica aveva steso sui più bassi istinti della natura umana, impedendo di coglierne le contraddizioni. Sembra quasi di ritrovare qualcosa dello spirito di Eraclito nello scrittore russo: pur essendo una vera e propria gnosi, le sue idee sono percezioni dinamiche della realtà, non statiche come avviene in Platone; la sua filosofia è una percezione religiosa dell’esistenza umana, che si colloca però all’opposto dei grandi pensatori cristiani mistici proprio perché nei suoi personaggi rappresenta le conseguenze che la tragicità insita nella libertà umana può portare all’individuo. Emblematica, in questo senso, è la figura dell’“uomo del sottosuolo”, espressione indicante quel lato oscuro della personalità presente in ogni uomo che Freud più avanti chiamerà “inconscio”. Costui dichiara infatti nelle sue memorie (prima con una sconvolgente riflessione-confessione, poi con una serie di episodi della sua vita) che l’uomo sarebbe disposto, pur di conservare per sé la cosa più stupida e dannosa, la peggiore umiliazione o vergogna pur di conservare la sua libertà nei confronti degli alfieri del progresso sociale e politico che vogliono impostare la convivenza sociale e l’ordine politico in base a criteri di pura razionalità. L’uomo non sarà mai un tasto di pianoforte e non si rassegnerà mai al “due più due uguale quattro”.

Memorie del sottosuolo è forse l’opera più profonda e compiuta di Dostoevskij, quella dove la sua filosofia viene espressa in forma pura, e rappresenta un sconvolgente resoconto del più turpe lato dell’animo umano. Pochi hanno saputo trattari temi così alti e profondi con tale forza e chiarezza espressiva. Tra gli autori a lui contemporanei, si fa spesso il nome di Friedrich Nieztsche, a cui è accomunato dalla percezione tragica dell’esistenza che però nel filosofo tedesco si risolve nel nichilismo perché egli è troppo profondamente legato alla cultura greca e sostanzialmente estraneo al cristianesimo, incapace perciò di intravedere nella figura salvifica di Cristo il riscatto dell’umanità. La concezione di Dostoevskij è tragica, ma nella misura in cui il fardello della libertà pesa interamente sulle spalle dell’uomo conferendogli tutta la sua dignità. Quella di Nietzsche è concezione dell’assurdo, perché non riconosce alcun senso ontologicamente dato nell’essere: per riscattarsi, l’uomo deve darsi da sé un senso trasformandosi nel superuomo la cui volontà di potenza lo conduce però alla catastrofe dell’anti-uomo.

È impressionante come Dostoevskij abbia in questo anticipato la concezione superomistica di Nietzsche con Delitto e castigo prima e con I demoni poi, dove lo stesso problema viene affrontato a livello politico e collettivo anziché individuale. Il primo è la storia di un giovane studente, Raskolnikov, convinto di avere facoltà intellettive e personalità eccezionali, e per mettersi alla prova decide di uccidere una vecchia usuraia, odiata da tutti, pensando di realizzare un’azione positiva. In realtà, dopo l’omicidio, il giovane si trova gravato da un peso che lo porta a sfiorare la follia e lo costringe a confessare il delitto: la consapevolezza di aver oltrepassato i limiti della libertà umana, l’affermazione della quale si è scontrata con la brutalità di un’azione che ha leso la libertà e la dignità di una creatura che, per quanto insignificante possa essere, ha comunque diritto alla vita sulla base del presupposto che ogni uomo è a immagine e somiglianza di Dio e pertanto la sua sorte non può essere decisa da un altro uomo. Raskolnikov riuscirà a sottrarsi alla perdizione e allo sdoppiamento della personalità solo grazie all’amore della giovane Sonija, figlia di un impiegato conosciuto in una bettola al principio del romanzo e poi morto investito da una carrozza. Sonija viene tratteggiata da Dostoevskij come una ragazza giovane, semplice, umile, costretta a prostituirsi per pagare i debiti del padre e proprio per questo dotata di una grazia, di una bellezza interiore che poco a poco redime il giovane studente con la forza della compassione e della pietas cristiana. Solo nei semplici, nei puri di cuore, come nel Vangelo, Dostoevskij vede incarnata la capacità di sentire le sofferenze altrui e solo in esse la passione intesa come forza purificatrice lava l’animo di coloro che hanno imboccato la strada del male, redimendoli. Lo stesso avviene con la figura del principe Miskyn, il protagonista de L’idiota: il termine non è qui riferito alle scarse capacità intellettive del protagonista, quanto piuttosto alla sua purezza d’animo, alla sua ignoranza delle cose del mondo. Tornato in Russia all’età di ventisette anni, dopo aver passato gli anni precedenti in cura presso una clinica svizzera per epilessia che l’aveva ridotto, secondo egli stesso, “quasi un idiota totale”, viene introdotto nell’aristocrazia russa grazie a una lontana parente e coinvolto in una serie di episodi che lo condurranno alla pazzia perché incapace di comprendere la malvagità e la malafede delle persone con le quali si trova a che fare che tenta di comprendere nel profondo e redimere. Tutti considerano il principe un povero ingenuo sprovveduto, ma la sua capacità di leggere nell’animo delle persone talvolta è così straordinaria da disarmare; ma proprio il suo candore sarà la causa della sua rovina. Il suo amore per una giovane donna, Nastasja Filipovna, che il volgare Rogozin cerca di possedere e di comprare con la ricchezza, è un amore non passionale, ma “di compassione”, ma la giovane, l’unica ad aver veramente intuito la enorme nobiltà d’animo del principe, lo fugge continuamente proprio per l’incapacità di sostenere un simile amore, per il quale non si sente adatta, temendo di portare il principe alla pazzia, tra le cui nebbie egli però finisce ugualmente in tentativo quasi donchisciottiano (il personaggio che Dostoevskij amava più di tutti) di redimere il mondo che lo circonda. La capacità di Dostoevskij di ritrarre figure così estreme nella loro unicità, eppure contemporaneamente così realistiche, vive e vicine allo spirito dei nostri tempi raggiunge forse il suo apice ne I demoni: qui le straordinarie e inquietanti figure di Verchovenskij, Stavrogin, Kirillov, i cospiratori della setta socialista trasudano una forza spirituale e umana immensa. Nel personaggio di Stavrogin, Dostoevskij sembra aver voluto rappresentare gli effetti di quello che Kierkegaard in Aut-aut chiama lo “stato estetico”: dotato di una eccezionale forza spirituale e di un eccezionale carisma, Stavrogin non sa incanalare questa energia in nessuna direzione, perché incapace di scegliere: il bene e il male in lui producono lo stesso effetto, tanto da far dire a uno dei personaggi del romanzo, Sciatov, che in lui “l’ideale della madonna e quello di sodomia dispiegano la stesso fascino, tanto che il marchese De Sade avrebbe potuto prendere esempio da lui”. L’unica cosa che lo stimola è la sua abnorme avidità di sensazioni, che lo porta a provare qualsiasi esperienza, con sadico sarcasmo, senza che egli riesca a decidere fra il bene e il male. Ma proprio questa sua irresolutezza lo condurrà allo sdoppiamento della personalità e all’incapacità d’amare, fino al suicidio finale. Kirillov porta invece agli estremi l’idea del suicidio logico formulata da Dostoevskij nel Diario di uno scrittore; la sua idea è quella di uccidersi per poter diventare egli stesso un Dio, liberare l’uomo dalla paura della morte e donargli la libertà. Come ha efficacemente scritto Pareyson, nella prospettiva fatta valere da Dostoevskij “l’uomo non può riconoscere Dio senza volerlo essere”, con tutti gli effetti catastrofici che ne scauriscono. Negare Dio vuol dire divinizzare l’uomo: ma ciò porta a effetti disastrosi, alla luce del fatto che “se Dio non esiste, tutto è permesso” (I fratelli Karamazov), crolla ogni limite e l’uomo può commettere ogni sorta di nefandezza.

La sostituzione dell’uomo a Dio è così tratteggiata da Dostoevskij ne I fratelli Karamazov:

 

“Secondo me, non c’è nulla da distruggere, fuorché l’idea di Dio nell’umanità; ecco di dove occorre cominciare! È di qui, di qui che si deve partire, o ciechi, che non capite nulla! Una volta che l’umanità intera abbia rinnegato Dio (e io credo che tale epoca, a somiglianza delle epoche geologiche, verrà un giorno), tutta la vecchia concezione cadrà da sé, senza bisogno di antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio divino, titanico, e apparirà l’uomo-dio. Trionfando senza posa e senza limiti della natura, mercé la sua volontà e la sua scienza, l’uomo per ciò solo proverà ad ogni istante un godimento cosí alto da tenere per lui il posto di tutte le vecchie speranze di gioie celesti. Ognuno saprà di essere per intero mortale, senza resurrezione possibile, e accoglierà la morte con tranquilla fierezza, come un dio. Per fierezza comprenderà di non dover mormorare perché la vita è solo un attimo, e amerà il fratello suo senza ricompensa. L’amore non riempirà che un attimo di vita, ma la stessa consapevolezza di questa sua fugacità ne rinforzerà altrettanto l’ardore quanto prima esso si disperdeva nelle speranze di un amore d’oltre tomba e infinito...”, e via di questo passo. Delizioso!”

 

In Kirillov c’è ancora quell’amore per gli uomini che in Stavrogin è spento, ma la radicalità della sua idea lo ha inghiottito e portato all’indifferenza verso ogni cosa, persuaso dall’ateismo che la vita non abbia nessun senso. Il suo suicidio deve allora essere un gesto di redenzione, come quello di Cristo, che però fallisce perché sono le sue stesse premesse ad essere assurde e quindi, di conseguenza, a rendere assurdo e irrealizzabile il fine. Kirillov accetta emblematicamente di firmare, prima di morire, una dichiarazione nella quale si assume per intero le responsabilità dei crimini commessi da Verchovenskij e dai suoi seguaci. Se Miskyn viene condotto alla pazzia dalla sua incapacità di fronteggiare la realtà, la quotidiane bassezze della lotta alla sopravvivenza, Kirillov tenta un sacrificio che non redime nessuno perché rappresenta una rivolta contro la natura umana, non la sua realizzazione. I demoni non è, come è stato detto, un romanzo politico, ma un romanzo profetico il cui contenuto è prima di tutto metafisico, in quanto Dostoevskij aveva già capito come quello del socialismo fosse, prima che un problema politico, un problema religioso; solo rinnegando la natura divina dell’uomo e quindi la figura di Cristo come fondamento della convivenza sociale era possibile pensare di costruire una società utopica in cui l’uomo avrebbe potuto realizzare da sé la perfezione facendo a meno di Dio, ma questo doveva necessariamente portare, secondo lo scrittore, a quelle tragedie che sempre si determinano quando viene meno la sacralità della vita umana e questa può essere di conseguenza concepita anche come fine per raggiungere  propri scopi, come ben illustra la figura di Verchovenskij.

L’opera di Dostoevskij si conclude con I fratelli Karamazov, nel quale svetta l’episodio del grande inquisitore. Dostoevskij immagina lo svolgimento di un processo nei confronti di Gesù, responsabile secondo il grande inquisitore, ateo ma capace di un grande amore per gli uomini. Quest’ultimo accusa Gesù di aver fatto un torto donando all’uomo la libertà, della quale egli non sa che farsene, al posto della felicità: se infatti l’esistenza umana fosse ritmata dalla necessità, la felicità sarebbe stata facilmente accessibile, ma l’uomo avrebbe dovuto rinunziare alla libertà, alla dignità, alla ricerca di senso nel corso del proprio cammino. Anche negli abissi dell’oscurità del male, l’uomo deve sempre lasciarsi guidare dalla luce di Cristo, che è verità sulla libertà, perché la prospettiva della vita eterna le conferisce un senso, e libertà nella verità perché Dio lascia l’uomo libero di credere, libero di scoprire con le proprie azioni la distinzioni di bene e male. Per questo Cristo non è sceso dalla croce, perché è la fede che deve produrre il miracolo e non viceversa.

Il messaggio di Dostoevskij, come quello dei grandi filosofi e dei grandi tragici, acquisisce valore nel tempo, anziché perdere importanza, perché la sua sensibilità indaga gli eterni problemi dell’uomo. La sua straordinaria attenzione per la vita sociale e politica della sua epoca non rende certo anacronistico il suo messaggio, anzi lo rende vivo perché mostra gli effetti che grandi idee producono nella vita di persone comuni nella vita di tutti i giorni. La sua attualità è del resto evidente oggi: basta pensare al difficile tentativo di conciliare fede e scienza, al dibattito sulla laicità dello stato che oggi trovano ampio risalto nei nostri media. Su questi temi, lo sguardo di Dostoevskij può essere ancora illuminante e scuotere ancora le coscienze.


 

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