EMILE DURKHEIM
A cura di Alfio Squillace
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Emile Durkheim nasce a Epinal (Francia) in una famiglia ebrea praticante nel 1858. Rifiutando di diventare rabbino, entra alla Scuola Normale Superiore nel 1879, ove è compagno di studi di Jaurès, Bergson, Janet, Blondel. Legge Herbert Spencer, Renouvier, Auguste Comte e segue i corsi di Fustel de Coulanges sulle istituzioni delle società antiche. Repubblicano, fervente sostenitore di un ideale d’universalismo laico, Durkheim vuole contribuire con l’insegnamento e la ricerca alla ricostruzione sociale e morale della Francia ancora lacerata dalla sconfitta di Sedan del 1870 e dagli eventi drammatici che seguirono (occupazione prussiana, insurrezione della Comune di Parigi e sua repressione). Nel 1882, avvia contemporaneamente alcune ricerche sulla divisione del lavoro sociale (impegno principale) e su Montesquieu (impegno secondario). Viaggia per un anno in Germania, dove studia lo sviluppo delle scienze umane e sociali e constata la loro fioritura, quindi, nel 1887, inaugura a Bordeaux la cattedra di scienza sociale e di pedagogia. Nei suoi corsi tratta della solidarietà sociale, del suicidio, della “fisiologia” del diritto e dei costumi, del fatto morale e religioso, delle strutture educative e delle dottrine pedagogiche. Fin da quest’epoca, raccoglie attorno a sé un gruppo di discepoli e di collaboratori (suo nipote M. Mauss, R. Hertz, F. Simiand, e M.Halbwachs) e fonda l'Année sociologique (1896).
Nel 1902, diventa titolare della cattedra di scienza dell’educazione alla Sorbona, che, nel 1913, prenderà il nome di cattedra di educazione e sociologia. Vicino al partito socialista, dreyfusardo, fermamente convinto dell’evoluzione parallela dei progressi scientifici e tecnici da un lato e dei progressi sociale e morali dall’altro, ma anche dell’armonizzazione razionale e pacifica delle relazioni tra nazioni, cade nella disperazione all’atto della deflagrazione del conflitto mondiale del 1914 che infranse questo suo ottimismo intellettuale e che inghiottì numerosi collaboratori e anche il figlio André, nel 1916. Durkheim sopravvive alla sua morte solo un anno: morirà infatti nel 1917.
Al di là dell’ambito prettamente accademico, le tesi durkheimiane si diffusero in Francia, in ambito storico (scuola delle Annales ), linguistico (Ferdinand de Saussure) ed etnologico grazie a Marcel Mauss. Furono introdotte nei paesi anglosassoni da R. Radcliffe-Brown (scuola di Chicago) e Br. Malinowski (Gran Bretagna), ma sotto una forma mutilata (la teoria funzionalista di Malinowski) o molto semplificata (la concezione del rito di Radcliffe-Brown). Le teorie di Durkheim conoscono un rinato interesse a partire degli anni ’50 del Novecento, soprattutto per via del suo rifiuto dello psicologismo e per i suoi lavori di sociologia della conoscenza.
Della divisione del lavoro sociale (1893)
In Della divisione del lavoro sociale, Durkheim si domanda come mai l’individuo diventa sempre più autonomo e al tempo stesso viene sempre più a dipendere dal resto della società. Infatti, lo sviluppo dell’individuo che caratterizza la modernità non è accompagnato da un indebolimento dei legami sociali, ma piuttosto da un cambiamento di questi ultimi. Le società premoderne (prive della divisione del lavoro) non conoscono spazi per le differenze e per le individualità, le unità sociali stanno insieme perché sono tutte simili e ugualmente sottoposte all’unità di grado superiore di cui fanno parte (l’individuo alla famiglia, la famiglia al clan, il clan alla tribù). È una solidarietà meramente “meccanica”, come quella delle molecole di un corpo inorganico: e che sia una solidarietà meccanica appare evidente non appena si considerino i sistemi giuridici che vigono all’interno delle società premoderne, che sono tutti sistemi che adottano sanzioni repressive contro chi viola le leggi. Al contrario, nelle società moderne, in cui fortissima è la divisione del lavoro, ogni individuo e ogni gruppo svolge funzioni diverse: la solidarietà non si fonda più sull’uguaglianza ma sulla differenza; gli individui e i gruppi stanno infatti insieme perché nessuno è autosufficiente e tutti dipendono da altri. E gli stessi sistemi giuridici mirano non a reprimere, bensì a ristabilire l’equilibrio infranto da chi ha violato le norme (sono cioè sanzioni restitutive). Questo tipo di solidarietà è detta “organica” da Durkheim. Interrogandosi sui fondamenti del consenso sociale che stabilizzano le società, Durkheim intende dimostrare che l’anomia crescente nelle società moderne industriali non è una mera fatalità ma è da mettere in stretta connessione con l'instaurazione, modifica e sviluppo di una morale corrente, di un sistema di valori condiviso e con la loro degenerazione. A tale scopo Durkheim studia i tipi principali di stratificazione sociale in funzione del loro modo di determinare la coesione sociale. Fondamentale è a tal proposito la nozione di solidarietà, ovvero la coscienza sempre più interiorizzata che gli individui hanno di convivere in società e di sposarne i valori fondativi-aggregativi. Secondo Durkheim, con una legge di complessità strutturale crescente, sotto l’influenza del fattore demografico, le società passano dalla prevalenza della solidarietà “meccanica” a quella della solidarietà “organica”. Ma l’aumento in volume e in densità della popolazione ha realmente un effetto soltanto in virtù della densità “morale” o “dinamica” (numero e frequenza degli scambi sociali), la cui crescita causa a sua volta l’evoluzione dei quadri sociali. La solidarietà meccanica è caratterizzata dalla giustapposizione di segmenti sociali equivalenti (ordini, clan), e l’accettazione da parte dei singoli dei presupposti della coesione collettiva tramite funzioni repressive. In questo stadio gli individui vengono colti per somiglianza e la personalità individuale è assorbita in quella collettiva. In quest’ambito prevale un diritto di tipo prescrittivo (o penale). Il vincolo di solidarietà sociale al quale corrisponde il diritto repressivo è quello la cui rottura costituisce il reato; chiamiamo così ogni atto che, in qualche grado, determina contro il suo autore la reazione caratteristica denominata pena. La solidarietà organica si manifesta attraverso la differenziazione di funzioni specializzate (altrimenti detta divisione del lavoro) che implica la cooperazione cosciente e libera degli agenti sociali, quindi lo sviluppo della contrattualizzazione delle relazioni sociali e la nascita dello Stato moderno democratico, centralizzato, gestionale, e la conseguente concezione dell’individuo come persona. In quest’ambito prevale l’adozione di un diritto di tipo restituivo (o privato). Più specificamente per diritto restituivo Durkheim intende un sistema definito che comprende il diritto domestico, il diritto contrattuale, il diritto commerciale, il diritto delle procedure, il diritto amministrativo e costituzionale. Le relazioni regolate da tali diritti sono completamente diverse dalle precedenti: esse esprimono un concorso positivo, una cooperazione che deriva essenzialmente dalla divisione del lavoro. Durkheim riconosce alla divisione del lavoro soprattutto un carattere morale. Infatti in virtù di essa l'individuo ridiventa consapevole del suo stato di dipendenza nei confronti della società e del fatto che da questa provengono le forze che lo trattengono e lo frenano. In una parola, diventando la fonte eminente della solidarietà sociale, la divisione del lavoro diventa anche la base dell'ordine morale.
Le regole del metodo sociologico (1895)
La stesura dello scritto Della divisione del lavoro sociale del 1893 indusse Durkheim a misurarsi con le categorie da lui impiegate in quello scritto: in particolare, a domandarsi quali fossero e come funzionassero, in concreto, le “regole del metodo sociologico”. Non tutto è “sociale” in una società: e il fatto sociale – ossia “l’integrazione degli individui in una comunità morale di significazione” - è poi irriducibile ai fatti psicologici e biologici. Si tratta di un fatto collettivo, obiettivo, non soggettivo né mentale, e rispondente a “leggi sociali” autonome dalla psicologia e dalla biologia.
“Quando adempio ai miei compiti di fratello, di coniuge o di cittadino quando onoro gli impegni che ho contratto, io eseguo dei doveri che sono definiti fuori di me e dei miei atti, nel diritto e nei costumi. Proprio quando sono d’accordo con i miei sentimenti più profondi e ne sento interiormente la realtà, questa non cessa di essere oggettiva; poiché i miei doveri non sono io ad averli fatti, ma li ho ricevuti con l’istruzione […] La caratteristica essenziale dei fatti sociali consiste nel potere che essi hanno di esercitate dall’esterno una pressione sulle coscienze degli individui. […] Un fatto sociale si riconosce dal potere di coercizione esterno che esso esercita o è suscettibile di esercitare sull’individuo”.
È dunque la coercizione o sanzione (contrainte) ai voleri dell’individuo che istituisce il fatto sociale. Posso decidere di portare le scarpe appese al collo, ma la riprovazione collettiva, non il fatto in sé, mi scoraggerà dal farlo.
D’altra parte, una società si manifesta come un “tutto”: in ciò riposa l’olismo durkheimiano. Non è il risultato della somma di individui o di gruppi: è un luogo in cui le norme sono funzione dell’interdipendenza delle sue componenti (olismo). È vero che la società è composta da individui: ma è anche vero che essa è qualcosa di più che la semplice somma di individui, alla luce del fatto che “aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali danno vita ad un essere (psichico, se vogliamo) che però costituisce un’individualità psichica di nuovo genere”. Detto altrimenti, nel caso della società, “è la forma del tutto che determina quella delle parti” (in opposizione a Durkheim, Max Weber muoverà dai singoli individui per spiegare la società). Per questo motivo, bisogna guardarsi dallo spiegare i fatti sociali come frutto dei fatti psichici degli individui: piuttosto, nella maggior parte dei casi, i fatti psichici sono il “prolungamento” (così dice Durkheim) di fatti sociali all’interno della coscienza. Ciò appare evidente se, come suggerisce Durkheim, prestiamo attenzione al caso del matrimonio: è l’organizzazione sociale del matrimonio che fa nascere i sentimenti parentali, e non viceversa. Si può così valutare la normalità o il carattere patologico di un fatto sociale soltanto riportandolo al proprio contesto, alla tipicità esibita dalla società osservata in un periodo dato della propria evoluzione strutturale. Di più: ogni società è un insieme di “fatti morali”, una combinazione sui generis di istituzioni. Con istituzione, Durkheim designa ogni forma organizzata - famiglia, istruzione, giustizia – tesa ad un fine sociale, una funzione, che il criterio d’utilità non definisce né spiega: in effetti, “l’organo è indipendente dalla funzione”, poiché “le cause che lo hanno posto in essere sono indipendenti dal fine a cui tende”. L’analisi di Durkheim implica che se l’intersezione dei gruppi, l’interdipendenza costante delle istituzioni determinano il sociale, tutto, in una società, non dipende dalla funzione. Così si trova in anticipo negato ogni valore esplicativo alle teorie funzionaliste del sociale nelle quali ogni item - idea, abitudine, oggetto, ecc. - è ritenuto, in quanto esistente, atto ad adempiere un fine necessario che si raggiungerebbe in un’unità fuori dalla storia: la soddisfazione di bisogni psicobiologici fondamentali. Al contrario, per Durkheim, se l’essere umano ha una capacità indefinita di desiderio, ed è ciò che segnalano i periodi d’anomia, l’espressione dei bisogni è sempre socialmente condizionata. Essi insomma non esistono fuori dalla società e solo in essa si soddisfano.
Durkheim farà delle istituzioni il suo oggetto primario di studio perché sono particolarmente obiettivabili, distinguono le società umane delle società animali e attestano l’unità del tipo umano. La sociologia comprenderà la morfologia sociale, che studia il substrato della vita collettiva (forma e ripartizione del gruppo sul territorio, dell’ habitat, delle comunicazioni), e la fisiologia sociale, che studia la genesi ed il funzionamento delle istituzioni, le “correnti sociali libere”, fonti delle trasformazioni o della creazione delle istituzioni.
Obiettività dei fatti sociali
Proporre “di considerare i fatti sociali come delle cose”, come fa Durkheim, non significa assimilarli a fatti materiali o classificarli in questa o quella categoria del reale, ma invitare a osservarli proprio come delle cose, le quali si oppongono all’idea come ciò che si scorge dall’esterno rispetto a ciò che si coglie dall’interno. Ora la “familiarità” che ciascuno intrattiene con la sua società grazie a formulazioni “spontanee” (è spontaneo portare le scarpe ai piedi), le prenozioni, diffuse in ogni società e più o meno razionalizzate, sono, per Durkheim, “il primo ed il più grande ostacolo” alla comprensione scientifica dei fenomeni sociali, poiché sono essi stessi un fenomeno sociale. Inoltre, rappresentazioni e pratiche collettive soverchiano l’individuo con il loro numero, non sono perché gli preesistono e gli sono trasmessi attraverso l’educazione, ma anche perché esercitano su di lui un ascendente, un’ autorità morale. Poiché l'introspezione conduce a razionalizzare degli “a priori”, occorre abbordare i fenomeni sociali “staccati dai soggetti coscienti che se li rappresentano, “isolarli dalle manifestazioni individuali», cioè «studiare il fatto sociale con il fatto sociale”. Nella Divisione del lavoro sociale, Durkheim individuerà le forme della solidarietà sociale attribuendo loro quelle del diritto, individuabili ed analizzabili per mezzo delle sanzioni prevalenti. La generalità o la frequenza di un ordine di fenomeni, la costrizione/sanzione (contrainte) che esercitano possono fungere da indicatori ma non ne danno né la definizione né la spiegazione. Un fatto è generale e costrittivo soltanto perché sociale, e non l’inverso. Per “costrizione” (contrainte), Durkheim rinvia al carattere “spontaneo” della pressione sociale.
Il suicidio (1897)
Oggettivando le “tendenze collettive” al suicidio, Durkheim costituisce in fatto sociale un fenomeno propriamente individuale: il tasso sociale di suicidio (numero di suicidi rapportato al totale di una popolazione in un periodo dato) ci dice molto di più dello “stato morale” di una società, per la sua costanza e specificità, che il tasso di mortalità generale, a un di presso identico in società di uguale livello di civilizzazione. Inizialmente, Durkheim elimina dall’esame di questo fatto sociale i fattori extrasociali: le psicopatie, la razza, le eredità psicobiologiche, i fattori geografici e climatici, l’imitazione. Successivamente, propone un’analisi a più livelli proponendo di studiare le “variazioni concomitanti” di “serie ordinate” di fenomeni, e mostrare che le cifre del suicidio dipendono dagli ambienti sociali (familiari, confessionali, politici, professionali). Così, per determinare se la crescita del tasso di suicidio derivi o no da quella del grado d’istruzione, egli introduce una variabile intermedia, la religione (non il dogma religioso ma la religione in quanto fatto sociale, orditrice di legami comunitari): l’indebolimento delle comunità confessionali “rafforza ad un tempo il bisogno di sapere e l’inclinazione al suicidio”, poiché l’individuo separato dalla comunità esperisce tutta l’ebbrezza individuale della scoperta del pensiero, ma al contempo, la perdita del quadro di riferimento normativo (anomia) e il conforto della comunità, rende oltremodo rischiosa la sua posizione. Durkheim determina tre tipi principali di suicidio. Due riguardano le società moderne: il suicidio anomico, fortemente connesso alle crisi da esse attraversate, quando si crea cioè disordine (anomia); e a tal proposito Durkheim argomenterà che il numero di suicidi aumenta sia in periodi di recessione economica sia di impetuoso sviluppo; il suicidio egoista, ancora tipico delle società moderne e dovuto all’allentarsi dei legami comunitari. Il suicidio altruistico tipico delle società a solidarietà meccanica, in cui l’individuo si sacrifica per rinsaldare il gruppo di appartenenza (oggi noi potremmo esplicitamente ascrivere in questa categoria il suicidio dei kamikaze).
Le forme elementari della vita religiosa (1912)
Durkheim vede nella religione il fenomeno sociale fondamentale dal quale derivano tutti gli altri. Ne tenta una definizione oggettiva ossia non relativa al contenuto dei dogmi:
“È il sistema condiviso di credenze e di pratiche (riti) relative a cose sacre, ossia separate, interdette”.
La dialettica del sacro e del profano costituisce il centro del fatto sociale (nella religione, è la società che adora se stessa) ed è speculare a quella intercorrente tra individuo e società. Tale dialettica producendo i principi di classificazione dell’universo, le categorie di tempo, di spazio, di forza, ecc., è all’origine dell’esigenza di logica, di razionalità e di universalità della scienza moderna. Durkheim prosegue nelle Forme elementari della vita religiosa il progetto (avanzato ne La divisione del lavoro sociale) di fare la storia delle forme sociali della presa di coscienza del reale, di tentare una teoria generale dell’attività simbolica: l’elaborazione di una sociologia della conoscenza, alla quale partecipò Marcel Mauss. Così, lingua, segni, simboli, per una parte fatti sociali, acquistano significato soltanto in funzione di un contesto sociale e storico dato e della loro posizione in un insieme di relazioni.