ENESIDEMO DI CNOSSO
A cura di Marco Machiorletti
Enesidemo (I sec. a.C.) nacque a Cnosso, nell’isola di Creta.
Lo scopo generale della sua opera è quello di stabilire che nulla può essere compreso in modo stabile né mediante la sensazione, né mediante il pensiero, e per questo motivo, né i Pirroniani né gli altri filosofi conoscono la verità delle cose.
Enesidemo taccia di Accademici di dogmatismo, evidenziando come essi pongono certe cose senza incertezze e ne rigettano altre senza alcuna esitazione; i seguaci di Pirrone di Elide, diversamente, fanno professione di dubbio e sono liberi da ogni dogma: nessuno di loro in assoluto ha affermato che tutte le cose sono incomprensibili né che sono comprensibili, ma che esse non sono comprensibili più di quanto non siano incomprensibili. Il Pirroniano dice che le cose non sono per un dato uomo comprensibili o incomprensibili più di quanto non lo siano per un altro uomo.
Per un Pirroniano una cosa non è né vera, né falsa, né probabile, né improbabile, né essere, né non-essere, bensì non è vera più di quanto non sia falsa, non è probabile più di quanto non sia improbabile, non è essere più di quanto sia non-essere.
L’affermazione che ciascuna cosa «non è più questo che quello» implicava la negazione della validità dei princìpi di identità, di non-contraddizione e del terzo escluso. Di conseguenza, implicava la negazione della sostanza e della stabilità nell’essere delle cose, e, dunque, implicava la loro totale indeterminazione, o, per dirlo con le parole di Enesidemo, il loro «disordine» e la loro «confusione».
Questa è appunto la condizione delle cose, che cercò di far emergere mostrando, in primo luogo, come all’apparente forza persuasiva delle cose fosse sempre possibile contrapporre considerazioni dotate di uguale grado di credibilità, che annullavano (o quantomeno controbilanciavano) quell’apparente forza persuasiva.
A questo scopo compose la «tavola dei tropi», laddove per «tropi» si intendono le ragioni, le vie che inesorabilmente conducono alla constatazione dell’«indeterminatezza delle cose», e dunque alla sospensione del giudizio.
Il primo «tropo» rileva le infinite differenze sussistenti fra i vari esseri viventi a tutti i livelli, e, in particolare, le differenze sussistenti nelle costituzioni dei sensi, che, ovviamente, comportano sensazioni fra loro non solo diverse ma financo contrastanti.
Né si può dire che l’uomo goda,
rispetto agli altri animali, di una situazione di privilegio; anzi, per alcuni
sensi, è vero esattamente il contrario. Pensiamo per esempio all’olfatto del
cane.
Questo contrasto sussistente fra le differenti sensazioni dei diversi esseri
viventi impone, ad avviso di Enesidemo, la sospensione
del giudizio.
Il secondo «tropo» passa dalla considerazione degli esseri viventi in generale agli uomini in particolare e alle innumerevoli differenze che si riscontrano appunto fra gli uomini. Posto anche (ma non concesso) che le percezioni e i sentimenti degli uomini fossero superiori a quelli degli animali, la situazione non cambierebbe. Infatti gli uomini differiscono fra loro notevolmente, e queste diversità sono tali da comportare nei diversi uomini diverse percezioni, diversi pensieri, diversi sentimenti e anche diversi atteggiamenti pratici (e diversi al punto da essere fra loro persino contraddittori).
Anche per queste considerazioni, dunque, s’impone la sospensione del giudizio.
Ma anche
restringendo la nostra considerazione a un solo uomo – quindi senza
contrapporre uomo a uomo, e senza fare leva sulle diversità che contraddistinguono
l’uno rispetto all’altro – si perviene alle medesime conclusioni e pertanto,
ancora una volta, si impone la necessità di sospendere il giudizio.
Infatti la struttura dei vari sensi è diversa, e diverse, quindi, sono le
relative sensazioni (terzo «tropo»).
Diogene Laerzio così sintetizza il terzo tropo:
“Il terzo tropo è determinato dalla differenza dei pori che trasmettono le sensazioni. Così la mela dà l’impressione di essere pallida alla vista, dolce al gusto, fragrante all’odorato. E la stessa figura si vede ora in un modo, ora in un altro, secondo le differenze degli specchi. Ne consegue che ciò che appare non è di una data natura piuttosto che di una data altra” (Diogene Laerzio, IX, 81)
Inoltre, nello stesso individuo, non
solo sono diverse le strutture dei sensi, ma sono diverse e mutevoli anche le
disposizioni, gli stati d’animo, che condizionano, di conseguenza, le
rappresentazioni.
Tutti constatiamo che le nostre rappresentazioni differiscono, a seconda che
siamo sani o malati, giovani o vecchi, in senno o fuori senno, felici o
infelici, e così di seguito, sicché, anche per questa via, si impone la
sospensione del giudizio (quarto «tropo»).
Il quinto «tropo» rileva la differenza e la contraddittorietà delle opinioni degli uomini intorno ai valori morali (buono e cattivo, bello e brutto, vero e falso), sugli Dei e sulla generazione e corruzione del mondo, a seconda che essi abbiano avuto educazione diversa e leggi diverse, oppure a seconda che appartengano a popoli e a luoghi diversi, o anche a sette filosofiche diverse).
Il sesto «tropo» rileva come nulla appaia in sé e per sé nella sua purezza, ma solo e sempre in vario modo mescolato ad altro e come la nostra rappresentazione ne risulti, di conseguenza, sempre condizionata, cosicché è necessario, anche per questa considerazione, sospendere il giudizio.
Filone di Alessandria scrive:
“Se uno si
allontana alquanto dalle cose e cerca di vederle più chiaramente, saprà questo,
che nessuna cosa ci si presenta nella sua semplice natura, ma ciascuna mista e
mescolata con altre in maniere molteplici. Per esempio, i colori come li
percepiamo? Non, forse, in compagnia dell’aria e della luce, elementi esterni a
noi, e degli umori ond’è circondato lo stesso organo visivo? E il dolce e
l’amaro in qual modo viene giudicato? Forse separatamente dagli umori che sono
nella stessa nostra bocca, conforme a natura o contro? Non è così? E gli odori
provenienti dai corpi arsi, ci rivelano, forse, le nature semplici e schiette
dei corpi stessi? O non, piuttosto, mescolate all’aria e al fuoco che i nostri
corpi distrugge, e alla nostra potenza olfattiva?” (Filone di Alessandria, De
ebr., 189 sg.)
Il settimo «tropo» rileva come le distanze, le diverse posizioni e i luoghi condizionino le nostre rappresentazioni delle cose, al punto che, ancora una volta, la sospensione del giudizio appare necessaria.
Per esempio, la limatura d’argento appare nera se considerata nei singoli granuli, mentre considerata in massa appare bianca. Inoltre, i granelli di sabbia singolarmente appaiono ruvidi, in massa danno l’impressione di morbidezza.
Analogamente, variano gli effetti che producono le cose a seconda della loro quantità.
In modo particolare, poi, varia l’effetto dei composti col variare del rapporto quantitativo dei componenti.
Sesto Empirico conclude come segue:
“La
mescolanza diligente ed esatta di farmaci semplici forma un composto utile; e se
talora si trascura un’inclinazione anche minima, della bilancia, si ottiene un
composto che, non solo non è utile, ma è, spesso, dannosissimo e funesto. Così
il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della realtà
esteriore” (Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 133 sg.)
“Inoltre nemmeno questo s’ignora, che di solito nulla si conosce per se stesso, ma ogni cosa si giudica in confronto al suo contrario, come il piccolo in confronto al grande, l’asciutto in confronto all’umido, il caldo in confronto al freddo, il pesante in confronto al leggero, il nero in confronto al bianco, il debole in confronto al forte, il poco in confronto al molto. Altrettanto accade per tutto quanto si riferisce alla virtù o al vizio. L’utile si discerne per mezzo del dannoso, il bello opponendolo al turpe, il giusto e, comunemente, il bene, confrontandolo con l’ingiusto e col male, e così dicasi di tutte le altre cose, quante, osservando, si trova che ricevono un giudizio del medesimo tipo. E invero, ciascuna cosa essendo per se stessa incomprensibile, pare che la si conosca dal confronto con un’altra. Ora ciò che non è in grado di rendere testimonianza a se stesso, ma ha bisogno dell’altrui difesa, è mal sicuro, perché gli si possa prestar fede. Talché, anche per questa cosa vengono confutati coloro che intorno a qualsiasi cosa affermano o negano alla leggera” (Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 141 sg.)
Il decimo
«tropo» rivela come la continuità, la frequenza o la rarità con cui i
fenomeni ci appaiono condizionino strutturalmente il nostro giudizio.
Come esemplifica Sesto Empirico:
“Il sole è senza dubbio
più atto a colpire che una cometa. Ma poiché il sole lo vediamo continuamente,
e la cometa, invece, di rado, alla vista di questo astro rimaniamo colpiti”
(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 141 sg.)
Anche per questa ragione si impone la sospensione del giudizio.
La tavola dei «tropi» presenta, per così dire, la mappa completa delle difficoltà che impediscono di attribuire una validità alle nostre rappresentazioni e, in particolar modo, alle rappresentazioni sensibili.
Ma la compilazione di questa tavola non rappresenta che un primo contributo al rilancio del Pirronismo da parte di Enesidemo.
Il nostro filosofo, infatti, cercò di ricostruire altresì la mappa delle difficoltà che impediscono l’edificazione di una scienza, e tentò di smantellare in modo sistematico le condizioni e i fondamenti che la scienza postula.
Nel fare questo egli dovette avvalersi, in certa misura, di alcune delle argomentazioni che già erano state fatte valere dallo Scetticismo accademico.
Enesidemo procedette allo
smantellamento dei tre capisaldi della scienza, ovvero l’esistenza della
verità, l’esistenza delle cause e la possibilità di un’inferenza metempirica,
ossia la possibilità di intendere le cose che si vedono come «segni» (effetti)
di cose che non si vedono, e che si debbono postulare appunto come «cause» per
spiegare le cose che si vedono.
Intorno alla verità Sesto Empirico ci riporta l’argomentazione del nostro filosofo:
“Se […] c’è qualcosa di vero, questo o è sensibile o è intelligibile o è sia-sensibile-sia-intelligibile. Ma esso non è né sensibile né intelligibile e neppure entrambe queste cose e dunque non c’è un qualcosa di vero” (Sesto Empirico, Contro i matem., VIII, 40)
Che il vero non possa essere qualcosa
di «sensibile» Enesidemo lo argomentava – tra l’altro – rilevando come la
sensazione sia «arazionale» e come non sia possibile che la conoscenza avvenga
in modo «arazionale».
Che il vero non possa essere neppure qualcosa di «intelligibile» il nostro
filosofo lo desumeva dal fatto che l’intelligibile non è pensato comunemente da
tutti, e se, d’altra parte, esso viene pensato da alcuni soltanto, allora è
soggetto a controversie.
Infine, che il vero non possa essere qualcosa «sia-sensibile-sia-intelligibile» Enesidemo lo sosteneva rilevando come, in questo caso, le difficoltà precedentemente rilevate si assommino, in quanto oltre al contrasto sussistente fra le cose sensibili e a quello sussistente fra le cose intelligibili (gli oggetti del pensiero), si aggiunge anche il contrasto reciproco che sussiste fra le cose sensibili e quelle intelligibili.
Ancora più radicali erano i ragionamenti di Enesidemo intorno alla «causa», i quali miravano a dimostrare l’impensabilità dell’esistenza stessa di un rapporto causale, ossia di un legame causa-effetto.
Ad avviso del nostro filosofo, il rapporto causale non può aver luogo né fra corpo e corpo, né fra incorporeo e incorporeo, né, ulteriormente, fra corporeo e incorporeo, né viceversa.
E per colpire fino alle radici la mentalità «eziologica» dei Greci, egli elaborò una nuova tavola dei «tropi», ossia una nuova tavola dei modi paradigmatici secondo cui coloro che pongono le cause cadrebbero inevitabilmente in errore.
Questi nuovi «tropi» sarebbero, ad avviso del nostro filosofo, gli errori strutturali in cui è destinato a cadere ogni tentativo di costruire una eziologia.
Questi «tropi» - che Enesidemo ritenne essere otto di numero – sono i seguenti:
1) il primo «tropo» consiste nel presumere, indebitamente, di raggiungere qualcosa di non visibile e di non evidente (la causa, appunto) senza che sia attestato da ciò che è visibile ed evidente.
2) Il secondo consiste nel pretendere di spiegare le cause di ciò che è oggetto di indagine limitandosi ad indicarne una sola, mentre sarebbe possibile indicarne molteplici.
3) Il terzo consiste nel pretendere di potere addurre cause che non hanno un ordine per spiegare ciò che, invece, si manifesta con un ordine (come fanno ad esempio gli Epicurei, che pretendono di addurre gli atomi disordinati per spiegare il mondo che è invece ordinato).
4) Il quarto consiste nel pretendere che le cose che non sono visibili si comportino come quelle visibili, mentre potrebbero benissimo comportarsi in maniera differente e particolare.
5) Il quinto consiste nella pretesa dei filosofi di stabilire le cause sulla base delle proprie ipotesi intorno agli elementi primi (ipotesi che variano a seconda delle varie sette filosofiche) e non sulla base di metodi e nozioni comunemente ammessi.
6) Il sesto consiste nel pretendere di accogliere come causa solo ciò che si accorda con le proprie ipotesi e di respingere ciò che invece non si accorda, anche se fornito di uguale forza di persuasione.
7) Il settimo consiste nell’accogliere cause in contrasto con i fenomeni, o, anche, in contrasto con le proprie ipotesi.
8) L’ottavo consiste nella pretesa di poter spiegare cose che appaiono in modo incerto con cause che sono parimenti incerte.
Non sarebbe difficile mostrare come molte delle spiegazioni causali dei «dogmatici» - specie quelle degli Epicurei e degli Stoici - incorrano in uno o più di questi errori.
Va peraltro subito rilevato come Enesidemo, a ben vedere, nel formulare queste critiche e nel redigere questa tavola risulti profondamente permeato proprio di quella «mentalità eziologica» che vorrebbe distruggere. Egli, infatti, a ben vedere, procede non ad altro che a una puntigliosa determinazione delle cause per cui non sarebbe possibile far ricerca delle cause.
Egli vorrebbe, insomma, scoprire le cause per cui non è possibile scoprire le cause.
Con la tavola dei «tropi», che denuncia gli errori in cui cade la «mentalità eziologica», ovvero la pretesa di trovare le cause dei fenomeni, si passa al «problema dell’inferenza», o, per dirla con il linguaggio antico, al problema dei «segni», al quale Enesidemo dedicò un’analisi specifica.
Un principio che riassume la profonda convinzione propria della filosofia e della scienza greca è quello per cui ciò che appare è uno spiraglio aperto sull’invisibile.
Secondo questo principio è possibile, partendo da ciò che si manifesta ai sensi, risalire a ciò che non cade sotto i sensi, ossia «inferire», partendo dal fenomeno, la causa meta-fenomenica.
Il fenomeno diviene così il «segno», ossia l’«indizio» di qualcos’altro (che non cade sotto i sensi), vale a dire della «causa non fenomenica». E’ proprio questo principio che Enesidemo intese contestare in modo radicale. Nel quarto libro dei Dircorsi pirroniani egli scrisse che le cose visibili che noi chiamiamo segni delle cose non visibili, non lo sono affatto e che coloro che credono questo sono indotti in inganno da una vana passione.
E aggiunse, come ci riporta Sesto Empirico:
“Se le cose apparenti appaiono allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili, e se i segni sono apparenti, i segni appaiono allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili. Ma i segni, in realtà, non appaiono affatto allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili; le cose apparenti, invece, appaiono allo steso modo a tutti quelli che si trovino in condizioni simili; dunque i segni non sono cose apparenti” (Sesto Empirico, Contro i matem., VII, 215)
Per chiarire il ragionamento di Enesidemo, Sesto osservava – tra l’altro – che gli stessi fenomeni patologici che si manifestano in un malato possono apparire, per esempio a tre medici che lo visitano e che si trovano dunque in condizioni simili, come «segni» dovuti a «cause diverse».
Il che significa che le cose che appaiono possono essere intese come «segni» solo arbitrariamente, e dunque, indebitamente.